*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 51463 *** LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO (1846-1849) TERZA SERIE II. STORIA. A sedici anni sulle barricate di Milano PAOLO MANTEGAZZA. Venezia nel 1848-49 POMPEO MOLMENTI. Volontari e regolari alla prima guerra dell'Indipendenza italiana FORTUNATO MARAZZI. La démocratie spiritualiste selon Mazzini, et selon Lamartine PAUL DESJARDINS. FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI 7, Via del Proconsolo 1900 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATI TUTTI I DIRITTI _Gli editori R. BEMPORAD & FIGLIO dichiarano contraffatte tutte le copie non munite della seguente firma:_ [Illustrazione: firma manoscritta] Firenze, 1900. — Tip. Cooperativa, Via Pietrapiana, 46. A SEDICI ANNI SULLE BARRICATE DI MILANO CONFERENZA DI PAOLO MANTEGAZZA Se volete darmi la mano, rimonteremo insieme la corrente del tempo, che mai non posa, e ci fermeremo là dove il calendario ci dice, che siam giunti al 18 marzo dell'anno 1848. Giunti là avremo fatto un viaggio di 51 anni, poco pili di mezzo secolo. Pochi di voi erano vivi allora, pochissimi eran già fanciulli o giovinetti. Io sono fra quei pochissimi, e non vorrete accusarmi di vanità se ho voluto quest'oggi parlarvi di ricordi miei. Se quei ricordi son miei, appartengono però alla storia della nostra Italia e in parte ancora alla storia di tutta l'Europa. A quel passato remoto voi non siete giunti, fortunatamente per voi, che colla guida del libro stampato o della tradizione parlata. Io invece vi giungo sulle ali della mia memoria, memoria che, ricordando, ama e sospira. Il ricordare il passato, l'evocarlo dalle nebbie del tramonto, per farlo più vicino a noi, è uno dei più cari bisogni dell'anima umana. E se vi fu un solo Giosuè, che per assicurar la vittoria del suo esercito fermò il sole per qualche ora; noi tutti, figli di donna, cento e mille volte fermiamo il tempo, dicendogli: prima di disperderti nell'infinito dell'oblio che tutto seppellisce e consuma, fermati e lasciati guardare e amare. Lascia che i miei occhi ti contemplino, che le mie mani ti accarezzino. Il presente è l'ombra d'un sogno e quando voglio fermarlo, è già divenuto un passato. — L'avvenire è lontano, è oscuro. O passato, che fosti veramente mio, o passato che io ho vissuto con tanti altri, oggi morti, rallenta la tua fuga all'indietro che tutto ingoia; fermati ancora, prima che anche la memoria che ti fa vivo, si sommerga con me e mi faccia raggiungere i miei morti. Il passato è il fascino dei fascini, appunto perchè ci dà una sete, che non si appaga mai e perchè come tutte le forme dell'infinito e dell'impalpabile, non ci sazia mai, deliziandoci sempre. Ciò che proviamo, fissando lo sguardo nel passato, non è gioia e non è dolore, ma è malinconia; è, come lo disse Victor Hugo, «_un crépuscule, dans le quel le souffrance s'y fond dans une sombre joie_; aggiungendo poi sublimemente: _la mélancolie c'est le boneheur d'ètre triste_.» E con meno parole e genio eguale cantò lo Shelley: Sweet though in sadness. E se voi che mi ascoltate avete ancora tutti i vostri capelli neri e non siete disposti a fare con tue un viaggio nelle nebbie della malinconia; se invece avete il pessimismo di moda del presente, vi consolerete, vedendo quanta strada si sia percorsa in questi 50 anni, che ci separano dal 18 marzo 1848. Io non sono ancora decrepito: eppure io ho viaggiato nel primo treno di ferrovia nel 38, ho conosciuti i fiammiferi ad immersione, e ho veduto la prima lampada a gas. E questo per il progresso materiale. Quanto al politico e al civile basti una citazione sola. S'aveva in famiglia una villetta a Cannero sul Lago Maggiore e si viveva a Milano. Or bene. Cannero era sulla costa piemontese e si doveva chiedere il passaporto al Governo austriaco, e ci volevano almeno 15 giorni e la mamma doveva presentare il consenso del marito in carta bollata! Ma io non vi ho invitato a fare della filosofia o a cantarvi un inno alla malinconia, soggetto caro che mi occupa da un anno e che, Dio volendo, si trasformerà in un libro. Torniamo dunque sulle barricate di Milano. * * * Chi ha fatto le cinque giornate? Tutti e nessuno. Le rivoluzioni son come la febbre. Quando i primi brividi accapponano la pelle e ci fanno battere i denti, quando poco dopo il sangue si accende e il termometro ci dice inesorabilmente: tu hai la febbre; il volgo non vede che lei e crede che il male, che pure ci porterà alla tomba, è piombato su di noi, come un fulmine a ciel sereno. E invece la febbre è l'ultima scena di un dramma preparato da lungo tempo dietro le quinte. Abbiamo respirato un'aria infetta, dove si annidavano bacilli insidiosi: sono entrati in noi e hanno percorso tutte le vie dei nostri organi, circolando nel sangue. Altri bacilli li hanno combattuti, ma sono stati vinti. Gli invasori hanno trovato il terreno libero e son diventati padroni del campo. E ora stanno vivendo alle nostre spese e secernono veleni e il sangue arde e i nervi inondati da un'onda troppo calda si ribellano e sussultano. Il respiro è angoscioso; alla coscienza di una vita tranquilla e lieta tien dietro il malessere di tutti i visceri, di tutti i muscoli. Perfino il cervello, che pili d'ogni altro viscere resiste alle lotte, alle invasioni, alle insidie, perchè è responsabile di tutte quante le vite sparse nei suoi Stati; soffre, vacilla e delira. Ecco la febbre, ed ecco la rivoluzione. E come nella febbre due elementi contrari si combattono con incerto successo, e come essa può essere seguita dalla vittoria, cioè dalla salute; così può distruggere l'organismo o lasciarlo così debole, da farlo facile preda di altre febbri o di altri malanni. Così nelle rivoluzioni i due avversarli che vengono in lotta si urtano, si attaccano, si mordono e si feriscono, finchè l'uno sovrasti all'altro, e lo vinca, lasciandolo morto o ferito. Nella rivoluzione milanese, tutto era pronto e preparato da lunga mano. — La polvere era accumulata nel sottosuolo, nei sotterranei, nei pili sottili meandri della vita nazionale. Non mancava che la scintilla, e questa guizzò nell'aria di Milano il 18 di marzo. Noi lombardi eravamo italiani come i piemontesi, come voi altri gentili toscani, e invece a vent'anni si doveva vestire l'uniforme del giallo e del nero Colori esecrabili A un italo cuore. I nostri vicini avevano un re italiano: noi avevamo il nostro re a Vienna, e da Vienna, ci venivano leggi, maestri, soldati. E prima di essere italiani eravamo uomini, e i nostri polmoni si sentivano capaci di respirare l'aria della libertà; quella che respiravano gli Inglesi, gli Americani, tanti altri popoli. Avevamo nati nelle nostre mura il Manzoni, Carlo Porta, il Parini, e nelle scuole dovevamo leggere libri tradotti dal tedesco e da chi non sapeva l'italiano. Nessun libro poteva apparire, nessun giornale si poteva leggere, senza che libro e giornale passassero prima tra i denti fitti e crudeli della censura. Da quei denti nulla usciva, che non fosse lacerato, storpiato, malmenato. Ci sentivamo italiani e dovevamo essere nient'altro che sudditi austriaci. Ci sentivano uomini civili e degni di libertà, e non potevamo muoverci senza il permesso di poliziotti, di censori, di passaporti. L'uomo, che cade e si trova rinchiuso in una fogna, cerca l'aria pura e unghie e muscoli punta e titanizza per cercarla. Si lacera le unghie, si spezza le membra, si lacera i polmoni colle grida; ma vuol l'aria, perchè l'aria vien prima del pane, prima dell'amore, prima della luce. O respirare o morire. E le rivoluzioni sono gli sforzi di un popolo, che vuole quell'aria dei polmoni collettivi, che è la libertà. O morire o esser liberi. L'uomo caduto nella fogna che lo asfissia, non misura le proprie forze, nè calcola le speranze della salvezza; ma lotta, si agita e grida. O morire o respirare. E il popolo senza libertà non conta i nemici, non pesa le speranze, ma lotta e grida. O morire o esser libero. Ecco la rivoluzione, or vincitrice, or soccombente; ma sempre febbre sociale, preparata da lunga mano, dal lento assorbimento dei miasmi della tirannide. Ed ecco anche la rivoluzione di Milano, che potè sembrare un miracolo, e non fu che una delle pagine di storia, che scrisse la vittoria del diritto contro il dispotismo; la vittoria di pochi che avevano ragione, contro i molti che avevano torto; ciò che non succede ogni giorno. Ecco le cinque giornate, nelle quali una popolazione inerme, senza generali, senza cannoni, che si arma svaligiando le botteghe degli armaiuoli e le collezioni archeologiche, che si batte con un esercito di 15,000 uomini guidati dal Radetzky; ottimo generale, che ha cannoni, razzi alla Congrève, baionette a mille e mille, e mitraglia. * * * La sera del 17 marzo ed anche la mattina del 18, nessun milanese pensava che sarebbe scoppiata la rivoluzione. Io poi meno di tutti, che ero un giovanetto, quasi un fanciullo. Tanto ero gracile e sottile e l'onor del mento era più un desiderio che una realtà. Erano poco più delle 10 o delle 11 del mattino, quando dopo aver studiato fisica (ero nel Liceo) col mio condiscepolo Boselli per prepararci all'esame e dopo aver fatto colazione, mi affacciai alla finestra che dava sulla piazza di San Giovanni in Conca, dove è il Liceo, e vidi la piazza e le strade prese da pànico. Erano i brividi della febbre che incominciava. Chi correva, chi fuggiva. Servi, cameriere coi bimbi che non conducevano a scuola, ma che erano andati a riprendere, e che dal passo concitato si vedeva che li riconducevano a casa. Vedo chiudere le porte di molte case e dalle finestre semiaperte e diffidenti affacciarsi gente curiosa, che guarda nelle vie e sulle piazze. Corro nel cortile, che nelle case lombarde è come la piazza della casa, e trovo che i vicini hanno sentito lo stesso bisogno che ho sentito io; quello di rivolgersi domande e aspettar risposte; di sapere perchè si corre, si fugge. Le domande si incrociano colle risposte, si parla in due, in tre; si interrompe chi parla e si fa parlare chi tace. Raccolgo notizie confuse, incerte, contraddittorie. Sento dire che a Porta Renza vi sono uomini attruppati, chi dice di popolo armato, chi di austriaci pronti alla lotta. Si assicura che sono cittadini e che hanno una bandiera tricolore. — Al Broletto i cittadini fanno folla per iscriversi nei ruoli della guardia civica, che nasceva per la prima volta. Riporto, correndo su per le scale, le notizie raccolte. La mamma manda subito la nostra balia, rimasta cameriera in casa da tanti anni, a riprendere mio fratello Emilio e riportarlo a casa. Mi ero offerto io, ma la mamma, che era a letto malata, non volle. — La balia parte, ma non ritorna. I minuti ci sembran secoli. La mamma salta dal letto, si veste, sta alla finestra a spiare il sospirato ritorno. — Se la balia non si vede, si vestirà e colla febbre in corpo andrà essa stessa a cercar di Emilio. Io poi avrei accompagnato la mamma: questo nessuno poteva impedirmelo, ma balia e Emilio ritornano. Vengono in furia, correndo anch'essi. Pare che in questi giorni tutti debbano correre. Abbracciato e baciato Emilio, stiamo tutti alla finestra, divenuta il nostro osservatorio. Passan gruppetti di uomini, di giovani, colle coccarde tricolori all'occhiello e gridano: _Viva la Repubblica: Viva Pio IX_. — Molti sono inermi, ma altri hanno spade, bastoni armati, poche pistole o fucili da caccia. Dirimpetto alla nostra casa vi è una gran _sostra di legna_, e tre o quattro giovanotti armati di coccarde picchiano, ma invano. La porta è chiusa. Se non si apre la porta, incendieranno il magazzino delle legna. Questa minaccia si fa anche alle case vicine, e _sostra_ e case si aprono. E là entrano e se ne cava un gran numero di casse, di scale, di stie e si trascinano in piazza e si gettano a traverso la via. Io non sapevo che cosa fosse una barricata, e mi si dice che tutti quegli oggetti devono servire ad impedire il passaggio della cavalleria. Son quelle le barricate, fortezze del popolo delle città contro le truppe regolari. Ma ecco che ad uno di quei rivoluzionari viene l'idea di aprire il magazzino delle carrozze vicereali, che è appunto nella vecchia e abbandonata chiesa di San Giovanni in Conca. Qui non si può picchiare, nè suonare il campanello per farsi aprire, perchè nel magazzino non stanno di guardia che i topi. Conviene dunque buttar giù la porta, e a colpi di ascie, di martelli, di grossi pali, si sfondano le vecchie tavole e se ne cavan venti e più carrozze coperte d'oro, di festoni, di ghirigori, campate in alto su ruote colossali, ballonzolanti sulle loro quattro gambe. Si portano a braccia di popolo, fra grida, fra urli di evviva e di gioia, e si rovesciano all'entrata delle vie, che sboccano nella piazza, divenuta così una fortezza. Mentre le carrozze vicereali divengono barricate e vanno a gambe all'aria, alcuni cittadini hanno portato una scala e l'hanno appoggiata alla porta del Liceo di Sant'Alessandro, dove campeggia l'aquila austriaca e in men che non lo dico l'hanno buttata giù a colpi di scure e di martello. E chi sta ai piedi della scala la rompe fra grida e urli e risate assordanti, e coi piedi vi saltan sopra e la calpestano e la fanno a pezzi. Io scendo precipitoso dalle scale con un coltellaccio di cucina, e voglio anch'io ferire quell'aquila grifagna, che per meglio mangiar due becchi tiene; voglio anch'io avere una reliquia di quel cadavere. Ma ahimè, le mamme e i babbi della nostra casa hanno barricata la porta, e non s'esce. Allora da una inferriata di una camera a pian terreno chiamo uno dei fortunati demolitori dell'aquila grifagna, e che era un mio condiscepolo. Porgo il mio coltellaccio a lui che era inerme. Lo adoperi, e dia a lui e a me un osso, anche una scheggia sola di questo cadavere imperiale. Quel giorno si passò fino a sera alla finestra, passando di angoscia in angoscia, di trepidazione in trepidazione. Fatte le barricate, rovesciati i carrozzoni vicereali, demolito lo stemma del liceo, si sentirono da lungi, a lunghi intervalli, delle schioppettate, poi qualche campana che suonava a martello e poi e poi, con un crescendo formidabile di triste augurio, anche un colpo di cannone. Ma dunque la battaglia si era impegnata, ma dunque la città di Milano aveva sollevato lo stendardo della rivoluzione, ma dunque si battevano. — Da una parte un esercito ben armato, con cannoni appoggiati ad un castello, dall'altra cittadini inermi o quasi, che senza misurar le proprie forze volevano la libertà. Che la battaglia si fosse impegnata, anche senza i colpi di cannone e senza le fucilate, io avrei dovuto già saperlo, perchè fra il popolo che trascinava le carrozze e le gettava gambe all'aria, avevo veduto due cittadini vestiti colle spoglie di due soldati di fanteria, e due altri colle giacche di due ussari. Avevo visto un altro, che correva schiamazzando e gridando, ebbro di gioia e che sulla punta di una spada portava il cappello d'un soldato. Intanto pioveva a dirotto, ma la pioggia non impediva che corressero per le vie drappelli di cittadini, e che alle 24 gridassero: _Fuori i lumi! Fuori i lumi!_ Fu in quell'ora che 15 o 20 croati, malgrado le barricate, passarono correndo e tirando in aria verso le finestre chiuse colpi di fucile. * * * Ma lasciamo il povero giovinetto, che si accontentava di prendere una scheggia della terribile aquila grifagna e vediamo che cosa volesse e facesse in quel giorno la città di Milano. Questa pacifica città voleva assai più di quel giovanetto: voleva almeno ciò che l'Imperatore aveva dato a Vienna, che per una strana coincidenza insorse anch'essa il 18 di marzo. Vienna è in rivoluzione e i Milanesi esclamano: _Se tanto si fa dai Viennesi, come staremo noi tranquilli?_ Già da molti giorni, se di fuori nessun sintomo esteriore diceva che Milano era minacciata da una gran febbre, la polizia però aveva toccato il polso alla città ed era inquieta. L'arciduca Ranieri partiva con tutta la sua famiglia per Verona il 16 marzo, accompagnato da un reggimento di granatieri italiani, che non si credeva prudente lasciare in quella città. E prima di lui era partito anche lo Spaur, governatore della Lombardia, lasciandovi il vicepresidente O'Donnell. La mattina del 18 marzo si legge su tutti i canti delle vie un editto imperiale e reale, nel quale si diceva che _Sua Maestà ha determinato di concedere ai suoi popoli istituzioni liberali, e convocherà i rappresentanti dei diversi paesi a Vienna per il 3 luglio_. Sapete tutti che quando si vuol elevare la temperatura di un forno vi si getta un po' d'acqua. Molta acqua lo spegnerebbe, ma pochina lo ravviva. L'ordinanza imperiale fece l'effetto di quella poca acqua. Per tutte le vie si formano capannelli di persone, che anche senza conoscersi, per l'emozione comune e forte che ne fa battere il cuore, diventano amici, quasi parenti per un momento. Vi è una consanguineità più calda di quella del sangue, ed è quella del sentimento e del pensiero. In una rivoluzione tutti quelli che s'incontrano diventan più che amici, fratelli. E in quei crocchi si sente dire: _Oggi si fa la dimostrazione al Governo. — Vanno tutti al Broletto. — Bisogna finirla. — Vienna è insorta: non è più tempo di dimostrazioni; ci vogliono dei fatti._ Quelle esclamazioni (che esclamazioni erano e non discorsi), sottolineate dall'accento poderoso e dalle voci grosse, esprimevano due opposte correnti, che in ogni moto popolare delineano i temperamenti di due diversi caratteri, il prudente ed il violento. Dall'una parte si vuole raggiungere lo scopo per le vie legali: dall'altra si vuole la lotta, la guerra; si aspira con voluttà al sangue. Alle 10 del mattino tutta Milano era in moto; non v'era mente che stesse ferma, non cuore che non battesse più forte. Il carattere violento trascina il carattere prudente. La folla irrompe nella bottega del Colombi, il primo armaiuolo di Milano, e la svaligia. Ne escono con pistole, con fucili da caccia, con carabine, con sciabole; con tutto ciò che può uccidere. Ma le armi non bastano; si dirigono tutti al Borgo Monforte, dove è il Palazzo di Governo e il Torelli si unisce alla folla. Domanda che cosa si vuole e gli rispondono: _Si fa una grande dimostrazione per appoggiare la domanda di concessioni che si vogliono dal Governo e quanto prima verrà il Municipio, verrà anche il Delegato (Prefetto) in persona_. Più in là il Torelli vede un giovane, che escito dalla bottega di un tappezziere, con un grosso ferro acuto e forte, tenta di smuovere il selciato per fare una barricata. Ma gli gridano: _No, no, a che pro vuoi rovinare la strada?_ Ancora e sempre violenza e prudenza, che vogliono la stessa cosa, ma per diverse vie. Intanto la folla si urta, si addensa, corre e divien fiume, corrente, che trascina ogni cosa che incontra. Si ode gridare: _Sono qui, sono qui!_ È infatti la Deputazione solenne, che si avvia a chiedere al Governo le concessioni. Avanza lentamente, solo gli uscieri e i pompieri possono difenderla dall'onda del popolo e permetterle di andare innanzi. Guardate quei coraggiosi. Sono il delegato provinciale Antonio Bellati, il podestà conte Gabrio Casati, e intorno ad essi assessori, cittadini notevoli per censo e per fama. Popolo e deputazione giungono al Palazzo, l'onda del popolo ne invade cortile, scale, e su su è entrata nelle sale, negli uffici, dovunque. Si ferma forse l'acqua torbida di un fiume, quando travolge alberi e armenti e case, ed uomini e cose? Quelli che sono rimasti fuori si sentono cader sulle spalle registri, libri e per l'aria volano fogli, lettere. Il Torelli, rimasto addietro, penetra più tardi nel palazzo, e sotto il portico vede da un materasso gettato a terra escire due paia di piedi calzati come sono i soldati ungheresi. Quei piedi sono immobili. Sono di due cadaveri, delle due sentinelle che erano alla porta del Palazzo e che, avendo voluto opporsi all'onda del popolo, erano state uccise, l'uno con un colpo di pistola, l'altro colla stessa baionetta di cui era armato il suo fucile. Povere ed innocenti vittime del dovere professionale! Il libro degli Edda lo ha detto da tanti secoli. Nessuno è forte contro tutti. E quei poveri soldati giacciono lì sotto quel pietoso materasso che solo li nasconde alla curiosità del popolo tumultuante, e le loro povere madri pensano forse a loro in quella stessa ora nelle lontane steppe dell'Ungheria al dì del ritorno e che non verrà mai, mai più! Quella folla, che si è già macchiata di sangue, non ha però tempo ne voglia di occuparsi di quei poveri morti. Tumultua, grida, schiamazza, mentre la Deputazione è in conferenza coll'O'Donnell. Era le mille voci che riempiono il cortile, le scale, la via, si ode una voce più alta, che per un momento fa tacere le altre e ad esse si sovrappone: _L'Arcivescovo, l'Arcivescovo! Largo all'Arcivescovo!_ Era il Romilli, che l'anno prima, l'8 di settembre, aveva fatto il suo solenne ingresso in Milano e che succeduto al Gaisruck tedesco, era divenuto subito popolare, perchè italiano e buon uomo. Il Romilli più che camminare era portato anch'egli su per lo scalone, mal difeso da alcuni sacerdoti, che lo difendevano dal troppo caldo entusiasmo dei suoi concittadini. Salutava a destra e a sinistra, sorrideva, ma era agitatissimo. Guardava con certo terrore una coccarda tricolore, che gli avevano appiccicata sulla veste talare. Si conferiva intanto nel gabinetto del Governatore, e la folla febbricitante di impazienza alzava sempre più le note del suo patriottico entusiasmo. Ma ecco che si apre la porta del gabinetto e ne esce il conte Carlo Taverna, che dà la notizia delle prime concessioni. _Signori, il Governo ha fatto le concessioni...._ E non si ode il seguito.... _Concessioni, sta bene, ma di che, ma di cosa?_ La impazienza cresce, diventa angosciosa e le grida crescendo impediscono di udire. Un tale grida: _Scriviamo la concessione e gettiamo il foglio nel cortile. Una penna, dei calamai, dei fogli!_ Si trova dopo confuse ricerche un calamaio, ma senza penne e senza carta. La _carta_ la _troverò io_, grida un impiegato e _porta dei bollettini di leggi e circolari_, che hanno sempre un foglio in bianco. Si strappano le pagine bianche e senza penna vi si scrive con bastoncini, con matite; perfino colle dita tuffate nel calamaio. E i fogli volan per l'aria e scendono dalle finestre nelle vie, dal corridoio e dalla scala nel cortile. Si legge male ciò che peggio era scritto, ma tutti possono leggere però queste parole: _Il Governo ha conceduto_. E allora si ode da per tutto: _Evviva la concessione, evviva il Municipio!_ Le concessioni strappate a forza erano: _Guardia nazionale — Libertà di stampa — Garanzia personale_. Miste agli evviva si udivano però altre grida: _Vogliamo armi, vogliamo armi!_ Ma un altro grido più forte, più angoscioso vien su dalla piazza: _I Tedeschi, i Tedeschi!_ Il pànico invade la folla in gran parte inerme, e fugge, mentre la Deputazione esce dal Palazzo, portando seco come ostaggio o come prigioniero il vicepresidente O'Donnell, che messo nel palazzo del conte Carlo Taverna vi rimaneva tranquillo e indisturbato per tutte le cinque giornate. Intanto, però, in varii punti della città eran corse schioppettate fra il popolo e la truppa, e in più luoghi si erano inalzate delle barricate. I soldati avevan saputo dell'uccisione delle due sentinelle del Palazzo di Monforte e si vendicavano, dando la caccia ai cittadini. E questi tiravano sui soldati. Non si trattava più di Milanesi oppressi e di Austriaci oppressori. Era la vampa atavica dell'uomo selvaggio, che morsicato morde, che ferito ferisce. Due giovani fra gli altri, di condizione civile, inseguiti, fuggirono in una bottega di cartoleria, che era aperta, avendo la folla strappate le porte per farne una barricata. E i soldati dietro. I fuggenti corrono su per le scale, finchè trovano il tetto, e i soldati sempre dietro. Non si seppe mai, se scivolando dal pendio del tetto cadessero nella via o prima fossero stati uccisi e poi precipitati dall'alto. Il fatto si è, che i loro cadaveri, sfigurati, rimasero dov'eran caduti per più giorni, non riconosciuti, nè raccolti dalle turbe ebbre di lotta e che avevan altro da fare che di pensare a due poveri morti. Chi conta i cadaveri nell'ora della battaglia? E la battaglia era ormai impegnata, nè consiglio di prudenti, nè pietà di filantropi poteva ormai arrestarla. Nè solo i combattenti cadevano, ma anche i fuggiaschi, che per caso o per necessità si trovavano nelle vie. Il bravo Torelli, che armato di una sciabola e di due grossi pistoloni andava verso il Broletto, trova sul marciapiedi presso la via della Spiga un povero vecchio ucciso da una palla nel mezzo della fronte, e la pioggia lavava quella ferita e portava lungo il leggier pendio della strada un sottile rigagnolo di sangue. Il Torelli aiutato da alcuni cittadini portò quel povero vecchio sotto l'atrio d'una casa. * * * Ecco il principio della rivoluzione, ecco la prima delle cinque gloriose giornate, che scrissero una pagina d'eroismo nella storia d'Italia e diedero una lezione ai despoti; nè starò a descrivervi tutte le scaramuccie, tutti i particolari della lotta, che non aveva un solo generale, nè un solo piano di tattica, ma che si combatteva in tanti centri, quanti erano rappresentati dalle caserme, dal Comando di piazza, dalla polizia e con diversa fortuna, secondo i luoghi e gli uomini che combattevano. Non accennerò che a qualche episodio. Mettendoli l'uno accanto all'altro, avrete il quadro della sommossa. Corre la voce, che davanti al Gran Comando Generale posto in via di Brera, i soldati fraternizzano col popolo. Si spiega la cosa, aggiungendo che quei soldati son tutti ungheresi e italiani. Se un cittadino di alta autorità e di grande energia si presentasse al Comando, potrebbe intimare la resa a quel battaglione. Ma c'è chi soggiunge: È vero: son tutti italiani e ungheresi, non chiederanno di meglio che di arrendersi; ma gli ufficiali son tutti tedeschi e conviene che per trattare con essi ci voglia chi sappia il tedesco. L'uomo coraggioso si trova, anzi se ne trovano due, perchè al Torelli si aggiunse l'Anfossi, e entrambi, senza misurare il pericolo della loro impresa, si avviano al Comando. Era tutto un quadrato di soldati, che fitti fitti e armati stavano davanti alla porta del palazzo. Il Torelli, traendo un fazzoletto bianco e sollevandolo in alto, gridò con tutto l'entusiasmo: _Eljen Madjar!_ Risposero in molti _Eljen! Eljen!_ e parecchi strinsero la mano al nostro Torelli. Egli ravvisò un maggiore, che ravvolto in un gran mantello impermeabile a causa della pioggia, stava dinanzi alla porta chiusa del Comando e tentò di persuaderlo ad arrendersi. Ormai il popolo era padrone della città, era bene evitare un inutile spargimento di sangue.... si arrendesse. Il maggiore lo ascoltò con tutta la calma, senza dar segno di impazienza o di sdegno, e si accontentò di rispondere: _No, non lo posso, non fate ostilità voi, e non ne faremo noi_. L'Anfossi, che non sapeva il tedesco, non poteva capire il dialogo, vedendo che i soldati li avevano circondati, disse piano al Torelli: «Caro mio, andiamocene, ci potrebbero portare in castello.» Il Torelli ritornò all'assalto con parole più calde, ma il maggiore con più energia di prima disse di no, e i due temerarii cittadini ritornarono donde erano venuti. Se la resa non riusciva colle buone, doveva riuscire colle brusche e a suon di fucilate. Il 19 l'Anfossi con una schiera di valorosi compagni prendeva gli Archi di Porta Nuova, respingendo gli Austriaci e prendendo un'ottima linea di difesa. Il giorno dopo, i Tedeschi abbandonavano la Polizia e il Duomo, che avevano occupato, come un osservatorio e come un ottimo punto di difesa, dacchè i Tirolesi, ottimi fra tutti i tiratori del mondo, di lassù uccidevano senza sbagliare un colpo. Aggiungete che accanto al Duomo sta il Palazzo Reale e si innalza il colosso dell'Arcivescovado. Il Torelli, appena seppe che il Duomo era abbandonato, chiese ad una signora una bandiera tricolore, e con pochi compagni la portò su quel gigante di marmo, e l'innalzò tra gli applausi del popolo, che dal basso vedeva il vessillo nazionale sventolare per la prima volta sul caro, sull'adorato _Dom de Milan_. Questa la poesia della rivoluzione! Accanto alla poesia, però, nello stesso tempo la prosa robusta e vigorosa dei fatti. È in quello stesso giorno che la Congregazione Municipale si trasformava in _Governo provvisorio_, con patriottico pudore però rinunziando alla parola audace e forse ancora troppo superba, e dicendo solo in un suo proclama «_che viste le circostante assumeva in via interinale la direzione di ogni potere allo scopo della pubblica sicurezza_.» Ai membri ordinarii della Congregazione, oltre il conte Gabrio Casati podestà e gli assessori Antonio Beretta e conte Cesare Giulini, si aggiunsero Vitaliano Borromeo, Franco Borgia, Alessandro Porro, Teodoro Lecchi, Giuseppe Durini, Anselmo Guerrieri, Enrico Guicciardi e Gaetano Strigelli. E il Governo provvisorio nominava un Comitato di guerra, poi uno di difesa, uno di pubblica sicurezza, uno di finanza, uno di sanità e per ultimo uno di sussistenza. Troppo governo, direte voi: ma chi potrà accusare di troppa voluttà di comando chi ha sempre ubbidito; ubbidito a forza e a tiranni odiosi? Chi potrà accusare di intemperanza un affamato, che a un tratto siede ad una mensa lautamente imbandita? L'ebbrezza non è soltanto nel fondo delle bottiglie, ma in ogni battaglia vinta, sia poi d'amore, di gloria o di libertà. E in quei giorni noi tutti, anch'io quasi fanciullo, eravamo ebbri d'indipendenza e di lotta. * * * Il 20 di marzo un maggiore croato si presentava come parlamentare in casa Taverna, portando una proposta del maresciallo Radetzki, quella di sospendere per tre giorni le ostilità. Eran presenti a riceverlo i membri del Governo provvisorio, quelli del Comitato di guerra e quelli del Comitato di difesa: in tutto 14 o 15 cittadini. La proposta fu respinta, e fucili e cannoni continuarono la loro crudele missione. Fra le molte scaramuccie, fra i molti assalti, che avvennero in quei cinque giorni, due assunsero aspetto di veri fatti di guerra, che meritano una pagina nella storia della strategia e della tattica: voglio dire la presa del Genio e quella di Porta Tosa. Il Genio, che era allora dove è oggi la monumentale fortezza della Cassa di Risparmio, era il cuore della difesa degli Austriaci. Dal Castello e dalle porte partivano i fulmini, ma dal Genio emanavano le correnti che li sprigionavano. Là era il cervello, là il denaro, là le carte del governo. E da ogni finestra i migliori tiratori tirolesi facevano piovere palle di piombo sui cittadini armati, che volevano entrarvi e si andavano avvicinando di barricata in barricata, di tetto in tetto. E seminando di morti e di feriti le vie e innondando di sangue i ciottoli e i marciapiedi, si andava innanzi; la porta che resisteva, forte per natura e barricata per di dentro, fu schiantata da due cannoncini di legno cerchiati di ferro, che furono improvvisati dai Milanesi, fatti inventori di una nuovissima artiglieria. Io li ho veduti quei cannoncini, anneriti, feriti anch'essi, che parevano giocattoli da bimbi, ma che pure avevano vinto il Genio austriaco. Augusto Anfossi, l'anima e il cuore delle cinque giornate, l'eroe primo di quella battaglia tanto disuguale, lasciava la vita in quel'assalto. Dove si fece il maggior fuoco fu però a Porta Tosa, dove gli Austriaci con cannoni e battaglioni ben armati, difendevano una delle più forti posizioni, fulminando la città. Il Corso che conduceva alla porta era troppo largo, perchè vi si potessero piantare barricate forti e solide, che potessero difendere gli assalitori e resistere alle artiglierie. I Milanesi pensarono di fare delle barricate mobili e le ho viste anch'io e le ammirai come un'altra improvvisazione della strategia rivoluzionaria. Eran fatte di grosse fascine legate in forma cilindrica, lunghe due o tre metri e grosse un metro che si facevano rotolare a forza di spalle, e i nostri tiratori dietro ad esse ben difesi poterono sloggiare gli Austriaci e prender la Porta, che a buon diritto fu battezzata da quel giorno col nome di Porta Vittoria. Mi par di vederle ancora quelle barricate mobili, che frantumate dalle palle nemiche lasciavano escire da cento ferite le loro viscere lacerate. Ma accanto a quel ricordo, che potrei tradurre in un quadro, se fossi pittore, ce n'è ancora un altro, quello delle acque, che corrono in quei dintorni e che vidi rosse, come se fossero state tinte col carminio. E mi parve a quel tragico colore, che in quell'onda quasi ferma vi dovesse esser più sangue che acqua. Di quel sangue però nessuna goccia era mia.... e leggendo oggi il mio vecchio giornale di ora è mezzo secolo, vi leggo con stile infantile queste parole: _Io invidio i miei fratelli, che hanno combattuto per la patria e hanno posto il nome dei Milanesi fra gli eroi i più generosi e robusti...._ Se non sono stato fra i combattenti, fui però di sentinella alle barricate, e anche di notte e con nessun altr'arme che una gran scimitarra turca, che avevo chiesto a mio padre. Come ero fiero di passeggiare in su e in giù davanti alle barricate, colla mia scimitarra appoggiata alla spalle e gridando il _Chi va là?_ ai passeggeri, ai quali chiedevo la parola d'ordine. Mi pareva d'essere la sentinella perduta di un vero accampamento di guerra.... Con quella scimitarra e naturalmente colla mia coccarda tricolore, andavo a far le provviste di cucina colla serva, quasi a difenderla, e in quei giorni non era davvero facile il percorrere anche un piccolo tratto di cammino, essendo quasi ogni via interrotta dalle barricate, che furono calcolate a circa 2000. La nostra serva si credeva difesa da quel giovane guerriero e da quella scimitarra turca! Povera difesa! — Io ero così gracile, così sottile in quell'epoca, che un croato, incontrandomi, mi avrebbe con un pugno gettato a terra e disarmato. Da sentinella di barricate passai dopo le cinque giornate a guardia nazionale, e ricordo le notti passate sul tavolaccio nel Palazzo Trivulzio e nel Palazzo Marino. Allora, però, invece della gran sciabola avevo un fucile. Un mattino alle 5 dovetti con altri militi della guardia civica condurre al Castello cinque soldati austriaci nostri prigionieri, e lì ebbi la gioia di vedere la prima cavalleria piemontese che partiva per il campo. Ricordo ancora che un altro giorno tutti i Civici di Sant'Alessandro furono riuniti sulla piazza dello stesso nome, e di là ci avviammo al Broletto, al suono allegro del tamburo e seguendo la grande bandiera tricolore, che si amava come una fanciulla, come una mamma; come la poesia incarnata della patria. Giunti al gran cortile del Broletto ci schierammo per eleggere i nostri capi e per acclamazione si nominò nostro capitano il marchese Trivulzi, che era però a letto con una palla in una coscia. Con lui furono eletti i tenenti e poi si ritornò al palazzo Trivulzi, dove sotto le sue finestre si gridarono evviva fragorosi al nostro Duce. La signora marchesa, commossa, scese a salutarci, e ci promise che ella stessa ci avrebbe ricamata una bandiera. Se mi lasciassi andare alla voluttà dei lontani ricordi, non la finirei più. Lasciatemi solo richiamarne uno di poca importanza, ma che vi mostrerà in qual'aria di idealismo generoso si respirasse a Milano in quei giorni. Mentre si trattava l'armistizio proposto dal Radetzki, io escii col mio solito sciabolone e mi avviai verso il teatro della Scala. Tacevano le campane, che erano il tormento indicibile dell'esercito austriaco, tacevano le fucilate, tacevano i cannoni. Giunto nella via di Santa Margherita, dove era l'Ufficio della Polizia e che era tutta barricata, vidi che le finestre erano occupate da cittadini, che gettavan giù a cento a cento cartoni pieni di carte, fascicoli, libri, tutta la triste biblioteca di quella casa, che era in una volta sola covo di spie, fucina di tirannide e carcere di tante vittime. Quel pandemonio era stato abbandonato dai tiranni, ed ora era in mano delle vittime, che prendevano la loro vendetta sulle carte. Io raccolsi parecchi fogli timbrati dall'aquila grifagna, e mentre li stava per leggere, un colpo di mitraglia venne a colpire una barricata assai vicina a quella in cui mi trovavo, facendo un rumore strano, come di cento latte che fossero lacerate in una volta sola. Tutti i presenti si addossarono al muro, ed io visto che il colpo non si ripeteva più, corsi in mezzo alla via e raccolsi due o tre pallottole di ferro, ancora fumanti. Facevan parte di quella rozza mitraglia d'allora ed eran piene di chiodi e perfino di pezzi infranti di ferri di cavallo. A quel tiro, però, tennero dietro dopo un piccolo silenzio altri tiri, ed essi ci dicevano ad alta voce che l'armistizio era stato respinto e che la lotta ripigliava il suo andare. Portai a casa i miei fogli e li diedi a vedere alla mamma, colla quale stava per leggerli con viva curiosità. Ma la mamma mi disse, impallidendo e inorridita: _Sono rapporti segreti di spie italiane.... ahimè! e sono firmati. Non voglio leggere quei nomi.... bruciamo questi fogli, subito subito._ E quei fogli furon bruciati con mio grande dolore, non per la curiosità delusa delle firme infami; ma perchè in me nasceva già il futuro psicologo, che doveva finire sulla cattedra d'antropologia di Firenze. Quei fogli eran per me documenti umani, che oggi figurerebbero nel mio Museo psicologico. Li ho rammentati, perchè il sentimento generoso che aveva ispirato mia madre a distruggerli, era in quei giorni l'ambiente in cui si viveva, era l'aria che si respirava noi tutti. Se entrava un cittadino armato in un caffè, chiedendo un rinfresco, quando stava per pagarlo, gli si rispondeva con un gesto di grande meraviglia: _Ma ghe par?_ oppure _O giust!_ I feriti eran raccolti subito e alloggiati dove cadevano. In tutte le case signore e signorine vegliavano le notti, fabbricando filaccia o cucendo bandiere tricolori e ho veduto strappare pezzuole di tela battista d'immenso valore, quando per far filaccie si era dato fondo a tutti i cenci vecchi della casa. Uno dei nostri tiranni poliziotti più odiato era il Bolza. Sapendosi aborrito, nelle cinque giornate si era nascosto in un fienile, ma fu scoperto e preso. A furia di popolo, più trascinato che condotto, fu portato non so a qual Comitato davanti a Carlo Cattaneo, chiedendogli che genere di supplizio doveva essere inflitto a quel boia. Il Bolza era già più morto che vivo, più pallido di un cadavere e coperto di fieno, che lo rendeva grottescamente orrendo. Il Cattaneo sereno e tranquillo rispose: _Se lo uccideste, fareste cosa giusta, ma se lo lasciate in libertà, farete cosa santa e degna di un popolo vittorioso, e che aspira alla libertà._ E il Bolza fu lasciato libero. Quarantottate, diranno alcuni, ma a questa bestemmia ritornerò fra poco. I popoli vivono tutti in un dato clima fisico, che è l'aria per i polmoni e che respiran tutti, ricchi e poveri, contadini nel campo, operai nelle vie, principi nei palazzi. È un clima che li avvicina e li affratella. Ma vi è un clima più efficace, più tirannico, e che è, per il cervello e per il cuore, ciò che è l'aria per il polmone. È l'ambiente morale, che diffonde la sua influenza sottile, penetrante, irresistibile in ogni vena della vita pubblica; che fa battere ogni polso di uomo che pensa e sente. Nessuno può sfuggirvi, nessuno resistervi. Quell'ambiente ora è salubre ed ora è mefitico, ora è inebriante ed ora è deprimente ed è fatto dai sentimenti umani che fanno palpitare il cuore di una nazione. Se l'orgoglio nazionale è alto, e legittimamente alto, quell'ambiente vuol dire gioia, entusiasmo, carità, idealismo. Se l'orgoglio è depresso, quell'ambiente vuol dire tristezza, sentimento, scetticismo, fors'anche cinismo. Se quell'ambiente è fatto di gloria e di ricchezza vuol dire salute morale, energia, generosità, eroismo. Se invece è fatto di paure e di pentimenti, vuol dire affarismo, viltà collettive, vuol dire marasmo delle anime. In quei cinque giorni Milano respirava bene, respirava a pieni polmoni l'aria della vittoria e della libertà ed era perciò nobile, generosa, idealista. * * * E dacchè vi ho intrattenuto sempre del 48, permettetemi che nel chiudere la mia conferenza getti un grido di sdegno contro la brutta parola di _quarantottate_, che pur si ripete più di una volta, e soprattutto dai giovani serii, che non hanno potuto battersi e dai vecchi serissimi, che non si son battuti mai. Per questi signori, _quarantottata_ vuol dire una dimostrazione un po' chiassosa, un entusiasmo collettivo espresso forse con uno scampanio troppo rumoroso; è insomma ogni espressione patriottica, che si presenti sotto forma troppo arcadica o troppo ingenua. Si cancelli dalla lingua parlata, dal frasario politico questa parola, che è una barbarie. Bestemmia contro tutto ciò che nell'uomo si ha di divino; cioè l'idealità, l'eroismo, l'amor di patria. Il 48 fu un sogno, un'illusione, un disinganno. Si credette che il cuore bastasse senza il cervello. Lo credettero i milanesi, lo credette anche Carlo Alberto, quando affrontò l'armata austriaca col piccolo esercito del piccolo Piemonte. Ma sogni, ma illusioni, ma disinganni che ci portarono al 59, al 66, al 70; e il quarantotto con le sue quarantottate fu un delirio di amor di patria, fu un trasporto che lasciò il cielo pieno di luce, e che fecondò la terra nostra col sangue dei primi martiri. Anche i vecchi deridono le follie della giovinezza, ma più spesso che per saviezza, per invidia di non esserne più capaci. E quando ascolto i giovani, che nel 48 non erano ancor nati, deridere le quarantottate, esclamo: «Ecco dei giovani vecchi, che deridono dei vecchi giovani!» Le barricate, spero, non si innalzeranno più in Italia e forse anche non avremo più bisogno di rivoluzioni; ma ai giovani che bestemmiano, pronunziando in tuono di scherno, la parola di _quarantottate_, io che li amo, auguro loro che nella lor vita provino anch'essi la suprema voluttà degli entusiasmi patriottici, delle idealità sovrumane, ci vengano poi dal cielo o dalla terra. Il divino nell'umano è l'entusiasmo, e chi muore senza averlo goduto, non ha vissuto mai! VENEZIA NEL 1848-49 CONFERENZA DI POMPEO MOLMENTI _Signore e Signori,_ Nell'ampia sala magnifica del Palazzo dei Dogi — forse la più bella del mondo — convenivano taciti, avviliti, confusi i veneti patrizî. Era il 12 maggio 1797. Gravi pericoli minacciavano l'esistenza della vecchia Repubblica. Alle offese del Bonaparte l'imbelle doge Lodovico Manin rispondeva con vile rassegnazione, e i patrizi degeneri, convocati a consiglio, con non minore codardia decretarono la fine della repubblica e l'abolizione dell'ordine aristocratico. Poi uscirono tutti a precipizio. Erano cinquecento e trentasette; paurosi i più, alcuni illusi della nuova libertà, parecchi traditori, pochi fieri, risoluti, sdegnosi. Venti soli votarono contro il sacrifizio della patria, cinque si astennero. Così finiva la città dei Dandolo, dei Pisani, dei Veniero, dei Morosini! Un solo giorno faceva dimenticare tutta la sua forza, tutta la sua maestà, tutta la sua grandezza! Il 17 ottobre 1797, il Bonaparte, con l'infame mercato di Campoformio, vendeva Venezia agli austriaci. E allorchè il giorno moriva e i rintocchi delle campane si spandevano sull'ampia laguna, e le acque erano solcate da splendori fosforescenti, sotto il Palazzo pieno di misteri, dinanzi alle pietre fatte brune dai secoli, fra il popolo muto ed oppresso, un uomo con l'anima in delirio e i nervi agitati, esciva in una imprecazione che, in quell'avvilimento, risuonò alta e fiera protesta, e fu seme di riscossa nelle età future. «L'Italia è terra prostituita» esclamava Ugo Foscolo «premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti e non piangere d'ira?» Così, con questo alto lamento angoscioso, finisce l'un secolo e comincia l'altro. Nei misteriosi palazzi s'aprono le porte, si spalancano le finestre, vi entra una improvvisa folata di vento, un turbine impetuoso. Fuggono spaventate le belle donnine tutte frange, fronzoli e cernecchi, i cavalierini dall'anima di stoppa e dallo spadino inoffensivo; e un silenzio come di morte piomba nelle stanze fiorite di stucchi e d'oro, discrete confidenti di colloqui amorosi, dove sorridevano tutte le eleganze e tutte le letizie della festosa arte del veneto tramonto. Ed oggi, quando i ricordi del passato si ridestano in quelle vecchie dimore, in cui i dipinti e le stoffe si stingono in un color d'ombra diffuso, e tutto ha un dolcissimo profumo di vecchio, e ad ogni oggetto si accompagna una leggenda amorosa; oggi, quando nella penombra di quelle stanze sembra di veder salire e vanire entro cirri di nubi profili femminili, figure eleganti di cavalieri, fantasmi voluttuosi, ci si domanda in qual modo quei Florindi e quelle Rosaure, tutti _ben mio_, _vita mia_, _vissare mia_, poterono, dopo appena cinquant'anni, trasformarsi negli ardimentosi difensori di Venezia. Come mai il doge Manin, che mentre crollava la longeva repubblica lamentavasi di non poter esser sicuro nemmen nel suo letto, potè, dopo mezzo secolo, trovare il più magnanimo contrapposto in un altro Manin (la storia ha di questi strani riscontri anche di nomi), il quale, benchè plebeo, seppe vendicare l'antica macchia inflitta al nome patrizio? E per che modo l'anima gracile della città dai morbidi amori, dopo una lunga e molle inerzia si destò con tanta possanza? E che cosa ha veramente prodotto la immensa esplosione del '48? Vediamo. * * * La città dominatrice, che avea avuto tutte le grandezze, dovea provare tutte le miserie. Quando, dopo essere stati cacciati dai francesi nel 1806, gli austriaci entrarono nel 1814 per la seconda volta a Venezia, il podestà Gradenigo — un discendente di quel Doge che avea ordinato e rafforzato il dominio dell'aristocrazia — andava a prosternarsi a Vienna dinnanzi all'Imperatore, mentre un arciduca austriaco sulla piazza di San Marco gettava manciate di denaro al popolo plaudente. Venezia perdeva a brani il suo manto di regina. Le gondole parevano bare galleggianti, gli uomini attraversanti gli alti ponti ombre del passato — i monumenti rovinavano, e più di dugento palazzi venivano demoliti per non pagare le imposte e per vendere i materiali. Nei cittadini era fiacco lo spirito, nullo il pensiero. Il governo straniero, senza moderazione e senza giustizia — i balzelli eccessivi — il commercio inaridito e sacrificato alle altre parti dell'Impero, specie a Trieste — le spie e gli sbirri, _véritables forçats_ — secondo la energica frase di Anatole de la Forge — _auxquels l'Autriche donnait Venise pour bague_ — la mancanza infine d'ogni libertà politica e civile non valevano a ridestare gli spiriti, immersi come in uno stupor doloroso. Perfino la religione legittimava la tirannide e faceva sacro il dispotismo. Ah! se dagli abissi del passato, le anime delle antiche generazioni avessero potuto riveder quei luoghi consacrati dalle loro rimembranze! Se le anime dei dogi, dei senatori, dei guerrieri avessero potuto rivisitare la loro città, ravvolta come in un funebre sudario, e vedere invaso da una volgar turba d'impiegati tedeschi il palazzo dogale, dove gli acuti e gravi magistrati erano stati custodi vigilanti delle libertà più antiche del mondo e sulle antenne della Piazza la bandiera gialla e nera in luogo del temuto vessillo, che s'era inalzato sulle torri imperiali di Bisanzio e s'era agitato ai venti della vittoria sulle acque di Lepanto; se quelle inclite anime avessero potuto veder tutto ciò, tra i gemiti di un immenso dolore si sarebbe udito risuonar per l'aere la lamentazione dell'antico profeta: _Quomodo sedet sola civitas plena populo: facta est quasi vidua domina gentium?_ Senza palpito e senza respiro veramente sembrava la Gerusalemme dell'Adriatico. * * * Dopo la rivoluzione e dopo il fulmineo cruento passaggio di Napoleone, parve fatale e necessaria la reazione politica, che col trattato del 1815 e con la Santa Alleanza, stese un'ombra mortifera su tutta l'Europa. Ma non poteva durar lungamente; e già dopo alcuni anni in Francia, in Ispagna, nel Portogallo i legittimisti erano vinti; la Grecia e il Belgio si rivendicavano a libertà, e contro la Santa Alleanza si stringeva la lega occidentale tra l'Inghilterra, la Francia, la Spagna e il Portogallo. Anche in Italia il germe vitale non era spento. La coscienza patriottica si andava lentamente formando, e sorde indignazioni covavano in alcune anime generose, alle quali fu corona di grandezza il martirio. Il 24 dicembre 1821 sulla piazza di San Marco, dal poggiuolo del palazzo dei Dogi, veniva letta una terribile sentenza ad alcuni imputati di Carboneria, che stavano sovra un palco d'infamia, esposti alla curiosità di una folla ammutolita. Fra gli altri veniva commutata la pena di morte in venti anni di duro carcere nello Spielberg a Villa, Bacchiega, Fortini, Oroboni, Munari e Foresti — sante figure di martiri, che vediamo passare per mezzo alle pagine di quel libro, in cui il dolore ha accenti di semplicità sublime, le _Prigioni_ del Pellico. Dopo il processo dei Carbonari, s'addensò più cupa la maledetta tenebra della tirannide, e sembrò che Venezia di quella silente e paurosa servitù non sentisse vergogna. I re che ha sul collo son quei che mertò, si sarebbe potuto dir col poeta. I veneziani rassegnati o gaudenti senza odio verso il dispotismo, senza amore per la libertà, traevano i giorni inutili e oziosi nei caffè, tra le chiacchiere, nei teatri. Venezia era divenuta la città della musica e della danza. Bellini e Verdi, la Ungher e la Grisi, la Essler e la Taglioni occupavano gli animi di quella gente immemore, assidua consigliatrice di tranquillo vivere. Silvio Pellico, che a questo tempo si trovava a Venezia, scriveva: «Qui mi annoio. I veneziani sono troppo chiacchierini; la loro vita di piazza e di caffè è molto scioperata; non pensano, non sentono. Io erro le intere giornate nelle gallerie di quadri, nelle chiese, nei palazzi crollanti, dappertutto mi colpisce lo spettacolo della passata forza e ricchezza veneziana e della presente miseria. Come mai non vedo in ciascun volto il dignitoso sentimento del dolore? Ad ogni sghignazzare pantalonesco io fremo.» La sventura incodardisce le anime deboli. Con onorificenze e pensioni erano ricompensate le servili umiliazioni al monarca austriaco: e le famiglie patrizie decadute — servitù decorata! — strisciando inchini pitoccavano sussidî. Movimento di pensieri e di studî, andava, è vero, timidamente manifestandosi, ma fuori della vita reale. Il Carrer, il Betteloni, il Capparozzo, il Cabianca erano gentili poeti. Il Romanin, il Cappelletti, il Cicogna ricercavano e studiavano i vecchi documenti — ritorno non del tutto infruttuoso alla civile sapienza repubblicana. Non erano spenti il brio grazioso e la vivacità acuta, che aveano dato gli ultimi guizzi nelle conversazioni di Giustina Renier Michiel morta nel '32 e di Isabella Teotochi Albrizzi morta nel '36. E a quando a quando scoppiava la poesia di Pietro Buratti caustica, personale, locale, in cui abbondava la ciarla maligna dei vecchi poeti giocosi, non mai il fremito cocente della satira politica. La coscienza era vuota d'ogni alto volere, d'ogni intento patriottico, e anche la letteratura, sbiadita e muliebre letteratura da strenne, s'abbandonava a un tenerume, cui davasi il nome di sentimentalità. La poesia o era lagrimosa ed elegiaca, nuova Arcadia al lume di luna con le castellane e i menestrelli, in luogo delle dee e dei numi dell'olimpo, o finiva nelle canzonette per chitarra, nelle strofette fluenti di quel dialetto molle e carezzevole, che la Signora di Staēl si meravigliava fosse parlato da coloro che resistettero alla lega di Cambray. E nel sereno armonioso delle notti veneziane, dalla gondola solinga, s'alzava il canto del Lamberti: La biondina in gondoleta L'altra sera go menà, Dal piacer la povareta, La s'a in bota indormenzà. La dormiva su sto brazzo, Mi ogni tanto la svegiava, Ma la barca che ninava, La tornava a indormenzar. Nell'umido alito profumato della muta laguna l'amore persuadeva le anime effemminate ai morbidi sonni. A un tratto un grido di rivolta rompe il letargo dei giacenti. Nel '44 tre ufficiali veneziani della marina austriaca, i fratelli Bandiera e Domenico Moro, disertavano, e il loro eroico disegno d'insurrezione era spento, nel vallon di Rovito, dal piombo borbonico, che troncava su quelle giovani labbra il grido: Viva l'Italia! Dopo tre anni, il pontificato di Pio IX annunziava la giustizia e la pace. La religione benediceva alla patria, gravata sotto la pressura straniera, e Cristo ridiveniva la speranza degli oppressi. Dovunque aspettazioni inquiete, palpiti indefiniti, indistinti presagi, un desiderio insomma di rivivere. Le questioni economiche e giuridiche, le discussioni scientifiche, le nuove vie ferrate, le riforme edilizie davano modo ai patriotti di avvicinarsi, d'intendersi, di concitare l'animo ad un solo, altissimo intento: rialzare le energie e ritemprare i caratteri, aspettando che gli eventi sorgessero propizi. Anche le lettere e le arti, ravvivate dalle fiamme del Mazzini, del Berchet, del Guerrazzi, incominciavano, ad acuire la spada, che doveva affrancare la patria. Quando, il 13 settembre del '47 s'apriva a Venezia il Congresso dei dotti, il nome del novello Pontefice era salutato con un fremito di gratitudine e di speranza, con clamori d'entusiasmo. Nell'ora novissima Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, che ad incarnare il pensiero patrio tentavano tutte le vie e tutte le forme, con gli scritti e con la parola arditamente chiedevano agli oppressori il risarcimento del diritto troppe volte violato. I due generosi cittadini, rammentando all'Austria le non mai adempite promesse, erano affratellati da un solo ardentissimo affetto, uniti in uno stesso pensiero. Eppure quanta diversità d'indole fra essi! Daniele Manin, austero di coscienza come di vita, animo incapace d'odi, ma sensibilissimo agli affetti, aveva mente lucida e comprensiva. Conoscitore profondo degli uomini e delle cose, energico e prudente, riflessivo ed entusiasta, umano e giusto, le più disparate doti trovavano in lui un mirabile contemperamento. Il Tommaseo se imponeva come il Manin il rispetto, non si conciliava come l'amico suo la simpatia. C'era del crudo e dell'eccessivo in quella sua ispida modestia, in quella sua ritrosia diffidente e scontrosa. Egli stesso si dichiarava non d'altro ambizioso che di solitudine, cupido che di povertà, superbo che di voler nulla potere. Ma in entrambi uguali la probità, la lealtà, il disinteresse, il sacrifizio di sè stessi alla patria. Crescevano insieme con le ire degli oppressi, le vendette del dispotismo. Il Manin e il Tommaseo furono tratti in carcere; ma la ingiusta prigionia, inaspriva non domava il popolo, nelle cui vene fluiva nuovo sangue. I fati eran pieni, e la rampogna dei forti era finalmente udita dall'orecchio dei neghittosi. Gli uomini insensibili e inerti si mutavano a un tratto in una gente fervida, animosa, concorde. Uomini donne, vecchi e fanciulli s'infervoravano nell'odio alla mala signoria. Non c'era più casa in cui si ricevessero austriaci; molte signore vestivano a lutto, gli uomini portavano cappelli alla Ernani come segno di riconoscimento, e si astenevano dal fumare per non pagare allo straniero una tassa involontaria, mentre la umile musa popolare cantava scriveva su pei canti: Chi fuma per la via Xe un tedesco o xe una spia. La rivoluzione era nell'aria e si sentiva nei nervi; si leggeva in tutti i volti l'odio allo straniero. Dalle vicine città giungevano notizie di risse sanguinose tra cittadini e soldati. Per quietare a suo modo le agitazioni, l'i. e r. governo annunziava ai sudditi che Sua Maestà s'era degnata (la parola è testuale) di mettere le province italiane sotto l'imperio della spada. Ma gli avvenimenti doveano svolgersi nella loro solenne pienezza. La Francia s'ordina a forma democratica; sulle vie di Berlino sorgono le barricate; a Vienna dirompe l'ira popolare e vince; e alcuni principi, o per amore o per paura, temperano gli ordini dello stato. In particolar modo la sommossa di Vienna cresce baldanza alle dimostrazioni patriottiche e a determinare i propositi più risoluti. Il popolo veneziano che vuol rivendicare patria, esistenza, libertà, come una larga onda furiosa corre alle carceri, ne rompe le sbarre, libera il Manin e il Tommaseo e li porta in trionfo. Sulle antenne della Piazza s'inalza la bandiera dei tre colori, e come a promessa di vita novella tutti le si stringono intorno; i nobili quasi sentissero più solenne l'orgoglio della gloria vetusta, il ceto mezzano che alla patria dava affidamento di un felice presente e segnava le vie per l'avvenire, il popolo che obliava gli antichi e i recenti servaggi brandendo le armi nel nome della libertà. E i raggi del sole, riflettendosi sulle ampie vetrate di San Marco, si spargevano intorno come un'aureola gloriosa; e il palazzo dogale pareva irradiarsi di quella luce, che dovea risplendere un istante sulla meravigliosa epifania italiana. Donde venne, mi ridomando, a quel fiacco popolo veneziano l'audacia della ribellione? Chi avrebbe potuto sospettare che nel silenzio della laguna si celasse tanta gagliardia? Gli è, signori, che nelle rivoluzioni del popolo come nelle manifestazioni del genio, vi sono forme ed aspetti diversi. Come v'è la mente che svolge ciò che altri prepararono e v'è il genio che appare solitario e improvviso, così v'è la insurrezione apparecchiata con ordinamento preconcetto e voluto, e v'è la ribellione repentina e impulsiva, che nulla continua, che rifà tutto. Sono queste, di solito, le rivoluzioni dei popoli miti, tanto più terribili quanto più lunga e pecorile fu la pazienza; come più tremenda scoppia a un dato momento la collera nelle indoli tranquille, riposate, serene, che nelle nature per abito risentite, violenti, subitanee. Sono queste le rivoluzioni che, anche se vinte e domate, preparano e maturano l'avvenire e rigenerano i popoli neghittosi, togliendoli a una torpida pace. Così il navigante fra le bonacce insidiose dell'Oceano invoca qualche volta la bufera che potrà sospingerlo ad un porto. La palude morta avea infuso nelle vene di Venezia la febbre violenta della libertà, e al popolo insorto i dominatori sgomenti non seppero rifiutare la istituzione della milizia cittadina. Era la fiamma antica che riaccendeva il popolo di Lepanto e di Candia? O il soffio del disinganno non avrebbe tardato a sterilire le vive speranze? A chi manifestava il dubbio che il popolo veneziano fosse incapace d'ogni nuova grandezza, il Manin rispondeva: — Voi no 'l conoscete: io lo conosco; è il mio solo merito: vedrete. — Ne s'ingannò. II Manin diede impulso e direzione al movimento disordinato dapprima, come in tutte le insurrezioni. Contrastare alle rivolte di popolo è temerario e vano, ma ad un'anima gagliarda spetta di solito provvedere, affinchè procedano ordinate ed utili e non sieno macchiate da delitti e da vergogne. Anche gl'inizi della veneta rivolta furono contaminati da un delitto, ma le passioni popolari trascorrenti agli eccessi, furono subito contenute e frenate da un uomo, che avea tutte le doti per reggere onestamente ed utilmente il potere. Il mattino del 22 marzo giunge a casa del Manin la notizia che gli operai dell'Arsenale avevano ucciso un colonnello ai servigi dell'Austria, detestato per l'acerbità dei modi e per la eccessiva durezza. L'energia del concepire era nel Manin vinta dalla speditezza dell'esecuzione. Nel politico lampeggiava l'eroe. S'alza egli impetuoso, e rivolto a suo figlio Giorgio quasi fanciullo: — Vieni con me all'Arsenale — gli dice. — A farvi ammazzare — ribatte inquieta la moglie. — Anche, se occorresse — risponde freddamente il Manin. E senza indugio corre all'Arsenale, seguito dalle guardie civiche; intima al contrammiraglio austriaco di rimettergli le chiavi, e al rifiuto, traendosi l'orologio di tasca, dice con energica calma: — Vi accordo sette minuti di tempo a consegnarmi quelle chiavi. — Il contrammiraglio cede, e l'Arsenale, potente arnese di guerra, dove si custodivano armi e munizioni in gran copia, e dove l'Austria avea tutto disposto e ordinato per bombardare la città, cade in potere del Manin. Mentre questo avvocato creatore di rivoluzioni usciva dall'Arsenale, e con la spada sguainata salutava il gran leone scolpito sulla porta, gridando _Viva San Marco_, i governatori austriaci cedevano i loro poteri al Municipio. Proclamata la Repubblica, il Manin fu eletto presidente. Il sogno superbo diveniva realtà, e dalle acque tranquille della laguna saliva la speranza, la visione, l'amore, il pensiero di poeti e di martiri, la nobile, la bella, la grande Italia. Le città venete erano poco dopo sgombrate dagli austriaci, che, protetti dal terribile quadrilatero, chiuso dalle fortezze di Verona, Mantova, Peschiera e Legnago, si ritirarono nella regione compresa tra l'Adige e il Mincio, ove rimessi dalle prime sorprese stettero aspettando l'esercito di Nugent, che adunavasi sull'Isonzo e si apprestava ad invadere il Veneto. Italiani d'ogni parte della sacra penisola correvano intanto alle lagune. Drappellando bandiere, vestiti teatralmente, con divise dai colori sfoggiati, con cappelli piumati ed elmi dalla lunga criniera, con molti uffiziali che il grado eransi conferito da sè, inebriati da sonore ed enfatiche parole e dai canti patriottici sciatti di forma, ma esuberanti di colorito, quei volontari, senza disciplina militare, novissimi al combattere, si mostravano pronti ad affrontare con slancio ardimentoso la morte. Di memorabili prove di valore parlano i campi di Montebello, di Sorio, di Solagna, i piani di Curtatone e Montanara, innaffiati dal più gentil sangue toscano, i colli di Vicenza, gli spalti di Treviso e di Osoppo, le Alpi cadorine, non meno valide a presidiare la patria delle giovani milizie guidate dal Calvi. Le armi levate a cacciar lo straniero si credeano veramente benedette da Dio. In quei mattutini crepuscoli della redenzione nazionale, l'amor della patria vampeggiante di purissimo fuoco s'accompagnava a quel sentimento che fa divina l'anima così nelle grandi esultanze come nei grandi dolori. Allora, in quell'Italia così diversa dall'Italia presente, le due grandi forze, religione e patria, andavano unite, le due grandi forze senza le quali è vano sperare che la patria nostra ascenda a' suoi alti destini per le vie della sua ideal perfezione. Allora, nella penombra dorata del bel San Marco, il popolo veneziano accorreva a ringraziare e a pregar Iddio, dal quale solo viene il supremo conforto della speranza. Il vecchio tempio repubblicano significava in que' dì qualche cosa più che un simbolo religioso: esso non rappresentava soltanto la fede, ma la patria, e non pure la patria, ma la dignità di uomini liberi. Un dì — il ricordo fiammeggiava a traverso l'ombra dei secoli morti — i guerrieri francesi crocesegnati s'erano raccolti sotto le navate della Basilica, _la plus belle que soit_, e Goffredo de Villehardouin, eroe e storico della santa impresa, implorando pietà per Gerusalemme, _faite esclave des Turcs_, chiedeva ai veneziani _de venger la honte de Jésus-Christ_. E i crociati si inginocchiarono, e da più di diecimila petti escì un grido di entusiasmo, e il doge Enrico Dandolo e i baroni francesi giurarono sulle loro spade di combattere per il trionfo della fede. Dopo sei secoli lo stesso commovente spettacolo si rinnovava nella Basilica d'oro. Aveano anch'essi, i volontari italiani destinati a combattere gl'infedeli della libertà nelle pianure del Friuli, la tunica segnata della croce vermiglia, s'erano anch'essi, i nuovi crociati, raccolti in San Marco per veder benedette dal Patriarca le loro armi e le loro bandiere, prima di lasciare Venezia. E ad essi, il Tommaseo, apostolo e poeta della rivoluzione, rivolgeva il saluto entusiastico: «Sia sereno il valor vostro e tranquillo come stromento degno della imperturbata giustizia di Dio.» Dio e la patria! E appaiono nella memoria sante figure di preti e di frati, ora angeli di carità presso i feriti e i morenti, ora incitanti alla pugna nel folto della mischia, ove più terribile minaccia la morte, sulle mura dei fortilizî lacere per gli assalti. Tutto in quella sacra primavera di libertà, risplende come tra un baglior di leggenda. Così circonfusa da una luce vermiglia, che sembrò annunziatrice del dì del trionfo, appare dapprima la figura di Carlo Alberto. Animo indeciso, che non trovava l'energia della risoluzione se non nel cimentare la vita al fuoco delle battaglie, coscienza squisita ma incompiuta, a lui si rivolgevano gl'italiani. L'amor della patria vinse le esitanze, e il carbonaro del '20, il reazionario del '21, raccolse gli sdegni e le speranze italiane. E un re, a la morte nel pallor del viso Sacro e nel cuore Trasse la spada.... Palpitarono i cuori allora che quella spada scintillò al libero sole d'Italia. Accorrevano in aiuto delle province venete e lombarde, Durando coi pontifici, Guglielmo Pepe coi napoletani. E quando quest'ultimo era richiamato da re Ferdinando, traditore e spergiuro, Pepe negò obbedienza a quel re fraudolento. Tragittò, senza dimora, il Po, e toccata la opposta sponda, mostrando l'altra ai pochi che con lui aveano serbata fede alla patria, sclamò sdegnoso: — Di qua l'onore, di là vergogna! — E corse a Venezia, ove ebbe il comando supremo dell'esercito. Pareva in sulle prime che sui campi di battaglia esultasse la vendetta italiana. I volontari toscani due volte presso Mantova respingevano le sortite nemiche: i piemontesi vincevano a Goito e a Pastrengo: Vicenza si difendeva e ributtava gli assalti eroicamente: i lombardi ricacciavano gli austriaci fino al Trentino. E molte delle province lombarde e venete univano i propri destini a quelli del Piemonte. Anche l'Assemblea di Venezia fu chiamata a decidere sulle sorti della metropoli. Il Manin, ripudiante da ogni aiuto di re, era fidente nelle sole forze del popolo. Non era ancora in lui chiaro il concetto unitario, che alla sua vigorosa mente balzò luminoso nella solitudine dell'esilio. Era soprattutto veneziano, con l'anima tutta assorta nel bel sogno glorioso della vecchia repubblica. Ma s'egli rifuggiva dall'omaggio cortigiano, non sentiva ira di settario. Si mostrò irresoluto, e fu la sola volta nel suo breve ma gagliardo governo. Ma come giudicare con i criteri dell'oggi le idee d'allora? Chi, anche fra le intuite idealità lontane, avrebbe mai potuto sognare un istante, che dopo pochi anni sarebbe incominciata l'età dei prodigi, e che un gran Re, bene innestato sull'arbore italico, raccolta la infranta corona a Novara, avrebbe fatto passare incolumi, a traverso la bufera della rivoluzione, le libere istituzioni; avrebbe fatto uscire il magnanimo concetto del Mazzini dai recessi delle congiure ai campi di battaglia, e con l'aiuto di un eroe popolare, la cui figura sembra rapita al poema d'Omero, di un uomo di Stato, che sembra modellato nella creta onde Tacito plasmò le sue figure immortali, avrebbe riunita la penisola tutta da un estremo all'altro sotto una sola bandiera? Non opponendosi all'unione col Piemonte, il Manin confessò di fare un sacrifizio. Si mise il partito dell'annessione e fu vinto con voto quasi universale. Il Manin rieletto ministro, rifiutò. Gli austriaci intanto ridivenuti padroni di quasi tutto il Veneto, s'erano accampati sui margini della laguna per costringere Venezia a darsi per fame. Pepe conduceva tratto tratto i suoi soldati al paragone delle armi con gente usa alla guerra. In tali combattimenti di lieve momento si addestravano le armi inesperte dei volontari, quando giungevano infauste notizie. Carlo Alberto, sconfitto a Custoza, abbandonava senza difesa Milano, dove il Radetzky, il 6 agosto, rientrava con 30,000 uomini. Dopo tre giorni si firmava l'armistizio Salasco, per cui l'esercito e l'armata sarda abbandonavano al nemico anche Venezia. Il popolo veneziano, guidato dal Sirtori e dal Mordini, scese allora tumultuante sulla piazza, al grido di _Abbasso il governo regio_, e ricorse al Manin, che parve ancora il genio custode della città. A reggere il paese fu eletto un triumvirato dittatoriale: preside il Manin, il colonnello Cavedalis per provvedere all'esercito, il contrammiraglio Oraziani alla marina. Il 27 ottobre 1848, con un impeto di prodezza eroica, le schiere guidate dal generale Pepe, rompevano dal lato di terraferma il cerchio di ferro serrato intorno alla sventurata città, e fugavano i nemici in quel fatto d'armi che s'intitola la Sortita di Mestre. In quella giornata Venezia aggiunse una solenne pagina di valore alla sua storia. A Mestre si fecero oltre 500 prigionieri, si lasciarono sul campo 200 austriaci, si conquistarono 6 cannoni. Dei nostri 119 tra morti e feriti, ma nessun prigioniero. Cadde ferito a morte Alessandro Poerio napoletano, poeta e soldato, una delle più nobili figure del risorgimento italiano. Gli amputarono una gamba e fu trasportato a Venezia a continuare la sua angosciosa agonia. Prima di spirare la grande anima, rivolto a coloro che il circondavano: — Fine al pianto: celebrate i miei funerali con una vittoria sugli austriaci — disse, e reclinato il capo si addormentò in quel sogno di gloria. La vittoria di Mestre fu veramente l'ultimo sogno di gloria per Venezia. Intorno alla infelice città si strinse più fiera la cintura di ferro e di fuoco. Incominciava la penuria dei viveri: dileguava ogni speranza d'aiuto. Dalla Francia vaghe promesse: dall'Inghilterra consigli di desistere. Nel febbraio del '49 prendeva la direzione del blocco il maresciallo Haynau, ferocissimo, che rinnovava a Venezia la leggendaria apostrofe di Attila. Il Manin in quei terribili giorni provvedeva a tutto con la prudenza non mai scompagnata dall'energia, operava ratto e molteplice. Pensava alla difesa, tutelava l'ordine interno; con lettere piene di senno politico sollecitava l'aiuto delle nazioni amiche, e con la calda parola, col coraggio personale, con la mite franchezza imperava sulle intemperanze, sulle gelosie, sulle agitazioni. Quella rivoluzione, non fu soltanto agitamento febbrile di popolo, ma rivendicazione di sacri diritti, ordinata da uomini, che non soltanto sapeano scrivere e parlare, ma dirigere onestamente e virilmente le cose politiche. Così che se io considero i creatori e i reggitori severi di sì forte governo, mi si presenta allo spirito la significazione che r antichità diede alla statua scolpita in Argo di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice della patria. La quale statua, a dimostrare che valgono più le cose delle parole, rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo con compiacenza; e a' piedi alcuni volumi quasi negletti da lei, come piccola parte della sua gloria.[1] Quando il Piemonte rompeva di nuovo la guerra all'Austria, rifiorirono ancora le speranze, presto troncate dalla sconfitta di Novara, che parve il presagio della ruina di Venezia. Il 2 aprile 1849, la veneta assemblea si riuniva nella sala del Maggior Consiglio. Le figure colossali dei vecchi dogi e dei guerrieri della Repubblica, dipinte sulle pareti, parevano pronte a trar la spada per difenderla ancora. I rappresentanti del popolo, sparsi a crocchi per la sala, parlavano a voce concitata, sommessa, quando entrava Daniele Manin. Ei procedeva non baldanzoso, ma sicuro; grave ma pacato. Un ardore melanconico brillava negli occhi suoi fissi. La sua voce avea strane virtù, che comunicavano alla sua eloquenza una commozione profonda. Dopo aver detto della disfatta e dell'abdicazione di Carlo Alberto, parlò così: — L'Assemblea vuol resistere al nemico? — Tutti acclamando s'alzarono in piedi. — Ad ogni costo? — Sì, ad ogni costo. — Badate, io vi imporrò sacrifizi immensi — replicava il Manin. — Li faremo — gridarono tutti. Dopo ciò si votava la seguente parte: «L'Assemblea dei rappresentanti dello stato di Venezia, in nome di Dio e del Popolo, unanimemente decreta: Venezia resisterà all'austriaco ad ogni costo.» L'onta di mezzo secolo prima, con cui un altro Manin aveva macchiata Venezia, era veramente cancellata. Splendeva anco una volta glorioso il retaggio de' secoli, e dagli antichi dipinti della sala del Maggior Consiglio l'immensa moltitudine di valorosi pareva rispondesse orgogliosa ai nuovi accenti d'inclito ardimento. Anche il popolo parve inebriato d'epico orgoglio. I ricchi portarono sull'altare della misera patria il loro oro: il popolo il suo obolo: le donne i loro gioielli. Frattanto volendo gli austriaci porre fine alla impresa, riassunsero più gagliardamente le offese, e la squadra imperiale si portò nelle acque di Venezia, chiudendo le vie del mare, mal protette dalla debole e disordinata marineria veneta. Dalla parte di terra si raccoglievano 30,000 uomini, che fecero piombare la terribile grandine del ferro e del fuoco sul fortilizio di Marghera, sentinella avanzata nella solitudine delle acque. Venezia non era però preda esposta nè facile, e non le mancavano e petti e braccia e ostinata virtù di resistere. Pochi soldati d'ogni parte d'Italia, forti di una costanza che avrebbe stupito in uomini per lunga disciplina esercitati nelle fatiche militari, comandati da prodi ufficiali, quali Ulloa, Cosenz, Mezzacapo, Sirtori, Rossaroll, Galateo, difesero Marghera per ventinove giorni continui di trincea aperta, fino a che il più valido propugnacolo di Venezia, ridotto ad un mucchio di rovine, grondanti sangue, fu dovuto sgombrare. La difesa feroce si ritirò sul ponte della strada ferrata, che unisce la città alla terraferma. Qui l'artiglieria continuò a fulminare di fronte con incredibile celerità il nemico. Mentre lo strenuissimo Cesare Rossaroll, l'Argante della laguna, puntava i suoi cannoni, fu colpito da una granata. Sorretto fra le braccia del generale Pepe, nella convulsione dell'agonia, con la voce semispenta incitava i suoi a combattere senza posa per l'onore d'Italia. Ma ogni dì più non l'anima, la speranza scemava. Dopo la defezione scellerata del re di Napoli, dopo gl'irresoluti consigli del Granduca e le riluttanze del Papa, dopo Novara, dopo il riacquisto di Milano e la mostruosa repressione, di Brescia, anche Roma cadeva, e sulla misera Italia si stendeano nuovamente le ombre del servaggio. Separata dal mondo, ultima e sacra cittadella della indipendenza italiana, resisteva ancora la città creduta la più mite, la più tranquilla, la più molle di tutta la penisola, la città degli amori e dei diletti. L'amor della patria compie di siffatti prodigi! Ma già a Venezia si faceva sentire acerba la penuria dei viveri, quando, il 29 luglio, cominciava furiosissimo il fuoco contro la città. Strisce di fuoco solcavano la notte serena: le palle fioccavano. Il bombardamento continuò senza tregua. Si dovettero estinguere quaranta incendi: luoghi sacri per religione di memorie e per miracoli d'arte furono offesi. Gli abitanti di alcuni quartieri dovettero cercar rifugio nelle contrade più lontane, verso San Marco. Fra tanto scompiglio non un mormorio d'impazienza, non un lamento, non una protesta iraconda, non una rissa, non un furto, non un delitto. Ma in tutti una temperanza, una bontà, una nobiltà di pensieri e di forme. Anzi, tra gli orrori della tragedia, scintillava alle volte l'arguto sorriso della commedia goldoniana. Fra cento scelgo un aneddoto. Una notte le bombe cadevano frequenti nella contrada di San Felice. Giovani vigorosi, vecchi infermi, donne semivestite, con bambini per la mano ed in collo, fuggivano senza litigare, senza piangere, senza darsi arie eroiche. Una donna attempata correva trafelante sotto un enorme carico di fagotti e di arredi. Una delle fuggiasche la apostrofò: — _Ohe! comare, saveu che sè un bel tomo a cambiar de casa a sta ora!_ — Per donne e sotto un pieno bombardamento (osservava uno dei gagliardi difensori di Venezia, il povero Fambri, che mi raccontò l'aneddoto) non c'è male davvero; però che fra tutte le specie di valore il coraggio allegro sia senza dubbio il più bello e il più utile. Il calore della stagione s'era fatto intensissimo e un terribile morbo, il cholèra, era penetrato a Venezia. Ma nessuno parlava di resa, in nessuno scemava il coraggio. E non era il coraggio del soldato, che muore tra le grida e l'esaltazione delle battaglie, tra l'ebbrezza della polvere e il fulgore degli acciari; ma il coraggio tranquillo, perseverante, paziente, di lunghi giorni, di lunghi mesi, il coraggio di un popolo che passava a traverso gli scoramenti silenziosi, le delusioni profonde, la fame, la pestilenza, senza ormai la più lontana speranza di aiuti, con la sicurezza di veder morire la patria e la libertà, con la certezza che la fiera perduranza renderebbe più crudele il nemico, più inumani i patti della resa, ma sorretto da un'idea alta, radiosa, divina, la salvezza dell'onore italiano. Quando la pietà comandava di por fine al sacrifizio del popolo, quando la resistenza più oltre protratta non avrebbe messo capo che a sperpero lacrimabile di sangue, Manin, convocata in piazza la guardia civica, con parole piene di pianto chiese se tutti avevano ancora fiducia in lui. Tutti risposero — Sì, sì. — Tutti piangevano. La esistenza di Venezia s'immedesimava ancora al palpito del cuore di Manin. Poi, con voce fioca, il Dittatore soggiunse: — Checchè arrivi, dite: quest'uomo si è ingannato; non dite mai: quest'uomo ci ha ingannati. — Tacque e sentì il mancar della vita del naufrago, vinto dall'onda procellosa. Ritiratosi in palazzo, proruppe in pianto disperato e cadde a terra svenuto.... La città era ridotta ai suoi termini estremi. In un sol giorno i casi di cholèra salirono a 402; cadevano in città circa mille proiettili al giorno, se si consideri che 23,000 ne caddero dal 29 luglio al 22 agosto. E Venezia, vuota di sangue e di denaro, avea fame. Quando più non eravi nutrimento per un giorno solo, il Manin cedè alla fortuna del nemico, e trasmise la podestà dittatoria al Municipio. S'è trovata fra le carte del Manin questa nota, che esprime nella sua brevità tutta la grande angoscia di quel momento: _Finito contemporaneamente viveri, polvere, denaro, speranze._ Venezia moriva nelle sue verdi acque. Il canto del poeta le suonava intorno: Venezia! l'ultima Ora è venuta; Illustre martire Tu sei perduta. Il morbo infuria, Il pan ci manca Sul ponte sventola Bandiera bianca. Il sole che tramontava tra vapori di fuoco nella laguna muta, infondeva nella bellezza di Venezia quella intensa melanconia, quella lacrimante soavità che hanno le cose moribonde. Il 24 agosto, il Municipio conchiuse con l'Austria la capitolazione. Duri patti ai vinti: sottomissione assoluta; occupazione immediata della città, degli edifici pubblici, delle armi, dei materiali; uscita di tutti gli ufficiali e di tutti i soldati: quaranta cittadini condannati all'esilio. Dopo tre giorni il Manin e il Tommaseo con gli altri proscritti lasciarono la città eroica che per diciassette mesi avea nella sua anima raccolta tutta la maestà dell'anima latina. * * * Signori! Sono passati giusto cinquant'anni da quel tragico giorno. Oggi con la santa curiosità del passato interroghiamo quei tempi, che ahimè! sembrano così lontani, quegli uomini ancora viventi o morti da ieri. Furono troppo idealisti gli uomini e non maturi i tempi e perciò inutili e folli i sacrifizî, e vano il sangue profuso? Chi della vita ha un nobile ed alto e onesto concetto non deve pensare così. Rievocando nelle penombre crepuscolari di questa nostra età quelle audacie magnanime, quale rampogna alla nuova Italia esce dai grandi cuori dei padri che nulla chiedevano alla patria, e come santo appare anche ciò che dagli uomini positivi si usa chiamar rettorica quarantottesca! Sì, rettorica quarantottesca, ma a questa rettorica s'infiammano i difensori di Venezia, i combattenti delle giornate di Milano e di Brescia; per essa gli stranieri ripassano le Alpi, con essa Garibaldi approda a Marsala e l'Italia si unisce tutta al Re, che il popolo amava e voleva. Oggi ogni senso di patria poesia è distrutto dall'anarchia della cupidigia e della cosa pubblica fatta bottega di vanità, e i rètori eroici han dato luogo a un'altra specie di ignobili retori, quelli della pratica utilità, abili ricercatori del successo materiale, operosi di quel lavoro che converte l'anima in denaro. Questa Italia che, secondo il concetto ideale del Mazzini, era destinata ad armonizzar cielo e terra, ahimè! troppo guarda agl'interessi terreni. _Respublica negotiosa_ come ai tempi della decadenza romana. E l'assenza di virtù generose nella nostra generazione, credono alcuni che in molta parte dipenda da ciò che la libertà non abbia avuto una preparazione di sacrificio e di dolore. Certamente le rivoluzioni che, come il cristianesimo, non hanno per origine il martirio, non vincono e vincendo non si avvalorano nella purezza del sentimento e nella santa efficacia della virtù. Ma non è vero che siano mancati l'angoscioso patire e il sacrificio acerbo a questa nostra patria. L'idea del nostro risorgimento balenò sulla cima dei patiboli, sui campi di battaglia, sulle carceri, sugli esilî. Da queste dure prove, da questi aspri dolori, sorge vivida ancora la speranza nel futuro e nel genio occulto d'Italia. L'Italia non può morire, nè può morir quella fede, che pur non rivelando i misteri dell'avvenire, ne avvalora le speranze. La luce dello spirito non ha occaso. Signori! Sull'estrema vetta delle cose, vicino all'etere luminoso e inaccessibile si fa udire con nuovi accenti l'assioma eterno dell'ideale. Ed è dappertutto diffuso uno spirito di vita, fatto di aspettazione ansiosa che si rivela alle anime con una voce, la quale dice che non basta solo pensare, ma sentire; non basta osservare soltanto, ma amare, e che la civiltà per essere veramente perfetta deve essere illuminata dalla luce e riscaldata dal fuoco purificatore dell'ideale. VOLONTARI E REGOLARI ALLA PRIMA GUERRA DELL'INDIPENDENZA ITALIANA CONFERENZA DI FORTUNATO MARAZZI I. ESORDIO. Per isvolgere il tema, che mi fu esibito da questa chiarissima Società di pubbliche letture, io ho dovuto consultare libri e riprendere studi quasi messi da parte nell'affrettato viver dell'oggi. Ma voi — toscani — avete una speciale ragione di illustrare il periodo storico del 1846-49, perchè siete gli Ateniesi d'Italia, ed anche allora insegnaste come la gentilezza del vivere, l'arte, gli studi, mirabilmente si accoppiano alle armi, quando lo vuole la mente, quando l'esige la Patria. Seguendo dappresso la vita de' nostri padri, nell'immortale periodo ora ricordato, si impara a comprenderli, ad amarli, anche nelle loro utopie, anche nei loro traviamenti. Dicesi che un felice errore di calcolo abbia indotto Cristoforo Colombo ad affrontare il «_Mar tenebroso_», e così a scoprire l'America, e fu per certo una moltitudine di sante illusioni, fu l'ingenua ignoranza delle forze austriache, la fede, che intrecciava in un serto patria e religione, che indusse a considerar conciliabili tendenze forzatamente opposte, che spinse le genti italiane sui campi di Peschiera, di Pastrengo, di Santa Lucia, del Cadore, di Vicenza, di Governolo, di Curtatone, di Montanara, di Goito, di Custoza, di Milano, di Novara, e che insieme le fuse — maravigliando, scuotendo l'egoismo degli stranieri — nei memorabili assedi di Roma e di Venezia. II. ARMI E POLITICA. Le istituzioni militari si adagiano sulle istituzioni politiche, ed allorchè queste subitamente cambiano natura ed obbiettivi, quelle non hanno l'elasticità necessaria per corrispondere alle nuove esigenze. Questa ragione risponde da sè sola al perchè tutti gli eserciti regolari dei vari stati d'Italia esistenti nel '48, non corrisposero in modo perfetto alle nuovissime necessità della guerra, in un attimo apparsa inevitabile. Come nebulosa subitamente radiante, la massa popolare capì che dovevasi fondare una Patria: in qual modo? per qual via? ciò era confuso. L'armi, ovunque reclamate, a che tendevano? Alla sola cacciata dello straniero? Alla sola difesa locale? A porre in freno i regnanti, e le loro milizie assoldate? L'Italia sarebbe stata federale, od unitaria? Nel consesso europeo chi l'avrebbe rappresentata? Quali rapporti si sarebbero fra stato e stato, fra il Piemonte, la Lombardia, ed il Veneto; fra queste regioni e tutte le altre terre italiane? Nessuno soffermavasi a queste domande; appariva l'armarsi un bisogno istintivo, e la guerra, che era nel sangue, indicava la via per tutto risolvere. Questa era la coscienza delle moltitudini ma la disparità fra statuto e statuto, fra repubblica e monarchia, il contrasto fra gli intenti segreti ed i palesi, dovevano fatalmente influire sulla condotta dei singoli eserciti in guerra, e rendere dubbiosa l'azione del comando. Guai se un generale è travolto nel gorgo di opposte correnti, se lo tormentano tendenze, che si possono creder doveri inconciliabili, proprio quando uno solo dovrebbe essere il suo pensiero: vincere! In tali contingenze, la storia di tutti i popoli registra sempre una disfatta. Ove, nel '48 il più semplice concetto militare avesse potuto prevalere sulla politica, noi avremmo avuto un solo esercito italiano, reclutato per regioni di nascita, e distinto in tanti corpi quanti erano gli Stati d'allora. Tale esercito sarebbesi dato un capo effettivo unico, avrebbe seguito un piano concertato in tempo ed imposto a tutti i comandanti: la sua prima linea sarebbesi costituita con tutti i soldati regolari; i volontari, accorsi ai depositi de' reggimenti ed ivi ordinati, ammaestrati, armati, avrebbero poi composto la seconda, da inviarsi a suo tempo in rinforzo della primiera. Si sarebbe così raccolto, verso i 10 di maggio un esercito razionale di 100,000 soldati, riuniti nella più conveniente delle località, ed in condizione di ricevere potenti rinforzi, contro il quale gli austriaci non avrebbero potuto opporre che 44,000 uomini nel quadrilatero, e 14 o 15,000 nel Friuli. In queste condizioni come non vincere? Ma poichè all'unità d'Italia volevasi giungere per vie diverse e per diversi fini politici, così noi vediamo gli eserciti di uno stesso paese agire semplicemente come alleati momentanei, e non scevri di mutui sospetti; vediamo, sotto uno scopo reso dalla sua stessa grandiosità quasi romantico, agitarsi la politica minuscola degli staterelli, de' potentati, in diffidenza fra di loro. Mentre le _milizie regolari_ sembrano la rappresentanza del passato, o per lo meno del principio conservatore, le _milizie volontarie_, abbandonate al proprio impulso, si credono l'unica emanazione armata del popolo e mirano all'avvenire, che per loro suona repubblica! Ed a guisa di cuneo, fra questi due organismi, si sviluppa la Civica, controaltare al primo, freno al secondo. Così tre forze, che dovrebbero essere concomitanti diventano divergenti, ed agli immani sacrifici d'energia e di sangue, non corrispondono i risultati guerreschi. Tempo è però che le forze in parola sieno rapidamente passate in rassegna. III. FORZE DEL PIEMONTE. L'esercito piemontese avrebbe dovuto avere in pace 53,000 soldati, con 6000 cavalli, ed in guerra 170,000 soldati con 12,000 cavalli; ma è noto come in ogni tempo la logismografia cartacea sia una cosa e la realtà dei fatti un'altra. Il suo reclutamento era regionale, le ferme sotto le armi brevissime, e da queste due istituzioni era uscita una truppa ottima, e quale io mi augurerei di dover comandare in guerra. Le uniformi, e starei per dire, il pensiero de' soldati piemontesi traluce mirabilmente da quelle quattro statue, che attorniano il monumento di Carlo Alberto in Torino. Erano uomini a forti tratti, di ferrea disciplina, devoti al re, schiavi del dovere: un Napoleone li avrebbe condotti in colonne serrate alla conquista d'Europa. Emergevano per la precisione de' movimenti: già popolari erano i bersaglieri, famosa l'artiglieria, buona la cavalleria, ed audace, ma non sempre adatta alle ricognizioni ed al combattere nelle rotte campagne del Veronese. La scienza concentravasi nelle armi dotte, la carriera degli ufficiali era costretta nelle rigide parallele dell'anzianità, lo che distoglieva i giovani dagli studî militari. Era vanto ed orgoglio delle famiglie aristocratiche dedicare i figli all'esercito, che era l'idolo del paese. I capi esigevano, imponevano, quell'assoluta obbedienza che si piega e non discute: quasi tutti avevano idee ultraconservatrici, e miravano con sospetto i tempi nuovi. La guerra li trovò impreparati alle grandi concezioni, ad avvalersi di molte truppe e dei Corpi di volontari. Faceva difetto il servizio logistico, l'arte cioè di far muovere tutto l'esercito, di mantenerlo in buon assetto, di nutrirlo, di condurlo in favorevoli condizioni fisiche e morali sul campo della lotta. I grossi appalti coi fornitori fecero pessima prova: alla vigilia del combattimento di Goito una divisione non mangiò, ai primi rovesci gli impiegati delle sussistenze disertarono. I piani di guerra non potevano, per quanto abbiam detto, erompere dalla mente dei generali, e maturavano con lentezza, più per imposizione degli eventi, che per volontà del comando. — Ciò spiega perchè nel Quadrilatero si ebbero tante battaglie sanguinose e nessuna decisiva, essendo solo attributo de' grandi capitani riconoscere il nemico con numerose scaramuccie ed annientarlo in pochi urti risolutivi. In complesso, nel magnifico esercito piemontese del 1848-49, si riscontrano quelle virtù guerresche che rendono i battaglioni caparbi nel volere, resistenti alla sventura, tetragoni sotto le raffiche della mitraglia: ma in esso non iscocca quella scintilla del genio avida di iniziativa, di responsabilità personale, che attraverso alle tempeste di sangue crea non solo gli eroi, ma altresì i vincitori. Comunque, esso fu il più possente argomento dell'indipendenza italiana, e noi alla sua memoria ci inchiniamo riverenti; se ebbe difetti, questi più che essere intrinseci furono attribuibili ai tempi, all'indirizzo educativo, alla secolare politica piemontese, per cui fu credenza che in qualsiasi evento l'esercito avrebbe combattuto al fianco di un altro più numeroso e più forte, ed al quale sarebbe naturalmente spettata la condotta strategica della guerra. IV. FORZE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE. Quanto faceva difetto nelle sfere del comando delle truppe piemontesi non sarebbe forse stato impossibile ritrovarlo nell'esercito napoletano, se, pari all'ingegno, alla spigliatezza naturale, fossero state in esso tutte le altre virtù militari. La parte migliore dell'esercito napoletano (che per numero avrebbe dovuto essere il più ragguardevole della Penisola) era costituita dagli ufficiali uscenti dalla Scuola dell'Annunziatella. Ivi in un col sapere vi avevano assorbite le idee liberali, in contrasto colle idee egoistiche e ristrette del Principe. La truppa usciva in gran parte da famiglie facenti un sol tutto coll'esercito, abituate ai favori, ai sussidi governativi: vivevano tali famiglie appartate dalla nazione, e solitamente in locali prossimi alle caserme. I soldati erano adunque come accampati in mezzo ad una popolazione buona, ma facilmente infiammabile, erano ligi al padrone, ed insolenti coi liberali. Il Principe se ne serviva, ma tenevali in poca considerazione, e prediligeva i quattro reggimenti svizzeri, assoldati a guisa di pretoriani. Malgrado tutto ciò, è fuor di dubbio che le forze stanziali del napoletano avrebbero potuto esercitare un'influenza decisiva sui campi del Lombardo-Veneto: nella marcia attraverso l'Italia si comportarono bene, ed i capi, valorosi ed intelligenti, le avrebbero ben presto agguerrite ove gli eventi si fossero svolti a seconda. Le reclute del mezzogiorno assorbono con facilità l'ambiente che le circonda, son facili all'entusiasmo, e noi dobbiamo certamente concludere che più funesto dell'enciclica papale fu, per la causa italiana, il richiamo nel Regno di Napoli delle truppe del generale Pepe, sebbene una cosa sia stata conseguenza dell'altra. La nobile condotta del Pepe e di moltissimi ufficiali suoi, la bella difesa di Venezia, rafforzano a tal riguardo i nostri convincimenti. V. FORZE DELLO STATO ROMANO. Gli Stati della Chiesa avevano una forza militare di 17,000 uomini, di cui ¾ indigeni (così almeno si chiamavano) ed il resto svizzeri. Era una truppa screditata più che non lo meritasse: buoni i reggimenti svizzeri, privilegiati di paga e di vestimenta, buoni alcuni ufficiali provenienti da eserciti forestieri. Il contrasto fra preti e guerrieri faceva sì che dir _soldato del papa_ suonasse ingiuria, e che alcune circostanze tipiche contribuissero a menomare il prestigio dell'esercito pontificio. Qual concetto potevasi, ad esempio, avere di certe batterie di cannoni entranti in Bologna ricche più di trombettieri che di artiglieri, quasichè non le mura di Verona, ma quelle di Gerico, si fosser dovute espugnare? Come aver fiducia in colonnelli che preferivano e vollero il fucile a pietra focaia, anzichè quello a percussione, con tante difficoltà fatto arrivare dalla Francia? Le forze romane furono ripartite in due schiere divisioni. Il generale Durando avoca le truppe regolari, il Ferrari le volontarie: così perpetuavasi l'errore di non fondere insieme elementi dei quali l'uno avrebbe servito di correttivo all'altro. Il Durando ed il Ferrari avevano buone qualità come soldati, ma questi, sottoposto a quello, mal ne soffriva la dipendenza; e la politica, che già impediva un razionale ordinamento disciplinare, non tardò a perturbare ogni concetto di tattica e di strategia. VI. FORZE DELLA TOSCANA E DEGLI STATI MINORI. Usa a blando governo, la Toscana sino dal 1790 scioglieva il proprio esercito. Parve in Firenze che il sapere, le lettere, l'opulenza, i commerci, bastassero alla sicurezza dello Stato, e che, avuta una gendarmeria, ogni altra forza armata fosse superflua. Sì; fu l'Austria (oh degli eventi antiveder bugiardo!) che impose alla Casa di Lorena di tenere 6000 ausiliari, perchè non fosse turbato l'equilibrio italico. L'Austria mirava con ciò a costituirsi una specie di avanguardia nella Penisola, avanguardia che la Toscana seppe ridurre a 4000 nomini, tratti da clementi spuri e dal discolato. Avevansi armi a pietra focaia ed a percussione. Eppure, da così misera matrice, il soffio d'una potente idealità trasse parte di quei soldati, che dovevano nobilmente morire per la patria. Ai primi sintomi della guerra, mentre il Granduca vi scorgeva una buona occasione per arrotondare i suoi domini a spese del Parmigiano e del Modenese, ed adunava a tale intento le sue truppe, nella gioventù toscana facevasi manifesta la necessità di ricorrere alle armi, per uno scopo ben più vasto e più degno. Da ciò la costituzione di quei battaglioni volontari che immortalarono i campi di Curtatone e Montanara, malgrado tutte le moine fatte dal Governo per indurre i giovani a più miti consigli, e a non abbandonare gli studi e le comodità della vita cittadina. Il primo duce delle schiere toscane fu il generale D'Arco Ferrari, opportunamente sostituito in seguito dal De Laugier. Sul principio del '48 l'esercito Estense, era in ragione dei tempi e dell'ampiezza del modenese, molto forte: componevasi di 2400 uomini, soldati di professione, privilegiati e sostegno principale del Duca. Cambiato governo, sciolto l'esercito, il modenese inviò un battaglione di volontari sul Po, sotto il comando del maggior Ludovico Fontana, che si diportò assai bene a Governolo. Da Parma e Piacenza partì un battaglione di circa 1000 uomini, comandato da Francesco Pettinati, che in unione all'esercito piemontese combattè con molta lode verso Verona. VII. LA GUARDIA CIVICA. La guardia civica, portato dell'epoca, rispondeva all'eco lontana della rivoluzione francese: parea in essa rivivesse l'antico comune italiano uso a sorgere in armi, coronando di guerrieri gli spalti cittadini, al primo apparire dell'oste nemica. Cosicchè gli statuti la reclamarono come il palladio delle libertà cittadine, come un contrapposto delle truppe stanziali che, devote al principe, poco affidavano in caso di meditati conflitti. Ma il medio evo era passato, l'assetto abituale dei popoli non era più la guerra, nè l'odio perenne pel vicino. Le battaglie non erano più lotte fra città e città, ma fra nazione e nazione, ed una milizia legata al patrio focolare, usa alle lusinghe cittadine, non poteva essere truppa da grossa guerra. Ne di ciò fu tardo ad avvedersi il popolo, che nelle satire lepide e pungenti, nelle umoristiche illustrazioni dell'epoca, lasciò traccia del suo pensiero e della sua limitata fiducia nella guardia civica: gli stessi poeti ne trassero argomento di facezie rimate. Vi furono episodi onorevolissimi e pugne nelle quali la Civica lasciò bella fama, ma nel complesso mancò la proporzione tra l'enorme suo sviluppo ed 1 risultati che se ne ottennero, e sarebbe stato ottimo provvedimento concentrare le armi ed il denaro, per essa prodigato, nelle schiere realmente combattenti e di prima linea. VIII. I VOLONTARI. Il volontariato personifica il movimento civico-guerresco del 48-49. In esso si rispecchiano tutte le idee dell'epoca, tutta la poesia popolare: in esso si concentrano ed armonizzano le più disparate esigenze. Si giunge così ad una istituzione militare, che risponde perfettamente al novo ambiente politico, ma che è manchevole di quelle doti che formano il soldato delle battaglie formali e di pianura. Se si fossero fuse le schiere _volontarie_ colle _regolari_, sarebbesi ottenuto quanto occorreva nel '48. Il volontario di quel tempo ha una fiducia illimitata nella bontà della propria causa, nella potenza de' suoi mezzi, ne' suoi principi infallibili, ed ai quali non intende minimamente di rinunziare. E poichè le masse uniformemente pensanti si fanno colle oneste transazioni e non col puntiglio; poichè la desiderata fusione non potevasi ottenere, invece di una sola schiera compatta si hanno le _legioni_, i _corpi franchi_, le _guerriglie_, le _crociate_, le _compagnie_, le _colonne mobili_, distinte per nomi, per tendenze politiche e religiose, per regioni, per studi, per armi. Si vuole persino che la foggia del vestire appalesi il movente di chi l'adotta: i repubblicani, i federali, hanno cappelli a larghe falde, e pellegrine a pieghe esuberanti; i più temperati imitano le uniformi delle truppe regolari, i neo-guelfi hanno per segno esteriore la croce. Vedete, — a riprova del nostro asserto primitivo — divisioni e suddivisioni politiche che s'infiltrano e corrompono, anche nei più minuti particolari, l'unità semplice e precisa del concetto militare? Caratteristica dei Corpi volontari, di questa improvvisazione di guerra, è la sproporzione fra la grandezza del fine e la povertà del mezzo. Ritornavamo ai tempi di Pier l'Eremita e di Giovanna d'Arco! Non solo i giovani lasciavan la casa nativa, ma quanti uomini, avessero o no famiglia, e sentissero nel cuore la patria. Si accorreva al campo uscendo dal teatro, dopo un festino, in seguito ad un convegno galante, e senza previdenza alcuna; uno stocco, un ferro arrugginito sembrava arma più che bastevole per la guerra santa, voluta da Dio.... E d'altronde dov'è lo straniero? Esso fugge.... deve fuggire ovunque! Ogni scontro è naturalmente una vittoria italiana, tuoni il cannone di Mantova e noi risponderemo: «viva Pio IX!» Questo era il '48. I sacerdoti si addestrano all'armi sugli spianati, gli studenti formano i battaglioni, i maestri si fan condottieri, le gentildonne arruolano armati. Ovunque è fanatismo e delirio, rullo di tamburo e squillo di campane; ovunque è una massa proteiforme di colori, di forze, d'intenti, di voleri; ma se dal tutto erompe il carme della _indipendenza_, manca il preciso concetto dell'_unità_ manca il genio pensoso, che impugni una bandiera, che, piuma al vento, trascini la moltitudine serrata, estasiata, volente, sui campi della morte e della vittoria.... No, — erriamo — quel genio poteva essere Carlo Alberto: gli eventi non lo consentirono. Per la maggior parte de' volontari battersi voleva dire appostarsi ad un albero e far fuoco contro i croati, necessariamente obbligati a porsi in salvo: essi accorrendo alla guerra si eran votati più all'immediato sacrificio della vita, che ai disagi di una lunga campagna: volevano esser soldati, ma disconoscevano la disciplina, le afe della pianura veneta, le inerzie forzate del campo li sfibravano e ne inasprivano il carattere. Ognuno di essi ha un piano proprio, infallibile, per debellare Verona, per salvare Treviso e Vicenza, per sorprendere Radetzky, e gridano contro il proprio generale che nulla sa, nulla comprende di così semplici concetti. Le truppe volontarie riescono quindi truppe di slancio, non di resistenza; una mente superiore avrebbe a loro assegnato i più colti ed arditi ufficiali, i migliori sergenti e caporali, invece furono abbandonati a loro stessi miseramente od a capi molte volte strambi, inetti, millantatori, e fu ancora ventura emergessero, fra tante ragioni di sfacimento, splendide individualità, quali un Calvi ed un Manara. IX. IL NEMICO. Verso i 15 di marzo '48, erano in Italia 70,000 soldati dell'impero divisi in due corpi d'armata, il primo col comando a Milano, il secondo a Padova. Duce di questo esercito solido, ma disseminato nelle varie città del Lombardo-Veneto, oltre il Po e sulla frontiera del Ticino, era il Radetzky, maresciallo energico, buon comandante di truppe, feroce repressore di rivolte popolari. Aveva 81 anni. Un terzo de' soldati imperiali erano italiani, e 20,000 di questi, cioè quasi tutti, si allontanarono a tempo opportuno dalle insegne imperiali in un con 200 ufficiali de' nostri. Era questa una massa organica di veri soldati, che avrebbe potuto inquadrare le nuove reclute nazionali; necessitava perciò rapidità e mano di ferro, invece le continue incertezze, sia de' governi locali, sia della repubblica veneta, mutarono quella forza in elemento di disordine, che fu mestieri sopprimere, sciogliendo d'ogni obbligo militare gli Italiani, già soldati dell'Austria. I generali austriaci non avevano una esatta idea della tempesta che sorda ruggiva. Il moto popolare era già iniziato in tutte le città italiane, ed essi credevano d'essere ai giorni in cui Silvio Pellico passeggiava per le vie di Milano, credevano cioè che non fossero se non pochi congiurati delle classi alte, che tramassero a' danni di Casa d'Austria. Le forche, e le mude dello Spielberg, avevano invece compiuta la loro silente propaganda nell'intelletto delle moltitudini. X. LE CINQUE GIORNATE DI MILANO. Nei primi mesi del '48 l'urto fra Milanesi ed Austriaci era latente. La guerra al lotto, ai sigari, le zuffe che da ciò trassero pretesto, dettero vampa agli spiriti, e separarono sempre più i cittadini dall'elemento militare. La rivoluzione di Vienna — 15 marzo — precipitò gli eventi, ed il 18 marzo fu il primo delle cinque gloriose giornate. Il comando militare, pessimamente servito dalla polizia, immaginavasi che la ribellione fosse appena concepita quando era già in armi; teneva d'occhio certi presunti capi, e non si accorgeva che l'intesa fra ribelli e ribelli era originata, senza bisogno di intermediari, dalla comunanza degli intenti, e dall'odio verso lo straniero. La debolezza del Governatore, il suo disaccordo col Maresciallo, l'eroismo del popolo, fecero il resto. L'insorgere di una grande città ha questo di speciale: per esser terribile non ha bisogno di una complicata direzione centrale, basta sia contemporaneo. Quando in un dato momento tutte le strade si sbarrano, tutte le case si chiudono e dalle finestre, dai terrazzi, dai tetti, precipita ogni oggetto che capita sotto le mani, una truppa o vi rimane inerte e come prigioniera, od è costretta a ritirarsi. Milano prestatasi egregiamente alla ribellione nelle circostanze del '48, e colle armi da fuoco allora in uso. Fra un fucile da soldato ed un fucile da caccia la differenza, in quanto a micidialità, era in quel tempo infinitamente minore di quanto oggi non sia. Le vie anguste e tortuose annullavano il vantaggio delle lunghe gittate, ed una grandine di sassi e di tegole aveva lo stesso effetto d'una salva di fucileria. Le artiglierie da campo erano pressochè impotenti contro i muri delle case: la mitraglia non aveva campo per istendersi a ventaglio. I «bastioni» erti una diecina di metri sul piano della città si riunivano al Castello, vasta e potente costruzione militare. Interposto, fra i bastioni e la parte centrale della città, correva il Naviglio, di guisa che per giungere dalla cinta al Duomo, al Broletto, a Monte Napoleone ecc., occorreva attraversare i ponti, oltre i quali le vie anguste e tortuose eran proprie ad energiche difese locali. Radetzky, stabilito al Castello e padrone de' bastioni, era nella situazione d'un assediante alla sua volta assediato dalle insorte campagne. Per tenere in rispetto la città aveva 13,000 fanti, 1000 cavalieri, 30 cannoni, ed a mala pena Milano vi poteva opporre un migliaio di fucili, la maggior parte da caccia. Basta l'accennare a queste cifre, per capire come la lotta sarebbe stata impossibile senza le sopra accennate circostanze. In pochi giorni il popolo eresse 1651 barricate; così il centro della città fu tosto separato dai bastioni, le caserme e gli edifizi pubblici circuiti dagl'insorti. Radetzky suppone che nel Broletto si annidi il Comitato dirigente de' rivoltosi, e fa bersaglio ai cannoni il Broletto: opera vana, i congiurati non sono in un punto, sono ovunque, e la rivolta agisce di proprio impulso, senza direzione. Le truppe come avanzare? Le barricate otturano tutte le vie, più se ne atterrano e più ne risorgono; tutto un popolo furente fa arma d'ogni oggetto, fa proiettili d'ogni materia. I rivoltosi cominciano ad avvedersi che gli austriaci sono paralizzati, la loro fiducia cresce a mille doppi, e dopo la bella resistenza ai _Voltoni di Porta Nuova_, dovuta principalmente al gentile e valoroso Manara, tutti confidano nella vittoria. Parte degli austriaci era rimasta bloccata nelle caserme: il maresciallo la chiamò al Castello colle relative famiglie e cogli impiegati. Ciò ebbe l'aspetto di una ritirata, e rilevò le sorti della rivoluzione, le cui forze cominciavano ad avere forme organiche e capi effettivi, mentre un embrione di governo formavasi nel palazzo Borromeo. Una delle ragioni del richiamo delle truppe austriache dal centro della città alla periferia si era il disegno di bombardarla, disegno sbollito poi per molte considerazioni, e specie per l'esiguità dei mezzi. Ormai il popolo di Milano, al quale il Conte Martini di Crema aveva riportato le parole di Carlo Alberto, passa all'offensiva, attacca la caserma del Genio, apre le porte ai soccorsi della provincia. Così il maresciallo, malgrado i tenui soccorsi pervenutigli, si decide alla ritirata oltre l'Adda. Tal ritirata, che somigliò ad una fuga, sarebbe forse stata consigliata egualmente da altri eventi esteriori, quali il sollevamento del Veneto ed i fatti di Vienna, ma essa fu resa improrogabile, fu imposta dall'invitto popolo di Milano. Le perdite de' milanesi salirono a 1000 uomini tra morti e feriti; 600 soldati perdettero gli imperiali, che nel frettoloso abbandono del Castello dovettero rinunziare al trasporto d'armi, di munizioni, e a parte del tesoro di guerra. XI. IL PRIMO ERRORE. Ed ora dobbiam registrare gli errori nostri. Una città poteva per lo passato, come Firenze ai tempi di Pier Capponi, come Palermo ai tempi dei Vespri, come Genova ai tempi del Balilla, e può forse ancora al presente, in particolarissimi casi, cacciare una truppa fuori delle proprie mura, ma non può improvvisare gli arti necessari per compiere coll'inseguimento la rotta del nemico. A chi spettava questo cómpito? All'esercito piemontese! Perchè non lo eseguì? Perchè si erano create diffidenze funeste, perchè oltre il Ticino non si intuì la situazione, e non si poteva intuire: perchè la politica interna, le elezioni, il cambiamento del ministero assorbivano le menti. Il 23 marzo Radetzky versava in critica situazione, fuggito da Milano procedeva taciturno verso il Veneto in mezzo a soldati, ad impiegati civili, a feriti stanchi ed esausti; nella sua ira impotente aveva incendiato Melegnano. — Bergamo, Como, Brescia, Cremona insorgono. Il 22 marzo Venezia proclamavasi indipendente; Udine, Treviso, tutto il Veneto orientale comprese le fortezze di Osoppo e Palmanova ne seguono l'esempio. Per poco che s'attenda, anche Verona, anche Mantova si scuote, e la rivoluzione avvolge nel suo turbinío il debole corpo austriaco. E Carlo Alberto, che ciò prevedeva sino dal 20 marzo, voleva «volare» in soccorso de' milanesi, proprio quando il nuovo ministro della guerra chiedeva dieci giorni di tempo per completare gli armamenti. Era effettuabile il desiderio del Re? Sì! Già dal 3 febbraio stavano sotto le armi tutti i nati del 1825, 1826 e 1827 ed in parte quelli del 1823 e del 1824: 40,000 soldati erano così ai reggimenti e la forza di una Divisione di guerra trovavasi in gran parte sul Ticino. Un ardito capitano avrebbe subito compreso che per assicurare e compiere la vittoria dei milanesi non bisognava rafforzare l'esercito, ma muoverlo immediatamente: pochi battaglioni piemontesi congiunti ai ribelli della Lombardia, ai soldati che avevano abbandonate le insegne austriache potevano raggiungere e distruggere l'esercito di Radetzky, il cui nucleo principale sino ai primi di aprile, condusse al di qua del Mincio vita randagia e perigliosa. XII. SITUAZIONE DEGLI ESERCITI NELLA SECONDA QUINDICINA DI APRILE. Fallita la possibilità di schiacciare l'esercito austriaco scarso di combattenti ed in piena fuga, innanzi alle popolazioni italiane, noi troviamo al 20 aprile le forze belligeranti così situate: Nel quadrilatero sta Radetzky con 44,000 soldati: lungo il Mincio ed il Po si stendono 68,000 italiani ai quali si possono immediatamente aggiungere circa 12,000 volontari, ed avere con ciò in linea 80,000 uomini. Gli austriaci sono nella situazione morale di un esercito battuto, sono uniti all'Impero per la sola via dei monti, hanno viveri limitati, a loro d'intorno stanno popolazioni ostili: gli italiani, forti per numero e per buoni successi, vivono tuttora nel periodo dell'entusiasmo e della fiducia. Le forze alleate sono così disposte: 53,000 piemontesi, con pochi volontari parmensi e napoletani e con 88 cannoni, fra Goito e Peschiera: 7000 regolari e volontari toscani, con pochi napoletani, tra Castellucchio, Curtatone e Montanara; 1100 modenesi a Governolo; 6500 pontifici regolari con 12 cannoni ad Ostiglia (generale Durando), 9000 a Bologna. Dietro questa prima linea stanno 2 o 3000 volontari a Bergamo e a Brescia, in tutte le città italiane si costituisce la Civica. In Piemonte si completa l'esercito di prima linea, i quarti ed i quinti battaglioni: verso Ancona 15,000 napoletani sono in marcia, ma su di loro si può fare assegnamento soltanto dopo il 20 maggio. Tutte le città del Veneto, dal bacino del Brenta a quello del Tagliamento, sono ingombre di _crociati_, di _bande armate_, di _comitati di difesa_, non aventi fra loro nesso veruno, ma che nel loro complesso non possono non preoccupare il Nugent, generale austriaco, che dall'Isonzo mira a congiungersi col Radetzky. Se quindi fosse bastata la forza del numero, la sorte doveva sorridere all'Italia; sventuratamente mancavano ai nostri ben altri fattori di vittoria. Da ogni parte sorgeva chi voleva comandare: dai vecchi avanzi napoleonici agli imberbi universitari tutti avevano il recipe per vincere. I primi successi, aventi del miracoloso, esaltavano le menti, nessuno credeva possibile una riscossa del nemico, ferito nei suoi stessi domini dalla rivoluzione, e quindi provvedevasi alla guerra, scontando tra feste patriottiche le future vittorie. I servizi amministrativi erano manchevoli e difettosi, le armi scarse e di vario modello, pessima la impresa dei viveri, nulle le previdenze in fatto d'ospedali, di rifornimenti ecc., ecc. Bisognava scegliere fra battere il Radetzky nel quadrilatero ed il Nugent, che dall'Isonzo muoveva verso l'Adige. Nel primo caso tutti gli eserciti confederati nostri dovevano concentrarsi fra Goito e Peschiera e poi puntare sopra Verona; nel secondo tutte le forze italiane radunate fra Governolo e Ferrara avrebbero «girato il quadrilatero» e fatto massa verso il Brenta. In quest'ultima ipotesi Venezia e le marine confederate del Piemonte e di Napoli avrebbero rifornito l'esercito nazionale, le fortezze venivan così prese di rovescio, e Radetzky disgiunto dall'esercito di soccorso. Come spiegare l'essere le forze italiane disseminate su tanta vastità di territorio e la loro azione slegata, se non collo spettro d'una politica obliqua che inquinava le operazioni militari? Re Carlo Alberto era duce di nome e non di fatto, a Milano ed a Venezia si temeva l'annessione al Piemonte e volevasi la Repubblica; ogni staterello comprendeva la cacciata dell'Austria, come ora si comprende la cacciata del Turco, e cioè all'intento di arrotondare i propri domini: ogni esercito faceva quindi casa a se, non voleva abbandonare il legame politico ed amministrativo colla propria regione, dalla quale riceveva ordini diretti. Per far massa bisognava amalgamare i volontari coi soldati di ferma, i capi rivoluzionari coi generali e questo assolutamente non volevasi da nessuna parte. Sono, come vedete, sempre le stesse cause, sempre le stesse ragioni, che producono le stesse conseguenze che permettono a Radetzky di raggiungere il quadrilatero, di soggiornarvi, e di risortirne poi terribile castigatore delle colpe nostre. XIII. AZIONE OFFENSIVA DEL PIEMONTE. Il Piemonte comprese ben presto che per attrarre a se le forze degli alleati gli occorreva il prestigio di rapide vittorie, ma tutta la sua azione militare, splendida nella parte esecutiva, è manchevole nel concetto. L'avanguardia composta della brigata Bes doveva avere una sola missione: riunire le forze sparse della Lombardia, raggiungere il nemico in rotta, completarne la disfatta, ed in ogni evento informare il grosso dell'esercito sulla situazione del nemico. Non si trattava che di «_volare_.» secondo il felice intuito del magnanimo Carlo Alberto, attraverso un paese amico: eppure al 1º aprile il Bes è ancora a Brescia! La prima idea strategica attribuita al generale Bava è questa: _Prendere Mantova e poi Verona_, (4 aprile. Consiglio di guerra tenuto a Cremona), ma passato il Mincio vien deciso di sorprendere anzitutto Peschiera, ritenuta opportuna per far cadere Verona: se non che l'impresa di Peschiera andando per le lunghe si ritorna al concetto d'impossessarsi di Mantova, e, tal disegno sfumato, vien decisa una grande azione contro Verona. È pur troppo vero che a questi rapidi cambiamenti di scena contribuiscono i clamori delle popolazioni, la politica estera, le pretese de' vari stati, ma che ne nasce da questo? battaglie senza scopi, sacrifizi senza ragione. Gli scontri sotto Mantova (19 aprile), gloriosi per le truppe, non hanno alcun risultato. Il brillante assedio di Peschiera restò un episodio isolato, senza importanza sulla condotta della guerra. Pastrengo segnò una vittoria splendidissima, nella quale rifulse il valore personale del Re, ma non fu completata e nulla decise. La giornata di Santa Lucia (6 maggio) mise in mostra tutto il valore soldatesco dell'esercito, i battaglioni furon visti marciare allineati sotto il fuoco nutrito de' nemici militi, colonnelli, generali vi versarono sangue a fiotti e perchè? Per uno scopo di ricognizione, con un piano mutato e rimutato, di cui nessuno ebbe la paternità esclusiva, e per riedere poi ai primitivi accampamenti, per rifocillarsi. Gli impresari avevan l'obbligo di portare i viveri soltanto sino al Mincio! XIV. LA SCONFITTA DEL VENETO. Se non che, mentre il martello piemontese batteva qua e là l'incudine del quadrilatero, il Nugent attraversava il Veneto. Questa regione, che mezzo secolo prima era stata il teatro delle gesta fulminee di Napoleone, parve ripiombata nel medio evo! Venezia aveva rialzato il vessillo di San Marco: ogni città, ogni comune pretese farsi centro della difesa italica, sembrò ritornata in onore la guerra di campanile. I crociati giuravano di morire sul recinto dell'avito comune, il popolo chiamava i vescovi a benedire le barricate. Fra errori, colpe e deliri rifulge isolata e magnifica la difesa del Cadore, affidata dal Manin al capitano Calvi, e dove i montanari nostri, imperterriti, con ogni possa si opposero all'invasione. Al trinceamento di Chiapuzza colle forche, cogli spiedi, coi tridenti, quei prodi combattono; le donne seguono in battaglia i mariti, i figli, e vincono. Ad Ospitale la difesa è tenace, al _Passo della morte_ si ruzzolan giù pei dirupi massi di pietre, che pongono in fuga i nemici, a Rucorvo, a Rivalgo (28 maggio) le resistenze son decisive e fortunate. Dalle miniere di Auronzo si traeva il piombo, dalle cantine il salnitro, da ogni ferro un'arma, da ogni essere un combattente. Fa bene all'anima il ricordare questi fatti, che potrebbero nell'avvenire ripetersi, e che ci danno un'idea di quanto possiamo sperare dalle Alpi organizzate a difesa. Ma il precipitar della valanga era nel '48 fatale. Le discordie e la gelosia fra i generali _Durando_ e _Ferrari_ dell'esercito pontificio, la nessuna unità di concetti fra questi, la legione francese del generale Antonino, la brigata del Guidotti, che disperato corse incontro a certa morte, le forze del generale Alberto La Marmora (il quale ultimo agiva in nome del governo Veneto) fecero sì che la difesa del Brenta, affidata a 18,000 uomini, (corpi franchi, guardie civiche e volontari) non fosse, malgrado alcuni fatti isolati e di positivo valore, che una serie di errori militari. Così l'esercito di soccorso austriaco sotto il nuovo comandante Thurn (stante una malattia sopravvenuta al Nugent) passato con facilità l'Isonzo, il Tagliamento, la Piave, e sollecitato dal Radetzky, seguiva la sua marcia verso Verona, ed il 22 maggio, a San Bonifazio, riunivasi alle forze del Maresciallo. XV. LE SUCCESSIVE OFFESE AUSTRIACHE. Ottenuta la congiunzione delle proprie forze, il Radetzky eseguisce, a sua volta, quella _manovra per linee interne_ che avrebbero dovuta eseguire ai suoi danni gl'italiani, se la loro condotta fosse stata guidata da una mente unica e militare. Egli è ora nella possibilità di appoggiar sempre le spalle alle mura della turrita Verona, e con colpi vigorosi battere separatamente le tre masse che lo contornano, e cioè i piemontesi, tra Peschiera e Goito; i toscani sotto Mantova; i pontifici a Vicenza. È la lotta del cignale che sbuca dalla tana contro i veltri che l'hanno scovato. Il generale Thurn ha la missione di battere i romani riguardati come la massa più debole: donde la prima battaglia di Vicenza (24 maggio) nella quale il generale Durando obbliga alla ritirata 20,000 austriaci. Fu questa una vittoria insperata, che le solite diffidenze politiche resero sterile. Il Durando aveva il dovere di inseguire il nemico, e di penetrare nel quadrilatero, per congiungersi o coi toscani, o coi piemontesi, oppure, prendere il maresciallo Radetzky fra due fuochi. Cedette invece alle pressioni municipali, anzichè al volere di Carlo Alberto, e con ciò malamente provvide a se ed alla città che voleva difendere. Ed ora vien la volta dei Toscani. Il 27 maggio Radetzky delude la vigilanza della cavalleria piemontese, e con 30,000 uomini, e 154 cannoni si dirige sopra Mantova, ove giunge il 28. Seimila uomini, la maggior parte toscani, con uno squadrone di cavalleria e 8 pezzi, difendono la linea dell'Osone fra Curtatone e Montanara, località distanti fra di loro di circa mezz'ora di cammino. Bastano queste cifre, e queste premesse, per comprendere che il disastro da parte nostra era inevitabile. La ritirata imponevasi, l'ordine per essa venne tardivo, quando venne non si volle eseguire, ed a noi non resta che rendere omaggio a quei forti campioni, che caddero sul campo di battaglia vinti dal numero, e dopo disperate difese. Di essi, i più non avevano dell'armi fatta una professione, eransi dati alla scienza ed all'arti geniali; moltissimi erano studenti, sorti appena alla vita, e son morti per lasciare a noi una patria libera e forte. Onoriamo l'altissimo valore! Se il loro sacrificio, nel momento in cui fu consumato, apparve una fallanza militare, immenso risultò il suo effetto morale: esso si ripercosse nel cuore della Toscana, e cementò più che mai il concetto unitario. Sbranata la facile preda, una sosta inopportuna del Radetzky a Mantova permette ai piemontesi di riunire a Goito 19,000 uomini e 44 cannoni. 11 maresciallo austriaco muove all'assalto della linea piemontese, ed è respinto con gravissime perdite! Era il momento dalla parte italiana di completare colle riserve, ancora in buono stato, la vittoria, ma la sorte che ci perseguitava non lo permise; permise invece al Radetzky di attaccare per la seconda volta il Durando a Vicenza, di obbligarlo a capitolare, e di aprire al saccheggio le porte della città. XVI. RITIRATA DE' PIEMONTESI. Così, frantumate e disperse le truppe degli stati minori, sparpagliati ai quattro venti i crociati, il maresciallo austriaco riesce a limitare la lotta fra lui e Carlo Alberto, fra l'Impero Austriaco, ricco d'ogni sorta di rifornimenti, ed il Piemonte stremato d'uomini e di pecunia. Questo impari duello si risolve nell'infausta giornata di Custoza, ove 20,000 piemontesi sono sopraffatti da 54,000 austriaci, col sanguinoso combattimento di Volta, colla disordinata ritirata dei nostri verso l'Oglio, durante la quale soldati italiani nel paese più ricco ed ubertoso d'Europa sono privi di rifornimenti e di viveri. Oh, i meravigliosi contratti con le imprese! Il Re, credendosi impegnato dall'onore, volle difendere Milano: fu questo un errore militare, ma le considerazioni per l'avvenire e la politica glielo imponevano. Militarmente era per certo indicato di prendere la via del Po e quindi una posizione di fianco rispetto al nemico invadente. Il Radetzky non era ancora così forte da avventurarsi nel Piemonte, lasciandosi alle spalle la rivoluzione, non ancora fiaccata. E poi la Francia avrebbe permesso che l'Austria diventasse sua confinante? Ma che poteva aspettare il cavalleresco Re di Sardegna dagli Stati penisolani? Chi, dopo essere stato impassibile innanzi alle sue primitive vittorie, lo avrebbe sorretto nella sventura? Per più di tre mesi tra l'Arno e le Alpi erano rimasti in armi ben 150,000 italiani e tra l'Isonzo ed il Mincio non più di 70,000 austriaci! Questo sia affermato innanzi alla storia, che terribile giustiziera tolse poi la corona a tutti quei principi che le sventure dell'impareggiabile Re di Sardegna, segretamente prepararono, e ne risero. Non era la ragione del numero che nel '48 avversava l'Italia, ma una politica bieca, la quale impedendo agl'italiani di far massa contro Radetzky permetteva a Radetzky di allontanare i _napoletani_ da Bologna, di battere i _veneti_ tra l'Isonzo ed il Piave, i _toscani_ a Curtatone, i _romani_ a Vicenza, i _piemontesi_ a Custoza, e di indurre Carlo Alberto all'armistizio di Salasco. Soffermiamoci: a che seguire il Re magnanimo sul mesto cammino di Novara? La grande idea italiana emigrava con lui nel doloroso esiglio di Oporto, ma composto il suo primo Eroe nell'avello, risorgeva, armata ed invitta nel pensiero del figlio per attraversar vincitrice i campi di San Martino. XVII. CONCLUSIONE. Ed ora, dopo tanti anni trascorsi dalle vicende del '48, possiamo tranquillamente ripensare all'artefice che ribadì le catene del nostro servaggio, e dire che sulla tomba del maresciallo Radetzky non cresce l'albero del nostro rancore. Il maresciallo eccedette, ma servì il suo imperatore, e poichè i fati d'Italia dovevano compiersi, egli stesso vi cooperò coi suoi rigori, colle sue sudate vittorie. Se egli avesse perduto, il trionfo non ci avrebbe ammaestrati come ci ammaestrò la sventura. I tempi d'allora non eran maturi: occorreva che dai rivi di sangue versato in comune sorgesse un comune pensiero, una idea capace di farne tacere tante altre, cosicchè trascorso appena un decennio, dal _caos_ delle primitive illusioni, sortissero gli eventi del '59. Non v'è pregio grande, ove non v'è grande sacrificio. Garibaldi che abbandona le navi regie; ecco lo spirito sorvivente ancora nel '48, Garibaldi che esclama: «Obbedisco» ecco il frutto d'una forte esperienza, e la ragione del vincere. Se il Veneto fosse stato riunito al nuovo Regno di Casa Savoia qualche lustro più tardi di quando ciò avvenne, se in Roma fossimo entrati in seguito ad una grande guerra nazionale ed in epoca più prossima alla presente, l'Italia sarebbe in oggi più forte e più compatta di quanto effettivamente non sia. È questa induzione sicura: la storia dell'umanità è la storia del dolore, ed un popolo senza vittorie, senza ideali che gli sollevino la mente e l'anima, che lo distraggano dalla miseria cupa del vivere, contempla inerte le sue piaghe e le inasprisce. Questo spiega non poca parte de' nostri attuali disagi, e addita una mèta novella alle giovani generazioni. Quale? Io l'ho nel cuore.... voi la dovete intuire: gli eventi forse la preparano. LA DÉMOCRATIE SPIRITUALISTE SELON MAZZINI ET SELON LAMARTINE CONFÉRENCE DE M. PAUL DESJARDINS _Mesdames, Messieurs._ En 1847, le journal _Le Peuple_ fit paraître un écrit doctrinal de votre fameux compatriote Joseph Mazzini: _Réflexions sur les Systèmes et la Démocratie_[2]. Ce manifeste avait été médité par Mazzini dans son long exil d'Angleterre. Or nous savons par sa correspondance quelles étaient en ce temps-là ses dispositions de cœur. Un climat gris et froid, qui prolongeait ses tristesses jusqu'au ciel, un dépaysement absolu, une pauvreté qui le contraignit à mettre en gages ses reliques de famille, ses bottes, et son habit, une santé minée, une sensibilité de femme tendre, qui lui faisait recueillir dans une arrière-boutique les petits Italiens, marchands de plâtres ou joueurs d'orgue, perdus dans la brume de Londres; des crises de _spleen_, de remords, de doute sur lui-même, bref, une impression d'universel abandon: voilà le fond sombre d'événements et de songes sur lequel sa pensée se dessina. Jamais pourtant cette pensée ne fut plus nette, plus ferme, plus achevée. Il avait été, dans son adolescence épris de la théorie de Condorcet et du XVIII^e siècle français sur l'affranchissement des esprits par la science et la civilisation; plus tard il était devenu Robespierriste, sec et tranchant inquisiteur de la vertu démocratique; enfin il arrivait à manifester ce qu'il était par nature: un bon et grave apôtre du Christ. L'éloignement des hommes lui était sans doute salutaire; car, avec le beau manuel des _Devoirs de l'Homme_, écrit en 1844, pendant ce même séjour désolé en Angleterre, les _Réflexions sur la Démocratie_ sont le symbole de la doctrine de Mazzini, ce qui restera de lui. Si l'on me demandait quel est le _Credo_ des républicains modernes, je renverrais d'abord à ces deux-cents pages où votre concitoyen a exprimé, avec sa foi, la nôtre aussi. Le 18 juillet de cette même année 1847, à Mâcon en France, Alphonse de Lamartine exposa son rêve politique à lui, deux heures durant, en plein air, devant treize-cents convives attablés et trois mille auditeurs debout. Comme il parlait, un orage éclata, une bourrasque enleva la tente immense qui abritait le banquet, et parmi les éclairs et la foudre, sous un déluge de pluie, le poète continua de parler, la foule trempée continua d'écouter, ne répondant aux coups du vent et du tonnerre que par une immense clameur: Vive Lamartine![3]. L'objet de cette harangue extraordinaire était, comme Lamartine lui-même l'explique à Madame d'Agoult[4], «l'unité à fonder dans la démocratie. Si elle se divise, elle est perdue; si elle s'unit et s'ouvre chrétiennement à tout le monde, elle vaincra.» Cette orageuse et belle journée nous apparaît triomphale. Et pourtant, si acclamé que fût alors l'auteur des _Girondins_, sa conception de la république n'était pas moins isolée, singulière, inintelligible au public d'alors, que celle qu'élaborait Mazzini dans son galetas de Londres. Par intervalles, quand l'ivresse de son verbe était tombée, Lamartine s'apercevait bien qu'en somme il monologuait au milieu d'un désert: «J'ai pourtant parlé _politiquement_, dit-il un jour; il n'y a eu que moi qui s'en soit aperçu. Ils sont convaincus que je rêvais et débitais des sornettes.... Eh! je marcherai seul, et vive la Providence!...»[5]. A Mâcon comme à Londres, c'est un prophète qui songe tout haut, sans pouvoir se faire écouter. Et les deux songes racontés à la même heure, par le Français, par l'Italien, par le tribun idolâtré, par le réfugié mélancolique, se ressemblent au point qu'on en est surpris. Ils en eûssent été, je crois, surpris les premiers. Cependant quelques mois plus tard une aventure pareille leur échut à tous deux. Paris vit s'improviser une république; une autre essaya de s'installer dans Rome; Lamartine fut l'inspirateur de la première, Mazzini le chef de la seconde. Leurs idées subirent donc l'épreuve du fait. Epreuve malheureuse: tous deux tombèrent. Déçus par le peuple dont ils avaient trop espéré, n'ayant pas su garder à leur action, dans un cercle élargi, la magique pureté qui en faisait toute la force, ils furent vite précipités à bas du pouvoir. Ils ne firent qu'y passer, laissant après eux le souvenir d'un échec, un nom discuté, et, dans des papiers posthumes longtemps méconnus, des semences éparses de vérité, pour plus tard. Leur chute a discrédité pendant un demi-siècle la politique spiritualiste, qui s'appuie sur une théorie de la destination de l'homme. On a traité de vieux enfants ces théoriciens romantiques, jusqu'au temps que voici, où la politique d'expérience et d'expédients, celle des hommes mûrs, s'est montrée, par ses effets, encore plus inefficace et puérile que la leur. En sorte que, trente ans après leur mort, il se pourrait qu'on se mît enfin à les écouter. Essayons donc de fixer l'idée que Lamartine et Mazzini se sont faite de cette démocratie modèle qu'ils ont échoué à faire vivre il y a cinquante ans. Pour cela, esquissons d'abord la physionomie de ces deux esprits, afin de marquer la diversité de leur nature: l'un nous apparaîtra comme un dieu du jour, l'autre comme un génie de la nuit. En second lieu, rapprochons les témoignages de ces deux hommes antithétiques sur le sujet qui nous occupe, pour en faire voir l'accord surprenant. Et enfin, comme conclusion, dégageons, s'il se peut, d'après l'expérience acquise depuis, ce qu'il y a d'utilisable encore, de réel peut-être, dans leurs rêves. I. Alphonse de Lamartine n'est pas un étranger pour vous. Il s'est promené souvent «sous les pins harmonieux des Cascine.» Il a chanté Florence, Pise, Lucques et Vallombreuse. Il a vécu, écrit, aimé chez vous, et votre Pétrarque avait modelé sa sensibilité avant même que vos horizons de cyprès et de collines eussent charmé ses yeux. Toutefois, comme c'est un poète véritable, je doute que le timbre de sa voix soit exactement perceptible à d'autres que ses nationaux; je vous demande donc de croire qu'il y eut en lui plus de divinité que je ne saurais vous en montrer. D'abord, remarquez qu'il resta jeune jusqu'à la fin; jeune, c'est-à-dire capable de se renouveler. Trois passions l'occupèrent l'une après l'autre, se succédant sans intervalle, sans confusion, de sorte qu'il paraît avoir eu ses phases régulières, comme un astre. Dans l'adolescence: un amour exalté, caché, douloureux; — et de là naquirent des élégies que tous les amoureux ont redites; — puis, dans la première maturité, une angoisse pieuse et virile des destinées de l'âme et de sa relation à son Dieu; — ce fut l'origine de belles méditations platoniciennes, troublées parfois de cris de désespoir; — enfin, vers quarante ans: un prophétique souci de la justice dans la société, — d'où procèdent ses œuvres politiques, discours, articles de journaux, avec quelques poèmes de vieillesse. La première phase est la plus célèbre. Le nom seul de Lamartine éveille l'idée d'un chanteur élégiaque. On sait qu'il n'a rien inventé dans l'instrument lyrique: ses poèmes ne sont originaux et neufs que parcequ'ils révèlent une âme. On a retrouvé, de sa vingtième année, de petits vers galants et vieillots, qui ne lui ressemblent pas encore. «Je n'étais alors que vanité,» avouait-il lui-même. Il lui fallut l'initiation de l'amour et de la douleur. Dès lors le génie lui vint; de son cœur brisé montèrent, avec une étrange pureté, quelques cris modulés, aussi éternels, désormais, que la mélodie du vent dans les pins solitaires. Lamartine poète philosophe est moins connu et plus grand. Ce ne fut pas un philosophe, à proprement parler; il ne rechercha pas la vérité par dessus tout, — mais le bonheur. Seulement, comme il était bien né, il mettait à son bonheur des conditions rares et élevées. Il lui fallait, pour être heureux, obtenir l'harmonie de sa pensée avec elle-même; il avait le besoin impérieux de l'unité; toute diversité irréductible lui était une souffrance. Or les résultats des sciences de faits sont fragmentaires, ou même contradictoires. Lamartine s'en désespère: les solutions qui ne rendent pas raison de tout l'univers ne le satisfont point, et, faute qu'on lui donne le dernier mot des choses, il s'écrie, impatiemment: Vérité, tu n'es pas! Tu n'es que dans nos songes![6] Blasphème touchant et beau, signe d'une profonde sensibilité philosophique. Cependant comment surmonter cette disproportion de notre esprit et de la réalité? Le poète n'a pas la force de le faire comme un Kant, en l'analysant: il n'est secouru que des intuitions de son cœur. Le voilà donc aspirant en vain; devant lui s'ouvre l'abîme de l'inconnaissable: il en sent l'effroi: Je meurs de ne pouvoir nommer ce que j'adore![7] Mais cette reconnaissance de notre impuissance implique en nous l'idée de la Puissance, cet aveu de nos limites, l'idée de l'infini. Plus encore que l'idée: l'amour et le besoin. Et c'est par où l'homme se sauve du désespoir. Il comprend que se plaindre de ne pouvoir embrasser la vérité totale et une, c'est se plaindre de n'être pas Dieu. Du point de vue divin seul, l'harmonie, qui ne saurait entrer dans nos esprits étroits, se dégage et apparaît. Pour Dieu le mal n'est pas; la mort, non plus que la vie, n'a point de sens pour Dieu; de ce point de vue, où il faut se mettre par un essor de la volonté, les contradictions les plus scandalisantes se révèlent comme des illusions de notre pensée infirme, et boiteuse encore de quelque chute peut-être. Cet acte par lequel l'esprit se situe _extra humanitatem_ est tantôt la _prière_, tantôt l'acceptation de la douleur purifiante, qui est prière encore. A cette acceptation, à cette prière, Dieu répond par l'apaisement ineffable, passager, fragile de sa grâce. Et la poésie justement a pour objet de fixer, autant qu'il se peut, ces illuminations soudaines de la grâce. Ici est son rôle révélateur, son caractère sacré. Le poète est encore à peu près ce que fut le _nabi_ en Israël. Au reste il n'est pas d'autre religion vraie, selon Lamartine, que cette expérience immédiate de l'action de Dieu en nous. La raison, que le poète, tout mystique qu'il paraisse, ne récuse point, — qu'au contraire il voudrait porter à son maximum de clarté, car Plus il fait clair, mieux on voit Dieu[8], la raison des philosophes se trouve d'accord avec cette expérience de l'adorateur le plus humble; oui, la raison même donne raison à la foi. Et la tradition immémoriale de l'humanité ne conclut pas dans un autre sens. Lamartine ne s'agenouille pas devant les livres sacrés; il a quelque répugnance pour les Églises, qui fragmentent l'unité; mais il croit en ce qu'il appelle naïvement «la philosophie antédiluvienne»[9], révélation primitive dont le Livre de Job nous a transmis l'essentiel, et dont les prophètes, et Jésus-Christ lui-même ne sont que les porte-parole. Cependant tout le sens de cette révélation n'est pas exprimé encore; nous en sommes un déchiffrement de l'A B C; c'est en avant qu'il faut regarder avec espoir. Le règne de l'Esprit est à venir; l'homme, «en qui Dieu travaille», progresse lentement, mais sûrement; nous balbutions l'Evangile, dont nos descendants feront leur règle. Ayons donc bon courage et patientons. Chaque Révolution nous avance vers la Religion vraie. C'est pécher contre l'esprit que de douter de la destination sublime de l'homme: Enfants de six mille ans qu'un peu de bruit étonne, Ne vous troublez donc pas d'un mot nouveau qui tonne, D'un empire éboulé, d'un siècle qui s'en va; Que vous font les débris qui jonche la carrière? Regardez en avant, et non pas en arrière: Le courant roule à Jéhovah![10]. Toutes les idées de Lamartine sur la chose publique découlent de cette sagesse religieuse dont je viens de parler. Il entra dans la politique à plus de quarante ans. Il fut élu député en 1833, par la petite circonscription de Bergues, dans le Nord, alors qu'il se promenait en Syrie. Il avait donc médité déjà sur l'orientation de son époque, sur le sens des révolutions, sur les étapes nécessaires de la «caravane humaine» qui chemine guidée par Dieu[11]. Il apporta dans le tumulte des assemblées une ferme assise d'esprit, gain de la solitude. C'est là une préparation intérieure que les députés ne possèdent pas fort souvent. Lamartine amusa la Chambre par l'imprévu de ses principes; cela tranchait sur les ordinaires disputes d'avocats; ses discours étaient des intermèdes lyriques. D'ailleurs il se sentait lui-même tombé de quelque planète lointaine au milieu du marais parlementaire. «Je n'y resterai donc, si Dieu le permet, dit-il, que le temps strictement nécessaire pour ouvrir le premier sillon, formuler un symbole de bonne foi, d'indépendance des partis et de progrès moral; après quoi je rentrerai dans mon nuage»[12]. Vous savez que, s'il était prêt à quitter la politique, la politique ne le voulut pas quitter. Il y fut très original. Indépendant de tout, parcequ'il l'était de sa propre ambition, il signifia d'abord à ses électeurs qu'il entendait n'obéir qu'à sa conscience: un mandat lui ajoutait trop peu pour qu'il eût peur, en le perdant, de retomber dans le néant; les grandes places le tentaient encore moins: «Faire le serviteur pendant quinze ans pour obtenir de le faire le reste de sa vie en habit un peu plus brodé, cela me semble vraie folie»[13]. Il ne se souciait pas davantage de capter la popularité. «Pour parvenir à me faire comprendre, il me faut un an d'efforts pénibles et d'impopularité systématique. Je dois, pour chercher mon point d'appui hors des partis existants, dans la conscience du pays, commencer par blesser tous les partis en leur échappant»[14]. Ce n'est pas assez d'avoir l'amour de son indépendance, il en a l'orgueil. «Je prends en haine les partis après les avoir eus en mépris, et je veux désormais vivre, penser et mourir seul»[15]. Nul doute, Messieurs, qu'un détachement si évident ne soit la vraie façon d'imposer aux hommes et de les amener à soi. Citons cet exemple. En juin 1837, quarante-deux fabricants de sucre, gros électeurs de la circonscription flamande que Lamartine représente, l'invitent à conjurer l'impôt dont on menace leur industrie. Que va-t-il faire? «Je leur ai remis mon mandat de député en leur disant: ma conviction et ma conscience sont contre l'immunité et le privilège dont vous jouissez aux dépens du Trésor, des malheureux contribuables cultivateurs et des colonies. On vous doit un impôt.... — Après deux heures de discussion, ils en sont convenus et m'ont _à l'unanimité_ signé le mandat formel de voter et de parler pour un impôt»[16]. Voilà un trait assez rare dans l'histoire du régime représentatif: cette fois ce ne fut pas le gouvernement des supérieurs par les inférieurs. Lamartine se rend bien compte que son abnégation est sa force même. «Je n'aurais qu'à dire _oui_ pour être chef de deux-cents voix; mais je suis en secret chef de leur conscience»[17]. Et il s'émerveille de cet ascendant: «Tous les partis viennent à moi comme à une idée qui se lève»[18]. Il y avait une autre raison encore pour que l'on vînt à lui, c'est que sa politique était toute positive. Ecoutez-le: il affirme toujours, il ne réfute presque jamais: cela par principe autant que par tempérament. «J'adore l'indépendance; je déteste l'opposition. _Faire_ est l'œuvre du génie; _empêcher_ est l'œuvre de l'impuissance»[19]. Étranges discours que les siens; il néglige de répondre et de discuter; il passe au travers de la contradiction sans la voir. C'est qu'il ne l'a pas écoutée, étant occupé ailleurs, à déchiffrer la volonté actuelle de Dieu sur son peuple. Cela fait penser à cette inscription qu'on lit sur les navires: _Défense d'adresser la parole au pilote_. Comment les simples passagers oseraient-ils troubler de leurs avis celui qui domine et qui sait? N'a-t-il point une boussole? L'avenir prophétisé dans sa conscience le guide. Qu'il travaille avec les autres, c'est bien; mais les consulter sur ce qu'il faut vouloir est folie. C'est à lui de le leur apprendre. Ainsi quand le navire aux épaisses murailles Qui porte un peuple entier bercé dans ses entrailles Sillonne au point du jour l'océan sans chemin. L'astronome chargé d'orienter la voile Monte au sommet des mâts où palpite la toile, Et, promenant ses yeux de la vague à l'étoile, Se dit: «Nous serons là demain.» Puis, quand il a tracé sa route sur la dune Et de ses compagnons présagé la fortune, Voyant dans sa pensée un rivage surgir, Il descend sur le pont où l'équipage roule, Met la main au cordage et lutte avec la houle. Il faut se séparer, pour penser, de la foule Et s'y confondre pour agir[20]. Il continue donc, imperturbable, se réglant sur son itinéraire secret, entraînant ses compagnons de traversée. Et ceux-ci lui obéissent. Quelque chose en lui les subjugue. Quoi donc? La force de sa certitude intérieure. Une personne unifiée au dedans peut tout sur les autres. Dans les combats politiques, comme naguère dans la recherche de la vérité, comme jadis dans les déchirements de l'amour, Lamartine a su s'élever jusqu'à l'harmonie. Il a triomphé des contradictions internes qui font que les autres hommes sont faibles. J'ai comparé les périodes de sa vie aux phases d'un astre: chaque phase est complète; il ne se voue à la philosophie que quand il est quitte de la passion. Il n'aborde la politique qu'une fois délivré du doute philosophique, et sûr de ce qu'il croit. Sa conscience réconciliée, où Dieu règne, est invulnérable aux coups de la place publique, aux cris, aux mesquineries; il les traverse en souriant. Il s'avance au milieu des monstres rampants comme un Apollon libérateur, baigné d'une lumière dont le foyer est en lui. Joseph Mazzini, en comparaison, semble une divinité sombre et souterraine. Il n'est pas, dans Santa Croce, de monument plus austère, plus funèbre, que la plaque de bronze noir qui le commémore, près du fastueux cénotaphe de Dante; et c'est bien ainsi. Mazzini fait donc un parfait contraste avec la nature heureuse de Lamartine. Au reste, j'ai observé que presque tous les révolutionnaires, en Italie, ont deux caractères singuliers; ils sont hantés du passé, et ils sont tristes. Votre pays, ouvrage des hommes autant que de la nature, est comme baigné de regrets. Vos paysages sobres et presque intellectuels semblent se souvenir d'autrefois. Vos arbres mêmes ont une dignité de monuments. Toute l'Italie est un vaste camposanto; la roue des voiturins y roule dans l'ornière antique. L'idée même de l'Italie _une_ est une vieillerie, un legs que vos poètes se transmettent, de Virgile à Dante, de Pétrarque à Vittorio Alfieri, jusqu'à ce qu'elle devienne une actualité. Si Mazzini s'émeut jusqu'à défaillir en passant la _Porta del Popolo_, c'est qu'il entre au sanctuaire même de l'unité italienne, dans Rome, la capitale promise à l'avenir, qui est aussi le trésor de tout le passé. Là des fantômes inspirateurs se dressent de toutes parts: ce sont les tribuns de jadis, en particulier ce Cola di Rienzo, dont il est le successeur, et qui lui même avait prétendu relever la république de Brutus. Unité, liberté, voilà le double mot d'ordre que ces vieux irrédentistes ont imposé à leurs descendants; après des siècles, l'avocat génois se reconnaît pour leur exécuteur testamentaire. Pieux envers les ancêtres, il rêve de dresser sur le Monte Mario une image colossale de Dante, vers laquelle les Romains lèveront les yeux chaque matin pour faire leurs dévotions filiales. Ainsi de tout révolutionnaire italien: en même temps que novateur, il est restaurateur. Et cela nous surprend un peu, nous autres Français, qui marchons droit à l'avenir sans nous demander de qui nous sommes fils. J'ajoute que les révoltés de votre nation paraissent tristes. Comparez, s'il vous plaît, à la gaillardise de Martin Luther l'âpreté douloureuse de Savonarole. Vos hérésiarques ont un air prométhéen, tendu et tourmenté. Mazzini les continue, avec son éloquence chauffée au rouge sombre, et son visage tel que vous le voyez sur les lithographies, crispé par l'effort. C'est, je crois, que votre nation étant la plus sociable de toutes, l'italien isolé se sent arraché à sa nature vraie. Les visages souriants lui manquent cruellement: il ne se passe pas volontiers de serrements de mains et d'embrassades. Les contemporains de Mazzini ont eu de lui l'impression que je viens de dire. Ils le trouvèrent morose, et avec raison. Mais où ils se trompèrent, ce fut en le croyant ténébreux par goût, haineux et démoniaque. Massimo d'Azeglio et Montanelli lui font un autre reproche encore: ils le regardent comme un déclamateur, un conspirateur d'_opera seria_, qui se complaît aux intrigues masquées. Ces deux vues ne sont pas justes. Après sa mort (survenue le 10 mars 1872) on put enfin recueillir sur lui le témoignage décisif, celui de sa propre correspondance. Cinq recueils en ont été publiés déjà; les lettres à sa mère, précieuses entre toutes, seront connues bientôt, j'espère. Eh bien, ces documents sincères dévoilent un autre Mazzini, aussi grand que celui de la légende, mais déraidi, dont la férocité recouvre une tendresse franciscaine: un ami des femmes et des enfants, presque un enfant lui-même, incompris et timide; un bon _frate_ mélancolique sous une cape de brigand. Il avait authentiquement l'âme grande et pure. Thomas Carlyle, maître-expert en héroïsme, qui le vit de près à Londres, écrivait dans le _Times_ du 15 juin 1844: «J'ai eu l'honneur d'être en relations avec M. Mazzini pendant maintes années, et, quoi qu'il y ait peut-être à dire à son bon sens pratique et à son jugement dans les choses banales et de tous les jours, je peux toutefois reconnaître publiquement qu'il est le seul homme génial et vertueux que j'aie connu, homme vraiment sincère, noble, humain, comme par malheur il ne s'en trouve guère, digne enfin d'être appelé âme de martyr.» Ceci est une appréciation exacte. Mazzini fut un martyr, un héros qui n'a pas donné sa mesure, et dont la destinée fut constamment étranglée. Comptez un peu les contradictions qu'il y eut entre sa nature vraie et le rôle auquel il se condamna, ou fut condamné. J'ai essayé de le faire, et je me suis senti pris, pour lui, d'une très grande pitié. D'abord, voici un cœur doux, tendre et enfantin, qui voudrait sympathiser même avec les passants dans la rue: c'est un excellent correspondant pour les petites jeunes filles, qui lui brodent des bourses et à qui il envoie des _vergiss-mein-nicht_; dans ses cadeaux et ses surprises il met la grâce ingénieuse des Italiens; — et il s'est dressé comme un dogue de combat; il a l'air de haïr: il prononce du moins des paroles de haine, et il trempe dans des crimes, par amour. Deuxième contradiction: il a la fièvre d'agir, il déclare qu'il donnerait Machiavel, Tacite et tous les livres «pour une ligne d'action[21],» que l'action seule rend à l'homme son équilibre; il se donne pour «enseigner le culte déserté de la Sainte Action;» — et avec cela, il est parfaitement incapable d'agir. (Rappelez-vous la piteuse expédition Ramorino). Il est en effet doué, à un degré éminent, du courage de subir, assez commun chez les rêveurs; mais très-peu du courage d'entreprendre, lequel en est fort différent, au point qu'il se compose pour une bonne part de l'impuissance de subir. Dès qu'il a mis la main à quelque entreprise, il se prépare à payer cette audace en souffrance; on dirait qu'il ne soulève cette croix, de l'action, que pour rendre son propre calvaire plus méritoire; il n'a ni la confiance, ni peut-être le très vif désir de réussir, Autre contradiction: il voudrait conduire les hommes en les aimant et s'en faisant aimer; or, loin de savoir leur faire épouser sa pensée, il est dans l'impossibilité de se faire entendre d'eux. Il en gémit: «_Come poco indovinano gli uomini le condizioni dell'anima altrui!_» Il faut qu'il renonce à communiquer sa conviction, c'est-à-dire, ou qu'il doute de lui-même, ou qu'il méprise les autres. Il aime mieux ne pas voir son isolement; il feint d'être entouré d'un cercle nombreux de partisans dévoués. Montanelli dit joliment: «Mazzini écrit, au pluriel, _nous pensons_, _nous croyons_. Qui pense? Qui croit? Mazzini tout seul.» C'était vrai, et parfois l'apôtre au cœur chaud en était tout transi. «Mon étoile, dit-il amèrement, c'est Sirius, le grand Chien: métier d'aboyeur, sans être généralement écouté.» Vous dirai-je les autres discordances de cette destinée malheureuse? Il eut, comme nous l'avons noté, l'amour et la dévotion du passé, — et il dut s'associer avec des révolutionnaires positifs et grossiers, déracinés de toute tradition; — c'était une âme profondément religieuse, et il fut conduit à être l'organe d'un parti de complète négation; il fut accolé même quelque temps avec le grand destructeur russe Bakounine, dont il avait horreur et qui le raillait comme un bigot timoré. Enfin il eut le cuisant mécompte que ce défaut de coïncidence entre l'homme qu'il s'efforçait d'être, et l'homme qu'il était naturellement, défaut de coïncidence dont il éprouvait un vrai chagrin, ait été aperçu de ses contemporains, en sorte qu'ils le soupçonnèrent de jouer un rôle et de viser à l'effet..... Au fond, il y eut bien quelque chose de cela, vers la fin de sa carrière. Il se sentait noble et pur, il se voyait méconnu. Il se renferma donc dans son isolement hautain, ne s'entourant plus que des morts, ou bien d'enfants qui ne le questionnaient pas. Il renonça sincèrement à tout bonheur, et, comme il professait d'ailleurs que la vie est une mission à nous confiée par Dieu, il eut l'orgueil de se répéter qu'il s'en était acquitté sans salaire, et qu'il le préférait. Âme candide, âme dolente, dont la très haute vie fut un Purgatoire. Nous comprenons maintenant combien véridique était son cri: «La désharmonie entre mon âme et tout ce qui est en dehors m'écrase»[22]. La _désharmonie_; voilà le mot sur lequel il faut rester. Aucun autre ne marquerait mieux le contraste avec l'esprit de Lamartine, qui justement, ne pouvant vivre que dans l'harmonie, se haussa toujours jusqu'à la sphère où elle réside. Cet exemple de Mazzini montre clairement où en arrive l'homme qui consulte seulement ce qu'il veut, seulement les ordres de Dieu, et non ce qu'il peut, selon sa faible et humaine nature. II. Cependant nous allons trouver que ces deux esprits opposés se sont fait une conception identique des devoirs et des vrais intérêts du peuple. N'essayons pas de présenter cette pensée dans l'ordre où, historiquement, ils la formèrent, par le double travail de leur réflexion et de leur expérience. Tâchons plutôt de la construire logiquement; et d'abord cherchons-en la vraie base. Cette base n'est point politique. Elle se trouve au fond de la conscience de tout homme qui s'examine seul dans sa chambre. Ainsi l'ordre politique repose sur quelque chose qui le dépasse, et qui est intérieur. Les vérités politiques ne sont que dérivées; ruineuses si on les prend pour absolues, elles deviennent solides aussitôt qu'on les appuie à une philosophie de la vie et de l'histoire, établie d'autre part. Là-dessus Lamartine et Mazzini sont unanimes. «Je pars d'abord d'un principe religieux, dit le premier; il faut que vous me le permettiez; car sans cela je ne puis pas et je ne sais pas raisonner»[23]. — «Mon but dans ce livre, dit à son tour le second, a été de vous présenter les principes qui doivent vous guider et vous aider à résoudre vous-mêmes toutes les difficultés politiques.... Je vous ai conduits à Dieu, comme à la source du devoir et à l'instituteur de l'égalité entre les hommes; à la loi morale, comme à la source de toutes les lois civiles....»[24]. Enfin le mot apostolique de Lamartine à Pelletan: «Venez diriger la république dans le sens de Dieu et du Peuple»[25] répète exactement la devise de Mazzini: _Dio e Popolo_. Quelle est donc cette vérité d'un ordre différent et supérieur d'où toute la politique dépend? C'est celle-ci: que Dieu continue sa création dans l'homme; nous appelons Providence cette force, à la fois latente et manifeste pour qui regarde bien, par laquelle il agit dans chaque homme et dans chaque peuple, en les poussant à l'affranchissement. La tyrannie vient de la brutalité ancestrale qui reste encore en nous et qui lentement s'élimine. L'origine de l'inégalité et de l'iniquité est là, dans notre nature inférieure, qu'il faut laborieusement dépouiller et nullement dans la civilisation, quoique Rousseau en ait pensé. La passion de dominer, d'usurper, de contraindre, est un legs de l'animalité en nous; — et ici la doctrine de nos grands romantiques s'encadre fort bien dans la théorie générale de l'évolution, que la biologie de notre temps a popularisée. — Or la volonté positive de Dieu, sur nous est _que nous devenions saints_, comme le dit Saint Paul, c'est-à-dire, moralement et politiquement parlant, que nous devenions libres. Dieu travaille en nous à la façon d'un ferment, et toujours dans ce même sens. Les révolutions, dont les gens à courte vue s'effarent, ne sont que les poussées de cette fermentation dans les peuples. C'est toujours Dieu qui nous veut obliger à nous rendre libres. Parmi ces révolutions, il en est de brusques, qui se précipitent coup sur coup, comme on l'a vu au I^er siècle, au XV^e, à la fin du XVIII^e; c'est ce que Lamartine appelle superbement des «sommations de Dieu.» Deux des plus frappantes sont la révolution chrétienne, qui annonça l'Evangile, et la Révolution française, qui décida que les hommes n'auraient plus d'autre maître que la loi. Ces révolutions successives, loin de se contrarier, poussent l'humanité dans une direction constante: toujours vers la liberté. Ainsi le mouvement qui produisit l'abolition de l'esclavage, puis du servage, poursuit ses applications sous nos yeux, en sorte que rejeter, par exemple, l'apport de la Révolution française, c'est, du même coup, protester dans le passé contre la libération des esclaves. Toute réaction est donc impie, puisque Dieu est l'éternel révolutionnaire et veut sans trêve faire toutes choses nouvelles. «Je deviens de jour en jour plus intimement et plus consciencieusement révolutionnaire, écrit Lamartine à son ami Virieu[26]; je médite sans cesse à genoux et devant Dieu, et je crois qu'il faut que nous et ce temps-ci, nous servions courageusement la loi de rénovation.» Mais, en même temps qu'irréligieuses, les réactions sont vaines. L'erreur se dénonce d'elle-même: la société où elle est introduite devient invivable, et elle périt violemment. La volonté de Dieu, si on s'obstine contre elle, se fait orage et torrent. Ainsi jamais on ne peut remonter le cours des temps; il est même niais de l'essayer. L'histoire est justement ce qui n'arrive pas deux fois. Elle s'avance pas à pas, constamment nouvelle. Mais la plus pernicieuse erreur des idolâtres du passé est de prétendre retourner en arrière au-delà du Christ. Le Christ est le maître et le départ des modernes. Ce qui ne veut pas dire que son action se soit établie déjà, ou qu'elle s'établisse aisément dans la société, ni dans l'âme. Le paganisme, si mort qu'il semble, doit encore être tué en nous. Les matérialistes, les nouveaux épicuriens, les utilitaires, dont Bentham, odieux à Mazzini, est le représentant, ramènent le paganisme encore; ils prêchent le bien-être individuel et font tourner tout le reste autour de cette recherche, ce qui fut l'illusion de l'antiquité. Ils sont les plus aveugles des réactionnaires. Or les partis prétendus révolutionnaires de notre âge, dirigés par Saint-Simon ou Fourier, Blanqui ou Louis Blanc, se sont également fourvoyés dans cette impasse. D'où il suit que leurs revendications n'aboutiront pas; ils n'obtiendront qu'un déplacement de la tyrannie et du malaise, un despotisme retourné, comme le Comité de Salut Public pratiqua exactement, en sens inverse, le même arbitraire que Louis XIV. «On est sur terre pour jouir le plus possible,» voilà l'erreur fondamentale, le piétinement dans le paganisme, condamné, non par la conscience seulement, mais par l'expérience de l'histoire. Jésus a donné à la vie humaine une autre fin, sa fin vraie, par la parole inoubliable «Que ton règne arrive!» — Oui, que le règne de Dieu arrive, ou, en d'autres termes, que la justice et la fraternité deviennent réelles; c'est à quoi toute la vie doit servir, la vie des peuples comme celle des individus; là est son sens et sa valeur, là est son bonheur même. «Nous devons tous et chacun, déclare Mazzini, diriger nos efforts afin que tout ce qu'il nous est donné de comprendre du _royaume des cieux_ puisse se traduire en réalité sur la terre»[27]. Aussi ne veut-il point qu'on abandonne le culte de la croix. «La Croix, ajoute-t-il, comme symbole de la seule vraie, immortelle vertu, — le sacrifice de soi-même pour le bien d'autrui, — pourra sans contradiction s'élever même sur le tombeau de tous les croyants de la nouvelle foi»[28]. Entendez bien: comme symbole du dévouement à tous, et non pas au sens égoïste encore où l'entend le dévot qui subordonne tout le reste à son salut personnel, se souciant peu que le monde soit injuste et malheureux, pourvu que lui échappe à la damnation. L'égoïsme, sous ses formes grosses et sous ses formes subtiles, est en effet l'ennemi juré de la démocratie, le seul qui la puisse perdre. Et la seule révolution effective sera la révolution profonde, encore à faire, celle qui l'aura déraciné. Précisément pour cela, la république démocratique, ou gouvernement mutuel, fraternel, qui ne subsiste point par la contrainte extérieure, mais par la maîtrise que chacun exerce librement sur soi au bénéfice des autres, est chérie et voulue de Dieu. Le christianisme traduit en institutions, cela est la république. Comme celle-ci est le règne de l'esprit, l'homme religieux est naturellement républicain. Si la Providence mène en réalité l'histoire, ainsi que Lamartine et Mazzini le croient, cette république démocratique sera l'aboutissant de toutes les autres formes de gouvernement. Comment se fera ce passage? Nul homme ne peut le dire. Et c'est parceque la voie en est mystérieuse qu'il ne faut jamais, à aucun prix, sacrifier la liberté, qui est la remise à Dieu du choix de ses moyens. Restreindre les énergies de celui-ci ou de celui-là, supprimer des possibles, alors que l'esprit _souffle où il veut_, c'est usurper sur Dieu. Lamartine a très bien formulé cette conception profonde de la liberté politique: «Je veux la liberté et l'égalité intellectuelles absolues pour et contre moi. Je ne veux pas mettre mon poids peut-être faux ou rogné dans la balance. Je ne veux pas mettre une pierre sur la route libre et sans terme de l'avenir»[29]. Et voilà pourquoi tout privilège doit être écarté, voilà pourquoi il ne faut nulle entrave sur la pensée ou sur la parole. Mazzini est d'accord avec Lamartine, puisqu'il fait consister la révolution essentielle, la révolution qui est à faire, en la déchéance définitive de la _raison d'Etat_, la raison d'Etat de Louvois et de Bismarck, mais aussi la raison d'Etat des Jacobins. Au reste, il faut se garder que le libéralisme lui-même s'érige en idole, comme si la liberté politique était une fin; alors elle tournerait bien vite à l'émiettement, à l'anarchie, à l'écrasement des faibles. «La liberté est conquise, écrit Lamartine, elle est assurée, elle est inviolable, quels que soient le nom et la forme du pouvoir; mais la liberté n'est pas un but, c'est un moyen. Le but, c'est la restauration de la dignité et de la moralité humaines dans toutes les classes dont la société se compose; c'est la raison, la justice et la charité appliquées progressivement dans toutes les institutions politiques et civiles»[30]. Pour en venir à la pratique, il est deux moyens d'action compatibles avec la liberté: l'_éducation_ et l'_association_. Mazzini vieux, comme Lamartine, se contente décidément de ceux-là. Elever les enfants, autrement dit, les délivrer de leur amour propre pour y substituer l'amour des autres et de la communauté, voilà l'œuvre par excellence qui fondera la république. Aussi les instituteurs sont-ils les ouvriers nécessaires de cette révolution que Lamartine attend; et il rêve une «association libre, pour la direction religieuse, morale et politique de l'esprit des instituteurs dans la République»[31]. Mazzini à son tour s'est fait maître d'école; et j'ai visité, dans le Transtevere, un établissement populaire d'éducation où l'on enseigne à des enfants d'ouvriers un catéchisme spiritualiste tiré de ses livres. L'_association_, pour les adultes, est un moyen merveilleux: ils s'apprennent par elle à coopérer, à dépasser les fins individuelles, et à jouir de se sentir peu de chose, au service de quelque chose de grand. Je dois le dire; Lamartine était trop improvisateur, il avait l'imagination trop paradisiaque pour apercevoir les difficultés extraordinaires de cette tâche; il se contente de la voir en perspective, comme une allée un peu montante, mais agréable. En somme il ne s'agit de rien de moins que de faire l'homme à nouveau. Mazzini, moins heureux et qui a lutté davantage, connaît mieux les résistances féroces de l'égoïsme. C'est lui qu'il faut écouter ici. Il sait, et il ne dissimule pas, qu'il faudra déchirer et fouiller la nature, en son fond; qu'il faudra aller jusqu'à l'ascétisme. A cette profondeur seulement les germes vivaces de l'égoïsme seront atteints, la vie pour les autres apparaîtra comme le salut, et la première substruction de la république sera bien assise. «Je crois, dit-il[32], que nous ne pourrons jamais rendre l'homme plus digne, plus aimant, plus noble et plus divin — ce qui est notre fin et notre but sur la terre — en nous contentant d'entasser autour de lui des moyens de jouissance, et en lui proposant pour but de la vie cette ironie qu'on appelle _le bonheur_.... Ouvriers mes frères, comprenez-moi bien: les améliorations matérielles sont indispensables et nous lutterons pour les obtenir, non pas parceque la seule chose nécessaire à l'homme est d'être bien logé et bien nourri, mais parceque vous ne pouvez pas avoir conscience de votre propre dignité ni vous développer intellectuellement tant que vous êtes absorbés, comme aujourd'hui, par la lutte incessante contre le besoin et la pauvreté. — Vous travaillez dix ou douze heures par jour, comment trouverez-vous le temps de vous instruire? Le plus grand nombre d'entre vous gagne à peine de quoi subvenir à ses besoins et à ceux de sa famille, comment vous procurer les moyens de faire votre éducation?... La pauvreté vous empêche souvent d'obtenir justice comme les hommes des classes plus élevées, comment apprendrez-vous à aimer et à respecter la justice? — Il est donc nécessaire que votre condition matérielle s'améliore pour que vous puissiez progresser moralement. Il faut que vous receviez un salaire qui vous permette de faire des économies, de manière à vous rassurer sur l'avenir et, par dessus tout, il faut purifier vos âmes de tout sentiment de révolte et de vengeance, de toute pensée injuste à l'égard de ceux-là même qui ont été injustes envers vous. Vous devez lutter pour obtenir toutes ces améliorations dans votre situation, et vous les obtiendrez, mais recherchez-les comme des moyens et non comme le but; recherchez-les par sentiment du devoir et non pas seulement du droit.... Si vous n'agissez pas ainsi, quelle différence y aura-t-il entre vous et ceux qui vous ont opprimés? Ils vous ont opprimés justement parcequ'ils ne recherchaient que le bonheur, la jouissance et la puissance.... Un changement d'organisation sociale aura peu d'effet tant que vous conserverez vos passions et votre égoïsme....» Jamais, je crois, aucune doctrine politique ne fut empreinte d'une telle grandeur morale. Celle-ci est vraiment une application de l'Evangile. La vertu se présente comme la seule chance de réussite dans les faits, comme la nécessité première dont rien ne dispense. Il faut que l'humanité s'apprenne à passer par la porte étroite. La république sera religieuse, ou elle succombera. De ces principes généraux dérivent des programmes d'institutions ou de réformes. Je n'entre pas dans le détail, où nos guides quelquefois se sont fourvoyés. Il me suffit d'avoir exposé leur thèse en ce qui demeure, et je crois l'avoir fait fidèlement. III. Cette politique est _radicale_, au sens étymologique du mot, c'est-à-dire qu'elle pousse ses racines jusqu'au fond de la pensée, et s'attache à la réalité suprême. Les personnes qui n'ont absolument point de besoins religieux ne la comprendront guère. Et, chez nos politiques d'à présent, en particulier chez nos politiques radicaux, les besoins religieux semblent faibles. Aussi cette conception des deux fiers romantiques a-t-elle reculé loin dans le passé. Je n'ai pas d'autorité pour la juger, ni même pour la louer. J'observe seulement qu'on ne lui oppose point qu'elle est fausse, mais qu'elle est chimérique. Lamartine, George Sand, Michelet, Barbès, Mazzini attendaient trop de l'homme, lui demandaient trop. Ils l'ont cru capable de se conduire; l'expérience fait voir qu'il en faut rabattre. Leur morale démocratique est trop escarpée décidément, et bonne pour des saints vivant en chartreuse. L'optimisme de ces «vieilles barbes de 48» a donc paru d'une présomption extrême. Les théoriciens plus récents, qui ont regardé l'homme du point de vue de la zoologie, les dédaignent. Taine et Sumner Maine ont traité rudement ces rêves de gouvernement populaire; ils ont estimé que les principes de la Révolution française ne furent rien qu'une bravade puérile contre l'irrésistible nature, laquelle asservit l'animal humain à son estomac, à son appétit de pouvoir et de lucre. Des partis se sont formés et entrechoqués, divers en apparence, identiques dans le principe (qui est toujours, ici et là, le matérialisme politique) d'une part le _collectivisme_ marxiste; d'autre part le _jacobinisme_ à la façon de Robespierre; puis le _cléricalisme_ qui, psychologiquement, suppose la même structure d'esprit; enfin le _bismarckisme_, ou politique des résultats, avec l'_opportunisme_ ou politique des expédients, entre lesquels, au fond, il n'est point d'autre différence que celle du tempérament des hommes, poignet de fer ou bras de coton. La _raison d'Etat_, odieuse à nos idéalistes de 1848, n'a pas fini de régner. Il n'est point de gouvernement ni de secte qui n'ait apporté son encens à ce Baal-Moloch. Nous voyons de nos yeux où cette orientation nouvelle nous a menés. Les luttes des classes se sont exaspérées, les ouvriers ont dû arracher leur pain du jour par la menace ou la violence; l'envie de déposséder les heureux a ramassé le vieux masque des proscriptions religieuses du XIV^e siècle contre le Juif; les catastrophes financières se sont multipliées; les Etats se sont entre-regardés en serrant les poings; un militarisme exténuant, jusqu'à l'impossibilité matérielle de subsister, a fondé, dans chaque nation, la prééminence de la caste guerrière sur la peur même de la guerre; la possession peu sûre du pouvoir est devenue une sorte de ferme à exploiter hâtivement, et les Parlements se sont ouverts, comme des foires permanentes, au trafic des faveurs et des votes; à fréquents intervalles, des scandales irrépressibles laissent entrevoir une corruption profonde sous la croûte mince des hypocrisies officielles.... Apparemment, il s'est commis une erreur quelque part, et, comme chaque parti politique, à tour de rôle, s'est montré infirme autant que les autres, il faut croire que cette erreur a vicié notre commune éducation. Je dirais qu'à droite comme à gauche nos politiques ont tous une même philosophie empirique — opposée à celle de Mazzini et de Lamartine, — s'il n'était manifeste qu'ils se vantent de n'en avoir aucune. Ce sont des spécialistes. L'administration des Etats est devenu un commerce, avec ses risques professionnels et ses bénéfices. Le gouvernement ne s'inspire d'aucune philosophie. Il ne vise plus à orienter les hommes dans le sens où Dieu les appelle. Et les hommes ne lui demandent que de leur garantir leur pain du jour. Voilà, peut-être, où gît l'erreur. Peut-être devions-nous, en effet, demander plus, demander trop à notre infirme nature, pour en obtenir assez. Peut-être faut-il à présent retourner vers les sommets de la discipline spirituelle. Ces sommets sont âpres sans doute, _aria peragro loca_: mais c'est là-haut seulement que l'action a sa source. J'ai achevé, Mesdames et Messieurs, du mieux que j'ai pu, la tâche que je m'étais tracée. Tâche un peu lourde pour vous, que ce sujet austère n'a pas délassés; mais aimable pour moi, car c'est un profit de ressaisir les conceptions élevées de ces deux politiques démodés; et ce m'est une douceur de rapprocher fraternellement devant vous la pensée d'un Italien et celle d'un Français. Un mot encore. Le 27 mars 1848, Alphonse de Lamartine, qui se trouvait alors Ministre des Affaires étrangères dans le gouvernement provisoire de la République française, reçut à l'Hôtel-de-ville de Paris une députation de volontaires italiens, conduite par Joseph Mazzini. Dans cette rencontre mémorable, le grandhomme de chez nous dit au grand homme de chez vous: «Et moi aussi, je suis un enfant, un enfant d'adoption de votre chère Italie.... Votre soleil a échauffé ma jeunesse et presque mon enfance. Votre génie a coloré ma pâle imagination; votre liberté, votre indépendance, ce jour que je vois enfin surgir aujourd'hui, a été le plus beau rêve de mon âge mûr... Allez dire à l'Italie qu'elle a des enfants aussi de ce côté des Alpes! Allez lui dire que si elle était attaquée dans son sol ou dans son âme, dans ses limites ou dans ses libertés, que si vos bras ne suffisaient pas à la défendre, ce ne sont plus des vœux seulement, c'est l'épée de la France que nous lui offririons pour la préserver de tout envahissement! Et ne vous inquiétez pas, ne vous humiliez pas de ce mot, citoyens de l'Italie libre!... Nous ne voulons plus de conquête qu'avec vous et pour vous: les conquêtes pacifiques de l'esprit humain. Nous n'avons plus d'ambitions que pour les idées. Nous sommes assez raisonnables et assez généreux sous la république d'aujourd'hui, pour nous corriger même d'un vain amour de gloire.»[33] Ce discours n'était pas frivole: l'événement l'a fait voir. Cinquante-et-un ans après, j'ai voulu le répéter ici, en symbole de ma reconnaissance pour votre accueil, et de ma foi en la coopération fraternelle des peuples. INDICE A sedici anni sulle barricate di Milano Pag. 5 Venezia nel 1848-49 43 Volontari e regolari alla prima guerra dell'indipendenza italiana 81 La démocratie spiritualiste selon Mazzini et selon Lamartine 125 NOTE: [1] LEOPARDI in _Parini e la gloria_. [2] Ecrit qu'on peut lire au vol. VII, pag. 275, de l'édition romaine des _Œuvres_ de Mazzini. Il en a été donné une traduction française à la fin de la Biographie de Mazzini, par M.^me Ashurst Venturi (trad. par M^me E. de Morsier, Paris, Charpentier, 1881), p. 185. [3] Voy. la _Correspondance de Lamartine_ (éd. en 4 vol. in 12), t. IV, p. 247, 248. Le discours est reproduit dans la _France parlementaire_, t. V, p. 27. [4] Correspondante aussi de Mazzini. Voy. les _Lettres_ de ce dernier à _Daniel Stern_. Paris, Germer Baillière, 1873. [5] _Correspondance_, III, p. 384; IV, p. 18; III, p. 325. [6] _Novissima verba_, dans les _Harmonies_. [7] _Novissima verba_, dans les _Harmonies_. [8] _A M. De Genoude, sur son ordination_, dans les _Recueillements_. [9] _Job lu dans le désert_. — _Cours de littérature_, 1856. Voyez les _Fragments du livre primitif_ (_Chûte d'un Ange, vision_ VIII). [10] _Les Révolutions_. L'idée de cette pièce est énoncée déjà dans deux lettres à Virieu, des 30 janvier et 7 février 1831. — _Correspondance_, III, p. 229-232. [11] Dans _Jocelyn_ (1836); huitième époque. Le poème est presque achevé en février 1834, quand le poète se met à son nouveau métier d'orateur politique. [12] _Corresp._, III, p. 320. [13] _Ibid._, p. 69. [14] _Ibid._, p. 328. [15] _Corresp._, III, p. 219. [16] _Ibid._, p. 423. [17] _Corresp._, IV, p. 22. [18] _Ibid._, III, p. 348: «Tout afflue à la _vérité vraie et non conventionnelle où je me suis placé_.» Voyez IV, pag. 24. [19] _Ibid._, III, p. 378. [20] _Utopie, à M. Bouchard_, dans les _Recueillements_. [21] _Lettres à Daniel Stern_, p. 36. — Cf. p. 27. [22] Lettre à M.^me I... de Lausanne (1837) publiée par M.^lle D. Melegari. [23] _Conseiller du Peuple_, I, p. 227-228. [24] _Devoirs de l'homme_, X. [25] Lettre du 21 mars 1848. [26] Lettre du 1^er octobre 1835. — _Corresp._ III, p. 377 [27] _Aux membres du Concile Œcuménique siégeant à Rome_, VI. [28] _Ibid._ V. [29] _Corresp._ III, p. 405. Lettre du 30 octobre 1836. [30] _Ibid._ p. 402. [31] _Conseiller du peuple_, I, p. 266, 273. [32] _Des devoirs de l'homme_; trad. à la fin de la biogr. de Mazzini (voy. ci-dessus), p. 383 et suiv. [33] _Trois mois au pouvoir_, par M. DE LAMARTINE, p. 143, 146. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte II, by Various *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 51463 ***