The Project Gutenberg eBook of Tenda e castello, by Roberto Sacchetti This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Tenda e castello Author: Roberto Sacchetti Release Date: August 2, 2023 [eBook #71320] Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK TENDA E CASTELLO *** R. SACCHETTI. TENDA E CASTELLO MILANO, LIBRERIA EDITRICE G. BRIGOLA. Corso Vittorio Emanuele, 26. 1878. PROPRIETÀ LETTERARIA. _Milano, coi tipi di G. Bernardoni._ TENDA E CASTELLO. I. Qualche anno fa, un inglese, che aveva sposato una zingara, divorziò con un processo scandaloso, e scrisse anche un libro di memorie, col quale riusciva a cangiare in interesse il ridicolo di cui la sposa l’aveva coperto. Il processo e il libro fecero rumore grande. Tutti i giornali d’Europa, compresi i nostri, copiarono dai fogli inglesi dei riassunti dell’uno, degli estratti dell’altro, e li ammanirono, come novità mai più udite, ai loro lettori. Ma il caso di un’unione così bizzarra non è nuovo. Qualcosa di simile, benchè in circostanze assai più gravi, è avvenuto parecchio tempo addietro, e se allora l’avventura non si divulgò con pari fortuna, gli è che nel nostro paese i gazzettieri sono meno solleciti nel ricercare lo scandalo e meno industri nello sfruttarlo. Se andate nell’alto Vercellese tutti vi conteranno stringendosi nelle spalle, la grande pazzia del conte Emmanuele di Peveragno. Diffatti il suo matrimonio colla bella Luscià fu la pazzia di un cervello annoiato e di un cuor generoso. Egli era l’uno e l’altro. Un pio sentimento l’attirò verso la fanciulla, — e le si affezionò poi per stravaganza. Curioso il come s’incontrarono. Il conte la sorprese un giorno ginocchioni, davanti al ritratto di sua madre, che pregava fervidamente, come davanti ad un’immagine sacra. Gli zingari di Nick avevano posto le tende in un prato sotto il giardino del castello, e Luscià colla indiscrezione soppiattona della sua gente, penetrata per una breccia del bastione, attraversato il boschetto dei nocciuoli, costeggiato il viale degli olmi dietro l’alta siepe di mortella, era sbucata innanzi alla casa. Salita la scala esterna e trovata la porta aperta, per il salotto d’estate e lo stanzino di toeletta, s’era spinta fin nella camera della fu contessa Adelaide. La divota cura della famiglia dava a quel luogo, disabitato da oltre venti anni, un aspetto di melanconia soave e di religioso raccoglimento. L’ordine scrupoloso, la severità pomposa degli arredi, i damaschi rossi a fogliami d’argento delle pareti, la luce rossa che, trapelando dalle tende seriche, digradava in una colorita penombra; — un sentore di rinchiuso, un leggero, un misterioso profumo, un alito di freschezza come di chiesa, il silenzio profondo avevano piegato a súbita reverenza la curiosità petulante della fanciulla. Crescevano l’illusione le cortine dell’alcova socchiuse, come quelle di un santuario, fra cui luccicavano nell’ombra dorature invisibili; un candelabro di bronzo che sosteneva un alto cero pasquale miniato, un piccolo reliquiario d’ebano intarsiato d’avorio, un prezioso acquasantino d’alabastro sul quale s’incrociavano un ramo d’ulivo e una palma trecciata; l’alto inginocchiatoio coi cuscini di velluto e un gran libro di preghiere aperto sul davanzale. Il piano del camino ricoperto di velluto cremisi, ricamato coll’insegne della casa, somigliava un piccolo altarino, onde, fiancheggiato da due candelieri d’oro e da due vasi di alabastro pieni di rose, s’ergeva, vero nume del luogo, oggetto di tutto quel culto, il ritratto a persona intera della contessa al tempo delle nozze. Il suo sfarzoso abito di corte, di raso bianco a mazzolini di fiori, tutto nastri e gale; la sua alta pettinatura ad _ala di colombo_, gettavano in mezzo a quell’austera armonia di colori, delle note acute, profane. Ma la zingarella non era troppo schizzinosa; nelle sue migrazioni dal Volga al Manzanare aveva visto santi e madonne conciate in tante foggie che il suo sentimento religioso non si sgomentava così di leggieri. Poi quel volto giovanile, più fanciulla che donna, bianco, delicato, nobile, fra il mesto e il sorridente, ispirava insieme il rispetto e la simpatia, temperava la fredda rigidezza del luogo, ravvivava l’aria morta, ne raddolciva l’impressione. A Luscià era parsa la Vergine senz’altro e le faceva le proprie divozioni. Il conte, nascosto dietro l’arazzo della porta, ascoltò quella strana preghiera in un linguaggio ignoto, armonioso; contemplò quella personcina bizzarra, pittorescamente cenciosa, quel visino dal profilo regolare, purissimo, della razza indostanica, bruno, pallido, lumeggiato dai riflessi dei damaschi di tinte calde, sfumate, quasi trasparenze alabastrine di un intimo fervore, di una passione intensa, — fu tocco di quella pietà ingenua, sincera, irrequieta, tutta vivacità spontanea e stravaganze leggiadre. La giovinetta pareva presa da una grande commozione; si agitava, rizzava la persona, levava la testa, poi la piegava, quasi sopraffatta dalla piena dell’affetto, curvava la fronte sino a terra, sulle tavole lustre del pavimento, si stringeva la fronte, si picchiava il petto, si copriva gli occhi colle palme, incrociava le braccia, le alzava distese, le lasciava ricader penzoloni; somigliava una statua, somigliava una delirante, un’addolorata coi coltelli nel cuore; il suo sguardo prendeva tutte le espressioni dall’afflizione al tripudio, dallo sconforto alla speranza, tremava, si velava, era timido, era temerario, era compunto, era quasi irriverente; e la sua voce anch’essa saliva, scendeva, si smorzava in toni di una varietà infinita, diventava gutturale, profonda, rauca, poi aperta, poi sonora, acuta, argentina, lenta; si faceva concitata, poi fioca di nuovo, supplichevole, dolce, e pareva, secondo i momenti, preghiera, inno, lamento, singhiozzo, rampogna; tremula di tenerezza, di desiderio, piena di grazia, di vezzi infantili, di accenti caratteristici, originali, efficaci... Quando ella fu uscita, il conte prese il suo posto e pianse. Quella voce singolare lo avea tutto rimescolato, gli aveva resuscitato nell’animo i sentimenti di fanciullo, l’amore di sua madre, l’angoscie d’averla perduta. Da molti anni la sua vita non era che un fastidioso accumularsi di tedio; esigliato dalla corte, rimosso dagli affari, dall’esercito, per aver preso parte al sogno sublime di una certa notte di marzo al palazzo Carignano; sdegnoso di rientrarvi per la porticina della grazia, ora che, per l’avvenimento al trono del regale suo complice gli pareva di aver diritto a quella gran porta d’onore; tenuto lontano dal suo posto più dalla diffidenza propria che di quella che ispirava — egli non aveva vissuto — ma passato il suo tempo. I giorni lenti, monotoni, tristi, erano discesi l’un dopo l’altro nel suo spirito, come cade la goccia nell’acqua morta della cisterna abbandonata in mezzo al deserto. Non li aveva contati, li aveva lasciati scorrere senz’altra speranza che quella di vederli terminare una volta. Gli parevano innumerevoli; si credeva in buona fede decrepito a trentacinque anni... II. Luscià tornò nei dì seguenti. Il conte spiava il suo passo leggero, la sentiva venire di lontano, distingueva fra i mille rumori della campagna il fruscio ch’ella faceva nelle frasche dei noccioli e delle mortelle. Era un soffio di vita che veniva a lui, a riscuoterlo dal travaglioso torpore della sua noia. La sua giornata aveva oramai un punto luminoso, una mezz’ora di beatitudine; e lo seguiva una dolcezza sempre maggiore, sempre più lunga, che a poco a poco invadeva le tristissime meditazioni, compenetrava la sua solitudine. Del resto egli non era invaghito di lei; appena ricordava i suoi lineamenti; non s’era mai chiesto, se fosse bella. Non la guardava, non la desiderava, la sentiva; e come qualcosa di sacro, di soprannaturale. Ella veniva in nome di un sentimento augusto; era quasi la personificazione della sua pietà figliale. Erano due adorazioni che s’incontravano. E finalmente una volta egli uscì dal suo nascondiglio, — si fe’ innanzi lento, riguardoso e venne a porsi alla sua destra sull’inginocchiatoio stemmato. La giovinetta dapprima non lo avvertì quasi, gli diè appena un’occhiata distratta e indifferente, come si fa in chiesa con un ignoto che sopraggiunge. Ma poi cominciò a guardarlo con curiosità, e subitamente fatta accorta del luogo dov’era, si alzò ed uscì frettolosa. Il conte la seguì. Ella si cacciò nelle macchie del parco; sgattaiolò nel più fitto dei rami incatricchiati senza far più rumore di un lepratto che fugge. Appena un leggiero ondeggiamento di fratte indicava il suo passaggio; qualche volta anche questo cessava, ella sembrava sparita sotto terra; ma il fruscio incominciava a una ventina di passi più in là. Il conte le tenne dietro per svolte e sentieruoli; avrebbe voluto chiamarla, ma non sapeva come; la inseguiva per rassicurarla. Questa caccia singolare durò più d’un quarto d’ora. Il conte era arrivato al muro di cinta; aveva perduta la pesta; la zingarella era forse uscita da una delle numerose breccie del bastione. Si buttò disteso sopra un cespuglio di felci, tutto vergognoso di averla lasciata scappare, pensando ch’ella non sarebbe più tornata; si rammaricava della propria balordaggine, quando la fanciulla venne improvvisamente a passargli dappresso. Il conte balzò in piedi, ed ella, come selvaggina sorpresa, si fermò di botto. Lo guatava cogli occhioni spalancati con una selvatichezza fra lo spaurito e il malizioso. — Perchè scappate, figliuola? le domandò con dolcezza il conte. Ella non rispose. — Come vi chiamate? — Luscià, figlia di Wanka, disse la zingarella. — Avete ancora vostro padre? — Padre no... — E Wanka? — Non so, mi dicono figlia di Wanka, ma è morto. Parlava speditamente un italiano scucito; filza di parole più che altro, ma di parole esattissime. — E vostra madre? — Morta. — Con chi state? — Sto con Nick figlio di Peter; aiuto mami Nad, ella mi ha allevata. — Chi è Nick? — Nick è figlio di capo: il suo carro cammina alla testa degli altri. — Nick è vostro parente? Ella non capiva. — Nick e voi siete della stessa famiglia? Luscià fe’ cenno di sì, restò un po’ soprappensieri, poi soggiunse: — Egli mi sposerà se Dan non vorrà darmi al suo Succeawa. — Chi è Dan? — Il padre Dan è il fratello di Peter, fratello di Wanka, — è il capo, egli segna la via. — Succeawa è suo figlio? — Sì. — E dov’è Dan? La fanciulla si volse dalla parte di mezzodì, stese la mano verso la grande pianura della Sesia e disse: — Là al mare. Verrà l’altra luna e passeremo tutti le montagne. — Dove andate? — Al gran fiume, alla Donau a prender cavalli; là farò le nozze. — E, disse il conte dopo un po’ d’esitazione, volete bene a Nick? Ella lo guardò stupita. — A Succeawa allora? Rimase interdetta... non capiva... — Chi volete sposare? — Non so, disse ella candidamente. Il conte arrossì. — Quanti anni avete? Diventò pensierosa; si raccolse un momento. Poi sporse il pugno destro e, aprendolo tre volte colla sinistra, disse: — Cinque e cinque e cinque. Il suo aspetto ne dimostrava di più. Il conte le stese la mano. Ella la prese, la recò, fissandolo in volto, alle sue labbra, e la baciò. Una gemma ch’egli teneva al dito mignolo fe’ brillare ne’ suoi occhi un lampo di cupidigia. Al conte non isfuggì quell’occhiata. — Vi piace? E senz’altro, levato l’anello, glielo porse. Luscià lo prese vivamente e lo nascose nel corsetto, dicendo: — _Mami_ Nad e Nick me lo piglierebbero. Seguì una pausa. Il conte sembrava assorto in profonde meditazioni. La giovinetta s’era seduta sull’erba. Lo guardava sempre con quella sua aria di curiosità servile e provocante. Poco a poco, dalle sue pupille profonde, scattava un’espressione di viva meraviglia. — Tu, bel _rai_, non vuoi nulla da me? domandò con voce gutturale, quasi roca. Il conte, distratto, non rispose. Ella si alzò. Il conte le chiese: — Luscià, tornerete? Fe’ segno di sì. — La mia casa è aperta; venite quando vorrete, egli soggiunse. La giovinetta si allontanò. Da quella parte erano cresciuti sul margine del bastione alcuni cespugli di alborno che protendevano i loro rami sulla fossa sottoposta, donde salivano ad aggrovigliarvisi coi loro viticci tenaci l’edere, le madreselve, e una petulante tribù di liane dalle bacche vermiglie, dai fiorellini bianchi, rosati, violetti, dai grappoli porporini. La zingarella s’aggrappò ai rami del cespuglio, un momento, poi scivolò giù fra le liane, districandosi lestamente da quel fitto viluppo senza che un solo capello o un filo del corto gonnellino rimanessero impigliati. Quando fu a terra spiccò la corsa giù per la china, gettando acuti gridolini festosi; l’erbe si curvavano appena sotto il suo piede, e le innumerevoli margherite si rialzavano, quand’era oltrepassata, come grand’occhi spalancati a contemplarla. La fanciulla scendeva tagliando di sbieco la costa verso il poggetto dove stava accampata la sua gente. Le tende degli zingari rosseggiavano al sole cadente. I fuochi erano accesi nel circolo; il fumo denso, bianco, usciva dall’accampamento, e la brezza vespertina lo piegava al suolo, lo sparpagliava in fiocchi tremolanti. Luscià scomparve come in un’aureola. Tale fu il primo incontro del conte colla bella vagabonda, incontro di due destini infelici, di due esistenze reiette. III. Benchè il conte avesse dati gli ordini alla famiglia perchè la giovinetta si lasciasse venire in castello senza molestie, ella preferiva entrarci per le rovine del bastione. E il vecchio maggiordomo, d’altra parte, non poteva rassegnarsi a non tenerla d’occhio. Il poveretto non capiva il perchè si desse tanta libertà a quella _mala semenza_... Però egli doveva vederne ben altre: era cominciato tutto un ordine di cose per lui impossibile, assurdo. La sua diffidenza era pur troppo giustificata. Non tardò ad averne la prova. Gli era venuto il sospetto che la zingarella avesse le mani pronte quanto i desiderj: parecchi oggetti, di poco valore a dir vero, piuttosto gingilli che altro, erano scomparsi dalle stanze dov’ella entrava. E un dì ch’era venuta più presto dell’usato, stando egli dalla finestra del proprio casotto, la vide che, salita su una sedia, staccava dal muro nel salotto una preziosa medaglia d’oro. Accorse, con tutta la premura che le sue vecchie gambe gli consentivano, per coglierla in flagrante. Non trovandola più nel salotto, tirò dritto alla camera della contessa, meta solita delle sue visite. Ma, quivi giunto, quale non fu la sua sorpresa di scoprire il padrone che teneva la mano della giovinetta in atto di amorevole confidenza! lasciò cadere l’arazzo, rimase un momento inchiodato là dallo stupore, poi fuggì colle mani nei capegli, convinto dalle parole che aveva inteso, senza volerlo, che il povero conte Emmanuele avesse finito coll’impazzire. IV. Il conte diceva a Luscià, indicandole il ritratto della madre: — Vuoi prendere il suo posto? diventare, come era lei, la padrona di tutto ciò che la mia casa possiede? la signora di tutti, cominciando da me? Egli era sereno; la sua voce seria, tranquilla, non esprimeva la passione, ma un proposito lungamente meditato. Aveva tanto tempo cercato uno scopo alla sua vita desolata, una cura, un pensiero, colle quali riempire la sua triste solitudine: e fra tutti il disegno di farsi egli nobile, dovizioso, stanco, sgloriato, la provvidenza di qualche povera creatura, di dare alla propria ricchezza il valore nuovo del godimento altrui, gli era sempre parso il più seducente. L’umile condizione di Luscià non era per lui un ostacolo, ma un’attrattiva di più, un raffinato aumento d’ideale; più ella veniva dal basso e più alto sarebbe stato il benefizio. Ella avrebbe dovuto salire per sua mano tutta la scala immensa dalla vita nomade alla civiltà, e, ad ogni gradino, il suo amor proprio avrebbe trovato una gioia, una compiacenza. Ma non era solo egoismo: le sue risoluzioni prendevano quasi l’aspetto di un dovere. Le circostanze singolari dell’incontro colla Luscià avevano determinata la sua scelta, e la nobilitavano a’ suoi occhi. Il trovarla nella camera della madre, a quel posto sacro al suo dolore, non poteva sembrargli interamente casuale. Un’intima, una vaga superstizione del suo cuore solitario stabiliva dei rapporti fra l’adorazione della fanciulla e il ricordo della madre, dava alla zingarella qualcosa della dignità della contessa: la metteva quasi sotto la sua protezione. Non era un favore soltanto che egli le dava, era un diritto che le riconosceva: un destino misterioso l’aveva mandata colà nel santuario famigliare, nel cuore della sua casa — egli le dava il permesso di rimanervi — null’altro. Perciò le diceva: — vuoi tu essere la signora? — come avrebbe offerto un omaggio dovuto o un’ospitalità obbligatoria. E Luscià lo guardò stupita. Il conte la condusse per mano fra tortuose scalette e misteriosi corridoi fino all’alta specola della torre quadrata, e quivi, affacciato al parapetto merlato, le indicò senza albagia, quasi senza compiacenza, come i suoi padri avrebbero rassegnato al sovrano i loro titoli di vassallo, le indicò le sue possessioni, che dalle pendici di Peveragno alle rive della Sesia offrivano allo sguardo folti boschi, numerose schiere di viti, gialli campi e bianche risaie: un piccolo regno dove un piccolo popolo lavorava per lui. Ma Luscià restò indifferente. L’idea della proprietà non l’era mai venuta a quel modo. Quella verde distesa serviva forse ad altro che a pascolar i cavalli? Della terra ella ne aveva veduto sfilare tanta e tanta dinanzi ai suoi occhi sonnacchiosi stando accoccolata sul carro di Nick, al fianco di _mami_ Nad, senza lasciare sulla strada percorsa l’ombra di un desiderio o di un rammarico: patria, dominio, erano nomi ignoti, vuoti di senso per lei. La contea di Peveragno era appena un cantuccio del vasto mondo da lei attraversato da oriente a ponente sotto la sferza del sole. Ella diede a tutto ciò un’occhiata distratta, stringendo con mano furtiva ed amorosa sul seno la medaglia, almanaccando per il proprio gingillo nascondiglio capace di sottrarlo all’occhio avido di Nick e di _mami_ Nad. Il conte le fece poi visitare il castello, la condusse, sempre tenendola per mano, per il vasto dedalo di sale, di androni, di bugigattoli, di ripostigli, in cui la sua stirpe s’era svolta orgogliosa, e poi a poco a poco inaridita. Scesero dai solai al terzo piano, una volta dispensa e gineceo, dove stavano le donne e si tenevano le provviste per la casa, dove i grandi armadj della biancheria, in legno di quercia appena digrossato, coprivano i muri dal pavimento di nude assi al soffitto di travicelli; fra l’una all’altra stanza si aprivano dei piccoli ripostigli in cui si custodivano le conserve di frutti, di farine, di olii, di commestibili d’ogni maniera; piccoli tesori la cui chiave non abbandonava mai la cintura della padrona. Entrarono nella stanza di lavoro, locale immenso posto sul pianerottolo, nel mezzo dell’ala posteriore del castello, fra la dispensa e le camere delle donne, rischiarato da quattro alti finestroni grigliati, da cui la luce pioveva a fiotti e non apparivano altre distrazioni che le nuvole vaganti pel cielo e la vetta nevosa dell’Alpi lontane. Colà, dall’alto del seggiolone di legno, a dossale e bracciuoli uniti a foggia di tribuna, scendeva un tempo sul garrulo crocchio delle fantesche il vigile sguardo e la parola temuta della castellana; ed ora, inutile scettro di un regno deserto, la venerabile conocchia, sovrana dalle gretole dorate e dall’animella d’argento stemmata, dominava sopra una fila di arcolai sgangherati, di fusi tarlati, di zoppi scannetti, inerti ricordi di un’attività estinta, di una vita soffocata sotto l’alta polvere e i fitti ragnateli. Attraversarono poi gli appartamenti signorili, al secondo piano, lunga fila di stanze fredde, deserte, quasi interamente sguarnite, dalle quali la famiglia s’era a poco a poco ritirata nella camera della torre quadrata, malinconico rifugio d’una grandezza decrepita; tabernacolo dove l’antica potenza sonnechiava negl’inutili e travagliosi rammarichi. Sotto, invece della desolazione, una tristezza fastosa, una severa ricchezza di arredi, la galleria dei ritratti, l’armeria, la gran sala dei festini, l’antica sala di udienza, il tinello, le stanze del gineceo, di conversazione, e nel mezzo gli appartamenti degli ospiti. Camini alti dai ricchi stipiti di granito e di cipollino; i pavimenti di legno intarsiato, i muri dipinti, coperti di arazzi o di tappezzerie chinesi, soffitti a cassettoni, a medaglioni indorati, scolpiti, istoriati, vaste specchiere, sovrapporte dipinte dal Cignaroli, dal Moncalvo, dall’Aires; una strepitosa confusione di stili, in cui prevaleva il barocco colle sue fantasticherie pesanti, colle sue arditezze piene di sussiego. In una di quelle camere, dall’imperatore Ottone, autore della casa, a Napoleone, che aveva deliberato invano di distruggerla, col confiscarne i beni e regalarne il castello al Comune, molti sovrani avevano alloggiato: c’era stato Galezzo tornando colla sposa di Francia, e Luigi XII e lo Sforza e il Moro e Carlo VIII, seduttore infelice, da cui una Peveragno, rigida bellezza, aveva, caso raro, ricevuto omaggio senza dar compenso; poi una fila di sovrani sabaudi da Emanuele Filiberto in poi, una lunga fila di leggendarie figure, di follie, di superbie, di ambizioni, di alti concetti, di cupidigie fastose, di sovrane liberalità: e di tutti costoro, di tutto ciò rimaneva qualche cosa: uno stemma, una decorazione, un titolo, una pergamena, un gingillo, una spada rugginosa, una sciarpa sfilacciata, un elogio, una petulanza, una medaglia, un aneddoto, una parola, memorie moribonde di morte grandezze. Luscià, più intimidita che ammirata di tutte quelle magnificenze patrizie, sbigottita da tutta quella tetraggine, da quel mondo incomprensibile, dai volti arcigni che pendevano ai muri, dai morioni che la guardavano per le vuote occhiaie, dallo scricchiolar dei pavimenti, dagli echi profondi, voci eloquenti del vuoto e dell’abbandono, si stringeva al fianco del conte; e neanco osava guardarlo in viso, perchè alla luce giallastra degli androni, fra le penombre degli anditi e delle scale, anche egli colla sua lunga barba rossa, con quella sua cera malinconica e squallida, coll’azzurra pupilla velata di pensieri, alto, stecchito, silenzioso, aveva quasi l’aria di un risuscitato. Ella non capiva bene il perchè della lunga rassegna; sentiva un vivo desiderio di scappar fuori all’aria aperta, di correre al sole, di ritornare in mezzo al frastuono, al garrito dell’accampamento, di sentir l’allegro picchiare di martelli cadenzati di canzoni e di bestemmie. Ma si rasserenò ad un tratto quando, tornati alla fine nella camera della contessa, il conte levò da un armadio uno stipo, una maraviglia di ebano intarsiato d’avorio e di madreperla, istoriato di puttini e di rabeschi mirabili, l’aperse, e le disse: — Sono i gioielli di mia madre, e saranno i vostri. Luscià rise e saltellò con infantile tripudio innanzi a quel tesoro, ammucchiato di generazione in generazione trasmesso dall’una all’altra contessa di Peveragno, che narrava coi patrizii suggelli una lunga storia di blasoni, di parentadi illustri, di alleanze con le più alte famiglie d’Europa. La zingarella non vedeva in tutto ciò che il lucciccar degli ori, il balenar sanguigno dei rubini, il marezzar dell’opale, dell’agate, delle perle, il glauco bagliore dei topazii e degli smeraldi. Una pazza ebbrezza le faceva balenar gli occhi, rabbrividiva di delizie ignote; l’istinto della vanità femminile si risvegliava possente nel suo cuore ignorante; avrebbe voluto mettersele addosso tutte in una volta, mostrarle a tutto il mondo e nasconderle perfino all’aria. — Luscià, tu non mi hai ancora risposto. — Tua _romni_, tua _romni_, bel _rai_! esclamò con impeto la zingara, battendo palma contro palma. Prima di congedarla il conte disse a Luscià: — Va e conducimi qualcuno della tua gente, perchè io tratti con esso della tua sorte. E la giovinetta se n’andò questa volta lentamente, tutta pensosa della grande novella ch’ella recava alla sua gente. Aveva promesso di tornare prima di sera; ma non venne. Il conte l’aspettò per tre giorni di seguito, poi disse alla figlia del cuoco di prendere seco una torta e di andarne in traccia fin nelle tende. La ragazza tornò dopo mezz’ora sola, colle mani vuote. L’offerta aveva incontrato il gradimento di tutti: il pasticcio era stato sequestrato e divorato in sua presenza. Ma Luscià era scomparsa dall’accampamento. Nessuno degli zingari pareva saperne nulla: alle sue domande si stringevano nelle spalle, come si trattasse di cosa che non li riguardasse: un ragazzetto che la seguì un pezzo fuori delle tende, avevale detto che la giovane figlia di _mami_ Nad era stata condotta al _baro pani_, al mare, ma non sapeva altro. IV. Il conte in tutte le cose preferiva la strada diritta. Mandò a chiamar Nick. E Nick figlio di Peter venne l’indomani, scortato da due _romes_ della sua squadra. Quando si presentò alla porta del castello, Antonio, che a malincuore obbediva all’ordine ricevuto dal conte d’introdurlo, si sforzò invano di trattenere i due compagni. Nick vi si oppose ostinatamente; giurò per tutti i suoi _dewol_ che senza loro non avrebbe fatto un passo solo oltre la soglia. Egli era un perfetto campione della sua razza; possedeva al più alto grado la servile scaltrezza e la spavalderia petulante, — le due caratteristiche accoppiate di quella plebaglia, che da tanti secoli trascina per il fango di tutto il mondo la sua primitiva abbiezione del Soudra indostanico. Nick spiegava a perfezione l’una e l’altra di queste sue qualità, secondo i casi. Girando per le case, per guadagnarsi il pane, quando non poteva azzaffarlo senza fatica, si mostrava umile, dimesso, insistente. Non c’era paiolo che, passando per le sue mani, non comparisse bucherato in più luoghi, e che egli, colle sue istanze, non riuscisse a farsi rilasciare per la rattoppatura. Ma, all’occasione, nessuno sapeva far valere più alto di lui, al cospetto di un estraneo alle sue razze, a un _gadchi_ qualunque la sua aristocratica qualità di _Romnitschel_, figlio della donna. Gesù era «figlio dell’uomo;» — lo zingaro è «figlio della donna» e il suo _me hom Romnitschel_, vale, per lui, il _civis romanus sum_. È il suo titolo nobiliare, il suo segno di riconoscimento, la sua protesta. Lo zingaro, nella sua dispersione secolare, è la copia vile dell’Israelita; ma la stirpe di Abramo ha le tradizioni di Canaan, il suo Dio, il suo libro santo; lo zingaro non ha che quella formula sacramentale talismanica, in cui compendia il suo diritto di umanità; egli è _figlio della donna_; tutti gli altri non sono che figli di _mannischi_, di _ghiromni_, di femmine, — _gadchi_. L’Israelita ha credenze comuni con le razze in mezzo alle quali va migrando; tutti riconoscono in lui il degenere rampollo di una stirpe illustre, santa. Lo zingaro, il discendente del vecchio Soudra, dell’ilota indiano, senza patria, senza Dio, polvere umana calpestata da tutto il genere umano, è il nemico implacabile di tutte le razze; egli prende da loro la terra, il pane, le credenze, i costumi, e non conserva di proprio, che l’imprecazione con cui maledirle; egli è il parassita eterno, cosmopolita; egli strappa il suo alimento a tutti i popoli della terra, quando non può rubarlo lo froda, lo paga colle sue menzogne, colle sue infezioni, col suo putridume: combatte l’umanità, alla guisa del verme e dell’ácaro, rodendone le fibre e succhiandone il sangue. Antonio dovette, suo malgrado, cedere — egli si mosse per avvertire il padrone — e gli altri lo seguirono. Tutti insieme penetrarono nel castello, brontolando, bisticciandosi; gli zingari alzando tanto più la voce, quanto più Antonio abbassava la propria. Il diverbio si riaccese alla porta dello scrittoio, dove essi vollero cacciarsi senza aspettare d’essere annunziati. Il conte intervenne. Nick capì a bella prima il suo vantaggio. — Voi mi avete chiamato, diss’egli al conte, io sono venuto; sono venuto coi miei _rome_; essi sono la mia scorta e mi obbediscono; perchè voi non vi fate ascoltare dai vostri _veleter_? perchè si vieta ad Andrea ed Angheluzzà di accompagnare me, loro capo? Il conte ordinò ad Antonio di lasciarli entrare e di mandar loro del vino. E poichè Antonio, inquieto, occupato a guardare i due aiutanti, che giravano intorno alla stanza con certe arie sospette, indugiava ad uscire, Nick gli disse burbanzosamente: — _Veleto_, il tuo _derai_ ti ha comandato di portar da bere ai _romes_. Poi sedette sulla sedia che il conte gli indicò, davanti alla scrivania, appoggiò le due palme al grosso pomo d’argento della propria mazza di tamburo maggiore e prese un’attitudine grave, maestosa, pari alla sua dignità e alla importanza del colloquio che presentiva. Nick era un bel giovane, svelto, di buona statura, ben formato, il petto largo, le spalle aperte, il collo vigoroso ed elegante; il volume de’ suoi capelli neri, unti, lucenti, usciva di sotto allo stretto _muschi_ gallonato d’argento, ricadeva in ciocche ricciute sul bavero ricamato dell’abito scuro, giù fino ai cordoni che gli attraversavano il petto. Il suo viso era bruno-pallido, incorniciato da una barba nascente su di un profilo purissimo, colla fronte liscia, e aveva nell’occhio nero, profondo, con dei subitanei baleni di vivacità arguta, l’espressione malinconica, quasi cupa, della sua razza. Egli vestiva l’abito prediletto di un capo magiaro; i suoi compagni erano più dimessi; uno di essi teneva un cappellino tondo da contadino, e l’altro recava alla vita un vecchio panciotto coi bottoni d’argento, da cui uscivano le braccia, che la camicia a brandelli copriva solo imperfettamente. Il conte domandò a Nick se sapeva quel che voleva dirgli, e se Luscià non l’aveva informato di nulla. Nick rispose in italiano; — Chi vuol parlare coi _romes_ non manda le loro donne. Io non so nulla. Il conte gli manifestò la sua intenzione di sposare Luscià. Lo zingaro non mostrò meraviglia, non si mosse, tacque fissandolo in viso. — Voi sapete, io sono ricco, soggiunse il conte, non ho fratelli, non ho parenti prossimi; tutto ciò ch’io posseggo sarà di vostra cugina, i miei beni, la mia casa, il mio nome, tutto... In quella entrò il servo col vino: colmò il bicchiere a Nick, ad Angheluzzà, ad Andrea, e, ad un cenno del padrone, stava per andarsene; ma prima che uscisse, uno degli zingari gli prese di mano la bottiglia e il sottocoppa, facendogli un gesto comico di andarsene. Il conte riprese: — Io voglio fare a Luscià una sorte. Spero le permetterete di accettarla. Nick aveva preso in mano un grazioso temperino di madreperla rilegato in oro e lo esaminava con grande attenzione. — Sentite, diss’egli, come rispondesse al discorso del conte, se voleste darmi questo, io vi lascerei, in cambio, una pipa di vero schemnitz. E la mostrò. Il conte fe’ un gesto distratto di consenso; lo zingaro depose la pipa sull’orlo della tavola e ficcò, in pari tempo, il temperino nello sparato dell’abito. Poi, risolto questo piccolo incidente, si rizzò di nuovo sulla persona con nobile sussiego. — Voi volete sposare la figlia di Wanka, disse egli finalmente, dopo che il conte gli ebbe ripetuta la dimanda; ma la _tschek_ è già fidanzata. — Fidanzata con voi? — Con Suceawa, il figlio di Dan il _balubassa_; egli è malato; se fra un anno non guarisce, Luscià sposerà me, che sono il suo secondo germano. — E voi ci tenete a questo matrimonio? — È la nostra usanza; le figlie sposano il parente più prossimo. — E non v’importerebbe rinunziarvi? Nick alzò le spalle. — Dunque acconsentireste? — Ciò dipende da Dan; egli è il nostro capo, il _balubassa_. — E dov’è Dan? Nick rispose come aveva fatto Luscià: — Al mare. — Verrà qui? — Non so... — Vi troverete insieme presto? — Non so... egli comanda, io obbedisco. — Non si potrebbe avvertirlo? disse il conte dopo una pausa. Nick tese il bicchiere vuoto a uno dei compagni, che si affrettò a colmarglielo; poi egli lo sgocciolò lentamente sino all’ultima stilla. — Volete avvertirlo? ripetè il conte. Lo zingaro domandò: — Voi, _rai_, non fumate? E riprese la pipa sulla tavola, la caricò, l’accese, rasserenandosi in viso, come fosse liberato da una grave cura; i suoi occhi maliziosi lucevano di soddisfazione. — Si può avvertire; ma bisogna mandare un uomo; io ho pochi cavalli e la strada è lunga. — Non importa, mandatelo, penso io a spesarlo. Il conte trasse alcuni marenghi e glieli porse. — Siamo intesi? — Sì, _rai_. — E Luscià dov’è?... Domandò il conte dopo un po’ d’esitanza. — Con Dan, rispose Nick, riponendo tranquillamente la sua pipa in tasca. Il colloquio era finito. Il conte s’alzò, ed anche lo zingaro; però, prima di uscire, egli tornò indietro e disse: — I miei _romes_ accetterebbero volontieri un paio dei vostri calzoni. Angheluzzà fe’ sparire rapidamente in tasca un oggetto, che aveva trovato di suo gusto, sovra una scansia, e soggiunse facendosi innanzi: — Accetterei volontieri... — Volontieri, ripetè Andrea, — ed anche un cappello. Il conte chiamò il servo; gli ingiunse di condurli alla sua guardaroba e di dar loro quel che volevano. Avuti i calzoni e il cappello, uscirono coll’incesso solenne di ambasciatori che hanno stabilito i preliminari di un trattato. V. Ma le cose non seguirono colla sollecitudine che il conte avrebbe desiderato. Nick lo teneva sulla corda; s’erano incontrate delle difficoltà; — la malattia di Suceawa, le usanze della loro gente, gli scrupoli di Dan, la lontananza; egli però inviava al _balubassa_ dei messaggi continui, dei quali il conte faceva le spese. Intanto l’accampamento invadeva il castello. Nick, sotto pretesto che sul poggetto delle quercie era esposto ai venti di tramontana, aveva trasportate le tende sullo spianato a fianco del portone. Egli usava ed abusava della sua libertà d’ingresso; e il suo abuso serviva di titoli ai compagni. Egli veniva a tutte l’ore nello studio del conte, e raramente ne usciva a mani vote. In questo mentre la sua gente si ficcava nei cortili, nelle stalle; le donne irrompevano nelle cucine, gli uomini sui fienili, e i ragazzi nell’orto, nel giardino, dappertutto, mendicando, rubacchiando; umili, insolenti, beffardi; scacciati, ritornavano poco dopo alla preda, come i tafani. Il maggiordomo era disperato, credeva d’impazzire. Qualche volta gli «sfuggiva» una qualche bastonata, o qualche pedata; ma il sollievo era poco in confronto del tormento. E gli bisognava usar prudenza, rispettare la volontà del padrone. Il quale, più che mai infervorato nel suo progetto romanzesco, non vedeva nulla, non voleva sentir nulla, passava la giornata chiuso o galoppava per la campagna, ricamandolo coll’immaginazione di nuove delizie e di nuove finezze. In una di queste sue corse essendosi dilungato di circa cinque o sei miglia da Peveragno, dalla parte di Santhià, incontrò una vecchia zingara che raccoglieva erbe sul margine d’un prato. La donna parve riconoscerlo e lo salutò. Il conte si fermò a guardarla — ed allora essa lo salutò di nuovo, gli venne incontro, e, guardandosi intorno per precauzione, gli disse: — Se il _derai_ regalasse la povera Nad, essa direbbe qualcosa. Egli le buttò una moneta, e stava per allontanarsi, ma la vecchia riprese: — Nick ingannatore, ingannatore. — Perchè? domandò il conte. — Egli non dir nulla, non far nulla, promettere, non mantenere. E così, con questo linguaggio scucito, gli disse ch’era Nad la nonna di Luscià, gli contò come Nick avesse allontanata lei con la nipotina dall’accampamento di Peveragno per profittare più a lungo della sua bontà. La vecchia abbassò la voce. — Se voi volete vedere Luscià... — È qui? dove? La vecchia gli indicò il profilo di alcune tende che apparivano fra i salci. — Volete? Ella si allontanò frettolosamente, e il conte, smontato da cavallo, sedette contro la ripa della strada, le briglie in mano, ad aspettarla. Poco dopo Luscià, sbucando da un vicino campo di granoturco, gli buttava le braccia al collo, sclamando: — _Bel rai, buon rai, sor lo rai_, sei venuto vedere Luscià, Luscià t’aspettava, Luscià innamorata dei tuoi begl’occhi, che hai recato a Luscià, bel _rai_, buon _rai_? Così tutto d’un fiato. Poi tacque, abbandonandosigli voluttuosamente sul petto e sulle ginocchia. Aveva il viso acceso, gli occhi lucenti, i capelli vagamente scomposti e cosparsi di fioralisi; il suo corsetto celava a stento il seno precocemente turgido: era affascinante. Il sole era alto, abbagliante, il cielo striato di sottili strisce bianche, l’aria grave, profumata di vapori ardenti; nei campi uno stormire leggero, un brivido soffocato; una cicala strideva ad intervalli e cresceva il silenzio. Il conte, impacciato, si schermiva debolmente da quell’improvvisa festa della fanciulla. E Luscià smetteva le sue tenerezze, si quetava ad un tratto, si rizzava in piedi, non intimidita, ma docile, indifferente. Egli chiese di Nad. La vecchia non era lontana; accorse prima che Luscià la chiamasse. Il conte, avendole promesso ricompensa se riusciva ad avvertir il _balubassa_, ella lo condusse da Cihari, il capo della squadra colà accampata; il quale, lietissimo di supplantare Nick nelle trattative e nella senseria, si profuse in proteste di devozione, dichiarò che Dan non poteva tardare a passare per la Val Sesia, che sarebbe andato ad incontrarlo, e glielo avrebbe condotto a Peveragno. Così restarono. VI. Cihari fu di parola: prima che la settimana finisse venne dal conte e gli indicò una lunga carovana che saliva prestamente la china. Era il _balubassa_ che arrivava. Nick coi suoi uomini scendeva in gran fretta ad incontrarlo. I nuovi venuti, giunti in cima alla collina, si fermarono aspettando il permesso del conte. Essendo Cihari ridisceso a recarglielo, salirono dalla strada nel Ronco di San Nazario, terreno dissodato di fresco, ricchissimo di erba, che il proprietario aveva loro per speciale deferenza concesso. Trassero i carri in circolo, staccarono i cavalli; tirarono le tende; e in meno di mezz’ora il villaggio primitivo sorse come per incanto; non vi mancava nulla: nè il gridìo dei ragazzi che schiamazzavano nei dintorni, nè l’affaccendarsi delle donne, nè le spire turchine di fumo dei focolari, nè la tranquilla beatitudine degli uomini che riposavano sul limitare. Il conte Emanuele pensava con viva emozione ai suoi antichi padri, che dopo un lungo e travaglioso ramingare, erano venuti forse in quella stessa guisa, così poveri e cenciosi, a posarsi sul terreno concesso poi alla loro progenie. Poco prima del tramonto il conte venne in persona a trovar Dan al Ronco di San Nazario. Cihari l’introdusse. L’accampamento era il doppio più grande di quello di Nick: lo formavano nove tende, quattro per banda ed una in fondo, rimpetto all’ingresso, raccolte in un cerchio elittico, aperte dalla parte interna, occupate quasi interamente dai carri, che servivano di letto pei bambini, di canterano e di guardaroba, pieni zeppi di ciarpe, di barattoli, di cose senza nome e senza colore, alla rifusa, a mucchi informi, donde spuntavano braccia nude e gambe calzate di lunghi stivali. Le donne, sedute, agucchiavano silenziose, e un brulichio di bambini seminudi ingombravano lo spazio nel mezzo. Il _balubassa_, geloso della propria dignità, non si mosse punto all’arrivo del conte; l’aspettò seduto colle gambe incrociate innanzi alla sua tenda in fondo, la più alta, la più grande di tutte, — sul confine del doppio suo regno di padre e di capo. Aveva l’aspetto d’un uomo molto innanzi negli anni, ma non decrepito: il suo volto pingue, un po’ floscio, rivelava una grande robustezza e serbava le traccie di una primitiva arditezza; due lunghi baffi bianchi gli scendevano giù sul petto. L’abito degli slavi danubiani mezzo greco, mezzo ungherese, il portamento maestoso, gli davano un’aria di re orientale. Fumava in una lunga pipa. Sdraiato alla sua destra un giovinetto macilento, smunto, guardava il conte con occhio cupo, malinconico; era il povero Suceawa, l’ultimo dei figli di Dan, moribondo superstite di una numerosa schiera di fratelli. Dan parlò a Cihari sommessamente; — egli comprendeva perfettamente la lingua del paese, ma, per decoro, si serviva d’interprete. Cihari disse al conte porgendogli un piccolo sgabello: — Dan, figlio di Michel, nostro capo, fa augurio, o _derai_, che i vostri cavalli abbiano lunga vita, e vi prega di sedere e dirgli l’animo vostro. Il conte rispose: — Voi Cihari sapete ciò ch’io voglio; ditelo a Dan e riferitemi le sue intenzioni. Dan gli fe’ dire da Cihari che la cosa non era regolare: ma che avrebbe acconsentito a patto che egli facesse alla tribù i doni che si convenivano alla stirpe della fanciulla. Suceawa si contorse gemendo, e saettò al conte un’occhiata di odio ineffabile. Cihari enumerò poi le pretese del _balubassa_. Intanto il vecchio lisciava i suoi lunghi baffi bianchi e scrutava, coll’avidità di un mercante, il volto del conte. Questi accettò le condizioni senza discuterle, avrebbe pagato in danaro la dote di Luscià, regalato un cavallo al _balubassa_ e un abito nuovo a tutti i suoi capi squadra. Dan fe’ recare una tazza colma di acqua, fe’ bere il conte, v’intinse egli le labbra, poi la infranse. — Così la strana alleanza fu suggellata; — e servirono d’augurio i sordi gemiti di Suceawa. VII. Il conte Emanuele non fece mistero del suo matrimonio: si sapeva ch’egli era la caparbietà in persona; nessuno più di lui meritava quella taccia di matto che il popolo ha dato alla vecchia nobiltà piemontese. Il solo marchese di Nomis, osò dargli qualche indiretto avvertimento. Quando il conte, ch’era un po’ suo parente e faceva gran caso della sua amicizia, venne ad annunziargli il proprio divisamento, l’illustre naturalista non si mostrò nè stupito, nè spiacente. Ma dopo desinare, passeggiando con lui nel giardino prese due margherite, una doppia, l’altra selvatica; e mostrandole all’amico: — Sono certamente della stessa famiglia, gli disse, la varietà non è che effetto della diversa coltura e del diverso alimento: ma il piantare le due pianticelle sulla stessa zolla non basterebbe ancora a far sparire una differenza di forme che rappresenta il lento lavorìo di chissà quanti secoli. Il conte non disse nulla, si rannuvolò e poco dopo prese commiato. VIII. Le nozze si fecero il giorno di San Giovanni. Un’ora prima della cerimonia il conte Emanuele venne a trovar Luscià nella casa lasciata dalla contessa alla nutrice Brigida, dove Luscià dimorava da una settimana attorniata da un piccolo esercito di sarte, di crestaie e di cucitrici. — Luscià — le disse commosso — noi vivremo d’ora innanzi sempre insieme: tu sarai la mia signora; e così tu possa essere contenta nella mia vecchia casa com’io desidero. Io farò sempre il tuo volere, e tu che farai per me? — Non so, rispose la giovinetta ingenuamente. Allora lo sposo la prese per mano, e, con una gravità piena di tenerezza, le parlò lungamente degli obblighi e dei diritti della nuova condizione, di questi più che di quelli, delle sue premure più che delle sue esigenze; — accennò ai riguardi dovuti al suo grado, non chiese nulla per sè stesso. Egli non cercava il piacere, non chiedeva la felicità, voleva darla. La giovinetta non disse nulla; seria, immobile, gli fissava in volto uno sguardo vago, meditabondo. Comprese ella la sua devozione? Al conte parve di sì. Dopo la benedizione nuziale nella cappella del castello, il conte condusse la sposa nel suo appartamento. Quivi Luscià spiegò tutto il suo corredo, le sue vesti, i suoi gioielli, e fatte entrare le donne della sua gente, quante ce ne capivano, indossò l’una dopo l’altra innanzi a loro tutte quelle meraviglie; segno visibile e più invidiato della sua fortuna. Le zingare la contemplavano a mani giunte, scoppiavano in grida d’ammirazione, di religioso entusiasmo. La birichina, la compagna delle loro corse vagabonde, che aveva diviso i loro cenci, con la quale si erano cento volte accapigliate — si trasfigurava per quello sfolgorìo di colori e di splendori in qualcosa di rispettabile, di adorabile. Al pranzo non assistettero che il sindaco e il dottore; i due testimoni del matrimonio. Il conte aveva pregato Dan di venire, ma egli preferì rimanersene re nella propria tenda: solo richiese un’enorme quantità di provvigioni per banchettar la sua gente. Le nozze, malgrado l’assenza della nobiltà, cui la casa di Peveragno apparteneva, furono festeggiate in modo straordinario, colla munificenza rozza e strepitosa delle leggende orientali e delle saghe scandinave, compresi i banchetti colossali senza fine e le baruffe, gli alterchi di razza fra i paesani e gli ospiti. Tutte le sparse squadre della tribù erano venute a raccogliersi intorno al loro vecchio capo. V’erano gli uomini di Cihari, quelli di Andrea, quelli di Gurka, di Barbà. Dal castello alle case del paese, fra i castagneti, ai due lati della strada, era tutto un accampamento; un vero e grande villaggio di tende, un formicolìo lurido e pittoresco, una gozzoviglia vivace, clamorosa, sterminata. Dan convitò tutti i capi famiglia a San Nazario: i giovani, le donne, i ragazzi mangiarono, sdraiati sull’erba sui margini della strada, sparpagliati per la china a gruppi, a capannelli intorno alle marmitte, alle cucine, ai fornelli improvvisati. Dopo il vespro gli sposi discesero al Ronco di San Nazario. Luscià col suo abito di raso bianco a pagliuzze d’oro era sfolgorante, tutti i _romes_ si alzarono per renderle omaggio. Il solo Nick rimase fermo sull’erba, col bicchiere fra le labbra: i suoi denti stritolarono il cristallo. Nessuno guardò il conte; appena Dan si degnò fargli dire da Cihari che il vino datogli era cattivo. I capi si accosciarono di nuovo sull’erba e Luscià presentò loro la coppa del buon pronostico; ciascuno beveva e le faceva ad alta voce un augurio. Quando venne la sua volta, Nick aggiunse al saluto d’obbligo alcune parole smozzicate fra i denti. La giovane balenò; uno spruzzo di vino cadde sulla sua veste nuziale e le fe’ una piccola macchia sanguigna. Il giro, cominciato da Dan, si chiuse con lui: egli bevette il primo e tornò a bere per l’ultimo: egli aggiunse stavolta al complimento una piccola monetuzza d’argento che gettò nella coppa. Ma Luscià notò che al suo fianco era vuoto il posto di Suceawa, il quale, come figlio del _balubassa_, aveva diritto di assidersi alla mensa d’onore. Le libazioni più frequenti e numerose scomposero la gravità dell’assemblea. Luscià si scostò dal circolo: aveva visto Suceawa disteso al sole in mezzo al prato. Gli si avvicinò. L’infelice si dibatteva sotto il brivido della febbre. Lo chiamò per nome carezzevolmente; e gli offerse la coppa che aveva riempita per lui. Egli si voltò, la guardò stupita un momento: poi prese la coppa, vi accostò le labbra, — ma tosto la gettò come gli scottasse le labbra, e si ravvoltolò con un rantolo angoscioso sul terreno. Luscià si chinò; gli prese la fronte tra le mani, e cominciò a parlargli: egli singhiozzava. Ma ad un tratto si adombrò, si contorse di nuovo, la respinse. Ella tornò al Ronco. Il convito era finito; l’orgia cominciava. Nuovo vino era venuto dal castello, e questa volta Dan s’era degnato d’invitare il conte a sedere al suo fianco. Il conte lo interrogava sugli antichi ricordi, sulle credenze, sulle sciagure della sua razza, e il vecchio giudice gli rispondeva: — Le nostre donne pregano tutti i _dewol_ della terra, e ciò non mi ha mai fruttato un solo _para_: l’importante è aver molti cavalli e che siano sani; ma tutti oramai chiudono i prati alle puledre dei _romes_, e l’erba dei fossi è insalubre. Le più giovani della tribù danzavano il _tanàna_. Accosciate in semicerchio dicontro al capo, dondolavano a cadenza la persona tutte insieme, come steli di fiori ripiegati dalla brezza; il tuono lamentevole, dolce del moscalu, simile a quello di un’antica zampogna, accompagnava quei moti di una mistica malinconia. Poi una si alzava, veniva innanzi e cominciava a girare con atto cauto e voluttuoso sulla punta de’ piedi; e la voce flautina dei naiu subentrava a quella della zampogna. Poi anche il naiu taceva; dalle nove corde di una cobza scattavano strida acute, fieri accordi passionati, e un’altra danzatrice si lanciava nel mezzo e girellava vorticosamente, battendo le nacchere con frenesia d’ossessa, finchè cadeva sfinita. Finalmente tutte l’altre s’alzavano e intrecciavano le mani, girando in cerchio da destra a manca e da manca a destra, come il coro greco. Poi la danza, composta ancora, diventava voluttuosa, poi concitata, furiosa, col frastuono e i contorcimenti di un trescone sfrenato. La luna, vagando sopra le risaie della sottoposta pianura, dava alla scena il fantastico sfondo di qualche remota palude del Gange. IX. Il conte passeggiava solo nel parco. La notte era oscura, i fuochi innumerevoli gittavano bagliori strani fra gli alberi; le danze e i canti continuavano, e la baldoria cresceva. Il conte contemplava con una triste dolcezza il singolare spettacolo, e s’abbandonava alle utopie della sua magnanima generazione. Il suo cuore si faceva vasto per comprendervi tutto il genere umano, per stringerlo in una sola tenerezza. Intanto avveniva nel castello una scena singolare. Luscià s’era ritirata con Nad nella camera nuziale; dritta davanti ai grandi specchi delle pareti si guardava con vivo piacere, mentre la vecchia la spogliava. I vezzi della bella persona spiccavano a poco a poco da quel gran viluppo di mussole, di pizzi, di trine candidissime, che le si ammucchiavano al suolo. Ad un tratto, dietro a lei, spuntò un ceffo beffardo con due occhi scintillanti. Era Nick che usciva di dietro le cortine della finestra e si accostava alle sue spalle. Mormorò alcune parole in zingaresco, e rise ferocemente. La giovine non si mosse, chinò il capo sul seno seminudo in atto di sommessione. Nick ordinò alla vecchia di mettersi alla porta; ella obbedì senza fiatare, si sedette sulla soglia e accoccolò la testa sulle ginocchia. Ella udì di là le risa sarcastiche, le rampogne di Nick, i sospiri, i gemiti, i lamenti di Luscià. Ma il pensiero d’intromettersi non le venne nemmanco. E quando egli fu uscito ella riordinò, premurosa, la stanza per farne sparire le traccie... Il conte passeggiava ancora in giardino e sognava ad occhi aperti e fantasticava della riconciliazione delle umane stirpi, della confederazione universale, tutte cose che erano di moda nella filosofia sociale di allora. Egli notò quella sera che la sposa non aveva il braccialetto di brillanti, che egli stesso le aveva allacciato il mattino, e gliene chiese notizie. Ella guardò tristamente il suo polso sinistro illividito dalla brutale stretta di Nick, ma disse che l’aveva perduto. X. Dopo una settimana la baldoria non era ancora finita; si ravvivava immancabilmente ogni sera e durava buona parte della notte; danze figurate, giochi, rappresentazioni di burattini, si succedevano con una varietà, che il genio fantastico e carnevalesco degli zingari rendeva inesauribile. In una cosa erano pur troppo monotoni; nel mettere a contributo la liberalità del conte; in castello, dopo le nozze di Luscià, la loro petulanza non aveva più limiti, facevano come in casa loro; Antonio era caduto ammalato, s’era chiuso nella sua stanza e aveva detto ai suoi dipendenti di non venirlo a frastornare, finchè un solo zingaro rimaneva in Peveragno. — Dopo, quando, se Dio vorrà, saranno tutti partiti, se sarò vivo ancora, venitemelo a dire. Le ruberie si stendevano anche alle case, agli orti del villaggio e specialmente alle cascine; colà gli zingari trovavano minore arrendevolezza; le busse cominciavano a spesseggiare, e chi le prendeva erano, invariabilmente, _i figli delle donne_; perchè, come osservò il sindaco, nell’arte del picchiare _i figli dell’uomo_ valgono meglio. I derubati assaltavano a caso il primo zingaro che capitava loro sottomano «la punizione non cascava ad ogni modo in terra, ma su autentiche spalle di ladro» — venivano nelle tende e vi mettevano tutto a soqquadro. Ma ciò non serviva a correggerli; i fittaioli e i massai scelsero fra loro una commissione di notabili e la mandarono dal conte. Essi, con licenza parlando, con tutto il rispetto dovuto ai parenti della signora Contessa, fecero le loro brave lagnanze e lo pregarono di dare lo sfratto a quella marmaglia, prima che accadesse qualche disgrazia. — Non si può pretendere, disse arditamente Gervaso, che un pover’uomo, il quale ha sgobbato tutta l’annata per pagare puntualmente il fitto, le imposte, stia colle mani in tasca, a veder dissipare i suoi sudori sacrosanti. Antonio, il fabbriciere dell’Annunziata, aggiunse che, oltre a tutto il resto, quella genìa dava, al paese, un tristissimo esempio. — Le loro donne sono tutte di quelle, smaliziano i ragazzi e li spingono a rubare; poco più che si vada innanzi, anche i nostri servitori diventano zingari. Il conte promise di contentarli; anch’egli cominciava ad essere impensierito. Luscià, cangiando stato, non aveva punto cangiato modi e gusti; ella era continuamente fra le loro tende a far pompa degli abiti nuovi; tornando a casa, ella si tirava dietro, fin nella sua camera, una infezione di donne e di ragazzi, e giocava, con indiscrezione infantile, con loro tutto il giorno. Con quella compagnia, ogni disegno di educazione diveniva impossibile. Il conte aveva tentato di parlarle della diversità della sua condizione, ella non capiva. Una volta ch’egli insistette, rispose francamente: — Sono i miei compagni; abbiamo sempre vissuto insieme, mi hanno dato il loro pane, mi hanno tenuta sotto la loro tenda; perchè non dovrei più vederli? non mi hanno fatto male. Il conte s’arrabbiava, non si raccapezzava, non era per questo verso ch’egli la voleva prendere, non era la superbia ch’egli voleva insegnarle, no davvero, le sue idee d’umanitario ci si opponevano, non si trattava che del riserbo; ma come farle comprendere la differenza? Sconfitto alla prima, egli finiva sempre col darle ragione — col concederle tutti i capricci, ed arrivava sino a prevenirli. La cosa era però giunta ad un punto che egli non fu malcontento di essere costretto a finirla. Prese una risoluzione, chiamò Dan, gli accordò tutto ciò che volle, e lo indusse a partire l’indomani colla sua gente. A Luscià non disse nulla; per evitarle le scene penose dell’addio, e per sottrarla alle plebee indiscrezioni degli zingari, la trattenne, quella sera, di discendere alle tende. La portò con sè, in carrozza, a fare un lungo giro; per via cercò di prepararla, indirettamente, al distacco, che le disse esser vicino, ma inevitabile. Ella trasalì, non fece una sola lagnanza, non mostrò alcun rincrescimento. Tornarono a notte inoltrata. Passando presso al Ronco di San Nazario, volse uno sguardo malinconico alla tenda del _balubassa_. Una lagrima scese a rigarle la guancia. Si udivano dei lamenti soffocati. — È Suceawa, ella mormorò. Il conte si pentì di non averla avvertita; ma oramai era troppo tardi. L’accampamento era immerso nel sonno. La ricondusse nel suo appartamento. Licenziò la cameriera, la spogliò egli stesso, come una bambina. Poi sedette al capezzale. — Sei afflitta? le domandò. Ella fe’ cenno di no. — Sei imbronciata con me? Lo stesso gesto negativo. — Lascia ch’io ti vegga negli occhi. Spalancò le palpebre e lo guardò fiso nel volto. — Ridi un poco, supplicò il conte. Ella fe’ un sorriso a fior di labbro, fugace come un baleno. — E non mi dici nulla? non mi dai la buona notte? — Buona notte. Il conte si alzò. — Dormi, bambina, tu sei stanca. Luscià chiuse gli occhi. Egli stette qualche minuto a contemplarla, poi si chinò, la baciò sulla fronte; non si mosse, pareva addormentata profondamente. Egli uscì. Aveva appena socchiuso l’uscio, ch’ella gettò le coltri, balzò a sedere sul letto e stette ad origliare. Aveva inteso un lungo fischio. Il conte discese per dare qualche ordine al cocchiere. Attraversando il cortile, vide un’ombra sparire dietro il pozzo. Era Nick; il conte non gli aveva parlato da un mese. — Che volete? gli chiese severamente. — Salutare Luscià, riprese sfrontato lo zingaro. — È tardi, ella dorme. E senz’altro, avviatosi alla porta, aperse egli stesso lo sportello e gli fe’ segno d’uscire. Nick obbedì, ma, varcata ch’ebbe la soglia, si volse. — Voi, _rai_, non avete fatto a Nick i doni che gli avevate promessi, non gli avete dato la mancia della partenza; avete torto, Nick è vostro amico. Mosse per andare, poi si trattenne di nuovo. — Non volete che saluti Luscià, soggiunse, non importa; era per darle dei buoni consigli. Luscià ha vissuto nella mia tenda con _mami_ Nad; ella mi obbedisce, mi teme, e s’io le dico: rispetta il _rai_, ella lo rispetterà e lo servirà in ginocchio. Non volete, non importa, non importa... E s’allontanò zufolando. XI. La notte era alta ancora, quando una bianca figura, rasentando il muro del giardino, salì sulla spianata e scomparve nella tenda di Nick; una vecchia cavalla, a cui passando sfiorò la groppa, nitrì festosamente, e, dai vicini accampamenti, tutte le altre bestie le risposero. La campagna dormiva e russava nel canto vasto dei grilli e delle cavallette; appena impallidivano alcune stelle in scialbo orliccio, che profilava i ciglioni oltre la Sesia. L’astro di Venere, al confine dell’orizzonte, ammiccava maliziosamente all’apparente quiete delle tende e a cento mani solerti, affaccendate all’ultime prede sulla collina di Peveragno. Poco dopo il pianeta si tuffava nell’ombra dei boschi, e, come ad un segnale, gli accampamenti si ridestavano. Le tende si ripiegavano in fretta nei carri stipati di cenci, di sciarpe, di donne, di bambini, si disponevano in fila, scendevano sulla strada; la marcia si ordinava rapida, silenziosa. Quando, verso l’alba, il conte si affacciò alla finestra della torre, la carovana era lontana parecchie miglia, si svolgeva come un lungo serpente nella pianura, si tuffava nei vapori densi delle risaie, spariva. Il torrente del destino aveva ripreso il suo limo. Unica traccia della loro dimora, le cime scalvate dei colli, simili a lembi di deserto e di barbarie caduti in mezzo ai colti. Come dopo un temporale, nei vigneti e nei campi, i contadini verificavano i danni lasciati da quel flagello umano, e sorgeva un coro d’imprecazioni, consueta espressione dell’odio che la razza, maledetta per un arcano peccato originale, suscita sul suo cammino. Il conte Emanuele, triste, oppresso dal pensiero di quella infinita sciagura, discese nell’appartamento di Luscià, povera rondinella che lo scirocco del destino aveva buttato sotto il suo antico tetto feudale... Trovò la camera vuota: Luscià era scomparsa, portando seco le sue gioie e il suo abito da sposa. Egli non smaniò, non fe’ ricerche; chiuse nell’anima questo disinganno cogli altri, e si rassegnò a portarlo. Ma la sera, verso l’imbrunire, sotto il viale del parco, gli si presentò Nick, e indicandole Luscià che lo seguiva per mano di Nad, gli disse con uno scaltro sorriso: — Vedete, se il _Ronmitschel_ è di parola: io vi riconduco Luscià; ella è vostra, io ve la rendo. — Io non voglio farle violenza, disse il conte tentennando il capo; ella è libera di seguire la sua gente. — Violenza? interruppe lo zingaro meravigliato. Se un cavallo vi sfugge, lo lasciate andare? — Noi facciamo una differenza fra le donne e i cavalli. Nick divenne riflessivo. Poi, pigliando un fare magnanimo: — Voi l’avete pagata la dote; è vostra; sotto la mia tenda non c’è più posto per lei. — Non voglio trattenerla per forza. — Non è per forza, ella è giovine, non sa quel che si faccia, bisogna avvezzarla: io le ho detto che ella deve rimanere, ella mi obbedisce, e rimarrà, ne rispondo io. Se voi m’aveste lasciato parlare con lei iersera, ciò non sarebbe avvenuto. Luscià, tu rimarrai? Luscià si fe’ innanzi premurosa, e disse in fretta baciando la mano al conte: — Sì, sì! La sua voce tremava. — Vedete!... soggiunse Nick con un ghigno di trionfo. Pagherete almeno il mio servizio? Il conte disse alla donna: — Orsù, io non vi mando via, la mia casa è la vostra: stateci se volete; tenete con voi anche Nad. Voi siete la padrona di restare o di andarvene. La vecchia voleva buttarsegli ai piedi; il conte la trattenne e le ordinò di seguir Luscià nella sua stanza. Poi, quando ebbe aggiustati i conti con Nick, rientrò anch’egli, venne a cercar la sposa, e le parlò con una gran calma, una grande tristezza. — Or che siamo soli, ti ripeto che sei libera di far quel che vuoi: se non ci stai volontieri, va che Dio ti benedica. — No, no, sclamò Luscià. — Hai paura di Nick? ti accompagnerò io da Dan, egli ti proteggerà. — No, no, io resto con te. Nad s’intromise: — La _galvay_ vi vuol bene; ella non è fuggita. Nick l’ha nascosta per ingannarvi. Voi non l’avete regalato — egli l’ha fatto per avere il _pleisserdum_. Il conte si rasserenò. Nad soggiunse umilmente: — Mi tenete con voi? vi servirò bene. — Ma sì, ma sì, buona mamma, sclamò il conte. Poi, volto a Luscià: — Hai inteso quel che ella ha detto... ed è vero? La giovane fe’ cenno di sì. Emanuele fu vinto. Riaperse l’animo alle sue care illusioni, si risentì felice. Dopo il giorno delle nozze, fu quello per lui il primo momento di vera e schietta gioia. Finalmente quel cuore e quell’esistenza gli appartenevano; egli n’era sicuro. S’udiva nella valle il galoppo di un cavallo che si allontanava. Strinse quella bruna testolina sul petto, ve l’adagiò, la carezzò teneramente senza parlare, pensando ai tesori d’intelligenza e di affetto ch’ei vi avrebbe fatti sbocciare, alle sue candide meraviglie, alle dolci sorprese, ai tripudi infiniti... Luscià s’era addormentata fra le sue braccia. Egli sognava per lei. XII. Ma quella contentezza gli fu presto amareggiata. Luscià pareva stordita; ella così vivace, così inquieta, passava delle ore immobile, silenziosa, incantata. Emanuele pensò ch’ella avesse bisogno di svago, di conforto, per la lontananza della sua gente. E la condusse a fare un viaggio. Percorsero mezza Italia: visitarono la Toscana, il Veneto, la Lombardia. Luscià era stata già dappertutto colla sua tribù, che da tre anni dimorava di qua dalle Alpi. Emanuele scrutava le sue impressioni, le sue memorie, avido di scoprirvi la poesia selvaggia e robusta di un’anima vergine, di un sentimento ingenuo. Nulla di tutto ciò: ella non si ricordava di nulla, non si entusiasmava di nulla: era insensibile alle meraviglie dell’arte; le bellezze della campagna, del paesaggio la lasciavano fredda: non amava che il moto continuo; preferiva a tutto lo strepito delle grandi città; lo scarrozzare per le vie popolose, sui grandi corsi pieni di sfarzo, di lusso, la sera luccicanti di lumi. Amava la folla, le brillanti riunioni: fosse in teatro, in chiesa, alla passeggiata, per lei era lo stesso. Ci andava vestita in gran pompa; tutte le acconciature, dalle più severe alle più strambe, s’attagliavano a quella sua figura ricchissima di contrasti: seria, vivace, inquieta come una cutrettola, contegnosa come una regina. Quando, al braccio del marito, attraversava la folla, gli uomini si voltavano mormorando d’ammirazione; ella si guardava attorno e rideva. Qualche volta Emanuele la riprese con dolcezza. — M’hanno detto che son bella, non è forse vero? domandava Luscià. — Sì, lo sei, te lo dico anch’io sempre, sei bellissima... ma per me. — E allora, perchè veniamo qui? Tentennava il capo — non capiva. Emanuele taceva, sconcertato dalla sua logica primitiva, ma più dai suoi occhi affascinanti. Al postutto, non era questa che una civetteria innocente e tollerabilissima. Se avesse potuto accorgersene, egli si sarebbe inquietato di ben altri segni. La giovine sposa, se non alle idee e ai sentimenti della sua condizione, si avvezzava rapidamente alle mollezze e ai comodi materiali della civiltà: vi si grogiolava dentro con una delizia indicibile: la pigrizia e la ghiottoneria s’educavano in lei mirabilmente. Dopo il piacere chiassoso, rumoroso, nulla l’era più caro che l’ozio, l’ozio assoluto sdrajone degli animali domestici. Avrebbe passato in letto a rosicchiar confetti tutte le ore che non passava in carrozza. In poche settimane aveva contratti tutti i vizi di una cagnuola favorita. Ma era tanto graziosa! La sua personcina si torniva, il suo fare si aggraziava; le sue carezze senza slancio, senza spontaneità, senza calore, acquistavano una morbidezza fine, squisita; offrivano tutte le voluttà della femmina, senz’ombra delle esigenze della donna. Spesso il conte, rientrando dalle sue passeggiate mattutine, che s’era rassegnato a fare da solo, trovava Luscià che dormiva ancora. Al rumore dei suoi passi ella si svegliava, gli buttava le braccia al collo, si accovacciava sulle sue ginocchia, gli strofinava il volto col suo musettino delicato, rovesciava sulla sua spalla la testolina leggiadramente scarmigliata, guardandolo attraverso le palpebre socchiuse con le pupille voluttuosamente sonnacchiose. Poi erano baci, risolini soffocati, gemiti, tortoreggiamenti innumerevoli. Tutto ciò finiva ad un tratto, se un segno d’impazienza balenava nello sguardo d’Emanuele. Luscià era un giocattolo intelligente; sapeva capire quando il momento del trastullo era finito. S’alzava seria, e si ritirava nel suo cantuccio a lisciarsi colle zampine gentili i ricciolini scomposti e a pulirsi i dentini d’avorio. Emanuele, come tutti i caratteri timidi e seri, a cui la ritrosia, la verecondia sbarrano la via del piacere, nei primi giorni ne andava matto, si abbandonava alla facilità di quelle delizie nuove per lui, se ne inebbriava perdutamente. Il suo spirito riflessivo, fantasioso, aveva qualche volta adorato la donna, ideale alto, lontano, che svaniva quando egli cercava raggiungerlo; i suoi sensi si risvegliavano tardi ma prepotenti, e si contentavano della femmina. In quel primo ardore la sua mente, il suo cuore erano sopraffatti; gli occhi, ammaliati dalle forme, non vedevano che le perfezioni esteriori esagerandole, non potevano avvertire i modi strani, in cui trasparivano i difetti dell’indole. E Luscià ne aveva molti, e tali che avrebbero dovuto impensierire il marito, se l’innamorato l’avesse permesso; tanto più ch’ella nella sua ignoranza non pensava punto a celarli. Un giorno, a Firenze, Emanuele, entrando nella camera della sposa, assistette ad una scena singolare. Luscià, in gonnella e veste scollata, colle braccia nude, si lavava le mani in un catino, che il cameriere dell’albergo le teneva, non avendo potuto deporlo sulla toeletta, ingombra di minuterie d’ogni sorta. Il servo, inanimito dalla confidenza, divorandola cogli occhi, le teneva dei discorsi assai poco convenienti: ed ella sbellicava dalle risa, buttandogli manciate d’acqua nel viso. Il conte impallidì: fe’ uscire lo sguaiato famiglio, il quale non gli risparmiò una mezza impertinenza; e per decoro bisognò tenersela. Alla moglie non disse nulla: — ella era tanto stupita dell’accaduto, che il conte attribuì il trascorso all’ingenuità e non si chiese allora se quest’ingenuità non significava mancanza di quell’istintivo pudore che nei paesi civili è la massima delle virtù muliebri. Dimenticò la scena; la sua tenerezza era disposta a passar sopra a cose ben più gravi. La sua gioventù soffocata in fondo al cuore dal dolore, dal dovere, gli montava al cervello: gli dava delle vertigini di imprudenza, di sregolatezza, e ridiventava fanciullo, diventava spensierato come non s’era sentito mai, neppure a diciott’anni. Aveva sposata Luscià per il sentimento tutto paterno di farle da educatore, per elevarla al livello del proprio mondo aristocratico; ma invece la zingarella lo aveva di botto precipitato dal sommo della sua serietà patrizia nella vita vagabonda, e lo trascinava per mano, ammiccando cogli occhietti procaci e misteriosi, per sentieri ignoti, tortuosi, lubrici, a sensazioni nuove, a desideri strani, credulo, confidente, ammaliato. Dava negli eccessi di uno studente birichino che fa la sua prima scappata; si buttava alle più stravaganti pazzie, con una foga di cui rideva egli stesso, incantato di trovarsi così vivace e brioso. La loro vita era il rovescio dell’ordine, dell’abitudine; in cui tutte le convenzioni della giornata, dell’orario, andavano capovolte. Giravano la notte per le vie remote, scorrazzavano per la campagna, irrompevano nelle osterie rustiche, si facevano imbandire una cena, mettevano tutto a soqquadro, vi improvvisavano un ballo, un festino, riddavano il trescone, poi, ad un tratto, buttando una manciata di monete in mezzo a quella folla che la loro follia aveva radunata, eccitata, raggirata, scappavano via di corsa, sparivano come folletti capricciosi. Emanuele portava di peso Luscià nella carrozza che aspettava nelle tenebre, ve la buttava ridendo come un matto e soffocandola di baci. Tornando tardi, picchiavano alla porta dei caffè del sobborgo, si facevano aprire per prendere un rinfresco, bevevano nello stesso bicchiere, si buttavano acqua in viso, ed uscivano lasciando un concetto assai poco onorevole di loro agli avventori, ai seri fannulloni, ai giocatori gravi e imbronciati, e uno ottimo al tavoleggiante che regalavano liberalmente. In queste scapestrerie il più spinto era naturalmente Emanuele. Luscià ci si trovava nel suo elemento, e aveva in fondo tutta la calma dell’intenzione. Ma vi si mostrava insaziabile. Egli aveva le idee più arrischiate, più bizzarre, ella i gusti più godiglioni. Egli si stordiva, si inebbriava, si stancava delle cose più stravaganti; ella invece se la spassava e trovava sempre l’agio di succhiarsi con quiete qualche leccornia prelibata: — Alternava i baci e le pastiglie: i baci per lui, le pastiglie per sè. Non partecipava ai trasporti del marito, ma sapeva però destramente sfruttarli: essa aveva in quei momenti sempre qualcosa da chiedergli, che bisognava assolutamente darle e senz’indugio. Una volta, alla Spezia, erano usciti in barca per una gita a Porto Venere, ma Luscià era di malumore; attraversando la città s’era invaghita di un cappellino esposto in una vetrina, ed Emanuele non era stato pronto a soddisfare il suo desiderio. Ma, accortosi della sua dimenticanza, dalla cera rannuvolata di lei, quando già erano lontani qualche miglio da riva, fe’ voltar indietro la barca, corse dalla crestaia, comprò il cappellino. Ritornati in barca, un temporale li sorprese, cadde un grande acquazzone che sciupò il regalo, mandò a monte la gita, per cui egli aveva data parola a tanti amici suoi. A Luscià non rincrebbe nè l’una, nè l’altra cosa. I suoi capricci, una volta soddisfatti, svanivano, ma non ammettevano replica. Oramai, senz’accorgersi, il conte comprava, si può ben dire, tutte le sue carezze; il desiderio di avere un sorriso, una smorfietta di più, lo spingeva a spese inutilissime; non tornava mai a mani vuote. Quando usciva per città, tutto ciò che le dava nell’occhio Luscià lo voleva. Fu a Firenze ancora che accadde un’altra scena spiacente. Erano stati a Ponte Vecchio da un orefice per una qualche compera. Contrattata la mercanzia ed usciti dalla bottega, a un cento passi più in là, li raggiunse un commesso tutto sconvolto e li pregò di guardare nel pacco se, per isbaglio, vi fosse entrato un anellino di brillanti, che stava sul banco del suo padrone. E intanto sbirciava, con sospettosa timidezza, la borsa ricamata che Luscià teneva al braccio, e finì col pregarla di guardare anche là. Il conte si risentì, strapazzò il ragazzo, gli diede il suo nome e il suo indirizzo e rientrò tutto indignato di quella petulanza. Alla sera Luscià, tirando dalla borsa il fazzoletto, fe’ cadere l’anellino. Non arrossì, non si sconcertò, non si mostrò sorpresa, e il conte, senza chieder di più, timoroso di approfondir la cosa, corse dall’orefice a pagargli il gioiello. Nel ritorno si trattennero alcune settimane a Milano, che, più di tutti gli altri paesi visitati, piacque a Luscià per la grossa giocondità delle sue usanze. Vi si apriva la stagione musicale d’autunno; in mancanza della società signorile, fuori a villeggiare, v’era il solito concorso di forastieri, di artisti teatrali, di virtuose, col loro codazzo di protettori, di _patiti_, di parassiti, di ricattatori, una folla allegra, chiassosa e crapulona, che cominciava a vivere alle sette di sera, all’ora dello spettacolo, e che, uscendo, invadeva tutti i caffè, tutte le osterie, le bettole della porta e vi menava baldoria sino alle prime ore del giorno. Quel mondo somigliava, almeno per la vita vagabonda e sregolata, alla razza di Luscià. Le affinità non tardarono a manifestarsi. Alla Scala fu ben presto avvertita quella strana personcina dagli sguardi sfolgoranti. Quando si seppe che ell’era una donna di condizione, che quella perla di venturiera era legata in un vero ed autentico blasone, la curiosità non ebbe più limiti; attirò tutti gli sguardi verso di lei, e il suo palco, per l’intromissione di qualche amico, fu ben presto preso d’assalto dai galanti più in voga. Fu una processione di gilè bianchi, di cravatte enormi, di pettinature meravigliose, di vagheggini sfatati, di nobili venturieri e di venturieri arricchiti. Emanuele sentiva, da principio, un po’ di ripugnanza per costoro; ma il gusto di primeggiare era così naturale in Luscià, così innocente, eppoi la rendeva così seducente, così bella, ch’egli non seppe negarglielo. Quanto a lei, preferiva, fra i suoi corteggiatori, i meno ammodo, i più matti, i più vivaci e meno educati. Questi allontanavano gli altri, e travolgevano i due sposi in una baraonda di concerti improvvisati, di festicciuole scapigliate, di serenate, di veglie, di conversazioni, in cui non si discorreva — si strepitava, si rideva, si faceva baccano. Il mezzo con cui tutta questa gente, uomini e donne, riusciva ad imporsi, era uno solo: una fervida, schietta ammirazione per Luscià. Ella li attirava senza volerlo, poi, una volta fatte le relazioni, alle prime parole la dimestichezza nasceva una dimestichezza di giochi, di scherzi, di pettegolezzi, non profonda, ma invadente. Emanuele si trovò invischiato senza pur accorgersene. Al caffè, al teatro, nell’albergo, le conoscenze gli fioccavano intorno, come falene intorno alla fiammella; e la fiammella era quello stesso fascino, a cui il suo orgoglio patrizio s’era bruciacchiato l’ali per sempre. XIII. Finì, tuttavia, col disgustarsene. Egli era in obbligo di fare una visita sul lago ad un generale, amico di suo padre, vecchio celibe, senza famiglia. Per risparmiare alla sposa una noia e salvare una quantità di convenienze, risolse d’andarci solo. Doveva trattenersi fuori una notte. Luscià rimase colla cameriera, che il conte le aveva presa per la sua dimora in Milano. Costei, una specie di _Suson_, intrigante di professione, scaltra ingannatrice di mariti, non trovava il suo tornaconto nella tolleranza del conte, che rendeva inutili i suoi talenti. Tanto per non perdere la mano, colse dunque al balzo quell’occasione per suggerire alla sua padrona, che — secondo il suo costume coi servi — le accordava una grande confidenza, uno dei suoi segretumi. Sapendo che Luscià ammattiva per la coreografia, ella, che aveva un fratello o un cugino ballerino alla Scala, le propose di farlo venire con una squadra di compagni e di compagne, tutti in costume, ad eseguire, per lei, qualcuno dei passi che più incontravano nel ballo della stagione: _La caduta di Missolungi_. A questo primo disegno, ella aggiunse poi la cena con degli inviti, — insomma una vera e completa baldoria; felice di completare la cosa coi suoi lucrosi ripieghi da mezzana, pensò ella stessa alla spesa, mettendo a pegno qualche gioiello della padrona. A mezzanotte la compagnia era a tavola nel salotto quando capitò il conte. Egli aveva trovato il generale infermo, perciò, fatta la sua visita, era, senz’altro, ritornato indietro. Non rimase poco sorpreso; ma, da vero gentiluomo, dissimulò la contrarietà che ne sentiva, e pigliò la cosa con tanta buona grazia, da far credere che tutto fosse stabilito col suo consenso. Luscià, benchè non troppo turbata, andò, per consiglio della cameriera, che amava il drammatico, a buttargli le braccia al collo e a chiedergli perdono. Egli non la lasciò parlare, e le disse sottovoce, con atto rispettoso: — tu sei la padrona. Poi l’aiutò egli stesso a far gli onori dell’ospitalità alla strana brigata, e volle che si compisse esattamente il programma concertato. Il banchetto terminò allegramente, con un’infinità di brindisi burleschi, largamente inaffiati di sciampagna. Il conte, per una liberalità eccessivamente scrupolosa, non aveva voluto far le cose a mezzo; i fattorini servivano gl’invitati senza discrezione. Poi si levarono le tavole, i suonatori invitati trassero i loro strumenti, e, al suono della piccola orchestra improvvisata, i _Clefti_ e le _Albanesi_ e i _Giannizzeri_ fecero i loro passi. Terminata la lunga serie di capriole, di prilli, di scambietti, di catene, di intrecciamenti, tutta la compagnia si abbandonava alle danze, che si protrassero a lungo, tumultuose, senza ritegno. Quella genìa irriverente, chiassona, inanimita dalla complicità della padrona, dalla condiscendenza del conte, dal vino tracannato a garganella, trascese a degli eccessi straordinari. Il festino prese, bel bello, l’andamento dell’orgia. Gli sposi occupavano cinque stanze al primo piano della _Bella Venezia_; il piccolo quartierino fu invaso da cima a fondo senza riguardo al mondo, messo nel più grande scompiglio. Il conte, per la singolarità della sua posizione, ripugnandogli di far la parte di _rustego_ di commedia, non volle adoprar altro freno che la dignità garbata del suo contegno, il quale da solo non serviva guari. Egli stesso dovette, con bella maniera, schermirsi dai trasporti di ammirazione, di tenerezza, che la sua indulgenza destava nei cuori sensibili delle _albanesi_. Non poteva incantucciarsi un momento, senza che ne avesse una sulle spalle o sulle ginocchia, e senza sentirsi sotto il naso l’alito avvinazzato e ardente di una baccante inuzzolita. Quanto a Luscià, riavutasi facilmente dal leggero sgomento, ci pigliava un gusto matto, rideva, saltellava di gioia, non stava ferma un minuto. La cameriera le aveva ben sussurrato il sospetto che il marito celasse la sua collera, per isfogarla poi a quattr’occhi; ma i suoi modi, il fare di lui l’avevano interamente rassicurata. Quando ella gli passava vicino, scrutandolo cogli occhi in viso, per scoprirvi le secrete intenzioni dell’animo, egli le stendeva amichevolmente la mano e le sorrideva bonario, premuroso, come al solito. Una volta anche le aveva fatto fare un giro di valzer, e nel ricondurla a sedere, stringendole il braccio, le aveva detto: — ti diverti? — come sempre usava quando la menava a qualche sollazzo. Il baccano continuava intorno; egli non pareva aver occhi che per lei. Del resto Luscià non faceva, come si dice, nulla di male; sfogava il suo talento naturale dello schiamazzare, il suo ardore infantile di muoversi, di sparnazzare, di scalmanarsi, null’altro... Eppoi, sotto gli occhi del marito, nessuno le mancava di rispetto. Però il conte, per quella notte, fece una gran prova di pazienza. E quando la brigata gli fe’ la grazia di andarsene, ed egli, data l’ultima stretta di mano, potè chiudere la porta dietro a quella mascherata fastidiosa, diè in un grande sospiro di sollievo. Attraversò l’appartamento, corvettando fra le sedie rovesciate nell’ultimo congedarsi, e si ritirò nella camera. Luscià s’era buttata, vestita, sopra il divano, stanca, pesta di fatica, non sazia, fantasticava cogli occhi spalancati, accesi, come fosse nella sua vecchia tenda, dopo i lascivi contorcimenti del _tanâna_. Intorno i segni del baccano che era penetrato fin là; i tappeti voltolati, spiegazzati, i cuscini buttati a terra; le cortine del letto aperte, attorcigliate sui bracciuoli, lasciavano intravedere il letto sconvolto, una sedia colle gambe in aria al posto dei guanciali, i guanciali rovesciati a mucchio nel corsetto, le coltri trascinate sul pavimento; profanazione ed oltraggio non casuale alla vereconda poesia del talamo. Un lurido, ributtante disordine, un’atmosfera densa di polvere, di fumo, di moccolaia, un tanfo acuto di vino e di tinello. Il conte socchiuse la finestra. La brigata si spandeva cantando e sghignazzando nella strada; sull’angolo di San Fedele un gruppo di ballerini aveva preso d’assalto un fiacre, e altercava col cocchiere, che si opponeva al carico soverchio; correvano bestemmie grossolane, grida, minaccie, strilli acuti di donna. Al lume tremulo di un lampione si vedevano gli alti cimieri e i turbanti ottomani, — le aste levate in alto facevano alla scherma colla frusta prosaica del fiaccheraio. Il portinaio dell’albergo chiudeva brontolando. Emanuele allibì; comprese l’eccesso cui era trascorso. Non accusò che sè stesso, non si vergognò che di sè. — Egli, il suo sensualismo cieco, la sua foga intemperante di divertimenti, erano la causa di tutto. Sentì un cocente rammarico del pericolo, delle sconvenienze cui esponeva la sua sposa, egli il suo custode, egli il suo educatore; — un vivo bisogno di farne una riparazione, di rialzarsi nella sua stima, di chiederle perdono. Ella, augellino smarrito, gettato sopra un letamaio, vi si dibatteva; — povera innocente, ella avrebbe dovuto guardarsi dal male in cui lui, fanciullone di quarant’anni, la precipitava, con tutta la furia viziosa di una tarda giovinezza? Riparò in fretta, con mano sdegnosa, il disordine, — spense i lumi, testimoni dell’orgia. Il crepuscolo discreto e tranquillo dell’alba, penetrando fra i pizzi delle cortine, ricondusse nella camera un soave candore di raccoglimento e di purezza. Le pupille di Luscià lucevano nella penombra e lo seguivano inquiete. Emanuele, quand’ebbe rifatto alla sua adorazione la sua nicchia casta, vereconda, si accostò al divano, si inginocchiò in silenzio. Una mano s’insinuò, timida e molle, come un invito, entro i suoi capelli, e scese a carezzargli il collo; egli la prese, la baciò riverente, a fior di labbra; poi si alzò, attraversò riguardoso, in punta di piedi, la camera. La cameriera, che origliava alla porta, spiando lo scoppio delle violenze presentite, lo vide, al fioco barlume mattutino, ritirarsi quetamente nel suo studio, stupì della sua calma, e sospettò fosse matto o peggio, — chissà cosa... Ma quando, alcune ore dopo, fu congedata, e seppe che i padroni partivano alla volta del Piemonte, tornò a raccapezzarcisi a modo suo, andò intorno a spargere e commentare la notizia, a compiangere la contessina, la quale, povera vittima, si vedeva, partiva di mala voglia, e che feroce vendetta la attendesse, Dio vel dica; il marito era falso, brutale, un _piemontese_ e basta. XIV. Gli sposi tornarono a Peveragno verso il fine di settembre. Trovarono il castello queto, silenzioso, come lo avevano lasciato; solenne, ma non triste; il sole sfavillava nei vetri e avvivava i mille colori autunnali dell’eriche e dei muschi, temperava l’austera maestà dell’alte muraglie brune. Emanuele era sereno, quasi ilare, ricuperava, nell’aria salubre del suo paese, i suoi pensieri, i suoi ideali, la parte migliore di sè stesso. Egli pensava alla profonda credenza latina, che perpetuava l’anima di una famiglia in un campo e in una casa. Così, mentre i suoi sensi scorazzavano, ignari di sè, il suo spirito, il buon lare di Peveragno, era rimasto là nel cuore del maniere feudale, nel viscere dell’antico torrione, ed ora gli dava il bene arrivato. La carrozza saliva lentamente l’erta di San Nazario, e il conte, tenendo per mano la sposa, faceva i più bei sogni di domestica pace, di gioia onesta ed uguale. Egli le raccontava le vecchie usanze della sua casa, e vi ricamava su i suoi disegni d’avvenire. Luscià, che per viaggio era stata sempre sonnacchiosa, diventava inquieta, nervosa. Si guardava intorno impaziente. — Siamo arrivati, sei contentai le chiese il conte. Ella rispose di sì, distratta. Appena smontata dalla carrozza si buttò al collo di Nad, ch’era venuta ad incontrarla, la trascinò nella sua camera, si fe’ portar tutti i gingilli ch’ella recava seco dal viaggio, li sparpagliò per i mobili e fra lei e la vecchia seguì un lungo cicalìo in gergo. Emanuele venne più volte all’uscio per vederla; il dialogo non finiva mai; Luscià rideva, sospirava, chiacchierava continuamente; egli non volle turbarle questo sfogo naturalissimo; — e sempre tornò indietro. A cena ella si mostrò stanca. Si ritirò subito dopo. Il conte discese in giardino. La notte era tiepida, molle, tranquillissima. Dei vapori, leggere nuvolette, lambivano le falde della collina. Il cielo, coperto di una rada caligine, pareva un velo trapunto di diamanti. A un tratto gli parve intravvedere una bianca figura, che filava dietro le piante, dove l’erba era più fitta, — spariva dietro le siepi e i filari, correva rapidissima. Attraversando un lembo del prato, il suo profilo si disegnò un minuto sul nero cupo dell’erba. Emanuele chiamò Luscià. Ella si fermò... venne alla sua volta. — Dove vai? le chiese. Esitò un poco, poi rispose: — Venivo a cercarti. — Come sapevi ch’ero qui? — Me l’ha detto Nad. — Ma Nad non era coricata? — L’ho fatta levare per mandarla a vedere. Il conte non insistette. Le prese il braccio: passeggiarono. Nelle aiuole alcune rose esalavano l’ultimo loro profumo a quell’estremo sorriso della stagione: sulle siepi i grisantemi fioriti mettevano una nevicata precoce. Il conte le parlava con una tenerezza grave del suo avvenire, delle sue speranze, del suo affetto. Ella si penzolava a lui e sonnecchiava un poco. Rientrarono; il conte l’accompagnò sino all’uscio della sua camera. Si ritirò nel suo appartamento: non si sentiva di dormire. Spense il lume e si gettò vestito sopra un divano. Dopo mezz’ora intese distintamente una leggera pedata attraversare la galleria attigua e scender giù per la scaletta. Uscì, ridiscese, — trovò la porticina del giardino socchiusa. Egli si rammentava ben d’averla serrata a doppia mandata: difatti la stanghetta sporgeva dalla toppa, ma il contrafforto era levato. Qualcuno aveva aperto di dentro, poi, uscendo, riaccostati i battenti. Egli andò fuori, percorse smanioso i sentieruoli del giardino, s’inoltrò fra le macchie del parco, chiamò Luscià per nome. Alla fine si vergognò; tornò indietro lentamente. Era strano però! Sedette sugli scalini dell’uscio: chi era uscito sarebbe rientrato... Ma non era tranquillo, come avrebbe voluto; s’indispettiva del proprio dispetto. Voleva ridere di sè — e trovava il tempo enormemente lungo. S’alzò venti volte, e tornò a sedere. Poi tornò a passeggiare. All’angolo del pergolato si trovò faccia a faccia con Luscià. — Dove sei stata? le domandò. Egli l’avea lasciata qualche ora prima sfinita, che cascava dal sonno: la rivedeva sveglia, ansante, accesa da una corsa precipitosa, coi capelli sciolti e le vesti scomposte. — Dove sei stata? ripetè. — In nessun luogo, rispose Luscià un po’ intimidita. — Ma cos’hai? tu mi nascondi qualche cosa. Ella rimase interdetta. — Perchè sei uscita? — Sentivo caldo. Emanuele si rabbonì, — quel gigante aveva viscere d’indulgenza materna. — Perchè non me l’hai detto? t’avrei fatto compagnia. — Non osavo. Il marito le prese la mano: era ghiacciata. — Perchè non osavi? Sedette, la tirò sulle ginocchia. — Sai bene, che io voglio contentarti in tutto... Hai le pianelline infangate. — È la rugiada. — Guarda, tu sei andata sull’erba, — hai la veste tinta di verde. — Sono caduta. — Ti sei fatta male? — No. — Sì; il tuo braccio sanguina. — È una spina che m’ha graffiata. Emanuele riprese, intenerito, mezzo ridendo: — Senti, carina, tu non mi fai mica de’ sotterfugi? Ella sorrise. Il conte sentì dileguare tutte le sue inquietudini ad un tratto: ell’era così tranquilla... — Io mi dimenticavo, disse, che tu sei una piccola selvaggia, che hai bisogno di boschi, dell’aria aperta, della rugiada, — di correre, di saltellare sull’erba. Ma senti, — quando ti pigliano di questi gusti, dimmelo. Correremo insieme, salteremo insieme. Ella fe’ cenno di sì, seria seria. Emanuele rise della sua serietà, le raccontò come quand’era ragazzo, nella profonda malinconia del castello, egli s’annoiava e si rattristava. Mattina e sera, dicendo il paternostro, dopo aver chiesto al buon Dio il pane quotidiano, aggiungeva a mezza voce con un sospiro: — ed un camerata! — Il camerata è venuto, un po’ tardi — ma faremo di riguadagnare il tempo perduto, disse prendendola sulle ginocchia con infantile vivacità e buon umore. XV. Così era sempre lui che discendeva al livello di lei. Curioso però: questo fascino pareva in lei involontario; si prestava per compiacenza alle bizzarrie ch’ella ispirava senza quasi parteciparvi. Il conte non poteva restar tranquillo con lei — ella serbava sempre, sotto una vivacità superficiale, una grande padronanza di sè stessa, e anche una grande freddezza. La sua stravaganza era natura, caparbietà, condiscendenza, non mai passione. Tuttavia il conte cominciò nei dì seguenti a pensare davvero all’educazione di Luscià. Volle farle egli stesso da maestro, per non cedere ad alcuno le primizie della sua intelligenza. Le diede con la massima gravità, tutte le mattine, lezione per un’ora o due, e si sforzava di conservare la sua gravità. Poi nel pomeriggio le teneva dei lunghi discorsi per farle intendere come dovesse comportarsi in casa e fuori. Per questo egli aveva scelta la camera della madre, per dar una certa solennità alle proprie parole e sopratutto per essere sicuro della propria serietà. Le parlava della contessa, cercando nell’esempio di lei l’insegnamento per la sua Luscià: la memoria della madre, evocata come un angelo tutelare, gli ridava in quell’ora la dignità e la calma riflessiva del suo carattere. Ridiventava il protettore del primo loro incontro. Ma ella non era più la piccola vagabonda riverente di allora. Quel luogo non le faceva più l’effetto di prima; ci s’era avvezzata e ci si annoiava: quella penombra malinconica le dava un sonno molesto, pesante, ostinato. Quanto al ritratto della signora, aveva perduto per lei il suo carattere soprannaturale dell’idolo; e tutte le apologie figliali di Emanuele non valevano a sostituirvi un’altra influenza: in fin dei conti era immagine d’una donna — per bellezza Luscià ne aveva incontrate di meglio, e del resto, della virtù, delle qualità morali già non si vedeva nulla — poi ella non doveva farne gran caso. Era ben vestita, ma ella poteva fare altrettanto. Docile, obbediente, ella non si ribellava a quella noia di tutti i giorni — ma gli sbadigli sempre più frequenti delle sue labbruzze di carmino, la nervosa irrequietudine delle sue manine nelle frangie della sedia, i moti, gli scatti repentini della sua personcina rivelavano il suo supplizio. Il conte faceva la vista di non accorgersene, felice della propria resistenza; della quale poi faceva ammenda colle condiscendenze meno ragionevoli. Appena usciti di là si sprofondavano insieme nelle macchie del parco, nel più fitto dei cespugli, — ed egli, da quel grande ragazzo che era divenuto, era il primo a darle il segno della gazzarra. Egli stesso aveva, più di lei, bisogno di sfogo. La trascinava di corsa, la portava di peso sulle braccia, si abbandonava a dei matti trasporti. E la povera influenza che poteva aver guadagnato col suo contegno sfumava così ad un tratto. Luscià faceva poco profitto delle lezioni. Aveva preso presto una vernice superficiale, — ma oltre a questo, null’altro. Una certa speditezza nel parlare era tutto per l’istruzione, una certa grazia chiassona nel vestire, una certa morbidezza di maniere, una certa pigrizia di gusti era tutto per l’educazione. La zingarella era scomparsa, ma la dama non appariva. Quei tre mesi l’avevano cambiata all’epidermide, — ma sotto, chi poteva vedere? L’indole petulante erasi raccolta dentro ad una crisalide di seta: ne sarebbe uscita bruco o farfalla? Il conte confidava nei primi tempi di trarne una buona, una affettuosa mogliuccia, una savia, un’adorabile damina. Intanto però ella era qualcosa d’indefinibile; una specie di enigma; la sua stranezza meno farfallina aveva qualcosa di più intenso e di più profondo. Il suo viso, nel quale non traspariva mai l’ombra di un sentimento, si accentuava in un proposito tenace, ostinato, incomprensibile. E il marito credeva leggervi delle disposizioni serie alla vita domestica. Egli aveva voluto confidarle le chiavi della casa ma ella non era buona di trattar coi servi: il loro rispetto, il loro riserbo l’impacciava, le imponeva; ella non sapeva comandar loro nulla sul serio; volta a volta troppo impetuosa, troppo umile, troppo trascurata. Non fosse stata la tradizione severa della casa, li avrebbe guastati. Poi quel materezzolo pesante le dava fastidio. Finì col darlo a Nad, la quale se ne valse per ficcare il suo naso dappertutto e satollarvi le sue ingordigie di mendica. Ciò suscitò una seria tempesta e diede un serio impaccio al conte. Aurelia la vecchia governante, avvezza da tanti anni al dominio reale della dispensa, della guardaroba, non potè rassegnarsi allo sperpero ghiotto che ne seguì: e se ne lagnò col conte. Il quale si provò parlarne a Luscià. — Tu devi tenere il governo della casa e non Nad. — Vuoi dunque ch’io mi faccia tutto da me? — No, ma tu devi ordinare, tu sola. Finì coll’indurla a restituire le chiavi alla governante. Ma da quel giorno Aurelia non ebbe più pace: — una guerra sorda cominciò fra essa e Nad, la quale, coprendosi della autorità della nipote, era infinitamente più forte di lei. Luscià si lamentò col conte che la governante le faceva mancar tutto, che la maltrattava, che le voleva male. Ciò era incredibile; il conte tentò di prendere le difese della povera donna; essa stessa, con tutto il riguardo della sua educazione, cercò di rabbonire la padrona, di persuaderla delle sue buone intenzioni, di dissipare rispettosamente le accuse che le si movevano. Luscià sostenne, in presenza del conte, le sue lagnanze, ripetè con faccia franca che la malmenava, la faceva patire, trovò lì per lì dei fatti, delle prove, le colorì con la massima naturalezza. E, si capisce, il torto rimase ad Aurelia; il conte le cedette l’uso di una piccola casetta in paese, ed ella dovette abbandonare, piangendo, colla morte nel cuore, il castello dov’era cresciuta, dov’era invecchiata, dove tutta la sua vita, onesta, laboriosa era trascorsa, lasciandovi tutte le sue abitudini, tutte le sue affezioni. Nad era sempre l’unica confidente di Luscià. Ella la vestiva, l’abbigliava, l’infronzoliva come una bambola; era, con lei, tenera, umile, servile ed anche esigente ed imperiosa; aveva l’autorità di esserle utile e necessaria. Luscià non l’avrebbe lasciata un momento. Ella non si affezionava punto nè alla casa, nè al paese. Nel castello era sempre, come al primo giorno, un’ospite incomoda, non la signora; la zingara e il vecchio maniere non se l’intendevano punto, non si compenetravano. Fra’ suoi istinti e quella veneranda chiocciola di una razza di potenti, v’era sempre la ripugnanza di due mondi diversi. Non si sentiva bene che nella camera; e bisognava vederla quella camera! disordinata, piena di confusione come una tenda. La giocondità grave e profonda della vendemmia si spandeva per le campagne; i vigneti, tinti di tutti i colori autunnali, gaia decrepitezza della verzura, erano pieni di canti, di operosità; dolci nenie la sera salivano il colle, accompagnate dallo stridere dei carri sopraccarichi di tinozze e di arbie ricolme. Luscià non amava nulla di tutto ciò. Il suo trattenimento favorito era di star seduta dinanzi allo specchio, ridendo con Nad o cantando sulla _cobza_, ch’ella e la nonna sonavano benissimo, le melodie imparate a Milano; le melodie facili, allegre, erano quelle che preferiva. Qualche volta i suoi ghiribizzi da zingara la pigliavano. Ella scorazzava allora per la campagna, squarciando filari, strappando tralci, imperversando come un animale malefico, per involare un grappolo di uva, che mordeva furiosamente, assaporandovi la voluttà del furto riuscito. Il conte, testimone di queste scene, ne rideva di gran cuore. Dell’altre volte si vestiva di tutto punto, si copriva da capo a piedi di gingilli, di gale, di pizzi, di merletti, di nastri d’ogni colore, d’ori, di brillanti, e così attillata, mascherata, impennacchiata, ella montava in carrozza e si faceva menare, di galoppo, attraverso a sette od otto villaggi dei dintorni. Lo scampanìo delle sonagliere della sua quadriglia, lo schioccar della frusta, lo scalpitar dei cavalli, spinti alla corsa sul ciottolato ineguale, invadevano, con violenza improvvisa, la pace sonnolenta, la morta quiete dell’abitato; tutti correvano all’uscio, alle finestre; le donne balzavano, con meraviglia paurosa, a schivar i bambini, facevano ala dalle due bande, atterrite, sgomente. E Luscià passava sdraiata nel suo cocchio, sorridente, superba, contenta. Una sera alla cascina di Evasio, uno dei massai del conte, spannocchiavano il granturco. La famiglia ed i vicini sedevano in semicerchio dinanzi al portico, sulle pannocchie; i vecchi in mezzo sopra alcune sedie, dinanzi a loro la gente matura, poi più in là i giovani, come vanguardia in prima fila, e ai due lati in mezzo alle foglie i ragazzi. I vecchi sonnecchiavano un poco raccontando le cose d’una volta; gli uomini discorrevano di cose positive; qualcuno contava qualche storia ardita, suscitando fra le donne degli scoppi saltellanti di risa secche, di singhiozzi repressi. I giovani cantavano: L’ho trovata la fortuna Nel cantuccio dove batte Il chiarore della luna. Poi il ritornello di voci stridule, infantili, lanciate a piena gola, si diffondeva: E di pingoli, mingoli, ranplan, plan Chi n’ha poco, chi nulla, chi tan, tan, tan. Le pannocchie intanto cadevano con ritmo affrettato e si ammucchiavano nel mezzo dell’aia. Un lumicino conficcato in una pilastrina del portico, col pretesto di rischiarare, lasciava nella dolce penombra le confidenze susurrate all’orecchio da due labbra carnose, i pizzicotti furtivi, le strette di mano sotto le foglie, gli sbagli di acchiappare un piede od un ginocchio in cambio di una pannocchia. Il vinello andava in giro a inaffiare i soliti fichi secchi. Il silenzio e le tenebre profonde della campagna incorniciavano quella tranquilla giocondità rusticana. Ad un tratto succede un tafferuglio; il lumicino, colpito, cade e scompare, le pannocchie volano alla cieca, all’impazzata, e, guarda alla testa! qualcuno irrompe in mezzo al crocchio, pesta gambe, rovescia petti; è un grande fruscìo, è uno scompiglio, un rifascio, una confusione da non dirsi. Poi, ad un tratto, silenzio, uno svolazzo di risatine che fuggono. Cos’è nato? Chi si trova sepolto sotto un mucchio di foglie, chi una pannocchia in seno, chi col naso ammaccato; chi bestemmia, chi ride; si domandano spiegazioni, si accusano a vicenda; il diverbio si accende, ma finisce con una pronta riconciliazione, e coi soliti scappellotti di sicurezza ai ragazzi, — qualcuno cerca il lumicino per terra. Doro, un grosso fanciullone di sedici anni, dice a Centino: — Non hai inteso tu? mi è piombata alle spalle; fo per pararmi, mi volto, mi cade addosso faccia contro faccia, dei capelli lunghi mi cascano in bocca, negli occhi, e sento un odore, un odore buono! non hai sentito tu? l’ho ancora nel naso. Fo per tenerla, passo le mani alla vita, sento liscio come seta... Ma lo zio Evasio piglia Doro pel collarino, lo leva di peso, e: — Alla paglia, allocco, imparerai a far le chiassate... Lo issa su per la scala a piuoli del fienile, suo appartamento notturno. Quando l’ebbe visto ritirato, levò egli stesso la scala, per sicurezza, brontolando fra i denti: — Diavolo di una contessina! Una carrozza s’allontanava sullo stradone. La prima quiete per quella sera non tornò più; i rabbuffi dei vecchi, gli scapellotti paterni non giovarono a rinfrenare quella ragazzaglia scatenata dalle gherminelle burlone; il vinello non puro, ma innocente da ogni male fatto, fu calunniato atrocemente. Una vena di umor birichino era entrata là in mezzo e vi accendeva razzi di monellerie infinite; soffocate qui, scoppiettavano più in là; le confidenze appioppate all’orecchio, le strette furtive, gli scambi nelle foglie furono innumerevoli... Quando Evasio, alzandosi, prese il lume e pronunziò le parole d’uso: — grazie, a buon rendere, — Centino sfiorando il bordato di Agnese, fantasticava il _liscio come seta_, di cui Doro gli aveva parlato. Scoccava dal viso, dai modi di Luscià una provocazione al disordine strana, involontaria. Ella poteva dire colla frase evangelica: — sento che una certa virtù è uscita dalla mia persona. — Però gli effetti erano tutt’altro che salutari. Tutte le domeniche il cappellano diceva la messa nell’oratorio del castello; ma Luscià preferiva lo svago della messa grande alla parrochia del paese. L’arciprete, decrepito e acciaccoso lasciava quella massima fatica al suo vicecurato, un giovine venuto da poco, smilzo, trasparente come una candela, timido, che balbutiva un poco. Quando si voltava a dire il _Dominus vobiscum_, arrossiva e non guardava in faccia a nessuno. Ma la prima volta che Luscià venne alla messa, una forza prepotente lo costrinse a levar gli occhi... e... _Do... vi... Dobi_..., restò in asso colle braccia aperte. Luscià lo fissava seria seria e contegnosa; solo una fine ironia, un’aria quasi impercettibile di beffa trapelava dal suo volto. Una risata repressa serpeggiò, singhiozzò per la chiesa; il vicecurato non salutò quel giorno i fedeli... XVI. Il conte cominciava a soffrire uno strano malessere, non sapeva bene che cosa, un sentimento di vuoto, di morale solitudine. Luscià non mostrava alcuna confidenza per lui. Aveva tutte le docilità servili, le compiacenze supine, le tenerezze convenzionali della schiava favorita. Ubbidiva alla sua volontà, subiva i suoi desideri, non li preveniva. Chiamata, accorreva pronta e premurosa, rimaneva passiva al suo fianco, senza impazienza, con una sommessione perfetta, irreprensibile. Ma, egli l’aveva notato con dolore, non veniva mai, spontaneamente, a cercarlo. Se qualche volta gli si avvicinava, era per chiedergli qualche cosa; le sue carezze non erano allora che la diplomazia dei suoi capricci; questi soddisfatti, cessavano. Spesse volte, dopo una scena di suppliche, di preghiere, quando egli cominciava ad illudersi, a vedere in quel fuoco artifiziale di moine una scintilla di affetto vero, Luscià, allontanandosi improvvisamente, fredda, impassibile, lo lasciava profondamente mortificato. La sua arrendevolezza di gentiluomo rendeva anche meno frequenti queste illusioni; nè egli era uomo da valersene consciamente. Accordava sempre tutto; l’idea di esigere un compenso lo avrebbe stomacato. Fra loro non c’era stato punto vero di contatto che il sollazzo dei primi giorni a cui ella aveva, senza saperlo, trascinato il marito inconscio; scomparso questo, il loro allontanamento si approfondiva. Il fatto è che quella baraonda, quello sfogo tutto fisico, rumoroso, chiassoso, non poteva bastare ad Emanuele. E nella severa casa de’ suoi avi non poteva neppure piacergli. Ristabilito l’equilibrio nel suo animo, le facoltà più nobili avevano ripreso il sopravvento. Svaporata la foga tardiva di un’adolescenza repressa, sedato l’orgasmo dei sensi, svanito il fascino femminile, il cuore cercò la donna. E la donna restò un mistero. Come l’antico scultore, egli si sforzava di ravvivare un’immagine, ma invano. Quando si trovavano soli a passeggiare nei boschi, nella solitudine del parco; quando, alzandosi da mensa, nel silenzio grave, voluttuoso dell’ore meridiane, Luscià veniva, con la grazia di un cagnolino domesticato, ad accoccolarsi, pigra e sonnolente, sulle sue ginocchia, egli aveva ancora degli slanci di vivacità, delle smanie; la copriva qualche volta di baci furiosi, le scompigliava i capelli, vi tuffava la fronte riarsa, s’inebbriava del suo sorriso, del suo profumo. Ma non era più la gaia spensieratezza facile e poco esigente d’una volta; i suoi trasporti avevano qualcosa di più violento, di più profondo, di più tormentoso. Erano i dubbi, le inquietudini, le curiosità dolorose, gli sgomenti delle sue riflessioni solitarie, delle sue veglie, era tutto il suo cuore straziato, che irrompevano in quelle carezze, che picchiavano con queste smanie, per farsi strada nel cuore di lei, e che pur rimaneva fredda, impenetrabile. Perchè egli l’amava perdutamente, infinitamente. L’ideale della prima simpatia, passando per il fascino de’ sensi, gli era penetrato nelle carni, nel cuore, nello spirito, e vi aveva suscitata una di quelle passioni terribili, violenti come le tempeste, che commovono i laghi profondi e dormenti delle montagne. Una passione che aveva tutto l’impeto del desiderio, tutta la forza del sentimento, tutte le pretese infinite dell’ideale, che avrebbe voluto sollevare la donna amata fino all’adorazione, e, non potendo, discendeva con lei fino nel fango dei sensi, cercandovi oblìo di sè stesso e trovando tormento, umiliazione. Certe volte egli, esasperato, stringeva Luscià fra le sue braccia, metteva il suo labbro ardente sovra quelle di lei fresche e profumate, la sua fronte corrugata e accesa su quella di lei bianca, marmorea, figgeva gli occhi allucinati nei suoi; il suo petto ansante batteva contro quello di lei. Diceva: — Se il sospiro di un sentimento, se la scintilla di un pensiero scatterà dal suo cuore, — io lo sentirò, sarà mio. Ella di solito s’addormentava. Allora lo prendeva un acuto dolore, poi un grave sconforto, una nausea profonda; — le braccia gli cadevano penzoloni; sentiva un peso molesto, una ripugnanza per quel corpo inerte. Talvolta la tortura era tanto insopportabile, ch’egli era costretto a svegliarla. Luscià si alzava, fregandosi le palpebre; non si lagnava, scivolava a terra leggera e s’allontanava. Emanuele la richiamava, — ella ubbidiva, tornava presso di lui, gli chiedeva quetamente: — Che vuoi? — Non comprendi? le rispondeva con voce tremante. Ella lo guardava muta, riflessiva. Dopo alcuni minuti di silenzio: — Vado, diceva, — e se ne andava. Egli la lasciava andare — e si ritirava nella sua camera coi nervi in sussulto. La sua mente si perdeva, avea degli accessi di superstizione. Si chiedeva per qual sortilegio fatale i loro spiriti non riuscivano a intendersi, ad affiatarsi nella stretta intimità della loro vita. — Ella m’appartiene, sclamava, con tutta la sua persona, con tutta la sua volontà; non un suo sguardo mi sfugge, non un respiro; ella ride, dorme fra le mie braccia, posso contare tutte le sue pulsazioni; ella è veramente ossa delle mie ossa, carne della mia carne, — eppure ella non è mia: si è mai visto, si può spiegare l’accordo di un così completo abbandono e di una così completa indipendenza? La sua persona non ha segreti per me, eppure io non vedo nel suo spirito più di quello che veda nel cuore il mio cavallo. Ma era molto peggio. Si poteva dubitare che il cavallo avesse una coscienza propria, indipendente dalle sensazioni esteriori. Invece in Luscià c’era, senza dubbio alcuno, un mondo morale ignoto a lui, incomprensibile, senza punto d’incontro col suo. Guardando negli occhi di Luscià, in quei suoi sguardi fissi, quando era queta e immobile, si sentiva davanti a un abisso tenebroso, che gli dava delle vertigini. Egli aveva allora quasi paura di quell’essere ignoto che non lo capiva e ch’egli non riusciva a capire. Quando si recava da lei, appressandosi alla camera, la sentiva parlare con Nad nel proprio dialetto, — non pareva più quella: — si fermava alla porta ad ascoltarla, — tratteneva il fiato, — non capiva nulla; — ma sentiva nel suo cicalio degli accenti teneri, profondi, affettuosi, ora soavi, ora impetuosi, quasi violenti; era la sua anima che parlava allora, — era il suo cuore che tripudiava, — che soffriva. — Perchè? — chissà! Appena egli entrava, il miraggio spariva: la sua fronte s’appianava, i suoi lineamenti si quetavano, la commozione si celava rapidamente, il sentimento dileguava in un baleno, l’ultima lagrima cadeva, gli occhi rimanevano asciutti, e sulle sue labbra, sulla sua fronte, sul suo volto tutto quanto si atteggiava prontamente il sorriso freddo, servile, odioso, che non diceva nulla e nascondeva tutto: una maschera. Ella aveva dunque delle gioie, dei dolori che a lui non era dato conoscere. Ma quali? Ci pensava e ci si smarriva. Quando era con lui ed egli cercava scrutarla, ella non mostrava tema e neppur diffidenza, — ma solo una ingenuità illimitata. Un giorno che l’aveva intesa piangere angosciosamente, egli la prese in disparte, — uscirono insieme per la campagna: egli si trovava più ad agio con Luscià fuori che non fra le mura del castello, dove pareva i ricordi, le abitudini, le convenienze si frapponessero fra loro due. — Presero il sentiero della fontana e discesero nella valle. Camminavano sopra un tappeto fitto di foglie di pioppo. Luscià coglieva nei prati dei gigli freddolini d’un violetto vivace: ma appena li aveva messi in seno avvizzivano, ed ella li buttava. L’autunno spargeva per la campagna le sue tinte calde, tutti i toni dalla porpora intensa delle lacche al rancio vermiglio del carmino, al giallo, all’oro lucente. Emanuele guardava quella falsa pompa di vita nella natura morente; credeva leggervi la condanna della sua gioventù in ritardo. Era triste, rimpiangeva la malinconica severità della vita solitaria di una volta. Luscià era del solito umore, senza la minima traccia di una commozione. Ad intervalli si accostava al marito e gli parlava dei suoi gusti di fanciulla viziata, della veste ch’ella voleva farsi, chiedendogli il suo consiglio sopra una quantità di particolari nuovi che ella aveva pensato. Repentinamente egli le disse: — Luscià, tu non hai confidenza in me. E soggiunse prendendole il braccio: — Tu non mi dici mai il tuo pensiero: hai dei dispiaceri e me li nascondi... — Io... no... — Stamattina tu hai pianto, io t’ho sentita, — perchè? Ella tacque. — Dimmelo, — perchè piangevi? — Non ricordo... — Qualcuno ti ha offesa, afflitta... — No, no, rispose Luscià crollando vivamente il capo. — Dunque?... ti sentivi forse male... — Sì, mi sentivo male. — E non mi dici nulla! — e cosa ti sentivi? — Non so, — ora è passato... — Vedi, ripetè Emanuele, l’ho detto, tu non hai confidenza in me che ti voglio tanto bene, in me che penso continuamente a te, che non ho segreto per te, che farei non so cosa per vederti contenta! — Ma tu non sai ch’io ti voglio bene, non te ne importa nulla, perchè sei cattiva, perchè non hai cuore. Luscià camminava a testa china al suo fianco. — Senti; — Emanuele si fermò; — senti, puoi tu lagnarti di me, lo puoi? — No... — Dunque, perchè mi neghi ciò ch’io ti domando? è così poco... parla... dimmi... — Che cosa? — Orbene, farò anch’io così, non ti parlerò più, non ti dirò più nulla... non mi vedrai più, sclamò il conte amaramente. Ma la minaccia non fu più efficace delle suppliche: Luscià rimase silenziosa. Più tardi, il conte interrogò Nad. Ella gli disse che Luscià le aveva mancato di rispetto; che, per questo, ella l’aveva sgridata e fatta piangere. Emanuele fece un umiliante confronto: egli con tutte le sue parole, i suoi scongiuri non era riuscito neppur a commuoverla. Appena l’aveva lasciato, Luscià era salita tranquillamente nella sua camera, aveva tirato fuori un mucchio di nastri e aveva fabbricato un visibilio di nodi per guarnirne una tunica che l’era arrivata da Torino quella stessa mattina. Fra le mille ipotesi che la stranezza del suo caso gl’ispirava, il conte pensò che causa della freddezza di Luscià fosse la diversità del suo linguaggio nazionale: s’ella potesse parlare con lui la lingua nella quale il suo cuore s’era dischiuso ai primi affetti della vita, la lingua che parlava con Nad in quei momenti di abbandono di cui egli era stato tanto geloso, forse sarebbe più espansiva, più confidente anche con lui. E pregò la sua sposa d’insegnargli il suo gergo indostanico; si fece a sua volta discepolo di lei, un discepolo attento, zelante, docilissimo, instancabile; il suo cuore aiutò nello sforzo la sua mente. Per alcune settimane non ebbe altro pensiero; la sua intelligenza non cessava un minuto dal frugare nelle strane parole zingaresche per scoprirvi il pensiero, il sentimento, l’anima tanto desiderata della sua Luscià. Ma ad un tratto s’imbattè in una desolante conclusione. Luscià aveva acconsentito di buon grado ad accontentarlo; ma non gl’insegnava che parole di cose comuni, tutte materiali: quando egli le chiedeva l’equivalente di un’espressione di affetto o di pensiero, si fermava interdetta, non comprendeva, non sapeva cosa rispondere. Un dì gl’insegnò che l’amore si chiamava _koba gamaben_, e per commento gli mise le braccia al collo baciandolo sulle labbra freddamente. Poi gli chiese se egli voleva _kelen_, divertirsi! Questa parola fu un lampo sinistro per Emanuele. Gli parve intravedere un abisso spaventevole di corruzione... Il conte si persuase che anche questo mezzo non giovava a nulla; il discorso di Luscià non diventava punto più elevato, e invece, per la scarsità e materialità delle parole, si abbassava infinitamente il suo. Gli nascondeva ella la parte migliore del suo linguaggio, come gli celava il suo cuore? Egli non lo seppe mai, — nulla poteva fargli supporre in lei un proposito, un rifiuto deliberato; — quando alle sue insistenze per avere una versione ella rispondeva: — non so, — il suo volto pigliava l’aria della più sincera, della più candida ignoranza. Ma il conte non poteva persuadersi che lo spirito fosse così scarso, così rudimentale sotto quella bella fronte pensosa, in quegli occhi profondi. Egli si paragonava a Faust, e si crucciava di non potersi far comprendere da quella Margherita viva e vera. Sentiva talvolta per lei quella ripugnanza di stanchezza che si sente per la materia ribelle di un lavoro sfortunato. L’evitava allora, la sfuggiva; un vero scoramento gli rabbuiava lo spirito. Poi colla riflessione tornava il suo buon naturale, un raggio di serenità squarciava la caligine della disperazione; l’indulgenza lo ravvicinava a lei, gliela mostrava buona, innocente, ingenua. E per due o tre giorni egli ridiventava fiducioso, tenero, per ricadere daccapo nell’accasciamento. Ma gli impeti erano sempre più lunghi e gli intervalli sempre più radi. XVII. Verso il fine di ottobre Emanuele si ammalò di una specie di tifoidea, che altra volta l’aveva preso in seguito a soverchia tensione di spirito. Una sonnolenza febbrile lo teneva per parecchi giorni immobile, in uno sbalordimento pesante; le immagini, le percezioni passavano confuse sul suo cervello come una visione sbiadita. Una fantasia lo tormentava: era una principessa rinchiusa in una torre dalla gelosia di un castellano. Egli ne udiva i lamenti, le malinconiche canzoni: — riconosceva la voce di Luscià. E poi s’immaginava d’essere il tiranno; sognava misteriosi tentativi di fuga, minaccie, pericoli: sognava di perderla, gliel’avevano tolta. E soffriva volta a volta del dolore di lei e delle gelosie dell’inumano carceriere. Dopo una crisi violenta la febbre cessò; svegliandosi un mattino vide Aurelia che dormiva in una poltrona al capezzale. L’alba trapelava dalle commessure delle imposte. La vecchia governante, appena saputo del suo male, era salita al castello a farvi valere i propri diritti, — che nessuno si curò di contestarle. Trovato vuoto il suo antico posto d’infermiera, ci si era installata e non l’aveva abbandonato un minuto. Il giorno saliva; il conte si guardava intorno come per cercare qualcuno. Chiudeva gli occhi, li riapriva, si voltava. Tra le imposte il filo scialbo del crepuscolo si mutava in lucido nastro d’argento, poi d’oro, poi rancio, poi color di rosa, poi di rubino. L’impazienza del conte cresceva. Guardava alla porta. Una larga lista di fuoco scendeva contro al muro sul letto. Il sole doveva essere alto, poichè aveva superate le quercie del parco. Aurelia si riscosse, lo guardò, e fe’ un’esclamazione di gioia: — Oh benedetta la Madonna! lei sta meglio. Il conte fe’ cenno distrattamente di sì. — Mi perdoni, sor contino, soggiunse Aurelia, la libertà che mi ho presa; ma l’altre volte ero qui, e lo curavo, — non ho potuto resistere. Il conte la guardò, parve ricordarsi di qualche cosa, — trasse la mano e gliela porse. Aurelia, riconoscente, commossa, si profuse in ringraziamenti, in ricordi, in paragoni col tempo d’una volta. Il conte l’interruppe: — Che ore sono? Aurelia guardò l’orologio. — Come! sono le nove: ho dunque dormito ed anche lei; — le ho dato la medicina che erano appena le tre. Oh pigraccia che sono! — Hai passata qui la notte? — Sì. — Sola? aggiunse il conte a mezza voce. — Sola... Il conte parve riaddormentarsi. Capitò il medico, s’accostò al letto in punta di piedi, lo guardò, — parlò ad Aurelia. — Lasciamolo dormire. Poi sulla porta: — Ha chiesto di... E fe’ un cenno col pollice sopra la spalla. — No, rispose la governante. — Meglio, meglio... Il conte domandò poco dopo: — Che ore sono? — Le dieci. Rinchiudeva gli occhi; poco dopo li apriva per ripetere la stessa domanda. Il tempo andava lento. Venne il mezzodì, la una, le due. Una viva ansietà cominciava a trapelargli dal viso. — La contessa? chiese finalmente. — Non so, — sarà nel suo appartamento. — È malata? — Non credo, perchè esce tutti i giorni in carrozza colla vecchia, disse Aurelia, che un resto di rancore rendeva imprudente. Il conte non disse nulla, — si voltò verso il il muro. Dopo mezz’ora, senza volgersi, domandò quanti giorni erano ch’egli stava in letto. — Dalla domenica, rispose Aurelia, — sette giorni! Il conte non disse più nulla fino a sera. Quando Aurelia al cader della notte accese la lampada da veglia, si volse, e con affettuosa premura le disse di recarsi a riposare. Ella non voleva, — ma il conte tenne fermo, insistette, usò della sua autorità, — bisognò obbedirgli. Uscita che fu, egli chiamò la cameriera, e la mandò a pregare la contessa di passare da lui. Luscià fu pronta a venire; entrò franca senza l’ombra di un rammarico o di un rincrescimento: era tranquillissima. S’appressò al letto; rimase là ritta ad attender che parlasse. Il conte le fe’ cenno di sedere. — Perchè non sei mai venuta? La sua voce era velata per la commozione. — Non mi hai chiamata, ripose ingenuamente. Il conte riprese ironico: — Così io poteva anche morire che tu non ti saresti incomodata... Luscià parve riflettere a questa strana possibilità che per la prima volta le si presentava alla mente: una nube leggiera di pensiero attraversò fugace la sua fronte: i suoi lineamenti si tesero come per trattenerla, poi, come spossati dallo sforzo, si allentarono in una dolce stanchezza. Giocherellava colle ciocche de’ suoi capelli sciolti, li annodava sotto il mento, li passava sulla fronte, li architettava in cento foggie diverse. Dopo un lungo silenzio Emanuele le dimandò: — Dunque non hai nulla da dirmi? Luscià si raccolse, — fe’ cenno di no. — T’annoi? puoi andartene. Ella s’alzò, e, serena, calma com’era venuta, si avviò verso l’uscio. Emanuele non potè trattenere un’esclamazione dolorosa: — Luscià! Ella si volse, tornò al suo fianco. — Non te ne importa dunque nulla di me, egli disse fra il severo e il lamentevole; proprio nulla... te ne vai così!... — Tu mi mandi via... — Oh Dio, non comprendi dunque, non comprendi...? Emanuele le scoteva con forza le mani. — Vuoi ch’io resti? disse ella placidamente. — Non voglio io, non voglio mai nulla, lo sai; — ma se tu volessi... se tu volessi, capisci... Il medico sopraggiunse in quel punto. — L’abbiamo passata; ella sta meglio, signor conte, un po’ meglio, disse, ma ci vuol calma, una gran calma. E voltosi a Luscià, come allora la vedesse, le fe’ un inchino frettoloso. Trasse un piccolo pacco da tasca. — Le ho portato questo, che le procurerà una buona nottata. Dov’è Aurelia, che le dia le istruzioni? — Dia qui, resto io, stanotte, disse Luscià. Il medico la guardò meravigliato. — Bene, signora contessa, ogni ora e mezza una di queste cartine in un cucchiaio d’acqua; del resto la solita limonata — e calma! Luscià ammanì la prima pozione, la diede al marito e riprese il suo posto; trasse le gambe sulla poltrona, vi si raggomitolò dentro. Le tranquille opere dei servi cessavano a poco a poco: un lieve rumore di pedate riguardose, un sommesso bisbiglio saliva le scale, si perdeva nei meandri dei piani superiori, qualche lieve cigolare di vecchie porte sugli arpioni arrugginiti, qualche eco indistinta e morente, — poi il castello si addormentava nel silenzio vasto della campagna. Luscià socchiudeva le palpebre, si crogiolava fra il sonno e la veglia, in quel sopore conscio, volontario della pigrizia che ci si sente e ci si gode: il sopore dei servi, degl’infermieri, delle sentinelle; nel quale il corpo dorme, e lo spirito, raccogliendovisi, lascia una leggera percezione, un piccolo lume d’intelletto a guardia del suo riposo. Luscià restava immobile finchè al pendolo del caminetto batteva l’ora della pozione d’Emanuele. Allora si moveva, svolgeva lentamente le molli curve della sua persona, si strofinava gli occhi, il viso, stendeva le gambette sottili, le lisciava con felina delizia passando le manine sopra la seta delle calze, le calava a terra l’una e poi l’altra, cercava colla punta del piede breve, arcuato, la pianellina di raso bianco. Si rizzava, si accostava al letto con un dondolio pieno di grazia. Compiuto il suo ufficio, tornava prontamente a rifugiarsi nella sua nicchia morbida e tepida di velluto turchino, nel cui abbracciamento la sua personcina pareva un gioiello nella busta. Ricuperava la sua posa, la testa leggermente ripiegata, la persona curva sopra un fianco, le mani intrecciate sopra un ginocchio; la veste di casimiro bianco a palme si apriva un po’ sul petto, e lasciava scorgere le trine candide della camiciuola e il principio del seno. Il lume della lucerna velata la circondava di penombre rosee, di trasparenze alabastrine tremolanti come un’onda diafana e sottile. Sotto il candore brunito delle gote era soffuso un leggero incarnatino. Emanuele non ne staccava l’occhio un minuto. Sul suo volto, acceso dalla febbre, guizzavano baleni di passione, di tenerezza, di affanno, di dispetto, di collera. Una volta egli la trattenne. Ella non fe’ resistenza; abbandonò sul suo petto la flessuosa persona. Socchiuse gli occhi, — riposava nell’aria densa della camera, fra le braccia convulse di lui, fresca fresca come sopra un tappeto di fiori. Sorrideva. Egli singhiozzava, rabbrividiva. Ad un tratto ebbe un sussulto sì forte, che ella si riscosse bruscamente. Emanuele levò le mani verso di lei: — Oh Luscià!... Ella si curvò con un po’ di diffidenza e gli baciucchiò le labbra ardenti. Egli la respinse. Luscià si alzò tranquilla e si scostò. Allora Emanuele si lanciò verso di lei, l’avvinghiò colle braccia, se la tirò contro il seno. — Non sono i tuoi baci ch’io voglio, quei tuoi baci freddi, forzati, — è il tuo cuore, sono i tuoi pensieri, bisogna ch’io sappia se tu mi ami o mi disprezzi... E la scoteva fortemente. — Tu sei tranquilla mentre io soffro, tu stai otto giorni senza chiedere di me, tu sorridi quando piango — e poi mi baci — perchè mi baci?... dimmelo, perchè mi baci?... le carezze si danno quando si vuol bene — ora io ti sono increscioso. Guarda, meglio che tu Io dica, già io lo veggo... che ti sono increscioso... Ella taceva. Emanuele attendeva ansioso una risposta, desiderava di essere contraddetto, — di potersi illudere. Le gridava con voce soffocata: — Parla, parla... Le stringeva convulsivamente le braccia, la premeva delirante sul petto. Le faceva male. Ella non si lagnava, non si schermiva — lasciava fare silenziosa, impassibile. Era l’alba; la lucerna impallidiva: l’aria si faceva più pesante; una subitanea stanchezza sottentrava al parossismo. Emanuele ricadeva spossato sui guanciali. Un freddo sudore gli gocciolava dalla fronte. Lagrimava, gemeva, si assopiva domandandole perdono, con la profonda codardia dell’innamorato. Quando si risvegliò egli credette d’aver sognato: Luscià era queta, calma al suo posto. Un fil di sole le carezzava le crespe dei capelli. La chiamò a sè, le sorrise, le baciò le mani, le fe’ un mondo di tenerezze, le disse che si sentiva meglio, ch’ella lo aveva guarito... Per parecchi giorni, finchè Emanuele non cominciò ad alzarsi, ella non uscì dalla camera. Ogni donna, specialmente nelle razze primitive, è naturalmente infermiera. Emanuele era commosso: le si mostrava riconoscentissimo di questi riguardi, che egli scambiava per devozione, per qualcosa di più profondo ancora. La ricambiava con ogni maniera di premure, di gentilezze: le mandava a prendere tutte le leccornie possibili. Erano tornati gli abbandoni dei primi giorni dopo le nozze; la prostrazione fisica lo risospingeva alle debolezze d’una volta. I sensi, fiaccati dal male, irritati dalla inerzia, rimanevano sotto l’ascendente dei vezzi di Luscià. XVIII. Però Emanuele, causa la cattiva stagione, ebbe una convalescenza lunga e penosa. Le forze stentavano a ritornare. La pioggia quasi incessante lo costringeva ad una prigionia rigorosa fra le mura del castello, dove dal cielo nebbioso, rannuvolato, scendeva un barlume crepuscolare, una grigia caligine, una cupa mortificazione della mente e del cuore. Anche Luscià pativa di quella vita rinchiusa. Insensibile alla austera poesia del focolare domestico, di un affetto solitario, rimaneva sopraffatta da un grave torpore. Il castello le pareva un carcere che la vastità rendeva più triste. Non si arrischiava ad attraversare gli androni oscuri; gli echi profondi le facevano paura. Il più del tempo se ne stava nella sua camera, raggomitolata, avviluppata, di panni d’ogni sorta, intirizzita, rattrappita, immobile come un filugello nel proprio bozzolo. Due volte al giorno, all’ora del desinare e della cena, il marito veniva a cercarla per condurla in sala; si facevano servire dinanzi al vasto camino, dove ardevano grossi ceppi di quercia: ascoltavano la triste conversazione dei tizzi che cigolavano coll’acqua che grondava di fuori. Spesso, allo sparecchiar della mensa, ella si addormentava. Emanuele osservava allora il suo viso smorto, languente, cui il tedio dava l’apparenza di un subitaneo deperimento. Egli ripensava alla visione persistente della sua malattia: alla giovinetta prigioniera, e degli strani sgomenti lo prendevano: se fosse stato il presentimento di una sciagura... Il suo sguardo ansioso la vedeva talvolta peggio di quel che fosse: sparuta, disfatta. Ella però soffriva veramente. Un singolare malessere si rivelava in lei: l’assaliva spesso uno sbadiglio ostinato, morboso, opprimente. Pareva una dissoluzione della gioventù, della vitalità soffocata. Invano Emanuele cercava di rianimarla: si stillava il cervello per trovarle distrazioni, senza riuscire ad altro che a deplorare la povertà della propria inventiva. La vita del castello diventava sempre più triste e monotona: le giornate sempre più brevi e buie: la solitudine cresceva intorno a loro e fra loro, una solitudine uggiosa, piena di molestie. Nella tetra solennità di quella stagione e di quel luogo per discorrere bisognava avere delle cose molto serie da dirsi. La conversazione si riduceva sempre alle solite frasi, ai saluti d’uso. La sera il conte riconduceva la sposa assonnata nel suo appartamento; le diceva: — buon riposo, cara, vuoi nulla? Ella faceva cenno di no. Egli ripeteva: — buona notte, a domani. Ma una volta entrò con lei e aggiunse: — Sai, ho pensato di condurti fuori di qui, andremo a Parigi, sei contenta? XIX. Presa la risoluzione, Emanuele, al suo solito, ne affrettò con furia i preparativi. Una settimana dopo, lo stretto necessario per mettere in sesto le faccende più pressanti, Emanuele e Luscià partivano. Sarebbe stato molto più facile rimanere a Torino, dove egli possedeva una palazzina; ma la sua disgrazia a Corte e lo screzio colla nobiltà gli avrebbero fatto colà una posizione intollerabile, avrebbero tracciato intorno a lui una specie di quarantena d’appestato. A Parigi, dove era stato parecchi anni, aveva lasciato degli amici, dei compagni di studi, di aspirazioni. Appena arrivati, i due sposi vi trovarono accoglienze affettuose, compagnia, inviti, cortesia pronta e premurosa. Luscià, per la stranezza stessa della sua avventura, che sarebbe stata nella chiusa società torinese d’allora, un peccato originale indelebile, incontrò rapidamente in quella capitale cosmopolita, avida della novità, della singolarità. La baronessa di Cortrans, dama savoiarda, congiunta di Emanuele, si affrettò a presentarla nel mondo elegante, ne fece l’attrattiva della sua sala, ritrovo rinomatissimo in quel tempo dell’alta emigrazione italiana. Molti degli uomini, che comparirono poi nella grande epopea della nostra rivoluzione, venivano da lei quasi tutte le sere, confortando l’esiglio con le memorie e le speranze; mettendo in comune il loro patrimonio di alti propositi, di generose utopie, che con diversa fortuna svanirono o prosperarono alle prove della realtà. Si radunavano col barone nella biblioteca. Intanto la signora, ancora giovane e oltremodo gentile benchè non bella, faceva gli onori delle sale dove traevano in folla i _lions_ della migliore società parigina, artisti in voga, i quali cercavano svago alla conversazione brillante, alle civetterie nervose dei crocchi del paese, nella contemplazione delle superbe e scultorie beltà italiane. Luscià ebbe colà il suo momento di successo: diventò per tutto un inverno la bellezza alla moda. Ella non ci si trovava neppure troppo a disagio per le qualità morali, perchè poche di quelle donne allevate colle rigide massime dei _rusteghi_, erano realmente più côlte di lei. Quanto agli uomini, anche intelligenti, essi perdonano sempre con grande indulgenza l’ignoranza ad una bella donna; anzi se ne compiacciono come di un vezzo, di una piacevolezza. Luscià si lanciò dunque avidamente incontro al successo che le si presentava. I suoi muscoli giovanili, irritati dall’ozio sonnolento di Peveragno, tripudiavano di quel moto continuo. Divideva le sue giornate in due parti: quella in cui si divertiva, quella in cui si preparava a divertirsi. Un’ansia, un sussulto nervoso, quasi un brivido foriero di febbre la prendeva quando s’appressava l’ora del festino. Ell’era sempre vestita parecchie ore prima; si agitava nella sua stanza, fra lo scompiglio ed i salti di Nad, come un corsiero robusto impaziente di lanciarsi alla corsa. Poi ella correva da Emanuele: lo costringeva ad uscire: la loro carrozza era sempre la prima ad arrivare e così presto che erano costretti qualche volta a fare un lungo giro prima di entrare. Allora ella si rovesciava sui cuscini; si copriva il volto colle mani, cercando di reprimere con uno sforzo di calma il fremito che l’agitava. Il primo tocco d’archetto, la sera di ballo, la trovava sempre al suo posto, accanto alla padrona nel piccolo crocchio di damigelle premurose di non perdere una battuta; silenziosa, sorda a quel che le dicevano; già lanciata col desiderio nel vortice del valzer o della galoppe. Appena il direttore delle danze aveva gridato il _Messieurs à la queue_, tutti i suoi nervi scattavano ad un tratto come galvanizzati da una scarica prepotente d’elettricità. Ella era sicura di non rimanere indietro: si buttava fra le braccia del primo cavaliere che le passava innanzi, senza guardarlo in viso e partiva, trascinandolo attraverso la sala, inebbriata, frenetica. Tutta assorta nello sfogo meccanico delle membra, ella non aveva preferenze, non faceva distinzioni, dimenticava tutto e tutti — anche il marito, che se la vedeva passar innanzi cogli occhi accesi, fissi nelle fiammelle agitate delle lumiere: il suo viso prendeva in quei momenti il pallore brunito fosforescente della passione delle donne del Murillo. Egli, seduto in un angolo, ritto contro lo stipite di una porta, l’aspettava dell’ore intere, la contemplava senza ottenere da lei uno sguardo. Del resto il marito non poteva essere geloso; quando ella ballava con lui mostrava lo stesso piacere o almeno la stessa indifferenza. Ella non pensava all’uomo, ma solo si valeva delle braccia del ballerino. I sentimenti di Emanuele, usciti dall’ambiente morboso della solitudine di Peveragno, s’erano un po’ alla volta tranquillati. L’atmosfera vivace della società aveva ristabilito un po’ di equilibrio fra i suoi sensi e il suo spirito. La serietà del suo carattere riprendeva, a sua insaputa, stimolata dal pudore, dal decoro del mondo, il sopravvento. Il pensiero ritornava a lumeggiare quella fronte, cui un principio di calvizie precoce rendeva più vasta e più solenne. L’incontro degli antichi compagni, il riannodarsi di antiche amicizie, lo aveva ricondotto agli studi, alle aspirazioni d’una volta. Egli era rientrato nel crocchio di quella generosa aristocrazia italiana che, a scapito della propria ricchezza, ad onta dei propri privilegi, preparava le future grandezze del proprio popolo: che rinunziava volonterosa alla patria per darne una a tutti gl’italiani. I nuovi pensieri, il ritorno di un più alto ideale, dovevano necessariamente smorzare la sua passione — che, d’altra parte, nulla veniva allora a riaccendere. Veramente, i primi giorni, il trionfo di Luscià l’aveva un po’ inquietato; il vederla passare, la sera di ballo, fra le braccia di tanta gioventù, il vederla sempre circuita da un codazzo di ammiratori lo mortificava. Ma poi s’era calmato: il contegno di Luscià era irreprensibile. Ella attirava tutti, non tratteneva nessuno. Dopo tre mesi era impossibile avvertire intorno a lei quel diradamento di adoratori, quella progressiva solitudine che segnala la fortuna di un solo: impossibile scoprire nei suoi modi quell’apparente sazietà, quella rinunzia al dominio leggero delle feste, onde si tradisce in una donna la scelta, il concentramento di una preferenza. Non la si vedeva mai seduta negli angoli; invano la si voleva staccare dalla gran sala; fuori di là non c’era per le attrattiva di sorta; non ne usciva che per partire al braccio del marito. Ella non aveva mai cercato di ricevere, non aveva mostrato alcuna ambizione di prendere un appartamento elegante: la sua stanza non aveva per lei altra importanza che quella d’un camerino d’attrice, in cui ella indossava le sue preziose toelette, di cui era passionatissima. Tutta la sua vita era fuori, allo sbarbaglio dei lumi, nelle feste, nei teatri, agli occhi di centinaia di persone. In casa non veniva che qualcheduno dei più fidati amici di Emanuele: uomini seri, innamorati di un’idea, assorti in un grande obbiettivo, i quali non osservavano Luscià più che se fosse un mobile dell’appartamento. Tranquillato così, Emanuele si era lasciato andare alla sicurezza tranquilla del possesso maritale, e poi insensibilmente a quell’indifferente abitudine di convivenza che era l’ideale dell’alta società parigina d’allora, — in cui molti mariti si contentavano di peggio. Egli non era uomo da darsi mezzo: altrettanto violenta era stata la sua passione, altrettanto profonda fu la sua rassegnazione all’insensibilità morale di Luscià a suo riguardo. Cominciò a far vita a parte: — il giorno non la vedeva più che all’ora della tavola, passando il resto chiuso nella sua camera o nelle biblioteche. La sera l’accompagnava in qualche casa, e quivi lasciandola, usciva con un amico a carezzar con esso i comuni progetti. Poco alla volta anche Luscià parve sfreddarsi, stancarsi della società, frequentarla meno, e poi abbandonarla affatto. Emanuele continuò tuttavia per molto tempo a venir tutte le sere a chiederle se voleva escire, — ma al suo diniego non insistette che le prime volte, poi si lasciò dolcemente tentar dalla nuova libertà e non gli parve vero di trarsi in disparte da quel faticoso turbinío di feste. Ne fu anzi gratissimo alla moglie. La sera, ritirandosi di buon’ora nel suo studio, sentiva una viva soddisfazione di veder già tutto buio nelle stanze di Luscià. Le cose andavano per lui alla meglio, lisce come olio. XX. Però verso il fine di aprile un grave incidente venne a turbare la serenità di quella sua pace. Un giorno che egli aveva dimenticato un libro nel salotto della moglie, venne a ricercarlo. Intese, appressandosi all’uscio, un sussurro sommesso, ma concitato, nelle stanze di Luscià. — Non comprendeva le parole, ma distingueva le cadenze del gergo. Pareva che Luscià si lagnasse e supplicasse. Credette che ella si bisticciasse con Nad, e stava già per andarsene, quando lo colpì una voce virile, meno prudente, che diceva: — _Balischi!_ — una sozza ingiuria. Riconobbe Nick. Allora l’antica indignazione contro il vagabondo lo prese; non potè contenersi: entrò nel salotto. Trovò lo zingaro in una gran collera, che smaniava col suo fare da gradasso per la stanza, balbettando minaccie, rampogne contro Luscià, la quale, seduta sopra uno sgabellino, piagnucolava. Egli aveva levato il suo giubbetto magiaro e mostrava la libertà di un uomo in casa propria. Il conte lo interruppe a mezzo della sua invettiva con un terribile: — E poi? — che lo fe’ voltare di balzo. Lo zingaro balbettò qualche cosa. — Uscite! disse il conte. L’altro obbedì, prese il suo abito, lo buttò sulle spalle e varcò la soglia senza far motto, guardandosi intorno col fare confidente e soppiattone di animale malefico che cede alla minaccia di una forza superiore. Il conte prese la candela e lo seguì verso la porta. Nell’androne, Nick si volse e disse sfrontatamente: — Che ho fatto? — Uscite, vi dico! — Vi par poco minacciare la contessa, mascalzone che siete? — Voi credete ch’io l’abbia afflitta? vi sbagliate. Voi non conoscete le nostre donne, aggiunse con ironia. — Qui non ci sono più donne della vostra razza. Nick tentennò il capo: — Ebbene, disse, volete vedere che Luscià non è in collera con me? — fate la prova, — chiedetele se voi dovete scacciarmi, e se ella lo vuole, mettetemi pure fuori a calci, io sono contento. Il conte era sconcertato da tanta impudenza. Nick, rinfrancandosi, continuò indossando la sua giacca: — Vi ricordate: chi ve l’ha condotta quella sera a Peveragno? Io sono vostro amico; se avessi voluto portarla via, ella mi avrebbe seguito in capo al mondo. Non conoscete le _romni_ voi. Guardate, scommetto che con tutte le vostre bontà, — perchè dicono che voi siete buono, — ebbene, scommetto che io so ancora adesso farmi rispettare da lei più di voi. — Io credo che fareste bene a lasciarmi venir qui qualche volta: io darei alla mia parente dei buoni consigli; le donne hanno mente corta, non vedono oltre la loro bocca, — e per far loro comprendere il bene che ad esse si fa bisogna saper parlare sul serio. Davvero che fareste bene a tener di conto Nick. Andiamo, io non sarò troppo esigente, — mi contenterò di pranzar qui in cucina qualche volta, finchè resto a Parigi. Va bene? Il conte lo guardava sbalordito: nel suo cuore la collera lottava colla sua solita temperanza di gentiluomo. Lo zingaro riprese: — Vi va? Anzi, se mi lasciaste dormir qui in un bugigattolo qualunque — eh? in un corridoio, nel cantuccio della legna, un buco purchessia, eh? Finalmente il conte non ne potè più. Con un gesto impetuoso gli indicò la porta, e lo guardò tanto minaccioso che l’altro non attese altro e sgattoiolò in istrada. Alla fine dell’anno il conte si dovette accorgere d’aver scompigliato seriamente i suoi affari. I prodotti agricoli valevano poco; e le rendite che ne ricavava, bastevoli a dargli in Piemonte una certa opulenza, erano scarse per vivere in Parigi con larghezza signorile. Egli invece s’era abbandonato ad una grande prodigalità: le sole toelette di Luscià gli costavano qualche centinaio di mille lire. Fu costretto, per mantenere gli impegni, a scantonare il suo patrimonio. Ma in quel tempo, anche il vendere i fondi era cosa malagevole. Si trovò in gravi angustie, e pensò di ridurre le sue spese. Rinunziò alla carrozza e a metà della servitù; cambiò l’appartamento in un modesto quartierino, e a malincuore cercò di far capire alla moglie la necessità di una più sobria regola di vita. Ella al solito si mostrò rassegnatissima; appena fu se una piccola contrazione si disegnò agli angoli delle sue labbra. Il conte non se ne avvide neppure. La maggior intimità delle abitudini avrebbe potuto riavvicinarli: e difatti il conte, grato a Luscià della sua docile sommessione, fu verso lei più premuroso. Ma ella non si mostrava più sensibile di prima: s’era fatta pigra, indolente, dormigliona; si ritirava poco dopo l’imbrunire, e spesso all’ora della colazione era in letto ancora; poi, alzata, rimaneva assonnita le poche ore che mancavano a far notte. Questa vita, del resto, le conferiva moltissimo; la sua persona si arrotondiva mollemente, e pareva che la materia soffocasse in lei anche la esigua fiammella dell’anima. L’unione loro, come tutte quelle a cui mancano affinità originarie, era rimasta infeconda. Emanuele, poco alla volta, si rituffò nelle sue abitudini, nei fidati colloqui de’ suoi compagni di studii. Egli arrivò a non veder più Luscià neppur una volta al giorno. L’inverno era incominciato con le sue feste e i suoi numerosi divertimenti; — Emanuele non se ne accorgeva punto: il quartiere dove dimoravano era tranquillo e silenzioso. Quanto a Luscià, colla distrazione del dotto, egli non pensava punto a scandagliarne i desideri. La vedeva sempre calma, sonnolenta, gli pareva contenta, — non chiedeva di meglio. XXI. Era allora ministro di Baviera a Parigi un marchese Tornielli, oriundo del Piemonte, congiunto di Emanuele, a cui voleva un gran bene, e non mancava di mostrarglielo coi rabbuffi di un tutore stizzoso e bonario. Egli era uomo sulla cinquantina; ottimo carattere, che le traversie di una carriera stentata avevano ravvolto di una corteccia un po’ ruvida. Emanuele andava di quando in quando a trovarlo, — e pigliava con un sorriso tra il distratto e il tollerante le sue ramanzine. Egli biasimava i suoi studi, il suo genere di vita, tutto, ma poi si entusiasmava di tutte le sue idee, e, scapolo, era orgoglioso di lui come di un figlio pieno d’avvenire. Un dì Emanuele entrò nello studio della legazione. Il marchese era occupato; un usciere aspettava certi premurosi dispacci. Emanuele voleva uscire; ma egli serio serio gli disse di trattenersi che doveva parlargli. Era accigliato più del solito, e di sotto il suo cipiglio trapelava una vera e profonda afflizione. Finito che ebbe, spedito il corriere, si levò e cominciò a misurare a passi ineguali la camera. Ad un tratto si piantò davanti al cugino: le parole gli scattavano dagli occhi, dalle rughe della fronte scarna. Ma subitamente si voltava e continuava a passeggiare più concitato di prima. Finalmente Emanuele gli domandò: — Cosa c’è?... La collera del marchese non aspettava che questo per traboccare. — C’è, disse, che, caro il mio savio, mentre tu guardi alle nuvole capitomboli nella fossa... c’è questo. Emanuele, avvezzo alle esagerazioni del cugino, sorrise... — Questo al figurato, — ma in termini più positivi? — Oh! non c’è punto da ridere. Sbuffò; camminò a più riprese. — Al fatto; te l’ho detto io che bisognava occuparsi un poco della casa... e della moglie? — Della moglie? di quale moglie? — Eh per bacco, della mia no sicuro... — Ma che c’è? — C’è che mentre il marito svapora da una parte, la signora dall’altra... si diverte... — Ah!... — E fa bene, per bacco, fa benissimo... Il conte impallidì spaventosamente. — Sì... si sa... Insomma, cosa volete dire? — Sicuro, la contessa fu vista ad un ballo pubblico... Il marchese nominò una sala da ballo notissima di una delle strade peggio riputate dei sobborghi. — Non può essere! sclamò il conte con voce soffocata. — È pur troppo, — per Dio, se è! — l’ha veduta un mio dipendente! — Ed è venuto a contartelo? disse Emanuele indignato. — No, io ho sorpreso le sue confidenze... — Ê qui quest’uomo? voglio parlargli... — Ti pare? Vuoi ch’io ti metta al suo confronto? — Son cose che si fanno? — È vero, mormorò Emanuele, — e si lasciò cadere sulla sedia. Dopo una pausa dolorosa egli disse esitando, come temesse di vedersi spezzato un ultimo filo di speranza: — Sarà qualcuna che le assomiglia... Il marchese fu crudele: lo sdegno non gli permetteva lume di riguardo. — Sì, le assomiglia tanto che sta in casa tua. — L’hanno seguita?... — Già! — Era sola? — No, con uno straccione qualunque, un vagabondo che... so io... Ma non ha mica torto, — la colpa è tua... Egli si voltò. Emanuele s’era alzato, e se n’andava barcollando. Il marchese gli fu sopra, — lo prese fra le braccia... — No... sono una bestia io... tu sei stato troppo buono, ecco tutto... Ah bisogna farsi coraggio, che diamine, essere uomo; ci vorrebbe altro! perder la testa per una cosa di quel genere! Si fa così... E crollava le spalle. Come tutti gli imprudenti, gettata la sua rivelazione, si pentì, volle attenuarla, dimezzarla, rimetterla in dubbio. Il conte non l’udiva più. XXII. Per due notti consecutive Emanuele stette in ascolto al buio nella propria camera: nulla si mosse nella casa. La terza sera, sfinito, si buttò sul letto e s’addormentò. La sua naturale confidenza cominciava a rinascere in lui. Ma le parole del marchese tornarono vive immagini a turbargli il sonno. Si svegliò con grande sgomento. Invano si sforzò di riprender sonno. Dopo un lungo battagliar fra il timore, la curiosità, il sospetto, la ripugnanza, non potendo quetare, si levò, accese un lume e mosse dritto alle stanze della moglie. Nello spingere la porta del salottino urtò nel corpo di Nad, che s’era buttata a dormire attraverso la soglia. — Dov’è Luscià? le domandò il conte. — Dorme. Il conte tirò innanzi verso la camera della moglie. — Ella si sente poco bene, non la svegliate, soggiunse la vecchia con forzata naturalezza. Il conte si fermò un minuto colla mano sulla gruccetta. Poi con atto violento spinse l’uscio, entrò. Luscià non c’era... Emanuele balenò come se la scoperta gli venisse improvvisa. Quando uscì, la vecchia era scomparsa, lasciando aperta la porta di strada. Emanuele corse alla piazzetta vicina, chiamò un fiacre, — si fe’ condurre all’indirizzo indicatogli dal marchese. Quando vi giunse gli orologi battevano la mezzanotte. Si trovò in una fangosa via del sobborgo, fiancheggiata inegualmente da meschine casupole ed alti muri di officine. Una plebe cenciosa si riversava nella strada dalle bettole, da certe porticine di losco aspetto, su cui penzolavano delle lanterne a grosse scritte. Gli esercenti spingevano fuori a malincuore, per rispetto della moralità ad orario fisso dei regolamenti di polizia, lo stravizzo che avevano sfruttato. Frotte di ragazzacci e di donne avvinazzate venivano innanzi schiamazzando, e due guardie civiche si adoperavano alla buona di farle tacere; — ubbidivano, ma poco più in là le donne ricominciavano a strillare più forte e a beffare le guardie. Alcune giovinette saltellavano in punta dei loro scarpini attraverso la belletta che correva in mezzo alla strada, tirandosi a bisdosso, sulle spalle nude, sulla testa irta di fiori finti, certi scialletti logori, luridi, inzaccherati, — e delle donne più attempate correvano loro dietro bestemmiando sconciamente e chiamandole con stranomi di carnovale. Un fanale gettava su quel brulicame e su quel fango i suoi riflessi tristi, smorti, quasi compassionevoli. Il fiaccheraio si fermò innanzi ad una di quelle porticine, su cui un largo trasparente recava scritto a lettere cubitali: _Sala da ballo_, — e disse: — È qui. La vista della carrozza diè pretesto alla folla che usciva dall’andito ad una quantità di lazzi: — L’equipaggio di Suson, gridava uno. — Lolotta, il tuo banchiere ti aspetta. Qualcuno più impertinente cacciava la testa fra lo sportello e gittava in faccia al conte, che stava rannicchiato nell’ombra, una sciocchezza, una sconcezza, una nota di canzonaccia, con una ributtante vampa di ubbriachezza. — Esmeralda, strillava un ragazzo, — il mio cuore in un fiacre! Due voci, una di uomo, l’altra di donna, che fecero trasalire il conte, risponderono insieme: — Alla paglia... — Marmocchio!... Il conte aspettò che la gente diradasse un poco, poi scese, licenziò la carrozza e tornò indietro a piedi... Non tardò a raggiungere Luscià e Nick. Camminavano l’uno a fianco dell’altro; egli fumava la pipa, ella morsicava tratto tratto una sigaretta; lo scialle, — uno stupendo casimira, — le cadeva dalle spalle, — spazzava il marciapiede lubrico. Egli vestiva un sucido abito borghese, ma portava il suo tondo _muchdi_ in testa. Il conte li seguiva dalla parte opposta della strada. Dopo un centinaio di passi entrarono da un acquavitaio che stava chiudendo la bottega, e si fecero servire un bicchierino. Uscirono cantarellando. Emanuele pensava alle follie che avevano fatto insieme nel loro viaggio di nozze. Poco più in là svoltarono in una viuzza quasi buia a dritta. Il conte tenne loro dietro in un labirinto di sucide ed ignote straducole deserte, dove non si udiva più che il rumore dei loro passi. Luscià si volse due o tre volte, e parve accorgersi d’essere seguita. Rallentò il passo. Ella e Nick si bisticciavano a mezza voce. Pareva ch’egli volesse qualcosa e ch’ella se ne schermisse. Sulla porta di un piccolo caffè si fermarono. Nick prese il braccio della donna e lo strinse forte: ella mandò un piccolo strido lamentevole e allargò la mano: un oggetto cadde, e Nick si chinò a raccoglierlo. Poi entrò borbottando nel caffè. Luscià tornò indietro lentamente, fumando la sua sigaretta. Il conte si nascose nell’andito buio di una porticina che stava socchiusa. Ma la donna spingeva poco dopo la testa fra i battenti, entrava, li raccostava, e passando al buio accanto a Emanuele, gli disse: — Vieni. Il conte la seguì trasognato. Fatti alcuni passi, ella si fermò. Il conte sentì la mano di lei che cercava la sua: la prese. Ella lo tirò su per una angusta scaletta a chiocciola. Un piccolo sportellino si aperse e un viso scialbo di donna si affacciò un minuto, scambiò con Luscià un bisbiglio e disparve. Sul pianerottolo una vecchia fante assonnita comparve con un doppiere di bronzo argentato, li precedette in una stanza, depose il lume sopra una tavola tonda nel mezzo e prima di uscire domandò: — _Champagne_ o _Portos?_ — _Champagne_, rispose distrattamente Luscià — vero? La fante uscì passando accanto ad Emanuele che era rimasto sulla porta; lo fissò con qualche po’ di attenzione. Egli si guardava attorno sbalordito; la stanza era qualcosa tra la camera mobigliata e il camerino di _restaurant_; una toeletta di legno verniciata in verde, una larga ottomana, un armadio a specchio e alcune sedie sfilacciate; alcune orribili litografie colorate con cornici nere spiccavano sopra la tappezzeria scura dei muri: _Europa col toro, Dafne ed Apollo, Giuseppe e la moglie di Putifarre, Susanna al bagno_; profanazioni di mitologia sacra e profana. Rientrò la fantesca col vino: trovò ancora il conte al suo posto e lo guardò di nuovo. Egli pareva impietrito. Luscià non s’era voltata ancora, s’era levato lentamente il cappellino, lo scialle, li aveva buttati sulla tavola; s’era lasciata cadere sopra una sedia e aspettava. Il conte la trovava bella come non l’aveva mai vista. Tutto quel non so di triviale, di plebeo, di lurido che l’attorniava, non scemava, ma faceva risaltare i suoi vezzi. La sua bella testa greca, il suo collo flessuoso, avevano un fascino maggiore in quel fondo equivoco. Ella era al suo posto. Pareva più seducente, più viva, più altera. Egli la contemplava e dimenticava nel guardarla ogni cosa. Ad un tratto ella s’alzò e accostandosi allo specchio disse con impazienza: — Dunque?... hai paura? Poi levò gli occhi; il viso pallido, esterrefatto del marito apparve nel cristallo dietro il suo. Si volse di repente. Il conte si fe’ innanzi col pugno chiuso; un’onda di sangue gli passò innanzi agli occhi smarriti. Ella chinò il capo sul petto nudo, ma gli teneva gli occhi in viso, e lo guardava fisso più meravigliata che atterrita. Emanuele si arrestò: — Che fai qui? le disse con voce rauca. — Nulla, dobbiamo uscire? rispose Luscià senza turbarsi... Il conte arretrò allibito; un singhiozzo gli eruppe dal petto. Un grande ribrezzo lo prese, una ripugnanza, una compassione profonda a quella creatura abbietta e ignorante; a cui egli aveva donato il suo nome e il suo cuore perch’ella li trascinasse inconsciamente nel fango. — Non capisce, mormorò, non capisce... E fuggì a tentoni giù per la scala. Mentre scendeva lo sportellino si apriva e una voce disse: — Esmeralda è sola. Qualcuno saliva dietro di lui. Uscì in istrada. Il caffè era aperto ancora. Nick giocava a un tavolino in fondo... L’indomani, per tempissimo, il marchese Tornielli si vide capitare in camera il cugino, che pareva un uomo disfatto. Non ebbe cuore d’interrogarlo. Il conte sedette accanto al fuoco, stette per oltre mezz’ora senza far parola: si passava la mano sul viso, si lisciava la barba. — Sai? parto, disse finalmente. — Parti? — Ritorno a Peveragno e son venuto a salutarti. Si abbracciarono, si baciarono, — il conte uscì. Poco dopo rientrò. — Volevo dirti che di tutto l’appartamento lascio padrona... lei... — Non sarebbe meglio licenziare la casa... e consegnarle i mobili? non conviene ch’ella rimanga là... ti pare? — Bene, come vuoi... addio, disse il conte. — Arrivederci, rispose il marchese. Poco prima che varcasse il limitare gli gridò ad alta voce: — E coraggio, neh! davvero! XXIII. Cinque giorni dopo il conte di Peveragno scendeva colla posta dalla Gran Croce. Nella carrozza un prete savoiardo ed una donna attempata avevano riappiccato i loro sonni mattinali, nutriente ristoro dei vecchi. I cavalli andavano lenti e faticosi giù per la china ghiacciata. Un raggio di sole smorto, languido, si posava sopra la campagna coperta dalla neve come una fiacca gioia sulla canizie di un ottuagenario. Il conte seguiva coll’occhio stanco, affaticato, con un’istintiva invidia, alcuni augelletti che svolazzavano fra i cespugli scotendone la brina densa e polverosa, pigolando il loro tripudio minuscolo in mezzo a tanta vastità di gelo, di solitudine, di desolazione. Sul sedile davanti il vetturale discorreva con un montanaro che gli sedeva al fianco: — Perchè ho lasciata la corriera di Annecy, voi dite? Oh l’è una storia curiosa. Il signor Molleton, il concessionario, non ve l’ha detto? Lo credo, non ha di che vantarsi. (Uh, uh, una schioccata.) Il signor Molleton ha l’abitudine di non consultar mai i suoi uomini sulla scelta delle bestie. Io glielo andavo ricantando. — Guardate, gli dicevo, voi non sapete cosa sia per noi vetturali un cavallo: l’ha da essere all’incirca come fra marito e moglie, — una intesa a fondo, limpida come l’acqua. — Non la voleva capire — e non se n’intendeva una maledetta. Fatto sta che un giorno che era tornato da Montpellier, mi ferma in istalla e mi mostra una bestiaccia d’inferno, — bella cavalla d’apparenza, nera come una mora, con un pennacchietto bianco sulla testa. Lui l’aveva tolta da un ufficiale francese, veniva dall’Africa o da casa del diavolo, che so io. — Io ho subito capito che l’era una malora — lui badava a dir — è bella, eh? — bella da imbalsamare, ho risposto. — Difatti me le avvicino, la piglio alla cavezza, la guardo, le apro la bocca, le caccio in gola il morso — pareva docile come un cagnolino. Mi volto — paf — il morso era caduto nella greppia. — Le mettevo la sella, colle zampe rompeva le cinghie e la buttava. — Ho cominciato ad attaccarla al biroccio una domenica, e ho fatto un giro, andava dritta finchè le tenevo le redini strette, rigide e la frusta sulla groppa; — guai a rallentarle un minuto; si buttava traverso la strada. Bastava che scendessi e la lasciassi, che pigliava il galoppo legno e tutto. Insomma io gli dissi, al signor Molleton: — la venda che non è affar mio — la bestia non m’intende, io non l’intendo; non siamo compatriotti — se stiamo insieme, uno dei due ammazza l’altro. Per fortuna sono stato io. L’attaccava da circa una o due settimane e la tenevo d’occhio e stavo all’erta. La diavolessa aveva un occhio che mi faceva paura — pareva sommesso, ma a fissarlo in fondo aveva certi guizzi pieni di perfidia. — Non passava dì che non me ne facesse una — o mi storpiava uno stalliere, o azzoppava un compagno, o mangiava i finimenti — insomma era stregata. Un mattino esco d’Annecy; l’oste della Scopa mi chiama per darmi una commissione. Scendo. Non ero entrato nell’osteria, che sento un gridìo in istrada. Mi son subito immaginato. — La diligenza partiva a precipizio. Dopo alcune rapide svolte si fiaccava contro una ripa. Nessuno si fece male — ma fu un brutto rischio. — Io addosso alla cavalla... era la causa di tutto, non si chiede manco; la mettevo nel mezzo — essa aveva preso a calci e a morsi le altre due bestie. — Ero fuori di me; non so come mi trovassi un coltello in mano, e l’ho scannata come un maiale. Poi piantai lì tutto: la diligenza e il posto. E nessuno venne a cercarmi — non sono mica fuggito; anzi passai sull’uscio di Molleton un’ora dopo. E non ebbe il coraggio di dirmi verbo. — XXIV. Il conte rientrò nel suo castello sull’imbrunire, quietamente, soprappensieri, come se tornasse dalle sue solitarie passeggiate di un tempo. Chiese tosto d’Aurelia. Dopo cena, non vedendo comparire la governante, ridomandò di lei — e allora soltanto intese la risposta del servo: Aurelia era morta. Ripigliò un po’ più tristamente ancora le sue antiche consuetudini; con qualche restrizione però. Egli evitò nelle passeggiate qualche strada, condannò le finestre che guardavano verso San Nazario. Durante la sua assenza egli aveva venduto quel podere, la parte migliore dei suoi fondi, le antiche quercie erano state abbattute e di là un aratro non suo si spinse per la prima volta fin contro le mura del castello. Questo era il marchio obbrobrioso che la manina sottile della piccola zingara aveva impresso sul vecchio dominio feudale, votandolo alla rovina. Ma v’erano altri segni più dolorosi, che l’erede di Peveragno voleva dissimulare; e che la sua fronte calva innanzi tempo e il suo occhio incavato rivelava. I giorni tornarono a scendere nel suo spirito lenti, monotoni, tristi come cade la goccia nell’acqua morta di una cisterna abbandonata in mezzo nel deserto. Passò l’inverno, sbocciarono e caddero volta a volta i fiori dei pruni, dei meli, delle siringhe, delle gaggie, delle madriselve. La verzura dei prati si fè oscura, ingiallì quella dei campi. Scoppiò fra i solchi lo strido della cicala e lo squittir delle quaglie raminghe. Il viale dei tigli gettava l’ultimo tributo di profumi al sole di primavera. XXV. Fu una tempestosa mattina di giugno, aveva fatto temporale la notte, che Emanuele si trovò Luscià svenuta sulla gradinata del giardino; alcune pedate d’uomo che si perdevano nel parco indicavano che qualcuno l’aveva colà abbandonata alla sua misericordia. Senza esitare un momento, senza perdersi in meraviglie, come l’aspettasse da un pezzo, la portò nella sua camera. Ella aveva le vesti di seta a brandelli, gli stivaletti impastricciati di fango; il viso deformato da un morbo orribile; era disfatta, poco più d’un cadavere. Il medico fu sbalordito di vederla in quello stato, — non diè alcuna speranza. Emanuele le si pose d’attorno, lottò contro il male con l’energia disperata della sua indole soldatesca, non pensò alla incertezza della vittoria — l’ottenne. Dopo molte settimane ella tornò in sè stessa. Aperse gli occhi, lo guardò, accettò le sue cure senza ombra di rimorso e di riconoscenza, — pacata, serena, come non fosse mai uscita dal castello. La malattia tirò in lungo quasi tutta l’estate. Emanuele non lasciò mai ad altri il suo posto del capezzale. Non le lasciò accostare nessuno. Non riposò che ad ore spezzato sul divano — la notte ella stava peggio del giorno. — Egli la vegliava attento, nel cupo silenzio della campagna non interrotto che dal canto triste dei risaiuoli, che andavano a scambiare la fame colla febbre. Raccolse tutti i suoi lamenti, tutte le sue parole, tutti i suoi sguardi — non ebbe da lei nè una lagrima di rammarico, nè un ringraziamento. Non glielo chiese. Forse non ci pensava. Alla fine d’agosto cessò il pericolo. Poi ella si riebbe rapidamente. Il suo viso rifiorì, rivestì una nuova grazia, una nuova purezza. Quando il medico le annunciò la guarigione — battè le mani con gioia infantile, non pensò neppure a guardare il marito che l’aveva salvata. Emanuele non le ricordò il passato. Egli però qualche volta pensava con isgomento all’avvenire: ma finchè durò il male diceva fra sè: quando starà meglio; — e quando essa fu convalescente: lasciamo che guarisca; — poi si contentò di crollare le spalle e qualche volta aggiungeva: vedremo che farà lei. Ma ella non fece assolutamente nulla: — s’alzò, ricominciò la sua vita di due anni prima; tornò a cantare, ad annoiarsi, a girellare un po’ nei dintorni, — tutto come prima. Emanuele non aspettava quasi più di «vedere.» Il presente l’opprimeva — ma aveva paura dell’avvenire. Non era una paura infondata. Una notte, dopo la vendemmia — sentì un leggero rumore nel suo studio. Da qualche settimana si lamentavano dei furti nei paesi vicini: accese un lume, prese una vecchia pistola che teneva carica nel comodino, e andò a vedere. Trovò lo scrigno aperto e vuoto. Qualcuno si allontanava pel corridoio. L’inseguì. Un’ombra fuggente spiccava nel vano della porta aperta, rischiarata dalla luna. Gli parve riconoscere Nick. Appuntò la pistola... sparò. Il ladro si chinò rapidamente, una figura bianca apparve e cadde. Un cachinno di scherno si dileguò nel giardino. Emanuele tornò pel lume; accorse — vide Luscià distesa a terra. La recò nella vicina stanza di sua madre. Era ferita, il sangue le usciva a fiotti dal petto: spirava al posto dove l’aveva incontrata la prima volta, senza mostrargli rancore d’averla uccisa, come non gli aveva mostrato riconoscenza del suo amore — lo fissava con quello sguardo impassibile, impenetrabile nella gioia, come nel dolore, — uguale nello stravizzo e nell’agonia. CASCINA E CASTELLO. I. Ad Ormeto e nei dintorni, parecchi si ricordano ancora di quando il castello, — uno dei più vistosi dell’Astigiana, — occupava tutta la spianata in cima alla collina e i suoi giardini scendevano giù a ripiani per le falde ed erano chiusi da un grosso bastione munito di barbacane, di spaldi e di guardiole che gli davano l’aspetto di una fortezza. — Costoro dicono che allora, proprio in faccia alla torricella esagonale, che difendeva la porta del bastione, a destra, sulla strada che da quella conduce al villaggio, giaceva una meschina casupola di contadini con una stalletta, un piccolo fienile e un po’ d’aia davanti: — si chiamava la _Cascina della trena_ con voce del paese, che risponde alla toscana _trapelo_, perchè una volta, da tempo immemorabile, quelli che ci stavano avevano, con tanti altri obblighi, anche quello di venir colle loro bestie incontro ai veicoli del conte d’Ormeto giù nella valle, e quindi trainarli su per l’erta salita fin nei cortili interni del castello; la quale servitù, quantunque dichiarata nel 1771, con tutte l’altre feudali, redimibile da un decreto di re Carlo Emanuele III, aveva continuato ad esercitarsi, per avarizia o miseria dei gravati, fino all’epoca della conquista francese. Finchè il castello mantenne intera la sua maestà, quell’abituro accosciato ai suoi piedi doveva far la figura del cane di san Rocco nelle immagini dei piloni rustici. Ma poi, poco alla volta, il castello era diventato una stamberga e la _cascina_ un caseggiato vasto ed opulento. La trasformazione aveva durato sessant’anni. Quel che l’uno perdeva l’altra guadagnava. Era stata una lotta sorda, lenta, ma incessante, implacabile, a corpo a corpo. La _cascina_ aveva cominciato ad allargarsi quetamente fino ad occupare tutto il terreno che le rimaneva ai due lati; e s’alzò d’un piano. Poi spinse innanzi due ali ai fianchi e attraversò la strada privata che girava tutto intorno sotto il bastione ed era una volta il fosso di questo, e venne ad appoggiarle al muro. Poi, dopo un po’ di sosta, un bel giorno sfondò il bastione, squarciò il terrapieno che stava dietro e spianatone un buon tratto, chiuse il suo cortile con un gran portico che congiunse le due ali. La torricella del portone feudale, rimasta serrata in un angolo, nascose vergognosa i suoi merli sott’una gronda plebea e si mutò in piccionaia. Poi la cascina diventò casa civile e gettò il rustico dietro le spalle, facendo per questo un’altra breccia nel muro e un altro squarcio nel terrapieno signorile. Poi tutto il bastione fu levato e i suoi materiali servirono alla fabbricazione di un altro portico e d’un’altra stalla smisurata, che sorsero dal lato opposto della collina. Allora la _cascina_ si spinse arditamente innanzi dalle due bande e si strinse intorno al castello: poi prese a scalzarlo, a cacciarvisi sotto, a ficcarvisi dentro, a scavarne le fondamenta, a strappargli le viscere, a scrollarlo, ad abbatterlo. La facciata e i due corpi laterali caddero ad un tratto lasciando aperto il cortile. E cadde con essi il grande terrazzo della facciata, rudere venerando dell’epoca longobarda, sul quale nelle solennità della famiglia si alzava lo stendardo stemmato; e al suo piede dalla parte di fuori s’appoggiava una volta la tribuna di pietra donde il signore amministrava la giustizia. — Sparirono allora il doppio portico a centine e i vasti cameroni del pian terreno. Dopo qualche anno si misero le piccozze e le zappe nel fabbricato del fondo, corpo principale del castello, che mostrò le sue viscere lacerate, i suoi appartamenti storici, dove hanno alloggiato D. Ferrante Sanseverino principe di Salerno e Bernardo Tasso: — spaccati da cima a fondo i suoi anditi pieni di misteri e di tradizioni, le sue alcove ricche di memorie e di segreti: — le costruzioni di tanti secoli accatastate l’una sull’altra, sepolte l’una sotto l’altra, veri strati di una storia famigliare e patrizia, i macigni rozzi dell’età remote, gli edifizi semigotici della media, i barocchi dei tempi più vicini, le colonne tozze, senza base, dai capitelli mostruosi, i solai a modiglione, gli stretti fenestrelli binati, le lesene, gli stucchi, gli stipiti, le cornici dorate, i muri dipinti, vennero fuori ad un tratto per sparire insieme in un sol mucchio, per confondersi in un polveraccio comune, per diventare terra e macerie. Pareva venuto proprio l’ultimo giorno, per il vecchio maniere d’Ormeto. Ma ad un tratto, quando già metà della fabbrica era stata abbattuta, le picche si arrestarono come per incanto. — Si spazzò il terreno dai rottami, si puntellarono i muri rovesciati che ancora rimanevano in piedi, si turarono alla meglio le fessure. E sulla collina si fe’ silenzio. Questa tregua dura da dieci anni. La cascina si chiama ancora con questo nome, e i proprietari di essa sono ancora chiamati _quei della trena_. II. Al castello, nell’antica stanza matrimoniale, sta agonizzante la vecchia signora Maria Cristina Matilde di Roveglio, contessa vedova del conte d’Ormeto, di Ronco e di Valonghera, che fu dama d’onore della regina Maria Teresa. Al suo capezzale, seduta colla testa nascosta fra i guanciali, v’è una giovine donna: — la contessina Maria. Ha poco più di ventun’anni ed è la terza volta che assiste ad una agonia; ha perduta la madre, poi il padre: se ora le muore la nonna, resterà sola al mondo. A piè del letto v’è un omaccione membruto con abito fra il contadino e l’operaio; colle braccia conserte sul petto fissa, cogli occhi inebetiti dal dolore, la morente. Gli arredi della stanza ricordano una grande ricchezza passata e rivelano una più grande angustia presente: il letto, vasto e pesante mobile del tempo dell’impero, ha perdute le sue dorature: il baldacchino rotondo di damasco violetto ha le cortine sfilacciate ed ha perdute le ghiande d’oro: le sedie hanno i cuscini pieni di strappi e di rimendature: il vasto specchio della _console_ è tutto macchiato: le tende di velluto delle finestre sono sbiadite e corrose dalla polvere. Una meschina lucernetta ad olio gitta su quello squallore dei riflessi fiochi e sinistri. Le ore vanno lente e pesanti: il silenzio profondo non è interrotto che dal respiro affannoso della contessa, la quale abbandona sul guanciale il viso smunto, emaciato, più bianco della trina che lo cinge. Entra il pievano in punta di piedi, s’accosta riguardoso al letto, esamina la malata lungamente: la saluta, le susurra qualche parola di conforto. Poi si ritira presso all’uomo che è nella stanza e gli dice sottovoce: — È molto tempo che è così? — Da stamattina. — Non parla più? — No, quando la signorina le rivolge la parola, la guarda, sembra conoscerla, sembra capire quel che le dice, ma non risponde. — Il medico è venuto? — No, da tre giorni non s’è fatto veder più: sono stato a chiamarlo oggi e mi ha strapazzato: dice che non c’è più nulla da fare. Il prete crolla il capo dolorosamente e dopo qualche minuto soggiunge: — Sapete, Pasquale, cosa dovete fare? Qui sotto alla _Cascina della trena_ è arrivato da ieri il sor medichino. Chiamatelo lui. Pasquale s’incammina verso la porta e poi torna indietro. — Debbo dirgli che è lei, che lo prega di venire? — No, no; fate voi come voi. Pasquale esita un po’, poi si dispone ad uscire; ma la contessa fa un gemito doloroso che lo arresta sulla porta: essa si agita, fa degli sforzi per parlare; il pievano e Pasquale accorrono presso di lei; la contessina alza il capo attonita. — Che vuole? — chiedono tutti e tre in una volta. La contessa raccoglie tutte le forze e con un filo di voce risponde: — No... non... vo...glio colui!... — Chi?... — domanda il pievano perplesso. — Il medichino? — soggiunge Pasquale; egli ha indovinato perchè la contessa fa cenno di sì. — Perchè non lo vuole? — entra a dire la contessina, — egli può ordinarle qualcosa che la sollevi, le faccia bene. La vecchia le gitta uno sguardo imperioso, quasi collerico, e ripete boccheggiante: — ... non voglio. Poi rovescia il capo da una parte, la bocca le si torce convulsa, le pupille le si nascondono sotto le palpebre: il rantolo si fa più stridulo e intermittente. — Oh nonna, nonna mia, — grida la giovinetta. — Ella muore. — No, forse non è che uno svenimento; s’è inquietata un poco... se aveste qualche cosa da darle... un po’ di vino... presto, Pasquale, un po’ di vino. Pasquale rimane ancora perplesso: il suo volto vergognoso vuol dire che non v’è in casa una sola goccia di vino. Però il vino non serve più. La contessa è proprio agli ultimi istanti della sua vita, le sue mani si irrigidiscono, il suo viso si scolora, la sua bocca si spalanca, il suo respiro si affievolisce rapidamente. Il pievano dice a Pasquale: — Da basso c’è il figlio del mio massaio che è venuto a farmi lume per la strada, dite che corra dal sagrestano e faccia suonare l’agonia. — Poi estrae dalla tasca la stola e la pianeta, le infila prestamente al collo e al braccio e venuto presso il letto si curva sulla moribonda e le dice forte nell’orecchio: — Signora contessa: si faccia coraggio, si raccomandi al Signore, alla Vergine santa sua patrona; dica con me nel suo cuore: «Signore, sia fatta la vostra volontà, se volete lasciarmi ancora un poco quaggiù per servirvi, — e sia pur fatta, se volete chiamarmi a voi. — » La contessina si slancia sul letto, getta le braccia intorno al capo della nonna e la bacia e la chiama e singhiozza miseramente. Il prete la rimuove dicendole: — No, essa l’intende, e le fa pena. — E soggiunge nell’orecchio dell’ammalata: — Si raccomandi con tutta l’anima al Signore che le vuol bene, che vuol ricompensarla della sua sofferenza; dica: — «Gesù vi offro i miei dolori.» Così continua a confortarla. Il vento autunnale soffia e stride per le commessure delle imposte e fa tremolar la fiammella fumosa della lucernetta: le tappezzerie mal ferme si incartocciano e gemono e i mobili scricchiolano dolorosamente. La campanella della chiesa getta i rintocchi dell’agonia. III. I quali gocciolano giù ad uno ad uno entro la cascina, nel tinello dove sta raccolta la famiglia. Il vecchio _particolare_ Giacomo Bellardi della _trena_, che accasciato in un seggiolone di noce ricoperto di cuoio sonnecchia sui suoi ottantasette anni, dondola in cadenza il fiocco del berrettino nero. Un giovane sul fior dell’età, d’aspetto e di abiti civili, che legge i giornali a un capo della tavola: Giulio Bellardi, nipote in linea retta del _particolare_. Egli ha lasciato lo stabilimento di Acquasana, di cui è direttore, e prima di ritirarsi a Torino, ove dimora, è venuto a passare alcuni giorni nella casa dei _vecchi_. All’altro capo, la vecchia Martina, fantesca della casa, che fa la calza. Seduto sullo scalino della stufa un omiciattolo, un figuro nero, tozzo, tarchiato, in camiciotto di maglia lordo di mosto, col suo bravo cappellaccio in testa e una pipa di gesso fra i denti. La Martina interrompe la calza, tende l’orecchio, corruga la fronte e, come un orologio a cui si dà lo scatto, comincia a borbottare un _deprofundis_. L’uomo della pipa se la leva di bocca, guarda Martina, e con uno strano sorriso domanda: — È per lei? — _Fiant aures tuae intendentes in vocem deprecationis meae_... sì. — Oh stavolta il diavolo avrà il fatto suo, se ella non lo corbella. — _Speravit anima mea in Domino_, — ha corbellato voi!... — Peste! È qui Giacomo che fu troppo buono... — E voi? bisognerebbe che avesse avuto a fare con me, la signora! — _Quia apud Dominum misericordia_... — Se anche foste stata voi... — _Et nunc et semper et in secula seculorum. Amen_... borbotta Martina; poi si leva gli occhiali e soggiunge con calma: — Se fossi stata io quando Giacomo comprò da quello spiantato del contino il castello, avrei posto per condizione che la madre rinunziasse al suo usufrutto. — E se questa non voleva? — Eh! bastava tener duro; avrebbe voluto. Ma voi e Giacomo avevate una così gran furia... — Sfido, c’era sotto il contratto anche il signor Tavella. — Sì, per pigliar la roba a credito. Andate là; avete fatta una gran zappa. Almeno vi foste assicurati dei mobili! — Oh, quanto a questi... non è uscito di là dentro un filo solo. Ho fatto buona guardia, io! — Ah, buon cristiano! Altro che il filo e la tela! son andati le tovaglie di Fiandra, che ce n’erano dieci servizi; e le lenzuole quindici dozzine, tutte di quattro tele, nuove da far invidia... eppoi se ne è consumata ben più assai della roba... Maurizio, mettete un altro ceppo nella stufa. Maurizio obbedisce premurosamente, e poi con il suo solito sorriso ripiglia a dire: — Ma se si doveva lasciare che se ne servisse quella strega... che cosa volevate fare? Martina gli volge un’occhiata di compassione e risponde: — Se si doveva lasciare che se ne servisse, ecco io avrei detto: — Lei se ne servirà dei mobili, sì, ma prima si farà l’estimo e lei darà qualcuno di sicurtà che sia buono alla fine di risponderne. Eh? ve l’ho da insegnar io il modo? A voi che vi chiamano il _Volpone_? E lo siete in quel che vi riguarda. Maurizio sputacchia sui tizzoni e china il capo sotto il rimprovero di Martina. Ma questa non si accontenta di tal muto riconoscimento della propria superiorità, e ripiglia: — Ho ragione sì e no? Maurizio fa una smorfia come per inghiottire qualcosa che gli scotta la lingua, e poi con crescente condiscendenza risponde: — Per dio, voi non dite mica male: ma chi allora pensava avesse a durar più la gatta del micino? Se voi me l’aveste detto... — Allora non ero nulla qua dentro; erano in tanti a comandare!... — Eh! lo so! Però chi la pensava giusto eravate voi. Mentre essi parlano a mezza voce, il vecchio continua a sonnecchiare e il dottore rimane assorto nella sua lettura. Il fuoco divampa e scoppietta allegramente nella stufa. L’_Imperatore_ che sta sulla colonnetta dell’orologio, un _Primo Console_, che in una litografia del muro a sinistra è disperato di non poter passare il ponte d’Arcole, un altro _Napoleone_ in faccia che è stufo di star seduto sopra una nuvola di cotone portata da due aquile, contemplano quella scena e sembrano impazienti di scender giù a scaldarsi anche loro. Dopo una mezz’ora la campanella della chiesa squilla ancora più lugubremente. — St? uno, due, — dice Martina, — è la _passata_, — è morta. Maurizio cessa a un tratto di sorridere e di parlare. Il dottore Giulio interrompe la lettura e domanda: — Chi è morto? — La contessa! risponde Martina, che sta già recitando il _requiem_. Questa volta Maurizio non l’interrompe più. — Povera donna! esclama il dottore ripiegando il giornale. Il vecchio si sveglia di soprassalto e brontola: — Ah!... finalmente... è morta... la vecchia! Poi — cosa fa? — si alza barcollando, appoggiandosi al muro va ad un canterano, lo apre, ne leva un involto di carte. Tutti lo guardano sorpresi. — Sembra uno scheletro gigante vestito alla foggia ridicola del secolo passato. Egli ritorna barcollante al suo seggiolone, vi si lascia cadere, e, slegato l’involto con mano tremante, si pone a scartabellarlo. Pare che non riesca a trovare quel che vuole, perchè s’impazienta e borbotta. Allora il dottore gli viene accanto, e gli chiede: — Nonno, cosa cercate? — Un in...stro...mento. — Aspettate, lo cercherò io. Ditemi qual è. E il dottore prende il fascio di carte e si siede accanto al vecchio. — Leggi... Il dottore comincia dal primo che gli viene sottomano. — _An huitième de la république: liberté, égalité_, ecc. — È in francese, traduco: — «Rinunzia fatta dal cittadino Raimondo d’Ormeto al cittadino Giacomo Bellardi di un diritto di passaggio nell’aia di quest’ultimo. Per lire ottocento. — Non è mica questo? — No. — «1809 — 19 marzo. Cessione per lire seicento... L’illustrissimo signor conte Raimondo d’Ormeto cede al qui presente ed accettante Bellardi Giacomo il diritto di comunione del bastione prospiciente la costui casa con facoltà di fabbricarvi contro.» — C’è unita una procura con la data di Cagliari in Sardegna. — Già... il sor... conte... era scapato col re in Sardegna... cedeva... per procura. — Era agli sgoccioli, — osserva Maurizio. — Continua, — dice Giacomo al nipote. — Questi cosa sono? Atti di lite. — Atto di citazione innanzi alla prefettura d’Asti... l’anno 1816, addì 25 aprile. L’illustrissimo signor conte rappresenta come il Bellardi abbia demolito il bastione comune per tutta la lunghezza prospiciente la di lui casa... ecc. ecc....» Seguono molte comparse, ordinanze, e qui c’è la sentenza: — «La prefettura condanna Giacomo Bellardi a ricostruire il bastione e nelle spese.» — Era dunque vero? — Eh! eh! guarda... — dice ghignando il nonno, — lì c’è l’atto d’appello al Senato. — Sì, colla data del 9 giugno 1821... e con quella del 15 gennaio 1826 la sentenza del Senato di Torino... il quale... «ritenuto in fatto che dal complesso delle prove presentate a suffragio dell’attrice domanda non risulta un criterio di convinzione sufficiente, ecc.... ecc.... e che però si deve nel dubbio ritenere che il bastione sia rovinato per incuria di entrambe le parti... annulla la sentenza della Prefettura e dichiara tenute le parti a ricostruirlo a spese comuni, — spese per tre quarti a carico del conte di Ormeto e per il resto compensate.» — Ah! non era vera la pretesa demolizione di cui vi si imputava, — esclamò il dottore, lanciando un lungo respiro di soddisfazione. — Non avevano le prove! — dice Maurizio con una smorfia beffarda; — il dottore lo guarda inquieto, e pare volerlo interrogare, ma s’astiene. — Egli continua ad esaminare le carte. — Segue un atto di precetto per rimborso di spese giudiziali nella somma totale di lire 7776, e poi una corrispondente iscrizione ipotecaria sul podere di Ronco. — E questa cos’è, una nuova lite? — «Denunzia di una nuova opera alla data del 3 luglio 1835, promossa nell’interesse del minore Rinaldo d’Ormeto.» — Ah questo, glielo dirò io, perchè appunto in quell’anno io incominciai a fare gli affari di suo nonno, — dice Maurizio. — Il bastione, per cui si era tanto litigato, non fu mai ricostruito perchè ci volevano denari, e lassù cominciavano a discendere la china: le acque scolando dal giardino del conte allagavano l’aia; suo nonno fece più volte sollecitare il vecchio conte, ma senza frutto: poi egli lo fece avvertire che lo avrebbe ricostrutto a sue spese, ma che intendeva che la proprietà del muro nuovo restasse, come era giusto, tutta sua. — Lui, il conte a questa proposta voleva ammazzarci tutti: urlava, bestemmiava; un giorno venne sulla ripa del terrapieno con lo schioppo... è vero, Giacomo? — Già, ei voleva sotterrarci, — risponde Giacomo. — Ed è un pezzo che l’abbiamo sotterrato lui. Un bel dì quella carogna andò ai vermi: allora il suo nonno fece spazzare la frana del terrapieno, e in tre settimane fece alzare un bel portico, proprio qui, dove poi si fecero queste stanze. — E i signori d’Ormeto? — chiese il dottore. — Per un anno e mezzo restarono zitti; il vecchio conte aveva lasciato ai suoi eredi molta superbia e molti imbrogli; dopo, la vedova, la contessa Cristina, ora buon’anima, fece quella denuncia che lei ha in mano, ma la fabbrica era finita, e il giudice cantò chiaro al procuratore che in _possessorio_ avevano torto, e che dovevano rivolgersi in _petitorio_ per l’indennizzo. — Cos’è sto pasticcio _possessorio_ o _petitorio_? — domanda il dottore. — Ah, lei non capisce. Ecco: sono due cose differenti, come in un coltello la lama ed il manico; chi abbranca la lama ci si taglia, ma chi impugna il manico arriva a tagliare. In definitiva, nel caso nostro, vuol dire che uno ad opera incompiuta può aver torto, ma a cose finite ha ragione o quasi. Il dottore guarda Maurizio cogli occhi spalancati. Maurizio continua: — Non avendo mezzi di ricominciare la causa innanzi al tribunale, si fece una transazione giudiziale, — guardi che la troverà, — una transazione per la quale quei del castello cedevano a suo nonno il terreno in cui erasi fabbricato il portico, e in compenso egli condonava al minore diverse annate di interessi che gli si dovevano per il credito ipotecario sul Ronco, che ha già veduto. Il dottore rimane un po’ sopra pensiero, ma il vecchio gli fa cenno di proseguire: egli prende di malavoglia un’altra carta e dice: — «29 ottobre 1837, Torino: — vendita a termine di riscatto per tre anni fatta dal conte Rinaldo a Giacomo Bellardi.» — È questo, nonno, l’instrumento che cercate? Il vecchio fa segno di no. — Ah! questo fu un bell’affare, — sclama Maurizio; — Martina, vi pare che allora abbia fatto il vantaggio di Giacomo? eh? il podere del Ronco; 35 giornate di terreno, e che terreno! servirebbe a concimare l’altro, tutto per sole lire 10,000 di cui 8,000 già pagate per l’ipoteca che avevamo messo su quei fondi. — Ma come? non hanno pensato a riscattarlo? — Ci hanno pensato, ma tardi: il figlio aveva venduto, la madre non sapeva nulla e il figlio non si curava di nulla; egli badava a batter moneta di quanto poteva, pur di scialarla a Torino, a Parigi; a lasciare un po’ di lana ad ogni rovo. Spiravano quasi i tre anni e la contessa, avvertita da quel birbo del notaio, mi fa chiamare, dicendo che vuol riscattare il podere: io rispondo che è padrona ma, peste! mi rincresceva di lasciar scappare quel boccone, e a voi, Giacomo? — Per... Diana... — Mancavano due giorni appena al termine, quando la vecchia mi fa dire di passar dal notaio per combinare l’istrumento; io ci vado colla procura di suo nonno: per la contessa c’era Falabrino, il fattore. Costui tira fuori il danaro; tante pezze di Genova, e fin d’allora di queste pezze ce n’erano già delle calanti. Io rispondo che quel danaro non lo voglio; che Giacomo aveva date al figlio tante _savoie_, che tante _savoie_ si debbono restituire. Il notaio allora s’intromette e mi chiede se, fatta una certa riduzione... non so se di quattro o cinque soldi per pezza, io acconsentiva a prendere le pezze di Genova. Batti, e ribatti, io mi lascio persuadere a questo. Ma il Falabrino dice che non può far la riduzione senza parlare colla padrona; che in quel modo anche gli mancherebbe del danaro per la somma convenuta e mi chiede una dilazione di un giorno; io gli dico che vada al castello subito, che torni fra mezz’ora, che io non intendevo essere menato per il naso. Egli esce: io aspetto mezz’ora, poi esco di là, e me ne vo in campagna, alla Vallia, dove facevo atterrare delle piante. Il Falabrino viene a cercarmi nel pomeriggio, non mi trova e non trova neppure Giacomo che era andato ad Asti. Mi spediscono un ragazzo a chiamarmi, ma io rispondo che poichè avevano aspettato fino allora aspettassero ancora fino al domani mattina, che neanch’io volevo far contratto senza prima parlare a Giacomo. La sera, tornato a casa, mi dicono che il Falabrino se n’era andato su tutte le furie ed era tornato indietro gridando che con noi contratti alla buona non se ne farebbero più, che egli farebbe all’indomani deposito in mano al notaio, che la testa dura l’aveva anche lui e che noi avremmo pagate le spese. Sì, dico io, fra me, voi volete giuocare di corna e ve le romperemo ah! ah!... — Questo deposito l’hanno poi fatto? — interrompe con voce malferma il dottore. — Volevano farlo al domani; ma bisognava che ce ne avessero prima regolarmente notificato il tempo ed il luogo. — Non l’hanno fatto? — No, perchè per tutto quel dì l’usciere della giudicatura rimase fuori del paese: era andato a fare per conto mio una citazione fin sulle fini di Mombarone e non tornò che la sera dopo l’avemaria. Il domani non era più tempo per nulla e il Ronco era guadagnato. Il giovane dà un’occhiata al _factotum_ di suo nonno: gli occhi di costui esprimono una maliziosa soddisfazione, le labbra strette mostrano un uomo contento del fatto suo. Il dottore piega l’istrumento che, durante il racconto di Maurizio, ha tenuto in mano; ne cade una carta d’un caratterino ingarbugliato: la prende e ci trova scritto: — «Io Rinaldo conte d’Ormeto dichiaro innanzi a questi testimonii ed affermo d’essere maggiore d’età. In fede mi sono sottoscritto.» — A cosa serviva questa dichiarazione? — Ah! ecco: quando il contino vendette il Ronco non aveva che vent’anni ed era minore d’età. — Era minore!... ma allora non era necessario il riscatto: essi potevano impugnare la vendita _di nullità_. — Sì, — dice Giacomo, — ma... io... avrei accusato il contino... di truffa... — Perchè? — chiede il dottore. — Per quella carta lì che lei tiene in mano, nella quale egli dichiarava una cosa falsa, — risponde Maurizio. Il giovane li guarda entrambi attonito: egli impallidisce, la mano gli trema. Dopo qualche momento di stupore egli fa scorrere gli altri documenti: ne legge i titoli frettoloso, come avesse paura di ricevere altre spiegazioni. Passa così sovra due o tre altri contratti intercessi fra la sua famiglia e quella d’Ormeto. Il vecchio gli dice ogni volta: — avanti! Giunge finalmente all’ultima carta: è l’atto col quale il conte Rinaldo, nel 1848, ha venduto al Bellardi tutte le sostanze paterne che gli rimanevano, compreso il castello; riservato, s’intende, l’usufrutto del quarto, che spettava, per legge, alla contessa madre. — Leggi la descrizione dei mobili, — dice il nonno. — C’è unita infatti una lista di mobili, il cui uso rimaneva alla contessa, stanza per stanza. — Dim...mi quelli del salotto... ot..tago...nale. — Quattro grandi arazzi di Francia... un _trumeau_... dodici sedie... quattro canapè coperti di damasco... due grandi specchi con cornice dorata... una scansia... un tappeto di Fiandra... una lumiera di vetro di Boemia... sei doppieri di bronzo dorato... cortine di velluto con frangie d’oro. — Ah!... li ve...dremo, — esclama il vecchio, — e il suo volto manda raggi di contentezza, di gioia quasi infantile. — Li... vedremo... Egli scambia qualche parola con Maurizio. Il dottore sembra assorto in dolorose riflessioni. Egli si scuote, poi dice: — Dunque tutto il castello è vostro... Il vecchio fa cenno di sì. — Fin d’ora... Il vecchio si frega le mani. — E a lei... alla contessina cosa resta? Maurizio si stringe nelle spalle. — La dote della madre? — Ah... ah!... un bel paio d’occhi neri! la madre era una _operante di teatro_... non aveva nulla. — La dote della nonna? — Eh!... in questi ultimi dieci anni se l’è consumata la vecchia per vivere. — Dunque... non ha più nulla. — Eh... no. Il vecchio s’alza e Maurizio l’accompagna a letto. — Domani... voglio... andarci... voglio... Anche la Martina s’alza, si ritira per svestire, secondo il solito, il vecchio Giacomo; nella quale bisogna è sempre aiutata da Maurizio, benchè questo servigio sia dalla Martina accolto colla maggior scortesia e ricambiato d’ingratitudine. Il dottore è ricaduto nella sua meditazione... egli rimane solo col mucchio di carte spiegate davanti... Le fissa dolorosamente, per forza... pensa a tante cose... alla sua famiglia alla sua origine, all’umiltà sua d’una volta, alla sua ricchezza ora così imponente... Egli n’era orgoglioso come del frutto di un lungo ed onesto lavoro: di una tradizionale temperanza... i suoi vecchi gli erano sempre apparsi come rispettabili e venerande figure: come eroi dello Smiles. — E adesso?... La loro storia eccola là innanzi a lui tutta quanta: in caratteri indelebili... infami!... Dopo mezz’ora Maurizio ritorna nel tinello, si adagia tranquillamente nel seggiolone lasciato vuoto dal vecchio, e, riaccesa la pipa, contempla Giulio con aria di chi vorrebbe riappiccare il discorso. Egli non intende rinunziare alla seconda parte della sua serata, nella quale si trattiene a parlare col dottore di quel che si fa _per il mondo_; in quell’ore egli si degna concedere la sua indulgente attenzione alle bagattelle della politica: a Palmerston, a Metternich, a Russel, a Napoleone III; commisera Cavour e deplora da tre anni la spedizione di Crimea; trova che nel municipio d’Ormeto sotto l’amministrazione di Giacomo, di cui gl’avversari dell’altro partito dicono ch’egli è vice-sindaco, ed egli li lascia dire, gli affari vanno meglio che dappertutto e andrebbero come un orologio se non fossero gli inciampi della costituzione (lo Statuto del 47) che egli si compiace di chiamare _costipazione_. Le scuole sopratutto sono da dieci anni il suo rovello. — Cosa pretendono insegnarci a noi? — egli esclama sovente; — i nostri interessi li sappiamo. Un maestruccolo che guadagna quattrocento lire l’anno vuol insegnarci a far di conto! Maurizio si consola pensando che quello stato di cose assolutamente non può durare. L’altre volte il dottore si sfiatava per fargli un po’ di lezione, ed entrava con lui in lunghe discussioni a tu per tu sulle questioni politiche del giorno. Quella sera invece delle novelle gli dice asciutto: — Andiamo a dormire. Maurizio lo guarda stupito, poi senza scomporsi batte la pipa sulla pietra della stufa, ne scuote le ceneri, e, tratto un cartoccio di tabacco, si pone a riempirla riprendendo con tutta calma: — A che cosa serve la fretta? a domattina ci arriveremo tutti insieme alla stessa ora. E dopo una breve pausa domanda: — E cosa dice la gazzetta? Il dottore sembra non sentire: egli tace qualche minuto poi ad un tratto dice: — Da quanti anni eri qui quando morì mio padre? — Da quasi sette. — Che uomo era? — Ah! il sor notaio era uomo che sapeva il suo conto... ma non quanto Giacomo... non era avveduto come lui... era più molle... negli affari non aveva il suo spirito... — Ah! meno male, — mormora il dottore a mezza voce. — Però con quei del castello sapeva tener duro; quando morì il conte vecchio, fu lui che consigliò di spingere innanzi il portico; egli sapeva che il _possessorio_... stava dalla nostra. Una volta... egli era amico del giudice, aveva delle protezioni dalle braccia lunghe ed a quei signori gliene ha fatte ingoiare delle belle... Una volta... Il dottore s’alza a questo punto e interrompe il racconto incominciato, dicendo: — Non hai sonno, tu? Io sì... buona notte, — e scappa frettoloso dalla stanza... Ma pare che il sonno egli lo perdesse nel salire le scale, perchè passeggiò agitato per la stanza fino a notte molto inoltrata. IV. Comincia a far l’alba; un’alba di novembre: squallida, triste, proprio da funerale. Un nebbione pesante, viscido, acre, s’innalza dalla valle e avvolge il villaggio in una nuvola fitta che rasenta il suolo, si scompagina rompendosi lentamente in mille direzioni. Qualche debole raggio di luce penetra in quella massa grigia e vi pinge dei pallidi nimbi; poi una folata di nebbia lo nasconde, lo assorbe; poi il raggio ricompare di nuovo più chiaro e più diffuso; poi dispare ancora in un’altra folata più scura. La campana della parrocchia suona l’avemaria con un far lento e di malavoglia, come se non fosse sveglia del tutto: i colpi accoppiati si succedono a intervalli sempre più lunghi; affievoliscono e terminano con alcuni rintocchi funebri. La piccola campana dell’Annunziata e la campanella di Sant’Anna, due cappelle che stanno ai capi opposti del villaggio, le rispondono subito con alcuni rintocchi affrettati, quasi impazienti, e paiono rimbrottare la maggior sorella del suo ritardo. Un quarto d’ora dopo due strupi, uno di _umiliate_, l’altro di _battuti_, vestiti del camice di tela, salgono rapidamente, come incalzantisi l’un l’altro, il sentieruolo del castello colle loro due croci; il rumore dei passi segna la misura ad un confuso borbottío di preghiere. Due che hanno mancato al ritrovo seguono alla lontana e, col camice ripiegato sotto il braccio, discorrono tranquillamente di concimi, di sementi e del tempo che fa. Le due confraternite, o almeno i rappresentanti di esse, arrivano sulla spianata della collina e del castello. Quivi li attende Pasquale, smorto come un dissotterrato. Il priore dei _battuti_ gli chiede: — Il vice-curato è venuto? — Non ancora, — risponde con voce rauca. Poi conta con dolorosa meraviglia i sopravvenuti. Sono nove _umiliate_ e sette _battuti_: in tutto quindici persone. — Così pochi?... — egli soggiunge in tono di rimprovero. — Eh, — risponde il priore, — cattiva stagione per le sepolture; tutti hanno la sementa, guai se il tempo si guasta! — Io, vedete, son venuto proprio per riguardo a voi, — ripiglia un altro _battuto_; — ho mandato i buoi innanzi col ragazzo e mi aspettano per seminare. Si parte subito? — Quando viene il prete, — replica Pasquale; e li introduce tutti quanti in una vasta cucina al pianterreno, dai muri nudi, scrostati e corrosi dal nitro. In mezzo, sopra una tavola, parata con un ricco tappeto, sta la bara: un operaio, aiutato dal becchino, sta per adattarle il coperchio. — Volete vederla? — dice questi volgendosi a due donne che gli stanno vicino. Le due donne, esitando, s’accostano alla bara: vi danno un’occhiata. — Maria Verginei — esclama una di esse, — che lenzuolo!... tutto rammendato... — Povera cristiana! — soggiunge l’altra, una vecchia con volto impietosito e gli occhi pieni di lagrime, — povera cristiana, ella non ne aveva più altri. Pasquale si fa innanzi bruscamente, e con cipiglio garrisce i due uomini dicendo: — Andiamo... cosa fate?... copritela. Essi obbediscono, soprappongono il coperchio e il falegname comincia a inchiodarlo. I colpi di martello rintronano fragorosi, rimbombano cupi per le stanze vuote del pianterreno, vi destano echi profondi e paurosi. Tutto il castello, quella povera ruina deforme, rimasta in piedi per lo sforzo disperato della contessa, pare urli sulla sua bara e voglia sfasciarsi e crollare sovr’essa. Un grido acuto, straziante, risponde dalle stanze del primo piano. Pasquale abbrividisce e tosto dice con gran collera: — Imbecille, avevi promesso di far piano. — Hai paura che si risvegli? — risponde l’operaio. Pasquale si lancia a chiudere le porte. Poi ritorna barcollando e accostandosi ad un’altra tavola sotto la finestra dove stanno alcuni fasci di cera, li slega e comincia a distribuirli agli astanti. Egli dà agli uomini un cero per uno e una candela a ciascuna donna. — A me spetta un altro cero, — dice il priore. E Pasquale: — Eccovi il cero. — E dite un po’, dove sono gli altri dodici per l’oblazione alla compagnia? — risponde il priore, vedendo che non ne rimangono sulla tavola che altri cinque. — Come, altri dodici ce ne vogliono? — Sicuro, non lo sapete? — Ma se ve ne ho dato uno per uno, quanti ne volete? — Ma quelli non si debbono adoperare. — Ma se l’oblazione l’ho fatta ieri in danaro. — Avete pagato solo ventiquattro lire; i ceri non sono compresi. — Il vostro vice-priore mi disse che non occorreva altro... — Ma egli non intendeva... — Io gli ho parlato chiaro... — Ma che! Suvvia! — gridano tutti in una volta. In quella sopraggiunge il vice-curato, a cui si rimettono i contendenti. Il prete dà ragione al priore. — Allora Pasquale si rassegna e dice: — Bene, prendete questi, gli altri ve li darò. — Quando? — Dopo la sepoltura. — Ciò non è regolare, io non mi muovo se prima non li ho tutti quanti. — Questa povera creatura, — dice Pasquale, quasi singhiozzando, mostrando la bara, — ha ella mai fatto torto ad alcuno d’un centesimo? — Ma, caro mio, facciamo le cose come vanno fatte. Pasquale capisce che le preghiere non giovano e manda pei ceri un suo ragazzo. Questi ritorna dicendo che lo speziale vuol essere pagato subito. Il pover’uomo inghiotte le lagrime di rabbia e di dolore che gli vorrebbero sprizzare dagli occhi; poi esce, a furia corre a casa sua in paese e incontra la moglie che sta per avviarsi al castello. — Torna indietro, — le dice, — dammi quei danari. — La donna obbedisce, e mentre sta cavando le monete da un involto domanda timidamente: — Sono per la sepoltura? — Spicciati. — Ma la contessa non ve li ha dati in conto del vostro servizio? Dopo mezz’ora egli era di ritorno al castello coi ceri. — Vuoi vedere che fa lui le spese di tutto? — dice un _battuto_. — Che minchione! — risponde un altro. Ogni difficoltà è rimossa: si accendono i candelotti che il priore per la solita saggia economia ha legati ai ceri ed alle candele; quattro _battuti_ alzano il feretro sulle spalle, il vice-curato intona il _Miserere_, si formano le file; la sepoltura s’avvia. Pasquale rimane l’ultimo sulla porta. — Canaglia! — egli esclama, — una volta venivano qui a centinaia, ora anche a pagarli non si possono avere. — E rompe in uno scoppio di pianto. S’asciuga in fretta gli occhi, mette la giubba delle feste, il cappello delle occasioni solenni, poi chiude la porta e si avvia anche lui dietro la comitiva. È giorno fatto. Una brezza acuta incalza la nebbia e scuote dai rami degli alberi i rabeschi della brina, li stritola e li sparpaglia per l’aria in un polvericcio bianco. L’orizzonte si allarga un po’, ma il cielo è color di cenere, cupo, basso, pesante. V. Intanto due altri montano al castello: Giacomo e Maurizio. Da un pezzo il vecchio non esce quasi più di casa; son parecchi anni che non è più stato lassù: cammina a stento sostenuto da Maurizio. Il sentiero sale sull’antica traccia della strada signorile, la quale una volta, assiepata di mortella e tappezzata di muschio, partiva dalla porta della torretta esagonale, ora sull’angolo della cascina, e si svolgeva in curve graziose ed eleganti in mezzo ad una folta selvetta d’alberi — e ad un bellissimo frutteto piantato sul declivio occidentale della collina, dal ciglio dello spianato fino al bastione, da uno dei conti d’Ormeto nel lungo periodo di pace nel quale si chiude il regno di Vittorio Amedeo II e comincia quello di Carlo Emanuele III. Ma il Bellardi, nell’ultimo decennio, dal 48 in poi, ha sradicato il frutteto sostituendogli una vigna rigogliosa; e lo stradale, rimendato delle curve, ha mutato prima in una stradicciuola ripida, poi in un sentieruolo più ripido ancora. Il contino Rinaldo aveva venduto colla testa nel sacco e senza curarsi dei diritti della madre, con cui era in rotta pel suo matrimonio disparato e la sua vita stramba. La vecchia contessa Cristina, quando le venne assegnata la sua quota d’usofrutto, esasperata fino alla disperazione nel vedere dal figlio ceduta al suo nemico fin l’antica proprietà titolare, non aveva pensato a farsi assicurare nell’atto di divisione il diritto di passaggio sull’antico stradale; e anzi non se n’era riserbato alcuno. Il Bellardi, costretto per legge a dare un passaggio qualunque, erasi arreso a farlo, ma, come dice il codice, _nel modo più breve e meno dannoso_ ai fondi da lui acquistati, restringendo questo passaggio, man mano tutti gli anni con la perseverante tirchieria del contadino, fino a renderlo quasi impraticabile. Per via, Maurizio mostra al vecchio le nuove piantagioni; spiega con eloquenza i mutamenti fatti di sua testa. Ma Giacomo, che per solito vuol saper tutto e sopravvegliare a tutto, quella mattina è distratto o piuttosto assorto in un pensiero fisso; le sue labbra sottili, ripiegate entro le gengive sdentate, si contraggono convulsivamente, i suoi occhi piccoli, infossati sotto fasci di rughe pelose, brillano e protestano contro l’intorpidimento delle membra. Ad ogni momento si ferma, stizzito della sua impotenza, ed alza il capo in alto per misurare l’altezza che rimane a salire. A mezza costa, a mano destra del sentiero, s’allarga un piccolo ripiano, dov’era la cappella gentilizia dei signori d’Ormeto. Giacomo, che ha militato al tempo della Repubblica ed è stato in Francia, non ha scrupoli di religione, l’ha trasformata in un casotto di guardia per la stagione delle vendemmie; davanti alla porta, cadente per vetustà, è la pila dell’acqua santa capovolta. Quivi Giacomo si siede a riprender fiato. In quella sopraggiunge il convoglio funebre, che porta il cadavere della contessa alla parrocchia. Il vecchio drizza il capo e guarda con una singolare aria di indifferenza. Maurizio si leva il cappello. Sbucano fuori di mezzo alle viti le _umiliate_, poi i _battuti_, di cui uno col fascio di ceri sotto l’ascella, poi il prete in camice e stola bianca listata di nero, poi il feretro, in fine tre o quattro donnicciuole. Vanno di trotto, a balzelloni, sbandati, alla rinfusa, come un branco di montoni cacciati dal mandriano, rimescolandosi, urtandosi, buttandosi l’un l’altro fuori del sentiero; le tre croci sbatacchiano i rami, dondolano, si dimenano, picchiano l’una contro l’altra; i portatori gridano, si rimbrottano; il secchiolino dell’acqua santa cigola, il prete canta un versetto del _Miserere_, tutti rispondono ansanti, masticando fra i denti le parole in furia, a contrattempo, discordemente. Le tre campane suonano a distesa. In un momento sono passati; il rumore dei passi affrettati, il salmodiare più affrettato ancora si allontana, discende giù per la china, un fracasso di canne spezzate l’accompagna. — Maledetti! mi rovinano l’armatura dei filari! — sclama Giacomo. Tutt’e due, l’uno a braccio dell’altro, riprendono la salita, giungono in cima. Maurizio batte alla porticina del castello; al suo picchio risoluto viene la moglie di Pasquale, e vedendoli rimane a bocca aperta. Essi entrano, vanno innanzi nella cucina, dove è rimasta la tavola parata, poi in un altro camerone vuoto, poi nell’androne che dal cortile una volta metteva al giardino dietro la casa. Quivi, dacchè lo scalone che dava accesso al piano superiore fu demolito dal Bellardi, s’è collocata una scala di legno tarlato, dagli scalini smossi, e che, per mezzo d’una trappola, mette capo nella galleria di sopra. Il vecchio e Maurizio salgono, e la donna dietro a loro. Maurizio esamina minutamente ogni cosa, ne giudica lo stato, e ne calcola il valore; appena giunto nella galleria egli spinge un uscio a destra, e gitta uno sguardo curioso entro la stanza, che è quella della contessina. — Povera signora, — dice la donna a mezza voce, — non fa che disperarsi; è mezz’ora appena che ha chiusi gli occhi. — Ih! le passerà, si queterà anche lei come fanno gli altri, — dice Maurizio ghignando e alzando le spalle. — Volete che andiamo a vedere i mobili? — dice poi a Giacomo. Il vecchio scuote la testa; — egli ha uno scopo. — Dov’è il salotto ottagonale? — È qui, — risponde la donna; e fattasi innanzi apre loro un altro uscio in faccia, li fa attraversare un altro stanzino, una specie di grazioso tinello; quindi li introduce nel salotto ottagonale, che una volta separava o riuniva gli appartamenti delle due ali, ed era il luogo di ritrovo della famiglia, la scena discreta delle serate tranquille, monotone, eppur così care, così degne di ricordo; il rifugio dei confidenti ragionari, delle gioie e dei dolori verecondi. Quivi da qualche secolo tutti i casi lieti e tristi dei signori d’Ormeto hanno avuto un’eco, un riflesso, una memoria: quella stanza è il viscere che ha risposto a tutte le pulsazioni di una progenie, che ne ha alimentato, risentito, raccolto le febbri, le passioni, le superbie, le ambizioni e i patimenti. Delle otto pareti, una è occupata dall’invetriata del balcone, tre dalle porte orlate di stipiti e sormontate da frontoni con dipinti rappresentanti soggetti arcadici, stipiti e frontoni sovraccarichi di dorature, di vetri, di ornati, di rabeschi bizzarri, capricciosi, assurdi; fiori a foglie e viticci che arieggiano gole di draghi, spire serpentine, mostri grotteschi e mingherlini, prodotto di fantasie isteriche e leziose, decrepite e bambine; ghiribizzi, viluppi inestricabili che furono le prime impressioni e le prime ammirazioni dei fanciulli, e il malinconico passatempo dei vecchi sgloriati, stanchi della vita e del mondo, che venivano a cercarvi le speranze ed i sogni giovanili. Sulle altre pareti, fra l’una e l’altra porta, quattro grandi arazzi Gobelins, che rappresentano la leggenda del Cid. Li ha recati il conte Renato, reduce dall’ambasciata alla corte di Luigi XV; ed è anche lui, il conte Renato, che ha fatti porre colà gli altri mobili, tutti nello stile vistoso e manierato del suo tempo, tutti parlanti di lui maturo vagheggino, del suo fasto, della sua petulanza. Ma il tempo ha smorzati i colori troppo vivi, i toni chiassosi, i luccicori impertinenti, ha abbrunite le dorature smaglianti, ha reso le tinte più tranquille e simpatiche, ha steso sovra tutto un velo di famigliarità dignitosa, di malinconia profonda. Si capisce subito che là dentro le pompe, le mattìe, le svenevolezze sono cessate da un pezzo, che sono sparite insieme con le parrucche incipriate a _aile de pigeon_, insieme con le code lustre, gli scarpini scollati, i nodi carnovaleschi, le marsine variopinte, — e che in loro vece sono venuti i pensieri, le riflessioni, le inquietudini di una vita più modesta e più severa. Poi, una cert’aria di tristezza, di ordine scrupoloso, certi ninnoli mezzo infranti sul camino, rivelano il tedio, i dolori di un’anima solitaria, abbandonata fra quelle pareti di cui accarezza e conserva gelosamente i ricordi, richiamando il passato a conforto e ad oblio del presente. Poi certi strappi ai damaschi delle sedie, rimendati con cura, dissimulati, nascosti studiosamente negli angoli più oscuri della stanza, nelle penombre artifiziosamente ricercate; certi sdrusci ai piedi dei mobili, certe scranne zoppe e appoggiate al muro, dicono una terribile cosa, _miseria_, quella più penosa, quella che è posta accanto alle tradizioni, agli usi, alle mostre, al bisogno della ricchezza, quella che si vergogna, che vuol nascondersi, e non ci riesce in tutto, e diventa una tortura, una mortificazione di tutte l’ore, di tutti i minuti. — Un leggiero strato di polvere indica che da molti giorni la famiglia non è venuta nella sala: un ragno ha condotto i suoi fili dalla lumiera di cristallo alla candela di un doppiere, e corre sovr’essi trionfante; gli specchi si rimandano stupidi l’un l’altro l’immagine mostruosa, mai più veduta, dell’ospite nuovo, la moltiplicano all’infinito, come per dirsi che la desolazione è cominciata e che la distruzione è vicina; che il nemico il quale ha fatto screpolare quei muri, squassandoli di fuori, tanti anni fa, è alla porta, — sta per entrare. Entrano Giacomo e Maurizio. Il vecchio volge intorno uno sguardo di curiosità soddisfatta; poi, vedendo che Maurizio ha colle sue scarpaccie fangose lordato il tappeto, — Somaro, — gli dice, — nettati le scarpe. Non sai che anche il vescovo su quell’uscio si levava la calotta che tiene fino in chiesa? e mostrava più rispetto per quei che stavano qui, che pei suoi santi? L’onore di penetrare fin qui non l’aveva che il conte Corsione, il marchese di Montafia, il conte di Castelleone, il marchese di Frinco, quello di Castellalfero... e tu dirai ch’io ci sono entrato... col cappello... in testa... da padrone! Egli si rizza, con un prodigioso sforzo di volontà, sulla persona, e pare aver scosso dalle spalle curve una diecina d’anni; poi move due o tre passi, e viene a sedere nell’antico seggiolone damascato, con la civetta dei conti d’Ormeto nel mezzo alla spalliera; — chiude gli occhi, e mormora: — Egli era qui. — Chi? — domanda Maurizio un po’ stupito. — Il conte Renato, il padre del conte Rinaldo. — Quando? — Settantasei anni fa: la sera del 6 gennaio 1782, sì, il giorno dell’Epifania... Quella sera io sono venuto qui per la prima ed unica volta... È una famosa storia, te la voglio contare: — Il conte Renato aveva condotta a casa la sposa, una francese, con un nome più grosso del suo giudizio; l’accompagnavano signori e servi di tutti i colori; qui al castello era corte bandita: io era venuto ad aiutare lo stalliere... avevo undici anni. I parenti e gli amici condussero la sposa fin qui; io, curioso, mi cacciai in mezzo a loro; i corridoi erano scuri, i servi coi lumi andavano innanzi agli sposi; entrai, non visto, e mi nascosi, per vedere la sposa, dietro quella scansia là. Poco dopo tutti salutarono ed uscirono: il conte Renato stringeva loro le mani sulla porta; io non ho osato farmi innanzi. Poi il conte chiuse gli usci a chiave, e rimasero soli gli sposi; sedettero al fuoco. Il conte, frusto pei vizi, aveva sonno, sbadigliava, la sposa aveva paura; trovava che il castello era melanconico. Io, che stavo a disagio, mi mossi e feci tremolare certi barattoli che stavano sulla scansia. « — Vi è qualcuno là dietro, — disse spaurita la sposa. — «No, — disse il conte. — «Si,» — essa ripetè. — Il conte s’alzò, venne alla mia volta, mi vide, mi acciuffò per i cappelli... mi menò due terribili ceffoni che mi fecero uscire il sangue dal naso e dalla bocca, poi aperse l’uscio, mi lanciò fuori e mi sferrò un gran calcio, dicendo: — «Un’altra volta ti ricorderai che il tuo posto è nella stalla.» Maurizio dà in uno scoppio di risa. — Egli rideva come te... la bestia... Ora il mio posto è qui, e i suoi pari... non hanno neppur più la stalla... Fra pochi giorni la unica sua discendente sarà in mezzo alla strada... ed io sarò... Egli s’interrompe. In faccia al verone, a un tiro di schioppo, è un poggetto sul quale sta il cimitero nuovo del villaggio; appunto in quella ci portano la vecchia contessa Cristina e s’ode il salmodiare della sepoltura. . . . . . . . — ... Io sarò ancora... qui, — dice Giacomo; poi alza il capo e guarda Maurizio... e Maurizio guarda lui: — non pare che abbiano avuto tutti due lo stesso pensiero? Maurizio ha in certi momenti un ghigno che fa paura. — Fa freddo... qui... non ti pare? — No, — risponde l’altro, — sono gli anni, Giacomo. Giacomo fa inutili sforzi per rialzarsi in piedi; Maurizio lo lascia affannarsi un bel po’; poi colla sua flemma sinistra gli viene in aiuto: — Perchè fare il valoroso, quando non si può più? VI. Quello stesso giorno Maurizio fa il giro delle poche possessioni dismesse dalla defunta: sono sette _giornate_ in tutto di fondi spezzati, magri e danneggiati; dei cui frutti dimezzati col colono, trappolati dalle costui ruberie, decimati ogni anno dalle imposte e dalle riparazioni, la povera donna, per la riprovevole avventatezza del figlio, era stata ridotta a vivere parecchi anni Dio sa come. Egli li conosce a fondo zolla per zolla; non ha cessato mai, finchè durò l’usufrutto della contessa, di visitarli di quando in quando e di fiscaleggiarvi i modi di coltura e del mantenimento: il colono, malgrado il divieto della contessa e la vigilanza di Pasquale, aveva per quei della _trena_, e per Maurizio specialmente, una riguardosa debolezza, prevedendo che un dì o l’altro egli avrebbe a far con loro. Ora quel giorno è venuto, e Maurizio spadroneggia dappertutto, e il colono gli corre dietro con umile condiscendenza, e cerca tutti i modi d’ingraziarselo. Maurizio è affaccendato, impaziente di entrare in possesso di quella poca roba. Incontrato Pasquale sull’uscio di casa sua, gli domanda: — La signorina parte oggi?... — Non so. — Dille di sbrigarsi, e di sgombrare subito; siamo al San Martino quandochessia, e noi vogliamo affittarla. Era l’uso già praticato da Giacomo cogli altri edifizi del castello: abbatterne subito tutto ciò che è ornamento, affittare l’abitabile finchè rimane in piedi, poi distruggere anche questo quando sia divenuto inservibile. — Noi vogliamo affittarla, — ripete Maurizio. Egli parla sempre alla prima persona plurale, e fa uso dei corrispondenti pronomi possessivi quando parla degli affari di Giacomo e della famiglia. — Cos’è Maurizio nella _cascina_? Non è parente, non è amico, perchè i contadini non hanno, nella loro classe, che dei cointeressati; — di servo non ha i modi; — è nulla, ed è tutto. Una volta il dottore Giulio, a uno che gli aveva fatta la stessa domanda, rispose dicendo: — È _Maurizio_, non so altro. A casa nostra non si fa niente senza di lui. Fra la gente pratica della campagna hanno importanza le cose e non i nomi. — Maurizio è quel che è: un uomo indispensabile: lo sanno tutti là dentro, e lo sa egli pure. Martina sola non vuol saperne. Quando il figlio di Giacomo, il notaio Giuseppe, affetto da malattia cronica, deplorava la sua morte vicina e prematura, egli lo consolava dicendo: — Può morire tranquillo, sor Beppe, a suo figlio penserò io. Bisogna ammettere che la ricchezza dei Bellardi s’era fra le sue mani quadruplicata. Però egli ha sempre conservato la sua indipendenza. Non ha mai abitato alla cascina. — Prima stava a pigione; poi quando suo figlio, ch’era stato nell’esercito come surrogante, tornò al paese, e coi denari del cambio comprò una casa, Maurizio andò a stare con lui. Si osservava da alcuni, che gli affari di questo figlio camminavano negli ultimi anni con meravigliosa prosperità. All’ordine crudele di Maurizio, Pasquale non replica nulla. Rientra in casa; poi esce ancora, sale al castello; poi ridiscende di nuovo e rincasa, accende un po’ di fuoco, vi siede vicino, e resta lì immobile, col mento sul petto, parecchie ore di seguito. Finalmente, quando è notte fatta, si butta il pastrano sulle spalle ed esce; — prende la strada del castello, ma giunto a qualche passo dalla cascina si ferma irresoluto: poi torna indietro, si ferma ancora, alla fine entra arditamente, come chi ha preso una determinazione penosa, ma inevitabile. Attraversa il cortile, e, spingendo l’uscio del pianterreno, manda innanzi un — si può? — con voce rauca e malsicura. Dalla cucina sbuca fuori la Martina, e guardandolo con occhio inquisitorio, sta aspettando che le dica quel che vuole. — Giacomo è alzato ancora? — Sì, perchè? Maurizio, che fumava seduto sulla pietra del fuoco, si alza, e viene anche lui incontro a Pasquale, il quale riprende: — Vorrei dirgli due parole, a Giacomo. — Andate lì, nel tinello, — soggiunge bruscamente la donna, e gli volta le spalle. Maurizio invece tien dietro a Pasquale, ed entra con lui nel tinello. Il vecchio è di malumore, lo si vede subito; è in piedi, ma le gambe lo sorreggono a stento, ed è costretto ad appoggiarsi con ambe le mani alla stufa. — Quando entrano, fa un moto per rizzarsi sulla persona, e aguzza gli occhi stracchi in volto a Pasquale, che sta sulla soglia pensoso, come inchiodato colà dalla ripugnanza che gli danno quell’uomo e quella stanza. Il vecchio continua a fissarlo senza parlare. Maurizio gli dice: — Non lo riconoscete? — è Pasquale. — Lo conosco benissimo, — brontola Giacomo; poi, volgendosi a Pasquale, soggiunge: — È uscita... colei? — La sora contessina, — spiega Maurizio in tono ironico. Pasquale risponde a mezza voce: — Non ancora... — Cosa? — domanda Giacomo. — Ha detto di no... — grida Maurizio. — Ho già capito, — ribatte il vecchio stizzito. — E dimmi un po’, quando fa conto di andarsene? Pasquale fa qualche passo avanti, e comincia: — Abbiamo scritto a Torino, a’ suoi parenti... — Quali parenti? — chiede Maurizio, — quelli di sua madre? — Abbiamo scritto che vengano a prenderla, — ripiglia Pasquale parlando in fretta, come chi dice una bugia; — se siete contenti che stia ad aspettarli al castello... fra otto... o dieci giorni al più... qualcuno verrà. — Quanti giorni? chiede Giacomo. — Sette od otto, — risponde Pasquale, che ha capito d’aver chiesto un termine troppo lungo. — Ventiquattr’ore... con...cedo, — ribatte il vecchio. Pasquale rimane sconcertato. Giacomo soggiunge: — Domani... che prenda i suoi... stracci, e se ne vada. — Là dentro, ci hanno ballato abbastanza, — dice Maurizio, — e non c’è più una sedia buona. Pasquale si fa un po’ di coraggio, e dice: — Dove volete che vada subito? — Vada da’ suoi parenti, — risponde Maurizio ghignando. Pasquale vorrebbe dire qualcosa a Maurizio, ma pensa alla signorina per cui è venuto, e per paura di nuocerle si contiene, e, rivolgendosi sempre al vecchio, continua con santa pazienza: — Volete che vada a Torino da sola? — Eh, sua madre ha girato il mondo da sola... e così è divenuta contessa, — dice Maurizio. — Massime in questi momenti, — prorompe Pasquale, — essa non sta bene... — Pretesti, — borbotta Giacomo fra i denti. — A voi cosa fa... giorno più, giorno meno... — Ho detto... ventiquattro ore. Pasquale resta là confuso, sbalordito, come un condannato a cui hanno letto la sentenza; che vorrebbe protestare, e vede ch’è inutile il farlo, e non sa capacitarsene. — Hai inteso? — riprende il vecchio imperiosamente, dopo qualche minuto di silenzio, e poi gli volta le spalle, con atto che significa: non seccarmi più, e vattene. Pasquale si volge lentamente. Maurizio ride sempre, il Napoleone dell’orologio ha la sinistra nel cappotto, e coll’altro braccio gli intima anch’esso di uscire. Egli esce, e quand’è fuori affretta il passo, come se il terreno gli scottasse i piedi. All’entrata del paese, incontra il suo ragazzo che correva alla sua volta; egli è già stato a casa, per dirgli che al castello è preso male alla contessina. — Anche questa ci vuole, — geme Pasquale, e ritorna di trotto sulla strada percorsa. VII. Il dottor Giulio è uso a fare ogni sera, quando il tempo è buono, due passi sulla spianata del castello. Il cielo si è rasserenato verso il tramonto, ed è limpido e chiaro: l’aria è fredda, ma tranquilla. Giulio passeggia col capo chino sulla stradicciuola erbosa che taglia obliquamente l’altura in mezzo ai filari sull’area degli edifizi abbattuti, fino all’incontro d’un angolo del corpo di fabbrica superstite. Quivi alza gli occhi e guarda il muro lacerato, pieno di screpolature, per le quali è cresciuta l’erba e si sono arrampicati il luppolo ed il rovo. Poi corruga dolorosamente la fronte, si volta, e, come per cacciare un pensiero molesto, gitta uno sguardo sull’orizzonte, su quelle curve moltiformi, innumerevoli, che paiono ondate d’un mare burrascoso fatto immobile per incanto, ad un tratto: i campanili che emergono nelle creste hanno l’aspetto di fari spenti. È uno spettacolo mirabile, fantastico. Qua e là spiccano sull’azzurro pallido del cielo profili neri, bizzarri come di scogli sgretolati dai marosi. Erano i castelli di Corsione, di Mirabella, di Albereto, e sono adesso mucchi di rottami, sfasciumi di muri cadenti. Sotto, a mezza costa appaiono nell’ombra caseggiati vasti, bassi, quadrati, deformi: le case dei _ricchi_. Giulio china ancora gli occhi a terra; ritorna verso la casa della defunta contessa, e volge un altro sguardo al muro screpolato, pendente visibilmente infuori: pare abbia a crollargli addosso da un momento all’altro. Rifà nuovamente la strada sino al ciglio della spianata; al suo piede si stende il villaggio d’Ormeto, come un’_esse_ allungata: quante case! e chi porta il nome d’Ormeto non ha più una spanna di tetto! Giulio continua la sua passeggiata innanzi indietro. Dall’angolo del castello la stradicciuola rasenta, a sinistra, il giardino e scende alla _cascina nuova_, quella che suo nonno ha fatta edificare da circa quindici anni. Dopo molte giravolte, Giulio s’accosta alla chiudenda del giardino e guarda là dentro: sono ancora due brevi tronchi di viale ombreggiati da alberi centenari e in mezzo a quelli alcuni sedili di pietra; fra l’uno e l’altro albero vi sono siepi di mortella e macchie di arbusti. A quindici anni, quando al collegio leggeva i primi romanzi, egli pensava a quel povero lembo di parco gentilizio, vi collocava le scene dei suoi libri favoriti, e la notte sognava vagare egli stesso nell’ombra di quegli alberi, al chiaro di luna, nel silenzio della campagna, solo con una damina al braccio, la sua damina, una contessa per lo meno, la regina dei suoi pensieri di collegiale, col lungo strascico di seta, con le mani bianche e le maniere aristocratiche, e di sedere su di uno di quei sedili: e la mattina svegliandosi avrebbe volentieri ceduto tutti i poderi della sua famiglia a chi gli avesse potuto far vero quel sogno. Sogni di adolescente, da un pezzo svaniti! — Proprio svaniti del tutto? Alla finestra del primo piano, proprio in faccia a lui, vi è lume; sui vetri si disegnano di quando in quando delle ombre e dei profili che passano e ripassano e spariscono e ritornano. Cosa succede in quella stanza? Anche in certi momenti gli par di udir delle voci confuse. Poi sente a correre dalla parte opposta sul sentiero che sale dal villaggio; egli allora ritorna indietro qualche passo, entra in mezzo alla vigna, fa il giro del castello e viene dietro un filare donde si scorge la porticina. In quel mentre arriva un ragazzo di corsa e dalla porticina del castello esce un uomo. Giulio riconosce Pasquale. Il ragazzo trafelato dice: — Il medico è fuori del paese. Pasquale fa un’interiezione di dolore e soggiunge: — Entra dentro, io vo’ dallo speziale. E s’allontana con furia. A Giulio il cuore batte in modo singolare. Egli prende una risoluzione: esce dal suo nascondiglio, viene alla porticina e la spinge; entra in casa. Il ragazzo che stava nel corridoio si spaurisce. Giulio gli dice: — Conducimi nella stanza della malata. Il ragazzo lo riconosce ed obbedisce... Trovano la contessina svenuta sopra un canapè e presso a lei la moglie di Pasquale che le stropiccia le mani, la chiama, singhiozza e non sa cosa farle. Giulio s’accosta e chiede: — Cos’è stato? — Sarà mezz’ora che m’è svenuta e non c’è verso di riaverla... l’ho spruzzata d’acqua, le ho fregato i polsi, bagnate le tempie, tutt’inutile... Sor medichino ha fatto bene a venire, ha fatto proprio una carità. — Avete fuoco acceso in cucina? — Sì. — Datemi un panno qualunque... sì, questo va bene, voi spogliatela in fretta e mettetela in letto. Poi corre in cucina e fa scaldare il panno: in quella giunge Pasquale con un ampollino in mano, e, vedendolo, sbarra gli occhi in atto di meraviglia. Ma Giulio non s’accorge; egli è in quell’istante medico, null’altro che medico: porge la pezzuola all’altro: — Andate, gli dice, e fatela porre sul petto alla malata. Gli strappa di mano l’ampollino, lo guarda, fa un gesto di disapprovazione, e dice: — Questo non serve, — ed esce. Tutto questo in un baleno. Dopo alcuni minuti ritorna con un cordiale e con un cucchiaio, ne versa qualche goccia fra i denti della contessina. Poi dà parecchi ordini, ai quali Pasquale e la moglie obbediscono con premura. Finalmente la contessina dà segno di riaversi, mette un sospiro che termina in un penoso sbadiglio. Poi apre gli occhi e guarda intorno a sè. Giulio si è ritirato in fondo alla camera, nell’ombra, e contempla pietosamente quel visino smorto e patito. La fanciulla chiede con un filo di voce alla donna: — Cos’è accaduto? — Nulla, — risponde la donna. — Come si sente? — Sono stanca, — e chiude gli occhi ancora. Giulio esce fuori nel corridoio e con lui Pasquale e poi la donna. La donna domanda: — Cosa ne dice lei? — Questo è passato e speriamo non sarà nulla, — risponde Giulio. — Non sarebbe meglio darle qualche nutrimento, un po’ di brodo? — Sciocca! — esclama Pasquale. — Sciocca niente affatto, — dice il dottore; — il male della signorina è sfinimento. Datele pure il brodo; ma badiamo, poco e leggiero. Buonanotte; se accade qualche novità venitemi ad avvertire. Tornerò domani a vederla. Uscito il dottore, Pasquale chiede col suo tono burbero: — Chi l’ha chiamato? La donna intimidita risponde: — Nessuno, è venuto da sè. Pasquale fa un moto di sorpresa, poi borbotta fra i denti: — Diavolo; che il pruno voglia fare ciliege? VIII. L’indomani il dottor Giulio deve fare la visita promessa. È quasi mezzogiorno e al castello non c’è stato ancora. Però sono due ore che egli ha preso il sentiero della collina. Maurizio, credendo che volesse visitare i piantamenti di viti, ch’egli ha fatto sulla spianata, gli è venuto dietro e, raggiuntolo, senza cerimonia gli si è posto ai fianchi. Poi ha cominciato a dipanare la filatessa delle sue spiegazioni. Ma, arrivato in cima, il dottore s’è seduto su un rialzo di terreno, ha levato un libro dalla tasca del soprabito l’ha aperto e v’ha cacciati gli occhi dentro così bene, che Maurizio non ha potuto più farglieli alzare: perciò, stanco di parlare al vento, ha preso partito di andarsene, cercando fra sè d’indovinare il motivo del mal’estro che da due giorni osserva sul viso del suo _medichino_. Giulio, rimasto solo, ha chiuso il libro, l’ha riposto in tasca; ha acceso un sigaro, l’ha lasciato spegnere, è restato lunga pezza immobile colle mani incrocicchiate attorno ad un ginocchio; poi s’è alzato e s’è posto a passeggiare; poi è tornato ancora a sedere. La giornata è splendida, il sole caldo, l’aria tepida e queta; proprio l’estate di S. Martino. Ma il viso del dottore s’oscura sempre più. La moglie di Pasquale gli passa accanto e lo saluta. Giulio si scuote, e le chiede: — Come sta? — Meglio; non viene a vederla? — Ah! sì... S’alza e con la donna viene al castello, all’uscio della camera dove sta la malata. La donna entra: egli rimane sulla soglia; egli che allo stabilimento ha un passo così sicuro, che non aspetta mai nell’anticamera dei suoi clienti, perchè è avvezzo invece ad essere atteso. La donna annunzia il dottore alla contessina e questa risponde: — Venga, venga. Giulio allora entra. La contessina si tira in fretta le coperte fino al mento e lo saluta con un cenno di capo. Gli occhi di lei mostrano i segni del pianto di molti giorni, e sono pieni di lagrime. Giulio s’inchina profondamente, s’avvicina in silenzio: le chiede del suo stato, l’esamina in fretta e poi ad un invito si siede al capezzale. Tacciono tutti e due qualche minuto, poi la contessina dice: — Dottore, so che lei è stato qui iersera, la ringrazio. Giulio fa un’esclamazione sommessa e non risponde. La contessina si volge a guardarlo e soggiunge: — Sa che da me non l’avrei riconosciuto? l’ultima volta che l’ho visto era tanto giovane ancora, non aveva barba affatto: e sono quasi otto anni; era ad una festa al castello di Cortanze. — Lei si ricorda di quel giorno? — Altro che, e lei? — Anch’io... lei portava un abito violetto a balze bianche. — È vero. — Io me ne stavo vergognoso in un canto ed in silenzio, intimidito da tutta quella compagnia di signori: e lei nel _cotillon_ venne a prendermi per danzare. — Poi quando uscii io l’ho salutato e lei non mi ha risposto... — Io non me ne sono accorto; non osavo guardarla... — Aveva paura di mia nonna? — domanda con un leggiero sorriso la contessina; poi subito si abbuia e sclama sottovoce singhiozzando: — Povera nonna! Essa piange qualche minuto in silenzio, volgendosi dalla parte del muro; le sue treccie bionde si sciolgono e s’attortigliano sul guanciale. Infine riesce a calmarsi e soggiunge: — Lei sta a Torino? — Sì. — Tutto l’anno, anche la state? — La state vo ad Acquasana. — Torino! com’è bello Torino! come ci andrei volontieri! — Ma non ci va ella adesso? La contessina crolla malinconicamente la sua testina. — Ma non ha i parenti colà? — Ma... non so... — Oh! — Sì, forse qualcuno che non conosco, che non ho mai visto, che non sa neppure ch’io viva. Poi aggiunse amaramente: — Meglio così... — Perchè? — Perchè l’entrare in casa di gente che vi prende per farvi una grazia è cosa che mi spaventa; io... — Dunque! — Dunque ci penserà Pasquale a collocarmi; io sono stanca, non sono buona di pensare alle cose mie; me lo diceva sempre la povera nonna. Pasquale è la mia grossa provvidenza; io mi sono rimessa in lui. — Pasquale, il suo servo? — Pasquale non è servo; è nostro grande amico, egli vien qui per affezione... ha la disgrazia di volerci bene... — Perchè dice disgrazia? — Creda, è proprio così: ho notato che tutti i nostri amici sono stati sventurati, mentre quelli che ci hanno fatto del male, oh quelli hanno prosperato... Queste parole dette così innocentemente, senza intenzione, feriscono il dottore; la contessina se ne accorge, se ne adonta, e tutti e due restano impacciati. Giulio s’alza poco dopo, raccomanda le sue prescrizioni e prende congedo. La contessina Maria, tratto fuori in fretta un braccio di sotto la coltre, gli porge con gentile franchezza la mano. Il dottore la prende con la sua e gliela stringe con premura, quasi con riconoscenza; ed osserva involontariamente che quel candido e morbido braccio è coperto da una manica di tela grossa e bigia. — Tornerò stasera, — egli dice. — Grazie. La sera ci ritorna difatti, e trova che la contessina è stata colta da una febbre ardente; egli le raccomanda il silenzio, la calma, fa un’ordinazione ed esce. Nello stesso modo succedono le due visite del domani e quelle del posdomani. La malata lo accoglie con un sorriso, con un altro sorriso lo congeda; egli non fa che le interrogazioni strettamente necessarie. La febbre scema al mattino e ripiglia forza alla sera. Ma nel pomeriggio del terzo giorno continua a sminuire e nella mattina del quarto è scomparsa del tutto. La contessina Maria accoglie il dottor Giulio con un sorriso più bello del solito, lo saluta con voce quasi gaia, e porgendogli il polso gli dice: — Dottore, mi dica subito che sto meglio, se no glielo dico io. Giulio osserva che stavolta il braccio della contessina è chiuso in una manica di battista fina, benchè un po’ logora. IX. Egli si siede e conversa una mezz’ora con lei. Nei discorsi della contessina le nubi della malinconia si squarciano qua e là e compare qualche fugace lembo di azzurro. — La convalescenza è sempre una primavera, e, — quando si hanno vent’anni, — una festa, un ineffabile tripudio della vitalità entro le fibre, che invade a poco a poco lo spirito e lo riempie di gioia. La contessina è sinceramente mortificata di non sentirsi afflitta come le pare di dover essere, e fa di tutto per spegnere le liete vibrazioni che il suo cuore manda al suo cervello: ma non sempre ci riesce: i moti del cuore si ribellano di quando in quando e la vittoria rimane a loro; — però è una vittoria fugace che il dolore sincero arriva ad imbrigliare in tempo. Prima che il dottore sorta, vedendo che egli la saluta con gravità maggiore dell’altre volte, gli domanda con sollecitudine: — Tornerà a vedermi? — Stassera sì. — E domani? — Domani spero che lei non avrà più bisogno dell’opera mia. La sera la contessina Maria è divenuta pensierosa; nel congedare il dottor Giulio, gli dice in un certo modo inesprimibile: — Vedrà, domani sarò ancora malata. E quando il giorno dopo Giulio entra nella camera e la trova bene oltre ogni desiderio, essa si abbuia in viso ed esclama: — Vuol credere che sono stata malata fino adesso? almeno ero di cattivo umore; l’una cosa è segno dell’altra. Infatti essa ha gli occhi rossi: ha pianto. La contessina aggiunge ingenuamente: — È curioso che quando ella è qui io mi sento benissimo, appena esce m’accorgo che avevo mille cosucce, una quantità di mali da confidarle. Giulio, che per solito è sempre molto serio, sorride a queste parole, e con piglio che vuol parere scherzoso, ma non è troppo calmo: — Ebbene, facciamo così: io tornerò finchè essa se ne ricordi, — oppure se ne dimentichi affatto... dei suoi mali. Il tempo è freddo, invernale; perciò il dottore va a rilento nel permettere alla convalescente d’alzarsi, ed essa osserva scrupolosamente il suo divieto. Poi le concede di lasciare il letto con precauzione, poco alla volta, solo per qualche ora nel mezzogiorno, e intanto continua le sue visite, nè più nè meno come prima, perchè la contessina è afflitta e piange sempre quand’egli non c’è. Egli viene al mattino un po’ più tardi quando ella è alzata: — essa si siede in una poltrona accanto al camino, ed egli le tiene un po’ di compagnia. I suoi consigli le fanno bene; ella si rasserena leggermente, — promette di non pensare a «cose brutte». E ciò è tanto più singolare, che anche questi consigli egli li dà con viso scuro e malinconico. Quando sono insieme, quello che ha più bisogno di conforto, di svago sembra lui, il dottore. Una volta essa, scherzando, glielo fa notare; e questo scherzo, invece di farlo ridere, lo turba. Egli si mostra ogni giorno più triste: una sera la contessina gli domanda: — Si ricorda quel che le dissi alla sua prima visita? La mia amicizia porta disgrazia. Si guardi dalla iettatura!... Il dottore scuote il capo, e poi: — Crede lei ch’io sia suo amico? — Certo. — E perchè lo crede? — Ma... per il bene che mi ha fatto, per le sue premure... — Tutto questo non è che dovere; sa lei che chi di noi due è creditore è ancora lei? — Come! — sclama con stupore la contessina. Il dottore non risponde; egli è inquieto, pare volerle dire qualcosa, ma si vede che non sa decidersi a cominciare. La contessina Maria lo guarda fiso stupita, e ripete: — Si guardi dalla iettatura, dottore. Giulio risponde vivamente con gesto di dolore: — Oh il iettatore credo d’esser io! e mi pare che tutto qui intorno, questi muri, questa casa mi insinuino il malefizio. Maria è oltremodo sorpresa e chiede nuovamente: — Come? Ma anche questa volta il dottore non risponde. Poco alla volta il malumore di Giulio si fa contagioso, e s’apprende anche all’animo di lei. I loro colloqui riescono scuciti, qualche volta penosi. Tutti e due fanno spesso strane imprudenze; toccano inavvertitamente dei tasti scabrosi, stridenti, e allora, — è finita, — una sgraziata, irreparabile atonia insorge tra loro; — la conversazione langue, gli sforzi per rianimarla staccano altre note discordi: non si capiscono più, dicono l’opposto di quel che vogliono dire, e poi non sanno più dir nulla e succedono lunghi quarti d’ora di uggioso silenzio. Dopo una lunga e inutile scherma si separano molto malcontenti di sè stessi. Una sera Giulio arriva mentre Maria sta scrivendo: egli è spiacente di essere venuto a frastornarla e vuole andarsene. Maria lo prega di rimanere; egli insiste per partire, essa insiste per indurlo a trattenersi e soggiunge che non permetterà mai ch’egli sorta così; poi, approfittando del suo esitare, accosta una poltrona al camino e, tirandolo pel braccio con dolce violenza: — Si segga, suvvia, un pochino soltanto. Vuol far cerimonie qui — in casa sua? Giulio, a queste parole, corruga involontariamente la fronte; essa se ne accorge, s’accorge di avere incespicato in un ginepraio e rimangono tutti e due confusi e senza parola. Finalmente Maria si fa coraggio e dice: — Se lei mi promette di restare, io finisco la mia lettera. Giulio siede. Maria torna allo scrittoio; in due minuti ha finito, piega la lettera e comincia la soprascritta; ma si ferma a mezzo e si volta a Giulio. — Sa lei l’indirizzo del marchese di Pamparato? in via Borgonuovo, numero nove o numero diciannove? — Mi pare diciannove, — risponde Giulio. Il marchese è suo parente? — No, egli dirige il ritiro delle _Vedove e nubili_ a Torino, e siccome un dì o l’altro io dovrò uscire di qui... — Perchè? — La sua famiglia... — Oh! — Volevo dire che la sua famiglia ha premura — insomma bisogno dell’appartamento. Nuova confusione e nuovo silenzio più lungo e più fastidioso del primo. Stavolta è Giulio che domanda a Maria: — Che pensa lei di... della mia famiglia? — Io... nulla... — Non sa delle animosità che esistevano tra la sua casa e... la _Cascina_? Non gliene hanno mai parlato? — Sì, la nonna... So ch’essa e Giacomo... il signor... suo nonno, non andavano intesi... — Da che parte crede stesse il torto? — Io non sono buona di pensare alle cose serie, gliel’ho detto; è una storia lunga che non ho mai potuto capire, un vero garbuglio di liti, di vendite, di sentenze, di ipoteche... Lei saprà cosa sono... — Sì, pur troppo, signorina, sono strumenti d’odio e di rancore, di un’avidità maligna, astiosa... E Giulio s’interrompe, si morde le labbra. Poi: — Che opinione ha lei di me? — Chi? — Lei... — Io... certe cose, dottore, non si dicono in faccia. Ma, parendole leggere un dubbio sul volto di Giulio, soggiunge con una dolce serietà: — Come potrei pensar male di lei? — Oh dei motivi ne avrebbe d’avanzo. Maria non comprende. Giulio non sa o non vuole spiegarsi: egli si trova impacciato. Cosa strana! finiscono così tutti i loro colloqui, nei quali essi, con gentile intenzione, per delicato riguardo l’un per l’altro, si sforzano di parere più sereni e più tranquilli; — lo scherzo, la celia più innocente lascia sempre nei loro discorsi una traccia sinistra, come quei razzi falliti che esalano uno sgradevole puzzo di nitro e di zolfo. È molto meglio quando lasciano che l’anime loro si aprano liberamente nella conversazione; s’intendono allora, passano insieme delle lunghe ore senza sforzo, senza pena, di una malinconia soave che fa bene, che pare uno sfogo a tuttedue. La contessina Maria richiama i ricordi dolorosi, gli stenti, le umiliazioni, i trambusti della vita girovaga che ha menato col padre, e conchiude sospirando: — Povero papà, era pur buono! Poi anche gli confida la triste monotonia degli ultimi anni, quando, morto il padre, fu raccolta dalla nonna fra nuovi dolori e nuovi stenti assai più penosi... Talvolta, senza volerlo, lascia capire le durezze patite dalla vecchia contessa, animo altero, carattere forte, inasprito dalle sciagure. Essa tuttavia la rimpiange sinceramente: non pronuncia mai il suo nome senza piangere, e, quando s’accorge che le proprie parole possono lievemente offenderne la memoria, si diffonde in lunghe giustificazioni, che non sempre ottengono l’effetto desiderato, ma sono sempre prova incontestabile dell’amore di lei. Il dottore ascolta con attenzione, fa qualche osservazione, e poi il discorso si avvia tranquillamente; e, alla fine, si separano riconoscenti l’uno all’altro, lei d’aver potuto ricordare, egli d’esser riuscito a dimenticare. X. Così sono trascorse quasi quattro settimane, nelle quali Pasquale non è rimasto colle mani in mano: subito nei primi giorni inquietato dalle intimazioni di Maurizio, s’è recato dal giudice del mandamento, il quale gli ha detto che avuto riguardo all’infermità della contessina, questa poteva rimanere al castello fino a guarigione finita ed occuparvi due stanze; ma l’ha consigliato a rimettere tutto il resto senz’indugio, perchè il contegno della contessina non avesse l’aria di una _detenzione abusiva_. Veduto poi che il male si dileguava, si diè attorno per trovar di allogare la contessina; non sapendo s’ella avesse parenti ne ha scritto ad un vecchio cavaliere, amico della contessa, che molto tempo prima veniva tutti gli anni ad Ormeto a farle una visita. L’amico ha risposto così evasivamente che de’ parenti, che potessero alla contessina venire direttamente in aiuto, non ne conosceva; che unico partito conveniente per lei sarebbe quello di entrare nel _Ritiro delle vedove e nubili_, sulla collina di Torino, _luogo decente e arioso_; che se la contessina voleva, ne avrebbe parlato al marchese Pamparato per farvela ricevere, che anzi la consigliava di scriverne ella stessa al marchese. Intanto Maurizio ha installati al castello nelle stanze del piano terreno due famiglie d’inquillini, quattro creature sue; e da parecchi giorni quattro paia d’occhi e altrettanti d’orecchi si danno la muta nel vegliare sugli interessi del proprietario. Pasquale è fuori dei gangheri, egli brontola tutto il giorno e lancia moccoli contro tutti quei della _cascina_, non escluso il dottor Giulio di cui, a dir il vero, egli comincia ad aver piene le tasche. Un bel giorno entra nelle stanze della contessina dopo una visita piuttosto lunghetta di Giulio, e, sempre coll’usato rispetto, ma con piglio di visibil malumore, domanda: — Cosa dice di bello il _medichino_? Maria risponde sorridendo: — Curioso! mi dice tante belle cose. Pasquale si lascia sfuggire un gesto dispettoso, ma subito si pente e rimane afflitto, mortificato. Maria gli viene accanto, e postagli una mano sulla spalla, gli dice carezzevole: — Suvvia, hai da dirmi qualche cosa: dilla; tu sai che qualunque cosa sia detta da te non può spiacermi. Pasquale la guarda intenerito e con rispetto. — Cos’hai da dirmi? — Io sono uomo grossolano, ma comunque sia ho le mie opinioni; e non so capire cosa voglia il _medichino_. Io dico che il meglio di tutto sarebbe ch’egli s’intromettesse per liberarla da questi cani, per farla rispettare, egli che lo può, e poi le dicesse: — «Stia qui finchè non ha trovato un posto dove andare...» Maria gli pone la mano sulla bocca e dice in fretta: — Zitto, zitto, se lo potesse l’avrebbe fatto. E soggiunge: — Egli non sa nulla. — Come? viene due volte al giorno e non vede cosa si fa lì abbasso? Coloro là non sono forse suoi dipendenti? non li conosce? Dica piuttosto... — Cosa? — Che... anche lui è della famiglia. — Oh! Egli è stato così buono con me... — Anche gli _altri_ sono buoni; buoni a tutto... fuorchè a far del bene... La contessina non è persuasa, ma le parole di quell’uomo affezionato la scuotono dolorosamente. Pasquale continua: — Se sapesse come la conosco io quella razza lì; quando fanno bella ciera è quando ne studiano qualcuna delle più triste; essi non sono come noi, non parlano per farsi capire ma per non lasciarsi capire. Maria dice con qualche amarezza: — Insomma, di’ subito che non sei contento che il dottore venga a vedermi... — Oh, lei è padrona di fare quel che vuole. — Ma tu non sei contento... io lo vedo; e, senti, io voglio fare tutto quello che mi dici... sai bene che voglio ascoltarti in tutto... Perchè non mi consigli... non mi dici schietto il tuo parere?... Guarda; per farti piacere, il dottore non voglio più vederlo. Così dicendo si volta dall’altra parte, s’allontana e va a sedersi nella poltrona accanto al camino. Dopo qualche minuto ripiglia: — Ma di’, come si fa, quando viene, a mandarlo via? Pasquale non sa cosa rispondere. — Finchè sono qui in casa sua, per questi pochi dì che ci devo rimanere, non posso chiudergli l’uscio in faccia, non è vero? non posso. — No... — mastica Pasquale fra i denti. La contessina s’alza vivamente, s’avvicina di nuovo a lui. — Bisogna ch’io continui a riceverlo; ma, senti: tutte le volte che viene tu starai qui a farmi compagnia; sì, sì, lo voglio. Pasquale fa qualche ritrosia e poi si lascia persuadere; non avrebbe mai osato proporre una cosa simile; l’avrebbe creduta un’irriverenza bella e buona verso la contessina; ma, poichè lei lo vuole, questo fa piacere anche a lui. Egli accetta di buon grado questa nuova funzione e comincia subito nella sera stessa. Quando viene il dottore dopo cena, egli rimane là in un canto, silenzioso, riverente, ma immobile, duro come una pietra. La contessina Maria accoglie il dottore con un fare contegnoso che non è tutto volontario; i discorsi cadono più presto del solito, e il dottore se ne va di buon’ora. Lo stesso avviene all’indomani mattina; Giulio s’inquieta, pare accorgersi di qualche cosa, e la sera non si fa vedere. Pasquale fa di tutto per intrattenere la contessina, che è molto distratta e di malumore. Il giorno dopo uno degl’inquilini del pian terreno, con pretesto di venir a cercar Pasquale, penetra fin nella camera della contessina; uscito di là, egli se ne va difilato da Maurizio a dirgli che la signorina è alzata, sta benissimo e che la storia della malattia è una famosa carota tallita. Maurizio fa _in conformità a questa cognizione_ i suoi _passi_ per costringere la signorina a sloggiare. Nello stesso tempo arriva una lettera del vecchio cavaliere, colla data di due giorni prima; egli scrive «che ha parlato al marchese di P***, il quale si mostrò favorevolissimo alla sua preghiera, e gli ha detto che la contessina può considerarsi come accettata nel ritiro; che però non si tratta più che di sapere il giorno in cui potrà essere presentata e che a questo effetto egli ha per l’indomani un appuntamento col marchese. La contessina si tenesse dunque pronta a partire quando che sia.» Questa buona notizia non fu accolta da Maria con troppa gioia, e anche Pasquale, che l’aspettava con tanta ansietà, pensando alla partenza della contessina, finisce per non provarne tutta la soddisfazione che credeva. — Però è una cosa questa, — dice all’ultimo, ed è un comando ch’egli dà alla sua ragione di persuadere il suo cuore. Il dottore non venne neppure quel giorno. La mattina di poi egli manda alla contessina un bel canestro di moscatella sana e ghiotta quanto mai. Maria ne va in solluchero e ne fa una gran festa, tanto che non s’accorge di Pasquale che è entrato in quel punto e che colla sua ciera stravolta fa un singolare contrasto con lei. Il poveretto ha ricevuto anche lui allora allora un regalo, anzi due. Il primo da parte di Maurizio, e glie l’ha portato l’usciere della giudicatura; è un regolare diffidamento _in forma_ per la contessina di _sgombrare, evacuare, dismettere i locali da lei occupati direttamente o per mediata persona, e ciò subito o almeno entro il termine di due giorni_ dall’intimazione, sotto _le comminatorie legali per la forzata dismessione e pene conseguenti_. L’altro regalo è una lettera da Torino, che porge alla contessina dicendo: — Vediamo questa. È ancora del cavaliere; due sole righe: «Mi recai oggi dall’Ill. marchese di Pamparato; trovai che era partito improvvisamente da ieri per Parigi, dove rimane per qualche tempo. Perciò non c’è altro da fare per ora che aspettare il suo ritorno. Con dispiacere Vostro umiliss., ecc., ecc.» Pasquale resta fulminato; si butta sopra una sedia, si pone una mano sulla fronte, sugli occhi, si soffia il naso e riflette lungamente in silenzio: — Signorina, — dice poi, — bisogna cercare per adesso un altro luogo per lei. — Perchè? — Perchè lei deve uscire di qui fra tre giorni; e l’ordine è venuto insieme coll’uva del medichino. Glie l’ho detto io che gente sono quelli là! La contessina resta senza fiato. — Bisogna cercare un qualche posto provvisorio; le toccherà contentarsi di quel che si può avere. — Ma, povero Pasquale, dove vuoi ch’io mi trovi il posto provvisorio, — esclama piangendo la contessina, — dove vuoi che vada a cercarlo? perchè lo dici a me questo?... — Egli è che... se lo vuole, il posto, così com’è, io l’avrei trovato... un buco, un letto. — Dove? — In casa mia. — Oh Pasquale, mio buon Pasqualone! — Vuole? — domanda trepidante il contadino. — Ma sì, ma sì; io starò meglio di qui con voi altri due: qui mi annoio. E la contessina, tutta rasserenata, scuote a Pasquale le due mani, e Pasquale ride anche lui tutto contento. Maria però si rannuvola tutto ad un tratto. — Ma, povero Pasquale, io vi darò fastidio a voi altri. — Oh giusto! lei mi farà un grande onore. XI. Quella mattina la moglie di Pasquale, incontrato il dottore, l’ha informato dell’imminente partenza della contessina; ella ignorava il contrordine venuto da Torino, perchè non aveva visto ancora la signorina; il marito, come dice lei, è un _rusticone_ che non le dice mai nulla. Giulio càpita al castello nel pomeriggio, in ora insolita, e trova Maria sola, intenta a raunar le sue robe per farle recar a casa di Pasquale. La saluta, si siede e pare aspetti ch’ella cominci. Ma la contessina lascia da parte le sue faccende, come volesse fargliene un mistero; siede e tace anche lei; il dottore, stupito, ha un’interrogazione sulle labbra, ma non osa farla. Finalmente le dice: — Contessina Maria, son venuto a salutarla prima di partire. — Lei parte? — Sì, domani mattina: torno a Torino. — Ah! — esclama seria seria Maria. Giulio aspetta certo qualche altra parola; è preso d’una curiosità invincibile che gli si pinge sul volto. — Anche lei... se ne va? — soggiunge poi dando un’occhiata espressiva agl’involti che sono sulla tavola e sulle sedie. — Oh sì, me ne vado, — risponde arrossendo la contessina. — E... va anche lei a Torino... — No... resto... — Come? — Qui ero così sola, questa casa è tanto triste e a quella buona gente riesce incomodo il venire fin quassù tutti i momenti per servirmi; io vado da loro... da Pasquale. Ella parla in fretta, colla faccia in fuori, come se dicesse una bugia. Giulio la guarda con attenzione e un sospetto gli attraversa la mente. — Mi spiace... mi spiace che lei esca dalla sua casa in questi ultimi giorni. — Perchè? — Si possono pensare e dire tante brutte cose... Dicendo queste parole tien gli occhi fissi su lei. — Può sembrare... che... qualcuno le abbia... fatta... scortesia... e ciò mi rincrescerebbe molto. La contessina pare molto confusa: non risponde. — Spero che nessuno le avrà mancato... non è vero? Può lagnarsi di qualcuno?... Non mi dice nulla? è successo qualche cosa di spiacevole... qui in casa sua? — Questa non è casa mia... io non ho casa... — E per questo... via, mi dica francamente: le hanno fatta premura... Sì? sì dunque! Oh fino a questo punto!... mi dica cos’hanno fatto... no, non mi dica nulla... E pensare ch’io poteva, ch’io doveva prevederlo questo; che pure potevo impedire quest’ultima bricconata! ma dove avevo la testa io?... Adesso lei non crederà ch’io ignoravo tutto... che tutto s’è fatto a mia insaputa!... — N’ero certa... interrompe commossa Maria. — Sì... davvero? Ella crede alle mie parole? Maria fa cenni affermativi colla testa. — Ebbene, mi faccia un grande favore. Rimanga qui ancora... un sol giorno... almeno fino a domani a sera... — Ma lei... non parte, lei, domani? — No, non partirò: ci rivedremo... rimanga, abbia fiducia in me, rimanga; io ho bisogno di dimostrarle, se non altro, che tutta la mia colpa non fu che leggerezza in tutto questo... che se qualcuno... dei miei le ha fatto oltraggio, io la rispetto come si merita. — Lo so, lo so. — Ma un giorno può dubitare della mia lealtà, ed io non voglio che lei ne dubiti mai. Maria si alza, e avvicinandosi gli stende la mano e gli dice colle lagrime agli occhi: — Non ne dubiterò mai. Giulio prende quella mano con tutte e due le sue, la stringe forte, la reca vivamente alle labbra, la bacia... Poi leva gli occhi; i loro sguardi s’incontrano, poi si sfuggono, poi si cercano ancora e s’abbassano... — Non voglio prove... le ho... — Grazie. — Lei ha avuto compassione delle mie sventure. — Non dica così! — Non è vero forse? Lei è stato in questi giorni gentile, delicato, buono, e io... me ne ricorderò sempre... questa è la mia sola riconoscenza... la riconoscenza dei poveri come me... se vorrà ricordarsi di me... — Se mi ricorderò? si figuri... — Forse non ci rivedremo più... ma saremo amici. Queste parole, che Maria pronunzia quasi sottovoce, a pause, con una intonazione calma, malinconica, mettono sossopra l’animo di Giulio che balza in piedi repentinamente: — Ma io non posso lasciarla partire così da questa casa. — Oggi o domani, non è lo stesso per me? — Ma non per me... — Che vuol fare? — Non so, mi dia tempo a riflettere... ho bisogno di far qualcosa e farò qualcosa. La scongiuro, rimanga fino a domani. E le prende nuovamente la mano e ripete: — Rimanga! altrimenti non potrò credere alle generose parole che lei mi ha detto, e crederò invece che lei sia meco corrucciata... — Ma no! no! — Che non mi stimi più... che mi detesti... Maria prorompe: — Zitto, zitto; io detestarla! oh!... io che invece... Ma s’interrompe tutto ad un tratto e s’allontana da Giulio rapidamente. Un passo d’uomo si fa sentire sulle scale. Giulio rimane incantato; egli vorrebbe farle finir la frase che gli pare della massima importanza; — ma quel subito silenzio non è eloquente lo stesso e forse più? Pasquale entra col suo fare grave e pesante, va dritto dalla contessina e le domanda: — Vuol venire adesso? La contessina, facendo uno sforzo per render calma la sua voce, risponde esitando: — Non ho ancora potuto mettere insieme le mie robe... — Non son quelle lì le robe? — Non ci son tutte. — Vuol che le dia una mano io? — No... stassera non mi sento... sono stanca... Pasquale china il capo in atto di rassegnazione e coll’usata discrezione va a sedersi in un angolo senza fiatare e senza rivolgere uno sguardo al dottore. Maria soggiunge carezzevole: — Povero Pasquale, t’ho fatto affaticare per me. — Ah! — mormora Pasquale alzando le spalle. — Verrò domani... — La stanza è pronta, venga quando vuole. Il dottore si alza a questo punto per uscire, e nel salutare la contessina la ringrazia tacitamente con una calorosa stretta di mano, che, se non fossero state le ombre della sera, avrebbe trovato il compenso in uno sguardo singolare di lei. Anche Pasquale si muove augurando la buona notte a Maria, che gli corre dietro, lo trattiene sulla soglia e gli dice ancora: — Pasquale, non sei mica offeso? — Ah! Non è lei la padrona? — Non posso proprio, adesso... ma domani verrò... — Le manderò la mia donna anche stassera. — Se non ti rincresce... Pasquale esce. Maria ritorna a sedere nel vano della finestra: è notte chiusa, la campagna è scura, avvolta in una fitta caligine; il castello pare siasi sollevato fra le nubi, nello spazio. Maria sta per lasciarlo il castello, e con esso staccarsi dalle ultime reliquie della sua famiglia; e poi? che sarà di lei... in quel nero orizzonte, in quell’avvenire più nero ancora?... Un fioco lumicino brilla sotto la nebbia giù giù nella scesa: è alla _Cascina della Trena_... — Cosa farà domani il dottor Giulio? XII. Pasquale e il dottore scendono insieme la collina, vengono insieme al villaggio; camminano silenziosi, impensieriti; Pasquale ha l’aria di non accorgersi affatto del compagno. Quando son giunti innanzi alla sua casa, il dottore gli dice: — Avrei qualcosa da dirvi. Egli, senza parlare, apre l’uscio e gli fa segno di entrare. Attraversano una specie di bottega ingombra di assi e di arnesi da lavoro. Pasquale fa un po’ il legnaiuolo e alterna le occupazioni del mestiere con la coltura di alcuni piccoli fondi ch’egli possiede. Riescono nella cucina, dove la moglie ha scodellata la minestra, e così per ingannare il tempo e l’appetito fa ripetere le orazioni a due ragazzi, che divorano cogli occhi il _pane quotidiano_. La donna saluta sommessamente il dottore, gli pone una sedia accanto al fuoco. Pasquale si mette a desco. Cenano in fretta: poi i ragazzi vanno a letto e la donna ritorna al castello, dove, dopo la morte della contessa, suole passar la notte. Quando sono rimasti in due, il dottore dice al legnaiuolo che gli volta le spalle: — Pasquale, voi non mi volete bene. Ma l’altro è tutto intento a sorbire la sua _monferrina_, cioè l’ultimo piatto di minestra condita col vino. — Mi sono accorto che... non siete contento che io... parli con la contessina... Non siete contento? — No. — E... perchè? — Perchè tutto il paese ci trova a ridire. — E cosa dice il paese? — Ci vuol poco talento ad immaginarlo. Che la signorina è sola, è giovane, e che lei, signor _medichino_, non può avere delle buone intenzioni... — Ah!... e voi, Pasquale, cosa ne pensate voi? — Cos’ho da pensar io? — Non credete ch’io sia amico sincero della contessina? — No. — Anche voi credete ch’io abbia delle cattive intenzioni? — Sì. — Ebbene, voi non mi conoscete. — Ah!... ho lì nell’orto un pero cotogno. Questa primavera ne levai un messiticcio e l’ho piantato; fra due anni porterà frutto: io giurerei che anch’esso farà pere cotogne... e lei? Il dottore rimane dolorosamente colpito da questo sillogismo metaforico e non sa cosa rispondere. Dopo un breve quarto d’ora Pasquale gli domanda brusco brusco: — Cos’ha da dirmi? — Oh... volevo... persuadervi che mi giudicate male. — Che cosa glien’importa a lei dei miei giudizi? — Me n’importa assai. — Uh! — Sì, me n’importa assai; perchè voi siete un brav’uomo, il migliore ch’io conosca; poi perchè voi siete il confidente, l’aiuto, il sostegno di una persona per cui io ho moltissima stima... — Eh! — Sì davvero. — Sì! non v’è angheria e malignità che i _suoi_ non abbiano fatta a quella povera famiglia; cose che gridano vendetta. Non parlo delle antiche, tutti le sanno; ma solo di quelle che ho viste io in questi ultimi dieci anni: appena occupato il castello l’hanno affittato a della canaglia: al ferraio che picchiava tutta la notte sull’incudine mentre la contessa era malata; ad Ambrogio che le faceva il letamaio sotto le finestre e glielo rivoltava tutti i giorni a mezzodì nell’ora del pranzo. Poi hanno cominciato a demolire con tanta buona grazia, che un muro comune rovinò e fu miracolo se la contessa non rimase sotterrata; poi le hanno lasciato rubare le tegole, intorbidar l’acqua del pozzo, saccheggiare il giardino, e l’hanno fatta schernire e ingiuriare da Maurizio ogni giorno... E ora lei mi dice che ha della stima! bell’avanzo per la contessina che non ha più casa, non ha più nulla, che ha il danno e le beffe di tutto il paese... Pasquale s’è venuto a poco a poco scaldando e continua senza lasciar mezzo al dottore di aprir bocca. — La cacciano di casa sui due piedi, senza carità, senza compassione, mentre è ancora mezza malata: questa è la stima. Le fanno una triste pubblicità, le fanno un’intimazione per mezzo d’usciere! E dopo questo lei vuol saper cosa penso io? io penso che lei dovrebbe lasciarla stare quella povera creatura; che dovrebbe lasciarle almeno quel po’ di buon nome che le resta. Il mio parere è questo; se le spiace, non so che farci; non doveva chiedermelo. — Pasquale, voi avete ragione; ma sentite: di quello che hanno fatto... gli _altri_ io non ho colpa... mi rincresce e, ve lo dico fermamente, qui a quattr’occhi, me ne vergogno per loro. Non ho saputo che oggi quest’ultimo affronto; se avessi potuto impedirlo l’avrei fatto. Vi giuro, Pasquale, che se potessi dire alla contessina: — Stia dov’è, faccia conto d’essere in casa sua; — darei non so cosa. Ma, voi lo sapete, il castello e tutte le antiche proprietà dei conti d’Ormeto appartengono a mio nonno, e con lui non si può parlare di nulla... io non posso per adesso far contro le sue volontà. — Nessuno le chiede nulla a lei... — Eppure io vorrei fare qualcosa: vorrei avere il mezzo di rimediare al male che si è fatto: son venuto qui per questo... perchè mi aiutiate a cercare questo mezzo... Pasquale si volta allora per la prima volta, si alza dal tavolo su cui stava appoggiato colle gomita, viene a piantarsi in faccia al dottore e lo guarda con grande curiosità. — Dunque, cosa mi dite?... — riprende Giulio. — Ma! — ... Se la contessina volesse... se si contentasse... vorrei farle una proposta... volete incaricarvene voi? Il dottore s’appressa a Pasquale e gli sussurra nell’orecchio una sola parola che ha la virtù di mozzargli il fiato e fargli rifluire il sangue al viso. — Come!... davvero? — esclama Pasquale non appena riesce a snodare la lingua. — Vi do parola d’onore... Volete voi aiutarmi, Pasquale? Pasquale leva un bicchiere dalla scansia, lo pone sopra un piatto di maiolica a fiorami turchini: lo riempie di vino e lo presenta al dottore. Egli non aveva ancora offerto da bere al compagno, e questa mancanza, che colà non può essere involontaria, è uno dei più gravi insulti che un contadino dell’Astigiano vi possa fare. Colma anche il suo bicchiere, e, sporgendolo per _toccare_ col dottore, risponde alla domanda che questi gli ha fatta: — Se lei parla da galantuomo, sì, con tutta l’anima. Versa quindi nuovo vino al dottore e poi domanda: — Dica un po’, quando? — Ma... se la contessina... acconsente... io non chiedo altro... subito... — Alla buon’ora!... Il dottore vuole andarsene e Pasquale vuole accompagnarlo _per discorrere_. Ma per istrada nessuno apre bocca. Sulla porta della _cascina_ Pasquale dice sottovoce: — Dunque, ho proprio da parlare alla signorina? — Ma sì, ricordatevi che avete promesso d’aiutarmi... di far tutto quello che potete. — E lo farò: ma guardi di far l’_uomo_, che poi non ci manchi! — Non temete;... quando le parlerete?... — Domattina. — Bene, verrò io da voi a mezzodì a prendere la risposta... Mi raccomando! Pasquale ritorna verso casa, e a poco a poco rallenta il passo come fosse sopraccolto da gravi e moleste riflessioni. Sull’uscio si ferma perplesso. Poi dà volta ancora e adagio adagio rifa la strada innanzi alla _cascina_, sale al castello; trova la moglie che sta per porsi a letto nella stanza attigua a quella della contessina e le chiede: — Che fa la signorina? — Dorme. Egli esce, passeggia per qualche mezz’ora sulla spianata benchè soffi un rovaio indiavolato, poi scende, passeggia ancora a lungo innanzi e indietro con precauzione avanti la porta dei Bellardi, e finalmente si decide, di malavoglia, a ritirarsi. Egli ha un sospetto. Perchè la contessina ha voluto rimanere quella sera? Aveva parlato col dottore... Se fosse un tranello... All’indomani per tempissimo egli è in piedi, ritorna al castello e quivi chiede di nuovo alla moglie: — La contessina dorme? — Certo che dorme; che volete che faccia a quest’ora? — risponde la donna stupita. Egli allora ridiscende a girellare intorno alla _cascina_ finchè, verso le nove, vede uscirne il _medichino_. Questi gli corre incontro e gli domanda: — Ebbene, le avete parlato? — Non ancora... lei è ancora dello stesso sentimento? — Certo... voi dubitate ancora di me... — Che vuole, mi scusi, non mi posso ancora persuadere che lei sia un onest’uomo. Il dottore sorride tristamente: il suo viso smorto dimostra ch’egli non ha fatto nottata troppo quieta. — Vado adesso... Venga ad aspettarmi sulla spianata. — Sì... Sentite, ditele per bene le cose: ditele che voglio renderle in bene tutto il male che... gli altri le han fatto. E continua così le sue raccomandazioni fin che sono in cima. Quivi si separano, Pasquale si allontana, egli lo richiama indietro e gli dice ancora: — Ah! ditele... che... le voglio un gran bene. — Eh!... questo s’intende, — risponde Pasquale. XIII. Maria s’è levata di buon’ora, come nei giorni di grandi faccende; ma da due ore non sa che fare; è diventata nervosa: le pare debba venir qualcuno che ritarda. Entra Pasquale come una bomba, trafelato, col volto acceso, e non dice nulla; si siede senza aprir bocca. Maria gli domanda cos’è stato. — Ah!... dica un po’... se avesse da maritarsi... le spiacerebbe? — Cosa? — Se avesse da maritarsi... Maria lo guarda sorpresa e si mette a ridere. — Hai uno sposo pronto? — Certo che l’ho... — Bello? Pasquale fa una smorfia. — Non è bello, — esclama Maria. — È alto come me? Sai che io detesto gli uomini piccolini. — Ma senta... — Dunque è piccolo. Ha spirito almeno? — Che so io? — risponde Pasquale un po’ infastidito. — Non ha nemmeno spirito, ma mio povero Pasquale, a chi mi vuoi dar tu? — Mi lasci parlare... — Aspetta, indovino io chi è: il figlio dello speziale: è un pezzo che _mi vuole_. Non è lui? — Signorina, non fo mica da burla io, — dice Pasquale in tono di rimprovero. — Ah già, tu non burli mai! Ebbene, eccomi qua seria anch’io ad ascoltarti. Cos’è questo tuo pretendente? La Maria si fa contegnosa davvero. — È, secondo me... un buon partito... un partito conveniente... è molto ricco... — Ah sì? — dice la contessina distratta. — Insomma, è questo qua, lì da basso... alla _cascina_... — Chi? — domanda Maria agitatissima. — Il _medichino_... — Oh! — Me l’ha detto lui. Maria spalanca gli occhi e diventa bianca come cera; vacilla, cade su d’una poltrona e rompe in un violento scoppio di pianto. Pasquale la contempla meravigliato: non sa che dirsi. — Non si affanni, per carità; se le spiace si dice di no, e tutto è finito... Egli è di quella razza maledetta... lo so, una volta la sua domanda sarebbe stata un affronto... Guai se l’avesse fatta alla contessa!... Intanto s’è accostato a Maria, che singhiozza sempre e non può parlare. — Però adesso, — continua Pasquale dopo una pausa, — adesso le cose sono cambiate... lei è sola, e alla sua età, nella sua condizione, una donna... non sta bene... Lei, certo, poteva desiderare di meglio assai... un nobile, un par suo... ma dove trovarlo adesso? a me mi pareva che lei potesse dir di sì... non fosse altro che per farla tenere a quell’orso di Giacomo. Eppoi almeno avrebbe finito tutti i fastidi... non avrebbe da pensar ad altro che a far la signora... Ma se non le va... non ci pensi più... faccia conto ch’io non abbia parlato... vado a mandarlo a spasso subito... Egli si muove infatti per andare, ma la contessina si scuote ad un tratto, lo afferra per un braccio, lo tira a sè, gli lancia le braccia al collo, nella furia gli fa cadere la berretta, gli scompiglia i capegli grigi e grida: — No, aspetta. Pasquale è sbalordito. Essa fa inutili sforzi per parlare. — Ma cos’ha? — dice Pasquale che comincia ad inquietarsi. — Non lo vuole? lo so. Maria scuote il capo. — Glielo dirò, ho capito. — No, — esclama Maria. — No cosa? non ho da dirglielo? E perchè? Bisogna che gli faccia una risposta... è fuori che aspetta. — Ma sì... — Dunque cosa dirgli? — Sì... — Dunque lo vuole?... — Non hai capito ancora?... tu non capisci nulla... — Ma lei le dice in un certo modo le cose... — Ma va... va... Pasquale la guarda temendo ch’ella sia impazzita, e ripete: — Vado a dirgli di sì? — Sei ancora lì? — Eh non tema, non iscappa. Quando è alla porta essa lo richiama indietro. — Cosa t’ha detto, dimmi, bravo Pasqualone; parla... ci vuol poco a dire quello che t’ha detto... egli parla tanto bene! chissà che belle parole ti ha detto... e tu non me le ripeti... parla... — Ma devo andare sì o no? Egli aspetta... — Ah sì, va... me lo dirai dopo. Pasquale è sempre stupito: egli stupisce di tutto... Esce in cerca di Giulio, senza troppo affrettarsi, mulinando e brontolando fra sè sulle stranezze della scena fattagli dalla contessina. Giulio, che lo vede venire a quel modo, impallidisce e non ha coraggio di dare un passo per farsegli incontro. — Ebbene?... — domanda con voce soffocata e tremante. — Ebbene la contessina accetta. — Davvero? Anch’egli abbraccia Pasquale, che va di meraviglia in meraviglia. — Davvero? — ripete il dottore, — e come ha detto? Pasquale pensa fra sè: — anche questo qua vuol sapere come ha detto, — e poi con comodo risponde: — Ha detto _di sì_, cosa doveva dire? E adesso vuol venir su con me per cominciar _a discorrere_? — Adesso? io vo al castello... — Vuol parlare a lei? — Ma sicuro che voglio parlare a lei! — esclama Giulio con la ciera la più bella, la più raggiante del mondo. E in furia, quasi di corsa s’avvia al castello. Pasquale gli vien dietro come può. Giulio sale a rotta di collo la scala, arriva all’uscio della camera dove sta la contessina e là si ferma come impietrito col bottone del battente fra le dita. — Cosa fa adesso? — esclama Pasquale, entrando nella camera. — Ecco qua il sor medichino, vuol parlare a lei. Giulio si fa innanzi; Maria rimane seduta sulla poltrona e china il capo; egli la guarda intenerito. Pasquale si siede come al solito in un canto; ma vedendo che non parlano, crede abbiano soggezione di lui, ed esce dicendosi che al punto dove stanno le cose egli può senza pericolo ritirarsi. Si ferma a piè della scala ad aspettare il dottore ch’egli si propone di non abbandonare finchè tutto non sia stabilito. Ma Giulio non si fa aspettar troppo; arriva dopo due minuti correndo con l’aria stravolta da una gioia ineffabile. — To’, — pensa Pasquale, — avevano da parlarsi ed è già qui! non hanno avuto il tempo di dir nulla di nulla. E la sua meraviglia è al colmo. XIV. La sera è venuta; Giacomo e Maurizio discorrono soli nel tinello, mentre Martina è in cucina ad allestire la cena. Cioè Maurizio parla sempre lui. Egli è in vena d’umorismo; ha trovato un argomento di scherzi e di motteggi che pare inesauribile. Parla della contessina e nomina qualche volta anche il dottore. Il vecchio domanda: — Anche... oggi... mio nipote... è stato... lassù? — Credo di sì... a farle il ben servito... Eh eh!... era allegro quando è tornato, proprio come un litigante che ha ottenuto sentenza in favore. — Che non... si lasciasse... abbindolare... da quella... nobiluzza, — brontola Giacomo. — Ah!... — Anche sua madre... ti ricordi... aveva... dei pregiudizi... per quei del castello... — Sì, ma il medichino... quello lì, l’ho allevato io! E dopo una pausa, soggiunge ammiccando maliziosamente: — Volete che ve la dica? noi abbiamo pensato a metter le mani sul pollaio, ed egli il medichino, sapete il galuppo... — Eh! — Ha voluto beccarsi la pollastrina... Ah! ah! Il vecchio fa una smorfia schifosa e colla bocca aperta ride oscenamente di un riso secco, asmatico, stridulo. — Ah! ah!... sghignazza Maurizio... ci lascerà qualche penna. — Eh! Eh! Eh! — E la cresta... la contessina... Giulio arriva in quel punto, sente l’ultima parola. Manda fuori Maurizio con un qualche pretesto; chiude l’uscio a chiave e viene a sedersi presso il nonno. — Maurizio vi discorreva della contessina? — L’hai guarita... Eh! — Eh! Eh! — Anch’io voglio parlarvi di lei. — A me?... — Maurizio l’ha diffidata a vostro nome di lasciare la casa entro tre giorni che scadono domani... lo sapete? — Sicuro... — Non sarebbe meglio nonno, che... ritiraste quell’ordine? — Come?... — Che ritiraste quell’ordine... — Per... chè?... — Perchè, mio caro nonno, vi fa del torto... — Ah! — Sì, vi fa del torto, e se voleste pensarci un pò con calma, sareste d’accordo con me. — Per di... ana... io non fo che il mio diritto... — Non sempre ciò che la legge tollera è ben fatto. Mi pare, nonno, sia sconveniente il trattare a questo modo quella giovinetta... che non ha più nessuno... che è sola, senza appoggio... — Oh!... cosa... t’importa... a te?... Eh! la mia casa... non è un ricovero... — Voi che bisogno avete adesso di quelle due povere stanze?... — Vo... glio... trar... ne partito... voglio... — La contessina non ci starebbe che poco tempo; non è proprio il caso, per qualche settimana, di farle scortesia... — Ho... da... affittarle... io... le stanze... — No, non dite così, non è per quel meschino interesse che voi... vi ostinate... ma per un altro motivo, è per puntiglio... per rancore... contro la famiglia della contessina... — E... non avrei... ragione?... di rifarmi... contro... quei prepotenti? — Quei prepotenti, come voi li chiamate, da gran tempo non sono più prepotenti... sono poveri morti... che non possono più far del male e neppure patirne... le nostre rappresaglie essi non le saprebbero mai; chi invece ne soffrirebbe, e certamente molto a torto, è una povera fanciulla... innocente, che non v’ha fatto mai nulla, che quasi non vi conosce. Il vecchio col capo chino sul petto, aggrotta le ciglia canute in segno di malumore. — Il vostro sdegno, — continua Giulio, — pesa già pur troppo su di lei; tutte le disgrazie che da sessant’anni sono venute a colpire la sua famiglia, si accumulano sul capo di quella buona creatura... Credetemi, non ci può essere gusto ad accrescere le sue umiliazioni, e invece ce n’è uno immenso a far una buona azione... Datemi retta, nonno, lasciatela tranquilla! Ritirate quell’ordine. Giacomo scuote la testa con impazienza. — Fatelo per compiacermi... — No... no... — Sentite, i suoi vecchi avranno certo avuto dei torti... — Oh!... — Sì, ve lo credo... ma lei, io la conosco, è degna di tutti i riguardi, è... buona... è... — Sai... che... mi... secchi?... — Vi domando così poco... contentatemi... — No... no... no... oh! Giulio si frena a stento. — No? ma ditemi almeno il perchè... in nome di Dio... — Perchè... voglio... così... basta!... — Ebbene io vi dico che voi avete torto, che la vostra collera è ingiusta... esclama vivamente Giulio alzandosi dalla sedia e passeggiando a passi concitati per la stanza. — Voi volete ostinarvi a tormentare una povera creatura senza motivi o per motivi indegni di uno della vostra condizione... E sapete cosa si dirà?... si dirà che tutte le vostre collere passate furono come questa, ingiuste, crudeli senza ragione... che la causa della vostra famosa guerra contro il castello non è già stato un risentimento scusabile, ma bensì una sordida avarizia, una cupidigia sfrenata... Si dirà, e si dice già, sappiatelo, me lo si butta in faccia a me, vostro nipote che voglio potervi difendere, si dice che i signori del castello, voi non volevate che spogliarli con angherie, cavilli e peggio... e si dice che la nostra ricchezza non è pulita... e... Giacomo allo scoppiare di questa sfuriata ha levato il capo, ha spinto fuori i suoi piccoli occhietti sull’orlo delle palpebre sanguigne: a questo punto frenetico di rabbia, poggiando le mani sui bracciali grida con voce rauca: — Impertinente! birbo!... Le sue membra irrigidite dallo sforzo, tremano convulse. Giulio lo guarda spaurito; — si pente di essere andato troppo in là con parole, e non osa fiatare. — Birbo! ripetè il vecchio, io ho lavorato novant’anni per metter insieme quello che ho... me lo sono guadagnato... capisci? — Nonno, — dice sommessamente Giulio, — non ho detto per offendervi... — Me lo sono guadagnato!... — Non volevo che persuadervi a non fare una cosa che... — Una cosa che voglio fare... Sono ancor io... il padrone qui... tu non sai ancora dov’hai i piedi... te lo dico io... e giusto perchè me ne vuoi imporre... se quella... stracciona... domani... non... esce... la... faccio... cacciare colla forza... vedrai! Queste parole mettono nuovamente fuori dei gangheri la pazienza di Giulio, che dice a bassa voce con amarezza profonda: — Debbo dirvi che quella che voi volete cacciare... è... la mia sposa! — Ah!... lo... sapevo!... dice Giacomo ricadendo accasciato sul seggiolone. Egli è stremato di forze, le sue labbra si agitano come per parlare; ma per lunga pezza non riescono a modulare alcun suono. Un silenzio sinistro succede al diverbio tempestoso. Finalmente il vecchio si risolleva sulla persona e voltosi a Giulio gli dice con voce fioca e tremante di sdegno: — Tieni... a mente... che... colei... là... la figlia della ciarlatana non entrerà... qui dentro... — Sta bene; non entrerà... — Guai! se viene... Giulio rivolge uno sguardo di dolorosa compassione al vecchio ed esce precipitosamente. — Non vada fuori che la cena è pronta, gli grida dietro la Martina. XV. Quella stessa notte Maria usciva dal castello accompagnata da Giulio e da Pasquale, e veniva ad abitare in casa di quest’ultimo. Nei tre giorni successivi Pasquale, d’accordo col pievano, allestisce ogni cosa per le nozze con quella segretezza tutta propria dei contadini, che non ammette confidenti inutili. Giulio ha intenzione di far presto e quetamente, e si fanno perciò venire alla curia tutte le dispense necessarie. La sera del terzo giorno mentre Pasquale è alla parrocchia per le ultime disposizioni, la moglie imbandisce ai due fidanzati, che devono partir subito dopo la cerimonia, un boccone di cena. Ma Giulio e Maria non hanno voglia di nulla; seduti uno in faccia all’altro aspettano trepidanti il momento solenne. La sposa ha per tutta gala il suo modesto abito di lana grigia, il suo unico abito di tutti i giorni; non ha alcun ornamento fuorchè un leggero rossore che avviva il pallore del suo caro visino e un timido sorriso che non sa decidersi a venir fuori, e socchiude peritoso le labbra. Finalmente sul tardi, verso le dieci, Pasquale ritorna ad annunziare che tutto è pronto. S’avviano tutti e tre attraversando in silenzio il villaggio ed entrano in chiesa per la porticina del coro dove sta aspettandoli il sacrestano. La cerimonia deve celebrarsi nella prima cappella a destra dell’altare; quivi sta il banco privato della famiglia di lei che per quell’occasione hanno parato di un ricco drappo di seta a frange d’oro. Giulio vi conduce Maria. Ella s’inginocchia al posto dove per dieci anni è venuta tutte le feste colla nonna a sentir la messa. Mentre s’attende il pievano, che è in sacrestia a vestirsi, essa china il capo fra le palme e in un baleno le passano attraverso lo spirito tutti i pensieri di quegli anni tristi e dolorosi; e parle risentire accanto a lei la tosse secca della povera nonna. Alza vivamente la testa e vede al suo fianco Giulio che la guarda amorosamente. Il pievano arriva in quel mentre e comincia la celebrazione; non assistono altri testimoni fuorchè Pasquale ed il sagrestano. Dopo le preghiere, il sacerdote fa le domande sacramentali. Giulio risponde colla fronte alta e con accento breve e fermo; la sposa pronunzia il suo _sì_ più col cuore che colle labbra, con un sospiro, arrossendo e chinando gli occhi. Quanta diversità fra quelle due teste! — Quella di Giulio bruna, barbuta, dai lineamenti un po’ duri, coi capelli corti, neri, indocili, ricorda l’origine umile della famiglia, mostra la perseveranza, la forza di proposito della gente nuova. Quella di Maria, bionda, pallida, delicata, ha tutte le grazie, le finezze, il languore dell’aristocrazia, si china verso lo sposo come in cerca di un sostegno. Lo sposo mette l’anello, le due destre si impalmano: quella di Giulio stringe la manina breve e morbida della sposa e la tiene salda, sollevata sopra il davanzale dell’inginocchiatoio. È lui, il discendente dei servi della gleba, che porge la mano alla figlia dei signori, dei padroni!... Il pievano benedicendo dice a chiara voce: — _Conjungo vos_... — parole semplici e solenni che congiungono davvero, in nome di Dio, quelle due esistenze che gli umani rancori volevano separare, che proclamano l’eguaglianza di quelle due creature, celebrano la pace fra due razze divise da così profondo abisso di odio e di disprezzo, da tante ingiurie ed offese e vendette, e cancellano ad un tratto un passato doloroso e colpevole. Generazioni infinite hanno lavorato per accumulare del male su quelle due teste, hanno elevato fra esse, a forza d’ingegno e di livore, degli ostacoli che parevano insormontabili, eppure una sola parola annichila quella triste eredità di avversione, disperde le finzioni, i pregiudizi, le superbie di tanti secoli! Dopo la cerimonia gli sposi si fermano un momento alla casa di Pasquale, e subito poi ne escono per partire. Una vettura li attende nella valle per condurli ad Asti. Pasquale li accompagna. Passando innanzi alla _cascina_, Giulio volge uno sguardo di rammarico alla sua porta, dove non è entrato da tre giorni, e dice a Pasquale indicandogliela: — Ricordatevi di scrivermi tutto ciò che accade lì dentro. XVI. Pasquale obbedì, ma a modo suo, con tutte le restrizioni possibili, a questo desiderio del dottore. Gli scriveva immancabilmente tutte le settimane, al mercoledì, per mezzo del cavallaro; riassumeva ciò che poteva interessare gli sposi in paese in poche frasi laconiche, infilate l’una dopo l’altra senza scrupolo di punteggiatura, e terminava sempre: _del resto nulla di nuovo_. Quando Giulio, non pago di questa frase troppo generica, gli chiedeva espressamente notizie della _cascina_ e del nonno, egli rispondeva ancora: _nulla di nuovo_ — senz’altro. E non se ne poteva cavare di più. Giulio s’era provato di scrivere al nonno egli stesso: nessuna risposta. Dopo sei mesi Maurizio venne a Torino; cercò di lui; con quella sua famigliarità protettrice gli disse che egli aveva fatto di tutto per piegare il vecchio Giacomo a suo favore e promise di rinnovare gli sforzi. Poi gli scrisse di quando in quando, ma tutte le sue lettere, attese con ansietà sempre maggiore, recavano a Giulio la stessa delusione. Il vecchio era inflessibile. Passarono tre anni. Il cuore decrepito del Bellardi custodì la sua collera come per mezzo secolo aveva custodito l’odio contro gli Ormeto. Un giorno Pasquale scrisse al dottore: «Se vuol venire, venga, laggiù non si sta bene.» Giulio accorse ad Ormeto con Maria, che volle seguirlo. Alla cascina nessuno li aspettava. Entrano nel tinello. È di sera, — l’ora della cena, — ma non c’è che Maurizio, il quale nel vederli mette un’esclamazione. — Mio nonno?... — chiede Giulio con voce soffocata. — Eh! è un benedetto uomo, non vuol intendere la ragione. Colui non può parlare senza quella smorfia beffarda, quel ghigno maledetto. — Non rider così, perdio! — grida Giulio. — Mio nonno... dov’è?... è... malato? — Non lo sa? Giulio corre alla stanza del vecchio, ch’è lì accanto, al pianterreno. Giacomo è a letto, ha gli occhi chiusi, pare assopito, il suo volto ha una rigidità sinistra... Martina è in piedi al capezzale. Essa vede Giulio e gli fa cenno di tacere. Giulio cade sopra una sedia e resta immobile, atterrito. Dopo un quarto d’ora il vecchio apre gli occhi; Giulio gli viene accanto, gli prende senza parlare il polso. Il vecchio non sembra riconoscerlo. — Guardate, è Giulio. — Ah!... — brontola Giacomo. — Nonno! — dice sommessamente Giulio. Il vecchio non risponde. — È Giulio, — ripete Martina, — è vostro nipote, non vedete?... — No... Poi Giacomo scuote leggermente il capo e mormora: — No... mio... nipote... è... con quella stracciona, la figlia... della ciarlatana... E resta a bocca aperta. Un gemito fa voltar Giulio dalla parte della porta. Maria è là tremante contro lo stipite; essa l’ha seguito, ha udito tutto. Pasquale è dietro di lei nel vano dell’uscio. Giulio accorre e gli dice: — Menatela via, menatela via! Pasquale obbedisce e porta la contessina, quasi di peso, nel tinello e l’adagia sopra una ricca poltrona. È la poltrona del salotto ottagonale, che Giacomo tre anni prima ha fatta recare per sè dal castello. La povera Maria è mezzo svenuta e mormora: — Mio Dio, che brutte cose!... — E singhiozza ed abbrividisce. Dopo mezz’ora entra Giulio barcollante, col viso disfatto: le corre vicino, l’abbraccia stretto e rimane un po’ angosciato senza parlare, poi dice sottovoce: — Perdonagli, il povero nonno non è più... XVII. Sono corsi parecchi anni, nei quali il castello è rimasto chiuso; l’erba è cresciuta folta intorno, fra le screpolature dei muri, fin sulla soglia della porta e sul davanzale delle finestre. Ma un bel mattino di settembre quella porta e quelle finestre si aprono, e un torrente d’aria e di luce invade le stanze malinconiche. Sul verone del salotto ottagonale un signore ed una dama, appoggiati alla ringhiera, discorrono tranquillamente e contemplano commossi il paesaggio. Le ondulazioni delle colline, l’orizzonte sono pieni di splendore, di colore e di trasparenze; di fronte a destra è un poggetto verde con una piccola cappella nel mezzo. È il cimitero del villaggio. Sotto la gronda della chiesuola contro il muro, due croci vicine segnano due fosse scavate nello stesso anno. La dama guarda con amore quelle due croci lungamente, poi dice al compagno: — È curioso, sai, stanotte mi sono addormentata coll’animo pieno del viaggio di stamane, ed ho fatto un sogno: mi pareva d’essere qui, e c’eri anche tu seduto accanto a me, e là sul canapè stava la nonna, e... poi nella poltrona c’era un altro, indovina? tuo nonno! — Ah! — Sì, e sembravamo tutti tranquilli, lieti, e si discorreva noi due insieme, e i nonni fra loro. — Era proprio un bel sogno! — dice mestamente il signore. La dama china la testa contro quella di lui, lo bacia e dice: — No... almeno una parte è vera... e il resto... chissà!... io credo ai sogni. Due bambini saltano per il salotto giocando e mandando giulivi gridolini di festa; e s’arrampicano sulle sedie e si specchiano colle testoline curiose l’una accanto all’altra. Poi il più piccolino mostra all’altro uno dei ghiribizzi che sta sopra una porta, una specie di drago che ha perduta la doratura ed è diventato nero come fuligine, — e dice con sbigottimento mezzo finto e mezzo vero: — Guarda là, cos’è? E il più grandicello, alzando il dito in atto di ammonimento, risponde: — Zitto, è la befana. Il povero drago ha la bocca spalancata come ad una risata enorme che lo spacca pel mezzo; egli pare tutto contento d’esser stato, una volta almeno, terribile. Pasquale è là sull’uscio e non osa entrare; finalmente Giulio e Maria lo vedono e gli saltano al collo e gliene fanno di tutti i colori. — E, senti, — gli dice alla fine Giulio, — se non vuoi che il tuo arboscello faccia pere-cotogne, innestalo. FINE. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. In "Tenda e castello" ci sono due capitoli IV: sono stati lasciati come in originale. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK TENDA E CASTELLO *** Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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