*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 46352 ***

GLI ULTIMI GIORNI DI GOLDONI


LE

COMMEDIE

DI

VALENTINO CARRERA

..... Se voeren sti poetta

Ciappottan i passion, moeven el cœur,

Hann de toccann i tast che ne diletta,

Ciapann, come se dis, dove ne dœur;

Senza andà sui baltresch a tirà a man

I coregh e i scuffion gregh e roman!

Carlo Porta.


VOLUME PRIMO


TORINO
TIPOGRAFIA L. ROUX E C.
1887


L'editore e l'autore, osservati tutti gli obblighi, intendono di fruire di tutti i diritti della proprietà sia per la riproduzione e la traduzione, che per la rappresentazione.

(918)


INDICE

NOTIZIA
ATTO PRIMO
INTERMEZZO
ATTO SECONDO


[201]

GLI ULTIMI GIORNI DI GOLDONI

COMMEDIA IN DUE ATTI ED UN INTERMEZZO

[203]

NOTIZIA

Dacchè l'autore, in una sua gita a Parigi per indagare qualche cosa sugli ultimi giorni del Goldoni e la sorte della vedova, aveva sentito la contessa D'Agoult ricordare d'avere più d'una volta nella sua adolescenza sentito a dire in casa, da testimoni del Terrore, che Carlo Goldoni era proprio morto «dans la plus affreuse des misères dans un galetas», un vivo desiderio lo aveva sempre tormentato, quello di vendicare, bene inteso coll'arte che gli era consentita, l'indegno abbandono in cui gli italiani avevano lasciato morire il più comico e spontaneo di tutti i commediografi, e di rendere nello stesso tempo omaggio alla memoria serena e pia della moglie Nicoletta Conio da Genova, e del nipote Antonio di Giovanni Goldoni.

Ma non gli si era mai offerto il destro di porre in atto il suo onesto desiderio, quando sul finire del 1880 venne in mente al ch. prof. E. D. Müller di suggerire a Cesare Rossi direttore della Compagnia drammatica della città di Torino, ed uno dei pochissimi attori che conservino la tradizione goldoniana, di commettergli una commedia che avesse per soggetto la morte del nostro maggior poeta comico.

L'impresa tornava onorevole quanto era ardua; [204] ma l'autore non avrebbe forse accettato l'invito senza la speranza che il riverente antico affetto e la sempre maggiore ammirazione potessero inspirargli quanto chiedere non poteva all'ingegno; senza la lusinga non nuova, che la viva intelligenza di Cesare Rossi e lo zelo dei suoi compagni avrebbero sopperito alle troppe lacune con quelle infinite finezze e malizie dell'arte che si possono qualche volta accennare, ma non mai scrivere, e spargono tanto barbaglio di luce nella divina arte di far rivivere sulla scena un uomo ed un'epoca... La commedia, scritta di getto, venne letta, e il Rossi soddisfatto volle che il battesimo avesse luogo in quel teatro Goldoni di Venezia, così ricco di memorie goldoniane, dal primo monumento che si sia eretto al poeta dai suoi concittadini, al ricordo posto a quella insuperabile attrice in dialetto veneziano che fu Marianna Morolin, creatrice vera di parti e di scrittori e pure modesta, non veneziana e pure ammiratissima; dal numero di commedie dell'avvocato veneziano che videro per la prima volta la scena su quel palco, al pubblico intelligente, custode del buon gusto e della nostralità della commedia, uno dei pochissimi nemici di ogni altra ibrida forma.

L'autore della commedia, con quel soggetto, con quella rivendicazione, dinnanzi a quel pubblico, in quel teatro, era tutto uno spasimo d'ansietà e di paure. Ma Gli ultimi giorni di Goldoni erano messi su con mirabile cura e precisione di scene, di mobili e d'abiti; ma la parte di Goldoni era sostenuta, e con quali spalle, da Cesare Rossi insuperato finora nella trasmissione degli affetti; quella di Nicoletta da Teresa [205] Bernieri; da Claudio Leigheb quella di Battistino; dal povero Arturo Diotti quella di Antonio, e Flavio Andò aveva voluto concorrere alla festa assumendo la parte dello Chénier, come Antonio Colombari quella di Balletti... Quale meraviglia se la sera del 30 marzo 1881 la commedia tornò gradita nella stessa Venezia, come poi nelle altre città, e con tanto accordo di indulgenza che arrivata a Torino fu ritenuta degna di raccogliere il premio drammatico che dava per l'ultima volta quel Comune? Erano in tanti a metterci il meglio del loro ingegno e della loro esperienza! E si trattava di Goldoni, di cui basta pronunziare il nome sempre più luminoso perchè tosto se ne irradii qualche cosa della sua amabile indulgenza, giocondità e cortesia.

[206]

INTERLOCUTORI

CARLO GOLDONI.
NICOLETTA, sua moglie.
ANTONIO, nipote di Carlo.
GIUSEPPE CHÉNIER.
BATTISTINO STUCK, Comici italiani al servizio del Re di Francia, pensionati.
SUSANNA BERTINAZZI,
MARIA FARINELLI,
BALLETTI,
GANDINI,
MATTIUZZI,
PIERINA, serva di casa Goldoni.
ROSALIA FARINELLI, maestra di musica.
M. G. RICCOBONI, già attrice e poi scrittrice
RINALDI, professore di lingua italiana.
EMILIA RINALDI, sua moglie.
AGIRONI, farmacista.
LEGENDRE.
BOUCHARD.
Un COMMISSARIO di polizia.
Due agenti di polizia.

L'azione nel 1º atto e nell'intermezzo in casa di Goldoni, a Parigi, in via Richelieu, il 22 settembre 1792; nel 2º in una soffitta in via Mauconseil, il 6 febbraio 1793.

[207]

ATTO PRIMO

In casa di Goldoni, via Richelieu, presso il Palazzo Reale. Sala arredata signorilmente secondo lo stile di Luigi XV; ma la mobilia dimostra di avere giusto i suoi trent'anni, per quanto conservata da una buona massaia. In fondo, ai due lati d'una porta che è la comune, due stipi, sopra uno dei quali c'è un busto di Molière fra due vasi di fiori, sull'altro un orologio a pendolo fra due candelieri: sulla scena, a destra dell'attore, un canapè fra due seggiole; a sinistra fra una seggiola ed un seggiolone, un tavolino sul quale ci sono dei libri, un campanello e l'occorrente per iscrivere. Tanto il canapè che il tavolino sono difesi da due paraventi, la cui intelaiatura è coperta d'antica stoffa di colore oscuro ed a disegno chinese. Cinque porte: la comune, come si è detto, nel mezzo in fondo, e quattro laterali; quella al proscenio a destra scorge alla camera da letto di Carlo ed Antonio, e quella a sinistra pure al proscenio alla stanza della signora Nicoletta e di Pierina. Delle altre due quella a destra scorge ad un salotto, e l'altra alla stanza di Battistino. Tra le due porte a sinistra, addossato alla parete e colla tastiera verso il fondo, un cembalo a mezza coda: alle pareti in fondo, sugli stipi, le specchiere dell'epoca; sul tavolino un tappeto, alle porte delle tende, e sull'impiantito una tela di colore oscuro ed unito. È giorno.

SCENA I.

All'alzarsi del sipario suonano le nove al pendolo: ANTONIO, col cappello alla Franklin in capo ed una mazza in mano, entra in iscena con premura dalla destra; quindi a suo tempo BATTISTINO dal fondo, pure con cappello e mazza che depone sulle seggiole.

Ant. (entrando). — Lo zio fa la sua toeletta e non esce di camera per un'altra mezz'ora... se venisse subito Battistino! (va a guardare al fondo) Sono già le nove! Oh! eccolo, finalmente! (Battistino) Ebbene?

[208] Batt. — Buone nuove. Abbi pazienza se non ho potuto fare più presto; ma in questa benedetta Parigi non s'arriva mai!

Ant. — Dunque verranno?

Batt. — Meno la signora Desgrandes che è un pochino indisposta dalla paura e rimane nella sua tana di Passy, tutti!

Ant. — Oh bravo il mio Battistino! E verrà anche l'Agironi da Clignancourt?

Batt. — Il professore Rinaldi che s'è incaricato ieri di fare il giro, m'ha detto che sì, e che sperava di portarci anche la signora Riccoboni.

Ant. — A meraviglia! E il desinare?

Batt. — Il trattore della Grotta Fiamminga lo manderà su bell'e fatto per la metà del prezzo domandato dal Caffè Conti.

Ant. — Benone! Ma gli invitati come verranno?

Batt. — Rinaldi s'è inteso con Mastro Martin che andrà a pigliarli tutti in casa della Riccoboni.

Ant. — Ma non ci sarà pericolo che la gente vedendo una carrozza...?

Batt. — No, perchè Martin è quello che serve Danton e le sue carrozze coperte di nappe scarlatte sono così note che non possono destare alcun sospetto.

Ant. — E i vecchi comici come verranno?

Batt. — A piedi, tutti assieme, anche per impedire che Balletti ne faccia qualcheduna delle sue...

Ant. — Benissimo: ora dàmmi quello che hai avanzato.

Batt. — Avanzato? Mi fosse bastato!

Ant. — E allora?

Batt. — Allora... per dare ai nostri buoni vecchi ancora un giorno di felicità, ho preso quell'anellino che volevo serbare a Pierina, e così ho provveduto ad ogni cosa.

Ant. (abbracciandolo). — Battistino, tu non sei un amico!...

Batt. — Grazie!

Ant. — ... Sei un fratello! Ma, mi raccomando, che ogni cosa riesca inaspettata, e non dire allo zio che sono stato dallo Chénier, l'unico che possa ancora salvarci dalla rovina!

Batt. — Sono impaziente di conoscere questo poeta in cui la bontà, bel caso! non è minore dell'ingegno.

[209] Ant. — Verrà oggi istesso a vedere lo zio; ma i suoi doveri di deputato non gli permettono di trattenersi con noi come io avrei desiderato.

SCENA II.

PIERINA, una servotta spigliata e disinvolta, dal fondo con una lettera: cuffietta in capo, abito a mezza gamba di color chiaro, calze bianche e scarpe. Detti.

Pier. — Una lettera per l'avvocato dal segretario dell'Ambasciatore di Venezia.

(consegna la lettera a Battistino e poi va ad assettare gli oggetti sugli stipi in fondo)

Batt. — Gliela darò io.

Ant. — Io scappo per tornare al più presto; ma se non facessi in tempo bada tu ad impedire che si parli allo zio della prigionia del Re, della morte della principessa di Lamballe e delle stragi alle prigioni!

Batt. — Figurati, sarebbe lo stesso che farlo ricadere ammalato! E sì che s'egli potesse reggere al racconto di ciò che s'è fatto per sei giorni e cinque notti nelle prigioni, sarebbe pure un gran bel motivo d'orgoglio per noi italiani poter dire che in mezzo a tanta ferocia dei pochi ed a tanta vigliaccheria dei molti, una sola figura risplende veramente sublime, ed è quella d'un'italiana, Luisa di Savoia, principessa di Lamballe!

Ant. — La sola in mezzo a tanti cortigiani del Re di Francia che abbia avuto il coraggio di lasciare il luogo dove era al sicuro per venire a dividere la terribile sorte dei suoi cari: una vera eroina, l'eroina della gentilezza e dell'amicizia... Ma a che serve ormai? Siamo intesi adunque. Addio. (esce dal fondo)

Batt. — E anche tu sei un eroe, l'eroe del rispetto e del sacrifizio; e dovevi nascere nei secoli più gloriosi dell'antichità, quando non si portava in capo il cappello all'americana... Avresti preso dei grandi raffreddori di capo come tuo zio, senza avere in tasca le sue pezzuole; ma non saresti obbligato a fare l'interprete per pochi soldi, e non avresti dovuto [210] rinunziare, per assistere i tuoi buoni e gloriosi vecchi, all'amore, la sola cosa per cui Battistino spera ancora e vive!

Pier. — Finchè si rimane coll'avvocato non c'è da sperar nulla, e se non avete altri moccoli si resta al buio tutti e due!

Batt. — Pierina, vi siete alzata colle paturnie stamattina!

Pier. — C'è veramente di che stare allegri! La pigione è da pagare, credito non ce n'è più, e la sua brava pensione di quattro mila lire è bell'e sfumata per sempre!

Batt. — E volete andarvene?

Pier. — Anche troppo ci sono stata per quello che mi dànno.

Batt. — Ci sto io per nulla!

Pier. — Chi si contenta, gode.

Batt. — Via, Pierina! Come si fa a piantare della gente che vi ama come una figliuola, come una sorella, senza contar me che vi idolatro in tutti i gradi di parentela?

Pier. — Intanto l'altro mese mi avete trattenuta col dirmi che abbandonarli mentre l'avvocato era ammalato sarebbe stata una vera crudeltà...

Batt. — E ora vi dico che sarebbe una vera indegnità.

Pier. — Oh già voi non siete mai a corto di belle parole...

Batt. — Sono fiorentino, guà: magari a corto di quattrini; ma di parole, mai! Abbiamo in casa il deposito della lingua, non costa nulla e si spende!

Pier. — Alle corte, io mi sono bell'e trovato un altro padrone e un fior di padrone; deputato, e di quelli che hanno le mani in pasta...

Batt. — Allora poco pulite.

Pier. — E che è anche lui poeta comico tal quale l'avvocato.

Batt. — Tal quale, nientemeno!

Pier. — Ma sì! E ha un nome curioso... Collo..... Collo d'Erba...

Batt. — Cicuta.

Pier. — No... Collo d'Erba...

Batt. — Amara!

Pier. — Ma che amara!

Batt. — Collo d'erba, semplicemente, del diavolo; Collot [211] d'Herbois via!... Un comicuccio ubriacone ed invidioso che si è fatto cuccare su tutti i teatri di Francia e di Navarra; uno sbruffariso che quando si sarà alzato ben bene sulla punta dei piedi non arriverà ai tacchi di Carlo Goldoni!

Pier. — Sarà, io non me ne intendo...

Batt. — Zitta, che di teatro, politica e medicina, tutti professori!

Pier. — Sia come si vuole: Carlo Goldoni non può più pagarmi la mesata ed io lo pianto.

Batt. — No, finchè ci resto io.

Pier. — Fin che sia morto, adunque, a fargli il galoppino! Che vergogna! un giovane come voi che sa fare di tutto...

Batt. — Meno quattrini.

Pier. — Un attore coi fiocchi...

Batt. (guardando gli orli delle falde del suo abito). — Soltanto colle frangie.

Pier. — Il figliuolo d'un bravo maestro di musica...

Batt. (traendo fuori le saccoccie vuote delle brache). — Si vede.

Pier. — E non vi vergognate di fare il servitore per nulla?

Batt. — Coll'avvocato, punto.

Pier. — E senza un soldo, senza una speranza, volete rimanere?

Batt. — Finchè vive, sì.

Pier. — E dite che mi volete bene, che volete sposarmi?

Batt. — Nulla di più vero!

Pier. — E allora bisogna dire che vi gira?

Batt. — Per girare, a questi lumi di luna, gli è un bel giramento... Ma poichè l'ho da dire, state a sentire perchè credo mio dovere restare. Io non sono solamente il più bel figliuolo — unico — del maestro Battistino Stuck — nella mia famiglia di padre in figlio non si è meno Battistini che Stucchi — e il nostro primogenito sarà tanto Stucco anche lui quanto Battistino — ma sono anche un discreto attore di quella Commedia italiana dell'arte che maestra di intreccio e di dialogo allo stesso Molière, ha divertito per tre secoli tutta Europa, facendola ridere di quelle belle risate che scaricano [212] il fegato ed alleggeriscono la milza; perchè a tenere il pubblico allegro noi non si recitava soltanto, non si inventavano soltanto lì per lì le più matte stramberie, le più piccanti risposte; ma, se faceva bisogno, si cantava e si suonava e si ballava, e si facevano giochi di agilità e di destrezza, senz'aiuto di poeta e di rammentatore, mostrando così ognuno di noi quant'era capace e spiritoso.

Pier. — Oh! guarda; non lo sapeva!... Ma e il pubblico?

Batt. — Il pubblico d'allora? Era tutt'altra cosa. Quel pubblico là non andava al teatro che per divertirsi e per ridere, e per questo quando s'arrivava in Francia, in Baviera, in Austria, in Boemia e nei Paesi Bassi, ci veniva incontro a braccia aperte gridando: benvenuti i comici italiani, evviva! Sapeva il buon pubblico che con noi non c'era pericolo di doversi sorbire le commedie che colla scusa della letteratura non fanno nè ridere, nè piangere, e intanto ognuno s'ingegnava di capire e di parlare la nostra fiorita e sonante lingua d'Italia. Oh sicuro, che qualche volta il nostro gesto passava un po' il segno, lo scherzo, la misura; ma allora il mondo era più alla buona, chiamava più le cose col loro nome e capiva che se c'era il peccato non c'era quasi mai l'intenzione, la malizia. Ebbene, ora sono quasi cinquant'anni, è venuto fuori a Venezia uno scrittore italiano, s'intende, a dire: questa commedia a soggetto colle maschere che i soli italiani sanno fare, buttiamola giù, e rifacciamo anche noi la commedia scritta in cui il comico non è più quasi nulla e il poeta è quasi tutto.

Pier. — Non gli hanno mica dato retta a quel birbante?

Batt. — ... Sulle prime, no; ma poi dàlli e picchia, finì per vincere: lui alle stelle, e noi... alle stalle!

Pier. — Maledetto!

Batt. — Il resto del carlino ce l'ha dato prima l'Opera e ora la rivoluzione, la quale come sapete, sospetta i comici di simpatie reazionarie, manda questi all'armata, ficca quegli altri in prigione ed obbliga i pochi rimasti sulla scena a farsi brutto strumento di vendetta e di derisione.

Pier. — E voi?

Batt. — Io a quest'ultimo rovescio piglio il mio coraggio a quattro mani... e mi nascondo. Ma le provvigioni finiscono presto e bisogna pure uscir fuori per cercarne! Ohimè! Appena [213] in istrada, allo svolto di via Richelieu qua sotto, sento dietro di me due o tre fischi, come se chiamassero un cane. Io, bestione, dimenticando la differenza che corre fra il fischiare un cane ed un comico, mi volto!

Pier. — Che differenza?

Batt. — Il cane si fischia per chiamarlo e il comico per mandarlo... Voltarmi ed essere riconosciuto è un lampo. È lui, il comico, Arlecchino, l'italiano, l'aristocratico... alla Senna! — E un nuvolo di manigoldi si slancia sopra di me... Ma io non mi perdo mica di coraggio...

Pier. — Vi difendete?

Batt. — No, strillo come un'aquila... Gli altri mi abbrancano, mi sollevano di peso e corrono verso la Senna...

Pier. — Dio! Ma voi vi dibattete energicamente...

Batt. — No... Faccio meglio... il meglio che si possa in cosifatto momentaccio... perdo coraggiosamente i sensi! Quando li riacquisto mi trovo sopra un buon letto, in una bella camera, in mezzo a due angioli, il poeta che ha ammazzato la commedia a soggetto, e sua moglie!

Pier. — Allora rimanete. Partirò sola.

Batt. — Ma non oggi, domani.

Pier. — E perchè domani piuttosto che oggi?

Batt. — Perchè oggi non bisogna dare nessun dispiacere ai nostri buoni vecchi; perchè oggi si sta allegri e si fa loro un mondo di sorprese, una più bella dell'altra, per festeggiare l'anniversario del loro matrimonio.

Pier. — Davvero?

Batt. — Come è vero... che vi voglio bene, ed eccovi il programma della festa; ma che non lo sappia neanche l'aria! Oggi, 22 settembre, mille settecento novantadue, in casa Goldoni, coll'intervento degli amici francesi ed italiani, un buon desinare bell'e fatto e servito dal trattore...

Pier. — Meglio! Meglio!

Batt. — Ma prima di desinare, musica e rappresentazione.

Pier. — Suonatori e attori! Bene! Bene! E giovanotti?

Batt. — Tutti di primo pelo; tutti uno più giovane dell'altro.

Pier. — Ma i quattrini?

Batt. — Già trovati e spesi.

[214] Pier. — Davvero?

Batt. — Com'è vero che vi voglio far mia.

Pier. — Sì, e mi fate troppo onore; ma come si fa? Io sono povera e voi non avete nulla...

Batt. — Dunque siamo fatti apposta l'uno per l'altro!

Pier. — Già, a volersi bene non si spende nulla...

Batt. — E perciò voi non avete un'idea di quanto può amare l'uomo che non ha nulla! (la abbraccia)

Pier. — Ma io preferirei che mi amaste un po' meno, e aveste messo da parte qualche sparagno.

Batt. — La colpa è della rivoluzione!

Pier. — Ma prima della rivoluzione dovevate conservare qualche cosa.

Batt. — Avete ragione; ma prima, non pensando a prender moglie, non mi pareva di avere ragione di conservare... E ora che sarei conservatore, non ho più nulla da conservare!... Ma via, sono giovane, sono volonteroso, e se voi mi volete un po' di bene, mi par ancora d'esser più ricco di una badia, Pierina bella, Pierina sempre più cara ed amata!

Pier. — Ecco quel che mi capita: faccio un mondo di proponimenti e poi e poi mi lascio intenerire da quattro chiacchere... imbecille!!

Batt. — A me?

Pier. — No, no, a me sola!

Batt. — Pierina, non dobbiamo essere marito e moglie? Dunque un po' per uno anche l'imbecillità!

SCENA III.

NICOLETTA, in abito da casa, dalla destra. Detti.

Nicol. — Battistino... Senti che ti ho da pregare d'un favore. Tu, Pierina, fammi il piacere di preparare il cioccolato.

Pier. — Subito: l'acqua è già al fuoco da un pezzo. (esce dal fondo)

Batt. — (Ma se il fuoco non s'è spento da sè, a quest'ora l'acqua lo ha spento lei).

[215] Nicol. — Dimmi, hai inteso stanotte quelle grida disperate dalla strada? (accenna a sinistra)

Batt. — Altro! Ed ho subito pensato che è stata una gran bella idea la sua di pigliar lei la camera sul Palazzo Reale!

Nicol. — Ma quando finirà questo baccanale sconcio e sanguinoso che dura da più di tre anni?

Batt. — Appena i Francesi si saranno mangiati gli uni gli altri.

Nicol. — Meno male che un po' per la malattia che gli ha impedito di uscire, un po' per le nostre cure, Carlo ignora le cose orribili accadute in questi ultimi mesi!

Batt. — Oh! Guai s'egli si fosse potuto imbattere in certe mascherate indegne, per non dir peggio, ed ascoltare le loro canzonaccie sulla Regina! Ma c'è chi veglia; e prima d'ogni altro lei, signora Nicoletta, che non so che farebbe per suo marito; lei che vorrebbe potersi arrampicare fino al cielo per soffiar via la nuvoletta che gli facesse meno vivo un raggio di sole!

Nicol. — Zitto! Zitto! Sarei degna moglie di Carlo Goldoni se non gli volessi tutto tutto il mio bene?

Batt. — E sono de' begli anni che glielo vuole! Oh scusi!

Nicol. (sottovoce, contentissima). — Ma che! sono cinquantasei! e sono la mia gloria. E oggi appunto è l'anniversario delle nostre nozze!

Batt. (simulando sorpresa). — Oh! Ma non si sono sposati di luglio?

Nicol. — Sì, nella mia Genova; ma non si fecero nozze solenni con tutti gli amici e parenti di Carlo che nel settembre a Venezia. E giusto a questo proposito, la vedi questa bella tabacchiera?

Batt. — È quella che le regalò la marchesa di Marbœuf.

Nicol. — Altri tempi! Ma va a venderla senza dir nulla nè a Carlo nè al nipote, e pensa tu a farci qualche bella sorpresa... In tasca presto che arriva mio marito!

Batt. (presa ed intascata la tabacchiera). — (Anche lei colle sorprese!)

[216]

SCENA IV.

CARLO GOLDONI in veste da camera dalla destra. Detti.

Gold. — Battistino, giusto te voglio... Ah! colla moglie ti colgo? Ora capisco tutto quel ciripipì che sentivo di là... Niente giustificazioni, e lei pensi che io sono uomo da pigliar subito una grande risoluzione se... (mutato tono e ridendo) non mi dà subito il mio solito cioccolato!

Nicol. — T'è ritornato l'appetito? A meraviglia!

Gold. — Ma se tu aspetti un altro poco, o diventa fame addirittura, o se ne va via!

Nicol. — E io corro a fartelo subito subito... Battistino, ricordati la commissione...

Gold. — (Non vorrei che mi prevenisse...) Che commissione?

Nicol. — Due soldi di refe bianco.

Gold. — (Meno male che se n'è scordata). Abbi pazienza, moglie mia; ma senza far torto a Pierina, il cioccolato fatto da te vale il doppio.

Nicol. — Adulatore! Già lo sei sempre stato; colle donne, veh! (esce dal fondo)

Gold. — Ma con te, mai... oh colle altre! — Titino, senti. Promettimi il più scrupoloso segreto.

Batt. — Prometto; ma legga prima questa lettera del segretario del Ministro residente di Venezia.

Gold. — Non poteva arrivare più a proposito! (apre la lettera dopo essersi messo gli occhiali) Ahimè che non c'è nulla dentro! Aveva pregato il Vignola d'un piccolo... d'un piccolo... (starnuta) favore.

Batt. — Felicità.

Gold. — Grazie; ma per carità, chiudi subito la mia porta. — Gli domandavo una piccola anticipazione sugli arretrati della mia pensione; ma non dirlo ad Antonio. — A proposito c'è qualche buona speranza che le cose politiche si aggiustino presto?

Batt. — Speranze? Moltissime! (Non si campa d'altro!)

Gold. — E il Re dov'è?

[217] Batt. — A Parigi.

Gold. — Non va più a Versailles?

Batt. — Non ci va più di sicuro.

Gold. — Egli è così buono che finiranno per rendergli giustizia. Già il tempo è sempre galantuomo.

Batt. — Che peccato non si possa dire altrettanto degli uomini!

Gold. — Tieni questo libro, (trae di tasca un volume legato e lo dà a Battistino) mentre io leggo la lettera, — (legge fra sè:) «Sua Eccellenza, a cui ho dovuto mostrare la vostra, non potendola soddisfare io stesso come desideravo, mi ha pregato ieri sera di dirvi che per imprevedibili circostanze non gli era dato di secondarla...» O che disdetta! (ripigliando la lettura) «Ma è lieta di annunziarvi che il primo suo ufficio presso la Serenissima sarà quello di provvedere al rimpatrio di voi e della vostra famiglia». (Oh questa sì che è una notizia che m'allarga il cuore!) La giornata comincia bene! Una buona nuova da dare a mia moglie.

Batt. — Vuole che la chiami?

Gold. — Più tardi... a tavola!

Batt. — Per farle una sorpresa?

Gold. — Per l'appunto. Ma non basta. Va subito dal libraio Bernard, Lungosenna degli Agostini, 37: te lo pagherà cinque luigi.

Batt. — Un libro di commedie e di tragedie, cinque luigi?

Gold. — Ne vale di più l'illustre teatro di Corneille del 1644! La sua brava sfera elzeviriana, il ritratto inciso da Picart, la legatura del tempo... un vero tesoro da bibliomane! Ma questo è nulla: è per quelle due righe a mano sull'antiporta che mi rincresce di venderlo!

Batt. (legge). — «A Carlo Goldoni, pittore della natura, e liberatore dell'Italia dai Goti. Voltaire, 1764.» — Voltaire!

Gold. — Sì, il letteratone, il grand'esprit fort del nostro secolo, quello che in fatto di gusto e di riputazione faceva il sole e la notte!

Batt. — Che gloria per lei, e che cecca sul naso ai suoi nemici!

[218] Gold. — Figurati! Ma vedi se ho ragione di dire che il tempo è galantuomo? Carlo Gozzi mi accusava di fomentare le bizze del popolo contro i nobili, precisamente come Fabre accusa adesso Collin di fare il rovescio; il pubblico mi preferiva più d'una volta l'abate Chiari; Baretti mi flagellava per anni ed anni colla sua Frusta, e quando io stanco di così lunga lotta coi comici, col pubblico e cogli accademici, mi rifugiava in Francia e vi otteneva il grande successo del Burbero, Baretti negava persino che potesse essere mio!... Ebbene io non me la sono presa allora coi miei Veneziani, nè col Baretti, no: ho taciuto ed ho aspettato con pazienza. Che cosa è successo, Titino? Che mentre i miei nemici sono quasi tutti dimenticati, ed i Granelleschi non si ricordano più che per riderne, il povero Avvocato Veneziano a poco a poco si è fatto strada ed ha finito per essere lodato, troppo lodato, e da chi? Da Gaspare Gozzi, Cesarotti, Verri e Parini in Italia, e qui da Marmontel, Grimm, Beaumarchais e Voltaire; e quando, or fanno cinque anni, sono ammalato, chi corre al mio capezzale a stringermi la mano, a consolarmi? Vittorio Alfieri, il più grande dei Piemontesi, compreso il signor Baretti! Dunque, figliuolo mio, mai bizze, mai rappresaglie che guastano il sangue e l'ingegno; ma pazienza, coraggio, fede nell'arte della verità e nella giustizia del tempo; e se mai voi altri giovanotti poteste dimenticarlo, venite a vedere Goldoni: eccolo qui sereno ed orgoglioso non di vendette e di rancori, ma dei suoi cinquant'anni di lavoro, dei suoi cento sessanta componimenti teatrali, e se oggidì non guasta, dell'onestà delle intenzioni che glieli hanno inspirati!

Batt. (con trasporto temperato da riverenza). — Ma come si fa a non volerle bene, anima piena di luce e di bontà?!

Gold. — In quanto a luce, mi si è già chiusa una finestra... Ma se mi vuoi tanto bene perchè non corri subito dal Bernard?

Batt. — Lo vuol proprio vendere un libro così prezioso?

Gold. — Sicuro che è un gran bel documento per il mio amor proprio... Ma fra il mio amor proprio e il dare a mia moglie una prova di affetto, oggi, l'anniversario del più bel giorno della mia vita, non posso esitare... Vallo a vendere: sarà la prima volta che un tragico avrà servito a tenere di [219] buon umore cinque persone... e poi fa tu quello che credi più conveniente... (impaziente) Ma non perder tempo che è tardi!

Batt. — Mi lascia pigliare il cappello?

Gold. — Oh! (lo piglia fra le sue braccia) Scusami; t'ho parlato come ad un servitore e tu sei un amico; tu e il mio buon nipote, i miei figliuoli!

Batt. (commosso). — Fino alla morte! — La sua signora!

Gold. — Zitto! (asciugandosi gli occhi) Ridi... ridi, ti dico!

Batt. — Tocca a lei che m'ha fatto piangere, a lei che è il commediografo a farmi ridere.

Gold. — Giusto, poichè tutta l'arte nostra sta in questo di saper far ridere o piangere, ma più ridere! più ridere!

Batt. — Per questo lei non ha rimorsi; anzi, se l'avesse, senza offenderla, soltanto un soldo per ogni risata che ha destato!

Gold. — Ah! non avrei certo da vendere i libri! Ma una commedia dove non c'è da ridere è come un desinare senza vino, un giorno senza sole!

Batt. — La gioventù senza l'amore!

Gold. — Bravo!

SCENA V.

NICOLETTA e PIERINA col cioccolato, dal fondo, indi G. M. CHÉNIER, pure dal fondo, in elegante abito alla moda, senza baffi, coi capelli lunghi. Detti.

Nicol. — Di buon umore, bravi tutti e due!

Gold. — Si parla d'arte, di sole, di gioventù, d'amore, da giovanotti pari nostri!... (mutato tono) Senti, senti che profumo! Ma già cioccolato della Toutain e fatto dalle tue mani!

(una scampanellata in fondo. Pierina esce dal fondo per ritornare subito in iscena col Chénier)

Nicol. — Chi può essere a quest'ora? (Non posso sentire una scampanellata senza un brivido!)

Pier. — Il cittadino deputato Giuseppe Maria Chénier.

Gold. — Ma venga, venga subito! (a Battistino) E tu scappa via! (Chénier)

Nicol. (andandogli incontro). — Favorite...

[220] Batt. (che intanto si è preso il cappello). — (Ma egli potrebbe parlare all'avvocato del Re e della Lamballe!)

Chén. (a Nicoletta). — La mia premura di parlare all'avvocato scuserà, io spero, l'indiscrezione di una visita così mattutina.

Nicol. — Voi siete sempre il benvenuto ed a tutte l'ore.

Gold. — Ma chi ti vede più? Già, già, sempre occupato nella brutta politicaccia, invece che delle tue tragedie...

Chén. — In fatto di tragedie...

Nicol. — Piglia una tazza di cioccolato con Carlo?

Chén. — Grazie, ho già fatto colezione. Godo intanto di vedervi tutti e due bene ristabiliti.

Nicol. — Io, grazie a Dio, sì; ma Carlo, sebbene sia sempre di buon umore, non è più quello di prima...

Gold. — Zitta che non è vero! Non sono che le gambe che mi tradiscono! — Titino, le tue sono ancora buone?

Batt. — Cerco il mio cappello... (Come faccio ad avvertirlo?)

Nicol. — Ricordati del mio refe! — Vi lascio che ho qualche cosa da fare; con licenza, cittadino. (esce dalla sinistra)

Gold. — Sono ottantasei i carnevali che porto sulle spalle... e dico carnevali per modo di dire, chè dall'ottantanove a quest'anno di nessuna grazia sono tutte quaresime! (starnuta)

Batt. — (Ah! l'ho trovato!) Prosit!

Gold. — Grazie, Titino... Fammi il piacere, uscendo, di chiudere la porta di fuori... (va a chiuder la porta a sinistra) Accomodati, Chénier.

Batt. (presso Chénier, chinandosi come per prendergli un insetto sulle calze). — Scusate, cittadino... Non vi movete nessuno... C'è qui una grossa vespa sulla gamba... Fermo!

Chén. — Io non la vedo. (Pierina, Chénier, Battistino)

Pier. — Neanch'io.

Batt. (sottovoce). — Sfido io! Per carità, non una parola all'avvocato nè del Tempio, nè delle stragi alle prigioni. (forte) Eccola! È presa!

Gold. — Aria! Aria!

Batt. — Scusate, cittadino, la licenza che mi sono presa; ma io so che nessuno è più sensibile di un poeta! Avvocato, corro subito...

[221] Gold. — E il cappello che cercavi?

Batt. — L'avevo in mano... (come se parlasse alla vespa) Tranquilla, veh! Altrimenti non vi rimetto in libertà...

Pier. — Ma se non avete preso nulla!

Batt. — E questo è il bello! (esce dal fondo con Pierina)

Gold. (seduto con Chénier sul canapè). — Mio giovane amico, se tu mi hai portato una buona notizia, ti avviso che oggi, l'anniversario del mio matrimonio, la gusto il doppio.

Chén. — Stammi a sentire. Io ho combinato le cose in modo che domanderò io stesso all'Assemblea Nazionale la restituzione della tua pensione e non senza speranza di vedere approvata la mia proposta...

Gold. — Sia lodato il cielo, che non posso proprio più aspettare dell'altro.

Chén. — Ti farò restituire anche gli arretrati...

Gold. — Mille lire fra pochi giorni!

Chén. — Ma bisogna che mi aiuti anche tu, non dimenticando che oltre all'essere straniero sei italiano, e veneziano per giunta.

Gold. — Veneziano per grazia di Dio e non per giunta!

Chén. — Lasciami finire!

Gold. — Non parlo più.

Chén. — Torino e Venezia hanno ospitato, l'una il Conte di Provenza e l'altra il Conte d'Artois, per aiutare la coalizione che si ordisce contro di noi.

Gold. — Io non so nulla di coalizioni; so che il Conte di Provenza è marito di una principessa di Savoia, e che l'ospitalità è sempre stata per noi un dovere...

Chén. (interrompendo). — E ora è un pretesto, e perciò il ministro Dumoriez ha cominciato col dichiarare la guerra al Piemonte, ordinando all'esercito d'invadere senz'altro la Savoia.

Gold. — Ma questa è una vera prepotenza a cui spero che i Piemontesi sapranno resistere!

Chén. — Che cosa vuoi che facciano contro la Francia?

Gold. — Oh per questo non sarebbe mica la prima volta!

Chén. — No certo; ma se è con queste idee che credi di conquistare la grazia dell'Assemblea, ti sbagli!

Gold. — Ma io domando un atto di giustizia e non una grazia, e se non me lo fa l'Assemblea, sono uomo da andare dritto dal Re alle Tuileries!

[222] Chén. — Alle Tuileries! Ma ora non è più col Re, è coll'Assemblea, è colla rivoluzione che bisogna trattare!

Gold. — Allora con quella masnada di assassini che opprime Parigi!

Chén. — Ma a che serve dire che la rivoluzione non è più che lo sfogo d'ogni più feroce libidine, che ogni libertà è ora sopraffatta dalla brutalità furiosa e selvaggia della plebe, se è con coteste furie ubriache di vino e di sangue che bisogna fare i conti!

Gold. — E sia; ma perchè l'aspirazione suprema di tutti gli uomini onesti ed intelligenti, la libertà e l'uguaglianza nel diritto e nel dovere, deve cedere il posto agli apostoli dell'incendio, del saccheggio e della strage?

Chén. — Per ora; ma lo riconquisteremo, per Iddio!

Gold. — Anzitutto Domineddio in Francia non c'è più... l'avete abolito... Ma te lo dico io il perchè: gli è che questa rivoluzione così cristiana nel suo fine è tutta nel cervello di uomini come te e tuo fratello, che credete basti bandire la libertà perchè tutti gli uomini ne approfittino soltanto per farsi migliori, perchè tutti gli istinti perversi e feroci siano subito corretti; stupenda illusione che è la mamma degli spropositi e degli equivoci. Appena voi bandite la libertà, gli istinti perversi vogliono la licenza; voi protestate in nome del popolo onesto e laborioso, in nome della società, e quelli vi rispondono buttando a terra leggi e famiglia e religione. Fermi! voi gridate: la libertà di tutti sta nell'ordine di tutti, e quelli non sapendo combattervi colle ragioni troncano con un colpo la discussione e la vostra testa. Ah! che commedia, che commedia! Altro che Barufe ciozote! E che peccato che io non possa più scriverla!

Chén. — Ebbene sì, noi abbiamo il torto di esserci lasciato pigliare la mano da cotesta plebe ubriaca di vino e di tumulto che trionfa nel trasporto della sua collera brutale; ma questa plebe è pure il mondo antico che l'ha fatta così ignorante e schiava dei piaceri bestiali; ma questa collera è pur vendetta di leoni, che, stanchi d'essere chiusi e percossi, rompono finalmente la gabbia!

Gold. — Ma sono oramai quattr'anni che rompono!

Chén. — Sono secoli che soffrono! Ma già è inutile che [223] io parli di rivoluzione ad un veneziano nato in una repubblica governata col terrore da dieci aristocratici. (si alza)

Gold. — Bravo! Cinque parole, cinque spropositi; sì, perchè a Venezia il terrore è tanto, che se il Doge ha la cattiva idea di morire di carnevale, aspettano a dirlo che sia di quaresima; a Venezia c'è così poca libertà, che ci si corre da ogni parte del mondo, e caffè, e ridotti, e teatri sono giorno e notte pieni di gente allegra e senza pensiero, fin troppo senza pensiero! Oh sicuro che nella mia Venezia la libertà s'intende in un altro modo... Sicuro che laggiù nessuno porta pistola e coltello, e i farabutti, non c'è politica che tenga, sono farabutti; ma ad ogni modo, se qualche matto educato alla vostra bella scuola sognasse di dare il fuoco a San Marco o al Palazzo ducale, potrebbe essere sicuro che ogni veneziano correrebbe a spegnerlo, quando non bastasse l'acqua della laguna, col suo proprio sangue!

Chén. — Tanto meglio per voi, tanto meglio!

Gold. — Gli è che dura chi misura, e noi duriamo da dodici secoli; gli è che..... io chiacchiero da mezz'ora, senza lasciarti dire quello che devo fare... Perdonami questo sfogo, mio buon amico, e dimmi subito il tuo consiglio.

Chén. — Flins des Oliviers è l'amico intimo di Collot d'Herbois; il voto di Collot ti dà il voto di tutti i deputati di Parigi, anzi ti assicura il voto dell'onnipotente Comitato di sorveglianza. Ora bisogna che tu faccia a Flins des Oliviers la stessa dichiarazione che hai fatto una volta a Diderot.

Gold. — Dichiarare che neanche Flins mi ha rubato di sana pianta la Locandiera; dire insomma una bella bugia per accaparrarsi il voto di Collot d'Herbois, quella caricatura di Nerone, che vorrebbe tagliar la testa a quanti l'hanno fischiato! Sono troppi, messere! Te la faccio subito, subito; ma lascia osservare una cosa al vecchio commediografo: quando domando il fatto mio in nome della giustizia che ha inspirato la rivoluzione, mi si risponde picche. Faccio invece tanto di cappello ad un mascalzone come è il Flins, per far piacere ad un birbante come è il Collot? Tutti i deputati sono subito d'accordo per favorirmi! Bello! Bello!

Chén. — No, brutto; ma così va il mondo per ora.

[224] Gold. — E per un pezzo, e sai perchè? Perchè i primi ad approfittare d'una rivoluzione fatta, come la vostra, dal fiore dell'ingegno e dell'intendimento, è quasi sempre il fiore dei Flins e dei Collot!

SCENA VI.

BATTISTINO dal fondo. Detti.

Gold. — Giusto te. Vieni qui subito a stendere una dichiarazione al cittadino Flins des Oliviers come quella che si è fatta al Diderot; io la firmerò. (a Chénier, mentre Battistino, deposto mazza e cappello sulle seggiole in fondo, si mette al tavolino) Il mio segretario, un buon comico, Battistino Stuck.

Chén. (sottovoce). — E tu, quando i comici sono sospetti e i tedeschi passano il Reno, te lo pigli in casa?

Gold. (forte). — Ma egli non è tedesco; il mio Stuck è fiorentino... Non è vero?

Batt. — Fiorentinissimo; Stuck, Stucco, molto Stucco, tutto Stucco, e, invece del Reno, passerei volentieri le Alpi.

Chén. — Fiorentino? Ma certo di padre tedesco.

Batt. — Al contrario. Mio padre è fiorentino ed io sono nato in tedescheria... ma per un semplice effetto del caso...... ci passava mio padre!

Chén. (ridendo). — E vostra madre?

Batt. — Oh! mia madre, non lo nego, quando sono nato io, era presente. (alzandosi) Ecco la dichiarazione tale e quale si è fatta a Monsù Diderot. (legge): «Il sottoscritto Carlo Goldoni dichiara che non c'è parola nella Commedia «La Giovane albergatrice» del cittadino Flins che sia sua».

Chén. — Scusate: Claudio Carbon Flins des Oliviers, se vi piace.

Batt. — Moltissimo. Io adoro i nomi lunghi... (si dimenticano più presto!) — Ecco fatto, signor avvocato.

Gold. — Ed ecco firmato, cittadino amico.

Chén. (osservando la dichiarazione). — Dichiara che non c'è una parola nella commedia di Flins che sia sua... (guarda [225] Battista che finge di essere distratto) — A chi si riferisce quel sua?

Batt. — A Goldoni. Goldoni dichiara che nel lavoro di Flins non c'è una parola che sia sua, dunque di Goldoni.

Chén. (sorridendo come chi subodora una malizia). — Ma non c'è pericolo che quel sua si riferisca invece a Flins?

Batt. — E allora, invece di sua, metteremo di lui.

Chén. — Dichiara che nella commedia di Flins non c'è parola che sia di lui... (guarda Stuck).

Batt. — Se non è lupo, è can bigio.

Chén. — E allora bisogna dire che voi altri non avete un'idea chiara della proprietà.

Batt. — Domando scusa; per chi ruba si ha: plagiario, ladro, furfante, malandrino, predone, pirata e truffatore. Ma, tornando al sua, ho bell'e capito quel che bisognerebbe: che questo benedetto sua si potesse declinare col nome cui si riferisce, come nel latino, e allora, per evitare ogni confusione, metterei l'avvocato al nominativo e Flins al genitivo od al dativo.

Chén. — Ma bravo: conosce il latino come te!

Batt. (inchinandosi). — E per questo siamo entrambi all'ablativo.

Gold. — Vedi? Lui ha una risposta a tutto!

Chén. (sottovoce). — Ma un cosifatto segretario ti costerà chissà quanto...

Gold. — Adesso te lo faccio vedere..... Titino, qua una stretta di mano!

Batt. — Troppo onore, mio illustre maestro! (gli bacia la mano).

Chén. (c. s.). — Non gli dài altro?

Gold. — Nulla.

Chén. — Sono ben lieto che questo incidente m'abbia fatto conoscere un amico così devoto. (Battistino è andato a prendergli il cappello e la mazza) Cittadino, mi fate l'onore di una stretta di mano?

Batt. — Voi mi confondete...

Chén. (gli stringe la destra). — Se tutti i cuori fossero come il vostro, il mio Goldoni vedrebbe assai più presto il frutto della nostra rivoluzione! Addio, e a rivederci presto. (esce dal fondo)

[226] Gold. — Ma se tutti avessero il cuore e la testa di voi due, non farebbe bisogno di fare nessuna rivoluzione! — Ebbene, dimmi, dimmi, che cosa hai fatto dei denari del libraio?

Batt. — Il libraio ha chiuso bottega. (gli restituisce il libro)

Gold. — O povero me! Neanche un fiore avrò da offrire a mia moglie! Mi stringe il cuore! Dopo tanti anni, è questo il primo che non posso fare nulla! Se almeno Nicoletta non si ricordasse che giorno è oggi! E la giornata era cominciata così bene..... Dammi il mio dizionarietto veneziano, ho bisogno di distrarmi... Vado nella mia camera... (guardando nel quaderno manoscritto che gli ha dato Battistino, e che stava sopra uno stipo in fondo) Destrigà, de sbrisson, descoconà... Se sapevo, avrei superato la vergogna... descogionà... Avrei domandato qualche cosa a Chénier... descomodà... Con un pretesto... descondon... (s'avvia alla sua camera) Così non avrei questa disdetta... desdita.... O povera Nicoletta! dopo tanti anni... neanche un fiore! (esce dalla destra)

Batt. — Per questa volta ho detto una bugia a te ed a tua moglie; ma verrà presto pur troppo il tempo di vendere libri e tabacchiere! Ma vien gente... Oh! ecco quella tromba di Balletti!

SCENA VII.

PIERINA seguita da SUSANNA BERTINAZZI a braccio di BALLETTI, da GANDINI e MATTIUZZI. Detto.

Pier. — La signora Bertinazzi coi suoi amici.

Batt. (sottovoce). — Benvenuti tutti! (accenna che parlino sottovoce).

Ball. (forte). — Eccoci qua tutti e quattro.

Batt. — Sottovoce, che si vuole fare loro una sorpresa. E grazie a tutti anche per me...

Sus. — Sta zitto, chè tanto l'avvocato e sua moglie che voi altri due, meritereste molto di più, se in questo tempo di casa del diavolo fosse possibile fare qualche cosa di buono. (a [227] Balletti) Ora non ho più bisogno di essere rimorchiata, mio gentil cavaliere! — Se sapeste quant'è ardente questo Balletti!

Ball. — È vero! Ho sempre una gran sete!

Batt. — Non dubitare che te la leverai. Una parola a tutti subito: che nessuno di voi faccia la più piccola allusione dinnanzi all'avvocato delle tragedie di questi ultimi giorni.

Gli altri. — Inteso!

Ball. (a Gandini). — Dove s'è fatto una nuova tragedia?

Gand. — In piazza della Rivoluzione.

Ball. — Ora capisco!

Matt. — Non dimenticare dunque mai che Marat ha detto a Barbaroux che chi va al teatro in fondo è sempre un aristocratico da ghigliottinare.

Ball. — E chi, invece d'andare in fondo, va ai posti di orchestra?

Gli altri. — Oh!

Matt. — Via, compatitelo, è il più vecchio dell'arte!

Ball. — Vecchio io? Ho un anno meno di Goldoni!

Batt. — Una bella differenza.

Ball. — Sicuro, e poi io sono della razza di Fiorelli, che a ottantatrè anni dava uno schiaffo con un piede...

Gli altri. — Vediamo! Vediamo!

Ball. — Attenti... Oggi non sono in vena... E Vicentini se non l'applaudivano nel Convitato di pietra? S'arrampicava dal proscenio su su fino al terz'ordine, e si metteva a girare attorno sulla cornice, finchè il pubblico non gridava: basta!

Sus. — Ebbene? Che cosa vuoi concludere?

Ball. — Io? Nulla.

Gli altri. — Ah! Ah!

Gand. — Sei addirittura rimbambito!

Ball. — Io? Ti sfido a tutte l'armi ed a tutti i giuochi, cominciando dallo star ritto sopra una gamba!

Batt. — Per carità, che se tu caschi, non ti alzi più.

Ball. — Vecchio rimbambito io! Vecchio è chi muore, non io, pieno di vita e di fantasie! Ma domandate a Susanna che corte spietata le faccio!

[228] Sus. — Balletti, tu mi vuoi compromettere adunque!

Gand. — Lascialo dire, che io mi contento di essere preferito!

Batt. — Sta zitto, che tutte le Susanne assediate dai vecchi hanno sempre preferito un giovane!

Sus. — Bravo, Tita!

Pier. (sottovoce a Batt.). — È questo il fior di giovanotti di primo pelo che aveva da venire?

Batt. — Primo pelo... bianco!

SCENA VIII.

ANTONIO che dà il braccio a MARIA RICCOBONI, RINALDI alla signora FARINELLI, LEGENDRE alla signora RINALDI, BOUCHARD alla signorina FARINELLI, ed AGIRONI, dal fondo, tutti con fiori o scatole di confetti. Detti.

Ant. — Ed ecco qui altri buoni amici!

Batt. — Benvenuti tutti! (ad Ant.) Sono ancora nelle loro stanze...

Ant. — Tanto meglio, così la sorpresa sarà intera. (ai comici) La signora Maria Riccoboni: non ho bisogno di dirvi chi sia.

Sus. — La famosa romanziera che mantiene così alto il nome del nostro gran Luigi!

Riccob. — Troppo gentile; ma, se non m'inganno, lei è la vedova di Carlino Bertinazzi... (discorre con Susanna).

Ant. — Il professore Rinaldi e la sua signora, Aginori, Bouchard e Legendre, la signora Farinelli, che è stata anche lei una gran brava artista, e sua figlia Rosalia, maestra di musica. E qui i comici pensionati della commedia italiana; Balletti, prima amoroso...

Ball. — Sempre amoroso, mie belle signore, sempre!

Ant. — E poi bravissimo nella parte del sor dutur Grazian d'B'logna; Mattiuzzi, Pantalon...

Matt. — Sempre più dei bisognosi!

Ant. — E Gandini, il terribile Capitan Coccodrillo...

Gand.Scarabombardon de la Papiriotonda!

[229] Ant. — Se volete favorire nel salotto, potrete anche combinare colla signorina Farinelli per la parte della ragazza nel Burbero.

Ros. — La so a memoria e vedrete mirabilia! A proposito, quando ritornate a Venezia?

Ant. — Sono quattr'anni che si domanda e che gli Ambasciatori ci lusingano; ma non se ne farà nulla. Il governo della Serenissima, quando lo zio non ci sarà più, farà come me, che dirò: oh fosse ancora vivo, di quante maggiori cure, di quanta maggior tenerezza vorrei circondare la sua vecchiaia e quanto sarei più eloquente per onorarlo! Ma, mentre prevedo che avrò un rimorso, non so fare di più! (si avviano al salotto a destra).

Riccob. — Ma il pubblico italiano?

Ant. — Gli farà, quando sarà morto, un monumento..... Ma lasciamo questo discorso e favorite... (voce di Nicoletta: Battistino!)

Batt. — Penso io a trattenerla..... (rispondendo) Vengo subito!

(Sono usciti dalla destra prima Bouchard e la signora Rinaldi, poi Rinaldi e Legendre, indi Agironi colla Bertinazzi ed Antonio colla Riccoboni. Balletti, vistosi portar via Susanna, s'affretta ad offrire il suo braccio alla figliuola della signora Farinelli; ma questa ha già preso quello di Gandini. Pierina esce dal fondo, e Mattiuzzi offre ridendo a Balletti il suo braccio).

Ball. (a Batt.) — Ma che si va a fare là dentro?

Batt. — È vero che c'hai messo ottantacinque anni a perdere la memoria, ma ci sei riescito bene!... (spinge fuori Balletti, chiude la porta e va incontro a Nicoletta) — Che cosa mi comanda?

SCENA IX.

NICOLETTA dalla sinistra. Detto.

Nicol. — Ebbene? La tabacchiera?

Batt. — Eccola. (gliela consegna)

Nicol. — Non l'hai venduta?

Batt. — Per lo stemma della marchesa, non l'ha voluta [230] nessuno..... a meno di darla per un boccone di pane! Ecco l'avvocato.

Nicol. — Lasciami un momento con lui. Ma che cosa potrò dirgli?

Batt. — Una buona parola... è quello che costa meno.

Nicol. — E alle volte fa più piacere. Ma ti par facile, a Goldoni?

Batt. — Facilissimo... Si lascia parlare il cuore.

Nicol. — Sicuro..... Ma per incominciare? Lì sta il difficile!

Batt. — E lei non incominci, o faccia il rovescio: cominci col fine; se non farà meglio, farà più presto! (inosservato, esce dalla destra verso il fondo).

SCENA X.

GOLDONI dalla destra. Detta.

Gold. (fra sè, senza vedere Nicoletta). — No, non è bello, non è degno di me sperare in una dimenticanza...

Nicol. (senza vedere Goldoni, assorta in sè). — Ha ragione Battistino; se non posso fargli altra festa, facciamogli almeno quella d'una buona parola... (volgendosi verso la destra e vedendo Carlo) Carlo!

Gold. (a Nicoletta, contemporaneamente a lei). — Nicoletta! Volevi dirmi una parola?

Nicol. — Per l'appunto, e anche tu a me?

Gold. — Hai indovinato.

Nicol. — Forse la stessa idea!

Gold. — Probabilmente.

Nicol. — Dunque parla.

Gold. — Oh! prima te.

Nicol. — Non sarà mai.

Gold. — Abbiamo da parlare tutti e due in una volta?

Nicol. — Via, comincierò io... (col fine... come dice Battistino...) Gran bella giornata oggi!

Gold. — Sì, per fine di settembre, a Parigi... Ma poteva cominciar meglio!

[231] Nicol. — Sì; ma contentiamoci.

Gold. — Questo è sempre da filosofi! Contentiamoci, poteva esser peggio.

Nicol. — Sicuro, a questi tempi! E poi la vera felicità sta dentro di noi, e non nei quattrini.

Gold. — Massima eccellente, che deve essere stata inventata da un poeta comico italiano..... Eppure, in certe circostanze, in certe occasioni, farebbe pure un gran piacere averne!

Nicol. — Ma che occasioni!

Gold. — Oggi, per esempio!

Nicol. — Che? Se è vero che il maggior piacere per una donna è amare colla sicurezza di essere amata, chi m'ha voluto più bene di te, mio buon Carlo?

Gold. — Ma come non t'avrei amata e non ti amerei, quando, giovane o vecchio, fortunato o disgraziato, l'unica cosa che non mi sia mai venuta meno è il tuo affetto, mia buona Nicoletta?

Nicol. (intenerita). — Ma guarda un po' che cosa mi vieni a dire oggi!

Gold. — Ma non sai che giorno è oggi? È il cinquantesimosesto anniversario delle nostre nozze, e io vorrei poterti dire una parola tanto bella da valere tutti i regali, tutte le feste che per la prima volta non ti posso dare; ma questa parola, io che ne ho scritte tante, io che sono avvocato, non la trovo; forse bisogna dire che non ci sia, poichè quando si vuole dare la stura ai sentimenti che ci riempiono il cuore... si fa come me... si sente qui una confusione e qui un gruppo... si balbetta... si piange... e si finisce per far la figura dell'asino!

Nicol. — Meno male che nessuno ti sente a parlare così ad una povera vecchia; saresti ridicolo!

Gold. — Cominciamo a dire che tu hai dieci anni meno di me; ma, se anche tu fossi vecchia come dici, io bell'e vecchio come sono..... anzi, appunto perchè così vecchio da poter apprezzare senza passione ogni cosa secondo il suo vero valore, vorrei che tutto il mondo mi sentisse a dire che cinquantasei anni fa io voleva un gran bene alla mia sposa tutta un fiore ed un sorriso; ma ora che tutto mi naufraga attorno, [232] ora che tu sola resti il conforto e la gioia dei miei ultimi giorni, ora del bene te ne voglio il doppio!

Nicol. — Tu sei troppo, troppo buono!

Gold. — No; non faccio che rendere giustizia alla moglie, che colla mia pace e la mia felicità, ha voluto anche la mia gloria; sì, sì, perchè non è che dopo di averti sposata, che ho trovato la mia buona inspirazione, il mio buon consiglio; e perciò sta pur sicura che se io sono stato messo al mondo senza dolore, se vi ho vissuto senza troppi pensieri, morrò però con un cruccio, l'unico vero cruccio della mia vita, quello di doverti lasciare!

Nicol. (profondamente commossa). — Oh il Signore mi farà la grazia che gli domando: quella di non doverti sopravvivere!

Gold. (commosso alle lagrime, ma sforzandosi di scherzare, piglia Nicoletta fra le sue braccia, e si rivolge comicamente al cielo). — Per carità, non le dia retta! Ci faccia anzi vivere un altro bel pezzo per il buon esempio dei coniugati, e, quando sarà la nostra ora, ci pigli tutti e due, tutti e due assieme! (piangono di tenerezza).

SCENA XI.

PIERINA dal fondo va sulla soglia del salotto a destra a farvi un cenno inosservata dai presenti. BATTISTINO ed ANTONIO entrano subito in scena dal salotto, e Pierina esce dal fondo. Detti.

Ant. — Ancora in veste da camera? Presto, presto a far toeletta tutti e due!

Gold. — Tanto non viene nessuno a vederci...

Batt. — Nessuno? (piglia Nicoletta per mano e la porta ad origliare alla porta del salotto).

Ant. — Nessuno? (fa lo stesso con Carlo).

Gold. (contentissimo). — Ma lì c'è molta gente!...

Nicol. — Uomini e donne!...

Ant. e Batt. (impedendo loro di aprire). — A vestirvi! A vestirvi!

[233] Gold. e Nicol. — Ma chi sono? Chi sono?

Ant. — Mistero!

Gold. (a Nicoletta). — Mistero! A vestirci! (ritornando a Batt.). — Ma come li tratterete tutti questi buoni amici che si ricordano ancora di noi?

Batt. — Mistero!

Gold. — Ah birbone, ora capisco il ritorno di Corneille! — Andiamo. Nicoletta, andiamo a farci più belli, se è possibile... Mi sento ringiovanire! La vostra bella manina, cittadina!

Ant. — Cittadina? Dunque anche tu ti fai rivoluzionario?

Gold. — Lo sono sempre stato in arte! Cento di questi giorni, cittadina: per quest'anno ancora a Parigi; ma l'anno venturo sicuramente a Venezia!

Nicol., Batt., Ant. (con vivissima curiosità). — A Venezia?

Gold. (rifacendo le mosse di Antonio e Battista e canzonando e ridendo mentre trae via con sè nella sua stanza Nicoletta). — Mistero! Profondo mistero!

Fine del primo atto.

[234]

INTERMEZZO

La sala del primo atto, senza il tavolo. I due paraventi distesi, l'uno partendo dal cembalo e l'altro dalla prima quinta al proscenio, in modo da formare un angolo; lo spazio racchiuso in esso servirà poi di teatrino per la recita del prologo e del Burbero benefico. Dinnanzi a questa scena tuttora chiusa, il canapè, dietro il canapè le seggiole per gli invitati, disposte in modo da riempire la parte destra della scena. Sugli stipi in fondo l'occorrente per servire rinfreschi, i mazzi di fiori ed i regali portati dagli amici.

SCENA I.

La RICCOBONI, le FARINELLI madre e figlia, i RINALDI marito e moglie, AGIRONI, BOUCHARD, LEGENDRE, ed ANTONIO e PIERINA che servono gli altri di rinfreschi.

Bouch. — Sentite, io capisco fin dove può arrivare una vendetta lungamente e ardentemente bramata; ma portare in trionfo i soldati che assassinano gli ufficiali, giurar fede alla legge per violarla e al re per arrestarlo, scannare i prigionieri, far scempio di donne e di fanciulli, questo, parola d'onore, non è più rappresaglia, è delirio di ogni più bassa passione.

Legen. — Speriamo che si siano sfogati abbastanza, altrimenti ne vedremo delle altre, prima che la gente onesta capisca la necessità di mettersi d'accordo.

Ricc. — Intanto si è tutti come storditi da un gran colpo alla testa... Si sente in aria il coltello del macellaio, e non si fa nulla nessuno per liberarsene.

Emilia. — E avete osservato per le strade, che deserto!

Agir. — Sfido io! I negozi sono chiusi per la paura del saccheggio, ogni arte è sbandita come nemica, e ognuno sospetta del vicino!

Maria. — Aggiungete che ognuno teme di essere arrestato, poichè l'essere arrestato equivale ad essere condannato, e comparire dinnanzi ad un tribunale è lo stesso che una sentenza di morte.

Rinaldi. — E non vogliono che si faccia voti per essere [235] liberati! Per me darei il benvenuto a Belzebù ed a tutti i diavoli dell'inferno!

Ant. — Quando finirà quest'agonia?!

Ricc. — Voi siete ancora giovani...

Gli altri (meno Rosalia). — Bella gioventù!

Ricc. — Appetto a me, e siamo in pieno regno dell'impreveduto; ma a me, ai Goldoni, a Balletti, Gandini e Mattiuzzi, che cosa ci resta? La rivoluzione ha cancellato ogni gloria come un insulto alle mediocrità irrimediabili, e Dio non voglia che ci tolga anche quel boccone di pane che ci ha dato la splendidezza della Corte!

Gli altri. — Dio guardi!

Maria. — Se si potesse scappare tutti in Italia!

Agir. — È quello che farò io al più presto.

Rosalia. — Ritorniamoci anche noi, mamma; tanto tu lo sai, io non ho più da dare una sola lezione di musica.

Rinaldi. — E chi pensa più ad imparare l'italiano adesso che la fratellanza universale ha esordito col dichiarare traditori gli italiani?

Bouc. — Noi due ci siamo tappati nel nostro eremo, e finchè le cose non cambiano, chiusi!

Agir. — E, se non era per dare questa consolazione al povero Goldoni, davvero che non lasciavo Clignancourt, sopratutto oggi!

Ant. — Per carità, non una parola di nulla allo zio!

Rinaldi. — Facciamo meglio: per oggi sopprimiamo ogni pensiero del presente e dell'avvenire.

Ricc. — Bravo; riviviamo, s'è possibile, qualche ora del passato!

Gli altri. — Sì, sì, per Goldoni!

Ant. — Eccolo colla moglie... Mi raccomando adunque... E non si alzi troppo la voce, mi capite.

SCENA II.

GOLDONI e NICOLETTA dalla destra al proscenio, in abito di gala tutti e due. Detti.

Gli altri (affollandosi attorno a Carlo e Nicoletta). — Cento di questi giorni!

[236] Gold. — Oh che piacere, che consolazione mi date!

Nicol. — Grazie, grazie proprio di cuore a tutti!

Gold. — La Riccoboni, la mia Yenny! Ma questo è un onore che io non merito... Tò un baso, vecia! (la bacia)

Maria. — E a me nulla?

Gold. — Anche a te, la mia Farinelli!... Come recitavi... quando c'ero io in teatro! Brava, ti conservi sempre bella!

Maria. — Bella con cinque icchese sulle spalle?

Gold. — Sono bello io con otto e mezzo!

Emilia. — Carletto, non sono degna io di esser baciata da cotanto amante? Oh scusa, Nicoletta!

Gold. — Niente scuse, mia moglie sa che se io sono un così bel vecchietto, è tutto merito suo!

Nicol. — Padron mio, dal momento che non dice nulla Rinaldi!

Rinaldi. — Goldoni è irresistibile!

Rosalia. — E io rimango a bocca asciutta?

Gold. — Figurati, a te ne do due! — Nicoletta, la colpa non è mia, è dell'usanza francese, la più bella delle vostre usanze, quella che voglio portare a Venezia: baci a tutto spiano! A proposito, Agironi — a te non ne dò, sei troppo brutto — ma ti ringrazio di essere venuto ad abbracciarmi prima di partire. A Venezia cercami subito un quartiere, a Riva, al sole. — Ah! Rinaldi, quella è un'aggiunta che avresti da copiare per le mie memorie! — Bravo Bouchard! — Bravo Legendre: avete visto che la montagna non si moveva per andare a Belleville, e voi siete venuti verso di essa...

Nicol. (andata in fondo colle altre signore). — Carlo, guarda che bei fiori! E confetti, e cioccolato... Quanto siete buoni! (scende presso Goldoni, seguita dalle altre) Sai che cosa mi pare oggi? Che sia il primo giorno del nostro matrimonio!

Gold. — Delle nozze, vuoi dire; perchè il primo giorno di matrimonio io aveva la febbre, e mica soltanto la febbre dell'amore, la febbre del vaiuolo! Eh che disdetta? Ma siccome, dopo la burrasca, finisce sempre per splendere il sole, il vaiuolo è sparito e mi è rimasta questa buona e bella moglie.

Gli altri. — Bravo!

[237] Nicol. — Buona, mi sono ingegnata; bella, mai, e in ogni modo sarebbe troppo da un pezzo per ricordarlo.

Gold. — Senti, Nicolina — io per mia moglie ho due diminutivi accarezzativi, Nicoletta ogni giorno che Domineddio manda in terra, e Nicolina nelle grandi occasioni solenni — senti: per gli occhi del cuore... (alle altre) voi altre è inutile che mi facciate l'occhio di pesce morto... tu sei sempre la più bella!...

Gli altri. — Bravo! bravo!

Ant. — Più basso!

Gold. — Che c'è ora? Non si può più applaudire Goldoni?

Ant. — Sì, sempre; ma è meglio non gridare... (si odono tre colpi dalla sinistra)

Gold. — Che cosa è? (Rosalia corre al pianoforte)

Ant. — Il segnale all'orchestra.

Gold. — Quale orchestra?

Rosalia. — Eccola! (suona un minuetto)

Gold. — Si balla? Nicolina, si balla! (con vivacità, offrendole la mano)

Nicol. — Proviamo? (tutti fanno loro siepe)

Gold. — Ma figurati se s'ha da provare! Non è questo il giorno delle nozze? Dunque si prova anche a ballare! (fermandosi dopo un giro) Non è nè lo stomaco, nè la testa..... non sono che le gambe... ma si capisce, dopo la malattia... Del resto vedresti!...

Nicol. — Sarà per un altr'anno!

Gold. — Brava, per un altr'anno, a Venezia!

SCENA III.

BATTISTINO, vestito da Arlecchino, mette la testa fra i paraventi che ha socchiuso. Detti.

Arlec. — Signorie!

Gold. — Arlecchino? Che cos'è questa baracca?

Arlec. — Se me lo permettono, vorrei dire una parola, senza contare le altre, in italiano e non nel mio bergamasco, per riguardo ad una parte della civile udienza...

Tutti. — Parla! Parla!

[238] Ant. — Qui sul canapè colla zia.

Gold. — Ho capito, anche una recita! che cari matti! (seggono tutti)

Arlec. (uscito fuori dai paraventi e inchinatosi). — Cittadine belle ed amabili sempre, e cittadini... amabili... qualche volta e belli... io ho l'onore di annunziarvi quale capocomico — molto comico e niente capo — delle principali maschere dell'antica commedia dell'arte, non meno ragguardevoli per l'abilità — modestia a parte — quanto per la nobiltà di ventidue secoli, tutte proprietarie..... d'una infinità di generi brighelleschi tanto d'entrata che d'uscita — che non pagano dazio — che avremo l'onore di recitare colle principali maschere prima un prologo di nostra composizione e poi, senza papere e senza suggeritore, la commedia di Carlo Goldoni Il Burbero benefico, per rendere il maggior omaggio possibile al principe dei poeti comici italiani, al riformatore immortale delle nostre scene.

Gli altri (meno Goldoni). — Bravi! Bravi!

Gold. — O quante sorprese!

Nicol. — Che buoni amici!

Arlec. — Quanto ai costumi, si sa, in tempo di rivoluzione si tira via e le migliori intenzioni se ne vanno troppo sovente a monte..... di pietà; ma, in un'epoca così sbracata, loro sono ormai avvezzi a non badare troppo al sottile. (apre i paraventi, ripiegandoli in modo che il primo serva di quinta alla porta al proscenio a sinistra, e l'altro copra il pianoforte) La scena rappresenta al vivo, come vedete, la città di Venezia: di qua a sinistra, il palazzo ducale tutto duro come un marmo, e così vero, che pare dipinto. Lì accosto, San Marco, che si metterebbe sotto una campana di vetro, tant'è meraviglioso e originale..... Lei di lì non lo vede... e neanche più in là... e glielo dico in segreto il perchè: San Marco, modesto, sa che siamo in tempi di rivoluzione e per timore di essere confuso colla gente che si fa avanti, preferisce di starsene indietro... bel caso! Poi la torre dell'orologio e le Procuratie... Qui Marco e Todero; dinnanzi il mare infinito; bucintori, gondole, peote e barche rotte — che sono giusto le meglio dipinte. Ora do il segnale per la sinfonia.

Gold. — Anche la sinfonia?

[239] Arlec. — Diamine, un capocomico che rispetta l'arte!... Ma, stante il gran concorso, ho messo i suonatori fra le quinte, violini e violoni, tube e catube, fagotti, corni e pifferi, speriamo senza ritorno, ma tutti al vostro servizio.

Nicol. — Ma non vedo gli istrumenti.

Arlec. — Oh gli istrumenti... si ommettono per brevità; ma non ci perderete nulla, anzi! La sinfonia, per il gradimento universale della musica e la fortunata allusione del titolo, è quella di Giannina e Bernardone (s'inchina a Carlo e Nicoletta) Ora giù il sipario... cioè no, niente sipario... se il sipario non va nè su, nè giù, ma che non lo sappia neanche l'aria, sopratutto l'aria che potrebbe averselo a male, è soltanto per risparmiare all'illustre poeta ed alla gentile udienza un raffreddore, col quale, inchinandomi, ho il piacere di lasciarvi!

(S'inchina verso tre parti e poi sparisce dietro il paravento che ha alla sua destra)

SCENA IV.

Dalla seconda porta a sinistra, dietro al paravento, colla Rosalia che si mette subito al cembalo, MATTIUZZI, vestito da Pantalone, GANDINI da Capitan Fracassa, BALLETTI da Dottore, SUSANNA da Colombina. Detti.

Arlec., Pant., Capit., Dott., Colomb.

(Solfeggiano la sinfonia dell'opera Giannina e Bernardone di Cimarosa, in grande voga a quell'epoca, come il Matrimonio segreto dello stesso maestro, accompagnati col cembalo da Rosalia).

Gli altri (a sinfonia finita, applaudendo). — Bravi! Bravi!

SCENA V.

PANTALONE e COLOMBINA dal paravento alla loro destra Detti.

Colomb. — Ma che Burbero d'Egitto! Io non vi recito neanche se viene a domandarmelo in ginocchio l'Imperatore dei Pirenei, altro che Arlecchin Battocio, perchè alla fin fine Colombina non ha mai avuto bisogno e mai non avrà del poeta comico per farsi applaudire!

Pant. — Questo xe vero...

[240] Colomb. — Un po' di grazietta, occhiate in platea a dritta ed a sinistra, girate rapide per far vedere il piedino...

Pant. — E magari un tocheto de gamba!

Colomb. — E il giuoco è fatto. E voi che cosa contate di fare?

Pant. — Io? niente: questa la xe sempre sta la mia politica.

Colomb. — Sior Pantalon dei Bisognosi non ha bisogno di poeta per far ridere.

Pant. — Mi? Non rapresento coi fioj l'autorità paterna, co la mugier la maritale e in banco la paronal? Dunque, quando se rapresenta l'autorità, no s'ha bisogno de poeti per far ridere, basta mostrarse!

SCENA VI.

Il DOTTORE dalla sinistra del teatrino. Detti.

Dott. — Voi parlate e favellate di ridere, ed io screpolo di rabbia!

Colomb. — Con chi l'avete, eccellentissimo Dottore?

Dott. — Salve, foemina! L'ho con quel mostro policromo di Arlecchino, che, senza alcun rispetto per un Dottore della mia circonferenza, dice che se non voglio recitare nel Burbero, è segno che sono un asino, sì, asinus, vel buricchius; e così io laureato senza aver aperto un libro, io famigerato prima di aver fatto checchessia comechessia; io delizia del pubblico per i miei insensati, ma spontanei spropositi in ogni scibile e ignorabile, dovrò dare il pessimo esempio ai miei discepoli di studiare prima di professare, di pensare prima di dire? Ah Arlecchinus, non ego doctor in utràque et in utrìque, sed tu buricchius, terque, quaterque asellus!

Pant.Ciucus!

Colomb.Asinissimusque!

SCENA VII.

Il CAPITAN FRACASSA dalla destra del teatrino. Detti.

Capit. (spavaldo e minaccioso). — Chi è che mi dà dell'asino?

Dott. — Nessuno! nessuno! Anzi salvete et salvetote vos, miles gloriosus.

[241] Colomb. — Vi faccio umilissima riverenza!

Pant. — Paron mio, sor Capitan Fracassa, Spavento, Matamoros, Coccodrillo...

Colomb. (crescendo comicamente). — Bellerofonte, Arcitonitrante, Firibirimbombo...

Capit. — Scarabombardon de la Papiriotonda, invincibile ad ogni arma anche a vento!

Dott. — Quelle a vento non nominarle neanche, o scappo subito! Si parlava d'Arlecchino.

Capit. — Arlecchino?! Se fosse possibile rivederlo, io lo ripiglierei per i tacchi e lo slancierei per aria tant'alto, tanto alto... che, quando cascasse giù, tutti i soldi della sua tasca sarebbero fuori di corso.

Dott. — Bella forza!

Capit. — Io? Spiano i monti, asciugo il mare, divido il mappamondo, e se mi piace, inchiodo il sole, gioco alla palla coi pianeti e rompo il firmamento.

Colomb. — (Ma più le scatole!)

Pant. — Capitano, disè una volta la verità: Arlechin v'ha dà dell'aseno!

Capit. — A me?! A me?!! Voleva darmelo... ma bastò che io starnutissi, perchè... l'aveste più visto voi altri?

Gli altri. — No...

Capit. — E neanch'io... (guarda in aria e fa un gesto)

Dott. — S'è fatto in polvere?...

Pant. — S'è ridoto in caligo?...

SCENA VIII.

ARLECCHINO, inosservato, dalla destra del teatrino. Detti.

Capit. (mostrando un punto in aria). — Già, dalla paura... La vedete quella nuvoletta piccola piccola, che starebbe nel grembialino di Colombina, e corre giù giù verso la fine del mondo?

Colomb. — Quello è quanto rimane di Arlecchino?

Pant. — Povareto!

Dott. — Ma già, se non finiva in nebbia oggi, finiva in polvere stassera lui ed il suo Burbero!

[242] Pant. — No digo che se lo meriteria; ma che bisogno gh'avemo nù de sta rassa de can de poeti per farse applaudire, quando n'avemo d'avanzo delle nostre entrate e sortite di scena? Pistolotti, digo mi, pistolotti a sogèto; smorfie, lazi a volontà, e po' basta!

Colomb. — A me, non avessi altro, basta la canzonetta allegra e l'ardita furlana. Tra la la là!

Capit. — Io non ho che da aprir bocca perchè il pubblico dalla paura si metta subito ad applaudirmi.

Dott. — E io, più voglio parlare sul serio, e più faccio ridere!

Capit. — Dunque, viva noi e abbasso i poeti, gente incontentabile.

Dott. — Che vuol sempre esser chiamata fuori...

Colomb. — Mentre non merita che d'esser messa dentro!

Gli altri (meno Arlecchino). — Brava! Abbasso!

Capit. — Sì, abbasso tutti i poeti e in particolare... (vede Arlecchino che gli si pianta davanti agitando la bàtola) evviva Arlecchino!

Arlec. — Abbasso Arlecchino con tutte le teste di legno pari vostre, e viva Goldoni; sì, Goldoni, che per il primo ha dato all'Italia un teatro suo; Goldoni che ha fatto di più lui solo per render simpatica la nostra Venezia, che non tutti assieme gli artisti e scrittori del mondo; Goldoni, che col Burbero ha la gloria splendidissima di aver ricondotto nel paese istesso di Molière il gusto e l'amore della naturalezza e della verità!

Gold. — È troppo! Basta, figliuoli...

Arlec. — Sì, è vero, Goldoni ha fatto della nostra commedia a braccia colle maschere... quello che il Capitano disse d'aver fatto di me...

Capit. — Per ridere!

Arlec. (seguitando). — Ma, mentre nessuno rimpiange la nostra commedia così recente e si dimenticano i meglio autori, l'Italia applaude ora, come venti, trenta e quarant'anni fa, il Cavalier di spirito...

Colomb.Pamèla...

Pant.Sior Todaro Brontolon...

Capit.Le barufe ciosote...

[243] Dott.L'avvocato Veneziano...

Arlec.Il bugiardo...

Colomb.La sposa sagace...

Pant.Il curioso accidente...

Capit.Le gelosie di Lindoro...

Dott.Terenzio e Molière...

Arlec.Il campièlo...

Colomb.Gl'innamorati...

Pant.L'impresario delle smirne...

Capit.La bottega da caffè...

Dott.La vedova scaltra...

Arlec.Le donne curiose...

Ricc.La bona mare...

M. Far.La locandiera...

Agir.I pettegolezzi...

Signora Rin.Le tre della villeggiatura...

R. Fari.L'ultima notte di carnevale...

Rinaldi.La moglie saggia...

Ant.Il ventaglio...

Bouch.La casa nova...

Leg.I rusteghi...

Nicol. — E Il burbero benefico! (abbraccia Goldoni).

Tutti (meno Goldoni). — Viva Goldoni! (applausi entusiastici)

Gold. — Basta! Basta!

Gli altri (seguitando l'ovazione). — Viva molti altri anni!

(Violenta scampanellata dal fondo, che tronca all'istante gli applausi e gli abbracciamenti)

Pier. — Corro io! (esce dal fondo correndo)

Ant. — (Non può ancora essere il desinare). (s'avvia al fondo)

SCENA IX.

PIERINA, un COMMISSARIO di polizia seguito da due AGENTI che rimangono in fondo. Detti.

Pier. — Signor avvocato, un commissario di polizia.

Ant. — Lasciate parlare da me.

[244] Commiss. (intima a Pierina di uscire dal fondo, quindi bruscamente). — Qu'est il ce tapage, ces applaudissements?

Ant. — Citoyen commissaire, nous fêtons entre amis l'anniversaire des noces de mon oncle l'avocat Goldoni, que voilà.

Commiss. (ad Ant.). — Et dans quelle manière fêtez-vous ce bel anniversaire?

Ant. — Avec des scènes improvisées, des impromptus...

Commiss. — Dites des chansons grivoises, des propos gaillards, je m'y connais; mais, allons donc! n'improvise pas qui veut des scènes!

Ball. — Monsieur, il n'y a que l'argent que nous autres Italiens ne savons pas improviser!

Commiss. — Des Italiens? Qu'est qu'il radote ce vieux magot, mille million de tonnerres?!

Ant. — Rien, excusez... Il a trop bu! (a Ball.) Zitto!

Ball. — (Trop bu? Se ho una sete che la vedo!)

Ant. — Pardon, citoyen Commissaire; j'ai oublié de vous dire que tous ces messieurs et ces dames sont des artistes de théâtre.

Commiss. — Ah! Des baladins, des farceurs pour égayer les aristos?

Gold. — Non, citoyen, pour égayer tout le monde.

Commiss. — Et vous aussi, l'avocat, vous êtes de la bande?

Gold. — Oui, de la troupe.

Commiss. — Danseur?

Gold. — Je le voudrais bien; mais j'en suis simplement le poëte comique.

Commiss. — C'est une profession ça?

Gold. — Oui, en France.

Commiss. — Et cette mascarade?

Ant. — Des pensionnaires de la troupe italienne au service du Roi de France.

Commiss. — Du Roi de France?! En voilà une bonne de farce! Mais c'est à se tordre de rire!! Dites moi, s'il vous plaît, qui est-ce maintenant ce fameux Roi de France qui vous paye la pension?

Ant. — Mais... Louis Seize de Bourbon.

[245]

SCENA X.

CHÉNIER dal fondo, seguito da PIERINA. Detti.

Commiss. — Ah! Ah! quels farceurs! Et c'est de Louis Seize que vous attendez tous vôtre pension?

Chén. — Citoyen Commissaire, je réponds d'eux tous; laissez nous.

Commiss. — Très-bien, citoyen député, c'est dit!... Mais, si vous avez envie de rire, demandez à ces gens qui fêtent, aujourd'hui! l'anniversaire de leur mariage, qui est-ce le Roi de France!

Chén. — Suffit, Commissaire.

Commiss. — Suffit..... Ah! s'ils connaissent leur métier comme le temps où ils vivent, fichtre! c'était bien servi monsieur Capet... le Roi de France!

(Esce ridendo dopo i suoi agenti e seguito da Pierina, che ritorna poi subito in scena).

Gli altri (meno Chénier, con un respiro). — Ah! (uscito il Commissario, s'affollano attorno a Chénier) Che cosa ha voluto dire?

Gold. — Che forse il Re ha abdicato?

Chén. — Il Re non ha abdicato: l'Assemblea costituitasi in Convenzione nazionale ha abolito la monarchia.

Gli altri. — Dio!

Gold. — Oh il mio povero Luigi, così buono e generoso!

Chén. — Il tuo primo grido di dolore non è per te, è per lui, generoso amico!... Ma bada e badate tutti che coll'abolizione della monarchia, la Convenzione ha oggi decretato la pena di morte per chiunque possa esser sospetto — soltanto sospetto — di far voti per la liberazione di Luigi ed il suo ritorno sul trono!

Gold. — La sua liberazione! Ma dunque egli...?

Chén. — Egli è prigioniero colla famiglia nella torre del Tempio.

Gold. — Come un malfattore, lui! E anche la Regina? La Principessa Adelaide? Il delfino?

Nicol. — Coraggio, Carlo!

[246] Gold. — No... non posso reggere!..... Voglio fuggire da questo paese dove non si conosce moderazione in nulla; dove si è sempre agli estremi nella servilità e nella ribellione! L'ambasciatore di Venezia mi ha promesso di farmi ritornare a Venezia; ebbene, andiamo da lui subito, pur che si parta in qualunque modo, pur che si vada via!

Chén. — Ohimè, che ti debbo dare anche questo dolore! L'ambasciatore Almorò Pisani è partito per Londra!

Gold. (smarrito). — Partito... senza una parola... un soccorso!... partito... dopo d'avermi inchiodato qui a morire di terrore e di miseria!

(Si abbandona sopra una seggiola assistito da Nicoletta e Battistino)

Ant. — Fuggito dalla paura, lasciando qui abbandonata la sua vecchiaia veneranda! Ah! io non sono che un povero disgraziato, oscuro e miserabile; ma mi vergognerei di avere il cuore così basso come sua Eccellenza, ben degna di rappresentare, non il popolo veneziano, vivaddio! ma il Governo che non ha mai saputo riconoscere il tuo valore, che ti ha ricusato il misero impiego che gli domandavi per non essere costretto a venire in terra straniera a cercarvi il pane e la gloria!

Tutti (meno Goldoni). — Sì, sì, ha ragione!

Gold. — Ma no che non ha ragione! Mi vuole troppo bene e l'amore lo fa ingiusto! Zitto là!... L'Ambasciatore è partito... buon viaggio! Ma ci resta l'amico che non abbandona, ci resta Chénier, il mio valoroso compagno d'arte, che ci farà dare gli arretrati della nostra pensione e ci porrà così in grado di ripararci tutti in Italia.

Gli altri (meno Chénier). — Sì! Sì!

Ball. — Daremo rappresentazioni...

Gand. — Tutti vorranno vedere gli ultimi comici italiani del Re di Francia...

Batt. — Tutti vorranno vedere Carlo Goldoni!

Gli altri (supplichevoli). — Sì, Chénier! Se non per noi, per lui solo!

Chén. — L'amicizia di Carlo Goldoni è l'orgoglio della mia gioventù; ma, appunto per questo, se io vi lusingassi, vi tradirei!

Gli altri (costernati). — Come?

[247] Chén. — Ma, col Re in prigione, la monarchia abolita e l'assegno alla corona soppresso, io non posso per ora parlare di voi alla Convenzione senza compromettervi tutti!

Nicol. — E intanto, per il mio buon Carlo..... la miseria!

Ricc. — Per me la morte!

Ball. — Ora sì che mi sento vecchio!

Ant. (angosciato, a Goldoni). — E tu dici che io sono ingiusto verso il Governo di Venezia!

Gold. — Antonio..... Guarda quanti hanno perduto tutto come noi e non maledicono che la sorte! E tu, per troppo amore, invece di pensare a consolarci, mi tocchi la mia Venezia! (un moto di Antonio) Ma anche chi ve comanda xè vinizian... e co se dise Venezia, mi no fasso distinzion... per mi Venezia la xè la mare cara e benedeta... di cui no se recorda che l'amor, la gloria, i benefizi... E bel e abandonà... bel e ridoto a non aver più speranza de poderla riveder (con uno schianto) mai più!...

da Venezia lontan do mila mia,

no passa di che no me vegna in mente...

el linguagio... e i costumi de la gente...

el dolse nome de la patria mia!

(Soffocato dalla emozione, si butta al collo di Antonio, mentre tutti gli altri gli si accostano commossi, e cala il sipario)

Fine dell'intermezzo.

[248]

ATTO SECONDO

Una stamberga nel poverissimo quartierino sotto tetto in via Mauconseil. Tre porte, due laterali ed una in fondo verso la destra. Delle laterali quella a destra scorge alla stanza di Antonio e Battistino; quella a sinistra alla camera da letto di Carlo e Nicoletta. Nel mezzo della scena in fondo un ampio abbaino colla sua vetrata che guarda sull'infinita distesa dei tetti di Parigi coperti di neve. Sotto all'abbaino un mobiletto, come un piccolo canterano, sul quale sta il busto di Molière in mezzo al alcune boccette di medicinali. Sulla scena, a destra, un seggiolone a braccioli coperto di stoffa svanita, accosto ad un braciere colla sua palettina; a sinistra un tavolino fra due seggiole impagliate: sul tavolino un tappeto logoro, un candeliere di ottone colla sua candela spenta, l'occorrente per iscrivere, alcuni fogli di carta bollata bianca ed uno scartafaccio di carte legate con un nastro. D'inverno, il 6 di febbraio del 1793. È giorno.

SCENA I.

ANTONIO al tavolino che copia scritture su carta bollata, soffiandosi di quando in quando sulle dita, e poi subito dal fondo BATTISTINO con cappello e mazza.

Ant. (scrivendo). — «Fait passé et signé en la demeure du soussigné, à la présence des dits témoins, à Paris, ce six février, mil sept cent quatre vingt treize.» (stirandosi) Oh finalmente! non ne posso più! (Battistino) Ebbene? (si alza e s'accosta al braciere per riscaldarsi mani e piedi)

Batt. — Pieno di freddo e colle mani vuote secondo il solito... sebbene non abbia perduto affatto il tempo. E tu hai finito?

Ant. — In questo momento... Mi scaldo un pochino e poi corro a portare quello che ho fatto. Potevo terminare tutto la notte scorsa, ma cascavo dal sonno...

[249] Batt. — Già! A non mangiare ci s'arriva; ma non a non dormire. Meno male che a levarsi il bisogno di dormire non costa nulla, mentre quell'altro... E oggi! — No, Tonino, se il mondo lo facevo io, questa brutta necessità di mangiare non ce la mettevo davvero! — Anzi l'uomo l'avrei fatto che si trovasse naturalmente nelle disposizioni di chi si alza da una buona tavola... (ha levato una crosta di pane dal cassetto del tavolino e la rosicchia) Capisci che bella cosa? Tutti di buon umore, tutti a scherzare, o parlar d'arte, a fare all'amore: la vera età dell'oro!... mentre questa la vedi che età: l'età delle croste! (per buttarla via) Oh vilissima crosta... se avessi di meglio! (seguita a rosicchiare)

Ant. — Beato te che sai pigliare in burletta anche l'appetito!

Batt. — Sono fiorentino! Ma chi non ha fatto la burletta è stato il padron di casa di via Richelieu. Altro che darmi quattrini per la mobilia che c'ha sequestrato per la pigione! Mi rispose che non tornava neanche il conto! Che si fosse già contenti d'aver potuto portar via questa bella roba... tre seggiole con tre gambe... e il busto di Molière per giunta!... Se gli era una pentola se la teneva: ma un poeta! Allora dissi fra me: andiamo a frecciare Préville a Beauvais, o Favart a Belleville.

Ant. — Avresti fatto malissimo. La povertà deve avere il suo pudore.

Batt. — Già. Ma Préville s'è nascosto e Favart, per non lasciarsi trovare, è addirittura morto. E per questo sono andato dritto dritto dal deputato Chénier.

Ant. — Spero che non gli avrai detto che siamo quassù e nella più dolorosa povertà.

Batt. — Ah! povertà non l'ho detto...

Ant. — Meno male.

Batt. — Ho detto estrema miseria.

Ant. — Battistino!

Batt. — Tonino, fammi il piacere, che quando il bastimento cola a fondo, non si deve pensare che a salvare la pelle!

Ant. — E così il poeta italiano dovrà arrossire della sua miseria dinnanzi al poeta francese? Ma non senti che è meglio morire di fame mille volte?

[250] Batt. — Neanche una, poichè con tante belle libertà e sopra tutte quella di morir di fame, la tua morte non darebbe al povero avvocato che uno schianto di più al cuore! Oh se i sentimenti generosi potessero tener luogo di bistecche e di legna da riscaldare, allora nessuno starebbe meglio di noi. Ma par fatto apposta: più hai idee alte e meno puoi soddisfare i bisogni bassi! Quanto poi alla miseria del poeta italiano, capisco, rincresce, dinnanzi agli stranieri; ma dacchè mondo è mondo, poeta italiano e uomo squattrinato son sempre tornati la stessa cosa... Perchè dunque si dovrebbe fare un'eccezione per lui? Sarebbe un'ingiustizia anche per quelli di là da venire!

Ant. — Meno male se non fosse che la miseria! Ma lo zio declina ogni giorno di più, e per quanto si cerchi di nascondergli le nostre strettezze, come si è fatto delle stragi del settembre e poi del supplizio del Re, io temo che l'abbandono di ogni antico amico gli debba essere fatale. (si asciuga gli occhi)

Batt. — Coraggio, via! Chénier verrà quest'oggi istesso, e quando avrà visto... quello che non c'è, qualche cosa farà perchè il suo vecchio e glorioso amico possa almeno morire tranquillo. Tu va a portare le tue scritture: alla casa ci penso io.

Ant. — Se viene intanto Chénier, digli quanto ti pare...

Batt. — È presto detto: zero via zero, zero.

Ant. — Ti dò carta bianca... Io non ho più la testa a segno, e l'avrei anche meno senza della zia così coraggiosa, senza di te che dopo la partenza di Pierina ti adatti ad ogni servizio più basso!...

Batt. — Protesto: a questo piano non c'è più nulla di basso!

Ant. — E io per tanta abnegazione (lo piglia fra le sue braccia) non avrò da darti nessuna ricompensa! Nessuna!

Batt. — Tonino, lo fai apposta ad intenerirmi, con quella crosta che ho sullo stomaco?

Ant. — Hai ragione... Vado... E ricordati, se viene Chénier, carta bianca. (piglia lo scartafaccio, cappello e mazza ed esce dal fondo)

Batt. — Carta bianca per dare ad un povero vecchio mezzo [251] cieco un'ultima illusione di agiatezza, quando un assegnato di cento lire non serve che per quindici, quando tutta Parigi agonizza fra le strette delle armate straniere e del Comitato di salute pubblica? Salute per modo di dire! Sicuro che col suo metodo non si patisce più il mal di capo! Carta bianca e a chi? Ad un comico a spasso. — Che sa fare lei? — Ridere. — Far ridere quando una risata può dare a sospettare che abbiamo un'idea diversa dalla loro, quando per cambiarci le idee ci cambiano addirittura la testa — senza darcene neanche un'altra?! — Perdoni, mi pareva che giusto in questi momentacci il fare una bella risata facesse un po' di bene. — No, no, caro, il ridere per ridere è giù di moda. L'uomo dopo che s'è dato alla politica è più che mai la gran bestia malinconica. E poi noi i nostri comici li abbiamo senza andare in teatro: abbiamo quelli che fanno le cose ridicole coll'aria seria... questi sono adesso i grandi artisti! Lei è un avvocato vuoto d'idee e pieno di rettorica tal quale el sour autor? Bravo: lo manderemo all'Assemblea. Lei non ha mai saputo amministrare il fatto suo come Pantalon? Benone: le faremo amministrare il paese. Lei invece è di tutte le opinioni come Arlechino di tutti i colori? A meraviglia! Avanti con Brighella, Truffaldino e Scaramuccia: a voi il nostro voto e il nostro destino! A voi i migliori posti, belle maschere della nuova Commedia! — E tu, Battistino, non capisci perchè ora i comici vadano a terra? Ma se fanno ridere di più quegli altri!

SCENA II.

PIERINA, con una panierina, dal fondo. Detti.

Pier. — Titino, sono venuta a darvi una buona notizia. Ma lasciate la chiave nell'uscio?

Batt. — Non c'è nessun pericolo; ma ditemi subito... Oh che delizioso profumo da questa panierina!

Pier. — Lo credo io: pasticcetti ripieni di selvaggina belli e caldi!

Batt. — A questi lumi di luna selvaggina?

Pier. — Nella casa dove mi sono allogata nessuna privazione!

[252] Batt. — (Tal quale in questa). Dunque sentiamo la buona notizia... ma è un gran buon odore!

Pier. — L'odore non è nulla in confronto del sapore...

Batt. — No... non ne voglio assaggiare... (Chissà che cosa direbbe quella crosta!)

Pier. — Oh uno! Uno più uno meno! (ha preso un pasticcetto nella paniera)

Batt. — Allora piglio un piatto... (va al canterano a pigliarlo)

Pier. — Un piatto per metterci un pasticcetto!

Batt. — Per mangiarmelo con tutto il comodo e la riflessione che merita.

Pier. — Che stamberga! E a che piano siete venuti!

Batt. — Oh! al sesto... (perchè non c'era il settimo...) per l'aria, la luce... (guardando il pasticcetto nel piatto) Deve essere squisito... ma ora che ci penso... sarà meglio che lo dia all'avvocato.

Pier. — E allora quest'altro a sua moglie. Due più, due meno!

Batt. — Sicuro... E al nipote, quel bravo Tonino, nulla?

Pier. — Ma allora sono tre... Via diamogliene uno anche a Tonino... Ma siete proprio ridotti agli sgoccioli?...

Batt. (sottovoce). — Non rimangono neanche più le sgocciolature!

Pier. — E il vostro credito?

Batt. — Credito?! Lo vedete, Pierina, questo foglio di carta bollata da una lira? Ebbene basta che io ci metta il mio nome sopra perchè non valga subito più nulla!

Pier. — Ma io non voglio che il mio fidanzato si riduca così al lumicino.

Batt. — Che lumicino d'Egitto? Se non sono più in carne è perchè sono degli Stuck che possono essere unti, ma grassi mai! E sto benone! Ho sempre un appetito... Ma che buon odore mandano questi pasticcetti! (mette il piatto sul canterano)

Pier. — Ve ne ho già dati tre... (un gesto di Battistino) ma voi non ne avete avuto nessuno... (gliene porge un altro)

Batt. (stendendo la mano). — Non vorrei essere indiscreto...

Pier. — Ma tiriamo via e lasciatemi parlare. Il mio nuovo [253] padrone, ve l'ho già detto, è un fornitore d'armata. Ora siccome andiamo a Nizza ad aspettare che l'esercito francese abbia preso Torino...

Batt. — Aspetterete un pezzo.

Pier. (seguitando) — ... il padrone cerca un giovane segretario che sappia l'italiano per portarselo con sè, bene stipendiato, alloggiato, nutrito e con un tanto per cento sulle forniture, quattro cose.

Batt. — E stare accanto a Pierina che ne vale dieci.

Pier. — Stare accanto? Ma il padrone a cui ho raccontato tutto, è contento che ci sposiamo subito!

Batt. — Troppa felicità in una volta!

Pier. — Ma bisogna partire domani!

Batt. — Domani... (guarda a sinistra)

Pier. — È la nostra fortuna, Titino! Pensate che potremo risparmiare la paga, le mancie e ancora fare dei guadagni sulla spesa di casa... È proprio vero quello che dice l'avvocato, che il tempo è galantuomo!

Batt. — Il tempo sì, ma non le serve che sgraffignano sulla spesa!

Pier. — Oh il padrone è uno straniero per noi.

Batt. — E non fa peccato anche il rubare agli stranieri?

Pier. (alzando le spalle). — Oh! quando si ama il suo paese!

Batt. — Ho capito, si ruberebbe per amor di patria! Ma anche senza rubar nulla, come faremo, io sarò contentissimo di dovere tutto alla più bella delle Pierine! (l'abbraccia)

SCENA III.

GOLDONI in veste da camera al braccio di NICOLETTA, dalla sinistra. Detti.

Nicol. — Tortoreggiano, bravi! (a Goldoni) C'è la nostra brava Pierina che s'è ricordata di noi.

Gold. — Brava davvero!

Pier. — (Povero avvocato, non è più che un'ombra!) Sono proprio io, venuta apposta... per...

[254] Batt. (pigliando il cartoccio dei pasticcetti dalla paniera). — Farvi assaggiare due pasticci fatti da lei... (sottovoce a Pierina) Per questa volta al fornitore resteranno quelli che fa lui... (a Goldoni) Senta che profumo!

Gold. — Squisito... ma non mi sento... Da qualche giorno non ho più voglia di nulla...

Nicol. — Ma un po' di brodo, ora che hai riposato, lo devi prendere per farmi piacere.

Gold. — Per farti piacere, sia... Pierina, vieni qui vicino... Ti fai più bella tu.

Pier. — Che dice, avvocato? Si vede proprio che non ci vede bene!

Nicol. (andata al canterano in fondo per pigliarvi un bricco). — Oh! le belle ragazze le vede ancora!

Gold. — Vedi, Pierina? Per causa tua mia moglie diventa gelosa! Troppo tardi, Nicoletta; ma ad ogni modo sta sicura che delle infedeltà non te ne faccio più!

Nicol. (mette il bricco a scaldare sul braciere). — Ci conto, badiamo!

Pier. — Se me lo permettono, ritornerò più tardi... sono vicina...

Gold. — Mi fai un piacere a me — e due a Battistino.

Pier. — Signora Nicoletta, serva sua... (a Battistino sottovoce) A questa sera...

Nicol. — Addio, Pierina, a rivederci. (Pierina esce dal fondo con Battistino)

Gold. — Bella gioventù, tesoro della vita! Avessi almeno il mio eccellente stomaco d'una volta, non sentirei tanto il freddo!

Nicol. — Carlo, siamo oramai a mezzo febbraio... Ma chi è che parla così forte sulla scala?

Gold. — Se fosse qualche amico che si ricordasse di noi? Dove sono andati tutti quelli che c'hanno fatto tante feste in fine del settembre? Voi mi nascondete delle brutte cose, lo sento!

Nicol. — Zitto... C'è Balletti... la Bertinazzi... sia lodato Iddio!

Gold. — Venite! Venite, amici, e siate benedetti!

[255]

SCENA IV.

BATTISTINO, SUSANNA, BALLETTI, GANDINI e MATTIUZZI dal fondo, tutti, meno Battistino, ansanti e pallidi. Detti.

Batt. (con stizza a Balletti). — Pochi discorsi, o si parla sottovoce, o si ripiglia la scala!

Gold. — Che cos'è stato?

Ball. (in fondo a Battistino). — E perchè non potrò gridare se ci sono tutte le libertà?

Batt. — Anche quella di dar noia ad un ammalato?

Matt. — Ci vuoi dunque far mettere in prigione, imbecille!

Gand. — Non capisce più nulla, l'idiota!

Ball. — Meno male imbecille, ma idiota...

Batt. — Alle corte, silenzio!

Gold. — Ma Battistino, perchè strapazzi così il povero Balletti?

Sus. — Ah! Goldoni, se siamo vivi è un vero miracolo! (scendono tutti)

Nicol. — Ma non ci spaventate, per carità.

Gold. — Lasciali parlare. Sono amici che si ricordano di noi, poveretti, e Susanna poi è anche la vedova del mio gran Carlino, quello che m'inspirò il Burbero... Titino, falli sedere... Parla, Susanna, parla.

Sus. — Oh è presto detto: Balletti è senza domicilio.

Ball. — Senza domicilio e imbecille.

Sus. — Il suo locandiere, visto che non ha più quattrini, lo ha messo fuori di casa. Piglio con me Mattiuzzi e Gandini e vado a scongiurarlo di pazientare per qualche giorno, di non mettere in istrada nel fitto dell'inverno un vecchio di quell'età...

Ball. — Che vecchio? Ho un anno meno di Goldoni io!

Gand. — Lo sentite? Ma il locandiere non vuole per nessun conto tenerlo dell'altro perchè Balletti compromette coi suoi discorsi la locanda.

Ball. — Ho detto soltanto che un governo che odia la gente allegra è un governo detestabile!

[256] Batt. — Ho capito: sarà meglio andare a far la guardia. (via dal fondo)

Sus. — A farla corta il locandiere finisce per metterci tutti e quattro fuori. Balletti, appena è in istrada si mette a gridare, a dirne di cotte e di crude, e così la gente corre, si affolla, ci attornia minacciosa e comincia ad urlare: morte agli italiani!

Gold. — Dio! E voi altri allora?

Matt. — In mezzo a quella baraonda, come quattro pulcini senza sangue e senza fiato... No, del fiato ne restava e molto a Susanna, che bisogna dirlo è la sola che non si perda d'animo, la sola che osa gridare: Parigini, minacciare una donna e tre vecchi è cosa indegna della Repubblica! e con queste parole si fa largo, ci spinge avanti, ci salva la vita!

Gold. — Brava!

Sus. — Per fortuna Balletti aveva cessato di ripetere le sue sciocchezze!

Ball. — Io era troppo contento che tu avessi dato del vecchio anche a loro due.

Sus. — Ma si può essere più sciocco?

Ball. — Oh basta! Ve lo farò vedere se sono sciocco! Goldoni, io ho ideato una gran commedia contro la convenzione; sissignori, l'ho tutta qui... (a Goldoni) Non mi manca che il titolo.

Gold. — Te lo do io: tempo perso! (risata di approvazione degli altri) Via, per questa sera ti adatti a dormire sul canapè?

Nicol. — C'è un guaio: il canapè non è in casa... l'abbiamo mandato a rassettare.

SCENA V.

ANTONIO dal fondo con mazza e cappello. Detti.

Gold. — E allora, caro Balletti, bisogna che ti contenti di un lettuccio fatto sulle seggiole.

Ant. — Caro zio, è impossibile: non c'è altre materassa che quelle necessarie ai nostri letti. Buon giorno a tutti.

[257] Gold. — Senti, caro Tonino, per pochi giorni...

Ant. — Anche Paolo Bernardi l'avevi ospitato per un giorno e poi è rimasto a tuo carico per mesi e mesi!

Gold. — Spero non mi vorrai rimproverare una buona azione!

Ant. — Voglio risparmiarti il dolore di doverlo licenziare domattina.

Gold. — Domattina? Non potrei invitarlo a desinare con me?

Ant. — La vita è troppo cara!

Gold. — Ed è quando la vita è troppo cara che io devo respingere un infelice?

Ant. — Quando non se n'ha più per sè!

Gold. — Ah!

Ant. — Perdonami se ti do questo dolore... ma per risparmiartelo non sarebbe bastato che io mi fossi privato d'ogni cosa per darla a lui, sull'onor mio! (esce dalla destra)

Nicol. — Povero Antonio!

Gold. — Povero Balletti! Povero Goldoni!

Ball. (commosso). — No, Carlo, non ti crucciare... Benchè vecchio... e idiota... so come farla finita e subito! Sì, vado al Palazzo Reale... al convegno di tutti i disordini, per gridarvi con quanta voce ho in petto che sono stati sei Re di Francia che hanno protetto i comici italiani...

Gli altri (con preghiera). — Balletti!

Ball. (seguitando). — È stato un Re di Francia che ha protetto il primo poeta comico dell'Italia... Viva dunque il Re di Francia!

Gli altri (affollandoglisi attorno). — Per carità!

SCENA VI.

CHÉNIER preceduto da BATTISTINO, dal fondo. Detti.

Batt. (annunziando). — Un amico: Chénier!

Chén. (in fondo, a Battistino). — Addirittura la miseria?

Batt. — Sì, e se non fate presto, lo libererà la morte!

Chén. (abbracciando Goldoni). — Mio povero amico!

Gold. — È Dio che ti manda a levarmi una spina dal [258] cuore. Questo mio antico compagno d'arte, senza pensione come me, è senza tetto e senza mezzo di guadagnarsi un pane, in mezzo alla strada!... e io..... tu ci vedi meglio di me e basta, senza che ti dica altro!

Chén. (scrive due parole sopra una carta che ha tratto dal suo taccuino e la porge con un assegnato a Susanna). — Questo al Direttore dell'Ospizio di Bicêtre, e questo per arrivarvi.

Sus. — Voi fareste amare la rivoluzione; ma voi siete un poeta!

Nicol. — Un vero amico! — (agli altri) Non sarà detto che partiate senza aver preso qualche ristoro. Favorite di qua... (verso la destra). Andiamo, Balletti?

Batt. — Coraggio!

Ball. — All'ospedale... un artista!

Batt. — Son fatti apposta gli artisti per gli ospedali... cioè gli ospedali per gli artisti; ma già torna il medesimo.

Ball. — Ma se riaprono i teatri...

Batt. — Tornerai a fare l'amoroso, è inteso.

Nicol. (a Battistino). — Se si desse loro i pasticci di Pierina?

Batt. — Nulla di meglio: pasticci e comici, va da sè. (escono tutti dalla destra, mentre Chénier siede accanto a Goldoni)

Gold. (con una mano di Chénier fra le sue, affettuosamente). — Il mio ultimo amico!

Chén. — Se non ho più potuto vederti, non è stato senza occuparmi di te, e ora sono lieto di dirti che all'ordine del giorno d'oggi c'è la mia interpellanza che ti riguarda. Non meravigliarti che io non abbia potuto in più di quattro mesi mettere una parola di pace, d'arte e di giustizia in quel vortice farragginoso: come se non bastasse la violenza delle passioni e degli avvenimenti, noi dobbiamo anche subire gli stolti capricci della tribuna pubblica, ogni dì più minacciosa e soverchiatrice!

Gold. — Grazie, grazie con tutta l'anima... Ma non dirmi altro di questi tempi...

Chén. — Si può dimenticare molti eccessi e sperare nell'avvenire quando si vede che in mezzo alla coalizione straniera la Francia improvvisa un milione di soldati!

[259] Gold. — E tu hai forse ragione; ma che vuoi, io sono d'un'altra epoca, d'un'epoca spensierata ma disciplinata, allegra ma rispettosa, e perciò guardo dalla riva su cui rimango abbandonato da tutti i miei coetanei questa vostra gran corrente torbida e rovinosa, senza avere il coraggio d'imbarcarmi, quasi certo che dopo di avere ammazzato il buon umore finirete per togliere all'uomo tutti i sostegni più sicuri della vita!

Chén. — E io ti compatisco: alla tua età non si rifà tutta un'abitudine di sentire e di pensare.

Gold. — Ma se rimpiango la gioventù, abbi pazienza, non è per fare della politica, no; ma per lavorare, per tratteggiare nuovi tipi, nuove commedie, per usare tutta la libertà di scegliere i miei argomenti dove mi pare, non come il Goldoni d'una volta che non poteva mettere in scena nè governanti, nè nobili, nè magistrati, nè preti e soldati. Ma poichè io non posso comprendere, e quel ch'è peggio, non posso fuggire la tua rivoluzione, lasciami morire in pace e fedele alle mie convinzioni.

Chén. — Eppure è indispensabile che tu mi autorizzi a dichiarare oggi alla Convenzione che ti glorii di essere cittadino francese...

Gold. — Sempre!

Chén. — ... e repubblicano.

Gold. — A Venezia; ma qui, finchè vive il Re Luigi, mai! (si alza)

Chén. — Ma disgraziato amico, il Re Luigi è morto da due settimane!

Gold. — Morto! Morto d'angoscia e di patimenti, in prigione?

Chén. — Peggio!

Gold. (colpito). — Peggio? Ci può essere di peggio?

Chén. — In piazza della Rivoluzione.

Gold. (non comprendendo sulle prime). — In piazza?... Ah! no, no, non è possibile, come un assassino, lui! (un cenno di Chénier) È stato possibile? E la Regina? E la principessa Adelaide, il Delfino?

Chén. — Aspettano in carcere il loro giudizio.

Gold. — Giudizio! E Luisa Savoia di Lamballe? Voglio saper tutto!

[260] Chén. — Da più di un mese stracciata a pezzi dalla plebe.

Gold. (con ribrezzo). — Oh! La donna più bella, gentile e generosa!! Ed è questa la rivoluzione di cui mi vuoi far complice? La morte, mille volte la morte... che non può più essere nè amara, nè lontana!

Chén. — La morte... Ma tua moglie?

Gold. — Mia moglie?! (con un grido disperato) Oh come sono infelice! (si abbandona con uno scoppio di pianto sopra una seggiola)

Chén. — Via, Carlo, non smarrire il coraggio che ti sostenne in tante prove!

Gold. — Hai ragione... Va pure a dire quello che vuoi... Fra tante menzogne infami questa almeno sarà pietosa!

Chén. — Scusami se t'ho fatto soffrire...

Gold. — Come non soffersi mai! Ma tu l'hai fatto per il mio bene; meglio, l'hai fatto per quello della mia povera Nicoletta! (si è alzato e accompagna Chénier al fondo) Va... non perder tempo e ritorna con una buona notizia... (Chénier esce) ... e presto!

SCENA VII.

ANTONIO dalla destra. Detto.

Gold. (portando le mani al cuore come un uomo ferito). — Ah! m'ha piantato qui un coltello, un coltello che non mi andrà più via!

Ant. — Mio zio! Tu hai pianto... Che cosa ti ha detto Chénier?

Gold. (come chi è stato oppresso da una rivelazione troppo terribile per le sue forze, con vero terrore, quasi gliene apparisse la visione). — Tutto!

Ant. (raccogliendolo fra le sue braccia e portandolo sul seggiolone). — Dio!

Gold. — Che vuoi! Sono stato a corte come Molière, ma senza essere cortigiano, e volevo loro bene non perchè principi, non perchè larghi di doni, ma perchè colla cortesia e colla affabilità avevano guadagnato il mio cuore e quello di Nicoletta.

[261] Ant. — Senti, sarà meglio che chiami la zia e ti portiamo sul letto...

Gold. — No, si spaventerebbe, e sul letto io soffocherei... Ma non ti pare che si faccia notte?

Ant. — Ad ogni modo non è lontana, ed accendo subito un lume. (va ad accendere la candela)

Gold. — Antonio, lascia stare e vieni qui presso di me che t'ho a dire una cosa mentre non c'è Nicoletta: io non ho bisogno del lume per leggere nei tuoi occhi quanto ci sei affezionato!...

Ant. — Non parlare di me!

Gold. — Eccolo il mio piccolo burbero benefico!... Ma come mal ricompensato! E che eredità ti lascierà questo povero zio!

Ant. — Un gran nome e la memoria incancellabile della tua bontà!

Gold. — Ma assai più debiti! Ma il tempo è galantuomo e io spero che un giorno qualcheduno penserà che Antonio Goldoni merita pure un raggio, il più puro, della gloria di Carlo, se gloria ci sarà... Lasciami dire... Intanto tu promettimi... quando mi vedrai oppresso dal male... di sollevarmi con altri pensieri...

Ant. — L'arte tua, il passato!

Gold. — Bravo! Ma sopratutto di aiutare, quando io non ci sarò più, la mia Nicoletta a sostenere con coraggio la prova della nostra separazione.

Ant. — Sì! Sì! Ma bisogna che tu ti senta molto male per parlare di queste cose.

Gold. — No... ma mentre sono in tempo... mentre posso ancora darti... a te che seguiterai ad essere per lei un figliuolo amoroso...

Ant. — Sull'anima mia!

Gold. — La mia benedizione!

Ant. — Tu ti senti mancare! La zia...

Gold. — Non la spaventare... povera Nicoletta... non le dir nulla... Mi sento già meglio... molto meglio!

[262]

SCENA VIII.

NICOLETTA dalla destra. Detti.

Nicol. — Quel povero Balletti a momenti ti fa piangere e a momenti... Ma Carlo si sente male?

Gold. — Non è nulla... Un po' di nervi...

Ant. — Chénier l'ha fatto inquietare senza volerlo...

Gold. — Allontana quel braciere, Tonino... e accendi una volta il lume.

Nicol. — (O Dio!) (piange)

Ant. — (Ohimè!) Non c'è più candele, zio... Ma appena sono andati via quegli altri, scendo subito a pigliarne.

Gold. — Bravo... Intanto qui tutti e due... le vostre mani... Chi è che piange?

Ant. — Nessuno!

Nicol. — Nessuno!

Gold. — Lo sapete bene che non ho mai potuto sentire a piangere!... E ora meno che mai... E poi la mia parte... una lunga parte! l'ho recitata... e bisogna pure che rientri nelle quinte... Non era a Parigi che volevo fare l'ultima scena, oh no! ma laggiù... laggiù nella mia Venezia!...

Ant. — La Venezia della tua riforma! La Venezia delle tue prime vittorie!

Gold. (si rasserena in volto e si abbandona assopito sul guanciale). — Venezia!

(Antonio va sulla soglia della destra a chiamare con un cenno gli altri)

SCENA IX.

BATTISTINO, SUSANNA, GANDINI, MATTIUZZI e BALLETTI dal salotto a destra e PIERINA dal fondo. Detti.

Nicol. (inginocchiata presso Goldoni). — Il mio Carlo muore!

Batt. — Io corro subito a cercare un medico.

[263] Sus. — È inutile: egli non si ridesterà che per spirare!

Ant. — Oh s'io potessi dargli un'ultima gioia!

Nicol. — Egli ritorna in sè! Carlo! mio buon Carlo!

Gold. (sentendo gli altri che lo attorniano). — C'è molta gente?

Ant. (con progetto). — Sì!... il teatro è pieno..... recita Préville!

Gold. — Préville?

Batt. — Che fa lui il Burbero.

Gold. (entrando a poco a poco nell'illusione). — Lui? Non ho più paura!

Ant. — Senti? Senti?

SCENA X.

CHÉNIER dal fondo. Detti.

Ball., Gand., Sus., Matt., Batt., Pier. (allontanatisi ad un cenno di Antonio, sempre al proscenio, sottovoce, ed applaudendo leggermente, per produrre l'illusione desiderata). — L'autore! l'autore!

Gold. (rasserenato, raggiante, per alzarsi sostenuto da Nicoletta ed Antonio). — A Parigi!

Chén. — Carlo Goldoni, la Convenzione ti ha restituito la tua pensione!

Gold. (ritornato in sè con un grido di riconoscenza). — O Francia! (sentendosi mancare si abbandona fra le braccia di Antonio e di Nicoletta, dicendo a Chénier come una preghiera) Per lei! Per la mia buona moglie!

(Il sipario cala lentamente mentre Chénier assicura Goldoni spirante che il suo voto sarà soddisfatto)

Fine della commedia.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 46352 ***