*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 74186 *** A. G. CAGNA RACCONTI UMORISTICI UN SOLDO UN’AVVENTURA GALANTE UNA CROCE MERITATA LEI VOI E TU (Saggio di Dialogo) Vol. II. MILANO 1873 PRESSO =Carlo Barbini= EDITORE Via Chiaravalle N. 9 Sotto la protezione della legge 25 giugno 1865 N. 2337, essendosi adempito a quanto essa prescrive. Tip. Ditta Wilmant. UNA CROCE MERITATA STORIA DI TUTTI I GIORNI. SPROLOQUIO _Fu detto l’istinto essere la legge dei bruti. — Per quanto riserbata sia questa sentenza, e favorevole agli uomini, non cessa però di essere più un complimento che una definizione._ _L’istinto, checchè se ne dica è una legge universale. È un torto marcio che si fa alle bestie chiamando_ istinto _le loro naturali tendenze, mentre per l’uomo si distinguono col nome di_ passioni _e_ manìe. _Tutto è istinto nell’animale in genere; tutte le azioni, tutti i perturbamenti entrano nel dominio di questo autocrate che guida le nostre aspirazioni._ _L’istinto spinge l’uomo alla meta, con tanto ardore quanto ne è più difficile l’impresa, e la storia di Pomponio che prendo a narrare, è un esempio che parla molto in favore di quanto sopra._ Manifestazioni d’un genio! Pomponio sin dalla prima giovinezza tradiva le sue ambiziose tendenze. I suoi genitori erano abbastanza agiati da poter soddisfare a tutti i capricci del ragazzo, il quale prendeva gran gusto nell’appendersi medaglie sul petto, e decorarsi come un generale. A quindici anni questa sua smania si fece tanto potente da creargli un bisogno, quello d’avere una medaglia d’oro per fregiarsene arbitrariamente. I genitori invece d’allarmarsi per questa tendenza troppo spiccata, se ne compiacquero invece, parendo ad essi che un giorno o l’altro per la smania di distinguersi, il figlio si azzardasse ad imprese non comuni. L’idea era buona, ma non si rimarcò che a Pomponio bastava avere una medaglia senza crucciarsi tanto sui mezzi di procurarsela. A venti anni l’istinto ambizioso di Pomponio prese un notevole sviluppo, e tale da non bastargli più il facile acquisto di una medaglia. Ormai egli aspirava a qualche cosa di più, e si diede con tutta lena alla caccia di un titolo. Entrò all’università per addottorarsi in leggi, ma dopo sciupato qualche anno, si accorse di non avere gran vocazione per la magistratura. E sì, che, per bacco, a giudicare dal numero stragrande dei laureati in leggi, non mi sembra tanto straordinario il riuscirvi. La è tanto comoda cotesta strada che financo i ricchi la battono, tanto per poter col titolo di avvocato far velo ai loro placidi ozii. Eppure Pomponio non trovò il fatto suo, e rinunziò alle baraonde universitarie. Passò un anno meditando sulla carriera che dovesse sciegliere, ma una sera dopo di aver assistito in teatro al trionfo di una commedia nuova, si accorse di avere una pronunciata tendenza per la drammatica. Ruminò per qualche giorno su cotesta manifestazione spontanea del suo genio, e fattosi convinto della realtà, si ritirò nelle sue camere per meditare nel silenzio la scelta del soggetto di una produzione. Ma sia che il suo talento mal potesse informarsi alle angustie della scena, o che il suo orgoglio di scrittore lo rendesse incontentabile, dopo quindici giorni non aveva ancor trovato il filo d’un soggetto qualunque. Si lanciò nel mondo per studiare qualche argomento della vita sociale; frequentò le conversazioni, i balli, i teatri, percorse alberghi, taverne e bettole, ma con poco frutto, e dopo qualche mese non aveva ancora trovato il fatto suo. — Una sera, passando per una via un po’ remota, in cerca d’inspirazioni, gli ferì l’orecchio un rumore confuso di voci e suoni indistinti, si fermò di botto, e comprese che poco lungi all’ultimo piano di una casa si ballava. La necessità dà coraggio. Entrò nel portone, vide lumi sulla scala, e salì animoso guidato dal fracasso che ingrossava man mano. — Trovò gente su l’uscio, e chiese di che si trattasse. — Prometto mia figlia, rispose un vecchiotto dalla faccia allegra. — Ah! una festa di nozze, credeva... cioè... tante grazie; e s’incamminava via. — Venga avanti signore, si accomodi, venga a ballare, siam gente alla buona ma... — Non conosco alcuno, mormorò Pomponio. — E che importa? fra galantuomini non si fa complimenti, venga con me. Sì dicendo il vecchio prese Pomponio a braccetto, e lo introdusse in una stanza attigua a quella in cui si ballava. C’era calca di gente, tutti parenti ed amici degli sposi. L’allegria non mancava fra quella gente alla buona, si sentiva un chiaccherio assordante. Il vino correva per le tavole, e buona parte dei convitati erano già brilli. L’orchestra era composta di un trombone, un flauto e due violini. Anche i suonatori parevano ubriachi, strepitavano coi loro strumenti in un modo orribile. Frattanto la folla si accalcava urtandosi, e nel bel mezzo della stanza, fra un crocchio di danzatori furibondi che ballavano come dannati, c’era la sposa, una ragazzona solida con spalle erculee. Si ballava quella ridda in cui tutti si prendono per mano formando un cerchio, entro cui si alternano a vicenda coppie danzanti con lazzi più o meno leciti. Pomponio passando presso quel cerchio turbinoso, vi fu travolto dentro, ed abbenchè di mala voglia si pose esso pure a dimenar le gambe, tanto per secondare gli sbalzi dei due che lo tenevano per mano. Il giochetto durava già da una mezz’ora, senza che alcuno pensasse a riposarsi. I suonatori tiravano dritto che l’era un piacere, e la ridda teneva saldo, animata da urli e sghignazzate. Pomponio era mezzo morto, le chiome scomposte gli cadevano sul viso madido di sudore, pur tuttavia, timido com’era non osava svincolarsi dalle strette dei danzatori. Tratto tratto spiccava sbalzi che erano più tentativi che successi, giacchè le sue gambe si ribellavano a quella fatica inusitata. Oh! quanto costa studiare il mondo, pensava fra sè sospirando, e frattanto volgeva gli occhi supplichevoli a quell’inesorabile trombone che continuava intrepido, con l’aria di mai più finire. Ad un tratto si udì un grido assordante: evviva la sposa! Questa difatti compariva allora sul limitare della stanza ed in men che dicesi fu anch’essa travolta nel cerchio dei danzatori. Tutti se la baloccavano a vicenda, chi le dava un urtone chi se la premeva al seno in modo da farla schiattare; ma per fortuna la sposa era una tarchiatella di tempra ferrea che resisteva a tutto. Anzi pareva che la vertigine del ballo le svilupasse la forza musculare. Urlava anch’essa e saltellava come un capretto, e se non si trattasse di una donna, direi che la pareva brilla. Pomponio intanto ballava sempre ed era acconciato in un modo orribile, quando per soprasello gli capitò di esser tratto in lizza dalla sposa che gli aveva buttato le braccia al collo. Si rassegnò al destino, lanciò uno sguardo disperato al trombone, e si abbandonò nelle braccia di quella nerboruta ragazza, la quale abbenchè assai di lui più piccola, lo baloccava come un ninnolo. La sposina lo faceva saltare in un modo orribile, ora gli balzava al collo e glielo scrollava da scavezzarlo, ora si aggrappava alle falde della sua marsina, cagionandogli lacerazioni. Pomponio trafelante, spossato, metteva fuori un metro di lingua, e schizzava gli occhi dall’orbite. Inconscio di quel che si facesse, e squilibrato dai mulinelli che gl’imponeva la ballerina, si lasciò cadere quasi morto nelle braccia di lei. Ma ad un tratto si rivenne dal suo svenimento, mercè un potentissimo calcio amministratogli per didietro da un fratello della sposa. Per un equivoco, si era creduto che Pomponio avesse baciato la ragazza. Egli si volse come per andarsene via da quel vortice. Inutile tentativo, tutti gli furono addosso gridando _dalli a questo aristocratico_. Fu per un miracolo che il padre della sposa riuscì a trarlo di là e rimessogli in testa il cappello tutto sdruscito e pesto, lo accompagnò sulla porta augurandogli la _felice notte_. Poverino, era tutto a sbrendoli. Eureka! La scrivo di cuore questa parola che riassume la gioia di uno scienziato al dileguarsi della nebbia che gli nascondeva un secreto. — Pomponio, come Galileo, come Archimede, e tanti altri, ebbe finalmente il suo buon momento. Dopo la salva di percosse ricevute al ballo della sposa, il povero giovane fu per alcuni giorni obbligato al letto per calmare le doglie, e guarir le lividure. Eppure, malgrado tutto, il povero Pomponio dal suo letto di dolore non pensava che al soggetto della commedia, e cercava nella sua mente qualche episodio della vita per trarne argomento. Frattanto dopo pochi giorni di riposo fu in grado d’alzarsi e passeggiare per la camera; consultò parecchi libri di novelle, riepilogò tutti i romanzi che aveva letto, ma nulla valse allo scopo. Un mattino stanco di starsene in casa si decise di uscirne per far una passeggiatina. Discese le scale, e mentre stava per fare il primo passo nella strada, il cane del portinaio gli fu addosso saltellando giocondamente per esprimergli la sua allegrezza. Pomponio a quella vista mandò un grido di gioia, abbracciò il cane, baciollo teneramente poi risalì di volo le scale, entrò nella sua camera, aperse un cassetto, e trattone un grosso scartafaccio di carta bianca, vi scrisse in cima a caratteri grossi: L’AMOR DELLE BESTIE DRAMMA Il soggetto era trovato! La gestazione d’un dramma è sempre penosa, nondimeno Pomponio si adoprò con tanto ardore che in un mese il lavoro era terminato. — Parrà straordinario a taluni, ma la è così: un mese fu più che a sufficienza pel neo-drammaturgo. Lopez-Vega scriveva una commedia in ventiquattr’ore, e Pomponio che aveva finalmente trovato il filo, potè in breve scrivere sul suo lavoro la parola: _Fine_. Osanna, il teatro italiano aveva un lavoro di più da aggiungere alla già splendida corona. Veramente il titolo pare che presti poco soggetto al dramma di Pomponio; e difatti si trattava di un solo episodio tirato e trascinato per cinque atti, ma signori miei, la semplicità è una gran cosa. Dio fece il mondo con niente, dunque per poco che s’abbia si può fare un dramma. Il lavoro era bello e pronto, vi mancava solamente una compagnia per recitarlo e Pomponio nella sua ingenuità credette cosa facile il trovare un capocomico disposto in suo favore. In paese c’erano due compagnie di commedianti, ed un bel mattino il nostro giovane autore si prese sotto il braccio il suo dramma, ed andò difilato a suonare il campanello in casa di uno dei direttori. Una donna scarmigliata e brodolosa venne all’uscio chiedendo ruvidamente! — Chi cercate? — Scusi, signora, mormorò Pomponio, abita il signor Capocomico Rinaldo? — Sì. — Ho bisogno di parlargli. — Ripassi più tardi, non è ancora alzato, rispose la donna disponendosi a chiudere. — Perdono... madamigella, soggiunse tosto Pomponio, se anche fosse in letto non fa nulla, due sole parole giacchè ho molta premura. — Allora si degni di aspettare un momento. La porta fu rinchiusa, e Pomponio se ne rimase sul pianerottolo, non troppo edificato dell’accoglienza ricevuta. Dopo dieci minuti d’aspetto, la porta venne riaperta, e la stessa donna, collo stesso tono gli disse: — Venga avanti. La franchezza di Pomponio era già di molto scemata, e sentivasi in cuore un certo turbamento che lo sconcertava. Attraversò una stanzuccia tutta in disordine, entrò in quella da letto, e fermandosi sulla soglia col cappello in mano, si rivolse al commediante che stava ancora sotto le coltri, compose la faccia ad un risolino molto imbarazzato e sclamò: — Scusi signor Capocomico se... — Niente, niente, rispose l’altro accennandogli di avanzarsi. Pomponio arrischiò due passi, indi riprese con voce tremante: — Mi perdoni la libertà, so che ella è tanto buono. — Al fatto, favorisca di sbrigarsi chè non ho tempo da perdere. — Eh capisco... studia sempre. — Già, ma si faccia più vicino; ho un maledetto raffreddore che mi fa sordo. Pomponio fece altri due passi, ma era tutto convulsione, quando fu proprio presso al letto riprese il filo. — Dunque, signor Arcibaldo. — Mi chiamo Rinaldo. — Ah! è vero... ecco dunque; io ho scritto un dramma. — Me ne rallegro. — Grazie... vorrei vederlo rappresentato, epperciò lo portai a lei. — Ih! Ih! sclamò Rinaldo tirandosi sugli occhi il berretto da notte: bisogna vederlo questo lavoro, si fa tanto presto a scrivere un dramma! Pomponio restò di stucco; il poverino aveva creduto che l’offerta di un dramma facesse impressione sull’animo di un Capocomico, invece toccava l’opposto. La poesia dell’arte che era già profondamente scossa per la vista di quel primo attore scamiciato e sporco, entrò allora nella fase del più atroce disinganno, il povero Pomponio se ne restò là impalato, confuso, facendo girare fra le mani il suo scartafaccio senza trovar parola di risposta. Infine, con un eroico sforzo disse: — Volesse avere almeno la compiacenza di leggere questo lavoro. — Va bene, mettetelo lì sul tavolo; se avrò tempo lo leggerò. Passate poi per sentire il mio parere. — Grazie. Quando verrò, domani? — Che diavolo dite, credete forse ch’io abbia nulla da fare? Venite fra una ventina di giorni. — Sta bene, mormorò Pomponio tirando un sospiro, poscia se ne andò. Il povero giovinotto aveva il cuore angosciato, ed era a poco per piangere. Egli non conosceva i commedianti che dal palco scenico, ed aveva quasi creduto che costoro vestissero in casa la porpora e la corona. La berretta del signor Rinaldo, ed il malarnese di quella donna, avevano soffocato col loro strano contrasto le ingenue credenze del giovane autore. Trascorsero finalmente quindici giorni che parvero secoli, ed al sedicesimo, Pomponio s’incamminò verso l’abituro del capocomico. Battevano le 11 quando egli tirava la corda del campanello. La solita donna colla solita toeletta venne ad aprirgli, e lo introdusse nella stanza del signor Rinaldo che terminava allora di vestirsi. — Buon giorno, signore. — Oh! sei tu! giovinotto, vieni, vieni innanzi; sei passato per quel tuo lavoro. — Proprio, rispose Pomponio un po’ mortificato per quel tuono confidenziale del comico. — Terminai ieri di leggerlo, abbiamo tanto da fare. Figurati tengo una cinquantina di commedie nuove sul mio tavolo, devo trovar tempo di leggerle tutte. — Ebbene, che le pare? — Senti amico, io sono schietto. Per un primo lavoro non c’è malaccio, ci sono delle cosettine discrete; ma tu sei all’oscuro dell’intrigo scenico, ti manca la conoscenza dell’effetto, eppoi è lungo, troppo lungo, troppe ripetizioni, e basterebbero due atti invece di cinque. Tuttavia ti ripeto che hai disposizione, ma bisogna fare e far molto. Pomponio che aveva il cuore pieno di speranze, fu a poco per cadere in deliquio, e se non l’avesse trattenuto l’amor proprio si sarebbe messo a piangere. Il signor Rinaldo intanto si annodava la cravatta, inconscio delle torture che infliggeva alla sua vittima, e non sentendo alcuna risposta, proseguì a trinciar precetti. — Bada a me, ragazzo, studia la scena, e ricordati che non basta scarabocchiare della carta per scrivere un dramma. Studiando di buona voglia per qualche anno, potrai far bene. Oh Dio! io non vorrei scoraggiarti, ma ti dico di aver pazienza; scrissi anch’io qualche lavoro e sebbene dell’arte, ho dovuto rassegnarmi camminando adagino, finchè son venuto quello che son venuto. Infine sai, noi abbiamo un po’ di _praticaccia_, abbiamo mano in pasta, insomma, oh Dio! io me ne intendo. Ti parlo da padre. — Dunque, sclamò Pomponio dovrò rifare il mio lavoro? — No no, il soggetto è puerile, sa del collegiale; bisogna farne tanti finchè si riesca... ed in così dire, gli consegnò lo scartafaccio, e lo accommiatò. Se Pomponio avesse avuto del coraggio, si sarebbe buttato giù dalle scale per rompersi il collo; ma non era del suo carattere una simile risoluzione. Prese il suo dramma sotto il braccio, e se ne andò a casa mortificato, avvilito come un cane vagante. Giunto nella sua camera gettò il dramma in un cantone, poi si mise a letto, perchè aveva la febbre! Poverino! egli credette sul serio alla cicalata del Capocomico, e non s’accorse che il suo dramma nonchè leggerlo, colui non aveva neanche slegato. Un simil genere di critica può parer strano a prima vista, ma per poco che si sappia delle consuetudini odierne, è facile comprendere che le son cose di tutti i giorni. Io ho più volte sentito dei giudizii così stracchi su certi lavori da individui che passano per gente seria, ed alla fine ho dovuto persuadermi che giudicavano a mosca cieca. C’è un mio amico, un bravo ragazzo che non ha altro difetto, tranne quello di essere avvocato, il quale si crede in obbligo di conoscer tutto, e se gli si domandasse se ha letto i romanzi di Adamo, egli ti spiffera lì su due piedi un giudizio con un coraggio da leone. Passata la crisi, Pomponio ricuperò un po’ di coraggio, e pensando che forse il signor Rinaldo era stato troppo severo, si gettò nel campo delle ricerche. Il suo dramma passò per mano di cento Capocomici sempre coll’istessa sorte, e quello sciagurato manoscritto viaggiò tutta l’Italia senza trovare un’anima caritatevole che l’accogliesse. Disperato allora il povero autore, ricorse alla più vile risorsa, a quella di pagare. I comici, sordi sempre alla voce dell’arte, hanno in cuore una corda sensibilissima che si scuote, agita e freme al suono del danaro. Pomponio, dunque mediante il pagamento anticipato di cento lire, trovò la compagnia per far recitare il suo parto. Passo di volo sulle prove che costarono parecchie cene all’autore, e mi limito a dire che un bel giorno comparve sulle cantonate della città nativa di Pomponio un gran manifesto che invitava il pubblico per la rappresentazione del Dramma di un _concittadino_, col titolo L’AMOR DELLE BESTIE. Nemo propheta in patria. Per tutta quella giornata il povero Pomponio ebbe la febbre dell’impazienza. Il momento decisivo non era lontano, e tutto lasciava sperare bene. Chi mi sa dire l’onda di speranza che cullava la fantasia del povero autore? egli era certo, certissimo dell’esito, e già sognava una pioggia di fiori sul suo capo, e quel che è più, quella benedetta croce tanto desiderata. Un’ora prima di cominciare, il teatro era zeppo di spettatori. La curiosità aveva attirato molti amici e conoscenti dell’autore, e l’avidità di sentire era tanta che non si volle aspettare più oltre, ed il pubblico proruppe in unanime applauso per invocare la sollecitudine. Si alzò finalmente il sipario fra un’esclamazione generale, e la prima parte del primo atto passò sotto silenzio. L’autore era convulso, febbricitante e trottolava dietro le quinte come uno spiritato. Il primo atto terminò con una grande risata del pubblico, e certo quell’ilarità non era troppo a proposito, giacchè il dramma accennava allora ad un assassinio. Una metà del secondo atto passò pure inosservata, ma poco dopo alcuni sbuffi d’impazienza che venivano dalla platea indicavano che il pubblico non s’interessava gran fatto. Però verso la fine dell’atto parve che risorgesse un fil di vita, giacchè s’udirono per la prima volta alcuni fischi che scoppiarono in vari punti dell’uditorio. La pazienza è virtù dei somari; vero è che bene spesso il pubblico non ischerza in fatto di tolleranza, ma quando per avventura la noia comincia ad assalirlo è impossibile evitare una burrasca. Domandatelo a Pomponio che fu costretto di svignarsela a metà del terzo atto, e buon per lui che se la cavò senza peggio. Difatti il pubblico dopo di aver sopportato mezza la produzione, non ebbe il coraggio di portar più a lungo la sua sofferenza, ed il fischio che proruppe ad un certo punto fu così spontaneo, unanime, ed arrabbiato, che si credette prudente calar la tela, e troncare la rappresentazione. Io non tenterò certo di salvare il povero Pomponio, me ne guardi il cielo! Il suo dramma non era cosa sopportabile, e ne fa fede lo stesso titolo, e l’origine della produzione. Mi prenderò ben guardia di raccontarvi l’argomento per non addossarmi le ire della gente. Basti sapere che il povero Pomponio invece di trionfo e croce, si ebbe un’apoteosi di fischiate da togliergli la malinconia di scrivere per il teatro. Non è dunque sì facile diventar cavaliere? A sentir taluni basta un raglio d’asino per procurarsi una croce. Alla malora dunque i maldicenti, poichè infine noi vediamo quanto malagevole sia guadagnarsi questa distinzione. Nossignori non basta esser ciuco per giungere a tanto, e se anche così fosse, che prova? La parte dell’asino è difficile a sostenersi; s’interroghi Lucio Apulejo e si vedrà che farla da somaro, è spesso più arduo che non si pensi. Nè va pure obliato l’asino di messer Domenico Guerrazzi, che se tutti i cavalieri avessero un briciolo appena del senno di quell’arguto somarello, l’umanità potrebbe andarne lieta. Per me lo confesso, quando leggo l’orazione funebre che il Casti fa recitare all’asino, penso che se tutti i discorsi di circostanza fossero come quello, sarebbe meno penosa la situazione degli ascoltatori. Insomma anche farla da asino non è agevol cosa, e trovo che si abusa troppo di questo epiteto applicandolo agli imbecilli. La catastrofe toccata a Pomponio fu tale, da levargli la mania del teatro, ma non valse a reprimere quella benedetta voglia di diventar cavaliere. La sola sua costanza si meritava la croce, ma sfortunatamente la fermezza di proposito non è più una virtù in questo secolo del progresso in cui tutto cammina fra le sfumature bizzare d’una varietà senza fine. Dopo alcuni giorni, smessa la vergogna, il povero drammaturgo si azzardò ad uscire, ma correva a testa bassa come se fosse passato sotto le forche caudine. La più gran bestialità al giorno d’oggi si è quella di ricredersi di un errore e confessarlo, oggimai ci vuol disinvoltura, e se tutti quelli che fecero fiasco curvassero le spalle sotto il peso della vergogna, il mondo andrebbe tutto a capo chino. Se lo potessi vorrei tessere tutta intera la storia dell’infaticabile ardore posto in opera da Pomponio per ottenere l’ambita croce; ma tralascio, perchè il lettore assiste pur troppo giornalmente alle fatiche d’Ercole, di tante nullità che si arrampicano in mille guise per poggiare in alto. Dirò solo che il nostro eroe nulla lasciò d’intentato, e che si fece perfino nominare capitano della guardia nazionale. Il fatto è che a ventotto anni Pomponio si chiamava semplicemente signor Pomponio. Il desiderio passò quasi allo stato di manìa, il poverino dimagrava a vista d’occhio ed una profonda malinconia lo assalì sì fortemente, che suo padre d’accordo col medico lo consigliò a viaggiare l’Italia per distrazione. Pomponio si arrese, ed un mattino partì per alla volta di Firenze, ove contava di fermarsi un mese, e poi recarsi a Napoli per passarvi l’inverno. La forza del Destino. Quando io penso ai casi fortuiti della vita, alle strane sconfigurazioni dell’azzardo, non so più negare l’influenza del destino. Si ha bel dire, tutto è caso, ma signori miei, chiamate caso la predestinazione e noi saremo d’accordo. Si vedono delle cose sorprendenti, accadono nella vita certe mistificazioni che sembrano il risultato d’una tendenza prestabilita. Per me il caso è più maraviglioso delle leggi che regolano il mondo anzi appunto perchè desso è l’antitesi della legge, la negazione dell’ordine naturale, io lo trovo prodigioso. Il caso che fece fare ad Apelle la spuma colla spugna, e che rivelò a Galileo la teoria dell’isocronismo del pendolo, ha qualche cosa di sì straordinario, che mi stordisce. — Ma torniamo a Pomponio. Le meraviglie artistiche di Firenze, il delizioso clima, ed il cielo sorridente valsero ben poco a lenire le sofferenze di quell’infelice che già da qualche giorno vagolava per quelle vie terribilmente annoiato. Aveva colà uno zio, ma tanta era la sua apatia che non si curò neanche di cercarlo. Verso il tramonto di una bella giornata, Pomponio passeggiava sbadatamente in Lungarno, quando girando gli occhi sui balconi di un elegante palazzina incontrò lo sguardo di una bella signora che stava godendosi lo spettacolo della passeggiata. — È superfluo estendersi in descrizioni, la signorina in discorso era di una rara bellezza ed aveva un paio d’occhi da ammaliare mezzo mondo. Mi affretto a dichiarare che Pomponio era un discreto giovinotto elegantemente vestito. — Arrogi quel suo pallore che lo rendeva molto interessante, talchè la signorina del balcone, arrestò per qualche tempo lo sguardo sopra di lui. Egli se ne accorse e fu assalito da tanta confusione, che arrossì fin nel bianco degli occhi, ed il suo cuore palpitò fortemente. Il nostro giovinotto, rapito, entusiasmato da quello sguardo di fuoco, stette a guardare la signora finchè la convenienza lo permetteva, indi, sebbene a malincuore proseguì la sua strada volgendosi di tratto in tratto all’indietro. Camminando in quella guisa colla testa quasi sempre rivolta, non s’avvide di un signore dal grosso ventre che veniva verso di lui con aria molto preoccupata. Entrambi si urtarono, e con tanta violenza che il cappello di Pomponio rotolò a molti passi lontano. — Perdono, mormorò egli correndo dietro al suo cilindro. — Diamine, badi ove manda le gambe! brontolò il grasso signore, ma appena il giovane rialzò la testa, il panciuto mandò una grande esclamazione. — Pomponio, tu qui? — Zio, siete voi! — Oh lascia che t’abbracci, e sì dicendo lo zio senza curarsi di essere sulla pubblica strada, saltò al collo del nipote, che rimase alquanto confuso per quella eccessiva tenerezza. — Come, birbo! tu sei a Firenze, ed io ne sapeva niente? — Oh Dio.... buono! — Perdonatemi zio, aveva perduto l’indirizzo. — E ci sei venuto senza accorgertene. — Come? — Io abito in quella palazzina. — Là dove c’è quella signora? — Precisamente, siamo vicini e buoni amici. — Ah zio, conducetemi in casa vostra. — Andiamo. E zio e nipote prendendosi a braccetto, rifecero la strada, ed entrarono nel portone non senza che però Pomponio lanciasse uno sguardo di soddisfazione alla bella signora, che era stata testimonio della scena. — Passo di volo su taluni incidenti di nessun rimarco. È facile d’altronde supporre l’argomento della conversazione fra zio e nipote. Pomponio dopo fatto l’elogio all’appartamento si avanzò timidamente sul balcone, e trovossi a pochi metri distante dalla signora che aveva tanto ammirato. Arrossì a quella vista, e lo zio che era uomo di mondo, non durò fatica a comprendere. — Bella signora, n’è vero? — Oh molto! rispose Pomponio. — Se ti fermi farai la sua conoscenza... è tanto amabile; in così dire lo zio fece un grand’inchino alla signora. Pomponio per secondarlo, si scopri il capo, ma lasciò cadere il cappello sulla strada. — Ohè! sclamò lo zio, mio caro, patisci forse di nervi? poco fa mancò poco che tu mi facessi stramazzare, ora butti il cappello giù dal verone. — Perdonate zio, la distrazione... La signora intanto erasi ritirata, forse per uno sfogo d’ilarità. Comunque fosse, è innegabile che Pomponio per un primo incontro aveva già guadagnato terreno. Se io volessi dir tutto per filo e per segno non la finirei più, ma non essendo di quei cotali che scrivono a un tanto per pagina, così evito amplificazioni inutili. A che scopo narrare tutte le vicende per le quali il povero Pomponio restò vittima inconsolabile di un amore ardentissimo? L’anima sua aveva finalmente trovato la gemella; non più solitudine, sospironi sparati al vento, non più malinconie, ma strette di mano espressive, sguardi di fuoco, urti di ginocchio, pestate di piedi... con quel che segue. Non occorre dirlo, l’oggetto di Pomponio era la signora del balcone, la vezzosa vedovella per la quale aveva fiaccato il ventre dello zio e buttato il cappello sulla strada. Si chiamava Allegra, aveva ventisette anni, una bella faccia, due grand’occhi bruni, una taglia provocante, un piedino d’angelo, una dote di cinquantamila lire, ed una gran voglia di rimaritarsi. Cospettone! con tanta roba in vetrina non mancano avventori; ed Allegra ne aveva molti, e fra questi un cugino alquanto attempato, ma personaggio importante influentissimo nei circoli diplomatici. A questo punto mi tocca far violenza alla mia verecondia per vincerla su certi scrupoli che mi inceppano la penna; già si sa che la coscienza non deve far pressione sull’animo dello scrittore, ma io poveraccio non ho ancora quel coraggio civile che è necessario in questi casi. Mi dà una gran pena questo dover ad ogni tratto sollevare il velo di qualche mistero, ma mio Dio! quelle buon’anime di lettori sono così curiosi! Tant’è, prima dello scrittore il mondo ha già menato la lingua; prima della maldicenza scritta c’è la maldicenza parlata che vola sommessamente di bocca in bocca, ed alla fine scoppia come il colpo di cannone di Don Basilio. Questa volta però non si tratta di calunnia, ma sibbene d’un fatto che se non si può giurare, si può per altro credere. La _buona gente_ di Firenze aveva già scagliato la pietra sulla vedovella che si lasciava troppo proteggere dall’influente cugino. Si diceva che costui dalla morte del marito aveva spiegato un’assiduità rimarchevole colla moglie. Furono veduti parecchie volte a spasso nei dintorni della città, fuori di porta, ed infine una cameriera di madama avrebbe confidato al suo damo che il cugino aveva libero accesso nella stanza da letto della signora. Ci credete voi signori? Questo scellerato mondo è tanto perfido, che davvero non so come regolarmi, quando lo sento mormorare. Notisi inoltre che se la vedova si lasciava consolare, era nel suo pieno diritto di farlo. Oh che! perchè il marito muore, dovrà la consorte vestire il lutto eterno? dovrà essa legare la sua gioventù e sacrificarla alle magre reminiscenze di un passato che è passato? No certo. Si piange per un anno, qualche visita al cimitero colla serva, e forti sospiramenti quando si parla del defunto; intanto la vedova ingrassa, e poco dopo passata la furia del dolore di circostanza, si riaprono le sale agli amici del defunto marito, i quali si credono tutti in diritto di dar dei consigli alla vedova. Oh! l’amicizia. Gli scettici la dicono una parola vana, ed è ancor poco se non la chiamano addirittura un’ipocrisia. Consolare gli afflitti è uno dei doveri del buon cristiano, ed in fede mia, non saprei trovare opera più generosa e piacevole di quella di asciugare le lagrime ad una giovane vedovella. Ma andate mo’ a far sfoggio di questi buoni sentimenti, vi rideranno sul muso. Mi ricordo d’aver visto i funerali di un povero marito accompagnato da un corteo di pietosi amici tutti in lagrime, e ricordo ancora che mi sentii profondamente commosso. Uno poi fra gli altri tanti che accompagnavano il feretro, aveva un’aria così addolorata che era una pietà il vederlo. Ebbene, mentre me ne stava pensoso ad osservare, sentii dietro di me il seguente dialogo: — Veh! il signor B.... che aria afflitta. — Ah! che ridicolo! — Che impostore. Figurati che colui fa una corte spietata alla vedova; è l’ombra del suo corpo, e giurerei che presto farà le veci del defunto. È una birbonata, non è vero? — eppure se io non fossi più che ottimista, ora, dopo passato qualche tempo, sarei tentato di credere che quel briccone avesse ragione. La signora Allegra, dunque versò le sue lagrime d’obbligo sulla memoria del marito, gli pose in Camposanto una lapide col solito epitaffio: _la vedova inconsolabile e desolata vivrà nel lutto eterno..._ con quel che segue, eppoi fece come fanno tutte le altre. Cercò di distrarsi, e ridiventò civetta, voglio dire una dama del bel mondo. Tutto passa quaggiù, tutto finisce in questo basso mondo, e la vedovella riprese ben tosto le sue abitudini, anzi ne contrasse delle altre, frutto del suo stato libero. Non ci mancava la _réclame_ sulla sua disponibilità; la signora Allegra andava sempre vestita a lutto, ma la gente che mormora trovava in quelle gramaglie più un richiamo che non l’espressione di un dolore. Fin qui io sto col mondo, giacchè il lutto delle signore mi fa sempre l’effetto della quarta pagina d’un giornale. È facile immaginare che Pomponio fissò la sua dimora in casa dello zio. L’amore aveva operato un vero prodigio, e dopo pochi giorni l’ipocondriaco giovinotto non era più riconoscibile. — Passava tutta la giornata alla finestra per spiare le mosse della vedova, e quando lo zio gli disse che l’avrebbe presentato a quella signora non seppe trattenersi di dare un calcio alla cagnolina per sfogare la gran gioia. A quella vista lo zio si persuase che la cosa era urgente, e temendo che quegli slanci di allegrezza degenerassero in manìa, lo prese per il braccio, e trascinollo subito in casa della signora. Il primo colloquio, e le relative cerimonie di presentazione sono sempre cose noiose, e non vale la pena di descriverle. Per altra parte poi nulla vi avvenne d’importante, se si eccettua un po’ di batticuore di Pomponio, e qualche grulleria scivolatagli dal labbro. Passo sulla seconda visita, sulla terza, e su varie altre, e salto addirittura a quindici giorni dopo l’arrivo di Pomponio a Firenze, vale a dire alla quattordicesima visita che egli fece alla vedova. Oh! l’amore! vengano gli scettici a negarlo, vengano a dirmi che questa corrente elettrica è un sogno dei poeti. Pomponio ed Allegra in quindici giorni erano ubbriachi fradici d’amore. Sarei quasi tentato di spifferarvi la storia di quell’affetto nato così rapidamente; ciò mi fornirebbe occasione per sfoggiare le mie cognizioni in materia, ma siccome parmi già di sentire gli sbuffi impazienti del lettore, volo... vale a dire, salto altri quindici giorni e mi porto verso il tramonto di quel purissimo amore. Dissi purissimo, e ciò sembrerà strano, giacchè la purità delle vedovelle si può sempre discutere, tuttavia qui l’espressione fa al caso. Pomponio non era per nulla uno scapestrato, un altro al suo posto avrebbe finito dove finiscono sempre siffatti intrighi, ma egli tenne duro. I mediocri d’intelligenza sono spesso i più onesti. Ne volete una prova? Pochi giorni dopo il suo arrivo a Firenze egli scrisse alla famiglia dicendo che desiderava ammogliarsi, e chiedeva un consiglio al padre. Quel buon uomo non desiderava di meglio, ed a volta di corriere rispose al figlio che egli era soddisfattissimo; anzi lo pregava a sollecitare le nozze. Questa lettera fruttò un bacio a Pomponio. Fu il primo, ve lo posso giurare, giacchè la vedovella seppe sempre tenerlo alla dovuta distanza; ma quando vide la lettera del papà si commosse, pianse, ed abbracciando il suo Pomponio lo baciò teneramente in fronte. Ah! le vedove sanno ottimamente l’_Arte d’amare_. Il primo matrimonio è per esse una scuola di perfezionamento, e quando hanno perduto il marito diventano insuperabili negli artifizi amorosi. Un bacio dato a tempo ne vale cento dati alla rinfusa, come costumano certi innamorati allorchè la buona stella li mette in colloquio intimo. Evvivano dunque le vedove che sanno farsi desiderare. Mi viene però alla memoria una certa sentenza in versi, che dice: Oh tu che hai scorse tante dotte carte: Qual’è l’arte d’amar? — L’amar senz’arte. Questa laconica risposta tornerebbe tutta a favore degl’ingenui, dunque come sempre avviene c’è ragione per ambe le parti, epperciò mentre ammiro il bacio unico e speculativo delle vedove, batto le mani ai mille che si danno i giovani amanti; e che Dio gliela mandi buona! L’amore non si discute, o si sente, o non si comprende, e Pomponio che lo sentiva molto fortemente, non indugiò gran fatto ad assecondare il desiderio del padre. Senza tanti arzigogoli, saltiamo ancora un mesetto, e gli sponsali sono fatti..... . . . . . . . Qui lascio una lunga fila di puntini che danno fede della mia verecondia nel non voler sollevare il velo di una soavissima luna di miele. Il sole entra in Capricorno. «Datemi un punto d’appoggio, ed io vi metto sossopra il mondo» — Così disse il matematico di Siracusa; ma niuno meglio di lui sapeva di domandar l’impossibile. Ormai si sa per lunga esperienza che tutto ubbidisce a certe leggi inalterabili della natura. Chi nasce cavolo non morrà garofano; e le tendenze degli uomini per far che si faccia non si ponno violare. Non mi si venga fuori coll’onnipotenza dell’educazione, giacchè per conto mio domanderei l’abolizione del vocabolo onnipotenza il quale esprime una cosa che non esiste. È provato che Dio stesso non può essere onnipotente perchè non saprebbe fare un circolo quadrato, dunque restiamo d’accordo che le tendenze insite nell’uomo sono immutabili. Anche la luna di miele subisce come tutte le altre le sue fasi di decrescenza, colla sola diversità che quando è tramontata non ritorna più mai sull’orizzonte. Luna fatale! Il suo splendore durò poco per Pomponio, che dopo qualche mese cominciò ad abituarsi alla felicità, e poscia se l’ebbe di peso. La vedovella avea dei piccoli grilli, le piaceva d’esser corteggiata, voleva feste, teatri, balli e con che cuore poteva Pomponio presentarsi in pubblico, senza essere nemmeno cavaliere! Ecco il tarlo che rose le sue gioie coniugali. L’amore aveva assopito solo per poco lo stimolo dell’ambizione, ma passato il fuoco dell’entusiasmo per la moglie, Pomponio ricadde nella sua cupa malinconia. Con grandissimo rammarico leggeva giornalmente quel foglio malvaceo che è la _Gazzetta Ufficiale_, e ad ogni nuovo cavaliere annunziato il poverino si sentiva come stretto al cuore. Oh la croce, egli la voleva, la sognava, e frattanto la sua dolce metà gli ne faceva portare una e ben grossa. Debbo dirlo perchè si disse, ma io dichiaro come al solito che non credo alle ciarle del mondo. La vedovella convinta d’aver sposato un baggèo, pensò tosto a darsi buon tempo. I sogni ambiziosi del marito le davano agio a fare ciò che le piaceva, e siccome le piaceva un ufficiale di cavalleria, si lasciò spesso accompagnare da costui al teatro, al caffè, e si disse perfino d’averli veduti in una strada di campagna.... Siamo d’accordo che cotesta è un’altra infamia del mondo che vitupera l’innocenza, ma prima di condannare addirittura il mondo, è bene riflettere come talvolta egli non abbia tutta la colpa de’ suoi errori. La mia nonna, buon’anima, mi diceva: — Figlio mio, la maldicenza è come un lago, se tu vedi il tranquillo specchio che si turba, è segno che vi è caduto dentro il sassolino. Al fondo di tutte le dicerie, c’è sempre un po’ di vero.» Non voglio certo disconoscere i savii ammaestramenti di quella buona vecchia, ed ogni qualvolta sento il mondo che mormora, mi rammento sempre la storia del sassolino. Insomma pigliatela come si trova; se è vero che l’ufficiale se la spassasse romanticamente con Allegra, ci avrà trovato la sua convenienza. In questi casi è prudente sposare la gran massima che dice: le colpe della moglie sono colpe del marito. Tiro innanzi. Lo sventurato Pomponio struggevasi per ambizione, e dopo appena sei mesi di matrimonio non era più riconoscibile; era sempre preoccupato, distratto, come un banchiere alla vigilia del fallimento. La gente pensava che ei la facesse da uom di spirito, e taluni vedendo che la sua fronte andava facendosi più ampia per lo sfrondarsi dei capelli, osservavano malignamente com’egli covasse qualche protuberanza al cranio. Ma la provvidenza è grande, e non tardò a sorridere a Pomponio prendendolo sotto le sue pietose ali. Se vi ricordate, quando la moglie di Pomponio era vedova (Dio che giro di parole!) godeva la protezione di un cugino alto-locato. Costui ebbe una parte attivissima in quel matrimonio, aveva fatto dei grandi regali alla sposa, e quando ella stava per lasciar Firenze ei chiese licenza al marito di darle un bacio. Era una cosa innocentissima, e se vogliamo anche un onore per Pomponio. D’allora in poi Allegra mantenne sempre un discreto carteggio col cugino di Firenze, ed un giorno ricevette da lui una lettera in cui le notificava la sua nomina ufficiale ad un consolato estero. Inoltre per _post-scriptum_ eravi che appena sbrigati alcuni affari, egli passerebbe a salutarla prima d’abbandonar l’Italia. Allegra comunicò la lieta novella a Pomponio, il quale sentì slargarsi il cuore per la gioia. È facile comprendere che un barlume di speranza era riapparso nell’animo suo, facendo egli gran calcolo sull’influenza del cugino diplomatico. Una sera stando chiuso nella camera da letto e mentre la moglie già si spogliava, Pomponio prese a dire: — Senti Allegra. Se viene il cugino bisognerà pensare a dargli un conveniente alloggio. — Certo. — Non si canzona mica un personaggio così. — Oh, disse la moglie, non pigliarti tanti fastidi, già lo sai, egli è fatto alla buona. — Tutto va bene, ma bisogna fargli l’onore che si merita. Si fermerà molto? — Chissà! Secondo l’urgenza, può darsi anche che non si fermi più di un giorno. — Ne sarei dolentissimo. — Ed io pure, è tanto tempo che non lo vediamo! — Tanto più, mormorò Pomponio, tanto più che aveva un certo progetto in mente... — Che progetto? — Oh Dio, un’inezia, massimamente se tu t’impegni in mio favore. — Puoi dubitarne! Di’ pure. — Già lo sai, Allegra mia, io sono piuttosto ambizioso.... tutto per te; mi piacerebbe farti fare bella mostra nel mondo. Non già che io ci tenga gran fatto a corte cose, sono minuzie, tuttavia non si può negare che un titolo fa sempre qualche effetto in società. — Ma spiegati meglio, sclamò Allegra piantando due occhioni addosso al marito. — Ecco... cioè, il cugino è molto influente al ministero, e se mercè il suo intervento potessi guadagnarmi una croce... — Ah! vorresti esser cavaliere! — Ecco, rispose Pomponio, ed arrossì fin sulla punta del naso a tal segno che la moglie se non rise fu perchè ebbe pietà di quella miseria. — Per farti cavaliere occorre un titolo. — Qual titolo migliore esser suo cugino! Allegra si fece alquanto seria, e stette fissando di sottocchi il marito che appunto allora si aggiustava la berretta da notte. Aveva una figura stolida, messa assai bene in rilievo da una tinta di timidezza che apparivagli ogni qualvolta si trovava in colloquio intimo colla moglie... — Dunque Allegra mia, hai pensato? — La signora aggrottò le ciglia, guardò il marito con un’aria di superiorità quasi sprezzante, e rispose seccamente con una sola parola che poteva essere una rivelazione. — Vedremo! — Io spero che non ti dirà di no... ti vuol tanto bene. — Se dipenderà solamente da lui. — Basta che ei lo voglia, è un affar fatto. La danno a tanti la croce e si può ben compiacere un cugino. È da qualche tempo che ho quest’idea, ma tu mia cara mi tieni in gran soggezione. Infine se sono ambiziosetto è per te sola, capisci che se io sarò cavaliere tu diventi _donna_... — D’altri, mormorò Allegra fra i denti voltando le spalle al marito che poco dopo si addormentò sognando la realtà delle sue speranze. Dopo tanto, sfido io il lettore se avrà cuore ancora di scagliar la pietra su quella povera donna. È vano sofisticare sui doveri del matrimonio quando trattasi d’avere alla cintola un marito di quella fatta. Io sono sincero, e dico francamente che in simili casi come in tanti altri metto le infedeltà coniugali nella schiera dei più sacrosanti doveri. Ognuno ha quello che si merita, ci vuole una testa apposta perchè vi possano germinar le corna; e qui mi arresto con un’altra osservazione. Le corna non mi sembrano troppo a proposito per raffigurare la posizione sociale di certi mariti. Oh perchè non mettervi invece delle corna le orecchie? Starebbero assai più acconcie. Narra la favola che Atteone per aver veduto Diana al bagno fu dannato a portar sulle cervice il blasone dei cervi... sin qui sta bene, ma qui non ci trovo relazione col becco dei mariti. Atteone s’ebbe le corna in pena d’aver visto, mentre i mariti le hanno appunto perchè non ci vedono niente. Cito il fatto puro e semplice, ma per conto mio me ne lavo le mani, e poichè ci vogliono le corna, prendo il mondo co’ suoi usi, e tiro dritto. — Mi preme unicamente di stabilire che madonna Allegra era quasi in diritto, per non dire in dovere, di seminare sul capo del marito quei nobili fregi. Veniamo al punto, cioè al giorno in cui doveva arrivare il cugino. La fu una vera baraonda in casa di Pomponio, si trattava di assegnare una camera degna dell’ospite, ed infine dopo discussi cento progetti, Pomponio aderì a quello della moglie che volle il cugino in una camera prossima alla sua. La dabbenaggine alla prova. Il cugino fu d’una esattezza diplomatica, ed arrivò proprio col convoglio fissato. Pomponio e la moglie erano ad aspettarlo, nè qui è caso di rimestare tutte le galanterie del ricevimento. Due righe per il ritratto del nuovo personaggio. Era oltre la quarantina, ma pareva assai più giovane. Portamento franco e spigliato proprio delle persone avvezze al vivere del gran mondo. Una figura discreta, occhio penetrante; era insomma un bel uomo degno al tutto di far capo ad una legazione. Pomponio lo pressava lo stringeva fra mille gentilezze, e quando seppe che il cugino si fermava qualche giorno in casa sua, non ebbe più limite alla gioia. Dopo cena il cugino si dichiarò stanco, e chiese di ritirarsi; Pomponio lo accompagnò nella sua camera, e ritornando poscia alla moglie le rinnovò la solita raccomandazione. All’indomani il cugino non aveva ancora aperto gli occhi che si vide parato innanzi Pomponio inchinevole e sorridente; a pranzo poi il nostro diplomatico doveva schermirsi in mille modi per non fare delle indigestioni. Era insomma una specie di tirannia esercitata a furia di gentilezze, ma il cugino ne aveva a macca delle cortesie del marito, tanto più che costui lo perseguitava siffattamente che non ci era mezzo di abboccarsi da solo colla cugina. Si sa, i parenti hanno sempre alcuna cosa a dirsi. Allegra, vedendo che un tale stato di cose non poteva più oltre durare, e pressata sempre dal marito per l’affare della croce, gli rispose un giorno: — Capirai, caro mio, che fino a quando tu starai ai fianchi del cugino, non potrò mai aprir bocca. Non sono queste cose che si possano dire su due piedi; lasciaci in libertà per qualche ora, e parlerò per te. Pomponio non domandava di meglio, ed una sera, manifestando desiderio d’andare al teatro, lasciò la felicenotte alla moglie ed al cugino e se n’andò.... . . . . . . . Lasciate o benevoli lettori, lasciate che io segni con tanti verecondi puntini il colloquio intimo dei due cugini; se così non facessi verrei tacciato di lesa morale. Siamo in epoca rigeneratrice, tutti caricano la croce al povero scrittore che per essere verosimile trovasi bene spesso costretto a rivelare certe verità disgustose. Mio Dio! il vero non s’inventa, epperò bisogna adattarsi e pigliarlo dov’è. Infine vogliasi o no, tutto concorre al grande scopo umanitario e riformatore, ed anche l’umile scrittore colla sua pietruzza qualunque sia, porta il tributo all’immenso edifizio sociale. È curiosa però cotesta sete di morale che invade il nostro secolo cadente, si direbbe che tende a purificarsi delle magagne riportate in giovinezza. Ma ohimè! anche il concetto della morale che si sente oggi è puramente una smania della moda, e più spesso la cuccagna di tanti filosofi moralisti ad un tanto per pagina. Oh perchè, signori miei, si pretende che lo scrittore pel primo entri nella palestra per infarinarsi di un trascendentalismo sociale che esiste nelle idee, ma non nel fatto? La morale sarà buona se vera, ma finchè le generazioni proseguiranno per questa via di lubriche costumanze, la parola dello scrittore sarà buttata al vento. È la moda! Giacchè la virtù va via sloggiando dalle nostre case giacchè la corruzione entra per tutte le fessure, si pretende che il senso morale resti almeno sui libri come se si volesse ingannare la posterità. Di questo passo la letteratura non sarà altro che un museo destinato a custodire una collezione di ipocrisie che non sono per nulla l’espressione dei nostri tempi. La missione della letteratura non è tale; ella è di ritrarre e correggere, non di simulare e mentire. Si pratichi la morale, si facciano le buone azioni, ed allora lo scrittore avrà soggetti d’onestà da studiare sul vero. I libri d’un secolo sono lo specchio de’ suoi costumi...... Intanto, i puntini mi hanno fornito una digressione che m’ha tutta l’aria di una predica, ma se a caso la pigliaste sul serio vi dirò per scarico di coscienza: Fate quel che dico... non quel che faccio. Il lettore non sarà certo così curioso da voler sapere quello che passò fra i due cugini, e si appagherà di sentire le ultime parole di quel colloquio. Supponiamo che siano trascorse due ore dacchè li lasciammo soli... Supponiamo quel che si vuole le argomentazioni sono libere; riferisco le ultime parole. (Allegra è un po’ commossa, il cugino fuma uno sigaro). — Mia cara Allegra, tu sai se per farti un piacere mi lascio tanto pregare, ma in questo caso mi trovo imbarazzato. — Non intendo di crearti imbarazzi. Se tu potrai contentarlo mi farai libera d’una gran seccatura. È un buon uomo, ma ha le smanie ambiziose. — Del resto è proprio un buon uomo.... non è geloso. — Niente, niente. — Io, al suo posto, con una moglie come te... — Eh, mi ricordo benissimo che eri terribilmente geloso. — Te lo ricordi? — Certo, non si dimentica sì presto un passato tanto bello. — Davvero cugina, che quando ci penso, sento di aver perduto gran cosa. — E non era forse in tua mano far sì che noi non ci separassimo mai più? — Hai ragione Allegra, oh quanto me ne duole! Ora fra la rigida freddezza degli affari, sento proprio il bisogno di avere al fianco una persona affettuosa. Ti ricordi dei bei giorni che si passava insieme, nella mia villetta fuori di Firenze? — Ah! ci penso sempre. — Fra pochi dì parto, e chissà quando ci rivedremo. Prima di lasciar l’Italia, pagherei non so cosa per godermi ancora alcuni giorni di felicità; ma ciò non è possibile, a meno di allontanare tuo marito.... Allegra non rispose, ma sorrise, ed il cugino corrugando la fronte con quell’atto proprio delle persone avvezze al pensiero, si fece a meditare in silenzio, indi come colpito da un’idea sclamò vivamente: — Ah! l’ho trovata. — Cosa? chiese l’Allegra fissandolo. — Ho trovato il mezzo di far rivivere alcuno di quei bei giorni. — In che modo? — Ascolta: Tu dici che tuo marito farebbe qualunque cosa per guadagnarsi la croce. — Ne sono sicura. — Si tratterebbe di farlo viaggiare sino a Firenze con una mia lettera da consegnare al segretario di gabinetto. Forse, chissà, è probabile che si riesca a crocifiggerlo. — Ma ci vuole un motivo. — Si troverà, lasciane a me la cura. Questa sera tu parli a tuo marito, domani lo faremo partire... Pomponio ritornando dal teatro, trovò la moglie già in letto, e mentre calzava la berretta da notte, Allegra gli parlò del viaggio a Firenze progettato dal cugino. A tale annunzio, il baggeo si mise a saltare per la gioia, e ci mancò poco se non corse in mutande a ringraziare il cugino. Si pose a letto, ma non chiuse occhio, il viaggio per Firenze gli trottolava per la mente togliendogli ogni quiete. All’indomani si alzò per tempo, fece la valigia, abbracciò il cugino, strinse la mano alla serva, diede uno scudo alla moglie, schiacciò la gattina, ruppe un vetro, e dopo quel parapiglia, si avviò alla stazione. È gran cosa sentirsi gravato di un incarico diplomatico; la lettera pel segretario, eccitava la vana gloria del suo portatore. Non sembrava più il Pomponio d’una volta; il miserello era ringalluzzito e posava proprio come un uomo d’affari. E dire che di simili stolidi è ripieno il mondo. Quando ci penso mi vengono i brividi, e mi persuado sempre più che ormai si vive fra infiniti pericoli; accade di noi come dell’agnello, che scappato dagli artigli dell’aquila, cade nell’ugne del leone. Se non la si fa agli altri, gli altri la fanno a noi, e credo che alla fin fine sia miglior consiglio prendere il bene dove si trova, come Molière, e non curarsi del resto. Guai a colui che ascoltando la voce degli scrupoli di coscienza si lascia sfuggire la più piccola occasione di godersi la vita. Mentre tu disputi per una cosa, un altro te la contende. — Se tu osi, un altro ardisce, se desideri, un altro brama, un terzo agogna. Col progresso di cui è satura l’atmosfera, fa d’uopo essere risoluti e pronti a tutto. Evviva il progresso! Guardatevi attorno, e vedrete adolescenti che fumano la pipa e guardano procacemente in viso alle signore. Vedrete le giovani popolane attillate, profumate come tante marchese; fantesche che fraternizzano colla truppa. Vedrete delle coppie di sposi che sommano trent’anni in due, delle civettone attempate, che invece di riconciliarsi con Dio si lasciano corteggiare da uno sciame di studenti di primo pelo. La morale del giorno non ha più scrupoli, e la si vede andar di conserva colla più spudorata sfrontatezza, che con altro nome si chiama ardire... coraggio. Vedrete delle ragazzine sgusciate appena dal collegio che portano ancora le gonne corte, e leggono gli amori del cavaliere di _Faublas_. Le vedrete nascoste dietro le persiane in atto di agitare un fazzoletto che a sua volta agita il cuore di un damerino che si stira i baffi nella strada. Varcate la soglia dei nostri _salons_, Dio mio! un moralista del secolo passato cadrebbe come tocco dal fulmine. Ivi vedrete il sublime dell’assurdo, la quintessenza del ridicolo, una mostruosità comica. Vedrete là un turbine di donne spensierate, sciocche, pettegole, impudenti che sotto l’artifizioso apparato di un’educazione ipocrita ostentano una pudicizia sommamente ridicola. Eppure le sono tutte oneste. Oramai questa santa parola esprime tutt’altro che quel sentimento virtuoso che anima la donna. L’onestà dei nostri giorni non impedisce ad una madre di mostrare le spalle ed il seno a tutto il pubblico d’un teatro. Ora si usa un certo modo di velare le membra che val peggio che mostrarle; il velo è una specie di richiamo che simulando un onesto pudore segna agli sguardi dei curiosi i misteriosi confini del vero. Chiudetevi gli occhi, acciecatevi come il fringuello se volete cantar l’amore anime candide dei poeti! Se voi vedeste queste beltà di moda, queste damigelle discinte e spudorate, perdereste d’un tratto il sentimento della poesia. Torcete lo sguardo da queste giovani sacerdotesse d’amore che immolano il loro candore alla voluttuosa tendenza dei costumi. Non potrete più sognarlo il seno d’una vergine, o poeti! essa lo espone senza reticenze. Quell’anima delicata del Tasso, non potrebbe più dire delle nostre signorine: Parte appar delle mame acerbe e crude Parte altrui ne ricopre invida vesta; Invida, ma se agl’occhi il varco chiude, L’amoroso pensier già non s’arresta Che non ben pago della bellezza esterna, Nelle pieghe secrete anco s’interna. Ma ci vuol altro che velo ai dì nostri! che parte! venite e vedrete tutto senza usare il telescopio dell’_amoroso pensiero_. Dopo tutto questo impasto di sciocchezze, vanità, spudoratezza, riesce ben poca cosa la dabbenaggine d’un marito che si lascia civilmente incoronare. Per me lo confesso mi vien poca voglia di ridere al pensarvi, perchè un giorno o l’altro potrebbe accadermi la stessa cosa, e chi mi legge, se ha moglie, pensi due volte a casi suoi prima di ridere sulle spalle di Pomponio. Diplomazia dell’asino. Madama de Staël nella sua CORINNA dice che la dissimulazione è un’abitudine degli italiani. Per conto mio passo liscio su questa e sulle tante altre sentenze tirate a nostro dosso, e dirò alla mia volta come Cristo: Perdonate a coloro che non sanno quel che si dicano! Ma se l’illustre scrittrice avesse incontrato il nostro Pomponio, si sarebbe subito ritrattata, giacchè colui nonchè dissimulare, tradiva con ogni moto la sua gran soddisfazione. Aveva l’aria d’un avvocato dopo una gran vittoria, o meglio, d’un deputato eletto a gran maggioranza. Sdraiato in fondo al vagone guardava con occhio tenero il plico che doveva consegnare al segretario. Chissà cosa contiene? pensava fra sè; ma c’era tanto di suggello. Non importa, anche ignorandolo, egli sentiva in cuore che la sua missione era d’una grande importanza. Oltre al far da procaccino il nostr’uomo aveva nientemeno che l’incarico di ordinare i bauli del cugino, e metterli in via di partenza; per ciò fare era munito di altre lettere particolari per le persone di casa. Non vi dirò nè le vicende del viaggio, nè la scossa generale che sentì il poverino quando giunse alla meta. La parola _Firenze_, urlata dai guardiani del convoglio, rintronò nel suo cuore come una lontana profezia. Scese ed andò diffilato dallo zio che lo accolse amorevolmente offrendogli un’ospitalità che venne subito accettata. Pomponio voleva subito ricapitare il suo plico diplomatico, ma il segretario era fuori di Firenze, e dovette attendere alcuni giorni che gli parvero secoli. Frattanto diede mano ad ordinare le robe del cugino. Dopo quattro giorni seppe dal portinaio che il segretario era ritornato; Pomponio si avviò subito al ministero, e noi lo sorprenderemo mentre appunto sale lo scalone degli uffizi. Entrò in anticamera con molto sussiego, ma nessuno gli guardò in faccia. C’era una turba d’uscieri gallonati ed eleganti sì che Pomponio li scambiò per tanti personaggi importanti. A dir vero alla vista della confusione che regna nell’anticamera di un dicastero, il poverino cominciò a dubitare alquanto della sua individualità. Stava incerto e titubante osservando quella turba di servidorame, ma non ardiva muovere domanda ad alcuno. Guardò per un po’ di tempo le carte geografiche che stavano alle pareti, aspettando che qualcuno lo interrogasse, ma nessuno curavasi di lui, ed egli continuava a guardar le carte coprendosi le natiche col cappello. Visto che non si badava a lui, fecesi animo ed azzardandosi rispettosamente verso un usciere, chiese con voce flebile se il segretario era nel suo studio. — È occupato, rispose sbadatamente l’usciere. — Dovrò dunque ripassare? — Come vuole, se attende toccherà dopo a lei. Pomponio inchinossi profondamente, e fece ritorno alle carte geografiche. Era la prima volta che si occupava sul serio di geografia. Dopo una mezz’ora lo stesso usciere andò ad avvisarlo che il segretario era libero. — Dunque vado. — Dove? — Nello studio. — Favorisca prima il suo nome. — Non serve, se vado io. — Mi dica chi è lei, riprese bruscamente l’usciere, non si va mica in uno studio come in una piazza. — Perdoni, mormorò Pomponio inchinandosi. In quel mentre si spalancò la porta, e vi entrò un nuovo personaggio; tutti fecero ala rispettosamente. Era il ministro. Pomponio restò solo come un salame. Passato il ministro, l’usciere tornò a lui e gli disse con aria di ridere: — S’accomodi signore per un altro poco. — Perchè? — Perchè c’è il ministro. — Dovrò aspettare ancora? — Se nol volesse è padrone d’andarsene. — Tornerò quando? — Domani. — Impossibile, ho una lettera di premura. — La porti alla posta. — Ma no, è una lettera pel segretario. — Allora attenda, non so che dirle. Di geografia Pomponio ne aveva abbastanza, e tanto per variare si portò alla finestra per vedere la gente che passava. Poverino! nella sua ingenuità eragli parso facilissimo l’accesso nello studio di un segretario del ministro. Dopo qualche riflessione cominciò a persuadersi della sua poca importanza ed infine come tutti i caratteri deboli finì per credersi meno di quello che era. Tanto è vero che quando l’usciere lo avvicinò per la terza volta egli lo ricevette con un grande inchino che tradiva tutta l’umiltà delle sue intenzioni. L’usciere in vederlo così alterato n’ebbe quasi compassione, e con un pietoso sorriso gli disse: — Se il signore vuol passare. — Vado, rispose Pomponio confuso. — Mi favorisca il nome. — Ah sì sono il cugino. — Del segretario! — No, dell’ambasciatore. L’usciere lo guardò bene in faccia credendolo pazzo, indi riprese con stizza: — Ma che cugino! che ambasciatore! ci capisco un accidente... il suo nome. — Pomponio. — E quello di battesimo? — Pomponio. — Ancora? mormorò l’usciere sorpreso per la combinazione dei nomi, intanto avviandosi di pochi passi aperse il gabinetto del segretario gridando con aria di motteggio: — Il signor Pomponio Pomponio.... cugino dell’ambasciatore. Pomponio entrò tremante e confuso; il segretario stava passando alcune carte, alzò gli occhi, salutò il nuovo arrivato accennandogli di sedere e si rimise a leggere. Lesse per lungo tempo, e non finiva mai, certo si era dimenticato della visita. Pomponio stette alquanto in forse e dopo mezz’ora di riflessione decise di soffiarsi il naso. Il segretario si volse adagio, e disse colla freddezza d’un uomo che ha compreso: — Oh, mille perdoni... ero distratto. — No, no, faccia pure, rispose Pomponio tutto rosso, io ho tempo, non s’incomodi... sono servo. — Tante grazie. Se vuol dirmi in che posso servirla. — Ecco, signore illustrissimo, io ho un cugino... — Me ne rallegro. — E lei lo conosce. — Io? Può darsi, ma venga al fatto. — Ho una lettera da consegnarle. — Me la dia. — Eccola, e Pomponio barcollando come un ubbriaco, trasse la lettera e la consegnò al segretario che frattanto inforcava le lenti. — Ah! ora capisco, sclamò costui, è Felice, ella dunque è suo cugino? — Ho questa fortuna. — Bene, siamo tanto amici. — Me lo ripete sempre — Compermesso, leggo. Non voglio tener sulle spine il lettore e trascrivo la lettera tal quale. «_Carissimo amico_, «Tu mi dicesti tante volte che anelavi ad una buona occasione per ricambiarmi di quel poco che io feci per te. Si presenta ora il caso di giovarmi, ma se ricorro a te non è, credilo, a titolo di quella riconoscenza che per un eccesso di bontà tu vuoi serbarmi, ma sibbene in nome di quell’amicizia che ci lega da tanti anni. «Latore della presente è il sig. Pomponio, marito di mia cugina Allegra, che tu conosci, epperciò mio parente. «È un uomo eccellente, una vera perla. Prima di partire per la mia missione al Belgio, sono qui venuto per salutare Allegra, ed ho ricevuto tante gentilezze, che per sdebitarmi, pensai di farne cavaliere il marito. «Il poverino non ha che questo desiderio, e mi raccomando a te mio buon amico per questa bisogna, tu solo sei in grado di compiacermi, e non dubito che ti porrai tosto in impegno. «Questo buon cugino, è una pasta di zuccaro, e se gli dai la croce, c’è in lui la stoffa da farne un fanatico. «Occorre dunque trovare un merito ad ogni costo, e mi raccomando a te, è affar tuo codesto, ne hai inventate tante per distribuir croci, e sono certo che non risparmierai fatica per farmi piacere. «Mi preme inoltre, che tu trattenga per qualche giorno questo caro cugino... non ti dico altro. «_Tuo affezionatissimo_ FELICE.» Quand’ebbe terminato, il segretario alzò gli occhi su Pomponio, lo fissò con un certo sorriso, indi accennandogli di sedere, sciamò: — Dunque quel caro Felice è suo ospite? — Sì signore, da qualche giorno. — Peccato che lo perderemo per molto tempo. — Peccato davvero. — Capisco che ciò le farà dispiacere. — Oh certo! — Ed anche alla sua signora. Egli le fece si può dire da padre durante la vedovanza. — Oh, so tutto, rispose Pomponio ringalluzzito. — A quanto mi dice suo cugino, riprese il segretario, guardandosi le unghie, ella sarebbe uomo di grandi aspirazioni. — È tanto buono quel Felice! — Ha qualche professione lei? — Nessuna. — Qualche titolo? — No! mormorò il buon uomo sospirando. — Il suo aspetto mi promette bene. — Oh, signore! — Conta di fermarsi a Firenze? — Appena sbrigati gli affari del cugino, parto. — E quando ciò potrà essere? — Spero domani. — Senta, signor Pomponio... ho un progetto per lei, ma converrà aspettar qualche giorno per saperne qualche cosa di deciso. — Sono a sua disposizione. — Non le nascondo che il sospendere la partenza le potrebbe giovare. — Allora mi fermo, sclamò Pomponio con gioia. — Benissimo, fra due giorni si lasci vedere al caffè di Parigi, verso le sette di sera. — Non dubiti, ci sarò. Il segretario l’accompagnò fin sulla porta, e Pomponio se n’andò tutto giulivo. Apoteosi. Quando io penso che tutti i giorni accadono di tali cose, mi vien la pelle d’oca, e credo che il pessimismo dei celibi abbia qualche fondamento. Se volessi far tutto il mio dovere, non potrei dimenticare il cugino e la moglie di Pomponio, ma più che la tema di esser tacciato di pigro, la vince su me lo scrupolo della coscienza. Certe cose bisogna che il lettore si sforzi a comprenderle per evitare a chi scrive la noia di farsi delle violenze...... . . . . . . . Io mi valgo ancora dell’eloquenza dei puntini, e mi limito a dire che Dafni e Cloe, Castore e Polluce, Tirsi ed Amarilli, Paolo e Virginia impallidiscono davanti a quell’idillio di Allegra e Felice; combinazione di nomi! Li abbandono alla loro felicità che trascorre rapida, e ritorno, a Pomponio che lasciai ebbro di gioia per le vie di Firenze. La roba del cugino era già tutta all’ordine, ma egli si tratteneva solo per sentire la risposta del segretario. Venne finalmente l’ora desiderata, e recatosi al caffè di Parigi s’incontrò nel suo protettore che gli disse: — Per ora nulla posso dirle, parta sicuro però, che non lo dimentico, e consegni questa lettera al caro cugino coi miei saluti. — Oh! qual onore, sclamò Pomponio. — Dunque, buon viaggio, signore. Pomponio intascò la preziosa lettera, fece una gran cappellata al segretario, ed all’indomani col primo treno si mise in marcia per casa. Arrivò felicemente, e dopo sfogati i saluti colla moglie, consegnò con molta gravità la lettera al cugino. Era un procaccino ammodo! . . . . . . . E qui tiro le fila del racconto, perchè ormai la stella di Pomponio volge al suo massimo splendore. Dalla lettera del segretario che qui trascrivo, ognuno può farsi un’idea del resto. «_Caro Felice_, «È venuto da me il tuo Pomponio, ed ho fatto quanto di meglio per compiacerti. «Spero che sarai soddisfatto di me, e ciò mi valga la tua riconoscenza; avrei potuto prolungare le tue ore d’ozio, ma mi trattenne il pensiero che tu hai una grave missione da compiere. «Tuo cugino è proprio un buon uomo; circa al farlo cavaliere, mi adoprerò per quanto posso, prima di tutto per farti piacere, poi perchè un uomo di quello stampo si merita proprio una distinzione. «Tanti saluti per me alla tua cara cugina, _che ha ben meritato dalla patria_, e lascia che nello stringerti la mano, e nel complimentarti per la tua ventura, mi auguri di trovare io pure un Pomponio che sia Pomponio come il tuo amabile cugino.» Il cugino partì pel suo destino, e qualche mese dopo Pomponio fu per decreto insignito dell’Ordine Equestre; siccome le fortune, come le disgrazie, non vanno mai sole, così un bel giorno Allegra regalò un bel maschiotto al marito. Vi furono dei maligni che credettero di trovare nel neonato qualche rassomiglianza col cugino Felice, tanto più che c’erano delle date che combinavano stranamente. Perfido mondo! Dopo tutto, Pomponio era al colmo della felicità, e portava l’insegne all’occhiello. Negatemi ora la forza dell’istinto, e dite se quella non fu UNA CROCE MERITATA! FINE DELLA CROCE MERITATA. LEI, VOI E TU Elegante camera da letto con alcova, a sinistra caminetto con fuoco acceso. Una poltrona. A destra, porta che comunica cogli appartamenti. Più in là una finestra. Una porta di mezzo con vetriata che mette sul balcone. Tavolino da notte presso l’alcova, con sopra un libriccino legato. Sedie, ecc. SCENA I. LUIGI (_Entra per la finestra con precauzione_) ...... Dieci e mezza! — Sono venuto a tempo. Quel birbo di giardiniere non si stancava di starsene fuori. — È una vera notte di gennaio; fa un freddo indiavolato (_guarda verso gli altri appartamenti_).... La marchesa non tarderà a venire, e qui bisogna studiare un modo per farsi vedere senza spaventarla — mi nasconderò dietro ad una cortina, eppoi.... no, non c’è grazia in questa trovata (_pensa_). Ah! eccola. — Le scriverò un biglietto (_straccia un foglietto dal porta memorie e scrive col lapis_)... posiamolo qui (_sul tavolino da notte_)... accanto a questo libro (_apre il libro_). L’Aminta... ecco per esempio un libro che è quasi una rivelazione!... Aminta, un povero diavolo d’innamorato che perde il senno per una smorfiosa pastorella... ci sono dei segni in questi versi. — Una donna che prediliga il Tasso dovrebbe essere espansiva. Diamo un’occhiata al campo. — Quando verrà la marchesa io sarò là sul balcone. — Dio! mi vien freddo al solo pensarvi; gela del più buono. — Questa porta mette nelle altre camere, e non c’è altra uscita. — Ecco una camera onesta; anche la morale c’entra un poco nelle costruzioni... ma intanto se si trattasse di scappare sarei fritto. — Viene qualcuno... è lei! (_va sul balcone e chiude_). SCENA II. LA MARCHESA (_entra pensosa_). Io vorrei sapere chi sia quel saggio che disse pel primo essere la donna una creatura debole! — Senza vantarmi, ora che sono sola posso dirlo a me stessa, se quel tale si fosse imbattuto in una donna quale io mi sono, avrebbe fatto eccezione. — Da due anni che sono vedova, me la spasso liberamente e godo in vedere questi _animali_ del sesso forte che si avvicendano a farmi proteste d’amore senza che io prenda mai sul serio una parola (_si disadorna_). Per me, a dirla vera, ci credo tanto agli uomini quanto agli spiriti... E sì che fra i miei corteggiatori ve n’ha di quelli che si meritano qualche riguardo; ma quando vengono ai soliti slanci sentimentali mi prende gran voglia di ridere. — Già tutti usano le stesse frasi, e ciò riesce sommamente ridicolo — tutti compagni. Per esempio, sarà follia, se fossi capace di qualche debolezza, sarei portata per quel signor Luigi.... signor Luigi!... che povero titolo!... non un grado, non una distinzione; eppure, se voglio esser sincera, quei suoi modi franchi ed eleganti, quell’aria sempre gioviale, quel fare senza affettature, mi va a genio. — Eppoi è uomo di molto spirito; il più brillante de’ miei conoscenti... eppure non mi ha mai corteggiata. — Cioè, è innamorato di me, ma non mi fa quelle smorfie, e non mi lascia tempo di ridere del suo amore, giacchè ne ride egli prima.... Fa tutto contrario degli altri. Figuratevi, la settimana scorsa lo invitai ad accompagnarmi al teatro — più di cento avrebbero accettato con gioia, egli si rifiutò perchè aveva impegno per una partita a scacchi colla zia. — Questa sera si festeggiò il mio onomastico, ed io mi sono vendicata rifiutandomi di invitarlo. Dio, com’era in collera! giurò persino che sarebbe venuto a mio dispetto, ma gli mancò il coraggio. C’era ordine alla porta di non lasciarlo passare (_vede il biglietto sul tavolino_). Che è ciò? (_legge_) «_Signora Marchesa, voi mi chiudeste la porta di vostra casa, ed io passai per la finestra. Sono sul balcone, ed aspetto i vostri ordini_.» «LUIGI.» (_Indignata_). Oh! quale arditezza! ma io chiamerò gente (_riflette_) no, non va bene.... nascerebbe uno scandalo. Ah, signor Luigi, voi siete sul balcone con questo gelo, eccovi punito, stateci tutta la notte (_chiude col catenaccio_). Ora sono sicura. Cioè, non mi metto certo in letto; leggerò qui accanto al fuoco, e domani lo troverò gelato (_siede sulla poltrona_). La è però una crudeltà; poverino, fa un freddo dannato.... ebbene, se ne vada per la strada che è venuto. Ma ora che ci penso, di là non c’è mezzo a discendere, non vi è il pergolato sotto. Dunque resti, per me ci penso punto, faccia il suo comodo e buona notte (_pausa_). Infine che vuole? cos’è venuto a far qui?... Mio Dio! mi prende rimorso; potrebbe morirsi pel freddo. — Per carità, è meglio aprire, e farlo ridiscendere dalla finestra (_va verso il balcone_), mi tremano le mani. Ah, prima chiudasi questa porta che mette nelle stanze di mia cognata; potrebbero sentirlo (_chiude l’uscio a destra, poi apre il balcone_). Signore! venga fuori, e se ne vada per dove è venuto (_siede sulla poltrona voltando le spalle a Luigi che entra_). LUIGI (_entra lentamente, rinchiude la vetriata e resta indietro_). MARCHESA (_senza voltarsi_). Dunque, signore, se ne va, oppure debbo farlo accompagnare da’ miei servi?... non risponde nemmeno? ha forse la lingua gelata? LUIGI. Eh! ci manca poco. MARCH. Si sbrighi, apra la finestra, e buona notte. Fortuna per lei che non ha trovato una donna di cuor duro. LUIGI. Ci aveva contato prima sul suo buon cuore. MARCH. Non ascolto verbo, vada via. LUIGI. Ma prima... mi permetta... MARCH. Signore! Io mi meraviglio di lei. Che fosse ardito, lo sapeva, ma sino a questo punto... (_sempre senza voltarsi_). LUIGI. Per carità, marchesa, non si alteri, ne avrei troppo dolore. Lo depongo qui sul tavolo? MARCH. Che cosa? LUIGI. Il mio mazzolino che le offro pel suo giorno onomastico. Le pare che io avrei potuto lasciarmi sfuggire una sì bella occasione senza darle prova del mio profondo rispetto? MARCH. Ah! ella intende darmi prova di rispetto passando per la finestra? LUIGI. Il rispetto si esprime come si può. Per la porta non c’era il passo libero, e sarebbe stata dal canto mio una grave mancanza quella di non rimediarvi alla meglio. MARCH. Ho capito. Ora può andare. LUIGI. Signora marchesa, non mi faccia quest’affronto; accetti i fiori di mia mano, poi me ne vado. Poverini sono intirizziti. MARCH. No. Le ho detto d’andare, e badi che se indugia ancora chiamo gente. LUIGI. Se avesse quest’intenzione l’avrebbe già fatto; ma ella è tanto buona. MARCH. Eppure le ripeto che... LUIGI. Non si faccia cattiva; io non ci credo; tanto è vero che ella ha persino chiuso quella porta. MARCH. (_con stizza_). Ah!... LUIGI. Dunque? (_con preghiera_). MARCH. Dia qui quei fiori. LUIGI (_avanzandosi lentamente_). Eccoli. MARCH. Presto. LUIGI. Gli è che non posso camminare, ho le membra irrigidite dal gelo. MARCH. (_voltandosi a guardarlo_). Mio Dio, com’è stravolto! LUIGI. Lo credo... se restava là un altro poco, era finita. MARCH. (_con premura generosa_). Oh! mi perdoni, signore, sono una gran trista! (_lo fa sedere sulla poltrona_). LUIGI (_riscaldandosi al fuoco_). Grazie, signora marchesa, il cielo vi restituisca altrettanto. MARCH. (_ironica_). Spero che non ne avrò di bisogno, perchè certo non vado ad arrampicarmi per le finestre come... LUIGI. Come un furfante. Dica pure, signora. Ma io ho una gran giustificazione. MARCH. E sarebbe? LUIGI. Sarebbe che io son venuto qui a cercare della cosa mia. MARCH. Il giudizio forse? LUIGI. Cerco la mia testa che si ostina a gironzarle intorno. MARCH. Questo sarebbe un confessare che ella è senza testa. A lei, eccole il mio Album, cerchi, e se la porti via. LUIGI. Scusi, ma la mia testa non ci può stare lì dentro. MARCH. Perchè? ce ne sono tante d’altri. LUIGI. Saranno teste piccole. MARCH. Certo la sua è più grossa; c’è tanto fumo! LUIGI. È tutto quello mi resta del mio amor proprio. MARCH. Basta; ora che si è riscaldato, spero che se ne vorrà andare. LUIGI. Io, no certo. MARCH. Oh! LUIGI. Non già che io voglia, è lei che mi manda. MARCH. Come le aggrada. LUIGI (_alzandosi_). Se debbo dir il vero non avrei mai sperato di trovare tanta indulgenza; ho scoperto in lei una dote superiore a quella già grande della sua bellezza... MARCH. Sentiamola. LUIGI. La generosità. MARCH. Ma siccome non bisogna dare negli eccessi, così nel ringraziarla tanto della sua bontà, la prego di andar via. LUIGI. Lo vuole proprio? MARCH. (_affettando serietà_). Signor Luigi! se io non la conoscessi per originale, direi che ella è... LUIGI. Animo, me lo dica su. MARCH. Un pocolino temerario... LUIGI. È un sistema che adotto; dicono che così facendo s’incontra fortuna colle donne. MARCH. Questa volta però... LUIGI. Fui fortunatissimo, perchè mi trovo qui a quest’ora, solo, colla più amabile fra le donne. MARCH. Ella si schermisce a complimenti. LUIGI. Faccio come il cane, il quale lambisce la mano che gli tira le orecchie. MARCH. Ecco, per esempio, una similitudine mal trovata. LUIGI. E perchè? l’atto di mandarmi via è per me assai più che tirarmi le orecchie, e per conto mio le giuro che accetterei di restar qui tutta la notte anche a costo di pagar domani la mia felicità colla vita. MARCH. Va bene.... ho capito, ma vada. LUIGI. È troppo giusto. Signora marchesa, i miei rispetti. Ridiscendo dalla finestra, come i gatti. È il caso di dire che l’amore invece dell’ali, mi ha dato QUATTRO GAMBE (_verso la finestra_). Dunque buona sera; mi perdoni l’audacia, e se domani sentirà dire che io fui trovato morto sotto le sue finestre, pensi pure che mi sono scavezzato il collo. MARCH. Via, signore, non faccia pompa di eroismo. Scommetto che c’è una corda alla finestra. LUIGI. La signora s’inganna... venga a vedere. MARCH. (_dopo aver guardato_). E come farà? LUIGI. Mi provo. MARCH. E se ruzzolasse abbasso? LUIGI. Pazienza! siamo tanto in alto, che non avrei tempo di pensarci sopra. MARCH. Signore! Ella ha voluto rendermi complice di qualche disgrazia! LUIGI. Starebbe a lei prevenirla. MARCH. Allora scenda come può; già infine tutto è commedia; avrà preso le sue precauzioni. LUIGI. Le giuro che no, tanto è vero che era disposto a morir di freddo sul suo verone. L’ho scritto nel mio biglietto. MARCH. Nego. Sul biglietto non vi è nulla di tutto ciò. LUIGI. Guardi meglio. MARCH. (_riprende il biglietto_). Ecco qui. Non c’è altro. LUIGI. Ma volti. (_legge_) «_Comprendo benissimo che la mia è temerità eccessiva; se vorrà punirmene, mi lasci fuori per tutta la notte, e colla presente, scritta di mio pugno, l’assolvo da ogni responsabilità qualora diventassi sorbetto_.» (_La marchesa resta sopra pensiero_). Dopo tutto, signora, mi sembra d’essere stato poco indulgente con me stesso. MARCH. Sì, ma infine avrebbe picchiato per farsi aprire. LUIGI. No certo. Anzi, se madama la marchesa lo desidera, ritorno sul verone, e vi starò a suo piacimento. Dal canto mio sarò ben lieto di scontare un poco il mio peccato. MARCH. Manco male che ne conviene. LUIGI. Certo! e se mi fosse lecito proclamerei ai quattro venti la sua grande indulgenza. MARCH. Badi, signore, che non mi merito questa _réclame_, tanto è vero che la costringo a scendere dalla finestra. LUIGI. E che perciò? Ella fa il dover suo. MARCH. Tuttavia se le accadesse qualche malore ne sarei desolata. LUIGI. Grazie, bella marchesa! le sue parole mi danno coraggio. Scenderei dalla luna per farle piacere. Però, una preghiera. Io scendo, ma può darsi che invece precipiti, ed allora... felice notte. MARCH. Ebbene? LUIGI. Ebbene, mi rincrescerebbe passare all’altro mondo senza esser certo del suo perdono. MARCH. È perdonato. LUIGI. Desidero altro, un bacio su quella graziosa manina. MARCH. Oh! LUIGI (_con grazia_). È la preghiera di un morente! MARCH. (_tende la mano_). A lei (_Luigi la bacia, ma mentre fa per andarsene ella lo trattiene serrando la mano_). Peraltro, signor mio, non riesco a comprendere la cagione di questa sua eccentricità. Per portarmi i fiori? non valeva la pena d’arrischiarsi a tanto. LUIGI. La signora marchesa mi permetterà di tacere — preferisco scender subito. MARCH. Si tratta forse d’una scommessa? LUIGI (_serio_). Signora, aveva pur detto d’avermi perdonato, ma quel suo pensar così male sui miei propositi, mi addolora. MARCH. Dunque dica su. LUIGI. Signora, no. Se entro nella via delle confidenze ridivento colpevole. Eppoi l’ora è tarda. Ella avrà forse bisogno di riposo. (_Notisi che qui parla maliziosamente, e fingendo una riserva che non ha)_. MARCH. Chissà! forse non ci penso ancora, passerò qualche tempo leggendo; anzi, se ella avesse qualche storiella in pronto, così tanto per impiegare una mezz’ora... LUIGI. E poi? MARCH. Poi studieremo un mezzo per farlo scender con minor pericolo. LUIGI. Accetto di cuore. MARCH. Allora s’accomodi... racconti ed io lavorerò un poco. (_La marchesa occupa la poltrona, Luigi siede presso di lei_). LUIGI. Signora marchesa, io sono franco, e le dico sinceramente che se domani dovessi morire, non mi lamenterei. MARCH. Lo credo io, non ne avrebbe più il tempo. LUIGI. Ah! mi dimenticava che ella è materialista. MARCH. E lei? LUIGI. Una volta lo era io pure, ma mi sono corretto; ho cambiato dottrina. MARCH. Evviva la fede. LUIGI. Non mi parli di fede, tutto è convenzione a questo mondo; si giudica sempre dal punto di vista delle convenienze. MARCH. Se ne avessi il tempo, mi proverei a convertirlo. LUIGI. Lo tenti, ma sarà fatica sprecata, ed anzi in questo momento mi persuado viemmeglio delle assurdità del materialismo. MARCH. Mi dica in grazia, perchè ha cambiato bandiera? LUIGI. Non è cosa agevole il dirlo, ma quello che sento alla vista del bello mi esalta, mi commove, e certo la materia non ha tanto potere. Oh! io mi meraviglio altamente che ella non creda nell’ignoto! ma si guardi, signora marchesa, si guardi nello specchio, cerchi ne’ suoi occhi pieni di fuoco, e mi neghi se lo può la potenza del fascino. Io poi che la vedo nel suo insieme, io che in guardarla mi sento acceso d’entusiasmo non posso porre in dubbio l’esistenza di quell’anima che si cela sotto forme sì vaghe; non posso negare che vi siano degli angioli, se me ne vedo davanti uno tanto bello. MARCH. (_con fino motteggio_). Molto bene. Ella si serve di tutto per venire allo scopo. — Ha spezzato una lancia contro il materialismo per farmi un po’ di corte. LUIGI. No, proprio davvero, non c’entra la premeditazione; egli è nella foga di parlare che mi sono tradito. MARCH. Poverino, si è tradito! — Ella fa gran sfoggio d’ingenuità, ma, caro mio, gli ingenui non vanno in casa delle signore passando per le finestre. LUIGI. Madama la marchesa si dimentica che per me la porta era chiusa. MARCH. Eravi forse necessità di venir stassera? LUIGI. Certo, passata la festa si spegne il moccolo, dice il proverbio, domani era tardi per portare i fiori. MARCH. Non era un gran male! LUIGI. Comprendo benissimo che il mio omaggio è per lei cosa di poco conto, e che altri migliori di me si meritano preferenze, tuttavia, anche colla certezza di essere tenuto fra gli ultimi, non sarei stato meno colpevole lasciandomi sfuggire l’occasione per dimostrarle che la mia devozione per lei è tanto grande, quanto la sua degnazione per me. MARCH. Signor Luigi! io non credo d’averle mai dato diritto ad un rimprovero così acerbo. Se a mostrarsi sinceramente amica si guadagna il compenso di essere mal compresa, ne sono dolente. — Ella non è per nulla l’ultimo fra i miei amici, anzi se mi fosse lecito far delle distinzioni, ne farei a suo riguardo. Lo sa più di quanto io possa provarglielo. La mia condizione m’impone dei riguardi che io debbo subire rassegnata, epperciò quando incontro un amico sincero, mentre col cuore gli sono gratissima, debbo però usare seco lui quel fare vago che non desta sospetti o maldicenze. Sa pure che io voglio mantenere assoluta la mia libertà d’azione. Ho i miei capricci e dubito molto degli uomini; sono vedova e voglio godermi in pace la vita; ma ciò non impedisce che io possa degnamente apprezzare un sentimento d’amicizia vera ed affettuosa. Ella dunque, signor mio, è un ingrato; perchè sa tutte queste cose senza che io mi sforzi a provargliele, eppure si diletta a metterle in dubbio. LUIGI. In fede mia, ella ha tutte le ragioni (_stringendole la mano_). Sono proprio un ingrato, giacchè se è vero che posseggo un poco della sua amicizia, ho assai più che non mi meriti. MARCH. Così va bene. LUIGI. A dirla franca, mi pareva che il barone Calani occupasse un posto distinto. MARCH. Oh! Cielo, mi fa una corte ostinata, non trascura nulla, dai mazzolini parlanti ai confetti colle cartoline amorose; ma io non sono tanto ingenua da cader nelle reti per sì poco. LUIGI. E quel marchesino? MARCH. Mio cugino? Colui mi fa il galante colla certezza d’averne diritto. È mio parente, e lo tratto come tale. Del resto è una creatura molto noiosa. LUIGI. Il conte Pollini però è uomo di spirito, e mi sembra degno di occupare una sedia chiusa. MARCH. Sì, il conte è meco molto amabile, ma anche lui ha il suo difetto. Si figuri che dice di sognarmi tutte le notti, o colle corna da diavoletto, o colle ali d’angelo. LUIGI. E lei ci crede. MARCH. Può chiedermelo? non credo agli uomini quando son desti, dovrei fidarmi se dormono? LUIGI. Peccato! MARCH. Perchè mai? LUIGI. Aveva io pure un sogno da raccontarle. MARCH. Dica, sentiamo, per lei faccio un’eccezione. LUIGI. Ma non crede? MARCH. (_ironica_). Altrochè! e ci punterò sopra cento lire al lotto. LUIGI. Allora ritiro il sogno; ma badi, signora marchesa, i sogni sono rivelazioni divine, Giuseppe salvò l’Egitto. MARCH. E lei sarebbe un nuovo Giuseppe? LUIGI. Signora no, per quanto poco ci tenga al mio carattere d’uomo, pure le confesso che non sarebbe necessario di lacerarmi il mantello per trattenermi. MARCH. Peccato che le manchi l’occasione. LUIGI. Si provi lei a prendermi per i panni. MARCH. (_alzandosi_). Invece la storia è alquanto modificata; madama Putifarre manda via Giuseppe. LUIGI. Dunque non vuol saperne del mio sogno? Ella è una donna senza fede. MARCH. Tutt’altro! di fede ne ho molta, quella che mi manca è la _buona fede_. LUIGI. Ecco una graffiata che non mi merito. Mandarmi via sta bene, ma così bruscamente... Se non racconto il mio sogno, non morirò tranquillo. MARCH. Me ne rincresce tanto, ma la è proprio così. LUIGI. In guardia, signora marchesa! questa sua repentina risoluzione potrebbe contraddirla alquanto su quella indifferenza che vanta tanto. MARCH. Vale a dire? LUIGI. Vale a dire che mandandomi via ella confessa in certo modo che la mia presenza le desta un po’ di turbamento. MARCH. Oh! questo poi no. Ma ella è un gran briccone, e mi costringe a darle prova del mio sangue freddo. Animo ritorni qui, e mi racconti il suo sogno. LUIGI. Così va bene! (_si siedono ancora_). MARCH. Racconti pure. LUIGI. Eccomi (_tossisce_), prima di tutto, dichiaro che trattandosi di un sogno io non ci ho nessuna responsabilità. Quando si entra nel regno di Morfeo, bisogna adattarvisi alla meglio. MARCH. Questa è la prefazione. LUIGI. Se la signora marchesa sel ricorda, pochi giorni sono, mi invitò a scrivere dei versi nel suo album. MARCH. (_con intelligenza_). Ah! sì. LUIGI. C’è una strofa infine che dice: Talor sognando appagasi La brama che mi strugge, Mi desto allora... ahi misero! Il labbro tuo mi sfugge. MARCH. (_sorridendo_). È una petizione quella poesia. LUIGI. Quasi. Oh i poeti sono ben pazzi! MARCH. Con tutta modestia ella si mette fra i poeti? LUIGI. Mi permetterà almeno di stare fra i pazzi. MARCH. Non lo contesto. LUIGI. Il mio sogno s’attacca a quei versi. Si figuri che una notte ella venne in casa mia, proprio nella mia camera. Io me ne stava al tavolo leggendo il _Faust_ di Göethe, e vagolava colla mente per la notte _Classica di Valburga_ sui campi di Farsaglia, e nei gorghi dell’Egéo fra sirene, najadi, _sfingi_ e _gnomi_, quando ad un tratto vidi proprio lei, signora marchesa, comparirmi innanzi... bella, bella come Elena, avvolta in una lunga veste bianchissima. In vederla io rimasi sorpreso, confuso, elettrizzato, e tratteneva il respiro per la tema di turbare la dolce visione. Vi fu qualche minuto di silenzio per ambe le parti, finalmente l’ombra sclamò con voce delicata: «Signor Luigi, siete uno sciocco.» MARCH. Aveva dello spirito quell’ombra (_ride_). LUIGI. Era la vostra, poteva esserne priva? MARCH. Continui pure. LUIGI. Perchè? chiesi io, e l’ombra rispose: «Perchè non avete coraggio; da un anno mi fate la corte, e non sapeste trovare un momento buono. «Ma, risposi io, marchesa mia, voi avete un’antipatia marcata per gli uomini... diceste voi stessa di non creder più all’amore. «Sono cose che si dicono, soggiungeste voi (_fingendo d’essersi sbagliato_). Oh! perdono m’imbroglio, mi lasci che le dia del voi, sarò più libero nella parola. MARCH. Fate pure. LUIGI. Signora marchesa, se io sapessi... se potessi... dunque vi do del voi? MARCH. Sentiamo cosa rispondeste all’ombra. LUIGI.[1] Balbettai qualche parola, e poi facendomi animo sclamai: «Ma io, cara marchesa, sono timido, non so dirvi l’animo mio... non l’oso; voi avete delle tristi prevenzioni sugli uomini. D’altronde posso io aspirare ad un vostro sguardo?... voi il fiore della nobiltà, voi così bella, così vagheggiata, non trovereste neanche un sorriso di pietà pel temerario che ardisse alzare gli occhi sino a voi. — Infine io riconosco troppo bene la distanza che ci separa; voi mi stimate assai, ma io valgo poco, perchè indegno della vostra amicizia come della vostra stima, oso di volervi un po’ di bene, ed alimento in me una passione insensata.» MARCH. Per fortuna che siete timido... del resto chissà dove vi sareste fermato. LUIGI. La timidezza è il mio debole; sognando ho del coraggio, ma quando vi sono vicino mi manca l’animo di aprir bocca. MARCH. Allora continuate a sognare. LUIGI. Quando ebbi finito, stetti aspettando una severa risposta; ma la vostra ombra invece mi si appressò, e mi stese la mano che io baciai sclamando: «Oh! signora voi siete la creatura più buona che io mi conosca. La vostra anima generosa chiude in sè una scintilla divina, e beato quegli che ne saprà comprendere le segrete aspirazioni!» MARCH. E l’ombra? LUIGI. Mi rispose: «Vedete, Luigi, non sono poi quella ritrosa indifferente che mi credevate. Ho del cuore io pure, tutto sta saperne trovare la strada. Nata col retaggio di un nome che porta corona di nobiltà; non mi inorgoglisco d’un titolo che sarebbe vano se non fosse accompagnato da prodigalità di cuore e squisitezza di sentire. — Io vi ho compreso benissimo, e voi che siete tanto timido, voi solo meritate un poco del mio affetto, e sì dicendo.... (_esita_).... e sì dicendo.... MARCH. Avanti. LUIGI. Io non ci ho colpa, marchesa, è un sogno. MARCH. Ma infine! (_durante il racconto la marchesa ricama sempre affettando indifferenza_). LUIGI (_con fare elegante_). E sì dicendo, si abbassò su me, ed io la baciai in fronte. MARCH. (_indifferente_). Eppoi? LUIGI (_sorpreso_). E poi... mi sono svegliato. MARCH. E l’ombra? LUIGI. Sparita! — d’allora in poi mi punge il desiderio di realizzare il mio bel sogno, e da un mese tento tutti i mezzi, tutti i sotterfugi leciti per venire allo scopo. Mille volte dissi fra me: oggi vado da lei e le dico: Signora marchesa, io ho bisogno di farvi un bacio, del resto morrò... non dormirò più, non mangerò... Siate tanto buona da concedermelo... fate conto di far limosina... ma quando sono qui, mi trema il cuore, divento timido come uno scolaretto, e succede di me come di quell’Olindo che Brama assai, poco spera, e nulla chiede. MARCH. Ammiro la vostra timida riservatezza... gli ardimentosi mi vanno poco a genio. LUIGI. Dunque? MARCH. (_fingendo stupore_). Dunque che cosa? LUIGI. È proprio un sogno? MARCH. E sarà sempre tale. LUIGI. Insomma, signora marchesa, se tanti mesi d’un’amicizia disinteressata, se una devozione rispettosa si meritano qualche distinzione, lasciate che io deponga un bacio sulla vostra bella fronte... eppoi discendo di botto dalla finestra, anche colla certezza che ho d’ammazzarmi. MARCH. Io non mi altero punto, nè mi offendo; so che la indiscrezione degli uomini tocca il sublime, ma vi giuro che se anche foste lì per morire di questa voglia, mi rifiuterei ugualmente (_sempre con fare di motteggio_). LUIGI. Infine, marchesa mia, per voi non la è la gran cosa! vi lasciate baciar la mano da chi lo desidera. MARCH. Ma nella mano ho le unghie, e graffio. LUIGI. E non avete lì due occhi che straziano assai più. MARCH. Ah! poverino, fate sforzi da Ercole per trovare una goccia di spirito, ma in questo momento non siete in voi... LUIGI. È verissimo, sono _in voi_. MARCH. Ci manca il mio permesso. LUIGI. Non ne abbisogno, io sono nel mio diritto. La chiesa dice: _Non desiderare la donna d’altri_, ma voi siete di nessuno. Siete vedova, che è quanto dire in disponibilità.... dunque posso arrischiarmi. MARCH. Bevete del papavero e sognerete ancora. LUIGI. Signora marchesa, la vostra ombra è un po’ più arrendevole. Infine poi non vi ha nulla di male in quello che chieggo. Un bacio sulla fronte ha del paterno. MARCH. Avrei un padre molto scapestrato. LUIGI (_con qualche stizza_). Oh! sogno traditore! se non fosse troppo vecchia la cavata esclamerei: (_comicamente_) Perchè mi risvegliai!? MARCH. Davvero che se esamino bene, trovo in voi la solita presunzione, eterno retaggio di questo _uomo_ che si chiama _forte_. Ah! la vi par cosa facile realizzare un sogno! e con un coraggio degno di miglior sorte, voi siete qui venuto per dirmi che sognate delle corbellerie... ma, mio caro, andando di questo passo vi fisserete in mente qualche giorno di abbracciare la luna. Avrete detto fra voi: m’è venuto il ghiribizzo di fare un bacio alla marchesa, ho dello spirito, delle risorse, e posso tentare il colpo. Colle vostre circonlocuzioni viziose un giorno mi obbligaste a domandarvi dei versi, e voi subito una stoccata per cantarmi in rima il vostro desiderio inqualificabile. Oh le donne sono scioccamente ingenue, cascano presto nella rete!... Quattro versi stirati alla meglio, alcune cadenze pescate nel Rimario, fanno un grand’effetto. E lì giù a comporre e scrivermi sull’Album una poesia ch’io leggo per esilararmi. LUIGI. Oh! MARCH. Ma sì, certo, credete forse che io presti fede al vostro _struggimento?_ (_lo canzona_) poverino! se vi batte il cuore prendete del _cloraglio_... oppure bagni freddi; vi gioveranno per la testa che è un pochino guasta. Credete voi altri che bastino alle donne le vostre affettature galanti, e le eterne frottole che andate snocciolando coi soliti sospiri e contorcimenti d’occhi?... Ih! ih! ci vuol altro! cuore e sincerità, non presunzione e frivolezza. Credete di ingannar noi, ma quasi sempre siete voi gli ingannati. Ci vuol altro, caro signor Luigi, ci vuol più spirito e più giudizio. Dopo tutto una cosa sola mi dà pena, ed è quella di vedervi fare una figura molto comica in quest’affare. (_ridendo_) Per carità non raccontate l’avventura ai vostri amici, ne riderebbero un’eternità. LUIGI (_sopraffatto_). Signora marchesa, felice notte. MARCH. Dove andate adesso? LUIGI. Mi butto di balzo giù dalla finestra, non mi resta a fare altro per provarvi di non esser tanto _leggiero_. MARCH. So benissimo che non mettereste le ali. LUIGI. Ma se resto qui ancora mi spunteranno le orecchie. MARCH. Non avete giustificazioni? LUIGI. Sì, signora, ne ho una che vale per tutte. Se io caddi in errore si fu per creder troppo nell’esperienza di uno dei nostri grandi poeti. MARCH. Quale? LUIGI. Il Tasso che scrisse nell’Aminta quei versi: Oh tu non sai com’è fatta la donna! Fugge, e fuggendo vuol ch’altri la segua. Nega, e negando vuol ch’altri si tolga, Pugna, e pugnando vuol che altri la vinca. Io ci ho creduto; voi negaste ed io volli togliermi, pugnaste e volli vincervi, e mi resto dopo tutto con un pugno di vento. MARCH. Ma voi che siete poeta, come mai credete alle fanfaluche dei vostri confratelli? pensate a tutte le bugie che diceste in rima, e ditemi se avete ancor coraggio di credere. Però debbo riconoscere in voi un abile strategico, avete esplorato il mio campo di battaglia, studiato i miei libri. Davvero che siete assai previdente; duolmi che abbiate sciupato la fatica per battagliare contro un mulino a vento. Don Giovanni è diventato don Chisciotte! (_ride_). LUIGI. Sono lieto di una cosa, ed è che se non altro riesco a mettervi di buon umore. MARCH. Sfido io a star seria con questi squarci di lirica che m’andate tirando fuori. Ah voi siete della scuola del Tasso? vi compiango di cuore, perchè se seguite in tutto il vostro maestro finirete voi pure in un ospizio di pazzi, con molto minor gloria. LUIGI. Se ciò accadesse, voi signora marchesa, dovrete averne rimorso. MARCH. Oh! bella, e perchè mai? LUIGI. È facile respingere una responsabilità, e certo a bella prima sembra che voi siate la creatura più innocente del mondo. Pure non è così, la bellezza, signora mia, in certi casi è un reato. Che ne possiamo noi poveri uomini dalla fantasia accendibile se al fascino d’uno sguardo, alle graziose movenze, al suono di una voce soave, non sappiamo tener salda la ragione? Ma io mentre vi guardo mi sento capace di tutto, non sono più padrone di me, e se mi comandaste di passarmi il cuore vi ubbidirei!... E tutto ciò non è forse l’effetto di una malìa, l’influenza del fascino che esercitate? Se domani venissi tratto in giudizio, io vi citerei come mia complice, perchè colla vostra cortesia _severa_ mi faceste dar di volta al cervello. MARCH. Molto bene; ma è forse nostra colpa se gli uomini sono tanto buoni da far pazzie per nostro conto? LUIGI. Sì, e ve lo provo. Voi siete bella, lasciate che vel dica, so che vi fa piacere; ostentate indifferenza per questa dote eccelsa della vostra persona, ma il fatto vi contraddice. Perchè se non badate agli uomini, perchè vi fate più bella coi ricci bizzarri della capigliatura, con abiti provocanti, con pizzi e merletti che sfumano misteriosi confini? Così facendo, tradite la vostra intenzione, quella di piacere. Ecco la colpa, ecco il male. Noi poveri uomini alla vista di tanta leggiadria andiamo in delirio; il tocco di una bella manina ci desta dei fremiti, le movenze graziose ci esaltano, un’occhiata ci fulmina... noi vediamo e siamo vinti. Supplichiamo per una grazia ed eccoci un rifiuto; domandiamo un sorriso e ci si risponde con un’occhiata torva. Dunque resta provato che tiranneggiate per progetto, e la responsabilità dei nostri errori ricade tutta su di voi! — (_La marchesa lo guarda con aria quasi di crederlo... Luigi dopo una pausa si avanza dubbioso e sorridente_). — Dopo tutto, signora marchesa, eccomi ancor qui umile e supplichevole; lasciate che realizzi il mio bel sogno, eppoi farò quello che più vi piacerà. MARCH. (_con malizia_). No, no. Ah! credete che io mi lasci persuadere da dolci parole? Io non mi piego. LUIGI. È la virtù delle canne deboli; si rompono. MARCH. Dite quel che vi piace. In quanto al _vostro sogno_, farete meglio giuocandolo al lotto. LUIGI. È questa l’ultima parola? MARCH. No, la penultima... eccovi l’ultima (_gli dà la mano_); felice notte. LUIGI (_risoluto_). E sia. Signora marchesa, io ricorderò quest’ora passata insieme come quella più lieta di mia vita. MARCH. Ciò è cavalleresco! Badate, nello scendere, con alquanta precauzione, vi troverete sul pergolato. Domani, se siete ancor vivo, venite a dirmi come ve la siete cavata. LUIGI (_un po’ serio_). Mi rincresce, ma domani non posso, vado via. MARCH. Ebbene dopo domani. LUIGI. Nemmeno. MARCH. Andate dunque molto lontano? LUIGI. Oh molto... vado in America! MARCH. (_colpita_). Oh! che dite? LUIGI. Parto per Lima, ove raggiungo mio fratello. MARCH. E poi? LUIGI (_commosso_). E poi... mi fermo là. MARCH. (_c. s._) Per sempre? LUIGI. Chi sa! MARCH. Necessità d’affari forse? LUIGI. No, signora, disgusto di stare in questa vecchia Europa, terra per me di fallaci lusinghe. MARCH. (_con apprensione_). Che volete voi dire? LUIGI. Voglio dire, signora marchesa, che quando si fanno dei bei sogni, bisogna scontarli con un triste risveglio. Voglio dire che quando si è tanto stolti da crescere nel seno delle false speranze, bisogna sopportarne le delusioni. Ma io non ho la forza di restar qui coll’eterno spettacolo dinanzi agli occhi di una felicità che sarà sempre un sogno per me. Parto, il viaggio, e gli affari faranno forse più di quanto non potè la ragione. MARCH. (_commossa_). Luigi! giuratemi che questa partenza non è uno stratagemma. LUIGI. Sull’onor mio, signora! MARCH. (_con qualche imbarazzo_). Ebbene, poichè andate tanto lontano... e forse non ci vedremo più! non voglio certo lasciarvi partire disgustato. Se veramente vi fa piacere... se lo desiderate proprio di cuore, eccovi la fronte, fatevi un bacio! LUIGI (_con slancio represso_). Matilde, voi siete un angelo!... (_la bacia_). MARCH. (_un po’ confusa_). Ricordatevi degli amici... e di me! LUIGI. Sempre serberò di voi la più cara memoria (_la bacia ancora poi fa per partire_). MARCH. (_con tenerezza_). Luigi! restate in Europa? LUIGI. È impossibile, soffrirei troppo. MARCH. (_dopo breve esitanza_). Allora PORTAMI con TE in America. LUIGI (_tornando a lei_). Che dite? MARCH. (_con slancio stringendogli le mani_). Dico che un cuore nobile come il TUO si merita assai più che non sia il meschino dono della mia mano! LUIGI (_inginocchiandosi_). Oh! grazie! MARCH. (_rialzandolo_). Dunque, partirai ancora? LUIGI. No, resto in Europa! (_l’abbraccia_). FINE DEL LEI, VOI E TU. VERSI ALLA BUONA «IL CAVALIERE» _Mio carissimo Pipetto!_..... Già lo sai, mio gran difetto Sta nel fare il beccafico Sulle cose della gente, Schiettamente te la dico, Sono alquanto impertinente, Ma che vuoi? tacer non posso In veder certi asinoni Animali fino all’osso Che la fanno da padroni! Dimmi tu come ho da fare La mia tempra a raffrenare, Tu m’insegna a darvi passo Ed a starmene sul duro, Se m’incontro ad ogni passo Con quei ceffi da figuro. — Uno poi mi dà sui piedi, Cavalier de’ miei... stivali, E tu amico deh concedi Che con te la stizza esali. Se lo vedi andare a spasso Con quell’aria da gradasso, Tu lo pigli in buona fede Per un uomo d’importanza; Tutto serio e grave incede Pien di boria e tracotanza; Per costume veste in nero Porta guanti ed occhialino, E a vederlo sembra invero Alcunchè di sopraffino. Affettando negligenza Della croce ei ne fa senza, E portar si degna appena All’occhiello un picciol nastro. Tiene al collo gran catena. Un baston da borgomastro, Con sussiego guarda attorno, E si gonfia dal piacere, Se si sente dire intorno «Riverito, Cavaliere!» D’una bestia al paragone Nulla vale quel bestione, Ed andando a vero onore, S’egli è stato decorato, Si può far commendatore Anche un asino calzato. Consiglier municipale Ei fu eletto da diec’anni, Ma sua cura principale È dormire sugli scanni. Quando schiude quella bocca La sciocchezza vi trabocca, Dà consigli, dà sentenze Quello stolto babbuino, Dice tante incongruenze Da sgradarne Bertoldino. Sa poi leggere, ma come Nel latin di sacristia, E per scrivere il suo nome Fa un error d’ortografia. Ignorante consigliere, Petulante cavaliere Pien di fumo, pien di boria, Asinone in quintessenza, Star coi nobili si fa gloria Giacchè, a dirla in confidenza, Questo stolido baggeo Vero tipo dei COLOMBI Sdegna il sangue di plebeo Che gli scorre dentro ai lombi. Ei passeggia lungo i viali Pien di carte e di giornali, Sbircia attorno colle lenti, E se degna d’un saluto Crede far tutti contenti; Se poi sa d’esser veduto Atteggiandosi a sussiego, Tira fuori di scarsella Qualche carta qualche piego, Qualche lettera o parcella. Entra in casa gravemente, E ’l portiere immantinente; — _Ben tornato Cavaliere!_ Batte all’uscio e il servo lesto: — _Riverisco Cavaliere,_ _Di ritorno così presto?_ _Forse l’aria è troppo fresca?_ Ei si stempra pel piacere, Ed il servo alla fantesca; — _Colazione al Cavaliere!_ Cavalier dovunque suona E per l’aria ognor risuona, Te lo abbaja la cagnina, E lo canta in grotta il gallo; Nelle sale ed in cucina Lo ripete il pappagallo, Ed ovunque ti rivolga Di scappar non hai potere, Non c’è santo che ti tolga, Suona sempre — Cavaliere. — Ha una faccia che dà ai nervi, Guarda tutti come servi Dir che è un asino, un villano Dir che è sciocco, è poco o niente; Egli è un fior di ciarlatano Ignorante impertinente. — S’è la polvere inventata Che distrugge insetti e bruchi, Oh perchè non fu trovata Polve tal per questi ciuchi? E di simil raffataglia Tanto è zeppa quest’Italia Che ne incontri ad ogni istante In ogni angolo di via, E in tal modo andando avante, Stammi a udir la profezia, Si faranno cavalieri Truffatori e burattini Gabbamondi, barattieri Stenterelli ed Arlecchini. LA MORALE Sei fior del secolo Santa morale Sei fatta l’idolo Universale, Ed il tuo fascino Trascorre a volo Come l’elettrico Di polo in polo; Are t’innalzano Tutte le genti, E ti strombazzano Ai quattro venti. Tu sei l’immagine D’una speranza Bella ed eterea Nella sembianza, Tutti ti guardano Siccome un punto Inaccessibile Non mai raggiunto, Tutti t’ammirano, Ognun ti ha in bocca, Ma infin dell’opera Nessun ti tocca. Il prete in pergamo Ti canta lodi, E di te predica In mille modi; Ma spesso ipocrita Mentre si piega, In fondo all’anima Poi ti rinnega, E lodi e prediche Che a josa insacca, Non son che il trespolo Della baracca. Dall’alte cattedre Gravi retori D’austere regole Son banditori; Coll’arma facile Della parola Fan d’arzigogoli Confusa scuola, Ma infin gonfiandosi Con ciance vane, Fan nulla e gracchiano Come le rane. Tutti t’inneggiano MORALE Santa, Ognun discepolo Di te si vanta, Delle tue massime Si fa gran smercio Come d’articoli Messi in commercio; E ti conservano Nella vetrina La dama rigida E la sgualdrina. Severi giudici E magistrati Sempre si vantano Da te guidati; Di te si dicono Spezzata lancia, Ma moralissimi Son per la pancia; Di Temi cingono L’alma corona, E tengon moccolo Al Dio Mammona. T’han messa in musica In prosa e in rima, Ma il mondo sdrucciola Peggio di prima; All’ombra placida Di tua grandezza, Si cela un’intima Spudoratezza, Tutti ti espongono Con nobil gara Siccome il balsamo Di Dulcamara. Passi qual zeffiro Che lieve spiri, E ’l mondo visiti Per mille giri; Ascendi al culmine Di reggia aurata, E là rimani Mistificata; Trascorri rapida. Discendi all’are, Ma ti tradiscono Trono ed altare. Servi di maschera A una genìa Grama per cinica Ipocrisia; Se badi a chiacchiere, Sei vocazione D’ogni ridicolo D’ogni buffone; Tutti ti spacciano A piene mani, Pseudo-filosofi E ciarlatani. Gente da trógolo Sinistra e scura, Coscienze livide D’ogni lordura Di te s’adornano E vanno attorno, Alto acclamandoti E notte e giorno; Ma sotto all’egida Della tua maglia Il marchio celano Della canaglia. Quei contafrottole Leccastivali Che ti strascinano Su pei giornali, Son gente equivoca Che fa negozio Di buone massime Per stare in ozio; Anime tenere Fior di candore Che ai loro comodi Hanno il pudore. Codesti arcangeli Della grand’era Diventan nottole In sulla sera; Deposto l’abito Dell’apparenza, Si fanno lecita Ogni impudenza, E poi risalgono Sulla bigoncia E ti contrattano Un tanto all’oncia. Nuovi proseliti De’ tuoi dettati Lenoni e protei Son diventati; Di fede in pubblico Fan l’impresario, Trecconi ignobili Dietro il sipario, E da neofiti Di simil razza Povera vittima Sei tratta in piazza. Oh! dalle nuvole Sublime Dea Scendi terribile Nuova Adrastea, E la tua collera Più non si stanchi, Sulla combricola Dei saltimbanchi Che del tuo nome Fan triste scempio, E ti profanano Altare e Tempio! FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME INDICE DEI DUE VOLUMI VOLUME PRIMO Prefazione Pag. 5 =Un Soldo= » 15 =Un’Avventura galante= » 87 VOLUME SECONDO =Una Croce meritata= » 5 Sproloquio » 7 Manifestazioni d’un genio! » 9 Eureka » 15 Nemo propheta in patria » 25 La forza del Destino » 31 Il sole entra in Capricorno » 43 La dabbenaggine alla prova » 51 Diplomazia dell’asino » 61 Apoteosi » 71 =Lei, Voi e Tu= » 75 =Versi alla buona= Il Cavaliere » 111 La Morale » 119 NOTE: [1] Badi l’attore che il sogno è una finzione... un colpo di malizia per dichiararsi. Tutto va detto leggiermente con scherzo. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 74186 ***