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Title: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, Tomo II
Author: J.-C.-L. Simonde (Jean-Charles-Léonard Simonde) de Sismondi
Release Date: September 12, 2013 [eBook #43690]
Language: Italian
Character set encoding: UTF-8
***START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO, TOMO II***
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DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
delle Accademie italiana, di Wilna, di Cagliari,
dei Georgofili, di Ginevra ec.
Traduzione dal francese.
TOMO II.
ITALIA
1817.
STORIA
DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
Ambizione dei Milanesi, e loro conquiste in Lombardia ne' primi cinquant'anni del secolo XII. — Regni di Lottario III, e di Corrado II. — Rivoluzioni di Roma.
1100 = 1152.
Le passioni religiose rese vive dalla lite delle investiture, dopo avere violentemente agitati l'Impero e la Chiesa, s'andarono da sè medesime calmando in conseguenza dello spossamento prodotto dalla lunghezza e dall'acerbità degli odj; poichè quelle calunnie, quelle ingiurie, quelle invettive, che prima commovevano i popoli, erano, per il fattone abuso, divenute indifferenti. Vedendo le nazioni, dopo sì lunga lotta, i due partiti ugualmente forti, conobbero che non dovevasi [4] prestar fede nè alle grandi promesse degli unì, nè temere le minacce degli altri; che ogni virtù non è da una sola banda, nè tutt'i vizj dall'altro lato, e che niun partito poteva ripromettersi la parziale protezione del cielo. Le private mire degli agitatori del popolo sono finalmente palesi, cessa l'illusione, e quella spaventosa macchina, che aveva sommossa tutta la società, non poteva più raddrizzarsi, nè ingannarla.
Anche assai prima della pace di Worms apparivano manifesti indizj della stanchezza degli opposti partiti, dell'Impero e del Sacerdozio. Intanto vedevansi rinascere, e ciò direttamente risguarda l'oggetto della presente storia, le gelosie tra le vicine città, le guerre private, e lo sviluppo delle passioni repubblicane prender luogo nel cuor degli uomini, invece del fanatismo religioso.
Durante il torbido regno d'Enrico IV, le città lombarde avevano sordamente adottato il governo municipale; e già ai tempi d'Enrico V, oltre l'amore di libertà, incominciavano a nutrire pensieri ambiziosi di conquista. Ogni città era libera, ma disuguale la popolazione di tutte le città. L'estensione e la fecondità del territorio, il vantaggio della posizione, [5] le antiche prerogative civili ed ecclesiastiche, rendevano le une più ricche e potenti delle altre. Milano e Pavia primeggiavano su tutte le città lombarde, ed i loro cittadini, divisi da una pianura di sole venti miglia non attraversata da verun fiume, avevano in tanta vicinanza frequenti motivi di disgusti; perciocchè, oltre la rivalità di gloria e di potenza, davan loro cagione di acerbe guerre i confini delle diocesi non divise dalla natura, ed i dispareri sul corso delle acque destinate alla irrigazione de' terreni.
Da principio si offesero indirettamente, cercando di ridurre in podestà loro le città vicine più deboli; lo che divise tutta la Lombardia in due fazioni, delle quali eran capo Milano e Pavia. Cremona, che dopo queste era la più potente repubblica, tentò del 1100 d'impadronirsi di Crema[1]. Pavia moveva guerra a Tortona nel 1107, e Milano attaccava Lodi e Novara; le quali per timore di servitù chiedevano ajuto alla metropoli amica. E per tali cagioni Crema e Tortona si posero sotto la tutela de' Milanesi, [6] mentre Pavia, Cremona, Lodi e Novara si collegarono per far testa alla potenza de' Milanesi. I Bresciani, antichi rivali di Cremona, si collegarono con Milano, siccome gli Astigiani, nemici dei Tortonesi, s'unirono a Pavia. E tra le città più lontane, Parma e Modena seguivano d'ordinario la parte milanese; Piacenza e Reggio l'opposta lega.
Le loro guerre incominciarono sempre con leggieri scaramucce tra le popolazioni vicine, che in tempo delle messi danneggiavano le campagne nemiche. Riscaldati dalle fresche offese gli antichi odi, solevano sfidarsi a battaglia in un luogo e giorno determinati, in cui gli uomini de' due Stati atti alle armi andavano tutti col loro carroccio contro al nemico. Presso questi repubblicani la bravura teneva sola luogo d'ogni arte militare, ed una sola battaglia chiudeva d'ordinario la campagna e la guerra. Siccome le due parti non aspiravano che all'onore del trionfo, cercavan meno d'esterminare il nemico, che d'insultarlo e d'avvilirlo. I Milanesi avendo del 1108 battuti i Pavesi, e fatti loro moltissimi prigionieri, li condussero nella pubblica piazza, ove, poichè ebber loro legate le mani al di dietro, ed appesovi un lumicino, [7] permisero loro di tornare alle proprie città, accompagnandoli per breve tratto di strada colle fischiate[2].
Non però tutte le guerre terminavano con sì poco danno. Milano era chiuso dai territorj di sette repubbliche; Como, Novara, Pavia, Lodi, Cremona, Crema e Bergamo: delle quali la più lontana, Cremona, trovavasi a sole cinquanta miglia di distanza. Crema più debole delle altre erasi posta sotto la protezione de' Milanesi, e formava, per così dire, parte del loro Stato. La comune sicurezza riuniva le altre contro Milano, la quale, quando potesse momentaneamente disunirle, era sicura di opprimere le più deboli: e siccome veruna stabile alleanza legava le sei città, e la pace e la guerra erano ugualmente cagione di frequenti separazioni, i Milanesi ebbero ben tosto opportunità di combatterle separatamente, ed incominciarono col dichiarar guerra a Lodi l'anno 1107[3].
[8] (1107 = 1111) Questa guerra durò quattr'anni, dal 1107 al 1111, nel qual tempo, se dobbiam credere agli storici lodigiani, i loro concittadini furono più volte in aperta campagna vittoriosi. Non pertanto perdettero molta parte del loro raccolto, e dovettero soffrire le ingiurie de' nemici che avanzavansi ad insultarli fin presso alle mura della città. A que' tempi, non conoscevasi quasi miglior modo di far gli assedj: perciocchè quando gli assalitori non riducevano il nemico ad uscir dalle porte per vendicarsi dei dileggi battendosi in aperta campagna, erano ben tosto costretti di ritirarsi. Gli artigiani che formavano il grosso dell'armata, e non erano pagati, mal potevano tenersi lungo tempo lontani dalle loro officine. I Milanesi rinnovavano ogni anno la guerra, ed ogni anno abbruciarono la messe de' Lodigiani, o la trasportarono nel proprio territorio, malgrado i soccorsi de' Cremonesi e de' Pavesi. Finalmente nel giugno del 1111 presero d'assalto le muraglie delle città, che le milizie lodigiane, spossate dalle lunghe vigilie e dalla fame, non ebbero forza di difendere[4]. I Milanesi [9] diedero allora libero corso al concepito odio, atterrarono le mura di Lodi, e ne incendiarono le case, ripartendone gli abitanti in sei borgate, che sottoposero a severissime condizioni, alle più odiose leggi; di modo che di quell'infelice città non rimasero che le miserabili ruine nel luogo che poi chiamossi Lodi vecchio. Quarantasett'anni dopo quegli abitanti rifabbricarono una nuova città a qualche distanza dalla distrutta.
(1118) Una guerra di maggior considerazione intrapresero i Milanesi contro la città di Como l'anno 1118, la quale fu descritta da un poeta comasco assai vicino a que' tempi. Il suo poema è quasi la sola memoria che ci resta di quella sanguinosa contesa[5].
In principio del poema il cantore comasco paragona le sventure della sua patria a quelle di Troja[6]: e quantunque [10] egli non si rassomigli in veruna cosa ad Omero, i descritti avvenimenti ci ricordano vivamente le generali circostanze della guerra trojana. L'assedio di Como dura dieci anni, e combattono contro gl'infelici Comaschi tutte le piccole repubbliche lombarde. In questa lunga lotta le milizie loro fecero i primi esperimenti del proprio valore, e s'agguerrirono in modo da potere in appresso resistere a Federico Barbarossa, lo Zerse de' secoli di mezzo.
Le opinioni religiose non furono da principio straniere a tale contesa. Mentre i Lombardi seguivano generalmente la parte imperiale, Como stava per il Papa, che gli aveva dato un vescovo di loro piena soddisfazione[7]. L'antipapa Burdino, [11] ossia Gregorio VIII, aveva nominato vescovo di Como un diacono della chiesa milanese, chiamato Landolfo, della nobile famiglia di Carcano. Sperando costui di approfittare della dimora d'Enrico V in Italia, erasi recato fino al castello di s. Gregorio, di dove co' suoi maneggi disturbava la diocesi del suo rivale. Una notte il legittimo vescovo Guido, sortito dalla città coi due consoli Adamo di Pirro e Gaudenzio Fontanella, sorprese il castello di s. Gregorio, facendo prigione Landolfo, ed uccidendo molti suoi parenti, e partigiani che cercarono di difenderlo. Coloro che poterono sottrarsi al massacro, fuggirono a Milano, portando con loro le insanguinate vesti degli uccisi, che stesero sulla pubblica piazza, sedendosi taciturni a canto alle medesime, mentre le vedove ed i figli degli estinti colle lagrime e coi gemiti invocavano i passeggieri, e supplicavano il popolo di vendicare tanta ingiuria. Intanto le campane chiamano i fedeli ai divini ufficj. [12] L'arcivescovo Giordano fermò il popolo all'ingresso del tempio, ordinando al clero che lo seguiva di chiuderne le porte; e dichiarò che non si riaprirebbero che a coloro che prendessero le armi per vendicare la chiesa e la patria[8]. Ne' paesi liberi si commovono ed agitano le menti colla sorpresa dello spettacolo; mentre dove la volontà d'un solo decide della pace e della guerra, tutto ciò rendesi inutile.
I Milanesi corsero alle armi, e dietro ad un araldo mandato a sfidare i Comaschi, uscirono pomposamente col carroccio e colle bandiere spiegate dalla città loro, prendendo la strada di Como. Trovarono a' piedi del monte Baradello le milizie comasche, con cui attaccarono una battaglia, che senza alcun vantaggio degli uni o degli altri si prolungò fino alla notte. I Milanesi approfittarono dell'oscurità per discendere inosservati sulle ghiaje del torrente Aperto, lungo il quale s'accostarono fino alle mura di Como, i di cui abitanti abili alle armi trovandosi tutti nel campo presso Baradello, [13] fu facile ai primi di rompere le porte della città non difesa, ed abbandonarla alle fiamme. In sul far del giorno vedendo i Comaschi che i nemici eransi allontanati, s'avviarono alla città loro a traverso la montagna; e quando giunsero alla sommità la videro, atterriti, coperta da denso fumo illuminato dalla fiamma divoratrice. Scesero impetuosamente dalla cima del Baradello, e fattisi addosso ai Milanesi intenti al saccheggio, gli oppressero e fugarono in modo, che, rimasti all'istante padroni della città, ebber tempo di estinguere l'incendio, e di rimettere le abbattute porte[9].
Sembra che a quest'epoca i Comaschi fossero i più valorosi soldati d'Italia. Forse la vicinanza della Svizzera, l'abitudine di viaggiare per le alte montagne e di navigare sopra un lago assai burrascoso, gli aveva agguerriti prima degli altri. I ricchi e potenti villaggi situati sul pendìo delle Alpi erano tutti soggetti a Como; ma non tutti erano contenti di tale onerosa dipendenza. Quello d'Isola posto presso al lago in faccia ad un'isoletta da cui [14] prese il nome[10], volendo affatto emanciparsi da Como, (1119) spedì deputati a Milano, che segnarono un trattato d'alleanza colla repubblica. Allora gli abitanti d'Isola equipaggiarono una flotta di battelli, e nella susseguente primavera osarono di sfidare i Comaschi; i quali, sortiti colla loro flotta, li ruppero e dispersero, senza poter approfittare della vittoria, costretti di rientrare in città per opporsi a più temuti nemici che s'avanzavano dalla parte di terra.
Non si sa comprendere la cagione che consigliò tutte le città lombarde ad abbracciare le parti della città, di cui erano a ragione più gelose, contro una repubblica che mai le aveva offese, e da cui non avevano che temere; e cresce la sorpresa vedendole prender parte a tale confederazione, in tempo che non potevano ignorare che il principale motivo della guerra era quello di appoggiare un vescovo scismatico contro il legittimo pastore. Lo che è una aperta prova, che in tale epoca la parte d'Enrico e dell'antipapa [15] Burdino prevaleva in Lombardia; attestando il poeta comasco[11] che i Milanesi avevano spediti deputati a tutte le città vicine, ed ottenuti soccorsi da Cremona, Pavia, Brescia, Bergamo, Vercelli, Asti, Novara, Verona, Bologna, Ferrara, Mantova e Guastalla. La contessa di Biandrate, che aveva il suo feudo tra Milano e Novara, andò al campo dei Milanesi portando in braccio il figliuolo ancora bambino, ed i gentiluomini della Garfagnana, alpestre contrada degli Appennini, mandarono ai confederati un corpo di cavalleria.
Non osarono i Comaschi di affrontare in aperta campagna tanti nemici, e gli aspettarono entro le loro mura. La città di Como presenta la configurazione d'un gambero; la sua bocca è rivolta all'estremità del lago, e ne forma il porto. Due sobborghi, [16] Vico e Colognola, stendonsi lungo le spiaggie opposte come le chele del gambero, il di cui corpo si allunga in sul piano chiuso da tre colline tutte difese da una rocca, cioè Castelnuovo a levante, Baradello a mezzodì, e Carnesino a ponente; per ultimo un terzo sobborgo, che, ripiegandosi, si prolunga tra levante e mezzogiorno, raffigura la coda del gambero[12]. I Milanesi coi loro confederati attaccarono i sobborghi di Vico e di Colognola; ma non avendoli ottenuti d'assalto, dopo aver perduta molta gente, ed uccisa quasi altrettanta agli assediati, fecero proclamare da un araldo, che in agosto del susseguente anno riprenderebbero l'assedio della città. Questa costumanza d'annunciare l'epoca d'una nuova spedizione[13] era un impegno d'onore che guarentiva i nemici da ogni sorpresa, e che tra tanti e così acerbi odj procurava lunghi intervalli di tregua alle rivali popolazioni.
(1120-1127) Negli otto anni susseguenti dal 1120 al 1127, i Milanesi rinnovarono [17] ogni estate le ostilità loro contro i Comaschi, ma sempre meno vigorosamente. Spedivano soccorsi ai villaggi che avevano fatti ribellare a Como, e la guerra omai non si faceva che sulle rive dei laghi Maggiore, di Lugano e di Como, ov'eran posti i paesi ribelli. I Comaschi furono lungo tempo vittoriosi, castigarono sul proprio lago gli abitanti d'Isola e di Menaggio, ed equipaggiarono una flotta su quello di Lugano per contenere le popolazioni ancora fedeli, e far rientrare nell'ubbidienza loro i sollevati. E perchè i nemici dominavano il fiume Tresa, per cui il lago di Lugano comunica con il lago Maggiore, trasportarono le navi della flotta coi carri da uno all'altro lago, benchè distanti otto miglia; ed avendo di buon mattino lanciate in acqua le loro barche, corsero trionfanti le coste del Verbano, rassicurando i loro alleati, e saccheggiando i sorpresi nemici.
(1125) La perdita del vescovo Guido, che fu l'anima di tutte le loro intraprese, accaduta del 1125, riuscì oltremodo dannosa ai Comaschi. Una così lunga guerra gli aveva impoveriti di gente e di danaro: ogni anno parte del raccolto era stato distrutto, molti paesi eransi sottratti al loro dominio, e le stesse vittorie avevano [18] distrutti i più valorosi guerrieri. Ma la campagna del 1126 riuscì loro costantemente svantaggiosa, onde i Milanesi poterono accorgersi che, raddoppiando i loro sforzi, otterrebbero nel susseguente anno intera vittoria.
(1127) In primavera del 1127 i Milanesi avanzaronsi di fatto verso Como con un'armata assai più numerosa che negli antecedenti anni, avendo avuto modo d'interessare nella loro lite quasi tutte le repubbliche che vi avevano presa parte del 1119. Se prestiamo fede al poeta comasco, vedevansi nell'armata milanese gli stendardi di Pavia, di Novara, di Vercelli, del giovane conte di Biandrate, d'Asti, d'Alba, d'Albenga, di Cremona, di Piacenza, di Parma, di Mantova, di Ferrara, di Bologna, di Modena, di Vicenza e dei cavalieri della Garfagnana[14]. Nè i Milanesi accontentaronsi al presente d'attaccare i castelli che difendevano la città, ma s'avanzarono sul piano ov'è fabbricata, ed accamparonsi presso alle sue mura. Avevano ordinato agli abitanti della borgata di Lecco, posta all'estremità [19] d'un golfo del lago di Como[15], di condurli legnami di costruzione; ed avevano assoldati a Pisa ed a Genova alcuni ingegneri. Quelli di Pisa erano specialmente esercitati nell'arte di dirigere le mine, ed i Genovesi in quella di costruire macchine militari[16]. Fabbricarono gli ultimi a non molta distanza dalle mura quattro torri con parapetto coperto di pelli di bue, onde preservarle dal fuoco. Posero fra le torri due gatti, specie di montoni, in ciò solo diversi da quelli usati dagli Antichi che erano armati d'un uncino destinato a cavar le pietre smosse dal loro urto. Formarono inoltre quattro baliste per lanciare massi di pietra al di là delle mura: e quando tali macchine trovaronsi terminate, furono dall'armata a suono di trombe strascinate presso le mura in mezzo alle grida di gioja.
Dal canto loro i Comaschi non trascuravano verun mezzo di difesa. Avevano cavate le loro fosse, aggiunti speroni alle mura, coperte le parti più deboli di cuoi e d'altre materie cedenti. Avevano [20] in pari tempo equipaggiata la loro flotta, destinata ad attaccare all'opportunità gli abitanti dell'Isola che bloccavano la città dalla banda del lago. Malgrado il numero infinitamente maggiore de' loro nemici, tentarono con una sortita d'incendiare le macchine degli assedianti; ma furono respinti dopo aver dato sorprendenti prove di valore.
Intanto a fronte della vigorosa resistenza degli assediati, le macchine erano state spinte fino alle mura: il montone aveva squarciata parte della muraglia, e si continuava a batterla, onde allargarne la breccia per renderla praticabile alla cavalleria, di cui i Milanesi volevano prevalersi nell'assalto del susseguente giorno. I Comaschi tentarono di chiudere durante la notte l'apertura della breccia colle palafitte, ma s'avvidero allora che la maggior parte de' loro guerrieri eran periti in così lunga guerra, non restando omai che vecchi spossati dalle fatiche e fanciulli inabili alle armi[17]. Ridotti vedendosi a tali estremità, piuttosto che arrendersi, presero la disperata risoluzione d'abbandonare la patria e cercare altrove la pace e la libertà. Per primo luogo di [21] rifugio prescelsero il castello di Vico; e mentre caricavano sulle loro barche le donne ed i fanciulli con quanto avevano di prezioso, fecero nel cuore della notte una disperata sortita per tenere i Milanesi occupati intorno alla breccia, onde non s'accorgessero della fuga. L'evento corrispose ai loro voti: dopo avere con un subito attacco sparso il terrore nel campo nemico, s'imbarcarono anco i soldati, e giunsero al castello di Vico senz'essere molestati nel loro tragitto.
I Milanesi, rinvenuti da quella subita sorpresa, s'accostarono alle porte che trovarono aperte ed abbandonate[18], vi appiccarono il fuoco, ma non ardirono d'avanzarsi più in là finchè il nuovo giorno non li rassicurò dal timore d'un'imboscata. Crebbe la loro sorpresa quando videro la città spogliata di gente e di roba, ed il castello di Vico provveduto di soldati e di macchine, e disposto a sostenere un nuovo assedio ancora più lungo di quello di Como, perciocchè gli scogli su cui Vico era fabbricato, lo assicuravano dai danni della zappa e del montone. I Milanesi mandarono allora una deputazione di ecclesiastici [22] ad offrire ai Comaschi una vantaggiosa capitolazione, che fu ben tosto accettata. Venivano conservate ai vinti tutte le proprietà a condizione che prendessero parte in tutte le guerre dei Milanesi, che soggiacessero alle tasse comuni, ed atterrassero le mura di Como, di Vico, di Colognola[19]. In tal modo ebbe fine la guerra comasca; e questa città, ormai incapace di difendersi, rimase lungo tempo in podestà dei Milanesi, e non riebbe la libertà che ai tempi della lega lombarda formatasi sotto gli auspicj di Federico Barbarossa, di cui Como seguì le parti.
La sommissione di Lodi e di Como rese Milano più potente delle sue rivali e di lunga mano più potente, non essendovene altre che avessero città soggette. L'ambizione de' Milanesi crebbe per sì prosperi successi, che li trassero ben tosto in nuove guerre. Abbiamo altrove veduto che avevan preso a proteggere Crema, più borgata che città, dipendente rispetto alle cose spirituali e nelle temporali dal vescovo o dalla città di Cremona. Del 1129 i Cremaschi tentarono di sottrarsi dalla dipendenza di [23] Cremona, ed invocarono il braccio dei Milanesi siccome garanti de' loro privilegi. I Cremonesi invece si rivolsero ai Pavesi, ai Piacentini, ai Novaresi, ai Bresciani, i quali gelosi dell'ingrandimento di Milano, cui avevano essi medesimi contribuito, colsero con ardore questo pretesto per attaccare così potenti rivali.
Questa nuova guerra tra popolazioni di forze quasi pari rimase secondaria a liti di più alto rango, cui avea dato luogo la successione dell'impero. Enrico V era morto senza lasciar figliuoli l'anno 1125. La dieta de' principi tedeschi, riunitasi a Magonza per dargli un successore, erasi divisa fra due Case da lungo tempo rivali, le di cui gare agitarono la Germania e l'Italia, ed i di cui nomi divennero in appresso i distintivi di due opposti partiti. I quattro ultimi imperatori erano usciti da una famiglia che governava la Franconia quando fu fatto imperatore Corrado; famiglia talvolta distinta col nome di Salica, e talora con quello di Gueibelinga o Waiblinga, castello della diocesi d'Augusta nelle montagne dell'Hertfeld[20], dove [24] forse ebbero origine i suoi primi ascendenti; ed i suoi partigiani chiamaronsi poi Ghibellini. Un'altra potente famiglia originaria d'Altdorf possedeva in questi tempi la Baviera, e perchè progressivamente ebbe più principi chiamati Guelfo o Welfo, fu alla medesima ed ai suoi partigiani dato il nome di Guelfi[21]. Gli ultimi due Enrichi e la casa de' Ghibellini avevano sostenute lunghe guerre contro la Chiesa, di cui i Guelfi eransi dichiarati protettori. Quando morì Enrico V, suo nipote Federico d'Hohenstauffen duca di Svevia, che aveva avuta la miglior parte della sua eredità, lusingavasi pure che la corona imperiale non uscirebbe dalla propria casa. Pure la Dieta, dietro i consigli dell'arcivescovo di Magonza nemico della Casa Salica, ne dispose diversamente, proclamando [25] imperatore Lotario, duca di Sassonia, nemico della famiglia Ghibellina[22]. Questo monarca non tardò a stringersi con nuovi legami ai Guelfi, accordando in isposa al loro capo Enrico IV duca di Baviera l'unica sua figlia ed erede che gli portava in dote il ducato di Sassonia[23].
Quantunque Lotario fosse il legittimo successore di Enrico, il passaggio dell'autorità sovrana ad una casa nemica dovea essere cagione di violenti convulsioni allo stato. Nella primavera del 1126 il principe Ghibellino prese le armi, e ridusse la guerra in Alsazia ove possedeva molti castelli; ma in questa prima campagna si trattò la guerra con poco vigore[24].
(1127) Nel 1127 Corrado duca di Franconia e fratello di Federico, tornato di terra santa dove aveva combattuto contro gl'infedeli, rialzò colla sua presenza il partito che d'ora innanzi [26] chiameremo ghibellino: forzò Lotario a levar l'assedio a Norimberga; prese, trovandosi a Spira, il titolo di re, e passò di là in Italia, sperando di prevenire Lotario, e di guadagnare i Lombardi al suo partito[25].
(1128) Di fatti i Milanesi nel 1128 ricevettero magnificamente Corrado qual successore d'Enrico e legittimo monarca. Il clero ed il popolo furon chiamati a parlamento sulla pubblica piazza, in cui Ruggiero Clivelli cavaliere, e Landolfo da s. Paolo, lo storico, deputati dell'arcivescovo, discussero le ragioni dei due competitori innanzi al popolo, il quale chiese concordemente che venisse l'arcivescovo ad incoronare il principe. Questa ceremonia si eseguì in Monza il 29 giugno del 1128, e rinnovossi poi a Milano nella basilica di s. Ambrogio[26].
Frattanto papa Onorio, e le città di Pavia, Cremona, Novara, Brescia e Piacenza eransi dichiarate in favore di Lotario: onde queste città aprirono una Dieta in Pavia per trattare intorno alla guerra da farsi a Corrado; ed i loro [27] vescovi scomunicarono Anselmo, arcivescovo di Milano, colpevole d'aver posta la corona sul capo dell'usurpatore; il quale, indebolito da questa opposizione del clero, non potè dare esecuzione all'impresa che meditava contro Roma, e gli fu forza consumare in Parma un tempo troppo prezioso, aspettando l'esito della guerra che le città lombarde facevansi in apparenza per cagion sua, ma infatti per i particolari loro interessi. Nè in Germania si proseguiva la guerra più vigorosamente, opponendovisi l'indipendenza de' principi e de' prelati dell'Impero, come in Italia, quella della città. Perciò Lotario, che nel 1131 attaccò nuovamente Federico nella Svevia e nell'Alsazia, non ottenne che la distruzione di alcuni castelli (1131) di poca importanza[27]; e quando nel susseguente anno (1132) scese in Italia per le alpi trentine, condusse una così debole armata, che veniva insultata e derisa dagl'Italiani; perchè non s'attentando d'avvicinarsi a Milano, dovette fare un vizioso giro per portarsi a Roncaglia, ove aprì l'assemblea de' giudizj del regno. Il suo emulo Corrado, dopo essere [28] lungo tempo rimasto a carico dei Milanesi e dei Parmigiani suoi alleati, trovandosi sprovveduto di soldati e di danaro, prevenne l'arrivo di Lotario, e si ridusse vilmente, e quasi profugo in Germania[28].
(1133) Pure Lotario colla piccola sua armata si avanzò fino a Roma, ed ebbe la corona imperiale dalle mani di Papa Innocenzo II il giorno 4 giugno del 1133. Ma questa ceremonia, contro l'antica consuetudine, si eseguì nella chiesa di s. Giovanni di Laterano, a motivo che la basilica del Vaticano era occupata dai soldati di Ruggiero re di Sicilia, e dall'antipapa Anacleto, più assai potenti di Lotario[29]: onde, appena incoronato, si affrettò d'abbandonar Roma e l'Italia.
Mentre la lite di questi due sovrani ugualmente deboli, e la debole guerra che si facevano, avvezzava le repubbliche italiane a disprezzare l'autorità imperiale, lo scisma della Chiesa distruggeva il rispetto dovuto ai Pontefici, ed incoraggiava [29] il popolo romano a rendersi indipendente dalla loro autorità.
Questo scisma aveva origine dalla rivalità di due potenti famiglie di Roma dei Frangipane e dei Pietro Leone, le quali s'erano usurpati tutti i diritti della nazione e della Chiesa. Fino da quando mancò nel 1118 papa Pasquale II, queste due famiglie avevano fatto nascere uno scisma; essendosi Pietro Leone dichiarato protettore di Gelasio II, che la Chiesa riconobbe legittimo, ed i Frangipane, coll'ajuto d'Enrico V, fatto consacrare Gregorio VIII conosciuto sotto nome di antipapa Burdino. Lo stesso partito divise del 1130 i Cardinali, che dopo il decreto di Niccolò II eransi arrogati la più essenzial parte delle elezioni. I partigiani di Pietro Leone elessero un suo figlio, che prese il nome d'Anacleto II, mentre l'opposto partito dichiarossi per il Cardinale di sant'Angelo che si fece chiamare Innocenzo II. Ma in questo recente scisma, in cui le ragioni delle parti sembravano bilanciate, la Chiesa[30] si decise [30] a favore della fazione contraria a quella, alla quale dodici anni prima aveva data la vittoria. L'avo di Pietro Leone protettore di Gelasio II era un ebreo convertito; e per questa ragione furono profusi a suo figliuolo Anacleto i nomi d'empio e di sacrilego giudeo, e proclamati difensori della fede quei Frangipane medesimi che dodici anni prima furono dichiarati gli oppressori della Chiesa[31]. Gli scrittori ecclesiastici dimenticaronsi che in questa elezione non era riconoscibile la buona causa, di modo che i due competitori dovevan essere giudicati ugualmente colpevoli, o innocenti. È bastantemente provato che nella elezione del 1130 la maggior parte dei suffragi fu per Anacleto[32]; ma i più rispettabili, ci si dice, riunironsi in favor d'Innocenzo, in ciò più rispettabili che non si associarono agli scismatici[33]. [31] E per tal modo il più grossolano circolo vizioso, il più assurdo sofisma viene adottato come incontrastabile ragione nelle dispute di tale natura.
Ma in sostegno delle ragioni i due partiti non tardarono a prendere le armi. Innocenzo erasi reso forte nel palazzo di Laterano posto in un'estremità di Roma, e lontano da ogni abitazione; e non credendo questo luogo abbastanza sicuro, non tardò a ritirarsi coi cardinali del suo partito ne' rovinati monumenti di Roma, di cui i Frangipani avevano fatte altrettante fortezze. Dall'altra banda Anacleto s'impadroniva colle armi alla mano delle basiliche di s. Pietro, di Santa Maria Maggiore, e di tutte le chiese di Roma. Onde Innocenzo, cedendo a forze tanto superiori, fuggiva a Pisa, di dove visitò in seguito la Francia e la Germania. Aveva egli determinato Lotario ad intraprendere il viaggio di Roma per ricevervi la corona imperiale, sperando poi col di lui soccorso di potersi a forza impadronire della sede pontificia: ma l'estrema debolezza cui Lotario era stato ridotto dalla guerra civile, fece conoscere ad Innocenzo che doveasi prima dar la pace all'Impero che alla Chiesa (1132).
[32] (1134) Nel 1134, tornato Lotario in Germania, vi fu finalmente riconosciuto imperatore. I due fratelli di Hohenstauffen, avviliti per la perdita di Ulma, risolvettero di domandare la pace. Il primo a tornare in grazia dell'imperatore fu Federico di Svevia, riconciliatosi (1135) in marzo del 1135, e seguìto poco dopo da Corrado, il quale, avendo rinunciato alla dignità reale, fu ammesso da Lotario a comandare di conserva l'armata che meditava di portare in Italia[34].
(1136) Abbiamo già parlato nel quarto capitolo di questa nuova discesa in Italia, nella quale Lotario e Corrado si mostrarono agl'Italiani più onorevolmente che non avevan fatto tre anni prima. I Milanesi ed i Parmigiani accolsero l'imperatore come si conveniva alla sua dignità, ed alla loro ricchezza; onde Lotario li trattò più amichevolmente dei Pavesi e dei Cremonesi, che, quantunque suoi alleati, lo avevano in addietro così freddamente soccorso. Dopo alcuni mesi passò dalla Lombardia a Roma, di dove la sua armata, scacciato l'antipapa Anacleto, s'avanzò verso Napoli, e costrinse [33] Ruggiero re di Sicilia ad abbandonare l'assedio di quella città. Ma i vantaggi di così fortunata campagna, come abbiamo altrove osservato, non ebbero lunga durata; Lotario, tornando in Germania, morì in Trento il 3 di dicembre del 1137, e papa Innocenzo, rimasto solo contro Ruggiero, fu da questo re fatto prigioniero a Gallazzo il 22 luglio del 1139.
(1139) Dalla guerra tra i due papi, e dalla subita morte di Lotario e d'Innocenzo ebbe origine una lunga e scandalosa anarchia. Il popolo romano, approfittando dello scisma e dell'abbassamento del potere pontificio, ricuperò le prerogative perdute sotto la vigorosa amministrazione di Gregorio VII e de' suoi successori, quando il fanatismo non permetteva d'aprir gli occhi sulle usurpazioni della santa sede: e le prediche del monaco Arnaldo da Brescia cooperarono potentemente in sul finire del pontificato d'Innocenzo II a far risorgere le spente forme del governo repubblicano.
Arnaldo, di ritorno dallo studio di Parigi, ebbe coraggio di predicare in Brescia contro le iniquità, l'ambizione [34] ed il despotismo del clero[35]. I severi costumi e l'ortodossa fede di Arnaldo non permettevano ai suoi avversarj di calunniarlo. La sua erudizione e la robusta eloquenza gli davano l'assoluto predominio di tutte le adunanze, nelle quali erano ordinario soggetto de' suoi ragionamenti i vizj del clero e le pericolose conseguenze del suo potere temporale. E perchè tale argomento solleticava la comune degli uditori, l'eresia de' politici, nome espressivo che allora si diede alle sue dottrine, faceva rapidissimi progressi[36].
Arnaldo conservava per Pietro Abaelardo suo maestro la più tenera amicizia; e non è affatto improbabile che le persecuzioni e l'imputazione d'eresia, ond'ebbe tanto a soffrire Abaelardo nel 1140, derivassero dall'odio del clero contro il suo discepolo Arnaldo. Si vollero ambedue colpevoli di oscuri ed inintelligibili errori intorno alla Trinità: Abaelardo ebbe la modestia di abiurare tutto ciò che poteva trovarsi di [35] erroneo nelle sue scritture, e morì compianto dai monaci di Clugnì, presso i quali aveva trovato asilo e generosa ospitalità[37]. Arnaldo fu perseguitato prima del maestro; ed i suoi nemici ottennero dopo una lunga ed ostinata guerra di farlo condannare alla morte ed all'infamia[38]. Nel 1139 Arnaldo fu condannato nel concilio di Laterano, e costretto ad abbandonare l'Italia[39]. La persecuzione di s. Bernardo lo seguì a Costanza, ov'erasi riparato presso quel vescovo[40]: di dove salvatosi prodigiosamente [36] (1139) passò intrepido a predicare la libertà ai Zurigani, come l'aveva predicata in Italia: e dopo cinque o sei anni tornò in trionfo a dar le leggi alla repubblica romana.
Mentre trovavasi Arnaldo in esiglio, i Romani mantenevano viva la guerra coi Tivolesi, cui aveva dato apparente motivo il precedente scisma (1140). Ridotta per così dire alla sua prima infanzia, e chiusa negli antichi confini, Roma appena sosteneva la rivalità di Tivoli, città formata dalle case di campagna de' suoi antichi cittadini. Finchè i Romani seguirono le parti d'Innocenzo II, i Tivolesi appoggiarono lo scisma d'Anacleto (1141). Nel 1141 un'armata romana, preceduta dalla scomunica, andò ad assediare quella [37] piccola città; ma i Tivolesi con una improvvisa sortita la ruppero in modo, che si diede ad una vergognosa fuga, lasciando nel campo ragguardevoli ricchezze. Nel susseguente anno vollero i Romani riparare la loro perdita, e, ricominciato l'assedio della città nemica, la ridussero alle ultime estremità. Animati dalla memoria del sofferto disastro pensavano di distruggerla, e ripartire gli abitanti ne' vicini villaggi; ma il papa, ascoltando più moderati consigli, accordò ai Tivolesi la pace ad oneste condizioni, costringendoli a giurar fedeltà alla Chiesa, come se gli avesse vinti colle proprie armi, non con quelle de' Romani[41].
(1143) Intanto i discepoli d'Arnaldo, e tutti coloro che avevano un cuore libero e romano, mal soffrendo il dominio teocratico, approfittarono dell'indignazione del popolo per la pace di Tivoli. I nobili sparsi per le pubbliche piazze rappresentavano ai cittadini la condotta d'Innocenzo come la conseguenza d'un piano da lui formato per annientare il loro onore ed i loro privilegi; invocavano la seducente memoria [38] dell'antica grandezza; e paragonando il governo de' Cesari e la maestà dell'antico senato con quello de' preti, scossero in modo il popolo già esacerbato dalla fresca ingiuria, che lo trassero dietro loro al Campidoglio, ove ristabilirono il senato come caparra del ristabilimento della repubblica. Su questo monte sacro all'antica libertà dimora anche al presente il senatore di Roma, troppo debole immagine de' padroni del mondo. Posto tra l'antica e la moderna città, pare che il senatore appartenga ancora agli antichi gloriosi tempi, e faccia parte delle sue ruine; siccome la colonna isolata che vedesi innanzi al suo palazzo, ricorda la grandezza e la maestà del tempio di Giove, cui appartenne[42].
Innocenzo II sentì tanto vivamente questa sommossa del popolo, che cadde infermo, e morì pochi giorni dopo (1144). Il breve papato di Celestino II suo successore non gli permise di porre limiti al sempre crescente potere de' cittadini, i quali sotto il pontificato di Lucio II [39] posero l'ultima mano alla loro costituzione, sostituendo al prefetto della città, nominato dal papa, un nuovo magistrato incaricato della presidenza del senato e della rappresentanza della repubblica, col titolo di patrizio di Roma. I Romani nominarono a così grande dignità Giordano, figliuolo del celebre Pietro Leone, e fratello del defunto antipapa Anacleto[43].
La città dividevasi in tredici rioni; ed i cittadini di ogni rione nominavano tutti gli anni dieci elettori, i quali avevano la facoltà di scegliere i cinquantasei membri che componevano il senato. Se dobbiamo giudicarne dall'interessamento che la nobiltà prendeva a favore del governo repubblicano, pare che i senatori fossero gentiluomini. E siccome i più ragguardevoli aggiungevano al titolo di senatore quello di consigliere, è da credersi che il patrizio avesse un consiglio privato, forse formato per turno di tutti i membri del senato.
Anche il papa aveva un ragguardevole partito di nobili e di popolani, alla testa de' quali trovavansi i Frangipani, e, cosa difficile a credersi, i fratelli del [40] patrizio Giordano gelosi della sua autorità. Il pontefice, che aveva di fresco contratta alleanza con Ruggiero re di Sicilia, aveva ragione di sperare assai da così potente alleato. Intanto il senato per assicurarsi dagli interni nemici fece attaccare le torri dei Frangipani e dei loro aderenti; i quali però ne rifecero ben tosto delle altre, conservando pure gli antichi monumenti quasi tutti fortificati, onde i nobili possedettero lungo tempo entro Roma degli asili sicuri, ove sottrarsi al potere de' magistrati. Il senato, per opporsi con vantaggio alla potenza di Ruggiero, spedì una deputazione al monarca Allemanno, invitandolo a venire a Roma a prendere la corona imperiale.
Questo monarca era Corrado III[44], ch'era stato incoronato a Milano nel 1128, ed aveva poi abdicata la corona del 1135. Allorchè morì Lotario, Corrado ebbe un rivale in Enrico il superbo, genero di quest'imperatore, erede della casa Guelfa, duca di Sassonia e di Baviera, e marchese della Toscana; ma presso la dieta di Coblenz del 1138 aveva prevaluto [41] la casa Ghibellina, o di Hohenstauffen, a fronte d'Enrico, reso dal suo orgoglio esoso ai principi; e Corrado fu consacrato il sei marzo dello stesso anno in Aquisgrana. Ma i Sassoni ed i Guelfi non riconobbero legittima tale elezione, ed avendo prese le armi, non permisero mai a Corrado di venire a farsi incoronare in Italia[45].
Ottone di Frisinga ci conservò una delle lettere del senato e del popolo romano all'imperatore Corrado. «Se fedeli figliuoli, gli scrivono, possono permettersi di giudicare le azioni del loro signore e padre, siamo sorpresi che l'eccellenza vostra non rispondesse alle lettere colle quali le davamo parte del nostro operato, che dalla nostra fedeltà è sempre diretto all'onor vostro. Il senato fu colla grazia di Dio ristabilito; col vigor del quale e del popolo romano, Costantino e Giustiniano ressero gloriosamente tutto l'Impero, onde noi facciamo ogni sforzo e desideriamo che voi possiate fare altrettanto, [42] e ricuperiate tutti gli onori che vi appartengono, e furonvi rapiti.... Noi abbiamo posti i fondamenti di questo nuovo ordine di cose, perchè manteniamo la pace e la giustizia a vantaggio di tutti quelli che l'amano: ci siamo impadroniti delle torri, delle fortezze e delle case di que' signori che di concerto col Siciliano e col papa si dispongono a resistere al vostro impero; alcune le conserviamo fedelmente in vostro nome, altre furono spianate. La vostra prudenza rammenti tutti i torti che la corte dei papi ed i signori di cui parliamo, fecero ai vostri predecessori. Le stesse persone collegate col Siciliano stanno preparandovene di ancora più grandi.....»[46].
Corrado che non ignorava nascondersi sotto quest'apparente sommissione lo spirito d'indipendenza, non trovò opportuno di prender parte in questa lite, non riscontrando il senato, onde non disgustare il papa che in pari tempo erasi a lui diretto.
Intanto Lucio II lusingossi che i Romani, scoraggiati dall'abbandono di Corrado, [43] e dall'alleanza ch'egli aveva contratta col re di Sicilia, rinuncierebbero alla nuova magistratura tostochè si vedessero vigorosamente attaccati (1145). In tale persuasione circondato dal clero e da tutta la pompa pontificia, e seguìto da' suoi partigiani armati di tutto punto, marciò un giorno verso il Campidoglio per scacciarne il senato. Il popolo sorpreso da questa mescolanza di armi spirituali e temporali, non sapeva in sull'istante a qual partito appigliarsi, e lasciò che la processione s'avvicinasse al sacro colle. Ma tutt'ad un tratto vergognandosi di abbandonare i suoi magistrati, che risguardava come i soli campioni della romana libertà, fece piovere un diluvio di sassi sui soldati pontificj. Lucio medesimo, gravemente ferito, morì pochi giorni dopo, ed i suoi satelliti dovettero abbandonare l'impresa[47].
Eugenio III discepolo di s. Bernardo eletto in suo luogo abbandonò immediatamente Roma per non essere costretto a dare la sua approvazione al ristabilimento del senato. Però dopo pochi mesi [44] disponevasi a riconoscerlo a condizione che i Romani riconoscessero pure il suo prefetto; ed a tali patti ritornò in Roma in mezzo alle più vive dimostrazioni di allegrezza: ma essendosene poco dopo allontanato, mentre viaggiava in Italia ed in Francia, tornò a Roma trionfante Arnaldo da Brescia[48], il quale si sforzò di dare ai Romani più giuste nozioni intorno alle cause della grandezza della loro antica repubblica. Persuaso che la più durevole di tutte le riforme è quella che, invece di distruggere le antiche costumanze, cerca anzi di ravvicinarvisi, rendendole più vigorose, consigliò i Romani a formare un ordine equestre che fosse intermediario tra i senatori e la plebe, di ristabilire i consoli per presiedere al senato, i tribuni per difendere il popolo; di escludere affatto i pontefici dall'amministrazione politica, e di limitare i poteri ch'erano forzati di conservare all'imperatore. Ma l'assoluto silenzio degli storici italiani intorno [45] alle cose accadute in tale epoca, e la brevità delle storie tedesche cui dobbiamo attenerci, non ci fanno conoscere quale esecuzione avessero le riforme proposte da Arnaldo[49][50]. Sembra soltanto [46] che durante tutto il non breve pontificato d'Eugenio III i Romani fossero sempre in guerra col papa, e che Arnaldo andasse loro rammentando l'esempio [47] de' loro antenati, e ciò che far dovevano per mantenere la patria libera. Vedremo nel susseguente capitolo l'infelice fine di quest'uomo martire della libertà in quella medesima città che aveva cercato di rendere libera.
Federico Barbarossa imperatore. — Sua prima spedizione contro le città libere d'Italia.
1152 = 1155.
Corrado III, che regnò quattordici anni in Germania, s'intitolava pure re d'Italia senza aver avuta mai la più leggiera influenza sopra questo paese. La guerra che faceva ai principi guelfi Enrico il superbo, e Guelfo VI, duchi di Baviera e di Sassonia, lo tennero molti anni in Germania. Del 1147 cesse, siccome Luigi VII di Francia, alle eloquenti esortazioni di s. Bernardo, e passò in Oriente con una potente armata di crociati; e di ritorno ne' suoi stati, dopo tre anni di sgraziata guerra, fu sorpreso dalla morte il 15 febbrajo del 1152 mentre disponevasi a discendere in Italia per ricevere la corona imperiale[51].
Quantunque lasciasse un figliuolo in tenera età, la dieta del regno riunitasi [49] in Francoforte, seguendo i consigli di Corrado medesimo, dava la corona a suo nipote Federico Barbarossa, duca di Svevia, allora nel fiore della gioventù. Potevano i principi lusingarsi che il nuovo monarca farebbe cessare le sanguinose divisioni delle due più potenti famiglie dell'Impero, i Ghibellini, ossia la casa di Svevia in Franconia, ed i Guelfi, ossia la casa di Baviera in Sassonia. Federico era l'erede della casa ghibellina, siccome nipote di una sorella di Enrico V; e d'altra parte era alleato della famiglia guelfa per essere figliuolo d'una figlia di Enrico il nero, duca di Baviera: di modo che, dal lato della madre, veniva ad essere nipote di Guelfo VI, duca di Baviera, e cugino d'Enrico il Leone, duca di Sassonia, i due capi della casa guelfa[52].
Le speranze dell'Allemagna non andarono deluse; e, quasi durante tutto il lungo regno di Federico, le dissensioni di queste due famiglie che avevano cagionati tanti travagli ai suoi predecessori, rimasero sopite. Le forze de' Tedeschi rese maggiori dall'abitudine delle guerre [50] civili, si riunirono sotto le bandiere di Federico. Vero è che questa concordia ebbe fine colla sua vita; quando le due famiglie, separandosi nuovamente sotto il regno del suo successore, comunicarono il loro odio ai popoli, i quali confondendo le contese di queste famiglie con quelle del sacerdozio e dell'Impero, fecero nascere in Italia le troppo famose parti de' Guelfi e de' Ghibellini, che, siccome vedremo, furono cagione che essi spargessero torrenti di sangue per più secoli.
Lo stesso giorno dell'incoronazione, il nuovo sovrano lasciò travedere il severo ed inflessibile carattere che portava sul trono. Uno de' suoi cortigiani, che avendo avuto la disgrazia di spiacergli, era stato per suo ordine allontanato dalla corte, credette che in questo giorno d'allegrezza gli sarebbe stato facile d'ottenere il perdono. In tempo della cerimonia si gittò ai piedi del nuovo re; e gli chiese grazia. Le guardie che udirono le sue preghiere, benchè non sapessero quale fosse il suo delitto, aggiunsero alle sue le loro suppliche, e tutta la moltitudine, commossa a tale spettacolo, chiamò grazia per il supplicante. Federico impose a tutti silenzio, e nell'istante in cui andava a ricevere la sacra unzione, dichiarò [51] con alta e severa voce, che la giustizia, e non l'odio aveva dettato il suo giudizio, e che niuna cosa al mondo potrebbe farglielo rivocare[53]. Tal era l'uomo che si preparava ad armare la Germania contro la libertà italiana.
Federico era stato eletto nella dieta di Francoforte dai soli principi tedeschi; onde l'Italia veniva, siccome una provincia soggetta, data ad un nuovo sovrano dall'altrui suffragio. Vero è però che alcuni pochi gentiluomini toscani, lombardi e genovesi avevano assistito alla dieta, ma ciò fu per caso, e senza missione[54]. Essi non pretesero di conferire coi loro suffragi le due corone italiche; ma i loro concittadini, contenti, se non della dominazione allemanna, almeno del modo con cui la loro patria veniva amministrata, e della libertà di cui godevano sotto stranieri sovrani, invece di opporsi, applaudirono all'elezione di Federico.
[52] Fu nella dieta convocata il mese d'ottobre in Wurtzburgo, che i deputati mandati da Federico in Italia resero conto della loro missione, ritornando accompagnati dai delegati di papa Eugenio III per affrettare i soccorsi del nuovo monarca contro i Romani diretti sempre da Arnaldo da Brescia. Roberto principe di Capua, quello stesso che con tanto coraggio aveva sussidiati i Napoletani nella guerra che loro tolse la libertà, si presentò alla stessa dieta, implorando insieme ad altri baroni della Puglia esigliati anch'essi, dal re e dalla nazione tedesca di restituir loro il perduto patrimonio e di metter fine alle usurpazioni del re di Sicilia ugualmente nemico suo, come dell'Impero[55].
Federico, giovane valoroso ed avido di gloria, vedeva quanto la riunione delle fazioni allemanne accresceva le sue forze, ed era impaziente di usarne. L'Italia era la sola provincia in cui potesse far conoscere la sua attività ed i suoi talenti militari, e dove avrebbe dovuto essere incoronato imperatore e re; ma sapeva pure che in Italia non avrebbe trovato [53] nè ubbidienza, nè sudditi, nè tesori, nè armate; ed egli risguardava l'indipendenza d'Italia come uno stato di rivolta, i privilegi, come ingiuste usurpazioni. Promise perciò soccorso a Roberto ed ai baroni pugliesi, e segnò un trattato d'alleanza col papa, nel quale Eugenio prometteva la corona imperiale, e Federico di ristabilire in Roma l'autorità papale. In sul finire della dieta intimò a tutti i vassalli del regno germanico di disporsi ad accompagnarlo in Italia entro due anni al più tardi; e tutti i signori che assistettero alle deliberazioni della dieta, giurarono di seguirlo in tale impresa[56].
In marzo del 1153 tenendo Federico un'altra dieta a Costanza, due Lodigiani portando delle croci in mano, attraversarono la folla de' principi, e gittandosi ai piedi dell'imperatore, domandarono colle lagrime la libertà della loro patria, che i Milanesi avevano ridotta nella più dura servitù. Erano omai quarant'anni da che la repubblica di Lodi era stata sottomessa ed incorporata al territorio milanese; e la generazione che aveva potuto aver parte in un governo libero, [54] ed esercitare nelle pubbliche adunanze i diritti della popolare sovranità, era forse tutta discesa nel sepolcro: ma la dolce ad un tempo e trista memoria della perduta indipendenza è una eredità che i repubblicani lasciano ai loro figliuoli coll'obbligo di trasmetterla d'una in altra generazione, per farla rivivere qualunque volta ne avranno la forza. I cittadini lodigiani, senz'esserne autorizzati dai loro compatriotti, condotti dal caso a Costanza, trovarono nel proprio cuore le parole che potevano destare la compassione di persone che non intendevano il loro idioma. I loro singhiozzi e le lagrime della rimembranza d'una patria che più non avevano, si fecero strada al cuore di Federico, il quale fece subito dal suo cancelliere spedire un ordine ai Milanesi di ristabilire i Lodigiani negli antichi privilegi, e di rinunciare alla giurisdizione che si erano usurpata. Sicherio suo ufficiale di corte fu incaricato di portare all'istante quest'ordine ai consoli del popolo di Milano[57].
[55] Da prima recossi Sicherio a Lodi, ove partecipò ai magistrati delle borgate, tristi avanzi della distrutta città, la missione di cui era incaricato. Erano i Lodigiani troppo persuasi che una semplice lettera non farebbe loro rendere la perduta libertà, e tremarono in vista del pericolo cui gli esponeva l'inconsiderata procedura de' loro concittadini. La loro città era stata distrutta dal fuoco, ed essi ridotti ad abitare in villaggi aperti da ogni banda. Sapevano che la possente cittadinanza milanese poteva, provocata dalla risentita lettera di Federico, distruggere in poche ore le loro case, ed i loro raccolti, quando i soccorsi di Germania tarderebbero almeno un anno. Federico li proteggeva come usano i grandi di fare: essi credono d'aver tutto fatto pei loro clienti, quando si prendono la cura di vendicarli. Invano i magistrati di Lodi rappresentarono a Sicherio i loro pericoli; che non ottennero di sopprimere la lettera imperiale, o di differirne la consegna fino all'epoca in cui Federico entrasse in Italia.
I consoli milanesi ricevettero Sicherio in presenza dell'assemblea del popolo, che ascoltò la lettura del dispaccio. L'indignazione eccitata da una lettera così [56] imperiosa fu universale; fu strappata di mano all'araldo, e posta sotto i piedi; mentre tutti giuravano ad alta voce di difendersi, e caricavano d'imprecazioni il despota. Sicherio si sottrasse a stento alla moltitudine furibonda[58].
Intanto i Lodigiani trovavansi in preda a mortali terrori: essi mandavano le mogli ed i figli coi più preziosi effetti a Cremona ed a Pavia; e gli uomini restavano di giorno nelle proprie abitazioni, che abbandonavano la notte, disperdendosi ne' borghi e nelle campagne, per timore d'essere ad ogni istante sorpresi dall'armata milanese, che volesse punirli d'aver osato desiderare la libertà. Ma il popolo milanese, prevenuto dell'imminente arrivo dell'imperatore, non volle, attaccando i Lodigiani, che aveva presi a proteggere, provocare maggiormente il suo sdegno; che anzi unitamente agli altri Lombardi mandarono a Federico i regali che le città avevano costume di spedire al nuovo sovrano. I deputati di Pavia e di Cremona portarono in tale occasione al trono imperiale le loro lagnanze contro la crescente ambizione dei Milanesi i quali conobbero [57] ben tosto l'aggravio loro fatto dalle vicine città, ed alla nuova stagione tentarono di vendicarsene con alcune scorrerie sui territorj di Pavia e di Cremona[59].
La Lombardia era ancora in armi nell'ottobre del 1154 in cui v'entrò l'imperatore. Scendeva egli le Alpi per la vallata di Trento, e marciava alla testa di tutti i suoi vassalli, e di un'armata maggiore assai di quante ne avevano i suoi predecessori condotte in Italia. Fermossi alcun tempo in riva al lago di Garda per aspettarvi i suoi feudatarj; poi s'avanzò fino a Roncaglia in vicinanza di Piacenza; segnò il suo campo sulla pianura in riva del Po, e, secondo l'antica costumanza, vi aperse i comizj del regno d'Italia[60].
Il primo atto de' comizj fu quello di privare de' loro feudi coloro che non erano intervenuti; poi l'imperatore si dichiarò disposto a giudicare le cause de' suoi sudditi italiani, ed a soddisfare [58] alle loro lagnanze. Il primo che domandasse giustizia fu Guglielmo, marchese di Monferrato, il quale accusò la città d'Asti ed il borgo di Chieri. Questi due popoli eransi costituiti in governi liberi, e non avendo potuto ridurre il marchese a porsi sotto la loro protezione, facevano la guerra ai suoi vassalli. Il vescovo d'Asti s'unì al marchese contro la sua greggia. Tutte le nascenti repubbliche eccitavano la diffidenza o la collera di Federico, onde prometteva al prelato ed al marchese di castigare esemplarmente i popoli che gli avevano offesi.
Presentaronsi in appresso i consoli lodigiani e comaschi, rinnovando le lagnanze che i Lodigiani avevano già fatte a Costanza contro i Milanesi. I consoli di Milano trovavansi presenti e preparati a rispondere, onde si discussero le rispettive ragioni innanzi all'imperatore, e tutte le città manifestarono le loro inclinazioni. Si conobbero amici dei Milanesi i Cremaschi, i Bresciani, i Piacentini, gli Astigiani, i Tortonesi; dei Pavesi soltanto le città di Cremona e di Novara, poichè quelle di Como e di Lodi erano soggette a Milano. Il partito pavese era dunque evidentemente il più debole: per cui Federico chiamato a favorire [59] una delle due leghe, si dichiarò per quella che in appresso potrebbe sempre facilmente opprimere; mentre quando avesse appoggiati i Milanesi, questi non avrebbero in breve più avuto bisogno del suo favore[61].
Ordinava intanto alle due parti di deporre le armi, e faceva che i Milanesi lasciassero liberi i prigionieri pavesi: in appresso avendo manifestata la sua intenzione di avvicinarsi a Novara prima di nulla decidere intorno alle lagnanze di Como e di Lodi, chiese ai consoli di Milano di condurlo essi medesimi a traverso al loro territorio.
La strada che naturalmente doveva tenere l'armata, fu quella che i consoli di Milano avevano indicata, la quale attraversava, in linea quasi retta per lo spazio di circa cinquanta miglia, Landriano, Rosate e Trecate, ov'era il ponte sul Ticino. Ma su questa medesima linea appunto eransi pochi mesi prima battuti in più riprese i Milanesi ed i Pavesi; di modo che la campagna era stata rovinata: e perchè i Tedeschi prendevano, senza pagare, non solo gli oggetti di cui abbisognavano, ma gli animali ed i mobili, [60] i paesani fuggivano innanzi a loro, e lasciavano deserti i paesi per cui l'armata doveva passare. La prima notte l'esercito di Federico s'accampò innanzi a Landriano, ove trovò appena di che nutrirsi. Arrivò il susseguente giorno a Rosate, e perchè le dirotte piogge ne rendevano difficile la marcia, fece alto quarantott'ore presso a quel castello. I Milanesi non avevano calcolato tale ritardo, e le provvisioni colà preparate essendosi consumate il primo giorno, l'armata trovossi senza viveri. Lo stesso Ottone di Frisinga osserva che il principe ed i soldati, travagliati dalle non interrotte piogge, erano insofferenti e di cattivo umore, ed incolpavano perciò i Milanesi dell'avversa stagione[62]. La sera del secondo giorno Federico ordinò ai loro consoli d'allontanarsi dal campo e di sottrarsi alla reale indignazione; soggiungendo di far subito evacuare il castello di Rosate, ove trovavansi cinquecento soldati, onde la sua truppa potesse valersi dei viveri della guarnigione. I consoli ubbidirono: nè la guarnigione solamente, ma ancora tutti gli abitanti uscirono dal castello conducendo [61] di notte già innoltrata, e sotto una pioggia freddissima e continuata, le loro mogli e figli; lo che rendeva quest'esecuzione militare più odiosa e crudele. Presero la strada di Milano da cui erano lontani dodici miglia, lasciando, com'era loro stato ordinato, tutti gli effetti nel castello. V'entrò in sul far del giorno l'armata tedesca, e, dopo averlo saccheggiato, lo spianò da cima in fondo[63].
Quando i fuorusciti di Rosate giunsero a Milano, volendo pure dar colpa della loro sventura a qualcuno esposto alla loro vendetta, ripetevano le lagnanze de' Tedeschi, rimproverando ai consoli milanesi d'aver dato motivo della collera di Federico e della sua armata. Que' magistrati avevano torto in faccia a quegli abitanti dell'aver condotta l'armata presso al loro castello. Il popolo milanese era incapace di resistere all'affascinamento d'un grande spettacolo; le lagrime delle donne di Rosate, la miseria de' fanciulli che portavano in collo lordi di fango ed assiderati da una pioggia gelata, lo scoraggiamento dei capi di casa che avevano tutto perduto, facevano sui Milanesi un'impressione [62] assai più profonda che non la ferma e misurata eloquenza dei consoli, Oberto dall'Orto, e di Gherardo Negro, che rendevano ragione della propria condotta. La plebe tumultuante si portò contro la casa dell'ultimo, e la demolì interamente. Pure questo magistrato dimenticò l'ingratitudine del popolo, e non lasciò di servire con zelo e fedeltà la patria[64].
Altri deputati furono mandati a Federico, i quali rappresentarongli il castigo inflitto al console, siccome una luminosa soddisfazione che il popolo di Milano aveva voluto dargli: tentarono pure di calmarlo offerendogli una ragguardevole ammenda, a condizione per altro di lasciare la loro repubblica nel tranquillo possesso di Como e di Lodi. Ma il leone che aveva assaporato il sangue, rifiutava tutt'altro nutrimento. Federico si crucciò fieramente dell'offerta di un tributo, quasi si fosse cercato di corromperlo col danaro[65]; e menando i suoi soldati nelle più fertili campagne del Milanese, le lasciò a discrezione loro. S'avanzò poscia verso i due ponti fortificati che i Milanesi [63] avevano costrutti sul Ticino per passare quando il volessero nel territorio novarese, e dopo averli attraversati egli e l'armata, li fece abbruciare. Milano possedeva pure sull'opposta riva due castelli risguardati come chiavi del Novarese, Trecate e Galliate, ne' quali teneva sempre guarnigione. Federico li prese d'assalto, e dopo averli saccheggiati li fece spianare[66].
I Milanesi osservavano attoniti le rovine fatte da questa barbara armata, che a guisa di turbine aveva attraversato il loro territorio. Essa ne era finalmente uscita, ma non potevano prevedersi i suoi ulteriori movimenti; e dopo varj inutili tentativi, si era abbandonato il progetto di calmare coi doni la cieca sua collera. Rinvenuti da quella prima sorpresa, i magistrati pensarono a porsi in sicuro contro nuovi attacchi. Introdussero in città abbondanti provvigioni, ne rinforzarono con estrema cura le fortificazioni, e misero i castelli del territorio nel migliore stato di difesa. Mandarono in pari tempo ambasciatori alle città alleate per rinnovare gli antichi patti, domandare ed offerire [64] reciproco soccorso in caso d'attacco[67].
Nel 1154 Federico celebrò il Natale nelle vicinanze di Novara, ed al principio del susseguente anno 1155 attraversò i territori di Vercelli e di Torino[68]. Benchè queste due città si governassero a comune, ebbero la sorte di trovar quel monarca loro propenso, per cui nella guerra, ch'egli fece in seguito ai Lombardi, l'ultima fu sempre a lui attaccata. Dopo avere passato il Po, riprese, attraversando la pianura posta a diritta, la strada di Pavia. Guglielmo di Monferrato che seguiva l'armata imperiale, gli rammentò le ingiurie fattegli dagli abitanti di Chieri e d'Asti, chiedendogli il castigo di que' popoli così superbi e gelosi della loro indipendenza. Questi spaventati dall'avvicinamento di tanto formidabile armata, e non si fidando abbastanza delle loro torri e delle loro mura, eransi salvati colla fuga. L'imperatore trovò affatto deserto ed abbandonato Chieri, e la città di Asti[69]; le [65] quali dopo il saccheggio de' soldati furono incendiate.
S'avvicinò quindi a Tortona, città alleata di Milano, che l'aveva soccorsa nella guerra contro Pavia. Gli fece il re intimare che rinunciasse all'alleanza de' Milanesi, e si unisse ai Pavesi: e perchè il Governo di Tortona rispose non essere sua costumanza di abbandonare gli amici quand'erano nella sventura, fu la città posta al bando dell'Impero con solenne decreto; ed il giorno 13 febbrajo il re ne intraprese l'assedio[70].
È posta Tortona sopra un monticello che domina le pianure alla destra del Po, a non molta distanza dalle falde delle Alpi liguri. Terre basse e profonde la circondano da ogni banda, dividendola pure da Novi che trovasi ove comincia la catena delle Alpi. La collina di Tortona non si riunisce a questa catena che per [66] mezzo di alcune alture che prolungansi a levante. Su questa dirupata collina è fabbricata la fortezza, e più abbasso un sobborgo, che, quantunque circondato di mura, non è capace di lunga resistenza; onde il re non tardò ad impadronirsi del sobborgo, o della bassa città, che gli abitanti avevano abbandonato, ritirandosi con tutti i loro effetti nella città superiore.
Quando i Milanesi conobbero il pericolo dei loro amici, spedirono loro all'istante duecento de' loro più valorosi soldati, e persuasero molti gentiluomini delle montagne liguri, i quali eransi posti sotto la protezione della repubblica milanese, e tra questi Obizzo Malaspina, a ridursi nella città assediata[71].
Aveva Federico fissato il suo quartiere all'occidente della città verso il Tanaro; il duca Enrico di Sassonia occupava a mezzogiorno il sobborgo, e le milizie pavesi eransi accampate dalla banda della loro città. Gli assedianti aprirono tra questi diversi quartieri una fossa che toglieva ogni comunicazione fra Tortona e la campagna. Si fabbricarono macchine d'ogni [67] sorta, altre per nettare i merli gettando pietre contro i soldati, altre per rompere le mura. E tali erano i progressi ch'eransi fatti dagl'ingegneri in quest'arte, che raccontasi avere un gran macigno, gettato da una balista avanti al portico della cattedrale, ucciso, spezzandosi, tre de' principali cittadini che stavano colà deliberando intorno al modo di difendere la città. Per ordine di Federico erano state innalzate alcune forche in faccia alle mura, per appendervi coloro che si facessero prigionieri, siccome colpevoli di ribellione.
Intanto i Tortonesi venivano resi forti, per così dire, dalla disperazione, ed insultavano gli assedianti con frequenti sortite, e specialmente il campo de' Pavesi, perchè tra i posti avanzati di questi ed i loro era situata la sola fonte cui gli assediati potessero attinger acqua; ma il re rinforzò questo quartiere mandandovi colle sue truppe il marchese di Monferrato. Cercò pure di abbattere la torre, chiamata Rubea, la sola che non fosse fondata sulla rupe; ma i minatori reali furono scontrati dagli assediati che scavavano delle contromine, e li fecero perire soffocati nelle loro gallerie[72].
[68] Non potendo i Pavesi allontanare affatto dalla fonte affidata alla loro custodia gli assediati, vi gettarono cadaveri d'uomini, e d'animali per corrompere le acque; ma la sete vincendo ogni ribrezzo, non lasciavano per questo di beverne con avidità. Giunsero in fine a renderla affatto inservibile gittandovi solfo infiammato e pece. Tale assedio si protrasse fino alle feste di Pasqua; per celebrare le quali Federico accordò alla sua armata una tregua di quattro giorni; tregua di cui pochissimo approfittarono gli assediati travagliati dalla fame e dalla sete.
Il clero di Tortona sortì processionalmente per chiedere al re la grazia di non accomunarlo al gastigo di una città colpevole ch'egli abbandonava alla sua collera; ma Federico non ascoltò le vili preghiere d'una corporazione che abbandonava i suoi fratelli in tanta calamità, ed avendo costretto quegli ecclesiastici a rientrare in città, fece ricominciare l'attacco[73].
Intanto la sete rendevasi ai Tortonesi insopportabile, i quali avendo esauriti tutti i soccorsi della pazienza e del coraggio, dopo sessantadue giorni di trincea aperta, [69] non potendo ottenere migliori condizioni, si arresero a patto di sortire dalla città portando sulle spalle gli effetti di cui potrebbero caricarsi una sola volta, lasciando tutto il restante all'armata vittoriosa. Così sortirono in fatto da Tortona, ma dimagrati e sfiniti in modo, che più gloriosa rendevasi la lunga resistenza. Presero la strada di Milano, e mentre si scostavano dalla loro patria, vedevano innalzarsi le fiamme che la distruggevano[74].
Qual che si fosse l'infelice fine dell'assedio di Tortona, i repubblicani lombardi prendevano buon augurio dal vedere che una sola, ed una delle meno popolose e potenti loro città, avesse fermata due mesi la marcia della più formidabile armata che il re tedesco potesse condurre contro di loro, e gli fosse costata più sangue e sudore che ad Ottone la conquista di tutta l'Italia. Un grandissimo esempio di costanza e di coraggio [70] era stato dato per la libertà; i Tortonesi ne erano i martiri, e furono posti sotto la protezione delle repubbliche per la di cui causa avevano tanto sofferto. Furono ripartiti tra le famiglie milanesi con cui avevano formati legami di ospitalità, ed i consoli promisero di rialzare le mura di Tortona tosto che partirebbe l'armata tedesca.
Mentre questi valorosi fuorusciti colle loro mogli e figli, portando i miseri avanzi di loro fortune, entravano in Milano tra le acclamazioni del popolo ammiratore della loro virtù, Federico entrava trionfalmente in Pavia, ove facevasi coronare nella chiesa di S. Michele presso all'antico palazzo dei re lombardi[75].
Impaziente di associare a quello di re il titolo d'imperatore s'incamminava ben tosto alla volta di Roma, passando in vicinanza di Piacenza e di Bologna, ed attraversando la Toscana senza provocare, nè provare ostacoli.
Papa Eugenio III era morto del 1153; Anastasio IV suo successore non aveva regnato più di un anno; e quando Federico s'avvicinava a Roma era salito [71] sulla cattedra di S. Pietro Adriano IV. In questa città viveva da più anni in pace Arnaldo da Brescia, protetto dal senato, ed applaudito dal popolo, cui denunciava le ambiziose usurpazioni del clero. In principio dell'anno, Adriano IV aveva fulminato l'interdetto contro di Roma[76], che fino al presente non soggiacque mai a così fatto castigo spirituale; e siccome il popolo incominciava a lagnarsi d'essere, all'avvicinarsi della Pasqua, privo delle sacre cose, il senato, consigliandosi colla prudenza, non volle compromettere la pubblica tranquillità, ponendola in urto colle usanze religiose, e persuase Arnaldo ad allontanarsi da Roma, condizione richiesta dal papa per riconciliarsi colla città. Arnaldo si rifugiò presso un gentiluomo della Campania, aspettando le determinazioni che prenderebbe Federico.
I due partiti forzavansi ugualmente di guadagnarsi il favore del monarca. Aveva Adriano mandati a riceverlo a S. Quirico tre cardinali, i quali ottenevano in compenso della promessa della corona [72] imperiale, che Federico lo ajuterebbe a soggiogare i Romani. Il re per dargli una caparra della sua protezione fece arrestare il conte Campano che aveva dato asilo ad Arnaldo, e non lo rilasciò finchè non ebbe consegnato quell'eloquente nemico de' papi al Prefetto di Roma, magistrato eletto da Adriano, ed a lui devoto. Il popolo atterrito ugualmente dai fulmini della Chiesa e dalle minacce dell'esercito Allemanno, non si mosse a favore dell'apostolo della libertà, dichiarato eretico da un concilio; ed avanti che i Romani avessero tempo di rinvenire da questa prima sorpresa, la vendetta papale era compiuta. Il Prefetto teneva il prigioniero nella sua abitazione in castel s. Angelo; di dove in sul far del giorno lo fece tradurre alla piazza del Popolo, destinata alle esecuzioni de' delinquenti. Dal rogo, su cui si fece salire per abbruciarlo, Arnaldo potè vedere a perdita di vista le tre lunghissime strade che facevan capo innanzi al patibolo, e che formano quasi la metà di Roma. Colà, ignorando l'estremo pericolo del loro legislatore, giacevano ancora immersi nel sonno quegli uomini, che tante volte aveva chiamati alla libertà. Il fracasso dell'esecuzione, e le fiamme [73] del rogo risvegliarono i Romani, che si armarono ed accorsero, ma troppo tardi, per salvarlo. Le coorti del papa rispinsero colle loro lance coloro che desideravano di raccogliere come preziose reliquie le ceneri d'Arnaldo[77].
Dopo tale esecuzione, Adriano accompagnato da' suoi cardinali s'avanzò fino a Viterbo all'incontro di Federico. Qualunque fosse il bisogno ch'egli aveva di lui, voleva, in sull'esempio de' suoi predecessori, ridurre l'imperatore ad umiliarsi innanzi al capo della Chiesa prima d'essere da lui esaltato. Federico, vedendolo avvicinarsi, non si mosse per tenergli la staffa ed ajutarlo a discendere dal mulo: tanto bastò perchè il papa si rifiutasse di dargli e di ricevere il bacio di pace finchè l'orgoglioso monarca, alle persuasioni de' suoi cortigiani che avevano veduto Lotario nella medesima circostanza, si piegò a così umiliante ceremoniale. Si ebbe le destrezza d'assicurarlo che tale condiscendenza non comprometteva in verun modo la sua dignità, giacche non al papa, ma all'apostolo [74] da questi rappresentato, riferivasi tale omaggio[78].
Venti miglia più lontano tra Nepi e Sutri presentaronsi a Federico i deputati del senato romano. Ottone di Frisinga ci conservò per intero il discorso che diressero all'imperatore[79]. Rammentarono l'antica gloria di Roma, che era debito dell'imperatore di ripristinare; parlarono del dominio che la loro città ebbe lungo tempo di tutto il mondo; dominio cui poteva ancora aspirare dopo avere scosso l'ingiusto giogo de' preti; richiedevano da Federico che, prima d'entrare nella loro città, giurasse di rispettare le costumanze e le antiche leggi di Roma riconfermate coi loro diplomi da tutti gl'imperatori; finalmente di assicurare i cittadini dalla licenza dei Barbari, e di pagare cinque mila libbre d'argento agli ufficiali che, in nome del popolo romano, dovevano coronarlo in Campidoglio.
Quantunque l'orgoglio di Federico fosse rimasto ferito dall'altero carattere d'Adriano, aveva sagrificato alla dignità della religione, ed all'età del pontefice l'amor [75] proprio, ma nulla aveva potuto prevenirlo per l'alterezza del senato romano. Que' sentimenti repubblicani che combattuti aveva in Lombardia, non gl'ispiravano punto di stima e di rispetto; onde rispose in tal modo da despota: non essere egli fatto per ricevere condizioni, ma per darle al popolo: che quando fa il bene de' suoi sudditi, non segue che gl'impulsi del proprio cuore senz'esservi obbligato da veruna legge o giuramento. Dopo ciò rimbrottando ai deputati romani la degenerazione loro dagli antenati, e la debolezza attuale in confronto dell'antico valore, li rimandò con disprezzo. Mentre i deputati si ritiravano, li fece inseguire da un corpo di mille cavalieri che occuparono la città Leonina. È questa una parte di Roma posta sul monte Vaticano al di là del Tevere intorno alla basilica di s. Pietro. Era stata fortificata dell'848 da Papa Leone IV, dopo che i Saraceni avevano spogliata quella basilica, e perciò portava il suo nome[80]. La città Leonina non comunica colla città principale che per mezzo di un ponte fabbricato a lato di [76] Castel sant'Angelo[81], il quale fu preso dai Tedeschi, e barricato. Dopo tali precauzioni Federico ed Adriano poterono all'indomani entrare senza pericolo e senza incontrar resistenza in quelle deserte strade, e celebrare la ceremonia dell'incoronazione in onta de' Romani che, ritenuti al di là delle barricate, fremevano di sdegno, vedendo che il nuovo imperatore credeva di non abbisognare dei loro suffragi. Poichè Federico ricevette dalle mani di Adriano IV nella basilica di S. Pietro la corona d'oro, si ritirò co' suoi soldati nel campo formato fuori delle mura[82].
Tosto che i Romani videro levarsi le guardie che difendevano il ponte sul Tevere, si precipitarono entro la città Leonina, e massacrarono tutti coloro del seguito dell'imperatore che rimasti erano presso al Vaticano. All'avviso di questa sommossa popolare, riunì all'istante Federico i suoi soldati, e si portò nella città Leonina contro gli ammutinati. La battaglia s'impegnò innanzi a castel sant'Angelo [77] alla testa del ponte, e tra il Gianicolo ed il fiume presso ad una fonte di cui ora non rimane verun avanzo: nel primo luogo combattevano gli abitanti della città, nell'altro i transteverini. Tale era già l'effetto della disciplina repubblicana, che i Romani sostennero tutto il giorno lo sforzo dell'armata imperiale benchè composta delle migliori truppe tedesche. Furono però alla fine respinti, lasciando sul campo di battaglia mille morti e duecento prigionieri. All'indomani l'imperatore, che incominciava a mancar di viveri, s'allontanò da Roma col papa e s'accampò presso Tivoli. Colà celebrò la festa di S. Pietro e Paolo, nella quale il papa, dopo la messa, assolse tutti i soldati che avevano massacrate le sue pecore, dichiarando, non essere delitto il versare il sangue umano per sostenere il potere de' principi, e vendicare i diritti dell'impero[83].
Intanto l'avvicinamento della canicola moltiplicava nell'armata le febbri pestilenziali; [78] onde, per evitare la fatale influenza dell'eccessivo caldo, Federico condusse le sue truppe nelle montagne del ducato di Spoleti, la di cui capitale, siccome tutte le altre città italiane, reggendosi a comune, ebbe la sventura di muover la bile dell'imperatore. Il fisco pretendeva dalla città di Spoleti un residuo pagamento di ottocento lire per diritto di fodero, e per questo titolo veniva imputata d'aver defraudati i diritti reali. Inoltre i consoli di Spoleti avevano arrestato il conte Guido Guerra, uno de' più potenti gentiluomini toscani, che, di ritorno da una legazione, voleva raggiungere l'armata. Federico adunque spinse le sue truppe contro gli Spoletini, che coraggiosamente affrontarono gli assalitori; ma attaccati dalla cavalleria tedesca, non ne sostennero l'urto, e fuggirono verso la città inseguiti dai vincitori, che, entrandovi coi fuggiaschi, la misero a fuoco prima d'averla interamente spogliata. Due giorni rimasero i Tedeschi in quelle vicinanze per dividere le spoglie degl'infelici Spoletini, sottratte alle fiamme[84].
[79] I baroni pugliesi ch'eransi rifugiati presso l'imperatore, lo andavano esortando a portare le sue armi negli stati del re di Sicilia. Ruggeri il primo dei re normanni era morto a Palermo il 26 febbrajo del 1153 in età di 56 anni, dopo un regno glorioso, ma in sul finire infelicissimo; perciò che nell'ultimo anno di sua vita perdette i suoi due maggiori figliuoli Ruggeri ed Alfonso, le di cui virtù mostravangli degni successori degli eroi normanni. Guglielmo I, il terzo de' suoi figli, uomo pusillanime ed incapace di governare, erasi perciò abbandonato alla direzione di un oscuro cittadino di Bari, chiamato Mago, ch'era stato da lui nominato cancelliere e grande ammiraglio, per cui aveva indisposta la nobiltà, e dato occasione ad una sommossa popolare in Puglia[85]. Roberto, principe di Capoa, alla testa degli esuli era entrato nella Campania, per farla ribellare; e tutte le città gli avevano aperte le porte, tranne Napoli, Amalfi, Salerno, Troja e Melfi. Emmanuele Comneno, imperatore di Costantinopoli, faceva nello [80] stesso tempo attaccare da una flotta Brindisi e Bari, che gli opponevano una leggiere resistenza. Tutto il regno di qua dal Faro credevasi perduto dal monarca normanno, se Federico, come ne aveva dato voce, si fosse avanzato per terminarne la conquista: ma i Tedeschi impazienti di restituirsi alla loro patria, onde rimettersi dalle fatiche e dalle malattie di così micidiale campagna, non permisero all'imperatore di prolungare la guerra. Fu dunque costretto di licenziare la sua armata in Ancona, ove molti de' signori che l'avevano seguito, s'imbarcarono per Venezia; altri, attraversando la Lombardia ed il Piemonte, valicarono le Alpi della Savoja. Federico ch'erasi conservato un considerabile corpo di truppa passando per la Romagna, il Bolognese ed il Mantovano, si ridusse nel territorio veronese[86].
Era costumanza de' Veronesi di non accordare alle truppe imperiali il passaggio per la loro città. Per non esservi obbligati usavano perciò di fabbricare fuori delle mura un ponte sull'Adige. Quando Federico entrò sul loro territorio [81] cogli avanzi d'un'armata che aveva portato la desolazione in tutta l'Italia, e che da Asti fino a Spoleti aveva segnata la sua marcia cogl'incendj e coi massacri, lusingavansi, se riusciti fossero a dividerli, di distruggerli affatto, e vendicare essi soli la Lombardia. Il ponte di battelli costrutto al di sopra della città, era, dice Ottone di Frisinga[87], un laccio teso ai Tedeschi piuttosto che un ponte, perchè le barche che lo formavano erano legate soltanto quanto bastava per resistere alla forza della corrente; e mentre l'armata lo attraversava, enormi masse di legnami, che facevansi scendere lungo il fiume, dovevano urtarlo e romperlo. Un leggiere errore di calcolo sul tempo necessario perchè dal luogo in cui venivano posti nel fiume giungessero i legni fino al ponte, fece andar a vuoto il progetto. Gl'imperiali avendo affrettata la marcia onde sottrarsi al furore dei paesani che gl'inseguivano per vendicarsi delle loro rapine, non solo ebbero tempo di passare il ponte prima che si rompesse, ma lo avevano di già attraversato molti degl'insorgenti che tenevano lor [82] dietro, i quali, rimasti poi separati alcuni istanti dai loro patriotti, furono tutti massacrati. Pure l'imperatore non si trovò abbastanza forte per vendicarsi di coloro che gli avevano preparata tale insidia; onde proseguendo il suo viaggio verso le montagne, rientrò in Baviera per Trento e Bolzano un anno dopo la sua partenza.
Continuazione della guerra di Federico Barbarossa colle città lombarde. — Primo assedio di Milano; assedio di Crema; presa e rovina di Milano.
1155 = 1162.
I consoli milanesi non avevano aspettato che Federico licenziasse le sue truppe per mandare ad effetto le promesse fatte agli abitanti di Tortona. Quando aveva di poco abbandonato Pavia per recarsi a Roma, essi presentarono al popolo quegl'infelici fuorusciti, vittime onorate del loro attaccamento alla causa della libertà lombarda, ed ottennero dal parlamento, o consiglio generale, il decreto per rifabbricar Tortona a spese del pubblico. Il tesoro era esausto, ma i cittadini erano avvezzi a soccorrerlo. Coloro che non potevano dar danaro, offrivano le loro braccia allo stato. Gli abitanti di due porte della città, che ne formavano il terzo, furono incaricati di tale spedizione. Gentiluomini e plebei, cavalieri e pedoni, tutti partirono assieme, e nello spazio di tre settimane in cui rimasero [84] a Tortona, a vicenda soldati e muratori, respinsero i Pavesi che volevano impedire il rifacimento della città, e nel medesimo tempo rialzarono le mura e le rovinate case[88]. Alle porte Ticinese e Vercellina furono surrogate la Renza e la Romana; e mentre toccava a quest'ultima la guardia, i Milanesi accantonati nel sobborgo di Tortona, furono sorpresi dalle milizie di Pavia, e costretti di salvarsi nella città alta, abbandonando la maggior parte dei loro effetti e munizioni. Altri rifugiaronsi nella chiesa mentre i loro fratelli d'armi rispingevano dalle mura non ancora ultimate gli assalitori. Dopo la battaglia i consoli fecero scrivere sulla porta della medesima chiesa i nomi di coloro che disperando della salute pubblica vi avevano cercato un rifugio con dispendio del proprio onore[89].
I Milanesi non si limitarono a ristabilire Tortona, ed a richiamarvi i loro abitanti, ma si disposero inoltre a punire coloro che, comunque ugualmente interessati alla libertà d'Italia, eransi uniti all'oppressore di quella. Essi ristabilirono [85] e fortificarono il ponte sul Ticino presso Abbiategrasso, che era stato abbruciato da Federico: per il qual ponte, aprendo loro i territorj della Lomellina e di Vigevano da loro sottomesse, potevano, quando gli piaceva, attaccare i paesi del Pavese, del Novarese, del Monferrato. E per tal modo, minacciando ad un tempo tutti i loro nemici, seppero approfittare di così eccellente posizione per costringere i Pavesi ad una pace umiliante, per battere il marchese di Monferrato, per impadronirsi di molti castelli del Novarese, e ristabilire interamente la riputazione delle loro armi, che dalle vittorie di Federico parevano messe in fondo[90].
Nel tempo medesimo all'altra estremità del territorio erano entrati nella vallata di Lugano ed avevano occupati circa venti castelli che seguirono la parte imperiale. Avevano ristabiliti e fortificati i ponti sull'Adda, fugati i Cremonesi che venivano ad attaccarli, ed assicurata la subordinazione de' Lodigiani, di cui diffidavano con ragione[91].
[86] Dopo la guerra disastrosa che loro aveva fatta Federico, chi avrebbe creduto che le loro armi potessero trionfare in ogni lato della Lombardia, ed i loro consoli impiegare cinquanta mila marche d'argento nel fortificare la città ed i castelli dello stato?
L'energia dei Milanesi si comunicò ancora agli altri popoli attaccati alla causa della libertà. I Bresciani ed i Piacentini resero più intima l'antica alleanza, ed accrebbero le difese delle loro città. Tutta la Lombardia prese contro i Tedeschi un aspetto imponente, e Federico non tardò ad accorgersi che lungi dall'avere assicurata sul suo capo la corona d'Italia, non aveva la sua prima discesa ad altro giovato che a renderlo più odioso, e meno rispettato de' suoi predecessori.
Il mezzogiorno d'Italia era stato il teatro di traversie ancora più umilianti. Il principe Roberto di Capoa tradito dal suo vassallo Riccardo dall'Aquila, conte di Fondi, era stato dato in mano di Guglielmo re di Sicilia, che, dopo averlo barbaramente privato della vista, lo aveva fatto perire nelle prigioni di Palermo[92]. I Greci che sostenevano il suo partito, [87] ed erano alleati dell'imperatore d'Occidente e del papa, furono battuti a Brindisi[93], e quasi tutti i baroni ribelli della Puglia presi e mandati al supplizio, o posti in ferri: per ultimo papa Adriano, spaventato dai prosperi successi d'un nemico così vicino e tanto potente, aveva fatto pace con Guglielmo, ed abbandonati alla sgraziata loro sorte tutti coloro che per suo ordine, e per i suoi vantaggi, eransi esposti a tanti travagli e pericoli[94]. Accordò al re Guglielmo l'investitura della Sicilia, del ducato di Puglia, del contado di Capoa, di Napoli, di Salerno, d'Amalfi, e della Marca. Il trattato venne segnato a Benevento nella state del 1156, meno d'un anno dopo che Federico aveva ricevuto la corona imperiale a Roma dalle mani del papa[95].
Questo monarca doveva bensì prevedere che il Pontefice dopo una pace, forzatamente fatta, conserverebbe qualche riconoscenza per il principe che lo aveva protetto; ma non già che Adriano, dopo essersi riconciliato col re normanno, non [88] meno potente alleato, che temuto nemico, cercherebbe pretesti di umiliarlo. Alcuni signori tedeschi avendo arrestato un arcivescovo di Svevia, il papa scrisse all'imperatore per ottenere giustizia dell'oltraggio fatto alla Chiesa. In questa lettera egli spiegava tutto l'orgoglio d'un successore d'Ildebrando avvezzo a creare e deporre i re. I suoi nunzj presentandosi a Federico nella dieta di Bezanzone, tennero un contegno che annunciava le pretese e l'alterigia della corte papale. «Il beatissimo papa Adriano vostro padre e nostro, ed i cardinali vostri fratelli, vi salutano,» dissero costoro: indi lessero le lettere di cui erano apportatori, nelle quali fu principalmente notata la seguente frase: «Noi ti abbiamo accordata la corona imperiale e tutta la pienezza delle dignità mondane, nè avremmo avuto difficoltà di accordarti altri maggiori beneficj se potevan esservene di maggiori[96].» Così superbe [89] parole eccitarono maravigliosamente lo sdegno dell'altero monarca; più fortemente inasprito dall'equivoco vocabolo di beneficio, beneficium, che usavasi per indicare i feudi, o beneficj conferiti dal signore, Suserain; dimodochè il papa attribuivasi in alcun modo la supremazia sopra la corona imperiale. Tutti i signori tedeschi presenti alla dieta parteciparono del risentimento di Federico; onde senza degnarsi di rispondere al papa, fu ordinato [90] ai legati di sortire all'istante dal regno di Germania.
L'imperatore sentiva la necessità di tornare quanto prima potesse in Italia, e nella primavera del 1157 invitava tutti i principi a recarsi alla dieta d'Ulma coi loro vassalli per la festa di pentecoste del susseguente anno 1158, a fine di passare di là in Italia, onde forzare i Milanesi a sottomettersi all'Impero[97]. Furono in pari tempo mandati deputati ai feudatari d'Italia per annunciar loro questa spedizione[98].
S'avvide allora il papa che Federico non era in modo lontano, che non fosse più a temersi. Aveva già cercato di farsi favorevole il clero di Germania, ma non aveva potuto staccarlo dagl'interessi dell'Impero: (1158) scrisse quindi all'imperatore del 1158, e frammischiando accortamente le più lusinghiere espressioni ai sentimenti di tenerezza e di paterna affezione, spiegava la frase che aveva più adombrato quel sovrano: «beneficium, scriveva, è un favore, e non un beneficio: conferire la corona non altro significa che l'averla posta sul vostro [91] capo: altro senso non venne da noi attaccato a questo vocabolo, ed in tale occasione voi medesimo non potete negare che non abbiamo operato verso di voi con amore.» Tale lettera calmò l'imperatore, che riscontrandolo, assicurò il papa della sua amicizia e del desiderio che nutriva di conservarsi amico della Chiesa[99].
Intanto, all'avvicinarsi della Pasqua, la città di Ulma si andava riempiendo di soldati, di modo che molti principi tedeschi, vedendo che l'armata sarebbe troppo numerosa per tenere la stessa strada, s'incamminarono di consenso dell'imperatore per diversi passaggi delle Alpi, sicchè dal Friuli fino al grande s. Bernardo uscivano in Lombardia da tutte le valli battaglioni tedeschi. Il duca d'Austria, quello di Carinzia e gli Ungaresi tennero le strade di Canale, del Friuli e della marca veronese; il duca di Zevingen valicò il s. Bernardo coi Lorenesi ed i Borgognoni; gli abitanti della Franconia e della Svevia passarono per Chiavenna e per il lago di Como; finalmente lo stesso Federico, accompagnato dal re di Boemia, da Federico duca di [92] Svevia e figliuolo di Corrado, dal fratello di questo duca Corrado, conte palatino del Reno, e dal fiore della nobiltà tedesca, discese in Italia per la valle dell'Adige[100].
I Milanesi informati dell'avvicinamento di quest'armata, destinata a soggiogarli, avevano tutto disposto per una vigorosa resistenza. Avevano in particolare cercato d'assicurarsi della fedeltà e dell'ubbidienza de' Lodigiani, di cui avevano ragione di temere. Le precauzioni prese a tale oggetto sono una luminosa prova della buona fede degl'Italiani nel dodicesimo secolo. Non chiesero ostaggi, nè posero guernigioni nei loro castelli, ma andati a Lodi i consoli di Milano nel mese di gennajo, chiesero che tutti gli abitanti del distretto, senza eccezione, giurassero di ubbidire in ogni cosa agli ordini del comune di Milano. I Lodigiani che avevano nel loro cuore stabilito di sottrarsi a quella città, non vollero giammai prestare un giuramento che ne avrebbe loro tolti i mezzi; si lagnarono che nella formola del giuramento non era espressa la condizione, salva la fedeltà [93] dovuta all'imperatore, lo che essi ritenevano necessario per la tranquillità della loro coscienza, essendo da precedente giuramento legati a questo monarca[101]. I consoli per ridurli all'ubbidienza marciarono contro di loro alla testa delle milizie milanesi, e gli tolsero i loro mobili, senza che questi opponessero la più piccola resistenza. Passati due giorni, ultimo termine loro accordato, i Milanesi presentaronsi di nuovo innanzi alle borgate di Lodi; ma tutti gli abitanti, uomini, donne, fanciulli, avevano abbandonate le proprie case, ed eransi rifugiati a Pizzighettone. I Milanesi, dopo averle saccheggiate, le incendiarono[102].
Benchè travagliati da questa guerra civile nell'istante della più pericolosa invasione, i Milanesi non si scoraggiarono. Essi ripromettevansi assai de' loro alleati i Bresciani, e sperarono che avrebbero lungo tempo trattenuti i nemici. Furono infatti attaccati dall'armata imperiale ne' primi giorni di luglio, ma dopo aver resistito quindici giorni, spaventati dall'imminente loro pericolo, offrirono ostaggi [94] ed una grossa somma di danaro per prezzo della pace[103].
Federico in mezzo al proprio campo tenne sul loro territorio una specie di dieta, in cui proclamò un regolamento intorno alla disciplina militare, il quale, non meno de' fatti storici, può farci conoscere la maniera con cui di que' tempi si guerreggiava, ed i costumi del secolo dodicesimo. Tale regolamento fu chiamato la pace del principe, perchè destinato a prevenire le querele nel campo.
Per impedire le battaglie private, conviene offrire un mezzo di reprimere e punire legalmente le ingiurie; e questo infatti è lo scopo del primo articolo del regolamento, che proporzionando la pena alla qualità dell'insulto, sulla deposizione di due testimoni non parenti dell'istante, ordina, a seconda dei casi, la confisca dell'equipaggio, il castigo delle verghe, il taglio de' capelli e della scottatura della mascella, infine per gli omicidj, della morte. Ma in mancanza di testimoni dovevano le cause d'ingiurie essere decise da un combattimento giudiziario; oppure, se due schiavi avevano parte nel processo, colla prova del ferro caldo.
[95] Alcuni altri articoli sono destinati a proteggere i popoli ne' di cui territorj l'imperatore aveva destinato di condurre l'armata. «Che il soldato che spoglia un mercante, sarà obbligato di restituire il doppio, e di giurare che ignorava che il derubato fosse mercante:» onde pare che la mercatura fosse particolarmente protetta. «Quello che abbrucerà una casa in città o in campagna, sarà battuto colle verghe, tosato e scottato alla mascella. Colui che troverà vasi pieni di vino, non li romperà nè taglierà i cerchi della botte, e si contenterà di prendere il vino. Quando l'armata s'impadronirà d'un castello, i soldati porteranno via tutto quanto vi si trova, ma non lo abbruceranno senz'ordine del maresciallo. Quando un Tedesco avrà ferito un Italiano, se questi potrà provare con due testimoni d'aver giurata la pace, il Tedesco sarà castigato.» I ventiquattro articoli ond'è composto questo regolamento, presentano tutti l'impronta dell'indisciplina e della barbarie; e se fu noto ai Lombardi, non dovette ispirar loro troppa fiducia nell'armata ch'entrava in paese[104].
[96] Nella stessa dieta furono citati i Milanesi a comparire per giustificarsi della loro ribellione; i quali non avendo scosso ancora in modo il giogo dell'Impero da non riconoscere certa tal quale subordinazione al suo capo, ubbidirono alla citazione. I loro deputati, dopo aver giustificata la condotta dei Milanesi, offrirono per taglia una ragguardevole somma di danaro, che fu dall'imperatore rifiutata. La dieta li dichiarò nemici dell'Impero, e l'armata ebbe ordine di prepararsi all'assedio di Milano. I Milanesi avevano posti mille cavalli al ponte di Cassano, il solo che avevano lasciato sull'Adda, che, ingrossata dallo scioglimento delle nevi, sembrava sufficiente a difendere il loro territorio, come [97] l'aveva altre volte difeso contro le incursioni de' Cremonesi. Ma il re boemo, scendendo lungo l'Adda fino a Carnaliano, ove il fiume è più largo, lanciossi in acqua alla testa della sua cavalleria, ed ora guadando, ora nuotando giugne all'opposta riva perdendo in questo tragitto duecento uomini sopraffatti dalla corrente[105]. Alcuni distaccamenti di Milanesi che marciavano lungo il fiume incontrarono il re di Boemia che si avanzava verso Cassano. Diedero questi il segno d'allarme alla cavalleria destinata alla difesa del ponte, e che, trovandosi esposta ad essere presa alle spalle, non poteva senza pericolo restare in quella posizione: onde ripiegò subito verso Milano lontano poco più di dodici miglia dal fiume; e gli abitanti della campagna, sentendo che i nemici erano penetrati nel loro territorio, s'affrettarono di ripararsi entro le mura della città, cacciandosi avanti i loro bestiami, e trasportando i più preziosi effetti: e, come suole accadere, per iscusare la loro [98] paura, esagerando il numero de' nemici, accrebbero quella de' loro concittadini.
Poi ch'ebbe passato il ponte di Cassano col rimanente dell'armata, Federico, invece d'avanzarsi sopra Milano, attaccò e prese il castello di Trezzo, indi quello di Melegnano, poi andò fino al fiume Lambro sulle di cui rive era posta l'antica città di Lodi. Mentre stava accampato su quelle rovine, i Lodigiani, che forzati ad abbandonare l'incenerita loro patria, eransi rifugiati a Pizzighettone, si presentarono a lui, portando delle croci in mano, siccome costumavano dì fare i supplichevoli, e chiedendo un nuovo ricinto per fabbricarvi la loro città distrutta dai Milanesi. Federico accordò loro quello di Monteghezzone in riva all'Adda quattro miglia distante dalle ruine dell'antica Lodi; e su questo rialto, che alquanto signoreggia il piano, fece porre in sua presenza la prima pietra della città che tuttora sussiste[106].
Intanto eransi recati al campo imperiale quasi tutti i feudatarj italiani, e le [99] milizie della maggior parte delle città; onde trovavansi colà riuniti più di quindici mila cavalli, e cento mila pedoni. Un gentiluomo tedesco, lusingandosi che i Milanesi, spaventati da tanto esercito, non oserebbero uscire dalle loro mura, partì da Lodi con circa mille cavalli per segnalarsi con uno strepitoso fatto d'armi, insultando i nemici dell'imperatore fino sulle loro porte; ma fu ricevuto in modo dalle milizie milanesi, che, dopo un ostinato combattimento, rimase sul campo di battaglia egli e quasi tutti i suoi soldati[107].
Due giorni dopo tale fatto d'armi, il sei o l'otto agosto, come alcuni vogliono, l'imperatore andò ad accamparsi nel Broglio di Milano situato fuori di P. Romana[108]. Immenso essendo il circondario delle mura, fortificate esternamente da larga fossa piena d'acqua[109], conobbe Federico che non era possibile [100] d'attaccar la città col montone, le torri mobili, ed altri ingegni militari, che impiegavansi allora negli assedj, e credette più prudente cosa di aspettare che l'immensa popolazione di Milano venisse dalla fame costretta ad arrendersi; lo che doveva accadere tra non molto, perchè que' cittadini, credendo impossibile il chiuderli da ogni banda, non avevan fatti grandissimi approvvigionamenti. Perciò l'imperatore divise l'armata in sette corpi che pose innanzi alle porte, ordinando loro di coprirsi subito colle trincee.
Quello di questi corpi che più difficilmente poteva comunicare cogli altri, era capitanato dal conte Palatino del Reno e dal duca di Svevia. I Milanesi non tardarono ad accorgersi ch'era quasi isolato, ed avendolo attaccato la prima notte, lo posero in disordine. Ma il re boemo, accorso in ajuto de' suoi alleati, forzò i Milanesi a ritirarsi con perdita. Pochi giorni dopo gli assediati attaccarono il corpo comandato da Enrico duca d'Austria, ma furono ugualmente respinti.
A due o trecento passi fuori della P. Romana eravi un antico monumento chiamato l'Arco de' Romani; quattro [101] arcate massicce di marmo formavano una specie di portico[110], al di sopra del quale ergevasi un'altissima torre ugualmente di marmo. Quaranta soldati milanesi eransi in questa rinchiusi, i quali, quantunque non avessero comunicazione colla città, vi sostennero otto giorni d'assedio, finchè i Tedeschi essendosi appostati sotto il portico medesimo, ov'erano al sicuro dalle frecce e dalle pietre che si gittavano dall'alto, ruppero la volta dell'edificio e forzarono gli assediati ad arrendersi[111]. Federico fece porre sulla sommità di questa torre una petriera che, signoreggiando le mura della città, faceva grandissimo danno agli assediati.
D'altra parte i Milanesi, in alcune scaramucce di non molta importanza, sorpresero i Tedeschi, e tolsero loro sì grande [102] quantità di cavalli che vendevasi cadauno per quattro soldi di terzuoli[112]; ma non ebbero ulteriori vantaggi. Fino dal cominciare della guerra provarono la fortuna contraria, e tutto loro riusciva male: nè solamente erano stati abbandonati dai loro alleati, ma li vedevano servire nel campo nemico. I Cremonesi ed i Pavesi abusavano del favore imperiale per rovinare le campagne, estirpando e bruciando i vigneti, i fichi, gli ulivi[113]; atterravano le case, scannavano i prigionieri; e per dirlo in una parola, facevano la guerra con quella feroce barbarie cui s'abbandonano spesso i deboli esacerbati da lunga oppressione, ed inebriati dalla [103] presente prosperità[114]. I Milanesi miravano dall'alto delle mura la rovina delle loro campagne, e soffrivano nell'interno la fame e la mortalità; e molti del popolo che risguardavano siccome un sacro dovere l'ubbidienza all'imperatore, attribuivano alla vendetta del cielo queste, per essi, nuove calamità. Altri, e specialmente la gioventù, mostravano maggior costanza; e nelle loro assemblee obbligavansi gli uni verso gli altri a sacrificare la vita per la salvezza della patria, e per l'onore della città.
Mentre i cittadini divisi di sentimento rimanevano indecisi sul partito da prendersi, il conte di Biandrate, il principale e più potente gentiluomo di Milano, aveva saputo acquistarsi la confidenza dei due opposti partiti, e, senza perdere il favore popolare, conservare il suo credito alla corte. Poi ch'ebbe scandagliato l'animo dell'imperatore, chiese ed ottenne dai consoli di adunare il popolo nella piazza pubblica. Allora rammentando ai suoi concittadini quanto aveva fatto egli medesimo per difesa della patria, ed il suo conosciuto attaccamento alla causa della libertà, il più grande dei beni, il [104] solo per cui s'acquisti gloria combattendo, gli scongiurò a non prolungare una resistenza che omai non lasciava veruna speranza di felice fine, di cedere, non alle armi, ma alla fame, alla peste, più assai terribili nemici di Federico; di cedere a coloro cui i loro antenati non avevano sdegnato di sottomettersi, avendo malgrado il valore e la virtù loro ubbidito ai re transalpini, a Carlo Magno, al grande Ottone; di cedere perchè instabile è la fortuna, onde conservando illesa la loro patria potevano pure sperare di vederla un giorno ricuperare l'antico suo splendore[115].
Ai Lombardi mancava quella ferma confidenza nel destino della loro repubblica, che avevano gli antichi Romani; quella impossibilità di concepire altra esistenza fuori dell'indipendenza e della libertà; quella forza d'animo che si ostina contro le sventure per un sentimento superiore al freddo calcolo dei vantaggi e dei pericoli. La repubblica era ancora giovane, e la ricordanza della passata dipendenza indeboliva l'energia de' cittadini; le loro istituzioni non erano proprie [105] a sostenere e formare le virtù pubbliche; e non andavano debitori del valor loro, qual che si fosse, che alla natura ed alla libertà, non all'avvedutezza dei legislatori. Essi cedettero alle persuasioni del conte, e spedirono deputati a Federico, il quale accordò loro tali vantaggiose condizioni cui ben potevano sottoporvisi senza vergogna: obbligavansi i Milanesi di rendere la libertà a Como ed a Lodi, a giurare fedeltà all'imperatore, a fabbricargli un palazzo a spese del Comune, a pagargli in tre termini entro un anno nove mila marche d'argento, per guarentire la quale somma dovevano dare alcuni ostaggi; finalmente a rinunciare ai diritti reali ch'essi possedevano. L'imperatore dal suo canto prometteva che, tre giorni dopo aver ricevuti gli ostaggi, allontanerebbe l'armata dalle mura di Milano, senza permettergliene l'ingresso. Venivan compresi nel trattato gli alleati di Milano, i Tortonesi, i Cremaschi, e gl'Isolani del Lago di Como, sanzionando colla sua autorità la continuazione della loro alleanza, e permettendo ai Milanesi l'elezione dei Consoli nella pubblica assemblea del popolo, a condizione che gli eletti gli giurassero fedeltà, e che altri [106] deputati si presenterebbero a lui nelle seguenti calende di febbrajo a rinnovare il giuramento de' Consoli. Per ultimo offerse la sua mediazione per trattar la pace tra Milano ed i suoi alleati da un lato, e dall'altra parte le città di Cremona, Pavia, Novara, Como, Lodi e Vercelli, con patto che fossero dalle due parti rilasciati i prigionieri: sul quale ultimo articolo acconsentì che nel caso che non potessero aver felice esito le trattative di pace, gl'Italiani potessero ritenere i rispettivi prigionieri, senza ch'egli avesse diritto di lagnarsene[116].
Ben lungi che la costituzione repubblicana di Milano e delle altre città dipendenti dall'alta signoria dell'Impero fosse riconosciuta dalle leggi, queste città non aspiravano nemmeno apertamente all'indipendenza, ritenendo che il giuramento di fedeltà all'imperatore era una formalità di obbligo, e che per antico costume dovevasi pagare al medesimo una somma di danaro qualunque volta veniva in Italia; onde la tassa di nove mila marche imposta in quest'occasione ai Milanesi non doveva sembrar loro esorbitante. [107] La liberazione di Lodi e di Como era il solo articolo oneroso di questo trattato, sembrando gli altri convenuti tra uguali potentati[117]; di modo che il trattato smentisce in parte il racconto degli storici imperiali, i quali mostrano Federico in quest'impresa sempre accompagnato dalla vittoria. Se i successi non fossero stati compensati dalle perdite non è supponibile che i Milanesi avessero potuto ottenere così vantaggiose condizioni. Ma in tutto questo periodo non possono consultarsi che scrittori parziali di Federico[118].
[108] Tale convenzione fu sottoscritta il giorno 7 di settembre, e non molto dopo l'imperatore si trasferì a Roncaglia per presiedere la dieta del regno d'Italia, alla quale intervennero ventitrè tra arcivescovi e vescovi delle principali diocesi, molti principi, duchi, marchesi, [109] e conti, i consoli ed i giudici di tutte le città. L'imperatore aveva con lui quattro legisti bolognesi, discepoli di Guarnieri, che in sul cominciar del secolo aveva introdotto nello studio di Bologna la scuola di giurisprudenza.
In niuna precedente dieta italiana eransi, come nella presente, vilipesi i diritti del popolo. L'arcivescovo di Milano in un discorso di consuetudine, rispondendo a quello pronunciato da Federico, diede il primo esempio di vile adulazione. I vescovi che due secoli prima, dominando le città, erano così caldi per l'indipendenza, furono i principali nemici della libertà dei popoli, dopo che le città ebbero scosso il giogo vescovile. «Spetta a voi (diceva il prelato milanese a Federico) spetta a voi a statuire intorno alle leggi, alla giustizia, ed all'onore dell'Impero; sappiate che vi fu accordato pieno diritto sui popoli per istabilire novelle leggi, e che la vostra volontà sola è la regola della giustizia: una lettera, una sentenza, un editto da voi emanati, diventano all'istante leggi del popolo. E per verità, non è forse doveroso, che il lavoro abbia la sua ricompensa? che colui che [110] ha l'incarico di proteggerci, goda invece le dolcezze del comando[119]?»
Tale press'a poco era il linguaggio de' legisti, approvando tutto quanto di basso e di vile si contiene nella giurisprudenza de' romani imperatori; accostumati a risguardare i libri di Giustiniano come la ragione scritta, e non altro conoscendo delle cose romane, che i suoi padroni, univano le massime del dispotismo all'amore che professavano alla loro scienza, da cui riconoscevano la propria riputazione e la loro gloria. I legisti infatti fino alla fine delle repubbliche italiane ebbero sempre opinioni poco liberali.
Federico fece rivendicare dai suoi giureconsulti in faccia alla dieta i reali diritti di cui erasi a poco a poco spogliata la sua corona. Le prerogative imperiali riclamate da un principe vittorioso, alla testa di una potente armata, furono spiegate e difese con tutte le sottigliezze scolastiche e legali. I proprietari dei diritti signorili scoraggiati dalle nuove opinioni del clero, e trovandosi ugualmente incapaci di far fronte agli argomenti de' [111] dottori bolognesi ed alle armi tedesche, s'appigliarono al partito di rassegnare tutti i loro privilegi al monarca. La dieta dichiarò che le regalie spettavano a lui solo, e che sotto il nome di regalia erano compresi i ducati, i marchesati, le contee, il diritto di coniar monete, i pedaggi, il diritto del fodero, ossia, approvvigionamento, i tributi, i porti, i mulini, le pesche, e tutti i redditi provenienti dai fiumi. Per ultimo aggiunse a tutto questo che i sudditi dell'Impero dovevano pagare un testatico al suo capo[120].
Per altro Federico non fece uso di così vaste concessioni, nè forse era prudente il farlo. Confermò a tutti i diritti di cui erano possessori, mercè un'annua corresponsione indicante l'alta signoria dell'Impero. E per tal modo con apparente generosità aggiunse trenta mila talenti, dice Radevico, che non suole impiegare che frasi classiche, all'entrate dell'Impero. Furono verosimilmente trenta mila marche, o trenta mila libbre d'argento, trovandosi queste valutazioni impiegate negli editti della stessa epoca.
[112] La medesima Dieta dichiarò pure di pertinenza dell'imperatore la nomina dei consoli e dei giudici, ma coll'assenso del popolo. Federico introdusse in quest'occasione un importante cambiamento nell'amministrazione della giustizia. Durante la dieta erano state prodotte, secondo l'antica consuetudine del regno, moltissime cause private, affinchè venissero giudicate dall'imperatore. Egli si lagnò d'essere sollecitato a pronunciare i suoi giudizj, dicendo che l'intera sua vita non basterebbe a ciò; ed in conseguenza incaricava in ogni diocesi delle incumbenze giudiziarie alcuni nuovi magistrati, detti podestà, ch'egli obbligavasi di nominare sempre stranieri alle città che dovevano reggere[121].
Tale innovazione apparentemente provocata dal solo amor di giustizia, poteva riuscir fatale alla libertà, ed ebbe infatti il preveduto effetto. I podestà trovaronsi bentosto in opposizione coi consoli. I primi, siccome persone scelte dall'imperatore nella classe de' gentiluomini a lui più affezionati, o in quella de' legisti, [113] mostravansi sempre favorevoli al potere arbitrario; i secondi, nominati dal popolo, erano i campioni della libertà cui dovevano la propria esistenza. Quando l'imperatore conobbe questa rivalità, si prese cura d'abolire i consoli, onde rimanessero più potenti i podestà. Ciò diede luogo a quasi tutte le guerre che si accesero in appresso, ma è cosa notabile che, avendo il popolo ottenuta intera libertà, non abolisse un'istituzione straniera, che aveva ricevuta dalle mani d'un sovrano. Rispettando l'ordine stabilito, conservò i podestà ch'egli stesso nominava, e coi podestà tenne vivo nel comune un lievito del potere arbitrario; e quest'abitudine di riclamare l'autorità d'un solo, costò in progresso a molte repubbliche la libertà.
Nella stessa dieta fu ratificata una legge intorno alla conservazione della pace, affatto opposta alle prerogative dei comuni, perciocchè a questi, siccome ai duchi, marchesi, conti, capitani, valvasori, si toglieva il diritto di far la guerra e la pace, di cui erano in possesso da tanto tempo: ma perchè tutti erano a parte dei disordini inseparabili dalle guerre private, niuno ardì opporsi [114] ad una legge tanto favorevole all'umanità[122].
Questa notabile dieta fu chiusa con un giudizio dell'imperatore intorno alla contesa che da lungo tempo agitavasi tra Piacenza e Cremona. La prima fu alleata dei Milanesi, l'altra aveva mandate le sue milizie sotto le insegne di Federico; e ciò bastò a determinare il favore del principe, che fece atterrare le mura di Piacenza e le torri, e riempirne le fosse.
Tutto omai piegava ai voleri di Federico, il quale approfittando di tanta prosperità, faceva ansiosamente ricercare se nelle antiche provincie romane eravi alcun diritto da rivendicare all'Impero: nell'antica divisione del quale erano toccate all'imperatore d'Occidente le isole di Corsica e di Sardegna. Mancando di miglior titolo egli pensò di valersi di questo, e spedì i suoi commissari ai Pisani ed ai Genovesi, ingiungendo loro di trasportarli in quelle isole. E perchè sì gli uni, che gli altri non si prestarono alle sue domande, arse di sdegno contro di loro, e minacciò di sfogarlo sopra Genova[123]. I Genovesi dal canto [115] loro non erano contenti della legge emanata dalla Dieta intorno ai diritti reali; appoggiandosi ad antichi privilegi degl'imperatori, che li dispensavano da ogni tassa e da ogni servizio, a motivo della povertà delle loro montagne, e per ricompensarli della cura che si prendevano di difendere le coste dagl'infedeli. Temendo che Federico facesse tener dietro i fatti alle minacce, uomini, donne, fanciulli, lavoravano notte e giorno con instancabile zelo per mettere la loro città in istato di vigorosa difesa, rinforzando le mura, coprendole di macchine da guerra, e facendo delle piatta-forme con alberi ed antenne di navi. Non trascurarono intanto di mandare una onorata deputazione di magistrati all'imperatore, tra i quali trovavasi pure lo storico Caffaro. Seppero questi così opportunamente impiegare l'accortezza e le ragioni, e mostrarsi ad un tempo sommessi e coraggiosi, che Federico si accontentò di ricevere dodici mila marche d'argento in tacitazione d'ogni sua pretesa[124].
Supponeva l'imperatore che le decisioni della Dieta di Roncaglia lo assolvessero [116] dall'osservanza del trattato fatto coi Milanesi, e quindi sottrasse Monza alla loro giurisdizione, quantunque gli avesse assicurato il possedimento di tutto il territorio, tranne Lodi e Como. Poco dopo li privò pure dei contadi della Martesana e del Seprio, investendone un nuovo Signore; pose guarnigione tedesca nel castello di Trezzo, e, per far cosa grata ai Cremonesi, ordinò che si distruggessero le mura di Crema. Mandava in pari tempo a Milano il suo cancelliere per sostituire il podestà ai consoli in onta alla letterale convenzione del trattato di pace[125]; perchè il popolo risguardando quest'atto come un aperto oltraggio, prese furibondo le armi, e sforzò il cancelliere a sortire all'istante dalla città: nè i Cremaschi avevano diversamente trattato il messo che loro recava l'ordine di atterrare le mura.
Prima che ciò accadesse, gran parte de' signori tedeschi che avevano accompagnato l'imperatore, eransi, dopo la sommissione di Milano, ritirati alle loro case, ed al cominciare dell'inverno l'armata [117] di Federico trovavasi molto indebolita; oltre che erasi avanzata in parte verso Bologna per sostenere i deputati, che dovevano far eseguire nel territorio della Chiesa i decreti della dieta di Roncaglia. I Milanesi, convinti che il sovrano credevasi disobbligato dall'osservanza dei trattati fatti coi sudditi; i Milanesi che sapevano d'averlo offeso, e non ignoravano quanto fosse proclive alla vendetta, credettero di prevenirlo, e si prepararono subito alla guerra. L'imperatore teneva guarnigione nel castello di Trezzo, posto in riva all'Adda, quattro miglia al di sopra del ponte di Cassano; lo che aprivagli sempre la strada del territorio milanese, e toglieva a quegli abitanti il vantaggio di difendersi dietro i fiumi che da due lati cingono la loro diocesi. I Milanesi attaccarono perciò Trezzo, e se ne impadronirono in tre giorni, ma non furono ugualmente felici nell'attacco di Lodi che difende un altro passaggio dell'Adda[126].
L'imperatore conoscendosi troppo debole per punire all'istante tanti oltraggi, si limitò a denunciarli ad una corte plenaria [118] che adunò ad Antimiaco presso Bologna. Il vescovo di Piacenza, quantunque città da lungo tempo alleata coi Milanesi, si diffuse in invettive contro di questi provocando un decreto della Corte che metteva Milano al bando dell'Impero, ed ordinava ai principi di riunirsi di nuovo per muovergli guerra.
Questa corte o dieta si occupò inoltre di altre gravissime cause. Adriano IV si lagnò della condotta de' messaggieri reali venuti a visitare il patrimonio della Chiesa. Sosteneva il papa, che l'imperatore senza sua intelligenza non poteva mandare deputati a Roma, perchè quella non era subordinata che alla Chiesa, che l'imperatore non poteva pretendere il diritto del fodero dal patrimonio di s. Pietro che in occasione di recarsi a Roma per ricevere la corona dalle mani del papa; che i vescovi d'Italia sono bensì tenuti a prestargli il giuramento di fedeltà, ma non di vassallaggio; siccome non erano tenuti a ricevere i messaggieri imperiali ne' loro palazzi; per ultimo, che tutti i possedimenti della contessa Matilde essendo devoluti alla santa Sede, spettavano al papa i tributi di Ferrara, di Massa, di tutto il territorio posto tra Acqua pendente e Roma, del ducato di Spoleti e [119] delle isole di Sardegna e di Corsica. A queste gravi contestazioni un'altra se n'aggiunse assai più frivola, ma forse più calda rispetto allo stile adoperato dalla cancelleria imperiale nello scrivere al papa[127].
Rispondeva Federico, che i suoi messaggieri, abitando ne' palazzi vescovili, abitavano in propria casa, perchè fabbricati sul suolo imperiale; che i vescovi non potevano dispensarsi dal dichiararsi suoi vassalli finchè rimanevano in possesso dei feudi dell'Impero; per ultimo essere affatto insussistente la pretesa sovranità del papa nella città di Roma, mentre egli aveva il titolo di re dei Romani.
La guerra di questo monarca coi Milanesi, e la vicina morte d'Adriano, non permisero, è vero, che questa lite s'inasprisse troppo, ma fu cagione che il senato romano, che ancora mantenevasi nemico de' papi, si rappacificasse coll'imperatore.
Nella disuguale contesa che i Milanesi rinnovavano coll'imperatore, non contavano altri alleati che i Cremaschi, popolo valoroso ma debole, ed i Bresciani che [120] nella precedente campagna non avevano dato prove di molta fermezza. I Tortonesi o non osarono, o non hanno potuto soccorrerli. Federico aveva costretti gli abitanti di Piacenza e dell'Isola sul lago di Como, a rinunciare all'alleanza de' Milanesi per unirsi a lui; e le città di Como e di Lodi, già soggette ai Milanesi, avevan prese le armi contro di loro. Lodi nuovamente fortificata con un ponte sull'Adda, apriva il territorio milanese ai nemici, padroni di quella città. Aggiungevasi a tali ristrettezze, le campagne rovinate nella precedente guerra, il tesoro esausto, la morte de' più bravi cittadini per cui trovavansi in peggiori circostanze che all'epoca della prima invasione: di modo che la risoluzione ardita di dichiarar la guerra, potrebbe chiamarsi stoltezza, se generosi motivi non l'avessero provocata. È nobile orgoglio il poter dire: siamo deboli, siamo abbandonati, saremo sterminati, chè non è in nostro potere il soggiogar la fortuna, ma questo residuo di ricchezze che possiamo sagrificare alla patria; questa rimanenza di vigore che sentiamo nelle nostre braccia, questo sangue libero che bolle ancora nelle nostre vene, dobbiamo pur consacrarli ad un nobile oggetto; noi non possediamo [121] tutto ciò che per combattere il dispotismo; e noi non ci sottometteremo che quando, oltre aver perduta ogni speranza di vincere, ci sarà tolto ogni mezzo di resistenza[128]. Con tali sentimenti, con tanta costanza, l'entusiasmo si perpetua, la seguente generazione rivendica quella che soggiace, i despoti si snervano a forza di vincere, e sulle rovine delle città libere s'innalza di nuovo lo stendardo della libertà.
Federico non intraprese la seconda volta l'assedio di Milano, ma usando destramente di tutti gli avvantaggi che gli dava la facilità di entrare all'improvviso nel territorio milanese, di porsi in sicuro nel caso di sinistro evento, e la superiorità della sua cavalleria tanto pel numero che per la disciplina, si limitò in quella estate a devastare le campagne de' suoi nemici, bruciando le messi, facendo atterrare o scorzare gli alberi fruttiferi, distruggendo ogni sorta di commestibili, [122] e vietando sotto severissime pene il recar vittovaglie a Milano, al qual oggetto faceva continuamente battere dalla cavalleria tutte le strade[129]. I Milanesi per altro ch'eransi anticipatamente provveduti, ed inoltre avevano stabilita una saggia economia nella distribuzione de' viveri, osservarono con apparente non curanza la desolazione delle loro campagne.
In questo frattempo i Cremonesi, avendo avuto qualche considerabile vantaggio sui Bresciani, determinarono l'imperatore a far l'assedio di Crema. Essi furono i primi ad accamparsi presso questa città il giorno 3 o 4 di luglio, raggiunti otto giorni dopo dall'imperatore con rinforzi che aveva ricevuto di Germania.
Crema è posta sulla riva del Serio in una paludosa pianura tra l'Adda e l'Oglio, ventiquattro miglia distante da Milano, ed altrettante dalle montagne. Questa piuttosto borgata che città, che borgata allora si chiamava, era cinta di doppio muro, e d'una fossa piena d'acqua larga e profonda assai. I Cremaschi, che non senza pena eransi sottratti alla dipendenza de' Cremonesi, conservavano [123] per Milano una fedeltà a tutta prova. Avvertiti del pericolo de' loro alleati, i Milanesi destinarono Manfredo di Dugnano, uno de' loro consoli, a recarvisi con quattrocento pedoni ed alcuni cavalli, che promettevano di mantenere finchè durasse l'assedio, quantunque a tale epoca, avendo Federico divisa la sua armata, danneggiasse già il territorio milanese[130]. Anche i Bresciani mandarono a Crema alcuni soccorsi.
Intanto gl'imperiali avevano, secondo l'antico costume, incominciato a lavorare intorno ad una linea di circonvallazione, per togliere alla città ogni comunicazione colla campagna, ed assicurarsi ad un tempo dalle sortite degli assediati. Ma questi non cessavano di molestarli; ed in un attacco che fecero mentre l'imperatore era lontano, combatterono con tanto valore, che si mantennero superiori fino a notte, quantunque non avessero più di cento cavalli. Allorchè Federico tornò al campo, indispettito fieramente perchè i Cremaschi avessero osato di battere le sue truppe, come avesse giusto motivo di farlo, ordinò che si appiccassero alcuni prigionieri in faccia alle [124] mura. Gli assediati, credendosi in dovere di far uso del barbaro e talvolta impolitico diritto di rappresaglia, esposero sulle mura allo stesso supplicio un egual numero di Tedeschi[131].
Allora Federico fece loro intimare da un araldo, che ad alcun patto non farebbe loro grazia, essendo determinato di trattarli coll'estremo rigore: e per darne una barbara prova fece morire quattro ostaggi presi a Crema prima della guerra, e sei deputati che i Milanesi mandavano a Piacenza, tra i quali un nipote dell'arcivescovo.
Alcuni giovanetti cremaschi trovavansi ancora come ostaggi in potere di Federico. Egli li fece attaccare ad una torre che doveva spingersi contro la città, mentre gli assediati, con nuovi mangani o catapulte, sforzavansi di tenerla lontana. Sperava così Federico di costringere i Cremaschi a non adoperare le loro macchine, che minacciavano di spezzare la sua torre; pure non lasciava loro veruna speranza di salute, avendo fatti morire altri ostaggi; onde quand'anche i Cremaschi per salvare quegl'infelici avessero sagrificata la città, non erano perciò lusingati [125] di avere sopportabili condizioni. I padri di quelle sventurate vittime, armati sulle mura, mettevano lamentevoli grida, ma non lasciavano di combattere e di dirizzare le catapulte contro la torre che avanzavasi contro la città; ed uno di loro, secondo lo attesta Radevico di Frisinga, gridava ad alta voce ai suoi figliuoli[132]: «Fortunati coloro che muojono per la patria e per la libertà! Non temete la morte che può sola oramai rendervi liberi. Se foste giunti all'età nostra, non l'avreste voi disprezzata come noi facciamo? voi felici, che morite avanti di temere come noi altri l'infamia delle nostre spose, e non udite le grida de' vostri figli che implorano pietà. Oh ci sia dato di seguirvi ben tosto! e non rimanga veruno de' nostri vecchi seduto sopra le ceneri della città. Possano chiudersi i nostri occhi prima di vedere la santa nostra patria caduta tra l'empie mani de' Cremonesi e de' Pavesi!»
La torre intanto, colpita dagli enormi sassi lanciati dalle catapulte, minacciava rovina, e l'imperatore aveva ragione di [126] temere che, prima d'arrivare a' piè delle mura, schiaccerebbe, cadendo, i guerrieri che portava. La fece perciò ritrocedere e staccarne gli ostaggi che la ricoprivano coi loro corpi; de' quali ne furono trovati nove morti, quattro milanesi e cinque cremaschi, e tra i primi uno de' Posterla, ed un Landriano, due delle principali famiglie di quella città; tra gli ultimi un giovane ecclesiastico. Altri due ostaggi erano gravemente feriti; molti erano tuttavia illesi[133].
Nè queste furono le sole atroci azioni che infamassero l'assedio di Crema; ma il dovere di storico non mi forza ad intrattenermi più lungamente in mezzo a così ributtanti memorie.
I Milanesi che desideravano divertire dall'assedio di Crema parte delle forze imperiali, assediarono il castello di Manerbio, che possedevano i Tedeschi sul lago di Como; ma furono costretti a ritirarsi da certo conte Goswino che con un corpo di truppe era stato spedito dall'imperatore in soccorso di Manerbio, e vi perdettero molti uomini. In pari tempo [127] furono posti al bando dell'impero i Piacentini per avere approvigionato di viveri Milano e Crema[134].
Erano più di sei mesi che quest'ultima città era stata cinta d'assedio, nè l'imperatore si lasciava muovere dall'asprezza dell'inverno a renderlo men vivo. Fece riparare la torre mobile che gli assediati avevano rispinta, e costruirne un'altra, che, a fronte della più ostinata resistenza, furono portate in tanta vicinanza della muraglia, che i balestrieri soprastavano agli assediati. (1160) Ma ciò che gli diede maggior speranza di condurre l'impresa a felice fine, fu il tradimento di Marchese, principale ingegnere de' Cremaschi, il quale, passato essendo nel campo imperiale, presiedette alla costruzione di nuove macchine contro quella città, che aveva fin allora lungo tempo difesa[135]. Egli consigliò l'imperatore a mettere sulle torri i migliori soldati, ed i balestrai nella parte più elevata, perchè, dominando le mura, facessero ritrarre gli assediati dalle difese, mentre il fior de' guerrieri getterebbe dal primo piano i ponti sulle mura. Il rimanente dell'armata [128] avanzavasi all'assalto tra l'una torre e l'altra, disposta a valersi della zappa e della scala, secondo che tornerebbe più in acconcio, tosto che vedessero abbassati i ponti levatoj. Dal canto loro gli assediati si ordinavano sulle mura, e coperti di mantelletti sforzavansi coi loro gatti o montoni adunchi d'impadronirsi, o di rovesciare i ponti che dalle torri facevansi cadere sulle loro mura. Respinti più volte da queste, altre tante le ricuperarono, ributtando sempre valorosamente gli assalitori, tra i quali facevasi distinguere Attone conte palatino di Baviera, il primo a lanciarsi sulle mura, l'ultimo ad abbandonarle. Dopo aver perduto assai gente esposta alle freccie degli arcieri, senza che potessero nè difendersi nè vendicarsi, in sul cadere del giorno furono costretti d'abbandonare le mura esteriori e di ripiegarsi entro i secondi ripari, disposti in tutto di voler sostenere con egual vigore un secondo assedio[136].
Ma quando, durante la notte, riconobbero le poche forze che loro rimanevano, e numerarono i valorosi soldati che avevano [129] perduti, quando videro le fosse colmate, ed osservarono la debolezza del muro interno, abbandonaronsi alla disperazione. All'indomani proposero al patriarca d'Aquilea ed al duca di Baviera di entrare in trattato per la resa colla loro mediazione. Il patriarca assicurò i consoli, che il solo mezzo di calmare la collera dell'imperatore era quello di darsi a discrezione.
Uno di loro, comprimendo il suo dolore, rispose non aver essi prese le armi contro Federico, ma bensì contro i Cremonesi, risoluti di non servire che a Dio ed all'imperatore: che credevano d'aver fatto conoscere che preferivano la morte ad una ingiusta schiavitù: che la loro alleanza coi Milanesi non aveva avuto altro oggetto, che quello di liberarsi dalla servitù: che l'avevano mantenuta fin che Dio lo permise, ma che ora erano sforzati di risguardare come un segno della celeste collera la disperata situazione cui trovavansi ridotti. Ed in fatti essi avevano ancora armi e viveri senza poterne far uso per salvezza della loro libertà. Il console pose fine al suo parlare, chiedendo che, poichè il vittorioso imperatore era pur determinato di castigare i suoi concittadini, non volesse almeno darli in [130] mano ai loro più feroci nemici, i Cremonesi.
Finalmente Federico si lasciò piegare ad offrir loro alcune condizioni, che vennero subito accettate. Permetteva loro di sortire dalla città colle mogli e figli, portando in una sol volta sulle proprie spalle quanti effetti potevano. Rispetto alle milizie sussidiarie di Milano e di Brescia, volle che sortissero senz'armi e senza salmeria; ma permise a tutti senza riserva di recarsi dove più loro piacesse.
In forza di tale convenzione il giorno 22 gennaro del 1160, gli abitanti di Crema, uomini, donne e fanciulli in numero di circa ventimila sortirono da questa sventurata città, avviandosi verso Milano. L'imperatore abbandonò Crema al saccheggio, dopo il quale i suoi soldati appiccaronvi il fuoco, ed i Cremonesi atterrarono poi fino alle fondamenta tutto quanto aveva resistito all'incendio[137][138].
[131] Il settembre del precedente anno era morto papa Adriano IV, quando la sua lite coll'imperatore incominciava a farsi viva. Il collegio de' cardinali, riunitosi per dargli un successore, si divise fra due rivali; Rollando originario di Siena, canonico di Pisa, cardinale del titolo di san Marco, e cancelliere della Chiesa, fu eletto dagli uni, mentre dall'opposta fazione fu nominato Ottaviano nobile romano, cardinale del titolo di santa Cecilia. Il primo ch'ebbe maggiori suffragi, ed aveva il favor popolare, fu consacrato sotto nome di Alessandro III, e dalla Chiesa riconosciuto pur per legittimo papa. Il secondo, che prese il nome di Vittore III, era spalleggiato dal senato e dalla nobiltà romana; ma è verosimile che fosse egli medesimo persuaso della illegittimità di sua elezione, poichè cercò il favore [132] degli antagonisti dei papi e della libertà romana, in Germania ed in Lombardia. Sperando Federico che questa doppia elezione indebolirebbe la corte pontificia, convocò di sua propria autorità un concilio a Pavia, intimando ai due pontefici di presentarsi. Alessandro era stato fatto prigioniere dal suo rivale; e, quantunque liberato dalla fazione popolare, non trovandosi abbastanza forte per sostenersi in Roma, dimorava ora in una ed ora in altra città a guisa di fuoruscito: pure rispose con fierezza, che il legittimo successore di s. Pietro non era subordinato al giudizio dell'imperatore, o dei concili. All'opposto Vittore passò a Pavia, e si guadagnò i suffragi di Federico e de' suoi vescovi, onde, nell'atto che fu confermata la di lui elezione, fulminò la scomunica contro Rollando o Alessandro III, il quale dal canto suo scagliò tutti i fulmini della Chiesa sul capo di Federico e dichiarò i suoi sudditi sciolti dal giuramento di fedeltà[139][140].
[133] La caduta di Crema non aveva scoraggiati i Milanesi, i quali, per l'alleanza che contratta avevano col legittimo pontefice, univano la loro causa a quella di mezza l'Europa, ed ammorzavano lo zelo de' loro nemici. Inoltre i Tedeschi, dopo aver sostenuta una così lunga e penosa campagna, sospiravano pel ritorno alla loro patria; onde Federico, quantunque rimasto in Lombardia per continuar [134] la guerra, si trovò obbligato di licenziare la maggior parte della sua armata[141], non ritenendo presso di se che suo cugino il duca Federico, figliuolo di Corrado, i due conti palatini Corrado ed Ottone coi loro vassalli, i vassalli proprj, e gl'Italiani della sua fazione. Conoscendo di non avere forze superiori a quelle de' nemici, nel 1160 si limitò a fare la piccola guerra.
Il fatto di Cassano fu il più importante di questa campagna. I Milanesi avendo posto l'assedio a quel castello occupato dalle truppe imperiali, Federico marciò il nove agosto per soccorrere gli assediati con alcune milizie pavesi, tutte quelle di Novara, di Vercelli e di Como, i vassalli di Seprio e della Martesana, il marchese di Monferrato, ed il conte di Biandrate. Un rinforzo condotto dal duca di Boemia lo raggiunse quando già trovavasi in faccia all'armata repubblicana, [135] ch'egli circondò da ogni banda, togliendole la comunicazione con Milano. Allorchè i consoli s'avvidero della difficile situazione cui erano ridotti, non volendo dar tempo ai soldati di conoscere il comune pericolo, e non esporli a soffrire la fame, ordinarono di attaccare all'istante i nemici. Opposero ai Tedeschi ed all'imperatore i battaglioni di porta Romana e di porta Orientale, confidando loro la guardia del Carroccio, perchè l'ardore con cui difenderebbero quel sacro deposito, gli uguaglierebbe per lo meno ai Tedeschi, più di loro esperti nell'arte militare. Collocarono i battaglioni delle altre due porte e gli ausiliari bresciani contro gl'Italiani. Il valor personale di Federico, sormontando ogni ostacolo, penetrò fino al Carroccio, uccise i buoi che lo conducevano, atterrò la croce dorata ond'era ornato, e prese lo stendardo del comune. Ma intanto l'altr'ala dei Milanesi trionfava compiutamente degl'imperiali, di modo che le due armate credevano ugualmente d'aver guadagnata la battaglia, quando una violenta pioggia obbligò i combattenti a separarsi. Rientrando nel campo l'ala vittoriosa dei Milanesi, conobbero la rotta avuta dall'altra; perchè insofferenti dell'affronto fatto al Carroccio, uscirono tutti di [136] nuovo per attaccare l'imperatore, il quale, avendo perduto molti suoi valorosi soldati e trovandosi separato dai Novaresi ch'erano fuggiti, abbandonò precipitosamente i prigionieri ed i suoi equipaggi. I repubblicani, paghi d'aver veduto l'imperatore fuggire innanzi a loro, rientrarono trionfanti in Milano carichi delle sue spoglie[142].
Il susseguente giorno furono ugualmente rotte le milizie cremonesi e lodigiane, che marciavano con un convoglio d'approvigionamenti in soccorso dell'imperatore: ed in pari tempo gli assediati del castello di Cassano piombarono improvvisamente addosso alle poche truppe rimaste nel campo, e, bruciate le macchine dei Milanesi, gli sforzarono a levar l'assedio malgrado tutti i vantaggi riportati il precedente giorno.
Prima di porsi ai quartieri d'inverno in Pavia, Federico radunò i feudatari italiani, e gli obbligò sotto la santità del giuramento di raggiungere con tutte le loro forze i suoi stendardi nella vegnente primavera. Si annoverano con dispiacere fra costoro il marchese Obizzo Malaspina ed il conte di Biandrate, che in [137] principio della guerra avevano combattuto per una causa più nobile[143].
(1161) Alcune scaramuccie di veruna importanza aprirono la campagna del 1161. Il giorno 16 di marzo i Lodigiani ed i Piacentini, senza che gli uni sapessero degli altri, andarono nel bosco di Bulchignano posto al confine dei loro territorj per sorprendersi reciprocamente con un'imboscata, e vi stettero tutta la notte senz'avvedersi della prossimità del nemico; ma essendosene in sul far del giorno accorti i Piacentini, approfittarono della sorpresa de' Lodigiani e li fecero quasi tutti prigionieri.
Intanto vergognandosi i Tedeschi che l'imperatore rimanesse come abbandonato in mezzo ai Lombardi, verso la metà di giugno passarono le Alpi per venire in suo soccorso. La loro armata di quasi cento mila uomini si congiunse a Federico avanti il raccolto, ond'egli postosi alla loro testa potè avanzarsi nel territorio milanese e bruciarne le biade ancora immature fino alla distanza di dodici in quindici miglia dalla città. I Milanesi tentarono più volte inutilmente di scacciare il nemico dal loro territorio, ma rimasero [138] perdenti in quasi tutti gl'incontri[144].
Quando poi in settembre s'avvicinavano a maturità i secondi raccolti, il miglio e le fave[145][146], Federico invase di nuovo il territorio milanese e consumò queste derrate col fuoco, come aveva prima distrutte le biade. In tutto il rimanente della campagna i vantaggi e le perdite si compensarono da ambe le parti; di modo che i soli fatti notabili sono le crudeltà dell'imperatore verso i prigionieri cui faceva tagliar le mani o appiccare.
Al cominciar dell'inverno, Federico stabilì il suo quartiere a Lodi, facendo in pari tempo fortificare Rivalta Secca [139] e s. Gervasio per tagliare la comunicazione tra Milano, Brescia e Piacenza, di maniera che i Milanesi non potevano procacciarsi le vittovaglie da queste due città. Ad accrescere le angustie di questi, oltre la ruina quasi totale delle loro campagne, s'aggiunse un fatale incendio che consumò due quartieri della città ov'erano posti quasi tutti i granai, talchè in sul cominciar dell'inverno mancavano già i viveri. (1162) L'imperatore, che non ignorava le sventure de' suoi nemici, faceva crudelmente punire coloro che si attentavano d'introdurre vittovaglie in Milano, cosicchè in un solo giorno rimasero senza mani venticinque paesani, che i suoi soldati avevano trovati carichi di munizioni[147]. Perchè conobbero i Milanesi essere loro impossibile di giungere con sì scarse provvisioni fino al nuovo raccolto, che pure dovevano credere che verrebbe, siccome il precedente, distrutto dai nemici, di modo che ciò che la forza delle armi non ottenne, si consegui dall'onnipotenza della fame. I consoli spedirono all'imperatore, che in allora soggiornava a Lodi, deputati ad offrire umili condizioni di pace; cioè di demolire, in attestato [140] di sommissione, le mura in sei luoghi, e di ricevere in avvenire i podestà che vorrà mandarli. Ma Federico rispose ai loro deputati, che non isperassero grazia finchè non gli s'arrendessero senza condizione, abbandonandosi affatto alla sua clemenza. Allorchè si ebbe in Milano tale risposta, i magistrati protestarono invano di non voler rinunciare alla libertà che perdendo la vita, perciocchè il popolo ammutinato trionfò della loro resistenza e gli obbligò a sottomettersi[148].
Cedendo al volere del popolo gli otto consoli con altri otto cavalieri si presentarono il giorno primo di marzo al palazzo dell'imperatore in Lodi, e tenendo la spada nuda in mano si arresero a discrezione in nome della città. Giurarono nello stesso tempo d'essere disposti ad ubbidire a tutti gli ordini imperiali; giuramento che verrebbe rinnovato da tutti i Milanesi. Tre giorni dopo, richiese l'imperatore che trecento cavalieri venissero a deporre ai suoi [141] piedi le loro spade e trentasei stendardi del comune. In tal occasione Guintellino, capo degl'ingegneri, gli portò pure le chiavi della città. Allora l'imperatore, senza per altro far conoscere le sue intenzioni, domandò che venissero al suo quartiere tutti quelli che furono consoli, negli ultimi tre anni, e gli si recassero tutti gli stendardi della città; umiliante cerimonia cui i Milanesi si sottomisero il susseguente martedì.
I cittadini di tre quartieri della città andavano avanti al Carroccio portando in mano supplichevoli croci, e quelli degli altri tre chiudevano la processione. Quando il sacro carro fu a vista dell'imperatore, i trombetti della signoria fecero per l'ultima volta eccheggiar l'aria del loro clangore; l'albero su cui sventolava lo stendardo s'abbassò come spontaneamente innanzi al trono, e non fu rialzato senz'ordine di Federico. Il Carroccio con novantaquattro stendardi furono in seguito dati ai Tedeschi. Allora uno de' consoli milanesi si fece ad arringare l'imperatore, supplicandolo d'usare misericordia alla sua patria. Tutto il popolo si gettò subito ginocchione, domandando perdono in nome delle croci che portavano. Il conte di Biandrate che militava [142] sotto Federico, prendendo una croce di mano a quelli contro cui aveva poc'anzi combattuto e che per lo innanzi servì, si prostrò innanzi al trono domandando grazia per loro. Tutta la corte, tutta l'armata piangeva a così compassionevole spettacolo; e soltanto non iscorgevasi verun indizio di commozione sul volto dell'imperatore. Diffidando della sensibilità della consorte, non aveale permesso di assistere a questa ceremonia; perchè i Milanesi, non potendo avvicinarsele, gettavano verso le sue finestre le croci che erano portate e che dovevano parlare per loro. Federico poi ch'ebbe ricevuto il giuramento di fedeltà da tutti quelli che accompagnavano il Carroccio, e scelti quattrocento ostaggi, ordinò al popolo di tornare a Milano, di demolire le sei porte della città ed i muri attigui e di riempire la fossa, ond'egli potesse liberamente entrare colla sua armata. Dietro loro mandò pure sei gentiluomini tedeschi e sei lombardi, tra i quali lo storico Morena, per ricevere il giuramento di fedeltà da coloro ch'erano rimasti in Milano, e rivocò la sentenza che aveva posti i Milanesi al bando dell'impero.
[143] Erano omai dieci giorni passati dopo la resa della città, ed il vincitore in cambio di occuparla colle sue truppe conduceva l'armata da Lodi a Pavia, ove rimaneva otto giorni, senza manifestare le sue intenzioni. Finalmente il 16 di marzo ordinò ai consoli di Milano di far sortire tutti gli abitanti dal circondario delle mura: misteriosi ordini che i magistrati eseguirono tremando. Molti cittadini rifugiaronsi in Pavia, in Lodi, in Bergamo, in Como e nelle altre città lombarde; ma la maggior parte della popolazione aspettò l'imperatore fuori delle mura, avendo tutti, uomini, donne e fanciulli abbandonato le proprie case, che non sapevano se avrebbero più rivedute, e Milano rimase affatto deserto.
L'imperatore comparve alla testa delle sue truppe il giorno 25 di marzo, e pubblicò finalmente la sentenza da lungo tempo sospesa: che Milano doveva atterrarsi fino alle fondamenta, ed il nome dei Milanesi cancellarsi dalla nota delle nazioni lombarde. All'istante i quartieri della città furono consegnati ai più caldi nemici con ordine di distruggerli; porta Orientale ai Lodigiani, la Romana ai Cremonesi, la Ticinese ai Pavesi, la Vercellina ai Novaresi, la Comacina ai Comaschi, [144] e porta Nuova ai vassalli del Seprio e della Martesana. L'armata imperiale si occupò con tanto ardore della distruzione di Milano, che dopo sei giorni di travaglio non rimaneva in piedi la cinquantesima parte delle case. L'imperatore ritornò a Pavia la domenica delle palme[149][150].
Oppressione dell'Italia. — Lega lombarda. — Sua resistenza all'Imperatore. — Fondazione di Alessandria.
1162 = 1168.
LA vittoria ottenuta da Federico contro la prima città d'Italia e la punizione inflittale, si celebrarono dai partigiani dell'Impero come un nobile e glorioso trionfo, come un luminoso atto di giustizia di un grande monarca: i deputati delle Provincie, i vescovi, i conti, i marchesi, i podestà, i consoli delle città s'affrettarono di recarsi a Pavia per felicitare l'imperatore di così glorioso avvenimento; e quando si presentò loro coll'imperatrice ornato dell'imperiale diadema, ch'egli aveva giurato di non portare finchè non avesse soggiogati i Milanesi, fu accolto coi più caldi applausi[151]. I Bresciani ed i Piacentini, che vedevano nella perdita di Milano la total rovina della [146] libertà, cercarono, sottomettendosi alle più odiose condizioni, di calmare la collera di Federico. Essi atterrarono le torri e le muraglie delle loro città, ne colmarono le fosse, pagarono enormi tributi, e ricevettero il podestà mandatogli dall'imperatore. Tutto piegava innanzi a lui, ed universale era il terrore; sicchè poteva omai lusingarsi d'aver assicurato il suo trono contro qualunque avvenimento. Ma il potere fondato sul terrore non è stabile, finchè la nazione non sia compiutamente avvilita: e quantunque in que' primi istanti estremo fosse il terrore, il carattere lombardo non aveva ancora perduta tutta la sua elasticità; e se piegò alcun tempo sotto l'oppressione, non fu che per rialzarsi con maggior forza. I fuorusciti milanesi, passando d'una in altra città, raccontavano agli uomini, com'essi una volta liberi, la deplorabile ruina della loro patria, la caduta di quelle mura difese con tanta bravura, l'incendio e la profanazione delle chiese, la rapina o la dispersione delle reliquie e delle sacre immagini, e le vessazioni d'ogni maniera che, dopo distrutta la loro città, facevansi soffrire agli sventurati loro concittadini. Non saziavansi di andar replicando come il vescovo di Liegi e [147] Pietro de' Cunin, che successivamente li governarono, non contenti di averli divisi in quattro borgate, che per loro ordine avean dovuto fabbricare due miglia lontano dalla città, pigliavansi le loro messi, s'appropriavano i poderi, accrescevano i tributi, e gli sforzavano a trasportare essi medesimi i materiali della distrutta città per innalzare castelli e palagi all'imperatore[152]. Generose lagrime cadevano loro dagli occhi quando descrivevano le battaglie che sostennero, e que' gloriosi giorni ne' quali, in mezzo ai pericoli e mancanti d'ogni cosa, pure credevansi ancora felici finchè vedevansi armati per difesa della patria.
Le grandi sventure sogliono soffocare le antiche nimistà: Pavia, Cremona, Lodi, Bergamo, Como, avevano aperte le loro porte ai rifugiati. Anche in mezzo alle guerre nazionali i legami dell'ospitalità riunivano le famiglie delle vicine città, ed accoglievansi cordialmente a tavola coloro contro i quali poc'anzi per onore della propria città avevano combattuto. I racconti de' Milanesi s'imprimevano [148] più profondamente nell'animo degli uditori dopo che i partigiani dell'Impero incominciarono ad esperimentare ancor essi i funesti effetti della loro vittoria. Aveva bensì Federico permesso ai Cremonesi, ai Pavesi, ai Lodigiani di eleggersi i loro consoli; ma aveva mandati podestà a Ferrara, a Bologna, a Faenza, ad Imola, a Parma, a Como, a Novara, città che pur non erano alleate ai Milanesi, o che anzi avevano mandate le loro milizie in soccorso dell'imperatore: e quando in sul finire dell'estate questi passò in Germania, lasciava in Italia Rainaldo cancelliere dell'Impero, ed arcivescovo eletto di Colonia, in qualità di suo luogotenente generale, il quale rese indistintamente più grave a tutti i Lombardi il giogo loro imposto.
Ninna scrittura ci fa meglio conoscere il terrore da cui erano compresi gl'Italiani, quanto gli Annali genovesi. Siccome lo storico Caffaro gli andava dettando anno per anno, conservarono dopo tanti secoli l'impressione del momento. Perciò lo stesso scrittore che con tanto entusiasmo aveva descritto l'universale ardore dimostrato dai Genovesi, quando, nel 1158, temendo d'essere attaccati dall'imperatore, rialzarono [149] e rinforzarono le loro mura[153], parlando adesso delle fresche vittorie di Federico adopera le più lusinghiere frasi, chiamandolo l'imperatore sempre augusto, sempre trionfante, quello che innalzò l'impero al più elevato grado di gloria[154]. Infatti i Genovesi spedirono una deputazione a Federico per felicitarlo della sua vittoria, ed assicurarlo della loro sommissione. E perchè nel tempo medesimo gli offrirono una flotta per valersene nella sua guerra di Sicilia, ottennero da lui un atto che ci fu conservato, col quale accorda ai consoli di Genova il diritto di chiamare sotto le loro bandiere in tempo di guerra gli abitanti della costa ligure da Monaco fino a porto Venere, vale a dire di quasi tutto l'attual territorio della repubblica, salva però sempre la fedeltà che questi vassalli di second'ordine dovevano all'Impero, ed il diritto di giustizia de' conti e dei marchesi. Riconfermò al popolo il diritto di eleggere i suoi consoli, ed accordò in feudo ai Genovesi Siracusa ed altri duecento cinquanta feudi nella valle di Noto, promettendogliene loro il possesso all'istante [150] che col loro ajuto sarebbesi impadronito della Sicilia. Gli concesse inoltre, con pregiudizio de' Provenzali, il privilegio esclusivo di commerciare in tutti i luoghi marittimi, non escluso lo stato di Venezia, qualora i Veneziani non riacquistassero la sua grazia. Li dispensò pure dal militare per lui, tranne sulle coste della Provenza e delle due Sicilie; e per ultimo si obbligava a non far la pace con Guglielmo re di Napoli, o con i suoi successori senza il libero assenso de' consoli genovesi[155].
Mentre con questi speciosi privilegi pareva che Federico esentasse i soli Genovesi dal giogo che aveva posto alle altre città, si offerse arbitro delle contese che avevano coi Pisani, perchè desiderava di rendere la pace a due popoli, onde valersi a proprio vantaggio delle loro armi. La guerra che al presente facevansi le due repubbliche ebbe principio in Costantinopoli, ove ambedue avevano stabilita una colonia. I Pisani trovandosi colà in numero di due mila, mal soffrivano nel commercio di quella capitale la concorrenza [151] de' Genovesi, la di cui colonia non contava più di trecento uomini; perciò gli attaccarono, e, senza che il governo greco, testimonio di tanta violenza, osasse d'immischiarsi nella contesa di commercianti bellicosissimi ch'egli accarezzava e temeva, gli spogliarono affatto e cacciarono dalla città. I Genovesi disponevansi appunto a vendicare sul mar tirreno l'affronto fatto ai loro concittadini quando Federico usò della sua autorità per far loro deporre le armi. I deputati delle due città rivali dovettero firmare in Torino una tregua colla quale s'obbligavano di non riprendere le armi, finchè l'imperatore non pronunciasse la sua sentenza dopo tornato dalla Germania[156].
(1163) Quando l'imperatore tornò in Italia in sul finire del 1163, non più come conquistatore, ma come padrone, trovò queste due città sommamente inasprite da un nuovo motivo di discordia. Avevano i Pisani, come si disse a suo luogo, conquistata già da un secolo l'isola di Sardegna, e ne avevano dato in [152] feudo le signorie a molti loro gentiluomini. Ma questi feudatari, trovandosi lontani dalla metropoli, eransi quasi emancipati da ogni dipendenza e resi sovrani indipendenti, appoggiati dall'alleanza de' Genovesi che possedevano alcune fortezze in Sardegna. Quest'isola era allora caduta quasi tutta in potere dei quattro signori di Sallura, di Logodoro, di Arborea e di Cagliari, i quali col titolo di giudici affettavano un fasto reale. Barisone giudice d'Arborea che discendeva dall'antica famiglia Sardi di Pisa (posta in possesso d'Arborea quando i Pisani conquistarono la Sardegna), essendo di questi tempi andato a Genova, trovò che due suoi compatriotti erano stati innalzati alle principali magistrature della repubblica. Corso Sismondi era console del comune, e Sismondi Muscula console delle liti[157]. Propose loro di riporre tutta l'isola sotto l'alta signoria di Genova, a condizione d'ajutarlo ad allargare la propria autorità. A Federico che, sempre avido di riconquistare gli antichi dominj dell'impero romano, non aveva potuto far valere (1164) i suoi pretesi diritti sulla Sardegna, si presentò a Fano Barisone, [153] offerendogli di fargli omaggio dell'isola di Sardegna e di pagargli a titolo di tributo un canone di quattro mila marche, a condizione che l'imperatore volesse riconoscere i suoi diritti, o piuttosto le sue orgogliose pretese, ed investirlo del regno sardo. I consoli genovesi Corso Sismondi e Baldizzo Ususmari, deputati del comune presso Federico, dovevano dare guarentia per Barisone e promettere l'assistenza della loro flotta per metterlo al possesso del nuovo regno, ch'egli doveva poi sempre mantenere ligio e devoto alla repubblica di Genova.
Tosto che i consoli pisani, che pure trovavansi alla corte di Federico, ebbero sentore di questo trattato, riclamarono altamente contro la concessione che l'imperatore era per fargli, rimostrando che la Sardegna era una proprietà di Pisa e che Barisone, il quale aveva la sciocca vanità di aspirare allo splendore della corona, era vassallo e livellario della loro repubblica. I consoli genovesi che fino allora non eransi più che tanto interessati alle proposizioni fatte dal giudice d'Arborea, abbracciarono subito la sua difesa per dar peso alle loro pretese sulla Sardegna, ed impedire che non fossero dall'imperatore [154] riconosciuti i titoli dei loro rivali. Ma questi, senza prendersi troppa cura di scandagliare il merito della causa, s'affrettò d'accettare il danaro che venivagli offerto per una corona che non gli apparteneva; e fece stendere dai suoi notai un diploma col quale dichiarava Barisone re di Sardegna; dopo di che domandavagli le quattro mila marche promesse[158].
Il giudice d'Arborea, costretto d'imitare il fasto della corte e largamente spendendo, aveva omai consunti que' tesori che il ristretto vivere tra i suoi rustici vassalli gli faceva credere inesauribili. Di modo che quando Federico gli accordò il diploma sì lungo tempo desiderato, il nuovo re non aveva la somma convenuta. Vero è ch'egli disponevasi a stabilire nella sua isola le imposte di cui vedeva aggravati i popoli del continente, e protestando che i suoi sudditi, abbagliati dallo splendore della nuova dignità, s'addosserebbero con piacere le spese del trono, chiedeva a Federico di rientrare nella sua isola ond'essere in grado di soddisfare [155] in breve al suo debito; ma l'imperatore dichiarò che non gli avrebbe permesso di allontanarsi dalla sua corte senza aver prima mantenute le sue promesse.
I consoli genovesi che avevano favoreggiata la sua causa più per soddisfare al loro odio contro di Pisa, che per affetto che portassero a Barisone, si risolsero di soccorrerlo. Nè pagarono soltanto le quattro mila marche dovute all'imperatore; che vi aggiunsero altre più ragguardevoli somme per accompagnarlo con un'armata in Sardegna; ma perchè risguardavano la sua persona come la sola cauzione del loro credito, non gli permisero mai di sbarcare nella sua isola; e dopo essere rimasto alcun tempo in faccia ad Arborea, sospettando che li tradisse e si accomodasse di nuovo coi Pisani, lo ricondussero a Genova, ove lo tennero prigioniero per i suoi debiti[159].
Intanto i giudici di Gallura e di Logodora, avendo rinnovato il loro giuramento di fedeltà ai Pisani, avevano coi soccorsi della repubblica occupato il distretto [156] d'Arborea e postolo a fuoco ed a sangue, di modo che il nuovo re di Sardegna, lungi dall'assoggettarsi i suoi uguali, aveva inoltre perduto l'antico suo patrimonio. Non però, quantunque dimenticato più anni in prigione, lasciarono le rivali repubbliche di battersi in mare e di distruggere i vascelli nemici e le fortezze poste lungo le loro spiaggie.
Ma in tempo di queste guerre con Pisa erano i Genovesi interamente travagliati da una civile discordia, di cui lo storico pubblico non ne trascrisse le particolarità per timore di disonorare la sua patria[160]. Racconta solo che le nobili famiglie degli Avogadi e de' marchesi della Volta, forse rivali in credito ed in potenza, eransi offese, ed avevano strascinati gli amici nella loro contesa. Un marchese della Volta era stato ucciso del 1165, quantunque fosse allora console; e furono ugualmente uccisi nel susseguente anno Rubaldo Barattieri, Sismondo Sismondi, Juscello e Scotto. E perchè l'odio delle due famiglie, rendendosi ogni giorno più vivo, toglieva ogni speranza di accomodamento, i consoli del 1169, per ristabilire la pace tra fazioni sorde alle [157] loro voci, e più del governo potenti, furono costretti di ordire in certo qual modo una cospirazione.
Cominciarono dall'assicurarsi segretamente delle pacifiche disposizioni di molti cittadini che la parentela colle famiglie rivali strascinava loro mal grado nella lite; indi consigliatisi con Ugo, venerabile vecchio loro arcivescovo, fecero avanti giorno chiamare dalle campane del comune i cittadini a parlamento, sperando che la sorpresa e l'allarme di così improvvisa chiamata, in mezzo all'oscurità della notte, renderebbe l'adunanza e più numerosa e più tranquilla. I cittadini nel recarsi a parlamento videro in mezzo alla piazza il loro vecchio arcivescovo circondato da' suoi clerici in abito di cerimonia e con torchie accese in mano, mentre che le reliquie del protettore di Genova s. Giovanni Battista stavano colà esposte, ed i più ragguardevoli cittadini tenevano tra le loro mani le croci supplichevoli.
Quando l'assemblea fu riunita, alzossi il vecchio prelato, e colla mal ferma sua voce scongiurò i capi di fazione in nome del Dio della pace, per la salute delle anime loro, in nome della patria e della libertà, che le loro discordie menavano [158] ad aperta ruina, a giurare sul vangelo intera dimenticanza delle loro contese, e stabil pace. Poich'ebbe terminato di parlare, gli araldi si presentarono a Rolando Avogado, l'un de' capi d'una fazione che trovavasi presente all'assemblea, ed assecondati dalle acclamazioni del popolo e dalle preghiere de' suoi parenti medesimi, gl'intimarono di accedere al voto dei consoli e della nazione.
Rolando stracciavasi gli abiti da dosso, e, sedutosi in sulla terra e piangendo, chiamava ad alta voce i morti parenti che aveva giurato di vendicare, e che non gli acconsentivano di perdonare le loro antiche offese. E perchè non potevano ridurlo ad appressarsi al luogo ove stava il libro de' vangeli, gli s'avvicinarono i consoli stessi, l'arcivescovo ed il clero, i quali a forza di preghiere lo fecero finalmente giurare sul vangelo obblio delle passate inimicizie.
Folco e Castro ed Ingo della Volta, capi della contraria parte, non erano intervenuti all'adunanza, onde il popolo ed il clero recaronsi in folla alle loro case, e trovaronli già commossi da quanto era stato loro raccontato; perchè, approfittando delle loro disposizioni, li fecero giurare una sincera riconciliazione, e [159] dare il bacio della pace ai capi dell'opposta fazione. In segno di allegrezza per così lieto avvenimento, si suonarono le campane della città, e l'arcivescovo ritornato sulla pubblica piazza intuonò il Tedeum in onore del Dio della pace che aveva salvata la patria[161].
Abbiamo detto che Federico era tornato in Italia del 1163 conducendo seco la sposa, una splendida corte, ma non truppe. I Pavesi, approfittando del terrore del di lui nome, mossi da vecchia gelosia, vollero distruggere Tortona, onde rappresentarono all'imperatore che i Milanesi non l'avevano rifabbricata che per mostrar disprezzo delle sue vendette, e che una città, da lui ruinata e rifatta dai suoi più acerbi nemici, cospirerebbe sempre coi faziosi: a queste ragioni aggiunsero l'offerta di ragguardevole somma, ed ottennero dall'imperatore la facoltà di atterrare fino alle fondamenta le mura della già ruinata città. Nell'eseguire quest'imperiale rescritto non solo distrussero le mura che potevano dare agli abitanti di Tortona un mezzo di difesa, ma ne demolirono ancora le case[162].
[160] (1164) Questo fu per altro l'ultimo atto violento che la fazione vittoriosa si permettesse per soddisfare ad un'antica rivalità che omai andava calmandosi. Durante la lontananza dell'imperatore, i podestà da lui posti al governo delle diocesi avevano bruttamente abusato della loro autorità, esigendo contribuzioni sei volte più gravi di quelle che portavano le antiche consuetudini, e non lasciando agli abitanti del Milanese e del Cremasco che il terzo del raccolto. Lo stesso Morena, tanto affezionato storico dell'imperatore, depose che non eravi alcun Lombardo il quale, rammentando l'antica libertà della sua patria, non riguardasse come un obbrobrio le tasse cui vedevasi esposto, e non desiderasse di vendicarsi[163]. Pure gl'Italiani avevano atteso il [161] ritorno dell'imperatore, lusingandosi che in allora avrebbe posto riparo agli abusi d'ogni maniera sotto cui gemevano.
Difatti, avvertiti i Milanesi che Federico recavasi da Lodi a Monza ove faceva fabbricare un palazzo, presentaronsi affollati lungo la strada che doveva tenere, ed in tempo di notte, in mezzo al fango e sotto una dirotta pioggia, lo pregavano colle ginocchia a terra e con profondi gemiti a trattarli con maggior dolcezza. Federico si mostrò commosso, ed ordinò che si rilasciassero i loro ostaggi, ma avendo rimesso ai suoi ministri l'esame delle loro lagnanze, questi ne presero anzi motivo per aggravare di nuove tasse gli sgraziati che avevano osato di lamentarsi[164].
Gli abitanti della Marca veronese che non avevano quasi presa parte alcuna nelle guerre di Lombardia, presentarono pure le loro istanze contro queste vessazioni tanto più odiose, quanto che i ministri regi non avevano alcun motivo di trattarli ostilmente. Pure non furono ascoltati. Intanto essendosi l'imperatore innoltrato nell'Emilia dalla banda di Fano, le città lombarde approfittarono del suo [162] allontanamento per tenere un'adunanza. Verona, Vicenza, Padova e Treviso giurarono di sussidiarsi vicendevolmente ne' tentativi che farebbero per minorare i diritti dell'Impero, riducendoli alla misura praticata dagl'imperatori ortodossi predecessori di Federico. Convennero inoltre di opporsi ad ogni usurpo del monarca, e di esaminare le prerogative che gli appartenessero per diritto[165].
Anco i Veneziani, che da lungo tempo erano diventati odiosi a Federico, presero parte in questa lega, che allora si credette abbastanza forte per metter fine alle vessazioni de' governatori tedeschi: attaccò nella Marca trivigiana que' gentiluomini ch'eransi rifiutati d'entrare nella lega, e scacciò gli ufficiali dell'imperatore più odiosi al popolo.
[163] Tosto che Federico ebbe notizia di tali movimenti, tornò a Pavia, ed avendo riuniti de' Lombardi in cui più si fidava, le milizie di Pavia, di Novara, di Cremona, di Lodi e di Como, s'avanzò alla volta di Verona per devastarne il territorio; ma la lega veronese trasse in campagna la sua armata, che marciò coraggiosamente contro l'imperatore. Non tardò Federico ad avvedersi che le milizie lombarde lo seguivano di mala voglia; e spaventato di trovarsi in loro balìa, abbandonò precipitosamente il campo, e fuggì innanzi ai Veronesi[166]. Dopo tal epoca tutte le città gli diventarono sospette, e perchè i marchesi, i conti, i capitani dovevano essere naturali nemici delle città libere, contrasse alleanza con questi, e ripartì nelle loro fortezze i suoi migliori soldati tedeschi[167].
Dopo così umiliante esperimento della sua debolezza, Federico non poteva prolungare il suo soggiorno in Italia senza esporsi a grandissimi rischi. Passò dunque in Germania poco dopo essersi ritirato dal Veronese, assicurando però i suoi alleati, che sarebbe in breve tornato con [164] un'armata capace di mettere a dovere i sudditi ribelli.
Comunque insopportabil peso dovesse riuscire a così impetuoso carattere, come era quello di Federico, il ritardo della vendetta, fu non pertanto obbligato di lasciare ai Lombardi che lo avevano offeso, abbastanza di tempo per esercitare le truppe, fortificare le città, e contrarre nuove alleanze. L'antipapa Vittore III, che l'imperatore aveva opposto a papa Alessandro, era morto in principio di quest'anno; ed il successore ch'egli aveva fatto nominare, Guido da Cremona, che faceva chiamarsi Pasquale III, non era riconosciuto da verun altro sovrano, onde Federico trovavasi avviluppato in continui negoziati coi re di Francia e d'Inghilterra, che lo andavano eccitando a dar la pace alla Chiesa, e coi propri sudditi di Germania che non erano sempre disposti a riconoscere vescovi scismatici. A tali ostacoli s'aggiunse in Germania la guerra che rinnovossi tra le case guelfa e ghibellina, cui Federico non poteva essere indifferente[168].
(1165) Intanto essendo morto il Vicario di Roma, papa Alessandro nominò suo successore il cardinale di S. Giovanni e Paolo, il quale s'adoperò per ridurre i Romani all'ubbidienza del legittimo pontefice. Per riuscire nell'intento seppe opportunamente spargere il danaro tra il popolo; fece entrare in Senato persone a lui affezionate, escludendone gli scismatici; ottenne la restituzione della chiesa di S. Pietro e del contado della Sabina ove il partito dell'antipapa aveva lungo tempo dominato, e finalmente, a fronte dell'opposizione d'alcuni cittadini, ottenne dalla maggioranza del popolo romano l'atto con cui spediva una deputazione ad Alessandro per invitarlo a tornare alla sua greggia[169]. Alessandro, così consigliato dai re di Francia e d'Inghilterra, partì da Sens ove aveva stabilita la sua dimora, e s'imbarcò a Monpellier. Spinto dai venti a Messina, si valse di tale opportunità per rinfrescare l'antica alleanza con Guglielmo re di Sicilia, e di là venne a sbarcare ad Ostia. I nobili, i senatori, il clero ed il popolo gli si fecero incontro in processione, e lo accolsero come loro pastore con [166] dimostrazioni sincere di rispettosa ubbidienza[170].
Dall'altro canto Cristiano arcivescovo eletto di Magonza, il quale era luogotenente dell'imperatore in Toscana, erasi con un'armata tedesca avanzato nella campagna di Roma sottomettendo Viterbo e quasi tutte le altre città all'antipapa Pasquale; ma appena s'allontanò dalle sue conquiste, i Romani sussidiati dalle truppe del re Guglielmo fecero rientrare nell'ubbidienza della Chiesa quasi tutte le piazze occupate dagli scismatici.
(1166) Guglielmo I, soprannominato il cattivo, dopo avere giovato alla Chiesa ed alla causa della libertà, morì[171], lasciando un fanciullo per suo successore, che fu poi chiamato Guglielmo il buono, [167] il quale rimase lungo tempo sotto la tutela di Margarita sua madre. Benchè distinti da opposti nomi il padre ed il figlio tennero la stessa condotta rispetto all'Italia, per mantenere libera la quale, siccome richiedeva la sicurezza del loro regno, fecero causa comune col papa, coll'imperatore d'Oriente, e colle città libere.
Quelle della Marca veronese facevano grandi preparativi per difendere la propria e la libertà della Chiesa. I Veronesi ed i Padovani attaccarono il castel di Rivoli ed il forte d'Appendoli che chiudevano i passaggi delle montagne per cui poteva scendere Federico in Italia: ma questi, dopo aver raccolta una potente armata, prese in autunno la strada della Valcamonica, ed entrò in Lombardia a traverso il territorio bresciano. Benchè ugualmente irritato contro tutte le città, che sapeva tutte a se malaffezionate, non s'attentò di attaccarle finchè non ottenne di dividerle con segrete pratiche. Ne' comizi adunati in Lodi nel mese di novembre, promise di far giustizia dei torti che formavano l'argomento delle lagnanze dei comuni, e dopo averne favorevolmente accolti i deputati, e pacificamente congedati, [168] s'avviò senza dar battaglia alla volta di Ferrara e di Bologna[172].
(1167) Federico per cagioni a noi ignote rallentava la sua marcia verso l'Italia meridionale, e consumava sei mesi tra Bologna ed Ancona[173], senza aver castigati i Lombardi che lasciavasi alle spalle, e senza avanzarsi verso Roma che si era ribellata. I Veronesi, sempre più vessati dai ministri imperiali, mandarono deputati a tutte le città ugualmente maltrattate, facendole risolvere a tenere una dieta il giorno settimo degl'idi d'aprile nel monastero di Pontida posto tra Milano e Bergamo[174], per risolvere sul modo di provvedere alla comune difesa[175]. Intervennero a questa dieta i deputati di Cremona, di Bergamo, di Brescia, di Mantova e di Ferrara. I Milanesi sempre [169] divisi nelle loro quattro borgate vi spedirono alcuni primarj cittadini, i quali domandarono caldamente che la dieta facesse precedere ad ogni altra risoluzione quella di render loro la patria, affinchè non rimanendo più esposti alle continue incursioni de' loro nemici, potessero di nuovo unirsi alle milizie confederate per difendere la libertà d'Italia. I deputati di tutte le città, sovvenendosi della valorosa resistenza fatta dai Milanesi, promisero d'impegnare i loro concittadini a rifabbricare le mura di Milano, ed a proteggere quel popolo finchè fosse messo in situazione di potersi da se medesimo difendere. Dopo ciò convennero intorno alla forma del giuramento federativo, che cadaun deputato riportò alla sua patria perchè fosse adottato dai proprj concittadini. Approvato che fosse dall'assemblea generale d'ogni città, doveva essere ripetuto da tutti gl'individui che la componevano. Con tale giuramento le città contraevano un'alleanza di vent'anni, durante la quale erano tenute di ajutarsi reciprocamente contro chiunque osasse attaccare i privilegi di cui erano in possesso dopo il regno d'Enrico IV fino all'assunzione al trono di Federico: promettevano pure di concorrere a compensare [170] i danni cui potessero andare soggetti i membri della lega nel difendere la libertà.
In tempo che i consoli delle città ed i loro deputati ritornati alle proprie case, assoggettavano alle deliberazioni dei parlamenti generali l'alleanza conchiusa in Pontida, i Milanesi disarmati, e divisi in aperte borgate, temevano di essere ad ogni istante assaliti dalle milizie pavesi, cui non erano in grado di far resistenza. Sapevano essersi resa affatto pubblica l'inchiesta fatta all'assemblea di Pontida, ed ogni notte poteva essere anticipatamente stata destinata dai loro nemici per il massacro e l'incendio, e l'avvicinarsi delle tenebre gli stringeva il cuore di spavento. Circondati da città nemiche che in meno d'un giorno potevano mandare le loro milizie a sorprenderli, erano pure continuamente atterriti dagli amichevoli avvisi che i Pavesi davano ai loro ospiti milanesi[176]. Estrema era la costernazione, quando la mattina del giorno 27 aprile del 1167 comparvero all'ingresso della borgata di S. Dionigi dieci cavalieri di Bergamo cogli stendardi del loro comune; e tenevan loro [171] dietro altrettanti stendardi di Brescia, di Cremona, di Mantova, di Verona e di Treviso. Venivano dopo loro le milizie che portavano le armi da distribuirsi ai Milanesi[177]. Gli abitanti delle quattro borgate riunitisi all'istante, s'avanzarono, mettendo grida di gioja, verso la distrutta città: colà distribuironsi tra di loro il lavoro dello sgombramento della fossa e della ricostruzione delle mura, prima di metter mano alle loro case. Le truppe della lega lombarda, che allora presero tal nome, non ritiraronsi da Milano finchè que' cittadini non furono a portata di respingere gl'insulti de' loro nemici, e di non temere un colpo di mano[178].
La città di Pavia era così ligia all'imperatore, che niuno lusingavasi di poterla staccare dai suoi interessi; ma la lega lombarda risguardava come cosa di somma importanza il guadagnare alla confederazione la città di Lodi. Questa città posta tra Cremona e Milano diventava [172] in mano all'imperatore una piazza d'armi troppo dannosa; perchè, occupandola egli, potrebbe sempre a sua posta intercettare i viveri ai Milanesi, le di cui campagne erano state in modo ruinate, che lungo tempo dovrebbero ancora provvedersi di viveri fuori del loro territorio. I Cremonesi che in ogni tempo furono gli alleati ed i protettori di Lodi, vennero incaricati del trattato con que' cittadini.
I loro deputati ammessi nel consiglio di Credenza salutarono, com'era di costumanza, a nome de' loro consoli e di tutto il popolo cremonese, i consoli ed il popolo lodigiano; indi narrarono ordinatamente quanto essi avevano fatto fino allora in servigio dell'imperatore, e le ricompense che ne avevano ricevuto; giustificarono poi i progetti della lega formata per difendere i comuni diritti, e conchiusero supplicando i Lodigiani ad unirsi con loro per l'onore della nazione lombarda e per riclamare unitamente il ristabilimento degli antichi loro privilegi. Risposero concordemente i Lodigiani, che più tosto che mancar di riconoscenza al loro liberatore, a colui che aveva rialzate le loro mura, erano tutti disposti a sacrificare i loro beni e le loro vite.
[173] I Cremonesi gli mandarono una seconda ambasciata, che non ebbe miglior successo; onde esposero ai deputati riuniti, di Milano, di Bergamo, di Brescia e di Mantova, il cattivo esito delle loro pratiche. La lega lombarda, e specialmente queste quattro città rimanevano sommamente esposte finchè Lodi teneva le parti dell'imperatore, onde i confederati risolsero di ottenere colla forza ciò che le amichevoli insinuazioni non avevano ottenuto. Allora riunirono le loro milizie, che furono precedute da una terza deputazione de' Cremonesi, i quali aggiungendo le minacce alle preghiere, avvertirono gli antichi loro alleati che una inevitabile ruina terrebbe dietro all'inconsiderata opposizione ai voti de' Lombardi.
Risposero i Lodigiani che non potevano credere che i Cremonesi, i quali a proprie spese e colle loro mani medesime rialzate avevano le loro mura, volessero oggi assediarle e distruggerle; che volessero massacrare coloro che gli erano affezionati, amici, ospiti, perchè mantenevansi costanti nel partito che anch'essi avevano fin allora sostenuto; che Cremona era sempre stata l'alleata dell'antica Lodi fino all'epoca della sua [174] ruina; che aveva con tutte le sue forze protette le borgate ov'eransi riparati i Lodigiani ne' quarant'anni della loro servitù; che lo stesso affetto aveva fino al presente conservato alla novella Lodi. Ma che se adesso volevano opprimere i loro antichi amici, i Lodigiani si esporrebbero al pericolo ond'erano minacciati, piuttosto che mancare ai giuramenti che li legavano all'imperatore loro benefattore[179].
Non consentendo la comune salvezza di lasciarsi smuovere da così toccanti preghiere, l'armata confederata intraprese l'assedio di Lodi, facendo ben tosto soffrire agli abitanti una crudel fame. Abbandonati dall'imperatore che, in luogo di soccorrerli, aveva seco condotta verso il mezzo dì dell'Italia buona parte delle loro milizie, dopo avere difesa con tutte le loro forze la sua causa, finirono coll'emettere il giuramento della lega, ed unirsi ai confederati. Ritirandosi l'armata che aveva assediato Lodi, attaccò il castello di Trezzo posto tra Milano e Bergamo, ove l'imperatore aveva lasciati i suoi tesori sotto la guardia d'una guarnigione [175] tedesca, e presolo dopo lungo assedio, lo distrussero fino ai fondamenti.
Così prosperi successi aggiungevano ogni giorno nuovi associati alla confederazione, di modo che avanti che si chiudesse la campagna, la lega lombarda comprendeva Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, Brescia, Bergamo, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena e Bologna[180].
L'imperatore erasi poco prima fatti dare trenta ostaggi da quest'ultima città, e l'aveva forzata a pagare una grossa contribuzione; ma quando l'armata tedesca ebbe appena abbandonato il suo territorio, i cittadini scacciarono il podestà imperiale, ed entrarono nella lega lombarda[181]. Le città d'Imola, Faenza e Forlì che i Tedeschi occuparono nel loro passaggio, non poterono sottrarsi all'istante al loro giogo.
Intanto Federico era giunto ad Ancona. L'imperatore di Costantinopoli, Manuele Comneno, adombrato dall'ambizione del monarca tedesco, aveva stretta alleanza cogli Anconitani che facevano ne' suoi [176] stati un commercio assai vivo. Per ajutarli a difendersi aveva loro mandata una guarnigione greca e molto danaro. Federico dal canto suo desiderava di scacciare i Greci da quella città, ma perchè interessi di molta importanza chiamavanlo a Roma, dopo alcuni infruttuosi tentativi, vendette per una grossa taglia la libertà alla repubblica d'Ancona[182].
Gli abitanti d'Albano e di Tuscolo, dichiaratisi a favor dell'imperatore, negavano di pagare ai Romani i tributi da loro pretesi. Un'antica animosità nutrivano i Romani contro queste due città, per soddisfare la quale, più tosto che per vendicare la Chiesa, marciarono alla fine di maggio contro i Tuscolani, attaccandone le mura, dopo avere abbruciate le messi e le viti. Rayno conte di Tuscolo, troppo debole per difenderlo, aveva implorato l'ajuto di Federico, il quale mandò in suo soccorso Rinaldo arcivescovo eletto di Colonia, che si chiuse nella città assediata. Non molto dopo Cristiano, arcivescovo eletto di Magonza, ed il conte di Basville ebbero ordine di avanzarsi con mille cavalli per obbligare i Romani a levare l'assedio; ma le milizie romane [177] osarono di marciare contro questa truppa che, quantunque assai minore di numero, le superava di lunga mano per disciplina e per valore. I repubblicani non sostennero il primo attacco, ed essendosi posti in fuga, perdettero circa cinque mila uomini parte uccisi e parte prigionieri. Giammai, dice lo storico di papa Alessandro che sognava d'essere ai tempi delle guerre puniche, giammai i Romani, dopo la fatale disfatta di Canne, avevano perduto tanta gente[183].
Le milizie romane, vedendo di non poter tenere la campagna, si affrettarono di riparare le mura della loro città, che si prepararono a difendere; mentre il papa implorava i soccorsi del re Guglielmo, le di cui truppe avevano già presa la strada di Roma. Questi furono gli avvenimenti che determinarono Federico a levar l'assedio d'Ancona, sentendo quanto importante fosse di arrivare sotto le mura di Roma prima che venisse fortificata in modo di non temerlo. Il 24 di luglio giunse avanti la città Leonina, e ne intraprese subito l'attacco. L'imperatore occupò ben tosto questo quartiere della città debolmente difeso; [178] se non che trovò una più lunga resistenza nelle guardie del papa che guardavano la basilica Vaticana trasformata in fortezza, che più volte resero vani gli attacchi delle truppe tedesche. Riuscendo vana l'opera delle baliste e delle altre macchine di guerra, Federico ordinò di dar fuoco alla vicina chiesa di santa Maria[184], le di cui fiamme alzaronsi con tanta violenza, che coloro che difendevano la basilica Vaticana, temendo di vederla ad ogni istante investita, convennero di arrendersi. Il papa spaventato abbandonò il palazzo Laterano, e si rinchiuse nel Coliseo coi Frangipani, i quali sopra alle grandi volte di questo imponente monumento avevano formata una fortezza che tenevasi come inespugnabile.
Mentre Federico spingeva caldamente l'assedio di Roma, cercava di alienare i cittadini da papa Alessandro, offrendo loro moderate condizioni; cioè che i due competitori rinunciassero alla dignità, incaricandosi egli di ottenere l'abdicazione [179] di Pasquale, purchè anche i Romani riducessero a fare tale sacrificio lo stesso Alessandro; promettendo inoltre di lasciare poi alla Chiesa la piena libertà d'eleggere il nuovo pontefice. A queste condizioni offriva di levare l'assedio e di restituire ai Romani tutto quanto aveva fin allora occupato. Nello stato in cui trovavansi gli assediati, erano queste troppo vantaggiose condizioni per essere rifiutate; onde pregavano il papa a fare un sacrificio reso necessario dalle circostanze. Ma Alessandro fece rispondere dai suoi cardinali, che il sommo pontefice non era subordinato ad alcun tribunale della terra, nè a quello dei re, nè a quello de' popoli, nè a quello della Chiesa; e che niuna cosa lo farebbe scendere dall'alto rango in cui Dio lo aveva collocato. E perchè temeva che, ammutinandosi il popolo, non lo forzasse ad abdicare il papato, fuggì segretamente dal Coliseo de' Frangipani, di dove scendendo per il Tevere fino al mare, andò prima a Terracina, indi a Gaeta, poi a Benevento. Come i Romani seppero la fuga d'Alessandro, trattarono di pace coll'imperatore, ammettendo nella loro città i suoi deputati, uno de' quali fu lo storico Acerbo Morena, ai quali prestarono giuramento [180] d'essere fedeli a Federico, che dal canto suo confermò i privilegi del loro senato[185].
L'armata imperiale aveva incominciato l'assedio di Roma in sul finire di luglio, quando l'eccessivo ardore dell'estate rende quel clima insalubre ancora agli abitanti, non che agli uomini del settentrione. Perchè mentre trovavasi accampata fuori della città, la febbre maremmana, terribile malattia, la di cui violenza non è tutti gli anni uguale, si manifestò tra i soldati, accompagnata dai più spaventosi caratteri, resi ancora più terribili dalla loro immaginazione che raddoppiò ben tosto le stragi della malattia: essi vedevansi sempre avanti agli occhi la chiesa di santa Maria incenerita dalle sacrileghe loro mani, la basilica Vaticana sottratta per caso alla medesima sorte, sulla di cui faccia erano state distrutte dalla violenza del fuoco le miracolose immagini di Gesù Cristo e di s. Pietro. I preti continuavano a minacciar loro le vendette del cielo, di cui credevansi già vittima: lo scoraggiamento ed il terrore [181] erano i primi sintomi della malattia: uguale alla peste per la prontezza e l'estensione de' suoi guasti, la superava nella durata del pericolo e per lo stato di debolezza e di spossamento cui trovavansi ridotti coloro che non morivano. Alcuni perivano lo stesso giorno in cui cadevano infermi, altri, come accadde allo storico Morena, dopo lunghe sofferenze. Morena si sentì assalito dalla febbre, ottenne di ritirarsi dall'armata, e si fece trasportare in lettiga nelle vicinanze di Siena, ove morì dopo due mesi di languore. I più distinti personaggi dell'armata e dell'Impero caddero vittime di tanto infortunio. L'imperatore perdette suo cugino Federico duca di Rotemburgo figliuolo di Corrado, Guelfo duca di Baviera, Rinaldo suo arcicancelliere arcivescovo eletto di Baviera, i vescovi di Spira, di Liegi, di Ratisbona, di Verden, i conti di Nassau, d'Altemont, di Lippa, di Sultzbach, di Tubinga, più di due mila gentiluomini, ed un numero di soldati proporzionato a così illustri vittime[186].
Questa terribile epidemia fu il colpo più funesto alla causa dell'imperatore. La perdita di una floridissima armata senza combattere lo affliggeva assai meno dello scoraggiamento universale de' suoi sudditi, del giudizio celeste che sembrava aver rovesciato sopra di lui e sopra i suoi partigiani le disgrazie provocate dalle scomuniche di Alessandro. I suoi antichi commilitoni, che l'onore e l'affetto verso la sua persona tenevano sempre a lui vicini, quelli che del 1161 vergognaronsi di lasciarlo in mano degl'Italiani e spontaneamente vennero a soccorrerlo con una potente armata, erano periti: i due capi delle case guelfa e ghibellina, ch'egli sapeva mantenere amici al campo, erano caduti ugualmente vittime della fatal malattia, come pure l'arcivescovo di Colonia che da molti anni governava per lui la Toscana e teneva in dovere gl'Italiani. Tutto perdeva in un istante.
Federico oppose il suo coraggio a tante sventure: confidava gli ammalati della sua armata ai Romani, che, per assicurarlo delle loro cure verso quegl'infelici, gli davano alcuni ostaggi. Dopo di che, radunando tutti gli uomini capaci di portar l'armi, s'incamminò verso più salubri climi. Attraversò egli la Toscana e lo [183] stato lucchese, e penetrando le Alpi Apuane, condusse gli avanzi della sua armata in val di Magra. Non aveva in questo viaggio toccato il territorio della confederazione lombarda, ed era lontano da Pavia soltanto sessanta miglia, ove poteva recarsi senza avvicinarsi ad alcuna città. Quella di Pontremoli che non aveva preso parte nella guerra e che non troviamo dopo unita alla lega, gli rifiutò il passaggio. Quantunque mal fortificata, Federico non credette di poter ottenere colla forza ciò che veniva negato alle sue preghiere. Chiuso tra il mare e le montagne omai disperava di poter sottrarsi a tanto pericolo, quando gli venne incontro il marchese Malaspina, il quale conducendolo per le strette gole delle montagne de' suoi feudi, lo ridusse senza incontrar nemici fino a Pavia, ove giunse alla metà di settembre.
Colà Federico convocò subito una dieta, ordinando ai suoi vassalli d'andarvi con tutte le milizie di cui potevano disporre; ma il piccolo numero degl'intervenuti lo convinse dell'abbassamento della pubblica opinione. I deputati di Pavia, di Novara, di Vercelli e di Como, il marchese Obizzo Malaspina, il conte di Biandrate, Guglielmo marchese di [184] Monferrato ed i signori di Belfort, del Seprio e della Martesana, formarono soli l'assemblea. L'imperatore dipinse nel discorso d'apertura la condotta delle città federate come un'odiosa ribellione, che non poteva lasciare impunita senza pregiudizio del suo onore; e, gettando il guanto in mezzo all'assemblea, giurò di castigare la loro insolenza. Pose quindi al bando dell'Impero tutte le città confederate, ad eccezione di Cremona e di Lodi, rispetto alle quali, in vista de' grandi servigi prestatigli in addietro, non volle giudicarne severamente l'attuale condotta[187].
Nel sortire dall'assemblea marciò, alla testa delle truppe de' vassalli intervenuti, sulle terre di Milano, devastando quella parte di territorio che confinava con quello di Pavia, cioè i distretti di Rosate, d'Abbiategrasso, di Corbetta, di Magenta, ed i paesi posti sulla riva sinistra del Ticino. Le città confederate, prevenute del decreto di proscrizione, radunarono ancor esse un'assemblea, nella quale si obbligarono vicendevolmente a scacciar dall'Italia colui che aveva voluto ridurle a [185] vergognosa servitù. Fissarono in Lodi un corpo di cavalleria bresciana e bergamasca; un altro in Piacenza di Cremonesi e Parmigiani; i quali tosto che seppero invaso dalla truppa imperiale il territorio milanese si avanzarono di concerto colle milizie di Milano per attaccarla[188]. Ma Federico non osò di avventurare una battaglia con gente inferiore di numero ai nemici e di dubbia fede. Egli non aveva che pochissimi soldati tedeschi, perchè quelli che sopravvissero all'epidemia, credendo d'essere stati salvati per particolare favore del cielo, o avevano rinunciato al mondo ed abbracciata la vita monastica, o languivano ancora negli spedali, o vivevano dispersi nella Germania. Colle milizie pavesi e comasche non altro proponendosi l'imperatore, che d'arricchire i suoi partigiani colle spoglie de' villaggi nemici, si ritirò all'avvicinarsi delle truppe della lega al di là dei ponti che i Pavesi avevano gettati sul Ticino e sul Po, ed andò a foraggiare sul territorio piacentino.
Continuando lo stesso metodo di guerreggiare tutto l'inverno, non tardò ad accorgersi che, invece d'agguerrire con queste piccole scaramuccie i suoi soldati, andava perdendo in faccia ai medesimi tutta la sua riputazione, non essendo permesso ad un imperatore il retrocedere ad ogni istante in presenza di coloro ch'egli trattava da ribelli. (1168) Risolse perciò di passare in Germania nel mese di marzo 1168, ed eseguì con tanta segretezza la presa risoluzione, che i Lombardi stessi che militavano sotto di lui, non ebbero sentore della sua partenza che quando trovavasi già fuori d'Italia nelle terre del conte Umberto di Savoja. Passando per Susa quegli abitanti lo sforzarono a rilasciare tutti gli ostaggi che aveva seco presi, e non gli permisero d'innoltrarsi sulle montagne finchè non ebbero piena contezza, che niuno dei trenta cavalieri o poco più che lo accompagnavano, apparteneva all'Italia[189].
Il partito imperiale tenuto in piedi soltanto dal coraggio e dai talenti militari [187] di Federico, cadde affatto dopo la sua partenza. I confederati ne approfittarono per attaccare il castello di Biandrate, che presero e distrussero, dopo aver liberati molti ostaggi che v'erano detenuti. Allora gli abitanti di Novara, di Vercelli, di Como, i feudatarj di Belforte e del Seprio domandarono caldamente d'essere ammessi nella lega lombarda, abiurando il partito imperiale[190]. Fecero lo stesso Asti e Tortona: ed il marchese Obizzo Malaspina, che in principio della guerra aveva combattuto per la libertà, approfittò della ricordanza degli antichi servigi, per far dimenticare quelli che aveva di fresco prestati a Federico, ed entrò anch'esso nella lega lombarda[191].
E per tal modo non si mantenevano fedeli al partito imperiale che la città di Pavia ed il marchese Guglielmo di Monferrato. O sia che i confederati non si credessero abbastanza forti per ridurli [188] colla forza, o che le vecchie alleanze di molti di loro ne arrestassero le armi, i confederati si astennero dall'usare la violenza per sottometterli, e si limitarono a ridurli in istato di non poter nuocere ai federati, fabbricando fra loro una città soggetta alla lega, che tagliasse la comunicazione fra i due territorj. Per colorire questo progetto tutte le truppe di Cremona, Milano e Piacenza portaronsi al confine dei due stati tra l'alto Monferrato ed il territorio pavese oltre Po, ed in quella vasta e magnifica pianura scelsero un luogo fortificato dalla natura al confluente del Tanaro e della Bormida, due de' più grossi fiumi che scendono dalle montagne poste alla destra del Po. Questi torrenti di un andamento affatto irregolare, non presentano da per tutto una linea insormontabile alle armate, perchè non ugualmente profondi, pure i loro guadi non essendo frequenti nè stabili, e l'ingrossamento delle loro acque accadendo ogni anno nella stagione in cui i Tedeschi sogliono stare in campagna, potevano formare una bastante difesa. Altronde la terra argillosa di quel territorio e profondamente penetrata dall'acqua, si oppone in tempo d'inverno alla marcia de' soldati, ed al collocamento del campo; [189] e nella state gl'immensi strati di ghiaja che i fiumi lasciano scoperti, privi affatto di cespugli e d'arbusti, oltre l'insoffribile calore che tramandano quando sono percossi dal sole, espongono da pertutto ai dardi lanciati dalle mura le truppe che osassero d'avvicinarsi. In questo luogo distante venticinque miglia all'ovest-sud-ovest da Pavia, quindici miglia al nord da Acqui, venticinque al sud da Novara, quindici all'oriente da Asti e quaranta da Milano, i Lombardi fondarono una città destinata a perpetuare la memoria del loro coraggio e del loro zelo per la causa della religione e della libertà; la quale città dal nome del capo della lega, e padre dei fedeli fu chiamata Alessandria. Per renderla più sicura fu circondata di larga fossa in cui si fecero entrare le acque dei vicini fiumi; e per farla ad un tempo potente per ricchezze e per gente, vi traslocarono gli abitanti de' vicini villaggi di Marengo, Garaundia, Berguglio, Unilla e Solestia; ai quali costruirono sufficienti case, e permisero di darsi un governo libero e repubblicano. Gli ammisero inoltre a partecipare di tutti i privilegi per cui i Lombardi avevano prese le armi, e determinarono il papa a fondare in favor [190] loro un nuovo vescovado. Dopo un anno gli Alessandrini misero in campagna quindici mila combattenti di ogni arma[192].
Natura della lega lombarda. — Guerre dell'arcivescovo Cristiano luogotenente dell'imperatore contro le città libere. — Assedio d'Ancona. — Federico respinto avanti Alessandria, e battuto a Lignago; tregua di Venezia; pace di Costanza.
1168 = 1183.
Tutti gli affari della lega lombarda prosperavano; l'imperatore era stato vergognosamente scacciato dall'Italia ed abbassati i suoi partigiani, e tranne una sola città, ed un solo gentiluomo, avevano tutti dovuto abbandonare il partito reale ed abbracciar quello delle repubbliche. Milano e Tortona, che Federico aveva voluto distruggere, rialzavansi più floride che mai dalle loro ruine; ed una nuova città, fondata in onta del suo potere, gli chiudeva la marca del Piemonte, la sola che, dopo la lega della marca veronese, gli rimaneva aperta: finalmente quantunque egli dividesse tra i suoi figli l'eredità de' commilitoni che aveva perduti nella fatale impresa di Roma, infiniti ostacoli incontrava nell'allestimento d'una [192] nuova armata che lo mettevano fuor di speranza di vincere la triplice alleanza che gli opponevano la religione, la libertà ed il clima.
Da ambo le parti consumaronsi sei anni in approvigionamenti per nuove guerre. Momento importante, momento unico nella successione de' secoli, in cui l'Italia poteva fondare una repubblica federativa; momento sgraziatamente perduto perchè non produsse che una lega passaggiera, una semplice coalizione.
La circostanza singolarmente favorevole per formare un governo federativo è quella di popoli liberi minacciati da potente invasione. Dove regna la libertà, il principio della forza è l'amor di patria; e quest'amore non è mai così appassionato, nè ricerca l'anima più profondamente che allorquando la patria trovasi chiusa entro stretti limiti, ed entro il ricinto delle stesse mura vi presenta la culla della vostra infanzia, i testimonj, i compagni, i rivali tra i quali dovete distinguervi nella carriera che unica vi è aperta, infine l'intero stato, di cui voi ne dividete la sovranità coi vostri concittadini. Nelle piccole repubbliche ognuno si sforza di elevarsi fino al più alto grado cui può giungere l'uomo; e nelle repubbliche [193] federate finchè la libertà è minacciata da potente nemico, ogni piccolo stato che la compone spiega tutta l'energia di cui è suscettibile. Non lentezza nelle deliberazioni, non esitanza nelle misure, perchè un sommo interesse maggiore d'ogni altro riunisce tutti gli animi. È forza difendersi, vincere, rispingere l'invasione, spezzare il giogo del dispotismo. L'entusiasmo, la di cui potenza è sempre superiore a quella d'un governo, comunque forte si creda, riunisce gli stati separati, e dà un centro d'azione, un centro di potenza a quell'ammasso di repubbliche che risguardavasi come sì debole. Le fazioni che sovente dividono le città, si calmano quando possono riuscir dannose alla indipendenza nazionale; o se si agitano ancora, i loro movimenti rimangono stranieri all'amministrazione generale, ed allora poco importa che trionfi l'una fazione o l'altra, perchè la massa del popolo si dirigerà sempre verso lo stesso scopo. Le federazioni che mancano d'unione e di forza allorchè trattasi di conquistare lontane province, fino dalla loro nascita sono eminentemente energiche per difendere la loro libertà[193].
Se diamo un'occhiata alla storia di tutte le federazioni, non ne incontreremo una sola che nata non sia nell'istante di dover respingere l'attacco d'un oppressore; niuna che non abbia trionfato di nemici infinitamente superiori in numero ed in forze. I re macedoni furono vinti dagli Ateniesi, il duca d'Austria dagli Svizzeri, Filippo re di Spagna dagli Olandesi, Giorgio III d'Inghilterra dagli Americani. L'esempio de' Lombardi è ancora più notabile; non ebbero bisogno d'una federazione, ma bastò loro una semplice lega mal organizzata per iscuotere il giogo del più valoroso e potente imperator d'Occidente. Tanto è vero che ne' piccoli stati in cui il sentimento della patria ha tutto il suo vigore, l'amore della libertà è un'arma vittoriosa contro il despotismo.
Una repubblica federativa in Lombardia non poteva trionfare di Federico Barbarossa che nel modo medesimo con cui trionfò la società lombarda; ma la prima dopo il suo trionfo avrebbe saputo meglio [195] preservarsi dalle fazioni, dalle guerre senz'oggetto, dalla corruzione, o dalla tirannia: con una costituzione federativa l'Italia sarebbesi mantenuta libera, e le sue porte non sarebbero rimaste sempre aperte ai conquistatori che si fan giuoco della felicità de' popoli.
Ma il concepimento d'una costituzione federativa è una delle più elevate ed astratte idee che possa produrre lo studio delle combinazioni politiche. Non è quindi maraviglia che uomini appena civilizzati non abbiano potuto afferrarla; che uomini che abborrivano il legame sociale cui erano stati subordinati, uomini che confondevano l'idea della loro salvezza con quella dell'indipendenza della propria città, non volessero ad alcun patto limitare questa indipendenza e rigettassero il pensiero di subordinare alle decisioni di un congresso straniero la pace, la guerra, le imposte, le spese, nel tempo stesso che ricuperavano appunto il diritto di regolare da se medesimi tutti questi oggetti. Dobbiamo compiangerli che non abbiano saputo approfittare più vantaggiosamente della loro situazione, ma dobbiamo ancora scusarli se non seppero innalzarsi a quelle idee che sfuggono talvolta alle meditazioni de' popoli assai più illuminati.
[196] Troppo mancò alla lega lombarda perchè possa risguardarsi come una repubblica federativa, il di cui governo centrale dirizza le relazioni esterne, e ne mantiene la dignità; che anzi si troverà mancante, considerandola solamente come semplice coalizione. Da alcuni atti originali di adesione alla società lombarda, che ci sono stati conservati, vediamo che i confederati promettevano soltanto di non far pace o tregua coll'imperadore e suoi partigiani e di non rallentare la guerra contro di lui senza l'assenso di tutti[194]; promettendo, se Federico scendesse ancora in Italia, d'impugnare le armi contro di lui e contro i suoi aderenti finchè venisse forzato a ripassar in Germania.
Niuna convenzione determinava il numero de' soldati che ogni città doveva all'armata confederata, perchè si suppose che ciascuna adoprerebbe tutte le sue forze per respingere il comune nemico; che quando una delle città più esposte agli attentati del nemico chiederebbe il [197] soccorso delle altre, e si manderebbero tutti i soldati di cui potrebbero disporre senza pericolo. La lega non pensò pure a formare un tesoro pubblico, ed i federati non si obbligavano che all'eventuale contribuzione destinata a rifare i danni della guerra, nel caso che qualche città, soggiacesse alle armi imperiali.
La lega mancava pure di adunanze regolari, alle quali supplivano accidentali unioni dei consoli e dei podestà delle città, che adunavansi per prendere qualche deliberazione in comune, che poi, ritornando alla rispettiva città, assoggettavano all'approvazione de' loro concittadini. I membri del congresso avevano il titolo di rettori dell'associazione delle città, e sceglievano tra di loro un presidente[195].
Nell'assenza dell'imperatore la lega acquistò maggior consistenza, e stendendosi al mezzogiorno d'Italia ricevette i giuramenti delle città della Romagna, Ravenna, Rimini, Imola e Forlì; le quali per altro non sostennero mai con molto zelo la guerra della libertà.
[198] L'imperatore intanto non rimaneva affatto inerte; e, mentre andava allestendo una nuova armata per invadere la Lombardia, cercava con segrete pratiche di separare gli alleati che voleva attaccare. Si provò pure d'entrare in privati trattati col papa, o con Guglielmo re di Sicilia, o con ciascuna delle città; ma tutte le proposizioni che miravano ad isolar gli alleati, furono costantemente rigettate. (1171) Spedì in appresso ai suoi aderenti in Italia, per tenerli a se devoti, Cristiano arcivescovo eletto di Magonza e cancelliere dell'Impero. Questo prelato guerriero attraversò la Lombardia con tanta rapidità, che non si pensò pure ad impedirne la marcia; e giunto in Toscana prese parte nelle guerre di quelle città, strettamente collegandosi con quelle del partito imperiale; ed in tal modo ottenne di formarsi colle loro milizie una ragguardevole armata dipendente da' suoi voleri.
Intanto i Pisani ed i Genovesi continuavano a farsi un'arrabbiata guerra, e la loro discordia aveva divisa tutta la Toscana. Fino del 1169 i Genovesi avevano guadagnata Lucca al loro partito, ed in appresso contrassero pure alleanza con Siena e Pistoja e col conte Guido [199] Guerra il più potente feudatario della Toscana[196]. I Pisani invece eransi collegati con Fiorenza e con Prato, ed essendosi avveduti che l'arcivescovo Cristiano, rappresentante dell'imperatore d'Occidente in Italia, stava per i loro nemici, si rivolsero a Manuele Comneno imperatore d'Oriente, che abbracciava con piacere tutte le occasioni di acquistar credito presso i Latini. Essi spedirono deputati a Costantinopoli, e Manuele ne spedì a loro; ed un'alleanza onorevole e vantaggiosa alla repubblica fu il frutto delle loro pratiche. L'imperator Greco rese ai Pisani le franchigie di cui godevano ne' porti del suo impero, e si obbligò per quindici anni a pagare ogni anno alla città di Pisa cinquecento bisanti d'oro, e due tappeti di seta e quaranta bisanti ed un tappeto al suo arcivescovo[197]. Poteva risguardarsi il danaro come una pensione pagata da uno stato potente ad un debole, ma quella del tappeto, o [200] stoffa di seta è una condizione più straordinaria, un tributo in apparenza umiliante per chi lo dà, glorioso per chi lo riceve; e reca sorpresa che i ministri imperiali lo accordassero. Pure gli ambasciatori greci che dimoravano in Pisa, ammessi in piena adunanza del popolo, convalidarono col loro giuramento questa nuova alleanza.
Quando Cristiano seppe che i Pisani avevano fatto questo trattato, s'indispose più che prima contro di loro; pure, dissimulando il suo mal contento, visitò come ambasciatore di Federico la città di Pisa, siccome quelle di Genova e di Lucca offrendo (1172) l'arbitramento del suo padrone per decidere le loro liti; ma i Pisani che dovevano aver sospetta la sua imparzialità, ricusarono l'offerta, onde l'arcivescovo adirato li pose al bando dell'Impero, spogliandoli in pari tempo del diritto di battere danaro e della sovranità dell'isola di Sardegna.
(1178) In luglio del susseguente anno, Cristiano finse di voler ristabilire la concordia tra le comuni toscane, onde levò il bando pubblicato contro di Pisa, ed essendosi portato in questa città, stabilì avanti al di lei parlamento, ed alla presenza dei consoli delle città rivali, i preliminari [201] di una pace, della quale fece giurare l'osservanza a tutti i consoli presenti. Non molto dopo convocò un'altra dieta a s. Ginasio in Val d'Arno inferiore, ad oggetto, dicev'egli, di dar l'ultima mano al trattato; ma quando v'arrivarono i magistrati di Pisa e di Fiorenza, lì fece arrestare e chiudere in una carcere[198].
Siccome Pisa e Fiorenza non eransi ancora dichiarate contro l'imperatore, nè avevano presa parte alla lega lombarda, avrebbe dovuto risguardarsi come ingiusta ed impolitica la condotta di Cristiano, il quale moltiplicava senza necessità i nemici del suo padrone[199]; pure ottenne l'intento che si era proposto, perchè obbligò gli alleati dell'Impero a porsi senza riserva sotto la sua dipendenza, ed a sostenere più vigorosamente ciò che prima non era che una privata contesa. S'egli si fosse limitato all'ufficio di mediatore, sarebbe rimasto senza credito e senza forze: fatto capo di partito, fu posto alla testa d'una potente armata, che allestirono [202] i Pistojesi, i Sienesi, i Lucchesi ed i gentiluomini della Toscana, dell'Ombria e della Romagna; e con quest'armata si fece a devastare il territorio fiorentino.
Non tardarono i Pisani a spedire in soccorso dei loro alleati duecento venticinque cavalli sotto il comando di due consoli; e facendo ad un tempo una gagliarda diversione nel territorio lucchese, richiamarono i Lucchesi a difendere il loro paese. Il 17 agosto a Ponte fosco, ed il 28 a Monte calvoli furono i Pisani vittoriosi dei loro nemici: ma non furono ugualmente fortunati in mare, ove perdettero in un incontro avuto colla flotta genovese più galere che i loro nemici[200].
Quantunque in questa prima campagna l'arcivescovo Cristiano non riportasse alcun segnalato vantaggio, disciplinò la sua armata e la rinforzò assoldando molti soldati tedeschi che, rimasti in Italia dopo la ritirata di Federico, non tardarono a raggiungere gli stendardi imperiali. In principio del susseguente anno Cristiano [203] condusse le sue truppe ad un'impresa di maggiore importanza.
Quantunque la città d'Ancona non avesse presa parte nella lega lombarda, era diventata esosa all'imperatore Federico ponendosi sotto la protezione di Manuele Comneno. Possessori del miglior porto che forse abbia la costa orientale d'Italia, eransi gli Anconitani dedicati con tanto profitto al commercio di Levante, che i Veneziani, i quali pretendevano d'avere l'esclusivo dominio dell'Adriatico, eransi ingelositi della loro concorrenza. Vero è che la repubblica veneta aveva da principio dato il suo nome alla federazione lombarda, nè finora erasi riconciliata coll'imperatore d'Occidente[201]: ma ad ogni modo preponendo Cristiano a queste considerazioni l'interesse del suo padrone, allorchè risolse d'intraprendere l'assedio d'Ancona, approfittò della gelosia [204] de' Veneziani, e fu potentemente soccorso[202].
Il primo giorno d'aprile del 1174 una flotta veneziana provveduta di baliste e di altre macchine guerresche entrò nel porto d'Ancona per assediar la città dalla banda del mare, mentre l'arcivescovo di Magonza s'avvicinava dall'altra parte alla testa di un'armata, che aveva ingrossata in Toscana nel precedente anno con reclute tedesche e recentemente colle milizie d'Osimo e dei feudatari della marca[203].
Una diramazione delle montagne del Piceno forma il promontorio su cui è fabbricata la città d'Ancona. Questo promontorio s'avanza nell'Adriatico da ponente a levante, e ripiegandosi presso all'estremità verso settentrione forma un vasto seno intorno al quale s'alza la città [205] a guisa d'anfiteatro lungo un ripido pendìo dal livello del mare fino alla bipartita sommità della montagna. Una delle sommità trovasi adesso occupata da un convento di cappuccini, l'altra dalla chiesa cattedrale, dal di cui porticato vedonsi a destra le nevose montagne della Dalmazia, a sinistra la ridente svariata costa dell'Emilia, mentre il sole sembra nascere e coricarsi nelle onde. Il rovescio della montagna dalla banda dell'alto mare è tanto scosceso, che rende inutili le fortificazioni dell'arte. Di verso terra la città è accessibile da un solo lato; e la stessa porta conduce a Sinigaglia posta a settentrione, come a Recanati che trovasi a mezzogiorno, ed oggi a Loreto che allora non esisteva. Apresi questa porta sopra un angusto piano fra il porto e le montagne, colle quali si comunica per mezzo di una seconda porta. L'apertura del porto verso settentrione viene in parte chiuso da un antico molo, lavoro romano, ornato da un arco trionfale eretto in onore di Trajano; ma la bocca del porto è tuttavia troppo larga tanto per assicurare le navi dai colpi di vento, che la città dalle aggressioni nemiche. Le galee veneziane ne approfittarono e vennero a dar fondo in faccia allo sbarco della città.
[206] La prima operazione che facesse l'arcivescovo di Magonza tostochè s'avvicinò ad Ancona, fu quella di devastarne il territorio, facendo svellere le viti, gli ulivi, ed ogni altro albero fruttifero, e distruggendo tutto quanto poteva servire d'alimento agli uomini. Da principio cercarono gli Anconitani di opporsi a tanta ruina, ma non sentendosi abbastanza forti per mantenersi in campagna, perchè era assai limitata la popolazione della città, e di questa ancora parte trovavasi lontana per oggetti di commercio, si videro costretti a ridursi entro le mura, dopo aver sofferto qualche perdita.
Ancona era mal provveduta di vittovaglie, sì perchè il raccolto del precedente anno non fu abbondante, come perchè gli abitanti non credendosi minacciati d'assedio vicino, aspettavano il prossimo raccolto per riempire i loro granai. Ma la presente messe fu distrutta dal fuoco nemico senza che gli Anconitani potessero mettere nulla in salvo, ed il porto era chiuso dalla flotta veneziana, onde a mezza estate incominciarono a soffrire la fame. N'ebbe avviso l'arcivescovo, il quale, quantunque avesse già accostato alle mura e baliste e torri movibili, aveva però evitato ogni incontro, nè tentato verun assalto [207] contro la città. Supponendo adesso di trovare i cittadini indeboliti dalla fame, fece suonare la carica, ed avanzar l'armata fin sotto le mura per dare un generale assalto. I cittadini riuniti dal martellare delle campane uscirono contro ai nemici combattendo valorosamente. La flotta veneziana approfittando del tumulto s'accostò alla città per isbarcare la truppa sulla spiaggia; ma avendo i consoli opposte loro le compagnie del porto, continuarono col rimanente della milizia a combattere contro gl'imperiali, che furono respinti fino al di là delle loro macchine, senza che però ardissero incendiarle, venendo difese dagli arcieri che gettavano una grandine di freccie e di sassi. Ciò vedendo una vedova nominata Stamura, prese un legno acceso, e lanciandosi verso le torri in mezzo alle freccie, non si ritirò finchè non fu sicura che il fuoco appiccato alle macchine non poteva più essere spento. Incendiate tutte le macchine d'assedio, i Tedeschi battuti allontanaronsi dalla città, e gli Anconitani levarono dal campo molti cavalli, di cui nutrironsi alcun tempo. Anche i Veneziani furono costretti di ritirarsi colla perdita di molti uomini, resa più grande pochi giorni dopo. Gli Anconitani, approfittando [208] di un vento di mare gagliardissimo, fecero tagliare da alcuni palombari le gomene delle ancore, e s'impadronirono di sette navi portate dal vento sulla spiaggia della città[204].
Malgrado questi passaggieri avvenimenti, la situazione degli Anconitani diventava ogni giorno peggiore. Cercarono perciò di far la pace coi loro nemici; e fecero offrire a Cristiano una grossa somma d'oro perchè levasse l'assedio; ma questi rispose che aveva giurato di non accordare capitolazione, e che non rimaneva loro verun altro partito che di darsi essi e la città a discrezione.
Il deputato fu ammesso a render conto della sua missione in presenza dei consoli e del consiglio generale; i quali avanti di nulla risolvere incaricarono dodici uomini probi di prender conoscenza in tutta la città de' viveri che ancora rimanevano e di darne conto all'assemblea. A fronte dell'estrema diligenza adoperata dai delegati non solo nelle case dei cittadini, ma ancora ne' ripostigli delle chiese, non trovarono che sei sacchi di frumento e nove sacchi di grano primaticcio[205]. [209] Pochi giorni avanti erasi fatta ricerca di uovi per medicare le ferite, e non se ne trovarono dodici in tutta la città, che allora aveva dodici mila abitanti d'ambo i sessi.
All'indomani i dodici delegati esposero all'assemblea il risultato delle loro ricerche, cui i cittadini non risposero che coi gemiti. Sembrava omai impossibile a tutti il poter sottrarsi all'infelice loro destino; e molti proponevano d'arrendersi, altri esser meglio morire combattendo che sopravvivere alla ruina della patria, quando un vecchio cieco di quasi cent'anni, appoggiandosi al suo bastone, si levò in mezzo dell'assemblea e disse: «Cittadini d'Ancona, io ero console di questa città quando il re Lotario l'assediò con una potente armata. Pretendeva ridurci in servitù; ma fu forzato di ritirarsi vergognosamente. Prima e dopo di lui altri re ed imperatori che assalirono la nostra patria, non ebbero miglior successo. Qual vergogna per noi se questa città che resistette alla loro potenza, cedesse ora ad un prete, ed un vescovo [210] trionfasse dei nostri soldati? Rammentate, o cittadini, la mala fede de' nemici e l'odio de' Tedeschi contro il nome latino: non vi sovviene più di Milano che Federico ha poc'anzi distrutto malgrado le contrarie promesse? e tenete per fermo che la vostra dedizione all'arcivescovo di Magonza sarebbe il maggiore de' vostri mali. Fate adunque un estremo sforzo per ottener soccorso dai vostri alleati; e, se non riesce, gettiamo in mare colle nostre mani tutte le nostre ricchezze per toglierle al vincitore, ed andiamo a morire combattendo valorosamente contro di lui[206].»
Degli alleati d'Ancona che potessero soccorrerla in così pressanti strettezze, [211] non eranvi che la contessa di Bertinoro della nobile famiglia de' Frangipani di Roma, padrona del ricco feudo di Bertinoro in Romagna[207], e Guglielmo degli Aderaldi di Marchesella, uno de' capi del partito guelfo in Ferrara. I cittadini d'Ancona scelsero tre gentiluomini, i quali montati sopra una barca con quanto danaro poteron raccogliere, furono abbastanza avveduti o fortunati per uscir dal porto bloccato dalla flotta veneziana.
Intanto la fame non era omai più sopportabile; e consumati tutti i cibi salubri gli si sostituivano carni infette, cuoi, erbe selvatiche, ortiche di mare che strappavansi sotto agli scogli benchè si credessero velenose. Erano gli Anconitani in così misero stato ridotti che appena potevan reggersi in piedi e portar le armi, e soltanto quando erano chiamati dal martellar della campana, l'amor di patria e di libertà rendeva loro lo smarrito vigore, e lanciavansi tra i nemici con tanta forza ed ardire, che questi ne rimanevano sorpresi ed avviliti. Una gentildonna giovane e bella, recandosi con un fanciullo [212] in braccio ch'ella allattava, presso a porta Balista, vide uno de' soldati di guardia giacente in terra, al quale chiedendo la nobil donna perchè rimanesse inattivo, risposele trovarsi in modo consumato dalla fame, che non credeva poter vivere più d'un'ora. «Sono già quindici giorni, soggiunse l'altra, che io non mangio che cuojo bollito, ed il latte incomincia a scemarsi; pure alzati, e se il mio seno ne contiene ancora, avvicina le tue labbra e ristorati per difendere la patria.» Il soldato scosso da queste parole alzò il capo e vergognandosi della generosa offerta della conosciuta gentildonna, presa la rotella e la spada si lanciò con tanto furore tra gli assedianti, che ne uccise quattro avanti di cadere sotto i loro colpi[208].
Gli Anconitani sostennero tante miserie con una costanza senza esempio, perchè da più giorni non avevano veruna notizia de' loro deputati. Giunti questi a Ferrara trovarono in Guglielmo Marchesella e nella contessa di Bertinoro due fedeli e zelanti amici. Il primo, non bastando il danaro portato dagli Anconitani per assoldare la truppa che credeva necessaria [213] all'impresa, obbligò tutto il suo patrimonio ed il suo credito per una grossa somma presa a censo. Alle truppe di Marchesella la contessa aggiunse tutti i suoi vassalli; in modo che si formò un'armata di dodici coorti di cavalleria, cadauna di duecento uomini, e d'un corpo ancora più numeroso di pedoni; la quale s'avanzò all'istante per il territorio di Ravenna, da cui con uno stratagemma eransi fatti allontanare i nemici, che ne occupavano la strada. Il quarto giorno s'accampò sul monte di Falcognara, dalla di cui sommità scoprivasi in distanza di quattro miglia Ancona ed il magnifico suo golfo. Quando fu notte Guglielmo Marchesella ordinò ad ogni soldato di attaccare alla sua lancia due o tre lumi; poi discese alla loro testa il rovescio della montagna, facendo occupare alle sue genti la maggiore estensione possibile. Gli avamposti dell'arcivescovo, ingannati dalla quantità dei lumi, credettero l'armata più numerosa di quel ch'era veramente. L'arcivescovo stesso, spaventato dalle grida di gioja dei soldati, che facevan eco alle esortazioni di Guglielmo e della contessa, e dalle grida degli Anconitani che dal portico della cattedrale vedevano avanzarsi i loro liberatori, diede ordine di ritirarsi. [214] La medesima notte trasportò il campo sulla prima montagna del Piceno, di dove, dopo poche ore di riposo, si rimise in cammino per entrare nel ducato di Spoleti. I Veneziani, vedendosi abbandonati dall'armata di terra, s'allontanarono dalla liberata città, i di cui cittadini, soccorsi dai loro fedeli alleati, approfittarono di quel subito terrore ch'erasi impadronito dei loro nemici, per introdurre in città tanta quantità di viveri che non avessero ad essere affamati da più lungo assedio. Guglielmo Marchesella lasciò presto Ancona per recarsi a Costantinopoli, ove da Manuele Comneno fu magnificamente ricevuto e splendidamente regalato per i soccorsi dati ai suoi protetti[209].
In quest'anno finalmente furono ridotti a termine i grandi apparecchi di cui occupossi Federico nella lunga sua permanenza in Germania; ed i Lombardi seppero in ottobre, che l'imperatore attraversava [215] le Alpi con un'armata non meno potente di quelle che aveva altre volte condotte contro di loro. Dopo aver superate le Alpi della Savoja, calò in Italia dal monte Cenisio e diede alle fiamme Susa posta a piè dell'Alpi per vendicarsi dell'umiliazione che vi aveva sofferta sei anni prima quando vi passò fuggiasco. Si diresse in seguito contro d'Asti, città da lungo tempo associata alla lega lombarda[210].
I confederati preferivano all'incertezza di una battaglia generale nella quale tutte le probabilità della vittoria erano per Federico, la lentezza degli assedj in cui le truppe allemanne spossavansi e s'annoiavano. Si ristrinsero perciò a mandare alcuni deputati ai cittadini d'Asti, esortandoli a difendersi coraggiosamente e promettendo loro che, quando stringesse il pericolo, farebbero avanzare un'armata in loro soccorso. Ma gli abitanti d'Asti, spaventati dal numero e dalla ferocia delle truppe condotte da Federico, e soprattutto temendo i Fiamminghi che formavano il nerbo della sua armata, si arresero, recandogli le chiave della città senza combattere.
[216] Allora l'imperatore si mosse verso Alessandria, ove dovevano raggiungerlo le milizie pavesi e quelle del marchese di Monferrato. Intanto le piogge autunnali avevano a dismisura ingrossati i fiumi e ritardata la marcia dell'armata imperiale; lo che accrebbe il coraggio degli Alessandrini, che risguardarono quest'avvenimento come un soccorso del cielo.
Ma a fronte delle piogge, delle nevi e dei rigori dell'imminente inverno, malgrado il terreno fangoso, Federico s'accampò avanti Alessandria. Conobbe a colpo d'occhio che la sola difesa della città dopo il Tanaro, era la fossa che la circondava; non essendosi ancora innalzate nè mura nè torri per sostenere i baluardi, che formati essendo di fango e legati colla paglia, gli fecero dare il nome, che gli è rimasto fino ai nostri giorni di Alessandria della paglia[211]. Lusingavasi per ciò di poterla prendere d'assalto, sicchè dopo aver distribuite le macchine da guerra lungo i baluardi, fece suonar la carica: ma gli Alessandrini si difesero così valorosamente, che rispinsero gli assalitori fino al di là delle loro baliste, che furono prese ed abbruciate, mentre i [217] tedeschi fuggivano disordinati verso il campo.
Federico non si lasciò ributtare da questa perdita, risoluto di continuare fino all'estremo l'assedio d'una città fabbricata in onta sua. Invano cercarono i suoi generali di sconsigliarlo da un'impresa in cui dovevasi più combattere contro gli elementi che contro gli uomini: il freddo crebbe ben tosto a dismisura, mancarono i viveri al campo, e la diserzione facevasi ogni giorno maggiore. (1175) Egli solo non si scoraggiava, e quattro mesi continui di rigoroso inverno, sempre contrariato dalle inondazioni, dalla fame, dalle malattie, non lo rimossero dall'assedio che andava stringendo sempre più con maggior ardore. Niuno dei mezzi praticati per vincere le città fu da lui trascurato, e l'ultimo fu la mina. Egli fece aprire una galleria che avanzavasi sotto la città: questo lavoro assai malagevole in una stagione piovosa e più in un terreno pantanoso, fu malgrado l'estrema sua lunghezza continuato con tanto segreto, che gli Alessandrini non se ne avvidero che all'istante in cui le truppe imperiali uscivano dalla galleria nella pubblica piazza. Ma prima di questo avvenimento, gli Alessandrini, [218] dopo un assedio di quattro mesi, avevano chiesto soccorso alla lega lombarda.
La dieta erasi adunata in Modena, ove fu appena informata dello stato d'Alessandria, che determinò di far levare l'assedio e di approvvisionarla. Ordinò pertanto di far marciare tutte le truppe delle repubbliche alleate, facendo tener dietro all'armata un convoglio di vittovaglie. Il contingente di tutte le città in cavalleria, in fanteria e danaro per far acquisto di viveri, fu tosto stabilito, ed i consoli di tutti i comuni ne giurarono l'esecuzione. A mezza quaresima l'armata alleata trovossi unita presso Piacenza, di dove si pose in cammino accompagnata da un convoglio di carri, mentre un altro convoglio di battelli rimontava le acque par raggiungerlo sulle rive del Tanaro. La domenica delle palme i confederati s'accamparono presso Tortona in distanza di sole dieci miglia dal quartier generale di Federico; il quale, avvertito del loro arrivo, e disperato[212] di veder andata a vuoto un'impresa cui sembrava attaccato il suo onore e la sua potenza, scese fino al tradimento. Egli offrì agli assediati una tregua per celebrare [219] il venerdì santo, e mentre questi riposavansi sicuri sulla santità del giuramento, fece entrare a notte non molto innoltrata i suoi soldati nella città per la mina che aveva fatto aprire[213]. Per buona sorte le scolte repubblicane s'accorsero del tradimento, e chiamarono all'armi i cittadini. Lo sdegno accresceva le forze degli assediati. Tutti i Tedeschi entrati in città furono uccisi o forzati di precipitarsi dai bastioni, e coloro che trovavansi nella galleria della mina soffocati dal terreno che si fece smottare. Gli Alessandrini aprirono in seguito le porte, e gettandosi furibondi sulle truppe imperiali le fugarono, ed incenerirono la torre di legno preparata per attaccare le loro fortificazioni.
Federico respinto dagli assediati, e minacciato dall'armata lombarda, non poteva più lusingarsi di ridurre Alessandria in suo potere; onde la susseguente notte fece metter fuoco al suo campo, ed il giorno di Pasqua s'avviò verso Pavia. I confederati erano accampati in luogo [220] di poter impedirgli il passaggio, e la loro armata assai più numerosa dell'imperiale ne assicurava la disfatta ove fosse stata costretta di venire a battaglia. Ma Federico si credette guarentito dal rispetto che imprimeva ancora la dignità imperiale sull'animo di nemici poc'anzi suoi sudditi, persuadendosi che non lo avrebbero attaccato i primi, e l'avvenimento giustificò i suoi calcoli.
Quando i Lombardi videro le truppe imperiali avvicinarsi a bandiere spiegate, si disposero a sostenere l'urto de' Tedeschi, ma mentre credevano d'essere attaccati, videro i Tedeschi far alto, ed occuparsi come fossero amici a piantare il loro campo. I Lombardi esitarono un istante, e dubitando di farsi colpevoli di lesa maestà, se attaccavano il loro imperatore che s'avanzava confidentemente in mezzo a loro, lasciarono passare la giornata senza decidersi.
La susseguente mattina alcuni nobili, che non erano sospetti ad alcuna parte, si fecero a trattar di pace. L'imperatore rispose alle proposte loro, «che, salvi i diritti dell'Impero, era disposto di porre in arbitrio di giudici scelti dalle parti le contese che aveva co' suoi sudditi.» L'armata lombarda rispose dal canto suo, «che, [221] salva la devozione dovuta alla chiesa romana, e la libertà per cui le città confederate avevano prese le armi, era disposta a sottomettersi al giudizio degli arbitri.» Furono in conseguenza nominati sei commissarj, ai quali le parti affidarono la decisione della loro contesa. I più principali dei Lombardi furono in seguito presentati all'imperatore, che li ricevette in un modo assai lusinghiero. Si convenne da ambo le parti di licenziare le armate; e l'imperatore s'affrettò di congedare la sua, ritirandosi col seguito delle sole guardie e della famiglia a Pavia ove si riposò dalle fatiche sostenute in una campagna d'inverno. I Lombardi presero la strada di Piacenza per restituirsi alle proprie case, e quando giunsero presso questa città si scontrarono nei Cremonesi che preceduti dai loro consoli s'avanzavano per raggiungerli[214].
Erano i Cremonesi da lungo tempo rimproverati di lentezza negli affari della lega, e l'antica amicizia ch'ebbero coi Pavesi li ritraeva dall'entrare in battaglia contro di loro. Non pertanto quando seppero essersi conchiuso l'accordo senza [222] di loro, vergognaronsi della propria lentezza; ed il popolo in particolare, temendo di essere a parte della vergogna del proprio governo, in un movimento di furore corse alle case dei consoli, e le smantellò, affidando a nuovi magistrati le redini del governo.
L'imperatore parve che si studiasse di accrescere i sospetti che la condotta dei Cremonesi poteva far nascere nell'animo de' confederati, indicando i loro consoli come sopr'arbitri, promettendo di rimettersi alla loro decisione quando non andassero d'accordo i sei conciliatori scelti nel campo di Tortona. I rettori che segnarono a nome della lega lombarda il compromesso fatto coll'imperatore, furono Ezzelino da Romano padre del feroce Ezzelino, ed Anselmo da Dovara, padre di Buoso, emulo e compagno di questo tiranno. È cosa veramente notabile che il primo trattato fatto coll'imperatore per guarentia della libertà dei comuni sia stato firmato a nome di questi dai genitori dei due più famosi capi del partito imperiale, dei due più feroci oppressori delle repubbliche[215].
E perchè lo stesso trattato che doveva ristabilire la concordia tra l'Impero e le città lombarde rendesse altresì la pace alla Chiesa, Federico scrisse al papa di mandargli tre legati per trattare con lui, designandoglieli egli medesimo. Furono questi il vescovo di Porto, quello d'Ostia ed il cardinale di san Pietro ad vincula[216]. I quali prelati, muniti dei pieni poteri della Santa Sede, si portarono a Lodi ov'erasi adunata una dieta de' rettori delle città lombarde; ed in seguito passarono a Piacenza. Quando l'imperatore seppe ch'erano giunti nelle vicinanze di Pavia, gli fece invitare alla sua corte, ove onorevolmente li ricevette.
La prima loro udienza fu pubblica. Federico aveva fatto innalzare il suo trono sulla gran piazza di Pavia, ove, circondato da' suoi principi, rivolse la parola ai legati in lingua tedesca, invitandoli con gentili maniere ad esporre i motivi della loro missione. Intanto i Pavesi trovavansi riuniti in parlamento. Allorchè l'interprete ebbe tradotto il discorso dell'imperatore, il vescovo d'Ostia, avanzatosi in mezzo dell'assemblea, con aspri e duri modi non sempre stranieri agli ecclesiastici, [224] dichiarò di non poter rendere all'imperatore il saluto finchè lo vedeva ostinarsi nello scisma e nell'impenitenza; quindi riandò tutta l'istoria delle sue persecuzioni verso la Chiesa, impiegando a vicenda le minacce e le preghiere per ridurlo a mutar condotta. Il popolo adunato applaudì questo discorso, e lo stesso Federico assicurò il legato, che, mosso dai patimenti de' fedeli, era disposto a grandi sagrificj per mettervi fine[217].
Dopo questa pubblica udienza, i legati ed i deputati lombardi ebbero frequenti conferenze collo stesso imperatore e co' suoi ministri, il cancelliere, il vescovo eletto di Colonia, ed il protonotaro. Essi dovevano procurare i vantaggi ancora del re di Sicilia e dell'imperatore di Costantinopoli; ma in fatto furono gli affari della Chiesa intorno ai quali rendevasi difficile ogni accomodamento, e che finalmente furon cagione che si rompessero i trattati. Lo storico d'Alessandro III assicura che Federico chiedeva alcune prerogative che non erano state mai accordate a verun laico, nè pure a Carlo Magno, o al grande Ottone: ma le pretese [225] del papa erano a dismisura cresciute dopo questi due imperatori, e Federico non ridomandava nè meno tutti i privilegi di cui godettero i suoi predecessori. Ad ogni modo i legati protestarono che la loro coscienza e le leggi della Chiesa s'opponevano ai chiesti privilegi. Il congresso si ruppe bruscamente, e gli alleati ritornando alle loro case guastarono le campagne de' Pavesi, de' Comaschi e dei marchesi feudatarj. L'imperatore invece fece alcune incursioni nel territorio alessandrino, ma senza intraprendere colle sole milizie italiane l'assedio d'una città, innanzi alla quale le armate tedesche avevano perduta l'antica gloria.
Mentre ancora duravano le trattative, Federico aveva ordinata in Germania la leva d'una nuova armata, ed aveva pure invitato a prendere le armi Cristiano arcivescovo di Magonza suo vicario nella Toscana e nella Marca. Questo prelato alla testa delle truppe che lo avevano servito nell'assedio d'Ancona, investì il castello di san Casciano ove tenevano una guarnigione i Bolognesi composta di trecento cavalli, ed altrettanti fanti sotto il comando di Prendiparte, uno de' loro consoli. Due altri consoli, Bernardo Vediani e Pietro Garisendi, s'avanzarono contro Cristiano [226] colle milizie bolognesi ed ausiliarie per costringerlo a levar l'assedio. Lo forzarono in fatti ad allontanarsi, ma caddero poco dopo in un'imboscata, e nel corso della campagna ebbero più volte la peggio.
(1176) Intanto Wicman arcivescovo di Maddeburgo, Filippo arcivescovo di Colonia, e tutti i vescovi e principi di Germania cui Federico erasi diretto, avevano adunati i loro vassalli, ed erano preparati a soccorrerlo. Si mossero nella seguente primavera, e perchè la strada dell'Adige era guardata dai Veronesi, s'avanzavano attraversando il paese dei Grigioni per l'Engadina e la contea di Chiavenna fino al lago di Como. Quando l'imperatore fu avvisato del loro arrivo in Italia, partì segretamente da Pavia, ed attraversando sconosciuto il territorio milanese, venne a riceverli a Como. Postosi alla loro testa in sul finire di maggio, andò contro il castello di Legnano nel contado del Seprio. I Comaschi militavano sotto le sue bandiere, e le milizie dei Pavesi e del marchese di Monferrato disponevansi a raggiungerlo.
I Milanesi che trovavansi i primi esposti alle offese, mostravano una straordinaria energia. Fino in gennajo avevano [227] fatto rinnovare il giuramento che gli univa alle altre città lombarde, ed assicurava loro i comuni soccorsi. Avevano formate alcune coorti di cavalleria scelta, una delle quali chiamata della morte era composta di novecento soldati che avevano giurato di morire per la patria piuttosto che ritirarsi; l'altra detta del Carroccio era formata di trecento giovani delle principali famiglie, i quali con uguale giuramento eransi vincolati alla difesa del palladio della loro patria. Gli altri cittadini divisi in sei battaglioni seguivano le bandiere delle sei porte, e dovevano combattere sotto gli ufficiali del proprio quartiere[218].
Il sabato 29 maggio i Milanesi ebbero avviso che l'imperatore non era più di quindici miglia lontano dalla loro città. Benchè dei soccorsi che aspettavano dai confederati non avessero avuto ancora che le milizie piacentine ed alcune centurie scelte di Verona, di Brescia, di Novara e di Vercelli, fecero sortire il carroccio dalla città e si mossero contro di Federico prendendo la strada che da Milano [228] conduce al Lago maggiore. Fermatisi presso Barano nella pianura che divide l'Olona dal Ticino, staccarono settecento cavalli per riconoscere il nemico; i quali non tardarono a scontrarsi in trecento Tedeschi seguiti a poca distanza dal grosso dell'armata. Essi li caricarono con vigore, ma dovettero ripiegare bruscamente verso il loro Carroccio trovandosi addosso tutta l'armata di Federico. I Milanesi vedendo avanzarsi contro di loro a galoppo la cavalleria tedesca, gittaronsi in ginocchio e fecero la loro preghiera ad alla voce a Dio, a s. Pietro, ed a s. Ambrogio; indi spiegando i loro stendardi si mossero arditamente contro i nemici. La compagnia del carroccio piegò un istante, e le truppe imperiali vi s'avvicinarono tanto, che s'incominciò a temere che cadesse nelle loro mani: perchè vedendolo la compagnia della morte, ripetendo ad alta voce e con entusiasmo il giuramento fatto di morire per la patria, gettaronsi con tanto impeto sulle truppe allemanne che atterrarono lo stendardo imperiale. Federico stesso che combatteva nella prima linea fu rovesciato da cavallo, e posta in fuga la colonna da lui comandata ed inseguita dai Lombardi per lo spazio d'otto miglia. I fuggiaschi che non [229] caddero sotto le loro spade, dovettero precipitarsi nel Ticino, o rendersi prigionieri. Quasi tutti i Comaschi perirono sul campo, o perdettero la libertà per essere contro di loro più vivo l'odio de' Lombardi, che li risguardavano quali traditori della causa comune. Tutte le più ricche spoglie del campo rimasero ai vincitori, i quali per colmo della loro gloria seppero ben tosto, che Federico non trovavasi coi soldati fuggiaschi, che i suoi fedeli avevano cercata in vano la sua persona o il suo cadavere, e che l'imperatrice rimasta a Pavia, omai più non dubitando della di lui perdita, aveva vestito il corrotto[219].
Ma Federico non era stato ucciso nella battaglia di Legnano, come supponevasi, e dopo pochi giorni ricomparve a Pavia, solo, avvilito, diviso da quella florida armata con cui credeva di soggiogare l'Italia, e che ora valicava disordinata le Alpi per salvarsi dal ferro italiano. Abbandonato sul campo di battaglia tra i suoi [230] nemici, sottraendosi alle loro ricerche, ottenne dopo molti stenti di ricoverarsi nella sola città ancora fedele.
Erano già decorsi ventidue anni da che questo monarca aveva la prima volta devastato il territorio milanese, e, durante questo lungo intervallo, aveva successivamente condotte o chiamate in Italia sette formidabili armate dal fondo della Germania[220]. Per lo meno un mezzo milione d'uomini aveva prese le armi a suo favore e sparsi torrenti di sangue; ma dopo vittorie più strepitose che utili terminò coll'essere disfatto in distanza di poche miglia dal luogo in cui ottenne le prime vittorie. I pontefici romani avevano contro di lui provocate le vendette del cielo; ed i suoi partigiani vedevano [231] nelle proprie e nelle sue sventure la mano di Dio. Non gli rimaneva dunque altro partito che quello della pace, e Federico la ricercò di buona fede.
Spedì dunque al papa gli arcivescovi di Maddeburgo, di Magonza e di Worms, per entrare con lui in negoziazioni. Giunti alla città d'Anagni, ove allora risiedeva il pontefice, vennero ammessi in pieno concistoro. In questa prima udienza Alessandro dichiarò loro in termini positivi, ch'egli non separerebbe giammai la sua causa da quella dei Lombardi, del re di Sicilia e dell'imperatore d'Oriente. Non pertanto nelle segreta conferenze isolò poc'a poco i suoi interessi da quelli de' confederati.
Siccome Federico non pretendeva più dal papa nuovi privilegi, le trattative diventavano semplicissime, nè ammettevano ulteriori difficoltà. Gli si chiedeva che abiurasse lo scisma e gli antipapi da lui nominati; e rispetto a ciò Federico chiedeva che dopo l'abiura anche i prelati addetti alla sua fazione fossero ammessi in grazia della Santa Sede e riconfermati nelle loro cariche. Tali articoli furono ben tosto accettati dalle parti[221]. Non era [232] così facile l'accordare gl'interessi dell'imperatore con quelli de' Lombardi; per discutere i quali il papa prometteva di passare in Lombardia, ove avrebbe presieduto all'adunanza delle città confederate. Ed in pendenza di queste trattative le parti stipularono una tregua generale per tutta l'Italia.
Se l'imperatore avesse prima adottata la via delle amichevoli trattative, non avrebbe sofferte le ultime traversie, nè perduta quella somma influenza che poteva esercitare sulle repubbliche italiane. Si può vederne la prova nell'apertura delle conferenze. I repubblicani non ardivano negare gli antichi diritti dell'Impero; ed erano contenuti da un natural rispetto verso le persone e verso le leggi, che loro vietavano di segnare i confini dell'autorità di colui contro il quale avevano però osato di combattere e di sconfiggerlo. Quando Federico cessò d'essere il loro nemico, fu ancora il loro monarca. Aveva in ogni città dei partigiani e specialmente tra i gentiluomini, che dichiaravansi i protettori delle prerogative imperiali; e la vanità, l'ambizione, l'avarizia non erano pienamente soddisfatte che coi favori della corte. I partigiani di Federico adoperavansi destramente per risvegliare [233] fra i popoli le sopite gelosie che in addietro dividevano le città, onde staccare alcune comuni dalla confederazione.
I Cremonesi furono i primi a sciogliersi da quel legame che aveva salvata la Lombardia. Erano stati in ogni tempo nemici dei Milanesi, ed alleati dei Pavesi: arbitrarie vessazioni gli avevano staccati dal partito imperiale, ed uniti alla lega, ma col tempo indebolitasi la memoria delle ricevute offese, il loro odio si spense: all'epoca dell'assedio d'Alessandria i Cremonesi erano già stati notati di poco zelo. Federico offerse loro la riconferma dei loro privilegi, di non prender parte all'elezione de' consoli e di accordar loro parzialmente tutto ciò che i confederati chiedevano per tutte le città, a condizione che ritornassero all'antico partito, fidandosi al loro protettore, al loro amico che loro stendeva le braccia[222].
I Cremonesi accettarono le offerte di Federico e soscrissero un atto d'alleanza, che il loro storico Campi estrasse dagli archivj della città. Dichiararono subito ai [234] Lombardi che rinunciavano alla federazione, essendo garantiti dal loro nuovo alleato di essere potentemente soccorsi qualunque volta la lega tentasse di punire la loro mala fede. I Tortonesi ne seguirono l'esempio; onde le altre città ed il papa se ne sdegnarono e temettero a ragione che potesse avere le più triste conseguenze.
(1177) Intanto il papa erasi imbarcato sulle galere del re di Sicilia coll'arcivescovo di Salerno e col conte d'Andria che questo monarca spediva in qualità di ambasciatori al congresso[223]. La tempesta gli spinse sulle coste della Dalmazia a Zara[224], città non ancora visitata da [235] verun papa, per cui non isbarcarono a Venezia che il giorno 24 di marzo. Il papa fu alloggiato nel monastero di san [236] Nicolò del Lido. Benchè non a Venezia, ma in Bologna dovesse tenersi il congresso, ciò null'ostante quando l'imperatore, che trovandosi a Cesena, seppe l'arrivo del papa a Venezia, gli rimandò i medesimi commissarj, che avevano già trattato con lui, ad oggetto di fargli sentire come avendo Cristiano arcivescovo di Magonza suo arcicancelliere fatta una sanguinosa guerra ai Bolognesi, non potrebbe fermarsi in quelle città per i maneggi di pace, senza risvegliare la loro animosità contro di lui.
La scelta del luogo in cui si aprirebbero le conferenze, era difficile e diede argomento a lunghe discussioni. I Lombardi offerivano l'alternativa tra Bologna, Piacenza, Ferrara e Padova, tutte città della lega, e perciò sospette agl'imperiali. I Tedeschi invece proponevano Pavia o Ravenna per lo stesso titolo di parzialità sospette ai Lombardi, perchè la prima era sempre stata loro nemica, e l'altra aveva di fresco rinunciato alla lega per fare separatamente la pace coll'imperatore. Finalmente fu proposta Venezia i di cui interessi erano affatto separati da quelli della lega lombarda. Vero è che da principio aveva presa parte alla confederazione, e in appresso, senz'essersi formalmente [237] rappacificata coll'imperatore, aveva di concerto colle truppe imperiali spedita una flotta all'assedio d'Ancona. Poteva perciò risguardarsi come naturale, onde i Lombardi furono contenti di aprirvi le conferenze coi deputati imperiali, a condizione per altro che il doge ed il popolo di Venezia prometterebbero con giuramento di non ricevere nella loro città l'imperatore avanti che fosse segnata la pace. Temevasi che assistendo questo principe ad una dieta, rispetto alle persone che la componevano, rassomigliante a quella di Roncaglia, vi ricuperasse colla sua presenza tutte le prerogative ch'egli si era colà usurpate; e che in cambio di ricever la legge, terminasse col darla egli all'assemblea[225].
Il congresso s'aprì dunque in Venezia verso la metà di maggio. I principi tedeschi, i principali prelati di Lombardia, i rettori delle città, i marchesi ed i conti si radunarono in presenza del popolo. I confederati vollero che s'incominciassero [238] le trattative colla difficile quistione dei diritti signorili controversi tra le città ed il monarca. Essi domandavano che i diritti dell'Impero sulle città fossero stabiliti in conformità di quelli ch'erano in uso ai tempi d'Enrico V, e volevano in oltre che nel caso di disparere in ordine alla loro estensione si stesse al giuramento che darebbero i consoli d'ogni città rispetto alla pratica locale. D'altra parte convenivano espressamente intorno alla prestazione del fodero reale, o diritto di approvigionamento per l'imperatore e suo seguito in occasione del suo passaggio; alla pavata o tributo per rifar le strade quando l'imperatore andava a Roma a prendere la corona imperiale, al diritto di spedizione ossia marcia dei vassalli sotto le bandiere imperiali. Domandavano in compenso, che l'imperatore riconoscesse formalmente il diritto d'essere governati dai consoli da loro scelti, che annullasse qualunque carta accordata in pregiudizio dei loro privilegi, che sanzionasse la prerogativa di mantenere ed accrescere le fortificazioni della propria città, che accordasse un'assoluta amnistia del passato, che gli autorizzasse a mantenere la confederazione lombarda, lasciando in loro arbitrio il riconfermarla con mutui giuramenti [239] quando loro piacesse, non escluso pure il giuramento di difendersi contro l'imperatore o suoi successori, qualunque volta il monarca movesse guerra alla Chiesa, o ad alcuna delle città federate. Chiedevano ancora che l'imperatore confermasse le sentenze pronunciate dai giudici durante la guerra, che i prigionieri fossero vicendevolmente restituiti senza prezzo, e per ultimo che le possessioni feudali e regali fossero mantenute in statu quo secondo le antiche costumanze attestate dai consoli.
Ben diverse erano le pretese dell'imperatore nel modo che furono proposte a Venezia da Cristiano arcivescovo di Magonza. Lasciava in arbitrio de' Lombardi lo scegliere una di queste proposizioni: cioè di stare alla sentenza pronunciata contro di loro in Roncaglia l'anno 1158 dai giudici di Bologna, o di prendere per regola dei diritti rispettivi quelli ch'erano in vigore sotto il regno d'Enrico IV[226].
Il console di Milano Gherardo de' Pesci che assisteva alle conferenze, e che aveva presa la parola per i Lombardi, protestò [240] a nome de' confederati contro la sentenza dei giudici bolognesi, che era, com'egli diceva, un editto dell'imperatore, e non un giudizio tra le due parti. Rispetto alla seconda proposizione oppose, che Enrico IV, il fautore d'uno scisma, ed il nemico dei più illustri pontefici, non era altrimenti un re, ma un tiranno; talchè non potevansi distinguere tra le sue azioni quelle che procedevano dalla violenza del suo carattere da quelle che erano conformi alle reali prerogative. Dopo ciò discese alla proposizione che avevano già fatta i Lombardi, val a dire, di regolare i reciproci diritti dietro le costumanze ricevute duranti i regni di Enrico V, di Lotario, e di Corrado[227].
Tutti gli storici lombardi, tranne Sire Raul, ci mancano a quest'epoca, ed anche questo non consacrò più di dieci linee intorno alle conferenze di Venezia, [241] dimodochè siamo costretti di consultare gli scrittori ecclesiastici, nei quali era ben naturale che venissero ommesse tutte le ragioni delle lagnanze accennate da Sire Raul contro Alessandro per aver mancato alla fede data ai Lombardi, ed essersi riconciliato coll'imperatore senza provvedere alla loro sicurezza. Per lo contrario, se dobbiamo dar fede a Romualdo di Salerno che assistette a queste conferenze come ambasciatore del re di Sicilia, Federico non acconsentì alla tregua che il papa proponeva per accomodamento, se non quando il papa gli accordò il godimento per quindici anni dell'eredità della contessa Matilde[228].
Ad ogni modo sembrava che una tregua potesse essere il solo mezzo di dar la pace all'Italia, poichè non era possibile di convenire intorno alle opposte pretese e conchiudere un trattato definitivo. Alessandro propose perciò una tregua di quindici anni col re di Sicilia, e soltanto di sei coi Lombardi. Federico, senza rifiutarvisi positivamente, chiedeva d'avvicinarsi al congresso per facilitarne [242] i trattati. Di consenso del papa abbandonò la Pomposa, delizioso palazzo in cui faceva la sua dimora presso Ravenna, per istabilirsi a Chiozza; ma quando si seppe essere arrivato in questa città posta nella laguna alla distanza di sole quindici miglia da Venezia, quei Veneziani che favorivano la sua parte, importunavano il Doge perchè lo ricevesse nella capitale; rimostrando non potersi senza indecenza lasciare il capo dell'Impero esigliato in una miserabile bicocca; che avendo Alessandro acconsentito che venisse fin là, non aveva più ragione d'impedire ch'essi soddisfacessero al dover loro, accogliendolo in una maniera conforme alla sua dignità[229]. Federico, avvisato di questi movimenti, ricusò a bella prima di sottoscrivere i due trattati che gli si presentarono; ma quando seppe che il papa e gli ambasciatori siciliani per timore della sua venuta disponevansi ad abbandonare Venezia, approvò gli articoli convenuti dai suoi plenipotenziari. Il giorno 6 luglio, il conte Enrico di Dessau giurò, per parte dell'imperatore ed in suo nome, una pace perpetua colla Chiesa, una pace [243] di quindici anni col re di Sicilia, ed una tregua di sei anni da incominciarsi il primo agosto seguente coi Lombardi[230]. Durante questa tregua, i beni e le persone dei membri della lega dovevano godere ne' domini imperiali di una piena sicurezza e degli avvantaggi che vi si godono in tempo di pace; ed a vicenda le stesse immunità venivano accordate ai sudditi dell'imperatore nelle terre de' Lombardi. I consoli ed i consigli di credenza così delle città confederate, come di quelle che stavano per l'imperatore, dovettero giurare nella pubblica assemblea, ed a nome del popolo, che osserverebbero la tregua, e non farebbero ingiuria nè alle persone nè alle proprietà.
Fu ancora convenuto che ogni città dei due partiti nominerebbe due arbitri Treguari, ossia difensori della tregua, che avrebbero il carico di terminare le contese che potessero aver luogo tra i membri delle opposte parti, cosicchè per particolari ingiurie niuna persona potrebbe avanti che siano terminati sei anni di tregua farsi ragione colle armi.
[244] Finalmente l'imperatore rinunciava in tal tempo al diritto di chiedere il giuramento di fedeltà da verun membro della lega[231].
Poichè dal conte di Dessau fu emesso il giuramento di pacificamento in nome di Federico, e che un simile giuramento venne pronunciato dal cappellano dell'arcivescovo di Colonia a nome de' principi del suo partito, Alessandro sciolse dal giuramento il doge ed il popolo di Venezia, ed acconsentì che l'imperatore entrasse in città. Sei galere veneziane andarono subito a prenderlo a Chiozza, ed il sabato di sera 23 giugno lo condussero a S. Nicolò di Lido ove la Signoria avevagli [245] fatto allestire un alloggio. All'indomani mattina il papa montò sulle galere siciliane, e coll'accompagnamento degli ambasciatori di quella corte, e dei rettori delle città lombarde, venne a sbarcare sulla piazza di S. Marco. Nel tempo stesso il doge Ziani, il patriarca, il clero ed il popolo di Venezia condussero colle loro galee sulla stessa piazza l'imperator Federico, il quale, vedendo il pontefice, si sciolse il suo mantello, e prostratosegli avanti gli baciò i piedi. Dopo quest'atto ricevette il bacio di pace, e quindi entrarono insieme in chiesa, ove il popolo intuonò il Te Deum[232]. Terminato il divino ufficio, e rivocata la scomunica fulminata contro il monarca ed i suoi sudditi, Federico condusse il papa al suo cavallo, e gli tenne la staffa; indi ricevette la briglia dallo scudiere, e preparavasi a far le veci di questo, ufficiale in conformità del ceremoniale cui eransi sottomessi i suoi predecessori; ma il papa vedendo che la strada che doveva ancora fare non era breve, lo dispensò da così umiliante formalità[233]. In una privata visita ch'egli ricevette il successivo [246] giorno, i due capi dell'Impero e della Chiesa felicitaronsi a vicenda della loro riconciliazione[234].
Resa per tal modo la pace all'Italia, si sciolse il congresso di Venezia, ed il papa si ritirò nella piccola città d'Anagni ove dopo le turbolenze di Roma aveva stabilita la sua residenza. Ne' primi mesi del 1178, ricevette una deputazione di quel senato che lo invitava a riprendere il governo della sua greggia, ed a rientrare nella sua capitale. Ma perchè il papa non ardiva darsi in mano del popolo senza che la sua persona venisse assicurata da ogni molestia, si convenne che i senatori giurerebbero in mano del papa fedeltà alla chiesa di S. Pietro, pel consueto omaggio; che gli ritornerebbero i diritti di suprema signoria, e prometterebbero di non attentare alla sua libertà, nè a quella de' cardinali suoi fratelli. Poichè queste condizioni furono accettate da ambo le parti, i senatori si [247] presentarono al pontefice con tutti i magistrati di Roma, e lo accompagnarono pomposamente in città[235].
Anche Federico aveva abbandonata Venezia, e, dopo aver visitate le città toscane che avevano per lui combattuto con tanta fedeltà, passò a Genova, e di là per il Monte Cenisio ne' suoi stati di Germania e di Borgogna.
I sei anni della tregua si consumarono in trattati di più stabile pace, i quali per altro non distoglievano Federico dal tentar la fede dei popoli confederati, staccandoli dalla lega l'un dopo l'altro, e facendo separate paci. Poco dopo proclamata la tregua, ammise a segrete conferenze alcuni gentiluomini trivigiani legati alla confederazione, da' quali ricevette un giuramento di cui rimase segreto l'oggetto. Il popolo di Treviso n'ebbe sentore, e prese le armi contro di loro quando tornavano in città, volendo che come traditori della patria e spergiuri fossero condannati ad ignominiosa morte. I consoli trovaron modo di conoscere il trattato stipulato da questi gentiluomini, e ne diedero parte alla dieta della lega, la quale avendo dichiarato manifesto il tradimento, [248] condannò i colpevoli a severo castigo, e pensò a precauzionarsi contro i maneggi della fazione imperiale[236].
Non perciò ottenne di sventarne tutte le trame. In febbrajo del 1183, Federico rinnovò il trattato che aveva precedentemente conchiuso col popolo di Tortona, dandogli la più grande pubblicità, onde avvertire le altre città confederate che, prevenendo la pace generale, potevano da lui sperare vantaggiose condizioni. Con questa carta, che tuttavia conservasi, Federico promette di non pretendere dai Tortonesi tasse maggiori di quelle imposte ai Pavesi proporzionatamente alle ricchezze delle due città; promette d'annullare le infeudazioni accordate in pregiudizio del popolo, di rinovare la pace tra lui ed i suoi vicini; di lasciare i castellani del suo territorio dipendenti dal comune, conservandogli il privilegio del consolato e dei diritti feudali, siccome lo conserva al popolo di Pavia[237].
Videsi allora staccarsi dalla lega una città che doveva alla lega la propria [249] esistenza, e che più di tutt'altre doveva esserle fedele. Alessandria temeva la particolare animosità di Federico contro di lei, perciocchè discacciato vergognosamente innanzi alle sue mura, egli risguardava quest'avvenimento siccome un testimonio dell'odio del popolo, e sembrava risoluto di far abbattere le fortificazioni della città tosto che terminasse la tregua, e di rimandare i suoi abitanti negli otto villaggi da cui erano usciti. Per mettersi in salvo dalla sua collera, e procurarsi anticipatamente i privilegi pei quali gli altri confederati erano ancora in disputa, i cittadini d'Alessandria acconsentirono di sottomettersi ad una ceremonia umiliante che doveva appagare l'orgoglio di Federico. Il quinto giorno degl'idi di marzo del 1183 promisero di sortire tutti dalla città per aspettare al di fuori delle mura il deputato dell'imperatore che doveva introdurli di nuovo in città, quasi loro dando una nuova patria, la quale d'allora in poi chiamerebbesi Cesarea. A tali condizioni prometteva loro il diritto d'eleggere i consoli, di averli sotto la sua protezione, e difenderli dalle aggressioni dei loro vicini[238].
Appressavasi intanto il fine della tregua senza che il trattato definitivo fosse ancora conchiuso. Fortunatamente per la lega, che il principe che in appresso regnò sotto il nome d'Enrico VI, desiderava che suo padre nella vicina dieta convocata a Costanza lo associasse alle due corone di Germania e d'Italia. Rinnovandosi la guerra in Lombardia temeva che potesse mettersi ostacolo alla promessagli associazione, onde si adoperò perchè si riprendessero i trattati, ed ottenne dall'imperatore di far partire per l'Italia quattro plenipotenziari, Guglielmo vescovo d'Asti, il marchese Enrico Guercio, il fratello Teodorico e Rodolfo suo gran cameriere[239]. Questi deputati andarono a Piacenza ov'erasi unita la dieta delle città e convennero intorno ai preliminari della pace[240]. Dopo ciò indussero [251] i consoli ed i rettori della lega a seguirli a Costanza, ove in presenza dell'imperatore fa data l'ultima mano al celebre trattato che porta il nome di questa città; trattato che per lungo tempo fu la base del diritto pubblico italiano, ed in conseguenza inserito nel corpo del diritto romano di cui forma l'ultima parte[241]. Fu firmato dalle due parti il giorno 7 delle calende di luglio, ossia il 26 giugno del 1183[242].
L'imperatore cedeva col trattato di Costanza alle città senza eccezione tutti i diritti di suprema signoria ch'egli possedeva nell'interno delle loro mura. Loro cedeva ugualmente nel rispettivo distretto tutti i diritti signorili ch'esse avevano acquistato coll'uso o colla prescrizione; [252] e nominatamente accordava loro il diritto di levare armate, fortificare le città e di esercitare nel loro circondario ogni giurisdizione civile e criminale.
Quando si facesse luogo a contestazioni intorno ai diritti regali riclamati dai comuni in virtù d'una prescrizione, si convenne che il vescovo d'ogni città avrebbe l'autorità di nominare gli arbitri da scegliersi tra i cittadini e gli abitanti del distretto, scevri da parzialità tanto per l'imperatore che per la città. E qualora questi arbitri non credessero di poter sentenziare intorno alle controverse pretese portate al loro giudizio, venivano autorizzati a mutare le prestazioni contestate contro l'annuo censo di due mila marche d'argento, che, volendolo l'equità, potrebb'essere dall'imperatore ridotto a minor somma.
Furono annullate tutte le infeudazioni fatte dopo la guerra in pregiudizio delle città, e restituite senza frutti e danni tutte le possessioni apprese. Prometteva l'imperatore di non soggiornare troppo lungamente in una città o nel suo territorio, onde non arrecarle pregiudizio; ed acconsentì che le città conservassero la loro confederazione e la rinnovassero a loro beneplacito.
[253] D'altra parte furono conservate alcune prerogative all'Impero ancora nell'interno delle nuove repubbliche. Il consolato fu riconosciuto, ma i consoli dovevano ricevere, bensì gratuitamente, l'investitura della loro carica da un legato dell'imperatore, quando però in forza di una costumanza locale non la ricevessero dal vescovo conte della città. L'imperatore venne autorizzato a stabilire in ogni città un giudice d'appello, cui potrebbero deferirsi le cause civili per somma maggiore di venticinque lire imperiali[243]. Questo giudice, entrando in carica, doveva giurare di conformarsi alle costumanze della città e di non permettere che una causa rimanesse indecisa più di due mesi.
Ogni città doveva giurare di sostenere in Italia i diritti imperiali rispetto a coloro che non erano membri della lega. Prometteva all'imperatore di corrispondergli il fodero reale quando entrava in Lombardia, di ristabilire i ponti e riparar le strade, tanto in occasione del suo arrivo, che del ritorno, e di preparargli un sufficiente mercato per l'approvigionamento [254] della sua casa e dell'armata. Finalmente promettevano tutte le città di rinnovare ogni dieci anni il giuramento di fedeltà[244].
In tale maniera ebbe fine la lunga contesa della libertà d'Italia; e le repubbliche lombarde, ch'ebbero fino a tal epoca una precaria esistenza, furono legalmente riconosciute e costituite.
Ultimi anni di Federico Barbarossa. — Suo figliuolo Enrico VI riunisce all'Impero il regno delle due Sicilie. — Tumulti eccitati dalla nobiltà nelle repubbliche italiane.
1183 = 1200.
Dopo la lunga e pericolosa guerra che con tanto valore avevano le repubbliche italiane sostenuta per la libertà, non gustarono i vantaggi che loro assicurava la pace di Costanza. Le civili discordie e le rivalità fra gli altri stati vicini sconvolsero ben tosto la pubblica tranquillità; l'autorità nazionale cadde in mano di una nobiltà prepotente, o di sanguinarj tiranni; e più d'una volta il furore delle fazioni ricondusse volontariamente le città a quella dipendenza, per sottrarsi dalla quale avevano versato torrenti di sangue.
Un popolo non può vantare una libera costituzione quando il suo governo non sia contenuto entro giusti limiti da un potere qualunque, che possa continuamente richiamarlo e sottometterlo al tribunale della pubblica opinione. D'uopo [256] è che un sentimento di timore comprima le passioni del governante qualunque volta s'oppongono all'interesse dei governati; ma l'istituzione di un potere repressivo e forse la più difficil parte della legislazione repubblicana. Perciocchè se si stabilisce nello stato un nuovo potere d'un'autorità abbastanza grande per frenare il governo e per giudicarlo, questo stesso potere diventerà la molla principale del governo, onde sarà poi necessario di comprimerlo ugualmente perchè non degeneri in aperta tirannia. Se poi si vuol rendere il popolo depositario di questo poter compressivo, tostochè avrà l'autorità di mutare il governo, o di deporre i suoi magistrati, ridurrà la costituzione ad un'assoluta democrazia, la sua potenza diventerà tirannica, ed egli sarà il principal nemico della libertà.
Ma in tempo che le politiche combinazioni riescono d'ordinario inutili per istabilire un equilibrio manutentore della libertà, accade talvolta che quest'equilibrio sia il risultato d'estranee circostanze, e, per così dire, l'opera dell'accidente. E per tal modo un sommo pericolo nazionale, un eminente interesse comune ai governanti ed ai governati ha potuto alcune volte riunire i loro sforzi per il [257] conseguimento del ben pubblico. In faccia a questo tacciono le private passioni, le rivalità non hanno occasione di manifestarsi, il popolo conosce il bisogno di essere governato da persone che uniscano ai talenti la virtù, e non accorda la sua confidenza che agli ottimi. Gli amministratori della repubblica sentono allora il bisogno di meritarsi questa confidenza onde poter mettere in opera tutta la forza nazionale contro l'imminente pericolo; allora la più grossolana ed imperfetta costituzione basta per contenere ne' giusti limiti i governanti e per rendere i cittadini docili, zelanti, disinteressati. I repubblicani italiani ebbero questi vantaggi finchè durò la guerra di Lombardia, e li perdettero dopo la pace di Costanza. Tosto che l'indipendenza delle città fu riconosciuta dall'imperatore, credette il popolo che fosse venuto il tempo di farsi render conto del potere dei gentiluomini che avevano fino a tal epoca amministrati i suoi affari con sommo patriottismo, valore ed avvedutezza: e quantunque questa nuova diffidenza cadesse sopra uomini cui tanto dovevano le repubbliche, non si deve però attribuirlo soltanto allo sviluppo dell'ambizione e della vanità dei plebei, nè accusarli d'ingratitudine. Cessati [258] i pericoli che minacciavano le città, gl'interessi de' nobili e del popolo si separarono. I primi non avendo più di mira la pubblica difesa, eransi di nuovo abbandonati a progetti d'ingrandimento e d'ambizione. Ad una libertà divisa cogl'ignobili dovevano preferire un'indipendenza solitaria nei loro castelli; e desiderando procacciarsi il favore d'una potenza cui non volevano essere ubbidienti, preferivano l'imperatore al popolo. La quasi assoluta mancanza di storici contemporanei che scrivessero degli ultimi anni del secolo dodicesimo, non ci permette di sapere se prima si manifestasse la gelosia de' plebei, o l'ambizione de' nobili; tanto più che diversi furono in ogni città i motivi delle prime dissensioni, comechè per altro in ogni città queste passioni armassero l'un contro l'altro gli opposti partiti.
Quantunque ne sia incerta l'epoca, sappiamo che dopo la pace di Costanza i Milanesi fecero alcune mutazioni alla loro costituzione, separando con maggior precisione i suoi diversi poteri. Nel 1185, Federico Barbarossa aveva loro accordato il privilegio di nominare il podestà e di conferirgli coi soli suffragi del popolo il titolo e le prerogative di conte della [259] loro città[245]. Privarono perciò degli attributi giudiziarj i loro consoli, dandogli allo straniero podestà, che nominavano ogni anno per essere nel tempo medesimo il depositario della forza pubblica. A questo magistrato spettava esclusivamente il diritto d'ordinare l'esecuzioni capitali, e per insegna di questo poter di sangue, che così allora si chiamava, il podestà era preceduto da un uomo che portava una spada sguainata. Dopo tal epoca v'ebbero in Milano tre diversi poteri, dell'arcivescovo, del podestà e dei consoli. Perchè il primo fu anticamente conte della città, venivano in suo nome pronunciate ancora tutte le sentenze, benchè attualmente non vi prendesse alcuna parte; erasi pure conservato all'arcivescovo il diritto di coniare le monete, di fissare ed alterare il valore della specie; come pure in suo nome e per suo conto esigevasi un pedaggio alle porte di Milano[246]. Quantunque gli fossero dalle leggi conservate queste prerogative, il popolo teneva aperti gli occhi sul suo prelato, pronto a scacciarlo dalla [260] città qualunque volta s'accorgesse che avesse oltrepassati i limiti dei diritti conservatigli. Il podestà era, più che giudice, il generale del popolo, in di cui nome faceva la guerra ai nemici dell'ordine pubblico; ed anco l'amministrazione della giustizia era in sua mano affatto militare. Per ultimo i consoli erano depositari di tutti gli altri diritti governativi. In Milano erano dodici, e la loro adunanza formava il consiglio di confidenza[247], cui erano attribuite tutte le relazioni esteriori dello stato, le nomine degl'impiegati, l'amministrazione delle finanze, tutte in somma le più importanti attribuzioni della sovranità. Pretendevano i nobili che il consiglio avesse il diritto di nominare i consoli dell'anno seguente; e questa prerogativa fu la prima a risvegliare la gelosia de' plebei, onde si alterò la buona armonia dei due ordini. Il popolo emanò una legge che affidava il diritto di eleggere i consoli a cento elettori scelti dal consiglio generale tra gli artigiani della città, obbligando però questi elettori a prendere tutti i consoli nel corpo della nobiltà. Non era dunque ancora il possedimento delle magistrature che si contrastasse [261] ai gentiluomini; si voleva solamente, che fossero gl'immediati rappresentanti della nazione. Ma più volte a dispetto dell'incontrastabile diritto dei cittadini i consoli regnanti s'arrogarono l'elezione dei loro successori.
Forse in un modo più preciso e conveniente aveva la repubblica di Bologna divisi i suoi poteri, comechè non sia facile il precisar l'epoca della costituzione di cui ci danno notizia i suoi storici[248]. L'autorità sovrana era in Bologna divisa fra tre consigli, i consoli ed il podestà. La città dividevasi in quattro tribù e quaranta elettori, scelti a sorte dieci in ogni tribù, eleggevano ogni anno, rispettivamente nella propria, i cittadini degni di formare i tre consigli. Tutti i cittadini giunti all'età di diciott'anni erano ammessi al consiglio generale, esclusi però i bassi artigiani e quelli ch'esercitavano una vile professione; il consiglio speciale era composto di seicento cittadini; e quello di confidenza, nel quale avevano luogo [262] di pieno diritto tutti i giureconsulti di Bologna, di un numero assai minore. Tutte le decisioni di qualche importanza dovevano ricevere la sanzione da questi consigli, ma ne era riservata l'iniziativa ai soli consoli ed al podestà, o per lo meno un cittadino non poteva senza il loro assenso proporre un progetto e prender parte alla discussione. Il più delle volte le proposizioni fatte dai consoli si discutevano soltanto da quattro oratori che avevano l'incarico di parlare a nome del popolo; e gli altri consiglieri non avevano la parola e davano il loro voto con palle bianche e nere. A questa influenza dei magistrati sulle deliberazioni, la nobiltà, in onta d'una costituzione quasi democratica, andò lungo tempo debitrice della conservazione del suo potere. Il Ghirardacci, lo storico migliore di Bologna, non ritrovò sicure notizie intorno al modo con cui eleggevansi i consoli: il podestà nominavasi ogni anno in settembre in tal maniera. Fra i membri del consiglio generale e speciale estraevansi a sorte quaranta cittadini, che venivano rinchiusi assieme, e sotto pena di perdere il diritto d'elezione dovevano entro ventiquattr'ore aver fatta la nomina colla maggiorità di ventisette voti. Spesse [263] volte i consigli indicavano agli elettori la città in cui dovevano prendere il podestà. Questo magistrato non poteva scegliersi tra i parenti di verun elettore fino al terzo grado, non poteva possedere beni stabili nel territorio della repubblica, doveva esser nobile, d'età non minore di trentasei anni, ed avere buon nome. Fatta la scelta, scrivevasi a nome del comune all'eletto per invitarlo a venire a prendere possesso della carica che gli era offerta, ed accettare l'onore che la repubblica gli faceva[249].
Somiglianti leggi press'a poco erano state fatte dalle altre città libere: in ogni luogo la costituzione aveva sofferto qualche cambiamento, e le contrarie pretese dei due opposti partiti che desideravano introdurvene di più grandi, eransi già apertamente manifestate. Le generali rivoluzioni dell'Impero tennero alcuni anni sospesi questi umori, che si svilupparono [264] nuovamente con terribili sintomi quando gl'imperatori ed i papi, venuti tra loro a nuove contese, si procacciarono in tutte le città il favore delle fazioni da loro tenute vive.
Queste rivoluzioni dell'Impero diventano adesso l'argomento delle nostre indagini; ma è d'uopo ricordarsi che nel campo della storia incontransi vasti deserti: sono questi i tempi in cui verun sentimento generalmente diffuso anima i popoli, in cui nessun personaggio d'alta riputazione a se richiama l'interesse generale; i tempi inoltre ne' quali nessuno scrittore mediocre lasciò ne' suoi racconti l'impressione di questi sentimenti, nessuno comunicò alle sue scritture il carattere del secolo. Dalla pace di Costanza al regno di Federico II, abbiamo uno spazio di quindici anni affatto deserto. In questo tempo presentaronsi sulla scena per iscomparire all'istante alcuni personaggi affatto nuovi senza far sugli animi veruna impressione; uomini inetti che non potevano fissare l'attenzione de' popoli. Guglielmo II e Federico, Tancredi e suo figlio Ruggiero, Sibilla vedova del primo, Guglielmo III fratello del secondo; Enrico IV e Costanza; Lucio III, Urbano III, Gregorio VIII, Clemente III, Celestino III, [265] si mostrarono un istante per ricadere in una perpetua oscurità. Il dodicesimo secolo pareva che, terminando, strascinasse con se tutti i nomi che gli appartenevano, per non lasciare al nuovo che personaggi nuovi.
Quest'epoca novella ricevette il suo carattere dall'interregno dell'Impero con cui incominciò: allora fu che le fazioni impiegarono tutta la loro energia; che i nomi dei Guelfi e dei Ghibellini diventarono motivi di proscrizione; che le città toscane fin allora subordinate all'Impero posero i fondamenti della loro libertà, riunendosi al partito della Chiesa; e che molte di quelle della Lombardia e della Marca Trivigiana, abbracciando l'opposto, caddero la prima volta sotto il giogo d'alcuni piccoli ma feroci tiranni.
Dobbiamo perciò chiedere l'indulgenza del leggitore intorno ad aride ricerche e la sua attenzione sopra fatti complicati che mal si legano gli uni cogli altri, e che non ci furono tramandati con sufficienti particolarità per interessarci; ma che non pertanto è necessario di conoscere, perchè spiegano le rivoluzioni cui diedero origine nel susseguente secolo.
La storia della casa di Svevia e dei diritti ch'ella acquistò sul regno delle due [266] Sicilie trovasi essenzialmente legata ai destini di tutte le repubbliche italiane, perchè alcune atterrite da tanta grandezza diventarono implacabili nemiche degl'imperatori, mentre le altre, memori de' ricevuti beneficj, consacrarono i loro tesori, le armi, i cittadini in difesa del vacillante trono dei monarchi di Germania e di Sicilia.
La storia di certe nobili famiglie che ne' quindici anni che abbraccia questo capitolo incominciarono a sortire dall'oscurità, minacciando colle loro querele perfino l'esistenza delle vicine repubbliche, è forse ugualmente arida, ma ugualmente ancora importante per le conseguenze che ebbe, essendo usciti più tardi da queste famiglie i tiranni di tante illustri città.
Questi due oggetti fisseranno dunque pressochè soli la nostra attenzione fino alla fine del secolo dodicesimo: omettendo di fermarci intorno alle animosità di alcune città rivali ed alle passeggieri guerre di alcuni popoli quando non influirono sulla loro sorte, o non furono illustrate da avvenimenti degni della nostra curiosità.
L'anno dopo la pace di Costanza, venendo Federico in Italia con il figliuolo [267] Enrico, cui destinava la corona dell'Impero, quelle città, che avevano più valorosamente contro di lui combattuto, rivalizzarono nell'onorarlo. I Milanesi tra gli altri nulla omisero per guadagnarsi la sua affezione, e l'imperatore dal canto suo, dopo avere sperimentata la debolezza delle comuni già sue amiche, credette di appoggiarsi sopra una lega più potente procacciandosi l'amicizia de' Milanesi, a' quali accordava perciò nuovi privilegi e permetteva di rifare la città di Crema, le di cui mura non eransi più rialzate dopo ch'egli, ventiquattr'anni prima, le aveva spianate. I Cremonesi che vi si erano opposti quando la lega lombarda dispiegava tutta la sua potenza, si offesero gravemente e diedero così aperti segni del loro malcontento verso l'imperatore per avere, mosso dalle preghiere dei Milanesi, perdonato agl'infelici Cremaschi, che Federico irritato si pose alla testa delle milizie di Milano, e, facendo marciare innanzi il Carroccio del comune, entrò nel territorio cremonese, bruciò molti castelli di quel popolo ammutinato, e lo forzò ad implorare la sua clemenza[250].
Federico era venuto in Italia per trattare il matrimonio di suo figlio Enrico con Costanza, la più prossima erede della casa normanna che regnava a Palermo. Questa principessa, figliuola postuma di Ruggiero primo re di Sicilia, quantunque in età di soli trent'anni, era zia di Guglielmo II allora regnante. Prevedevasi che questi, benchè ammogliato, non lascerebbe figli, onde lo sposo di Costanza, Enrico, sarebbe chiamato alla corona delle due Sicilie ed a quella di Lombardia. Sembrava con ciò che la casa di Svevia acquistar dovesse una preponderanza tale, cui non potrebbero resistere nè la Santa Sede, nè le città libere, nè i grandi feudatarj.
Il regno normanno, nato nel precedente secolo, aveva nel corso di due sole generazioni cambiato natura e governo. Ruggiero, primo re di Sicilia, e figliuolo del gran conte dello stesso nome, aveva steso il suo dominio non solo su tutte le province che formano oggi il regno di Napoli, ma inoltre sopra molte città d'Affrica e della Grecia. Temuto dai suoi vicini, veniva in pari tempo servito con zelo da' suoi sudditi malgrado la durezza della sua amministrazione, credendo di essere compensati dei mali che loro faceva soffrire la sua ambizione, dalla gloria delle [269] sue armi vittoriose. I nobili de' suoi stati, parte compressi dalla severità de' castighi, parte guadagnati dai suoi favori, avevano quasi deposto il fiero ed indipendente carattere normanno. Due figliuoli degni di tanto padre, che promettevano alla famiglia accrescimento di gloria, ed un governo vigoroso alla nazione, morirono in fresca età, onde il terzo figlio Guglielmo, di cui il padre ne compiangeva l'imbecillità, si vide inaspettatamente chiamato a succedergli.
Questo principe, detto Guglielmo il cattivo, appena occupato il trono paterno, abbandonossi così ciecamente ai più indegni favoriti, che la nobiltà della corte, per salvargli la vita, dovette congiurare contro le creature del suo re. Majone, oscuro cittadino di Bari, nominato grande ammiraglio, aveva progettato di far morire Guglielmo per montar egli sul di lui trono; progetto che avrebbe avuto intera esecuzione se il pugnale de' cospiratori non veniva in soccorso del re[251]. Durante la debole e burrascosa amministrazione di Guglielmo I, e la lunga minorità di Guglielmo II, l'edificio sociale innalzato [270] con tanta fatica dai conquistatori normanni fu quasi totalmente distrutto. Nelle province di qua dal Faro i Lombardi avevano introdotto il sistema feudale, onde quando pubblicaronsi le loro leggi i signori riebbero un'indipendenza che sarebbe stata assoluta, se la loro ambizione non gli avesse avvicinati alla corte; e le città medesime si eressero in corpi politici talvolta indocili, liberi mai. La Sicilia presentava un aspetto affatto differente. Governata lungo tempo dagli Arabi e prima dai Greci, non conosceva che le costumanze e la politica degli Orientali. Guglielmo era per quest'isola uno di quegli effeminati sultani che tosto o tardi disonorarono tutte le dinastie dell'Asia: circondato d'eunuchi, di donne, di preti corrotti, di vilissimi servi, governava il suo regno come volevano i piccoli intrighi del serraglio di Palermo. Intanto i Saraceni, ridottisi nelle montagne, occupavano ancora la maggior parte dell'interno dell'isola; essi non ubbidivano che ai loro capi, e la fede di questi verso il re era assai sospetta. Altri Saraceni più inciviliti esercitavano la mercatura nelle città, altri avevano il favore della corte e vi occupavano spesso le prime cariche; tutti gli eunuchi erano musulmani e [271] favorivano presso al re col proprio credito i loro compatriotti. I signori cristiani possedevano nell'isola contee e baronie tanto nelle città, che sulle coste, ma questi piccoli governi rassomigliavansi molto più ai pachalicks de' Turchi, che ai feudi dell'Occidente: in ogni luogo vedevasi cadere il despotismo in dissoluzione, dando luogo ad una generale insubordinazione, senza verun principio di libertà. Pure lo storico Ugo Falcando, dietro al quale abbiamo giudicata quest'epoca, parla enfaticamente della prosperità e della pace di cui godeva la Sicilia in sul finire del regno di Guglielmo II, senza però ch'egli abbia scritta la storia di questi tempi di tanta felicità; e siccome le nazioni non passano mai rapidamente dall'estrema dissoluzione d'ogni ordine sociale a tanta prosperità e gloria, così ci dev'essere permesso di credere che lo storico abbia voluto col contrapposto di questa imaginaria felicità, dare maggior risalto alla tirannide da lui descritta sotto il regno di Guglielmo, ed a quella che prevedeva sotto il dominio de' Tedeschi. Vero è intanto e cosa assai notabile, che la Sicilia dopo essere stata tolta agli Arabi non ebbe mai più regolare governo; e che anche il brigantaggio cui trovasi oggi abbandonata [272] è la conseguenza della sua antica anarchia, da cui non si è mai potuta interamente liberare[252].
Qualunque si fosse la debolezza e la dissoluzione del regno sul quale la casa di Svevia acquistava nuovi diritti, Federico ed i suoi successori rinunciarono, per conquistare la Sicilia, ai progetti che il primo aveva formati contro la libertà della Lombardia, e resero perciò la pace alle repubbliche. Di fatti in luogo di alimentare le discordie tra le città, come praticò fin allora, e di sostenere i più deboli contro i potenti, l'imperatore s'adoperava adesso per riunirli onde valersi delle loro forze quando riclamerebbe l'eredità di [273] sua nuora Costanza. E siccome i suoi sforzi per conservar la pace tra le città lombarde erano sinceri, così furono sempre coronati da prospero successo. L'opera di Federico fu potentemente assecondata dalle prediche della religione e dalla profonda impressione che fece sopra tutta l'Europa un avvenimento risguardato dai cristiani come una generale calamità.
Il nuovo regno latino di Gerusalemme aveva nello spazio d'ottant'anni toccati gli estremi della forza e della debolezza. Fondato dalle più potenti armate che militassero giammai sotto lo stesso stendardo, era stato in seguito abbandonato quasi senza difesa alla gelosia ed alla vendetta degli Asiatici che lo circondavano. Talvolta poteva opporgli i formidabili ausiliari che arrivavano dall'Europa; ma ridotto non di rado alle sole sue deboli forze, non poteva riunire che pochi soldati, e questi ancora segreti nemici gli uni degli altri a cagione della diversa loro origine, snervati dal clima e dalle delizie dell'Asia, ed indisciplinati in forza di quelle stesse leggi che avevano portate dall'Europa[253]. I crociati trapiantando [274] in Siria il sistema feudale, ne avevano conservata l'insubordinazione, e perduta l'energia. Intanto dimenticavansi in Europa i pericoli cui trovavasi esposta la santa città, quando nel 1187 si ebbe notizia che Saladino se n'era impadronito, che il re Gui di Lusignano era prigioniere, e che, tranne le città di Tripoli, di Tiro e d'Antiochia, tutta la terra santa era ricaduta in potere degli infedeli[254].
Qualunque sia la nostra opinione intorno al primo motivo delle crociate, poichè fu stabilito il regno di Gerusalemme, e che, confidando nell'appoggio degli Occidentali, tanti coloni di tutte le [275] nazioni d'Europa erano venuti a popolare la Siria, restandovi come ostaggi e come mallevadori della volontà dei Latini di mantenere indipendente la Terra santa, l'onore, il dovere, le più assolute promesse obbligavano gli Occidentali a soccorrere i loro compatriotti, i campioni da loro stessi posti nel territorio nemico. Estrema fu perciò la costernazione cagionata dalla perdita di Gerusalemme, profonda, universale. Gregorio VIII, allora eletto papa[255], impiegò i brevi giorni del suo pontificato a predicare ai cristiani la pace fra di loro e la lega contro gl'infedeli. Spedì lettere circolari a tutti i re, a tutte le repubbliche d'Europa, pregando di deporre le private nimistà e di riunirsi per la causa di Dio, perchè, com'egli diceva, i vizj de' cristiani e le pazze loro discordie avevano loro procurato [276] sì grande calamità e tanta vergogna[256].
Le guerre d'Italia erano allora prodotte dalle passioni dei popoli e non dagli ambiziosi calcoli de' sovrani. Un profondo e doloroso sentimento de' loro errori occupò all'istante l'animo de' cittadini, e l'entusiasmo distrusse le inquiete loro rivalità. Cremona era in guerra con Brescia, Parma con Piacenza, Milano e Pavia si disponevano a nuove battaglie: ma fu loro predicata la pace di Dio, e tutte le repubbliche l'abbracciarono. I più valorosi soldati delle armate nemiche presero la croce, e giurarono di militare assieme. Una sola città diede due mila soldati per questa santa impresa; e perchè gli uomini più caldi ed impetuosi furono i primi ad arrolarsi per la guerra sacra, la loro lontananza riuscì, non v'ha dubbio, utilissima alla tranquillità della loro patria. Due repubbliche rivali, che seppero soltanto per brevissimo tempo comprimere l'odio nazionale, s'incaricarono in ispecial modo di predicar la pace ai cristiani. [277] Furon queste Genova e Pisa, le di cui milizie per un fortunato accidente trovandosi riunite sotto gli stendardi del giovane Corradino marchese di Monferrato, salvarono la città di Tiro nell'istante che Saladino era in procinto d'assediarla con una potente armata[257]. I Pisani sconfissero due volte la flotta musulmana, ed i Genovesi trasportarono gli ambasciatori mandati da Corrado a tutti i sovrani per implorare i loro soccorsi: e se alcuni porti di Terra santa rimasero aperti ai Cristiani, ne andarono soltanto debitori alla potente assistenza di queste due repubbliche.
Clemente III, che del 1188 succedeva a Gregorio VIII, morto dopo due mesi di papato, spedì nuovi deputati a tutti i potentati con prospero successo. I Veneziani ed il re d'Ungheria, che disputavansi la Dalmazia, fecero la pace, come ancora i re di Francia e d'Inghilterra, che ambedue promisero di andare in Oriente alla testa de' loro sudditi. Per ultimo due deputati del pontefice si presentarono [278] alla dieta di Germania preseduta da Federico a Magonza[258], e seppero coi loro sermoni toccare in modo gli uditori, che lo stesso vecchio monarca prese la croce con suo figliuolo Federico, consacrando al servizio di Dio gli ultimi anni d'una vita lungo tempo agitata dall'ambizione, ma resa gloriosa dal suo valore e dai militari talenti.
Di fatti Federico perdette la vita nella guerra santa. Egli condusse in Asia una armata di novanta mila uomini, benchè licenziasse tutti coloro che non avevano del proprio almeno tre marche d'argento per supplire alle spese del viaggio. La sola cavalleria formava un corpo di trenta mila uomini. Aveva attraversata l'Ungheria e la Bulgaria e resi vani gl'intrighi dei Greci che non potevano vederlo senza diffidenza avanzarsi nel cuore della Romania. Nell'inverno del 1189 rimase in Grecia, ed attraversò lo stretto di Gallipoli soltanto in marzo del 1190. Soggiogò in seguito il sultano d'Iconium, che gli si era opposto, e ne bruciò la capitale; e già l'armata crociata era giunta nelle campagne dell'Armenia abitata [279] dagli amici de' Cristiani, quando il 10 giugno Federico perì nel piccolo fiume chiamato Salef annegato, o tocco d'apoplessia a cagione della soverchia freddezza delle acque[259].
La morte di Federico fu compianta da tutte le città che pure furono lungo tempo esposte alla potente sua collera ed alla sua vendetta. I Lombardi e gli stessi Milanesi non potevano non ammirare il suo raro coraggio, la sua costanza nelle avversità, la sua generosità. L'intima convinzione della giustizia della sua causa l'aveva talvolta reso crudele fino alla ferocia contro coloro che gli resistevano; ma dopo la vittoria dissetava la sua vendetta coll'atterrare le insensibili mura; e per quanto fosse irritato contro i Tortonesi, i Cremaschi, i Milanesi, per quanto sangue spargesse finchè combatteva, non lordò il suo trionfo con odiosi supplicj. Malgrado il tradimento cui discese una sola [280] volta a danno degli Alessandrini, in generale fu fedele manutentore della data fede; e quando l'anno dopo la pace di Costanza fu ammesso entro le loro mura dalle città che gli avevano fatta la più ostinata guerra, non dovettero porsi in guardia contro alcun suo attentato ai privilegi da lui riconosciuti. Il suo carattere meritò ancora maggior rispetto quando si potè farne confronto con quello d'Enrico VI suo figliuolo e successore.
Questo principe, siccome aveva desiderato il padre, portava già da cinque anni le corone di Germania e d'Italia. Valoroso come il padre, non ebbe i suoi grandi talenti. Fu nella guerra brutalmente feroce, perfido in pace ed impudente mancator di fede. Ugo Falcando, che scriveva nel tempo ch'Enrico sosteneva la prima volta colle armi i suoi diritti alla corona di Sicilia, dipinse gli Allemanni come la più feroce popolazione; ma senza dubbio aveva preso dal loro re i principali tratti del carattere attribuito alla nazione. «La rabbia tedesca, dic'egli, non è repressa dagli ordini della ragione, mai non piegasi a misericordia, non è sospesa dal terrore della religione. Un innato furore agita sempre questo popolo, eccitato dalla [281] rapacità e strascinato nel delitto dalla dissolutezza[260].»
Pure l'assunzione d'Enrico al trono imperiale non influì direttamente sulla sorte delle repubbliche italiane. Trovavasi colla sposa in Germania quand'ebbe avviso della morte di Guglielmo II in Palermo[261], ed alcuni mesi dopo di quella di suo padre in Asia. Il primo non erasi determinato a maritare Costanza che per assicurare l'ordine della successione e preservare il regno da una guerra civile; onde l'aveva dichiarata sua erede, facendo che i più principali baroni de' suoi stati le giurassero fedeltà. Ma i Siciliani vedevano con orrore trasferirsi in un principe straniero la sovranità della loro isola, quando eravi un principe normanno, di non legittimi natali bensì, ma per altro illustri. Era questi Tancredi conte di Lecce, figlio d'una contessa di Lecce e di Ruggiero figliuolo primogenito del primo re di Sicilia. Il di lui matrimonio non era stato legittimato dall'approvazione paterna, nè consacrato dalla Chiesa. Pure l'unione di questo [282] principe con una dama d'alto rango, cui era stato fedele fino alla morte, non sembrava tale agli occhi de' Siciliani, che dovesse degradare il figliuolo e privarlo della sua eredità. Tancredi fu quindi chiamato a Palermo in principio del 1190 dalla nobiltà dei due regni e proclamato re[262].
Il primo pensiere d'Enrico dovette essere quello di riconquistare un regno che gli veniva tolto nell'istante in cui verificavasi il suo diritto alla successione. Per ricuperare l'eredità della sposa chiese ajuto alle repubbliche italiane e specialmente alle marittime. Ci furono conservate le parole stesse da lui dirette ai Genovesi quando pochi anni dopo bramava averli sussidiarj in una seconda spedizione: egli non faceva che ripetere le prime offerte. «Se dopo Dio, col vostro ajuto io posso ricuperare il mio regno di Sicilia, l'onore sarà mio, ma tutto vostro il profitto. Difatti io non devo soggiornarvi coi miei Tedeschi, ma vi soggiornerete voi ed i vostri discendenti, ed il regno per ogni rispetto sarà [283] piuttosto vostro che mio[263].» Oltre i privilegi e le esenzioni più vantaggiose in tutti i porti, aveva loro promessa la città di Siracusa con tutte le sue dipendenze e duecento cinquanta feudi di cavaliere in val di Noto, per guarentia delle quali promesse aveva fatto spedire in loro favore un atto autenticato col suo suggello[264]. Tanto i Genovesi che i Pisani, allestito avendo una ragguardevole flotta in soccorso di Enrico, andarono in traccia di quella di Tancredi a Castelmare di Sicilia, poi all'isola d'Ischia per attaccarla. Ma in pari tempo l'imperatore medesimo, dopo qualche effimero avvantaggio, vide la sua armata distrutta dalle malattie; onde fu costretto di ritirarsi precipitosamente, perdendo l'imperatrice, rimasta prigioniera de' suoi nemici[265]. Dopo la ritirata d'Enrico le flotte repubblicane, non credendosi più sicure in quei mari, furono costrette di abbandonarli.
Scoraggiato Enrico da queste disavventure, e forse sorpreso dalla generosità di [284] Tancredi, che senza taglia e senza condizioni gli aveva rimandata la sposa[266], non avrebbe probabilmente ricominciate così presto le ostilità: ma parve che a quest'epoca una generale sentenza di morte fosse pronunciata contro tutti i sovrani d'Italia. Il figlio primogenito di Tancredi, che il padre aveva già associato alla corona per assicurargli la successione, fu la prima vittima; e ben tosto gli tenne dietro il padre nel 1194, morto di dolore per la perdita del figlio[267]. Dopo tali avvenimenti, quantunque non incontrasse più ostacolo nell'occupare il regno di Sicilia, Enrico trattò le città sottomesse con quella severità che appena sarebbesi usata verso città conquistate colla vittoria. Egli spogliò la Sicilia de' suoi tesori che mandò in Germania, e con insolita crudeltà si rese odioso non solo ai sudditi, ma perfino alla propria sposa Costanza, che, ultima erede del sangue normanno di Sicilia, risguardava come proprie le sventure de' suoi compatriotti; onde fu comune opinione che, per metter fine a tanti furori, cospirasse contro al marito[268]. E [285] perchè i suoi alleati non fossero meglio trattati de' suoi sudditi e de' suoi parenti, mancò a tutte le promesse fatte ai Genovesi, annullando tutti i privilegi di cui godevano nei porti del regno di Napoli. Nè di ciò contento, volle pur rendersi esoso agl'Italiani durante il breve soggiorno che fece due volte nel loro paese[269]; se non che nella seconda sua spedizione morì inaspettatamente nell'assedio d'un castello ribellatosi contro di lui[270]. Morì pure tre anni dopo papa Celestino III che, durante il suo regno di sett'anni, ebbe con Enrico diverse contese[271]. Anche Costanza, che dopo la morte del marito aveva prese le redini del regno, lo raggiunse un anno dopo nel sepolcro, lasciando unico erede delle case di Svevia e di Sicilia un fanciullo di quattr'anni già incoronato sotto nome [286] di Federico II, ma sprovveduto d'amici e circondato di rivali[272].
Una sola guerra di qualche importanza disturbò l'alta Lombardia durante il regno d'Enrico VI, e fu quella delle repubbliche di Brescia e di Cremona. Avevano i Bresciani accordata la loro protezione a molti conti del territorio di Bergamo e con un trattato fatto del 1191 avevano riunito al territorio di Brescia i castelli di Merlo, Calepio e Sarnico. I Bergamaschi spedirono deputati ai Cremonesi loro alleati partecipando loro la ricevuta ingiuria, ed in pari tempo ricordando a' medesimi che ancor eglino quand'ebbero a dolersi de' Bresciani rispetto al corso ed alla navigazione dell'Oglio, non ottennero giustizia da questa repubblica; e perciò gli eccitavano a prendere le armi contro l'ambiziosa città. Prima però di dichiarar la guerra, cercarono di rendersi più forti con nuove alleanze, e mandarono deputati alle città che potevano prender parte al loro malcontento, procurando di guadagnarle sia con eloquenti [287] lagnanze, ora offrendo soccorsi ai principali magistrati. Con tali mezzi ottennero di unire alla loro lega Pavia, Lodi, Como, Parma, Ferrara, Regio, Bologna, Mantova, Verona, Piacenza e Modena. I primi ad aprire la campagna furono i Bergamaschi, assediando in sul cominciar di luglio i castelli di Telgato e di Paulusco. I Cremonesi avanzaronsi pochi giorni dopo con tutti i confederati, e dopo avere il 7 luglio gettato un ponte sull'Oglio, entrarono col Carroccio nel territorio bresciano. Un valoroso capitano bresciano, Biatta di Palazzo, comandava la guarnigione, composta di pochi ma bravi soldati, del castello di Rudiano posto lungo la strada dell'armata nemica. I Milanesi soli alleati di Brescia avevano fatte avanzare le loro truppe fino alle rive del Serio.
I Bresciani avanti l'arrivo dei loro alleati vollero impedire il devastamento del loro territorio, e sortirono contro ai nemici caricandoli vigorosamente. Il loro urto fu ricevuto con intrepidezza almeno uguale, onde i Bresciani sopraffatti dalla superiorità del numero, e non vedendo arrivare il promesso soccorso de' Milanesi, incominciavano a perdere coraggio, quando [288] Biatta di Palazzo, sortendo dal castello di Rudiano colla sua poca truppa, le fece gridare ad alta voce: le nostre spie ci hanno ben serviti, tutto si avverò, viva la milizia di Rudiano! Prima dell'invenzione della presente romorosa artiglieria, e quando i soldati battevansi corpo a corpo, i gridi d'un'armata non erano senza effetto sull'armata nemica. I Bresciani, incoraggiati da questo inaspettato soccorso, ripreser fiato; i Cremonesi si credettero traditi, ed in quel primo momento di confusione, caricati avanti ed alle spalle, furono agevolmente sgominati e posti in piena ritirata[273]. I fuggitivi affollandosi sul ponte volante, fatto il precedente giorno, lo fecero crollare col loro peso e cadere nell'Oglio, ove s'affogarono tutti coloro che l'occupavano allorchè cadde. Questo funesto accidente accrebbe il terrore dell'armata in modo, che i soldati, malgrado il peso dell'armatura, gettavansi nel fiume per attraversarlo a [289] nuoto, ma vi rimasero tutti affogati nella melma, o via trasportati dalla violenza della corrente; mentre perivano sotto le spade nemiche gli altri che non si esposero al pericolo del fiume[274]. Pochi salvaronsi di così bella armata, che si credette aver perduti dieci mila uomini. Questa battaglia, ed il luogo in cui si fece si chiamarono negli annali lombardi mala morte. Gli effetti di tale disfatta non influirono per altro sulla sorte dei vinti come poteva temersi, perchè Enrico VI, ritornando allora dalla sua prima impresa della Puglia, volle che le città nemiche si rappacificassero, e si rilasciassero vicendevolmente i prigionieri.
A questa guerra, ed all'altra che si fecero con quasi ugual furore Parma e Piacenza[275], tennero dietro alcune mal conosciute liti fra i Comuni ed i gentiluomini del distretto, ma che forse ebbero [290] più importanti conseguenze, perchè furono cagione di fare successivamente cadere tutte le repubbliche dell'Italia settentrionale, per un tempo più o meno lungo, sotto il giogo di alcuni signori che crudelmente abusarono dell'usurpato potere. Dobbiamo perciò risalire all'origine di questi usurpi nella provincia della Marca trivigiana o veneziana, di dove il contagio parve che si diffondesse ancora nelle altre.
Questa provincia è in parte montuosa, e nei secoli di mezzo l'ingrandimento o il decadimento della nobiltà parve cagionata dalla natura del paese in cui abitava. I gentiluomini trovavansi dovunque esposti ugualmente alla gelosia delle città, ma quelli che abitavano nella parte piana, non potendo giovarsi della natura del suolo per fortificarsi, furono forzati di sottomettersi più presto alle repubbliche, domandando il diritto di cittadinanza, e formando una classe separata, è vero, ma però di cittadini. Altronde quelli che trovavansi nelle montagne, essendo lontani dalle repubbliche, divisero i loro interessi dagli altri che vivevano nelle città, e si disposero a mantenere indipendenti i piccoli loro principati. Alcuni sopravvissero agli ultimi comuni [291] liberi, come i Malaspina che conservarono in Lunigiana la loro sovranità fino agli ultimi anni del decorso secolo, e come i feudi imperiali nelle alpi liguri che furono anche più tardi proprietà d'una nobiltà immediata, rimasta indipendente[276]. Nello stesso modo i gentiluomini degli Appennini chiudevano le repubbliche toscane entro una linea di piccoli principati, che Fiorenza soggiogò soltanto poichè giunta fu al suo maggior grado di potenza. Ma nella Marca trivigiana i Monti euganei e le basi delle Alpi, prolungandosi in mezzo alle fertili pianure ed alle più floride città, presentavano montagnuole rese forti dalla natura, che i nobili non tardarono a coprire di castelli e di ridotti fortissimi. Colà mantenendosi in tutto il loro splendore, e resi potenti dal numero de' vassalli e dalle [292] accumulate ricchezze, conservarono tra le repubbliche della Marca un'influenza che non avevano i nobili d'altri paesi, e si appropriarono il godimento e l'elezione di tutte le magistrature, non lasciando tempo al popolo di misurare le proprie forze e di scuotere il giogo.
Non perchè fossero vinti e sottomessi agli ordini delle repubbliche, ma solo per approfittare de' servigi de' loro subalterni, e per aprire alla loro ambizione una più vasta carriera, i nobili vennero a stabilirsi nelle città della Venezia. Perciò fissandovi la loro dimora non vollero esporsi alle tumultuose passioni di un popolo incostante, e fabbricandosi case in seno alle città diedero loro, se non la forma, la solidità delle fortezze. Grosse mura porte e barricate di ferro, aperture assai più appropriate alla difesa che al comodo assicuravano al nobile nella propria casa un'assoluta indipendenza in mezzo ad una città nemica. E quand'ancora queste prime difese venivano superate, una torre quadrata, formata di enormi masse di pietra, offriva in ogni casa nobile un impenetrabile asilo, che non poteva forzarsi senza un lungo assedio; poichè sull'alto [293] della torre conservavansi abbondanti provvisioni, e le armi necessarie alla difesa[277][278].
La potenza de' gentiluomini in tutte le repubbliche della Marca non avrebbe crollato giammai, se fossero rimasti uniti; ma l'assoluta indipendenza di cui godevano, incoraggiando ognuno ad appagare tutte le passioni, fece nascere fra di loro le più sanguinose liti. Fin verso la metà del XII secolo niuno storico si prese cura di tramandare alle posterità gli avvenimenti di quella contrada; ma dopo tale epoca molti sono gli scrittori che ci lasciarono d'ogni cosa racconti minutamente circostanziati. Sappiamo da questi che alla morte d'Enrico VI tenevansi vive in ogni città le antiche fazioni, e che, se in alcune repubbliche regnava la pace, ciò dovevasi alle pattuite divisioni delle pubbliche funzioni e di tutte le dignità dello stato tra le famiglie rivali.
[294] Quasi tutte le repubbliche Italiane avevano abolita la magistratura consolare per rimpiazzarla con quella dei podestà, quali avevali istituiti Federico Barbarossa. Ogni città chiamava per un determinato tempo un capo straniero, gentiluomo e militare, che seco conduceva arcieri e soldati, ed era depositario non meno del potere giudiziario, che della forza pubblica cui rivolgeva, a seconda del bisogno, contro gl'interni nemici dell'ordine, e contro quelli dello stato.
Benchè la plebe avesse una parte più immediata nell'elezione de' consoli che in quella dei podestà, approvò questa innovazione, e la trovò utile, perchè non richiedevasi meno d'una forza militare per metter freno alle turbolenti fazioni de' nobili.
Quando il podestà veniva informato di qualche pubblico delitto, faceva appendere alle finestre del palazzo il gonfalone di giustizia; e facendo colle trombette avvisare tutti i cittadini di prendere le armi, usciva egli stesso a cavallo dalla sua residenza, circondato dalle sue guardie e seguito dal popolo. La casa del colpevole era all'istante assediata, e venuta in mano della forza pubblica [295] si spianava fino alle fondamenta. In questa esecuzione, quantunque talora si punissero i colpevoli coll'ultimo supplicio, non conservavansi altrimenti le forme del foro, nè si aveva verun riguardo alla libertà d'una ben ordinata repubblica. In mezzo ad uomini indipendenti e quasi sempre in guerra gli uni contro gli altri, lo stesso capo dello stato moveva guerra ai cittadini ribelli, e coll'apparato della sedizione intratteneva nella repubblica una tal quale subordinazione. Ognuno ripromettevasi la sua libertà dalla propria energia e non chiedeva al governo che la repressione d'un grandissimo disordine.
Non erasi ancora supposto che un podestà potesse usurparsi il supremo potere, e perciò non si era cercato che di porsi in guardia contro la loro parzialità. Per prevenirla, ogni repubblica della Marca trivigiana aveva divisa l'elezione tra i due partiti che dominavano in ogni città. A Vicenza la nobiltà formava due fazioni, i conti di Vicenza, ed i signori del Vivario. Ogni fazione nominava il suo commissario, ed i due commissarj riuniti eleggevano ogni anno il podestà. A Verona le due famiglie di Montecchio, o Monticulo, e di S. Bonifazio, [296] seguite dal rimanente della nobiltà, eransi ugualmente diviso il diritto d'eleggere il podestà[279]. Altrettanto facevano in Ferrara le fazioni dei Salinguerra e degli Adelardi equilibrate coll'attributo della stessa prerogativa.
Non era supponibile che questa divisione di potere elettivo permettesse lunga pace a repubbliche male ordinate che contavano tra i loro cittadini i nobili, sovrani nei proprj castelli e quasi di forze uguali allo stato di cui erano membri, ed avvezzi a sbramare con aperto disprezzo dell'ordine pubblico tutte le loro passioni. Prima che terminasse il XII secolo la violenza d'alcuni gentiluomini risvegliò la sopita animosità delle fazioni, e riaccese la guerra in tutta la Venezia.
Sotto il regno di Corrado II un gentiluomo tedesco, chiamato Ezzelino, aveva accompagnato quest'imperatore in Italia con un solo cavallo, ed in ricompensa [297] di questi servigi aveva da lui ricevuta la terra d'Onara e di Romano nella Marca trivigiana[280]. A questo primo fondatore d'una potente casa, resa famosa dai delitti, era succeduto un Alberico, ed in seguito un Ezzelino che pure porta il nome del primo, e viene soprannominato il balbo. Avevano questi signori accresciuto assai il patrimonio della loro casa coll'acquisto di Bassano, di Marostica, e di altre terre poste al nord di Vicenza e di Padova, in guisa che il loro feudo formava già un piccolo principato, non inferiore di forze alle repubbliche confinanti; e siccome le interne fazioni delle città ambivano l'alleanza delle fazioni imperiali, i signori da Romano erano omai risguardati in tutta la Venezia quai capi del partito ghibellino.
Ezzelino il balbo e Tisolino di Campo Sampiero, il primo nobile vicentino, padovano l'altro, erano congiunti d'amicizia e di alleanza, avendo il secondo sposata una figlia d'Ezzelino, da cui [298] aveva avuto più figli, de' quali alcuni erano già usciti di fanciullezza. Accadde che al primogenito di costoro si offrisse in matrimonio l'erede d'una potente famiglia padovana chiamata Cecilia, che Manfredi, ricco signore d'Abano, aveva, morendo, lasciata orfana. Tisolino volle, prima di conchiudere tali nozze, avere l'assenso dell'amico e del suocero Ezzelino; il quale trovando che questo accasamento utilissimo sarebbe al proprio figliuolo Ezzelino II, senza lasciar travedere il suo pensamento al genero, si addirizzò segretamente ai tutori della donzella, che vinti dall'oro, rotta ogni trattativa con Tisolino, l'accordarono al signore da Romano; il quale la fece onorevolmente tradurre nel suo castello di Bassano e la maritò al figliuolo.
Questo tradimento eccitò la più viva indignazione nella famiglia di Campo Sampiero, che giurò di farne vendetta, nè dovette lungo tempo aspettarne l'opportunità. Alcuni mesi dopo il suo matrimonio, la sposa d'Ezzelino recavasi a vedere i suoi poderi nello stato di Padova oltre la Brenta con un accompagnamento più magnifico che forte. Gherardo figliuolo di Tisolino che doveva essere suo sposo e che invece era diventato [299] suo nipote, postosi in agguato presso al castello di s. Andrea, la tolse alle sue genti e la disonorò. Cecilia, tornata a Bassano, non celò al marito la sua sventura; perchè ripudiata, passò in seguito a seconde nozze con un nobile veneziano[281]. Ma le due famiglie, irritate dai vicendevoli insulti, giuraronsi un odio che si propagò di padre in figlio e che non s'estinse che col sangue.
Erasi intanto accresciuta la potenza d'Ezzelino II e per questo matrimonio e per l'altro contratto dopo il divorzio. Alleato delle repubbliche di Verona e di Padova, ebbe in breve bisogno dei loro soccorsi; perciocchè essendo stato del 1194 nominato podestà di Vicenza uno de' suoi nemici, questi lo fece esiliare con tutta la sua famiglia e tutti i suoi partigiani indicati col nome di Vivario. Prima d'assoggettarsi a tale sentenza, cercò di difendersi incendiando le più vicine case; e gran parte della città fu [300] in questo ammutinamento consunta dalle fiamme. Tali furono le prime scene di disordine e di sangue ch'ebbe sotto gli occhi appena nato il figlio del signore di Romano, il feroce Ezzelino[282].
Non era per i signori da Romano troppo grave punizione l'esiglio da Vicenza. Ritiratisi a Bassano in mezzo ai loro sudditi, si circondavano dei loro partigiani ugualmente perseguitati, ma sprovveduti delle loro risorse; e perciò costretti, approfittando delle beneficenze di così potente famiglia, di rendersi, di uguali che erano, loro mercenarj. L'esiglio non poteva durar sempre, e le disgrazie non meno che le prosperità accrescevano il credito dei Romano presso la repubblica. I Veronesi interpostisi per rimettere la pace in Vicenza, ottennero il richiamo dei signori di Romano e de' suoi aderenti, ed autorizzarono le due fazioni a nominare un podestà[283]. Così strana divisione dell'autorità giudiziaria affidata a passioni nemiche, non era senza esempio, e, ciò che più è notabile, praticato [301] con felice successo pel mantenimento della pace: senza dubbio per la ragione medesima, che due armate nemiche comandate da esperti capitani possono stare a fronte lungo tempo senza combattersi.
Del 1197 i Vicentini elessero ancora un podestà contrario alla fazione Ezzelina; ed allora non solo la comune esiliò un'altra volta questo capo di parte, ma gli dichiarò guerra e mandò le sue milizie ad assediare Marostica[284]. I signori di Romano, situati tra il territorio di tre repubbliche, erano in libertà di allearsi con quella che credessero più utile ai loro interessi. Ezzelino impegnò ai Padovani per una considerabile somma la terra d'Onara posta nella loro diocesi, e stipulò con loro un atto di alleanza offensiva e difensiva, in virtù della quale i suoi nuovi alleati attaccarono i Vicentini innanzi a Carmignano e fecero loro due mila prigionieri[285]. Ciò accadde nel 1198, onde i Vicentini, chiamati i Veronesi in loro soccorso, avanzaronsi uniti nella campagna padovana per guastarla, spingendo [302] le loro avanguardie fin sotto le mura di Padova, a segno che si videro volare sulla città le scintille degli incendj delle vicine case. Di che spaventati i Padovani, rilasciarono tutti i prigionieri, senza il consenso d'Ezzelino, ed ebbero a tale condizione la pace. Ma questi approfittò di tale pretesto per separarsi dalla cadente loro fortuna. Offerse ai Vicentini di porsi per le loro contese in arbitrio de' Veronesi; e diede loro in ostaggio suo figlio, ed i più forti castelli Bassano ed Angarani: colla quale assoluta confidenza si conciliò in modo l'affetto loro, che al podestà di Verona riuscì facile l'ottenergli la pace dalla repubblica di Vicenza e da tutta la fazione guelfa, facendogli restituire i castelli ed il figliuolo. I Padovani non tardarono a punirlo dell'essersi riconciliato coi loro nemici, e confiscarono a loro profitto la terra d'Onara di cui trovavansi in possesso, e che altra volta aveva dato il suo nome alla casa da Romano[286].
Mentre l'innalzamento d'una famiglia che doveva dominare tutto il partito ghibellino, [303] dava motivo a frequenti guerre nell'alta Venezia, al mezzogiorno di questa provincia la crescente potenza d'un'altra casa, posta alla testa de' Guelfi, veniva accompagnata da sommosse e da civili discordie. Fra i territorj di Padova, di Ferrara, di Verona e di Vicenza possedeva il marchese d'Este le borgate d'Este, Montagnana, Badia, ed il Polesine di Rovigo. Alcune sono poste sopra colline isolate che soprastanno alle ricche pianure della Venezia, ed il Polesine è difeso dal corso di due gran fiumi, l'Adige ed il Po. Il marchese d'Este erasi giovato della vantaggiosa situazione delle sue terre per conservarsi indipendente in mezzo alle potenti repubbliche che lo circondavano; erasi inoltre guadagnato l'amore de' suoi vassalli con un giusto e moderato governo; ed aveva loro permesso di partecipare del favore d'un'amministrazione repubblicana, eleggendosi i loro consoli[287]. La casa d'Este alleata di quella de' Guelfi duchi di Baviera e Sassonia, [304] poi di Brunswik, sempre rivale della casa di Svevia, aveva già dato prove del suo attaccamento alla causa dei papi in occasione delle vertenze loro con Federico Barbarossa, quand'ella fu impensatamente chiamata all'eredità d'un altro capo dello stesso partito.
Guglielmo Marchesella degli Adelardi capo della parte guelfa in Ferrara, quello stesso che abbiamo veduto salvare Ancona, poco dopo questa gloriosa impresa, ebbe la sventura di vedere successivamente perire gli ultimi eredi maschi di sua famiglia, suo fratello con tutti i suoi figliuoli. Di questo fratello sopravvivea però una fanciulla in ancor tenera età chiamata Marchesella: egli lasciolla erede di tutti i suoi averi, sostituendole, in caso che morisse senza prole, i figliuoli di sua sorella. Credette poscia che le sventure di sua famiglia potrebbero consolidare almeno la pace della patria, riavvicinando con istretti vincoli i capi delle contrarie parti. Salinguerra, figliuolo di Torrello, era allora capo dei Ghibellini di Ferrara; e Guglielmo non contento di destinargli sposa sua nipote, allora in età di sette anni, la pose nelle sue mani, lasciando allo sposo la cura della di lei [305] educazione; poi spirò[288]. Ma i Guelfi non acconsentirono che l'unico rampollo d'un sangue loro tanto caro si dasse in balìa ad una famiglia nemica: nè sapendo risolversi ad affezionarsi a coloro, contro i quali eransi lungo tempo battuti, trovaron modo di rapire all'improvviso Marchesella dalla casa de' Salinguerra, e di condurla in quella dei marchesi d'Este, offrendola in isposa ad Obizzo d'Este, cui diedero anticipatamente il possesso dei beni di Adelardo. Allora fu che la famiglia estense si stabilì in Ferrara e che accettò la prima volta i diritti di cittadinanza in un comune: ma il favore de' Guelfi di Ferrara giovò assai più alla sua grandezza, che la passata indipendenza. Dopo tal epoca la casa d'Este fu così universalmente riconosciuta capo della parte guelfa, che in tutta la Venezia si chiamò fazione del marchese.
L'interesse particolare taceva in faccia allo spirito di partito. Marchesella morì avanti che si effettuasse il suo matrimonio, ma non pertanto i nipoti di Guglielmo, [306] che le erano stati sostituiti, non riclamarono l'eredità di Adelardo per timore che, spogliando la casa d'Este di tanta parte delle sue ricchezze, non s'allontanassero da Ferrara con gravissimo pregiudizio della parte guelfa. Dall'altro canto i Salinguerra avevano vivamente sentita l'ingiuria loro fatta; e dal 1180 in cui fu loro tolta la giovanetta sposa, fino al 1220, mantennero viva la guerra civile entro le mura di Ferrara. Dieci volte in tale periodo di tempo una parte cacciò l'altra di città, dieci volte le proprietà dei vinti furono preda dei vincitori e le case distrutte fino ai fondamenti[289].
Mentre la libertà delle repubbliche della Venezia, o Marca trivigiana, veniva così crudelmente compromessa dalle torbide passioni dei loro gentiluomini, ed il loro governo declinava in oligarchia irregolare, le repubbliche transpadane di Bologna, Modena, Reggio, Parma e [307] Piacenza consolidavano ogni giorno più la loro indipendenza ed acquistavano una assoluta superiorità sulla nobiltà castellana del loro territorio. Negli annali di Reggio, che di quest'epoca sono più circostanziati di quelli delle altre città, trovasi ogni anno accennato alcun trattato fra qualche gentiluomo ed il podestà, con cui sottomettonsi castelli alla repubblica[290]. Il gentiluomo obbligavasi con simile atto a consegnare la sua terra alla città di Reggio, a vivere almeno due mesi in città, adempiendo a tutti i doveri di cittadino, sia coll'ubbidire ai magistrati della repubblica, che contribuendo con tutte le forze alla difesa delle persone, dei diritti e delle proprietà de' suoi nuovi concittadini. Gli annali di Bologna contengono un ancora maggior numero di somiglianti sommissioni, ed oramai queste repubbliche non avevano più [308] nel proprio territorio gentiluomini da loro indipendenti. I loro stati confinavano tutti con quelli di altre repubbliche, ed i nobili associati alla sorte loro, invece d'esser rivali, formavano un nuovo ordine di cittadini. Vero è che quest'ordine addossandosi le prerogative onerose a tutta la nazione, eccitava già la gelosia del popolo. I Bolognesi avevano nel 1192 nominato il proprio vescovo Gerardo de' Scannabecchi in pretore ossia podestà, il quale prelato li governò nel corso di un anno con tanta saviezza e moderazione, che tutte le parti ne rimasero egualmente soddisfatte[291]. Il susseguente [309] anno fu perciò riconfermato nell'impiego; del che i nobili non tardarono a dolersene, dicendo che i soli plebei erano da [310] lui favoriti, e che, per poco che ancora durasse il suo governo, l'autorità dei gentiluomini riducevasi a nulla[292]. Prese perciò le armi, lo cacciarono fuori della città, nominando in sua vece due consoli. Questo primo segno della loro gelosia, questa prima chiamata alla decisione delle armi sui diritti dei due ordini rivali poteva essere per i nobili, che non erano i più forti, di troppo pericoloso esempio. Poteva il popolo a vicenda riacquistare coi mezzi medesimi quell'influenza che di presente gli si toglieva, poteva cacciare i nobili stessi dalla città; ed infatti quest'esempio fu cagione che in un'altra repubblica si facesse ciò che i Bolognesi potevano fare.
Il governo di Brescia era tutt'affatto nelle mani dei nobili, che avevano successivamente strascinato il comune in varie guerre contro le vicine città di Cremona e di Bergamo. Istigati dai Milanesi, questi nobili vollero di nuovo, l'anno 1200, fargli prendere le armi contro i Bergamaschi; ma il popolo, spossato da frequenti guerre, si rifiutò di assecondare i loro ambiziosi pensieri senza suo profitto, [311] ed invece prese le armi per cacciare dalla città coloro che volevano costringerli a servire; e dopo un sanguinoso combattimento, dato in mezzo alle strade, gli obbligarono a fuggire. Rifugiatisi nel territorio cremonese i gentiluomini bresciani formarono tra di loro una compagnia militare, cui diedero il nome di società di san Fausto. I plebei dal canto loro formarono pure una compagnia chiamata Bruzella[293]: il qual nome di Bruzella o Brighella si conservò fino a' dì nostri, ed un plebeo bresciano insolente coraggioso e furbo è pure una delle mascare del teatro italiano. I nobili si collegarono colle città di Cremona, Bergamo e Mantova, già da molto tempo nemiche della loro patria. D'altra parte il popolo si unì ai Veronesi, e si continuò la guerra tra loro con estremo accanimento. Anche in Padova ebbe luogo lo stesso anno una quasi simile rivoluzione, di cui la cronaca di quella città non ci dà che la seguente notizia. «L'anno 1200, vi si dice, i plebei tolsero ai magistrati l'amministrazione della città e presero essi soli le [312] redini del governo[294].» E per tal modo le rivoluzioni dell'ultimo anno del secolo XII parvero presagire quelle che nel corso di tutto il secolo XIII sconvolsero l'Italia.
Pontificato di Innocenzo III. — Stabilimento del potere temporale della Chiesa. — Abbassamento della fazione ghibellina.
1197 = 1216.
La quasi simultanea morte di tutti i sovrani d'Italia lasciò nel dodicesimo secolo libero corso all'ambizione di uno de' loro successori, il pontefice Innocenzo III. Questo papa fu uno de' fondatori della temporale monarchia della Chiesa; monarchia quattro volte ristabilita dai pontefici, perchè quattro volte, malgrado l'appoggio delle opinioni religiose, i papi lasciaronsi spogliare da quello stesso poter militare ch'essi avevano istituito per propria difesa. I papi sollevati a tanta potenza da Carlo Magno e dai suoi successori, furono chiamati nell'undecimo, tredicesimo e sedicesimo secolo a nuova tenzone per ricuperare la perduta dominazione: Gregorio VII, Innocenzo III e Giulio II, sono gli uomini che in queste tre diverse epoche riconquistarono l'autorità temporale e diedero uno stato alla [314] Chiesa. Lo stabilimento d'una potenza di primo ordine, che spesso cercò l'alleanza delle città libere, che talvolta le oppresse e che sempre s'immischiò in tutte le loro rivoluzioni, deve formare una parte essenziale della storia delle repubbliche italiane.
Tra i papi e gl'imperatori doveva mantenersi una costante opposizione, necessaria conseguenza del supremo rango di questi due capi del cristianesimo, delle loro prerogative, delle pretensioni loro. Potevano ben segnare fra di loro alcune tregue, ma sincera pace non mai, finchè i papi non rinunciavano al dominio su tutti i troni della terra, finchè gl'imperatori non si spogliavano de' più importanti diritti. Quando la lite rimaneva sopita, non era tale tranquillità che l'effetto della soverchia preponderanza che un partito acquistava sull'altro; l'equilibrio riapriva sempre la guerra.
Dopo la pace di Costanza il partito imperiale aveva ricuperata in Italia grandissima preponderanza. Alla potenza ed alla gloria di Federico I aggiungevasi il matrimonio di suo figlio coll'erede di Napoli, che privava il pontefice d'un antico e fedele alleato, ed accresceva le forze del suo avversario. Lo stato ecclesiastico [315] circondato e diviso dalle possessioni del monarca trovavasi debole ed incapace di resistergli, per cui i papi da Lucio III fino a Celestino III trovaronsi sforzati di coprire con apparente moderazione la debolezza e dipendenza loro. L'ultimo specialmente dovette opporsi agli attacchi d'Enrico VI, che parevano compromettere la sua esistenza; e per quanto fosse grande l'importanza della disputa ch'egli ebbe con questo monarca, non ardì mai di far causa comune coi suoi nemici, o d'impiegare contro di lui le armi spirituali, di cui i suoi predecessori avevano fatto così frequente abuso[295]. Intanto Enrico aveva in ogni maniera ristretti i limiti, o, a meglio dire, le pretensioni del papa. Dopo le investiture accordate ai Normanni, la santa sede veniva considerata come abituale sovrana del regno di Napoli; ma a fronte di ciò, Enrico, per impadronirsi di quel [316] regno, non erasi giovato che del suo diritto ereditario, senza curarsi dell'assenso del papa. Egli aveva continuato a godere i beni della contessa Matilde malgrado le rimostranze della santa sede, e gli aveva accordati in feudo ai suoi parenti, o ai suoi generali; aveva richiamati in vigore gli antichi diritti dell'Impero sulle province vicine a Roma, il ducato di Spoleti, la Marca d'Ancona e la Romagna; e non erasi fatto carico della pretesa sovranità de' papi su queste province; finalmente aveva perfino entro la stessa Roma doppiamente ristretta l'autorità ecclesiastica e coi poteri ch'egli erasi riservati e con quelli che accordati aveva alle istanze del governo repubblicano.
Enrico VI e Celestino III morirono l'anno 1197, e la loro morte cambiò sì fattamente i rapporti e le proporzioni delle forze dei due partiti, che il pontefice ebbe la volta sua per ispogliare di alcuni diritti l'autorità reale senza incontrare resistenza e senza che i suoi avversarj riclamassero contro la sua ambizione. Immediatamente dopo la morte di Celestino, Innocenzo III, nobile romano, conte di Signa, fu nella fresca età di trentasett'anni nominato papa. Egli [317] portava sulla santa sede una profonda conoscenza degl'interessi della sua patria e di quelli della Chiesa, il coraggio e l'ambizione d'un giovane gentiluomo, e la fama di santità e di sapere che gli avevano procacciato la regolarità dei costumi ed alcune opere a que' tempi assai pregiate[296]. Dall'altro canto Federico II, il successore d'Enrico, era ancora fanciullo di due anni, la di cui madre Costanza in quell'anno che sopravvisse al marito, erasi data al partito del papa per averne il suo appoggio; divideva co' suoi sudditi l'odio concepito contro i Tedeschi ministri della tirannide del marito, ed aveva dichiarato nemico del suo regno il generale Marcovaldo allora duca di Ravenna e marchese d'Ancona. Poi quando venne a morte, scelse Innocenzo III per tutore del figliuolo e per amministratore del suo regno; e come potesse temere che il papa si rifiutasse a tale ufficio, gli assegnava un canone per allettarlo ad incaricarsene.
Enrico VI aveva prima di morire ottenuto dai principi di Germania l'elezione del figliuolo Federico I in re dei Romani, onde assicurargli con tale atto la successione all'Impero; pure, morto Enrico, niuno si prese cura dei diritti che poteva aver acquistati all'Impero questo fanciullo; e la corona non fu contrastata che tra due pretendenti, Filippo, duca di Svevia, il maggiore de' fratelli d'Enrico VI, ed Ottone allora duca d'Aquitania, figliuolo d'Enrico il leone, già duca di Baviera e Sassonia[297]. Filippo Augusto, re di Francia, si dichiarò a favore del primo; e Riccardo cuor di leone, re d'Inghilterra, per l'altro; ed amendue sostennero il loro protetto con tutti i loro tesori e tutte le loro forze, sicchè l'uno e l'altro furono dichiarati imperatori dal proprio partito; Filippo di Svevia dal ghibellino, ed Ottone dal guelfo; ciò che accrebbe a [319] dismisura l'animosità delle due parti; le quali riputando legittima l'elezione dei proprio capo, presero a difenderla con lunghe e sanguinose guerre, che tutte occuparono le forze della Germania. Finchè queste durarono, i diritti degl'imperatori in Italia non ebbero chi li difendesse.
Innocenzo non tardò a conoscere i vantaggi della presente sua situazione, e tutto si ripromise dal suo coraggio in così favorevoli circostanze.
Le prime sue cure furono rivolte all'interna amministrazione di Roma: sotto il pontificato di Celestino III, l'autorità del senato era stata dai papi definitivamente riconosciuta e fissatane la costituzione con un atto da noi altrove indicato[298]; ma i Romani non ebbero appena ottenuto il privilegio per cui avevano tanto tempo combattuto, che se ne mostrarono disgustati, e vollero dopo un anno imitare ciò che vedevano praticarsi dalle altre città: soppressero allora l'autorità nazionale del loro nuovo consiglio, per surrogargli un magistrato straniero e militare, che sapesse con maggior vigore [320] frenare le sediziose passioni de' nobili: diedero a questo magistrato il titolo di senatore; e lo collocarono nel palazzo medesimo che occupava il senato in Campidoglio, attribuendogli tutti i poteri del soppresso corpo[299]. Benedetto Carissimo fu il primo senatore di Roma, cui succedette Giovanni Capoccio; e ne' quattro anni della loro amministrazione, i Romani s'impadronirono della città di Tusculano, lungo tempo oggetto della loro gelosia, e la distrussero interamente[300]; sottomisero tutta la campagna marittima e tutta la Sabina, e costrinsero le piccole città di queste due province a ricevere i giudici ed i podestà dalle loro mani. Ma quando fu creato papa Innocenzo, il popolo incominciava ad essere geloso dell'autorità sovrana esercitata sopra di [321] lui da un magistrato straniero, ed aveva chiesta al nuovo pontefice una distribuzione di danaro. Era questa come prezzo del giuramento d'ubbidienza a san Pietro, che il popolo era contento di dare in occasione di una nuova elezione. Innocenzo accondiscese alla domanda, ma rese il giuramento più obbligatorio di quello che si usava in uguale circostanza, ed approfittando della momentanea avidità de' cittadini, fece nominare un nuovo senatore scelto tra le persone a lui ben affette[301]; obbligò il prefetto della città, ufficiale dell'imperatore, a prestargli vassallaggio, ed a ricevere da lui una nuova investitura della sua carica; finalmente scacciò da tutte le città del patrimonio di san Pietro i giudici e podestà nominati dal popolo, nominando altri in loro luogo; e per tal modo s'arrogò la sovranità di una provincia conquistata colle armi de' Romani.
Durante il regno d'Innocenzo, l'amministrazione di Roma provò qualche altra rivoluzione: i Romani alternarono a vicenda il governo d'un solo e di più senatori, come i loro antenati avevano alternato tra i consoli ed i tribuni [322] dei soldati; ma del 1207 fissarono definitivamente colla mediazione d'Innocenzo quegli attributi del senatore, che fino all'età nostra sonosi con leggerissime modificazioni conservati[302]. Supremo capo della giustizia, della polizia e del poter militare, aveva egli solo la rappresentanza del governo; ed uguale ai podestà delle altre città, altro non mancavagli per diventar tiranno, che maggior durata nell'impiego e l'appoggio di una delle due fazioni, cui la sua nascita rendevalo quasi sempre straniero. Intanto il pontefice occupavasi della compilazione del giuramento che questo primo magistrato doveva prestare in sue mani; nel quale, per non disgustare i Romani, non si faceva alcun cenno di quella sovranità cui sordamente aspirava, ma che ben sapeva che il popolo non avrebbe voluto riconoscere; e altresì non permise che tale giuramento potesse allegarsi in pregiudizio de' suoi diritti[303]. Il senatore s'obbligò adunque soltanto verso il papa [323] «a non attentare nè coi fatti, nè coi consigli alla di lui vita o all'amputazione delle sue membra, promettevagli di manifestargli le trame contro di lui ordite, di cui avesse conoscenza, di mantenerlo con tutte le sue forze in possesso del papato e dei diritti regali che si trovassero effettivamente appartenere a san Pietro; finalmente di provvedere alla sicurezza de' cardinali e delle loro famiglie in tutte le parti di Roma e della sua giurisdizione.»
Enrico VI aveva ristabiliti molti de' principali feudi dell'Impero in Italia: aveva dato a Marcovaldo, suo grande siniscalco, il marchesato d'Ancona ed il contado di Molise; a Filippo, duca di Svevia, suo fratello, cui aveva fatto sposare la vedova del figlio del re Tancredi, figlia dell'imperator Greco[304], aveva accordato il marchesato di Toscana, ed a Corrado di Svevia, soprannominato mosca in cervello, il marchesato di Spoleti. Porzione di queste province trovavasi compresa nella pretesa donazione di Carlo Magno, un'altra nell'eredità della contessa Matilde; e questi due titoli si fortificavano [324] l'un l'altro, quantunque fino allora non avessero procurato alla santa sede la pretesa sovranità. Per far valere le sue ragioni, Innocenzo approfittò della debolezza del partito imperiale in Italia, ed imitando l'esempio dell'antica Roma che commetteva ai consoli la conquista delle province, mandò due cardinali preti a sottomettere la Marca, e due altri prelati a soggiogare il duca di Spoleti[305].
I signori tedeschi che da Enrico VI ricevettero questi feudi, avevano talmente abusato del loro potere, che i loro vassalli erano tutti proclivi alla ribellione. Le città che trovavansi comprese nei loro governi, più piccole e più deboli di quelle di Lombardia, non avevano ancora osato di aspirare all'indipendenza; e la loro amministrazione municipale era ancora presso a poco quale si formò nel decimo secolo, onde lusingavansi di trovare più libertà sotto il governo della Chiesa, che sotto il dominio di soldati stranieri; e tutte aprirono le porte ai prelati spediti a ricevere il loro giuramento di fedeltà. Nella prima provincia, senza per altro rinunciare ai loro governi municipali, riconobbero [325] la sovranità del papa, Ancona, Fermo, Osimo, Camerino, Fano, Iesi, Sinigaglia e Pesaro; nella seconda Rieti, Spoleto, Assisi, Foligno, Nocera, Perugia, Agubbio, Todi e città di Castello.
Il papa non avrebbe ottenuto di ridurre sotto la sua dipendenza immediata le città della Toscana: vero è che fino allora ubbidirono sempre agl'imperatori, ma conoscevano troppo le proprie forze per non cambiare il presente loro stato con verun altro, quando non si trattasse di passare a quello di repubblica. Ciò conoscendo il papa, addirizzandosi loro, dichiarossi il protettore della loro libertà; e lungi dal riclamare sulle città principali i diritti della contessa Matilde, il di cui solo nome avrebbe risvegliata la loro gelosia, si limitò a chiedere la loro assistenza come amiche della religione ugualmente che della libertà, e protettrici della Chiesa. Di così dilicato negoziato incaricò Pandolfo e Bernardo.
Questi cardinali s'addirizzarono prima alle città di Fiorenza, Lucca e Siena, poi al vescovo di Volterra, allora signore temporale di quella città, ed agli abitanti di Prato e di Samminiato. Loro rappresentarono che la morte dell'imperatore gli aveva sciolti da ogni obbligazione [326] verso l'Impero[306], e che avrebbero mancato alla propria saviezza, se non approfittavano del presente interregno per impedire che un nuovo imperatore, strascinandole in nuove liti colla Chiesa, non compromettesse la loro coscienza, e non mettesse in opposizione i loro doveri verso gli uomini con i loro doveri verso Dio. Sotto il regno d'Enrico VI, le città toscane avevano avuto cagione di lagnarsi dell'accrescimento delle imposte e delle concussioni de' suoi ministri tedeschi; onde acconsentirono di formare un'assemblea dei loro deputati a san Ginnasio, borgata posta alle falde del monte di Samminiato; ove cedendo agli stimoli dei due cardinali, s'associarono alla lega toscana o guelfa, che si rinnovò poi tra di loro un mezzo secolo dopo[307]. Obbligavansi gli alleati di non riconoscere imperatore, re, principe, duca, o marchese, senza l'espressa e speciale approvazione della Chiesa romana: promettevano inoltre la vicendevole difesa e la difesa [327] della santa sede qualunque volta ne venissero richiesti; e di più impegnavansi di darle ajuto perchè potesse riprendere tutte le parti del suo patrimonio e tutti i paesi sui quali credesse avere delle ragioni, tranne quelli che trovavansi di presente occupati da qualcuno degli alleati.
L'atto originale della lega toscana conservato nell'archivio di Fiorenza venne pubblicato da due storici moderni[308]; ma è cosa sorprendente che niuno degli storici contemporanei, ad eccezione del biografo d'Innocenzo III, ricordasse questa lega, per cui ne conosciamo imperfettamente le condizioni e gli effetti. Pare che le città toscane si fossero accostumate a considerarsi come un solo corpo dopo che gl'imperatori stabilirono a san Miniato un commissario[309] destinato a raccogliere le imposte di tutta la provincia; ebbero dopo tale epoca frequenti adunanze provinciali, cui ogni città spediva un rettore o deputato. Se crediamo [328] allo storico di Siena Malavolti[310], questo rettore non aveva alcuna autorità nella sua patria, ma veniva obbligato da un giuramento a cooperare nell'adunanza al ristabilimento della pace in Toscana ed al ben comune di tutta la provincia. Quando i rettori toscani sapevano esser nata qualche querela tra due città, riunivansi all'istante, e, quantunque le rispettive comuni fossero impegnate in opposti partiti, non iscioglievasi l'assemblea, finchè non avesse fatta ogni pratica per ristabilire la pace; e non riuscendovi, non lasciavano, anche durante la guerra, di riunirsi i deputati a certi determinati tempi, onde valersi di ogni nuovo accidente per metter fine alla guerra. La dieta medesima eleggeva i rettori che dovevano rimpiazzare quelli che cessavano, ponendo sempre gli occhi sopra persone conosciute le più capaci di contribuire al mantenimento della pace[311]. Questa continuazione aristocratica non era pericolosa [329] alla libertà delle repubbliche, da che i rettori non godevano di alcuna autorità nella loro patria; ed aveva invece l'avvantaggio grandissimo di conservare, anche in mezzo alle passioni popolari ed alle rivoluzioni dalle medesime eccitate, l'amore della pace nell'assemblea, siccome principio vitale della sua esistenza. Ma l'ambizione delle più potenti città, che risguardava questa istituzione come un ostacolo alle sue viste d'ingrandimento, non permise che sussistesse lungo tempo; ed appena una incerta e confusa memoria ce ne fa conservata da alcuni storici.
La sola città di Pisa rifiutossi di prender parte alla lega proposta dai deputati pontificj, forse perchè non poteva sperare verun nuovo privilegio prendendo le armi contro gl'imperatori, da' quali aveva già ricevute le più ampie prerogative: ed in varie circostanze assai disastrose mostrò apertamente che la riconoscenza d'un popolo libero è più potente e durevole di quella dei popoli subordinati al governo di un solo. Nel 1192 Enrico VI aveva con un memorabile diploma accordato ai Pisani tutti i diritti regali non solo entro la loro città, ma sopra un vasto territorio popolato da sessantaquattro tra [330] borgate e castelli[312]. Aveva inoltre loro cedute in feudo la Corsica colle isole dell'Elba, di Capraja e di Pianozza; riconfermato il privilegio, di cui godevano da lungo tempo, di eleggere i proprj consoli e magistrati, ed espressamente dichiarato essere sua intenzione che i Pisani fossero e rimanessero liberi, e perciò gli esentava da ogni contributo e dall'alloggio militare. I Cardinali passarono a Pisa per ridurre que' magistrati ad entrare nella lega fatta per difendere la Chiesa, chiedendo loro per primo pegno di sommissione alla santa sede di rappacificarsi coi Genovesi; ma i Pisani vi si rifiutarono costantemente[313], e da quest'epoca fino alla caduta della loro repubblica furono sempre capi della parte ghibellina in Toscana.
Mentre Innocenzo III dilatava la sua influenza sulle città libere, non trascurava [331] i maggiori vantaggi che poteva ottenere nelle due Sicilie, quasi affatto abbandonate a se medesime. Costanza aveva, morendo, lasciata al papa la tutela di suo figlio, e poc'anni dopo, avendo le truppe ai servigi d'Innocenzo battuto un generale tedesco[314], l'accorto pontefice diede pubblicità ad un testamento d'Enrico VI, che riconosceva tutti i diritti della santa sede sul regno di Napoli e poneva il giovinetto Federico sotto la sua protezione. Innocenzo conosceva tutto il profitto che gli dava la tutela di quel principe che voleva spogliare. Quando Costanza era ancora viva, egli non aveva accordata a lei ed al figlio l'investitura della corona di Sicilia, che dopo averli privati di molte prerogative annesse alla medesima. In forza del trattato di pace stipulato tra Guglielmo I ed Adriano IV, i beneficj ecclesiastici del regno non potevano conferirsi dalla corte di Roma senza l'approvazione del sovrano. Innocenzo rese illusoria tale riserva, togliendo al nuovo re il diritto di rifiutare l'approvazione che gli sarebbe chiesta[315]. [332] Dopo ciò diede principio alla tutela del pupillo unitamente agli arcivescovi di Capoa, di Palermo, di Monreale, ed al vescovo di Troja, amministratori del regno, dirigendo tutte le loro operazioni colle lettere che scriveva ogni giorno. Il generale delle truppe tedesche Marcovaldo, grande siniscalco d'Enrico VI, era rientrato nel regno quando ebbe avviso della morte di Costanza, sostenendo egli solo apertamente il partito ghibellino contro il papa[316]. Coll'ajuto de' Saraceni di Sicilia e de' baroni malcontenti della corte di Roma, aveva messo insieme un potente partito, che poteva tenere inquieto il pontefice; il quale, malgrado l'orgoglio con cui comandava ai Siciliani, aveva poche forze ai suoi ordini. Spedì una volta seicento soldati all'abbate di Montecassino, perchè potesse difendersi, e duecento ne mandò un'altra volta in Sicilia, credendola esposta ad essere occupata da Marcovaldo: a ciò si ridussero i diretti sforzi del pontefice per la difesa del suo pupillo.
Dopo aver osservato questa debolezza, i suoi maneggi da capo di partito nelle città d'Italia, e le armate pontificie che riducevansi a poche compagnie, fa maraviglia il vedere lo stesso Innocenzo ingrandirsi a misura che s'allontana dalla sua sede, e parlar da sovrano al rimanente dell'Europa; ordinare ad Andrea, duca d'Ungheria, di andare in Terra santa perchè la sua presenza non turbasse il riposo del re suo fratello[317]; forzare questi a dichiarare la guerra a Culino, signore della Bosnia per castigarlo d'avere protetti gli eretici[318]; eccitare i re di Danimarca e di Svezia ad attaccar Suero, re di Norvegia, ed a spogliarlo della corona[319]; intimare a Filippo Augusto di ritirare dal monastero, e di ristabilire nei diritti di sposa Ingeburga di Danimarca, ch'egli aveva ripudiato, sottoponendo all'interdetto tutto il regno perchè Filippo non l'ubbidiva. Fu questo medesimo pontefice che obbligò a dichiararsi tributarj della santa [334] sede prima il re di Portogallo[320], poi il re d'Arragona[321], più tardi il re ed il regno di Polonia[322], e finalmente quel Giovanni, re d'Inghilterra, che gli giurò fedeltà[323]. Le scomuniche e gl'interdetti non si resero mai tanto comuni quanto sotto Innocenzo III; nè altro papa si arrogò mai tanta parte nel governo temporale dell'Europa. Ma per grandi che fossero i talenti di questo pontefice, e l'arte sua nel risvegliare e tirar partito dalla superstizione del secolo, non era certamente in Italia dove la superstizione potesse renderlo potente; e per questo paese gli abbisognavano altre armi: non tardò ad avvedersene, e prese ben tosto miglior partito per fermare i progressi della fazione ghibellina, cercando in Francia un rivale che potesse un giorno opporre allo stesso Federico, quando il bisogno lo richiedesse.
Gualtieri, conte di Brienne, gentiluomo francese, aveva sposata la prima figlia di Tancredi, ultimo re della razza normanna. [335] Sibilla, vedova di questo sfortunato monarca, dopo una lunga prigionia in Germania, durante la quale era morto suo figliuolo Guglielmo, era stata messa in libertà colle due figlie in conseguenza dei buoni uffici della santa sede. Questi sgraziati fanciulli erano stati arrestati contro la fede di un trattato quando Enrico VI conquistò la Sicilia: essi avevano rinunciato bensì al diritto ereditario della corona, ma a condizione che Enrico VI loro assicurasse i possessi che aveva il loro padre prima d'essere re, cioè la contea di Lecce ed il principato di Taranto. In vista di tale promessa avendo aperte al nemico le porte del palazzo e della rocca di Palermo, furono posti in prigione[324]. Gualtieri sposo della maggior figliuola di Tancredi, e suo immediato rappresentante, poteva vantare lo stesso diritto d'Enrico alla corona di Sicilia; e quando pure per l'illegittimità di Tancredi si volesse escludere da tale diritto, Gualtieri domandava almeno d'avere la contea di Lecce ed il principato di Taranto da Enrico promessi ai figliuoli di [336] Tancredi, come prezzo della loro rinuncia alla corona. Innocenzo III accolse questa domanda, e la riconobbe legittima. Persuase Gualtieri a ripassare in Francia per assoldare una piccola armata; e quando fu di ritorno l'oppose a Marcovaldo; e così introdusse la prima volta i Francesi nel regno di Napoli. Non pertanto, quai che si fossero i progetti del pontefice, non sortirono il desiderato effetto. Gualtieri, dopo aver avuto alcuni vantaggi, perì in una scaramuccia l'anno 1205[325].
Non trascurava Innocenzo di rialzare anche in Germania il partito guelfo. Ottone, uno de' pretendenti al trono, apparteneva ad una famiglia d'ogni tempo ligia dei papi, mentre Filippo di Svevia era d'una famiglia loro contraria; e però Innocenzo dichiarossi a favore del primo, e fece osservare che Filippo precedentemente scomunicato per alcune violenze commesse contro la Chiesa, non aveva potuto senza scandolo essere considerato eleggibile[326]. Non pertanto dopo alcuni anni [337] la fortuna della guerra dichiarossi contraria al protetto del papa, il quale, cacciato di Colonia dal suo rivale, fu forzato d'andare in Inghilterra a mendicar soccorsi, onde il papa, anteponendo il proprio al vantaggio d'Ottone, non si vergognò d'entrare in trattative con quel Filippo medesimo che aveva lungo tempo perseguitato. Per confessione dello storico ecclesiastico, egli incominciò a riconciliarlo colla Chiesa[327]. Aggiunge Arnaldo di Lubecca, che Filippo offrì sua figlia in isposa a Riccardo fratello del papa, dandole in dote la Toscana, Spoleti e la Marca d'Ancona; finalmente promise di acconsentire che Ottone venisse designato suo successore, ed eletto re de' Romani[328]. Le trattative quasi a termine ridotte, furono rese inutili dalla morte di Filippo, [338] ucciso del 1208 nel proprio palazzo da un suo particolar nemico. Benchè Ottone non avesse alcuna parte in tale attentato, seppe accortamente approfittarne. Due cose fece egli che gli guadagnarono l'affetto de' principi di Germania d'ambedue i partiti, e lo fecero di nuovo proclamare re de' Romani e di Germania dai voti unanimi della dieta d'Alberstat; sposò la figlia di Filippo, che gli portò un titolo ai diritti ereditarj della casa di Svevia, e rinunciò formalmente a tutte le pretensioni sui ducati di Baviera e di Sassonia, de' quali era stato spogliato suo padre[329].
Quando Innocenzo vide Ottone favorito dalla fortuna, non tardò a cercarne l'amicizia, e con un trattato d'alleanza conchiuso a Spira prometteva di dare all'imperatore eletto la corona imperiale; ed Ottone accondiscendeva a tutte le domande che il papa gli faceva a vantaggio della Chiesa. In tal modo ebbe fine la guerra di Germania dopo un interregno di dieci anni, di cui il partito guelfo in Italia seppe valersi utilmente [339] per liberarsi quasi affatto dal dominio dei monarchi alemanni.
L'incoronazione d'Ottone IV, e la sua discesa in Italia sembravano promettere nuovi trionfi alla parte guelfa; e certo non aveva mai regnato altro imperatore più favorevole alla Chiesa romana: ma gl'interessi della corona erano troppo contrarj a quelli della santa sede perchè potessero andare lungo tempo d'accordo. In fatti, appena entrato in Italia, vide Ottone la convenienza di affezionarsi gli antichi partigiani dell'autorità imperiale; e ben tosto il capo della casa guelfa, diventato imperatore, si circondò di capitani ghibellini, mentre il papa opponevagli il giovane Federico, ultimo rampollo del sangue dei Ghibellini, assistito dai soldati dei Guelfi.
Ottone entrò in Italia del 1209 per la vallata di Trento, ed arrivò in riva all'Adige ad Orsanigo, territorio veronese, ove aveva ordinato di raggiungerlo ai principali signori della Venezia, ed in particolare ad Ezzelino II da Romano, e ad Azzo VI, marchese d'Este[330]. Questi due gentiluomini che durante l'interregno [340] avevano accresciuta a dismisura la loro influenza nella Marca, perchè le nemiche fazioni essendo più che mai riscaldate l'una contro l'altra, i loro capi avevano avuto la destrezza o la fortuna di far assolutamente dimenticare l'interesse dei comuni, facendo che le guerre civili si trattassero in loro nome. Le fazioni nate in ogni città dalla gelosia dei gentiluomini, e dalle mutue loro violenze, avevano tante cause diverse quante erano le offese che questi uomini appassionati potevano farsi: ma i due nomi di fresco introdotti di Guelfi e di Ghibellini legavano le fazioni delle città vicine. I Salinguerra di Ferrara, ed i Montecchi di Verona dal solo nome di Ghibellini trovaronsi uniti con Ezzelino; nella stessa alleanza erano le città di Treviso e di Padova, allora governate dalla medesima fazione; mentre stavano per l'opposta gli amici d'Adelardo a Ferrara, il Conte di san Bonifacio a Verona ed a Mantova, i dal Vivario a Vicenza, ed i nobili di Campo San-Pietro a Padova, tutti alleati del marchese d'Este.
Dopo un non lungo esiglio, l'anno precedente era rientrato in Ferrara il marchese d'Este, e col favore de' suoi partigiani era stato dichiarato signore di [341] quella città; primo esempio di un popolo italiano che abbandona i suoi diritti per sottomettersi al potere di un solo[331]. Presso a poco nella stessa epoca, Azzo aveva avuto un'importantissima vittoria sopra Ezzelino ed il suo partito, e le truppe delle due fazioni trovavansi nuovamente a fronte quando Ottone scese in Italia. Ezzelino aveva ottenuto qualche vantaggio sui Vicentini, e sperava d'impadronirsi ben tosto della loro città; e mentre Azzo era uscito di Ferrara per soccorrerli, eravi entrato coi Ghibellini Salinguerra, e cacciatine tutti gli amici del Marchese[332]. L'ordine dato ai due capi di presentarsi alla corte d'Ottone risparmiò alle città collegate una sanguinosa battaglia ed un inutile massacro, giacchè un cieco odio, più assai che i motivi politici, poneva loro le armi in mano.
Questi due capi non potevano dubitare del favorevole accoglimento che loro farebbe l'imperatore. O direttamente o per mezzo de' loro partigiani, essi governavano tutta la Marca; e sì l'uno che [342] l'altro, oltre il potere, avevano altri titoli che li raccomandavano a quel sovrano. Il marchese d'Este era suo parente, siccome discendente da Azzo III, tronco comune delle due linee che fino all'età nostra regnarono a Brunswich ed a Modena: d'altra parte Ezzelino era il più caldo partigiano delle prerogative imperiali; e quantunque fino al presente tali prerogative avessero servito ad umiliare la famiglia d'Ottone, da che si trovò in possesso della corona, rivolse il suo favore ai loro difensori. Per tali motivi accolse con eguale dimostrazione i due capi di partito, e cercò di porli in pace tra di loro.
Uno de' più zelanti partigiani d'Ezzelino, che a quanto sembra dovette esser presente a tale accoglimento, ce ne lasciò una relazione nella sua storia[333]. Quando Ezzelino si trovò in faccia al marchese in presenza di tutta la corte, alzossi per accusare il suo rivale di tradimento e di fellonia. «Noi, diss'egli, fummo compagni nella nostra fanciullezza, e lo credetti amico; ci trovammo insieme a Venezia, e passeggiavo con lui nella piazza di S. Marco, quando alcuni [343] assassini mi si avventarono contro per pugnalarmi, e nel medesimo istante il marchese mi prese il braccio per impedire di difendermi; e se con uno sforzo violento non mi fossi da lui svincolato, sarei stato infallibilmente ucciso, come lo fu un mio soldato che stavami ai fianchi. Perciò io lo denuncio a quest'assemblea quale traditore; e chiedo a vostra maestà di permettermi ch'io provi in singolare battaglia i tradimenti orditi a me, a Salinguerra, ed al podestà di Vicenza».
Poco dopo arrivò Salinguerra seguìto da cento uomini d'arme, il quale gittandosi a' piedi dell'imperatore rinnovò contro il marchese l'accusa d'Ezzelino, e domandò egualmente la prova della battaglia singolare. Azzo rispose che aveva ne' suoi dominj molti gentiluomini più nobili di Salinguerra, che sarebbero pronti a battersi con lui, se aveva tanta sete di battaglie. Allora Ottone dichiarò a tutti tre che per le passate contese non permetterà loro di battersi.
Ottone, che ad ogni modo voleva mettere in pace questi due capi di parte, dai quali sperava d'avere più importanti servigi che da tutti gli altri signori italiani, sortì il giorno dopo a cavallo con [344] loro, e, avendone uno alla diritta, alla sinistra l'altro (m'attengo sempre allo storico Maurisio partigiano d'Ezzelino), volse da prima il discorso in lingua francese ad Ezzelino: Sire Ycelin, saluons le marquis, diss'egli; onde Ezzelino levandosi il cappello e piegando il corpo, disse ad Azzo: Signor Marchese che Dio vi salvi; e perchè questi rispose senza scoprirsi il capo, Ottone rivoltossi a lui ugualmente: Sire marquis, saluons Ycelin, ed il marchese soggiunse, que Dieu vous sauve. La loro riconciliazione non pareva ancora troppo avanzata, quando ristringendosi la strada, Ottone passò avanti, lasciando i due rivali ai fianchi l'uno dell'altro; perchè voltosi a dietro vide che si parlavano affettuosamente, come avessero dimenticate affatto le vecchie offese. Quest'amichevole conversazione durò quanto la corsa che fu di oltre due miglia, e finì col dare qualche inquietudine all'imperatore, il quale poichè rientrò nella sua tenda, fatto a se chiamare Ezzelino, gli chiese quale fosse stato il soggetto della sua conversazione col marchese: «i giorni della nostra fanciullezza, rispose Ezzelino; e noi eravamo rientrati nell'antica nostra amicizia.»
[345] Dopo di aver riconciliati i due capi di partito, volle Ottone assicurarsi ancora del loro attaccamento alla propria causa, coll'accordare a' medesimi dei beneficj. Innocenzo III dubitando, dopo aver conquistata la Marca, della validità del suo titolo, conobbe che assai difficilmente avrebbe potuto conservarla, e perciò l'anno 1208 ne investì il marchese d'Este[334]. Ottone quando giunse in Italia riclamò la Marca come proprietà dell'Impero, ma ne lasciò l'amministrazione al marchese d'Este con patto che la ricevesse da lui, e gliene fece spedire il diploma in sul cominciare del susseguente anno[335]. E per essere parimenti generoso verso di Ezzelino dichiarò la città di Vicenza colpevole di ribellione, gl'impose una tassa di sessanta mila lire, e nominò Ezzelino podestà, rettore, e deputato dell'Impero in Vicenza. Con questi titoli riuniti Ezzelino richiese da tutti gli abitanti di Vicenza il giuramento di fedeltà; e perchè il partito che gli era contrario, piuttosto che prestare il giuramento, si ritirò a [346] Verona o presso il conte di S. Bonifacio, egli confiscò i beni di tutti i fuorusciti.
Intanto, dopo essersi assicurato dei partigiani dell'alta Italia, Ottone IV s'avanzò alla volta di Roma, ove dalle mani d'Innocenzo III ricevette la corona dell'Impero, ma la buona intelligenza tra di loro fu di breve durata[336]: un ammutinamento dei Romani incominciato in tempo dell'incoronazione fu seguìto dal massacro di molti soldati tedeschi: l'imperatore non volle cedere al papa l'eredità della contessa Matilde e le vaste province che la santa sede credeva a se devolute, allegando il giuramento prestato all'atto della sua elezione, di mantenere le prerogative dell'Impero, e di non alienarne le possessioni; onde i due capi della cristianità separaronsi dopo pochi giorni scontenti l'uno dell'altro, e disposti a farsi la guerra.
Ottone incaricato di difendere le prerogative per cui i Ghibellini avevano combattuto, si volse ai capi di questo partito. Sotto pretesto che il senatore era soggetto al papa, e che il popolo non sarebbe [347] libero fin tanto che non fosse ristabilito il senato di cinquantasei membri, eccitò in Roma delle sedizioni dirette dalla famiglia Pietro Leone[337]. Accordò ai Pisani un amplissimo privilegio in conferma di quello d'Enrico VI, assicurandosi con tale beneficio del loro affetto[338]; contrasse alleanza coi generali tedeschi ch'erano rimasti nel regno di Napoli dopo la conquista dello stesso Enrico, ed investì del ducato di Spoleti il conte Diopoldo, uno de' più principali fra di loro[339]; per ultimo, di ritorno in Lombardia, fece ogni sforzo per rappacificare le città ed i partiti diversi che laceravano con private guerre quelle contrade, e si assicurò l'appoggio dei Milanesi, dei Parmigiani, dei Bolognesi, e di molti altri popoli[340]. Bonifacio d'Este si unì in suo favore ad Ezzelino ed a Salinguerra; ma per lo contrario [348] il marchese Azzo d'Este, staccandosi dal primo imperatore che onorasse la sua famiglia, strinse alleanza col papa, e ricominciò nella Venezia la guerra contro il partito ghibellino.
Dal canto suo non trovò Innocenzo nella lega guelfa di Toscana tutto quell'appoggio che ne sperava, ma fu invece soccorso dai Genovesi, dai Pavesi, dai Cremonesi e dal marchese di Monferrato; ma più che in tutt'altro sperava in Federico II, di cui non aveva accettata la tutela che per avere in mano un principe da opporre qualunque volta lo credesse agl'imperatori che avrebbero la sventura di spiacergli per la troppo loro potenza, senza aver bisogno di prendersi cura de' suoi reali interessi. In quest'anno medesimo trattò un matrimonio tra questo giovane re, e Costanza figliuola del re d'Arragona, assicurandone in tal modo l'alleanza[341]; entrò poi in trattative con Filippo re di Francia, e con altri signori tedeschi per fare eleggere imperatore Federico, rappresentandoglielo come ingiustamente spogliato de' suoi diritti.
Informato Ottone di queste pratiche, pensò che il nemico da abbattere prima d'ogni altro era Federico, il quale già disponevasi a disputargli la corona. Gli dichiarava perciò la guerra ed invadeva il regno di Napoli, ove incontrava pochissima resistenza. Monte Cassino, Capoa, Salerno, Napoli gli s'arresero ben tosto; e, malgrado le scomuniche del papa, non perdette alcuno de' suoi partigiani[342]. Le cose di Ottone procedevano con tanta prosperità, che poteva sperare di balzare in breve dal trono il giovane Federico, che dai soldati era chiamato il re dei preti; quando le notizie d'una generale sommossa in Germania l'obbligarono ad abbandonare l'Italia. Siffredo, arcivescovo di Magonza, aveva pubblicato contro l'imperatore una bolla di scomunica, dichiarandolo decaduto dalla dignità imperiale. E perchè la bolla avesse effetto, eransi contro di lui collegati l'arcivescovo di Treveri, il langravio di Turingia, il re di Boemia, il duca di Baviera ed il duca di Zeringuen, a ciò specialmente istigati da Filippo Augusto di Francia, personale nemico [350] d'Ottone. Questi lasciò l'Italia dopo avere in due generali assemblee esortati i baroni del Regno di Napoli, poi quelli delle città libere di Lombardia, a conservarsi fedeli, e passò in Germania a sostenervi una sfortunata guerra, nella quale ebbe ben tosto a fronte il suo antagonista Federico II[343].
Benchè si fosse variato l'oggetto della lite tra le fazioni guelfa e ghibellina, e che i Ghibellini si trovassero momentaneamente uniti al papa, mentre molti Guelfi, diretti da un imperatore guelfo, eransi dichiarati i difensori dei diritti dell'Impero[344], i Lombardi furono generalmente fedeli non ai rispettivi principi, ma alle persone ed al nome della loro fazione. Nella guerra della lega lombarda, Pavia, Cremona ed il marchese di Monferrato avevano combattuto per la famiglia ghibellina; l'istesse città s'impegnarono pure di difendere Federico II, l'erede di questa famiglia. Questo giovane re, allora in età di dieciotto anni, essendone richiesto dai [351] principi tedeschi suoi partigiani, s'avviò verso la Germania per riclamare la corona imperiale. Passando per Roma, ricevette la benedizione del papa, indi s'imbarcò e giunse a Genova in aprile del 1212 con quattro galere. Colà seppe che tutto il partito guelfo di Lombardia aveva prese le armi per chiudergli il passaggio; onde gli fu forza di rimanere in Genova tre mesi, aspettando l'opportunità di attraversare il paese nemico, e dar tempo ai suoi partigiani di riunire le loro forze[345]. Soltanto il 15 giugno partiva da Genova alla volta di Pavia, dopo aver ricevuti dai Genovesi considerabili soccorsi. Il partito ghibellino ne' paesi che doveva attraversare, era assai debole. Le città d'Alessandria, Tortona, Vercelli, Acqui, Alba ed il marchese Malaspina eransi uniti ad attraversargli il passaggio avanti che arrivasse a Pavia[346]; ma egli giunse a Pavia per la strada d'Asti senza incontrarli, e senza che gli accadesse alcun sinistro. I Guelfi vollero vendicarsene avanzandosi sul territorio pavese, ma ne furono respinti [352] con grave perdita. Restavagli da attraversare la Lombardia superiore, lo che rendevasi ancora più difficile, poichè per passare da Pavia a Cremona, prima città a lui favorevole, doveva toccare il territorio piacentino, o il milanese, i di cui passaggi erano attentamente custoditi da quei repubblicani[347]. Il marchese Azzo d'Este erasi avanzato fino a Cremona per incontrarlo, e teneva disposta una scorta che doveva unirsi a quella dei Pavesi; ma nè gli uni nè gli altri avevano bastanti forze per attaccare il corpo dei Milanesi appostato sulle rive del Lambro. Federico, cui ogni ritardo poteva diventar fatale, credette di dover tutto arrischiare, ed approfittando delle dense tenebre d'una notte tentò il passaggio del fiume, e giunse felicemente a Cremona; e soltanto la scorta pavese fu assalita, retrocedendo, dai Milanesi, e fatta quasi tutta prigioniera[348]. Da Cremona avanzandosi Federico coll'assistenza del marchese d'Este non era più esposto a grandi rischi, sicchè per la strada di Mantova, Verona[349] e Trento giunse a Coria nei Grigioni, ove [353] incontrò i suoi primi partigiani tedeschi, ed in numero assai maggiore gli si fecero in contro a Costanza; e finalmente quando arrivò ad Aquisgrana, vi fu coronato re de' Romani, mentre il suo competitore Ottone essendo stato battuto presso Brisacco, fu forzato di rivolgere le sue armi contro Filippo Augusto, dal quale disfatto in vicinanza di Bouvines, non ebbe più forze bastanti per affrontare il suo rivale[350].
Tocchiamo finalmente l'epoca in cui la più illustre, e, per lungo tempo, la più potente repubblica de' secoli di mezzo, Fiorenza, incomincia a chiamare a se lo sguardo dello storico colla prima scissura ch'ebbe luogo nel suo seno l'anno 1215.
Firenze non fu da principio probabilmente che un sobborgo di Fiesole, antica città degli Etruschi, e per tale cagione l'epoca precisa della sua fondazione trovasi avviluppata in qualche difficoltà[351]. Il dittatore Lucio Silla la fece colonia romana, e segnò il primo le mura della nuova città lungo le ridenti [354] rive dell'Arno, ai piedi degli Appennini in mezzo a colline coperte d'ulivi, di fichi, e di tutti gli alberi de' climi più caldi.
Poche città furono dalla natura più avvantaggiate di Fiorenza. Malgrado il calore spesso grandissimo, l'aria è sana, limpide acque scendono dall'Appennino, che la magnificenza dei cittadini fiorentini impiegò ne' secoli di mezzo ad ornare e rinfrescare la città con sontuose fontane. La pianura che dalle porte della città si stende nella val d'Arno inferiore, è coperta di gelsi e di viti maritate agli alberi, ed è feconda di grani d'ogni genere, facendovisi cinque diversi raccolti nello spazio di tre anni[352]. Dalla banda degli Appennini innalzasi un anfiteatro di ridenti colli sui quali raccogliesi il più squisito olio, ed i più squisiti vini d'Italia; più a dietro le alte montagne coperte di vaste foreste di castagni offrono alla povertà un nutrimento, che non domanda che il lavoro di raccogliere i frutti che maturano ogni anno.
Il Mugnone ed altri ruscelli arricchiscono le terre da loro inaffiate; e l'agricoltore [355] deriva dall'Arno medesimo una parte delle sue acque. Questo fiume che nella più calda estate lascia quasi all'asciutto il suo letto, lo riempie di nuovo nella stagione piovosa, ed apre una facile e pronta comunicazione con Pisa e col mare per mezzo di leggieri barche.
Firenze ornata, fino ne' tempi di Silla, di terme, di teatri, d'acquedotti, fu quasi affatto rovinata da Totila, re dei Goti, nella guerra che questi dovette sostenere contro i generali di Giustiniano[353]. Fu in seguito rifabbricata da Carlo Magno, ed impiegò i quattro secoli posteriori al regno del suo nuovo fondatore nel perfezionamento della sua amministrazione municipale; nel qual tempo obbligò tutti i gentiluomini del vicinato a farsi cittadini fiorentini sottomettendo i loro piccoli feudi alla sua giurisdizione. Fino al 1207 fu governata da consoli scelti tra i migliori cittadini, e da un senato di cento membri. I consoli rimanevano in carica un anno, e ne veniva nominato uno prima dai quattro, poi dai sei quartieri; ma del 1207 i Fiorentini imitarono ciò [356] che vedevano praticarsi da tutte le altre città, e chiamarono un podestà straniero e gentiluomo[354][355], al quale affidarono il carico d'eseguire gli ordini del comune, di far decidere dai suoi giudici i processi civili, di pronunciare egli e di far eseguire le sentenze criminali, affinchè, dicono gli storici fiorentini, verun cittadino non incontrasse l'odio cui poteva dar luogo la pubblica vendetta, ed affinchè non si lasciasse alcuno sedurre dalle preghiere, dall'affetto di famiglia, o da timore, a trascurare il mantenimento dell'ordine pubblico. Gualfredotto di Milano fu il primo podestà di Fiorenza, cui fu dato per sua abitazione il palazzo del vescovo, conservando in pari tempo i consoli incaricati di tutti gli altri rami della pubblica amministrazione.
Quantunque la nobiltà fiorentina, che fino a tale epoca aveva esclusivamente governata la repubblica, non potesse rimanersi [357] del tutto imparziale nelle contese degl'imperatori e dei papi, e specialmente in quella di Ottone IV con Innocenzo III, nulla però accadde che ne alterasse la pace interna. La repubblica aveva presa parte alla lega toscana, ma in appresso non si curò troppo di sostenere una confederazione ben tosto dimenticata: e malgrado le divergenti opinioni de' gentiluomini, i magistrati erano determinati di tenersi neutrali, quando una particolare contesa di famiglia, riscaldando tutt'ad un tratto lo spirito di partito, strascinò i Fiorentini in sanguinose risse, che dopo essersi tenute vive, senza deciso vantaggio dell'una o dell'altra parte, trentatre anni, ebbero fine coll'esiglio dalla città d'un intero partito, e coll'obbligare la repubblica a figurare eminentemente nelle successive guerre d'Italia.
Tra le famiglie che manifestavano attaccamento alla causa del papa primeggiava quella dei Buondelmonti, altra volta signori di Montebuono in val d'Arno di sopra. Messer Bondelmonte de' Buondelmonti aveva promesso di sposare una fanciulla degli Amedei, famiglia alleata agli Uberti, e di conosciuto [358] attaccamento al partito imperiale[356]. Un giorno Bondelmonte cavalcando per la città fu chiamato da una gentildonna della casa Donati, la quale, rimbrottatolo d'essersi alleato con una famiglia a lui sconveniente, passò a deridere la figura della sposa. «Io ne aveva, gli soggiunse, tenuta una in serbo per voi, che avreste certamente preferita;» e presolo per la mano lo condusse nell'appartamento di sua figlia, ch'era sopra ogni credere bellissima. Bondelmonte invaghito e infiammato d'amore, non riflettendo alla data fede, la chiese e l'ottenne in isposa; e gli Amedei non seppero ch'egli mancava alla convenzione fatta con loro se non quando era già sposo d'un'altra. Invitarono subito tutti i parenti a riunirsi presso di loro, gli Uberti, i Fifanti, i Lamberti ed i Gangalandi, ed esposero l'affronto che avevano ricevuto, chiedendo consiglio intorno alla vendetta che più si converrebbe [359] al presente caso. Mosca Lamberti osò dire il primo, ma con parole equivoche, che solo la morte poteva lavare tanta offesa[357]; perchè la mattina di Pasqua mentre Bondelmonte attraversava sopra un cavallo bianco Ponte Vecchio fu assalito dai capi di queste famiglie, unite non solo dalla recente ingiuria, ma ancora dall'attaccamento alla causa imperiale, ed ucciso presso alla statua di Marte protettore di Fiorenza pagana, che ancora rimaneva in piedi.
Poichè fu sparso il primo sangue, tutte le nobili famiglie si pronunciarono per gli aggressori, o per il contrario partito, adottando a un tempo una fazione nella gran lite della Cristianità, che s'aggiunse a questa rissa di famiglia. Si dichiararono pei Bondelmonti e per il partito guelfo quarantadue principali famiglie[358], di cui gli antichi storici ci diedero i nomi: e ventiquattro uguali famiglie si associarono agli Uberti ed alla causa dei Ghibellini. Così, fatti nemici [360] gli uni degli altri, tanti potenti cittadini battevansi continuamente, e comechè tutti innalzassero torri e fortificassero i loro palazzi, rimasero trentatre anni nella medesima città senza aver mai fatto verun accordo. Ma la notte della Candelora del 1248 la parte guelfa fu costretta per la prima volta di abbandonare la città, che, ritirandosi, fu esigliata dalla pubblica autorità, la quale fino a tale epoca aveva mostrato di volere con mano imparziale comprimere le due fazioni castigando indistintamente i perturbatori del pubblico riposo.
Trentatre anni di non interrotta guerra entro le mura di Firenze non solo produssero l'effetto di avvezzare alle armi la nazione, e di prepararla in tal maniera alle sue future conquiste, ma diedero altresì un particolare carattere all'architettura della città, carattere non affatto perduto al presente, perchè i nuovi architetti, senza rendersi ragione dello stile nazionale, lo imitarono nei loro edificj. I palazzi fiorentini sono masse quadrate pesanti, il di cui principale ornamento consiste nella solidità[359]. Sono grosse [361] muraglie bugnate, porte alzate sopra il livello del suolo, larghe anella di ferro e di bronzo in cui collocavansi i fanali all'occasione di pubbliche illuminazioni, o destinate a portare gli stendardi d'una fazione: altronde non vi si vedevano nè colonne, nè peristili, o cosa alcuna ove l'architettura possa mostrar grazia e leggerezza. Firenze si fa conoscere all'aspetto suo per la città dei nobili, la città della forza individuale, la città ove l'autorità pubblica era talvolta debole, ma dove ognuno era padrone e signore nella propria casa.
Nel lungo regno di diciott'anni Innocenzo III aveva forse ottenuto più che non isperava a favore dell'autorità ecclesiastica accresciuta con dispendio di quella degl'imperatori. Il regno di Sicilia omai le era affatto subordinato. Federico aveva un figlio della novella sua sposa, e quando partì per andare in Germania, Innocenzo pretese che questi fosse allora coronato re di Sicilia, e che a lui cedesse il padre l'amministrazione del regno sotto [362] la protezione della santa sede, da cui avrebb'egli poi ottenuta la corona imperiale.
La città di Roma, dopo avere tentato invano di cambiare la propria amministrazione, erasi trovata in preda a tante estorsioni sotto il governo d'un senato repubblicano, che spontaneamente si sottomise ad un senatore nominato dal pontefice. Tutte le città vicine a Roma erano state conquistate da Innocenzo, e gli si conservavano subordinate. Sembrava inoltre che ricaderebbe sotto il suo dominio la Marca d'Ancona, poichè Azzo VI d'Este che n'era stato da lui investito[360], era morto poco dopo avere condotto Federico in Germania, e del 1215 era pur morto il suo maggior figliuolo Aldobrandino, nel fiore della gioventù. Il secondogenito Azzo VII, marchese d'Este, poteva a stento conservare il patrimonio de' suoi maggiori, non che pensar potesse a tener in dovere gli Anconitani che si dichiaravano indipendenti. Malgrado le intestine loro discordie, le città toscane mostravansi tutte, ad eccezione di Pisa, più affezionate al partito della Chiesa che [363] a quello dell'Impero; e se nella Lombardia le più potenti repubbliche avevano abbracciata la causa d'Ottone, aveva la fortuna favorite in modo le più deboli attaccate alla Chiesa, che i Cremonesi avevano disfatta interamente l'armata milanese, tolto loro il carroccio, e fatti prigionieri più migliaja di soldati[361].
Ma se l'amministrazione di questo grande fondatore della monarchia pontificale ottenne portentosi successi, la sua condotta non andò esente da rimproveri. Benchè avesse soccorso Federico nelle prime sue imprese contro Ottone, poichè questi fu sconfitto, non accordò mai al suo protetto la corona imperiale onde non farlo troppo potente. Nell'amministrazione del regno di Sicilia non andò senza taccia d'infedeltà, avendo usurpati in pregiudizio del re suo pupillo i privilegi della corona di conferire i beneficj ecclesiastici[362], disponendo dei feudi del regno a vantaggio de' suoi favoriti, e tra gli altri di suo [364] nipote, cui regalò la contea di Sora[363]; trattando coi ribelli in proprio nome, e non riclamando per il suo augusto pupillo i diritti che aveva all'elezione di re dei Romani, se non dopo essersi successivamente alleato con Filippo e con Ottone IV, in pregiudizio di Federico, di cui ne cedette loro i diritti a fronte dei proprj vantaggi. Nè più dilicata fu la condotta di questo papa verso gl'imperatori d'Oriente, siccome avremo opportunità di osservarlo nel seguente capitolo. Abbiamo già parlato dell'insultante alterigia con cui trattò i monarchi d'Occidente, e del frequente scandaloso abuso da lui fatto degl'interdetti e delle scomuniche. Viene inoltre accusato d'avere il primo fatta predicare la crociata contro i Pagani della Livonia, e d'avere accordato a coloro che avevano fatto voto di andare in soccorso di Terra santa, di portare invece le armi nella Livonia per farvi una guerra inutile; dimenticando l'affezione dei luoghi santi, la difesa della cristianità contro l'aggressione nemica, e la protezione dovuta ai fratelli d'armi esposti ai più grandi pericoli. Innocenzo [365] acconsentì a questa crociata motivata da sola cieca e crudele voglia di persecuzione[364]. Ma la più vergognosa macchia che disonori la memoria di questo pontefice, è l'istituzione dell'inquisizione, e la sanguinaria predicazione dei monaci di S. Domenico per la più atroce delle crociate, quella contro gli sventurati Albigesi[365].
A me non s'apparterrebbe il parlare della venuta in Europa de' Pauliciani[366], setta di Manichei, che scacciati dall'Asia dalle persecuzioni degl'imperatori d'Oriente e trapiantatisi nelle vicinanze del [366] monte Haemus, s'avanzarono lentamente verso l'Occidente, e sparsero tra i Latini i primi semi della riforma; ma perchè questi settarj, cui Raimondo, conte di Tolosa, accordò ricovero in Linguadocca presso Albi, s'andarono moltiplicando ancora in Italia, ov'ebbero il nome di Paterini, non sarà inutile il dirne alcuna cosa[367].
I persecutori dei Pauliciani e degli Albigesi sostennero costantemente che il fondamento della loro dottrina era il domma dei due principj, che in ogni tempo ebbe partigiani moltissimi in Oriente; nè sembra affatto straniero alla religione de' giudei, nè a quella dei cattolici[368]. I difensori degli Albigesi e sopra tutto i riformatori negarono che i Pauliciani professassero mai questo domma, ma sarebbe forse assai difficile lo scolparli [367] da tale errore. I cattolici loro contemporanei, parlando della loro dottrina, mostrano una troppo raffinata filosofia orientale, perchè possa credersi inventata da Pietro Valiserniense o da san Domenico. Gli Albigesi, dicono essi, riconoscono nell'universo due potenze creatrici, quella del mondo invisibile, ch'essi chiamano il Dio buono, e quella del mondo visibile che chiamano il Dio cattivo. E questo non è altro che il sistema di Manete intorno all'eternità dello spirito e della materia. Attribuivano al primo il nuovo testamento, l'antico al secondo; e per provare che l'ultimo era effettivamente l'opera del Dio del male, davano risalto a tutti i delitti che sono nel medesimo accennati, e a quelle qualità di Dio geloso, vendicatore e terribile che gli Ebrei credevano vedere nell'Essere supremo. Non ammettevano l'incarnazione del salvatore, insegnando che era disceso soltanto spiritualmente, senza giammai investire un corpo; credevano gli uomini essere angioli decaduti dalla primitiva loro grandezza, le di cui anime dopo alcune trasmigrazioni dovevano poi rientrare nell'antica loro gloria[369]. Tali erano almeno [368] le opinioni di un piccol numero, giacchè non sembra che la credenza loro fosse uniforme; dal che deve conchiudersi che lasciavano a tutti la libertà di esaminare la propria fede.
Nello stato di corruzione in cui a que' tempi trovavasi la Chiesa romana, avrebbela esposta a gravi pericoli il permesso di entrare in troppo minute discussioni. I capi di setta smarriti negli andirivieni di un'oscura metafisica, ammettevano probabilmente sistemi che derogavano alla maestà dell'Essere supremo: ma quando volgevano lo sguardo verso la Chiesa cattolica trovavano troppo aperti abusi da attaccare e troppe contraddizioni nelle pratiche de' grandi prelati e nelle cose disciplinari da rivelare. Negando l'autorità de' vescovi, le indulgenze, il fuoco del purgatorio, i miracoli della Chiesa, la transustanziazione, il culto della Vergine, la dannazione de' bambini morti senza battesimo, [369] prepararono la strada alla riforma[370].
Grande era il numero de' Patarini o Pauliciani in tutte le città d'Italia, perciocchè questa era la parte d'Europa meno predominata dalla superstizione; e perchè i governi popolari non avevano fino allora permesso che si perseguitassero i cittadini per le loro opinioni. Il codice Teodosiano aveva bensì decretata la pena di morte contro certi eretici risguardati come più colpevoli degli altri[371]; ma ne' tempi in cui tal legge fu tenuta in vigore, i vescovi avevano costantemente riclamato contro l'applicazione della pena. S. Agostino scriveva a Donato, proconsole d'Affrica, che s'egli non cessava dal punire gli eretici colla morte, i vescovi lascerebbero di denunciarli. E quando i vescovi mostraronsi proclivi allo spargimento del sangue, i principi non erano più persecutori; e non fu che del 1220, che il successore d'Innocenzo ottenne da Federico II la [370] prima legge di morte contro gli eretici, come prezzo della corona che gli aveva data[372].
Non trascurava per altro Innocenzo d'eccitare con calde lettere i vescovi di Fiorenza, di Prato, di Faenza, di Bologna, a cacciare gli eretici fuori delle mura; e quando le sue lettere ottenevano l'intento, non lasciava di felicitarli d'essere entrati sul buon sentiere dell'eterna salute[373]. Avendo saputo trovarsi alcuni Paterini in Viterbo, città del dominio della Chiesa, vi si recò egli medesimo, e fece abbruciare le case degli eretici che avevano colla fuga prevenuto il suo arrivo. Promulgò in seguito una legge intorno alla pena da infliggersi a costoro: era la morte[374], che per altro enunciò copertamente colla frase che la loro persona sia abbandonata al braccio secolare. Dichiarava poi che le loro case si distruggessero, ed i loro beni divisi tra il delatore, il comune, ed il tribunale [371] che pronuncierebbe la condanna; e per ultimo che dovessero pure atterrarsi le case di coloro che osavano dar ricovero agli eretici.
E temendo di non bastar solo a contenere la piena dell'eresia, chiamò due collaboratori in suo ajuto: il primo, italiano, doveva adoperare la dolcezza e l'esempio; spagnuolo l'altro, lo spionaggio ed i supplicj: erano questi san Francesco e san Domenico[375][376]. Protestò il papa d'averli veduti in sogno sostenere sulle loro spalle san Giovanni di Laterano, e perciò diede loro il carico d'associarsi dei fratelli che gli ajutassero a sostenere la pericolante fede. San Francesco raccomandava ai suoi discepoli, allora chiamati fratelli minori, di ricondurre gli eretici in seno della Chiesa coll'esempio della loro povertà ed ubbidienza[377]; e san Domenico ordinava [372] più espressamente ai suoi di predicare contro gli eretici, d'informarsi del loro numero, della loro credenza e dello zelo de' vescovi nel reprimerli; indi riferire a Roma tutto quanto verrebbe a loro notizia; ed eccitare i principi cristiani a prendere le armi contro gli eretici. Un tribunale, che condannasse direttamente a morte gli eretici, non fu accordato ai Domenicani che parecchi anni dopo da Innocenzo IV; ma fino dalla prima loro istituzione si presero il titolo d'inquisitori, val a dire delatori della fede[378].
L'anno 1203 san Domenico prese per impulso proprio a predicare contro gli Albigesi; e l'anno 1206 fu spedito dal papa nella Gallia Narbonese, con ampie facoltà di promettere a coloro che prenderebbero la croce per l'esterminio degli eretici, tutte le indulgenze riserbate [373] fin allora ai soli liberatori di Terra santa[379]. Del 1209 Simone di Monfort, sempre accompagnato dai Domenicani, entrò ne' dominj del conte di Tolosa alla testa de' crocesegnati. Gli scrittori ecclesiastici di que' tempi ne esaltano la condotta; tacciono i posteriori ed arrossiscono. Pochi estratti dei primi non devono sembrare stranieri alla storia delle nostre repubbliche; facendo chiaramente conoscere l'impulso che il papa voleva dare alla religione del suo secolo, e gli orrori risparmiati all'Italia dal libero governo delle sue città.
«L'anno del Signore 1209, dice Bernardo Guidone[380], il giorno di santa Maria Maddalena, l'armata crociata contro gli eretici d'Albi, Tolosa e Carcassona, entrò nelle terre soggette al conte di Tolosa, prese la città di Bezier e la diede alle fiamme. Nella chiesa di [374] santa Maria Maddalena, ov'eransi rifugiati i cittadini che prima eransi opposti all'armata vittoriosa, furono uccise sette mila persone. E ciò era troppo giusto, perchè avevano ricusato al proprio vescovo di consegnare all'armata tutti gli eretici che trovavansi nelle loro mura.» Di fatti la più parte di coloro che venivano trucidati in tal maniera, erano cattolici. In un consiglio di guerra i crociati avevano domandato come sarebbersi potuti distinguere i cattolici dagli eretici, onde risparmiarli. Rispose Arnoldo, abate di Citeaux: «Colpite tutti, il Signore conoscerà bene i suoi fedeli!» ed il massacro fu universale[381].
«L'anno del Signore 1211, il conte di Monfort, l'atleta di Cristo, assediò coll'armata crociata il forte castello di Vaure nella diocesi di Tolosa, ove si erano rinchiusi molti eretici; e l'ebbe a patti, dopo essersi coraggiosamente battuti d'ambe le parti. Avendovi trovati circa quattrocento eretici perfetti che non vollero convertirsi, il principe cattolico li fece consumare il giorno [375] dell'Invenzione di Santa Croce col fuoco materiale, destinandoli così all'eterno che deve divorarli. Aymerico, nobile signore di Monreale e di Lauriat, che con altri gentiluomini aveva presa la difesa di questo castello, fu condannato ad essere appiccato dallo stesso conte, che fece morire sotto la scure più di novanta gentiluomini, e gettare in un pozzo e ricoprire di sassi Geralda signora del castello, eretica, e sorella d'Aymerico[382].»
In mezzo a tali massacri che rinnovavansi ogni giorno, col di cui racconto non rattristerò più a lungo i miei lettori, san Domenico spiegò più manifestamente il suo carattere. Passava egli senza guardia a traverso di un paese abitato dagli eretici, e dove aveva fatto spargere molto sangue. Tutto ad un tratto vien colto in mezzo da costoro: «non hai tu timore della morte? gli dissero: che farai tu allorchè noi ti avremo preso? Allora l'atleta del Signore (tale è il racconto fattone dal Beato Giordano suo compagno, che ne scrisse [376] la vita), infiammato d'ardore per il martirio, gli rispose: in tal caso vi pregherei di non terminare troppo presto il mio supplizio; di non uccidermi subito sotto i vostri colpi, ma poc'a poco e successivamente; di mutilare ad uno ad uno i miei membri e pormeli innanzi agli occhi; vi pregherei inoltre di cavarmi gli occhi, e di permettere allora che il mio corpo così mutilato si ravvolgesse entro il proprio sangue fino all'istante in cui credereste di uccidermi[383].» In tal modo quest'uomo intrepido rivolgeva la sua feroce immaginazione sopra di se medesimo, compiacendosi dell'aspetto del proprio dolore, come di quello degli altri. Pure una così strana inchiesta parve atto di mirabile costanza agli stessi Albigesi, e lo lasciarono in libertà di proseguire il suo viaggio.
L'ultimo più notabile avvenimento del pontificato d'Innocenzo III fu l'assemblea del quarto Concilio ecumenico di Laterano. L'anno 1215, nel mese di novembre, settant'uno metropolitani e quattrocento vescovi, più di ottocento abati [377] e priori di monasteri, adunaronsi in Roma sotto la sua presidenza per deliberare intorno agl'interessi della Chiesa. Quest'adunanza parve che adottasse tutte le viste ed i sentimenti del pontefice che la presedeva. Si condannarono gli errori de' Pauliciani e quelli d'altri oscuri eretici che disputavano intorno alla Trinità; fu confermata la preferenza data da Innocenzo a Federico II, sopra Ottone IV, e per ultimo sanzionò questo concilio la recente obbligazione imposta ai fedeli dell'uno e dell'altro sesso di confessare almeno una volta all'anno i proprj peccati ad un sacerdote[384][385].
Terminato il concilio, Innocenzo III si mosse del 1216 alla volta della Toscana per rappacificare i Pisani ed i Genovesi, onde valersi di loro nella difesa di Terra santa; ma giunto a Perugia, s'infermò gravemente, e nel giorno 6 luglio cessò di vivere. Siccome gli scrittori ecclesiastici hanno il privilegio di seguire oltre la tomba i loro eroi, possiamo prendere da loro un curioso aneddoto, che malgrado il sommo rispetto che gli professavano, [378] ci hanno conservato d'Innocenzo III. Era appena morto quando la sua anima, circondata da una orrenda fascia di fuoco, apparve a santa Liutgarde. «Io sono papa Innocenzo, le disse, e per tre motivi avrei meritata l'eterna dannazione, se l'intercessione della Beata Vergine, in onore della quale ho fabbricato un monastero, non me n'avesse liberato: soffrirò invece il tormento che tu vedi fino al giorno del giudizio: per raccomandarmi alle benefiche tue preghiere e delle tue sorelle in Gesù Cristo, io sono apparso a te:» dette queste parole, scomparve. «Sappia il lettore, soggiunge Tomaso Cantipratense, biografo della Santa, che Liutgarde ci ha rivelati questi tre titoli: ma che per il rispetto dovuto a così grande pontefice, non abbiamo voluto indicarli[386].» Forse il lettore troverà Innocenzo colpevole ben più che di tre delitti in faccia alla divina Maestà; che più misericordiosa di santa Liutgarde e di san Domenico, non lo avrà per la sua grazia condannato alle pene di molte migliaja d'anni.
Digressione intorno alla quarta crociata[387]. — Conquiste delle repubbliche italiane in Oriente.
Il pontificato d'Innocenzo III è famoso per le guerre sacre ch'egli provocò, facendole promulgare dai predicatori. Mentre alcune armate cattoliche soffocavano nelle province occidentali e presso gli Albigesi i primi germogli dell'eresia e dello spirito d'indipendenza, altre ugualmente condotte da predicatori cristiani sottomettevano al poter papale il patriarca dell'Oriente, il più antico rivale della sede romana, e la chiesa greca, che fino dalla metà del secolo XI [380] i Latini avevano colpita d'anatema siccome infetta d'eresia[388].
Se la prima di queste guerre religiose richiamò a se un istante la nostra attenzione, soltanto perchè Innocenzo III l'adoperò come stromento per istabilire la sua monarchia temporale, e quel potere de' papi che doveva alternativamente appoggiare le repubbliche ed opprimerle; la seconda appartiene assai più, e direi quasi essenzialmente alla nostra storia, poichè l'acquisto di Costantinopoli non fu meno l'opera di Venezia, che degli altri Latini assieme riuniti; e mentre questa fiera signora dell'Adriatico attaccava i Greci, Pisa li difendeva, e finalmente le tre repubbliche marittime d'Italia ebbero parte nella divisione dell'impero d'Oriente.
Ma questa spedizione di tanta importanza è stata già descritta da tutti gli storici delle crociate, e da tutti quelli di Costantinopoli; e ciò che più monta, da Gibbon[389]: e dopo che questo ammirabile [381] scrittore ha presentato drammaticamente, ma con tutta verità e con profonda erudizione, il quadro di un'epoca della storia, difficile riesce, senza dubbio, il richiamare sugli stessi avvenimenti l'attenzione del lettore. Ciò null'ostante ho seguito l'esempio di Gibbon, attingendo, com'egli ha fatto, agli scrittori originali, e non copiandoli: e la conquista di Costantinopoli considerata sotto i rapporti che la legano alla storia veneziana, si mostrerà in parte sotto un punto di veduta affatto nuovo.
Dopo la fondazione di Costantinopoli il governo di questa capitale e del suo impero era sempre stato puramente dispotico e non monarchico, secondo il liberale significato dato dalle moderne nazioni a questo vocabolo. Giammai veruno spirito di libertà, o nazionale o di corpo, aveva per un solo istante fatto ostacolo ai criminosi arbitrj del poter reale, nè pensato forse che si potesse tener in bilico il solo onnipotente volere del governo. Abbiamo già osservato come gl'Italiani, dopo avere scosso un'eguale potere, avevano fatto acquisto di nobili e generose idee; mentre ai tempi d'Innocenzo III, un governo invariabile, sempre regolare ed apparentemente incivilito [382] esercitava già da otto secoli l'uniforme sua influenza sui Greci. Il despotismo degl'imperatori di Costantinopoli, sempre intero e sempre favorito da tutte le circostanze, è una compiuta incontrastabile prova dei naturali e necessarj effetti del più pessimo governo.
Infatti potrebbersi impugnare gli esempj delle torbide dinastie fondate colla forza delle armi, perchè la violenza della loro origine trae sempre seco un'eguale violenza, che l'accompagna finchè dura; perchè i soldati che fecero il loro monarca possono ancora disfarlo; e perchè finalmente la sovranità confidata una volta alla forza brutale, non può giammai impiegarsi con discernimento al comune beneficio. L'autorità di Cesare in Roma fu tutta militare; ma Costantino trasportando la sede dell'impero nella sua nuova città, tolse lo scettro di mano ai soldati; il despotismo greco fu una costituzione civile; e quando la corona fu trasferita dall'una all'altra famiglia, lo fu per gl'intrighi del palazzo, e non col mezzo de' clamori e dell'ammutinamento delle armate.
Potrebbesi pure impugnare l'esperienza d'una nazione barbara ed ignorante, che giammai non avesse riflettuto intorno allo [383] scopo delle civili società, ed il di cui capo non avesse mai pensato che il suo interesse è legato a quello del popolo. Ma i Bizantini avevano raccolta la sapienza di tutto l'universo, l'immensa eredità della esperienza di tutte le antiche repubbliche, di tutte le antiche monarchie. Erano tra le loro mani i libri di tutti i filosofi greci e romani, e quelli delle più moderne scuole apertesi ai tempi di Adriano e degli Antonini, colle memorie delle dinastie dell'Asia e dell'Egitto, ch'ebbero regno nelle stesse province del loro impero. Giammai altri despoti montarono sul trono con maggiore facilità di riunire una più grande quantità di lumi.
Nè tutte queste cognizioni pratiche andarono neglette o perdute; il dispotismo greco, per mezzo di felici e rare circostanze, si trovò al possesso di un bel sistema di giustizia, di un bel sistema d'imposizioni, i quali risparmiarono ai sudditi dell'impero molte private sofferenze. La giurisprudenza di Giustiniano è forse, fino a' nostri giorni, la più equa e meglio ordinata legislazione. Il sistema delle imposte stendevasi a tutti i ranghi, ad ogni genere di ricchezze, e procurava allo stato le maggiori entrate possibili, proporzionatamente alle somme che pagavansi dai sudditi.
[384] Niun governo può esistere indipendente dalle circostanze esteriori o accidentali della nazione, ed i partigiani del despotismo potrebbero confutare le conclusioni che si deducessero contro di loro coll'esempio dell'impero greco, se questo impero fosse stato così vasto da non permettere alcun legame tra i suoi abitanti, ristretto in modo di non avere bastanti forze per difendersi; se fosse stato circondato da troppo bellicose o troppo potenti nazioni per poter loro resistere; se i cittadini avessero affatto perduto ogni carattere militare; se fossero stati poveri in modo di non poter pagare le imposte; finalmente se una nazionale inimicizia gli avesse alienati dal loro proprio governo. Ma l'impero greco, quando si divise dall'occidentale, era più vasto, più ricco e più popolato di quel che lo sia mai stato l'impero di Carlo Magno, ed essendo le antiche conquiste di cui era formato andate in dimenticanza, il corpo intero della nazione parlava lo stesso idioma, e l'abitante della Siria risguardavasi come un cittadino della Tracia. I successi ottenuti dalle barbare nazioni che lo attaccarono non devono illuderci intorno alle loro forze, che tutte insieme non pareggiavano la popolazione o la ricchezza [385] del solo impero greco; la loro arte militare, la loro disciplina, le loro armi non erano altrimenti paragonabili a quelle de' Romani; tra le varie orde di barbari che uscirono dalla Tartaria, dalla Persia, o dall'Arabia per movere guerra ai Greci, non eravi alcun popolo che possedesse quel valore fermo ed ostinato, che i Galli ed i Germani opposero invano alle romane legioni. Non eravi alcun popolo abbastanza istrutto delle cose politiche per sapere trattare alleanze, e combinare contro Costantinopoli una pericolosa colleganza; veruno che tentasse di corrompere i sudditi dell'Impero e di eccitare la ribellione nel suo seno; veruno che coll'esempio di un prospero governo, o per mezzo de' principj sui quali si fondasse, facesse crollare i fondamenti dell'autorità de' Cesari. Il valore militare era, a dir vero, quando si divise lo stato di Roma, già venuto meno per la lunga durata del precedente despotismo; ma in sul cominciare di questo despotismo, era ancora nel suo pieno vigore; ed anche dopo Costantino, le legioni romane, capitanate da Giuliano, mostrarono che l'antico valore non era spento. Finalmente il ritorno della sovrana autorità tra le mani dei Greci, era per essi come una vittoria nazionale, che doveva [386] attaccarli al loro monarca. Tutto prometteva all'Impero greco una costante prosperità, se il despotismo era mai capace di renderla stabile.
Non è qui bisogno di tener dietro alla vergognosa storia de' monarchi di Costantinopoli ed ai deboli intrighi della loro corte, per sapere a qual punto di avvilimento questo governo, tanto favorito dalle circostanze, aveva ridotta la razza umana: basta osservare cosa fosse l'Impero greco quando i crociati risolsero di conquistarlo; senza armate, senza flotte, senza tesori, senza coraggio, senza talenti; non contava un solo generale che avesse saputo meritarsi la stima de' soldati, quantunque l'Impero si trovasse sempre impegnato in guerre civili e straniere. Nel lungo corso di dieci secoli non produsse una sola opera scientifica o letteraria che s'innalzasse al di sopra della mediocrità, sebbene siansi sempre più o meno coltivate le lettere, e che i Greci fossero intimamente persuasi d'essere i soli al mondo capaci di scrivere, e che senza di loro tutti i popoli da essi chiamati barbari sarebbero condannati a perpetua obblivione[390]. Ogni energia era talmente [387] spenta ch'erano perfino cessate le dispute religiose; ed i sofisti greci non si occupavano più delle interminabili loro controversie; e dopo l'ottavo secolo niuna nuova eresia aveva turbata la tranquillità di quella Chiesa[391]. Un'altra prova di questo indebolimento è che i Greci avevano rinunciato ad ogni commercio straniero, malgrado la superiorità delle loro ricchezze, malgrado i sommi vantaggi de' loro porti e delle loro posizioni, e malgrado l'esclusivo possesso lungo tempo conservato: erano i repubblicani d'Italia, che stabilitisi tra di loro, ne facevano tutto il traffico. I Greci contenti del commercio spicciolato e delle manifatture che non richiedevano l'occupazione d'alcuna facoltà dell'anima, e dove gli uomini potevano agire come semplici macchine, abbandonavansi ad una profonda mollizie. I piaceri sensuali ed il riposo erano i soli oggetti dei loro desiderj: essi ignoravano perfino l'esistenza del punto d'onore, ed [388] erano diventati insensibili alla vergogna[392]. Questo carattere nazionale verrà bastantemente sviluppato quando li vedremo alle mani coi Latini.
Le cronache delle città marittime d'Italia ci somministrano poche notizie intorno alle colonie stabilite dai loro cittadini in Costantinopoli o in altre città dell'Oriente: queste colonie governavansi da se medesime, nominavano i propri ufficiali senza riceverli dalla metropoli; e qualunque si fossero la popolazione e la ricchezza loro, non potevano ritenersi appartenenti allo stato. Quindi gli storici nazionali diedero pochissima importanza alle guerre de' privati veneziani e pisani nell'altra estremità dell'Europa, comechè le conseguenze che ne derivarono siano ai nostri tempi risguardate con sorpresa; mentre le continue guerre de' Pisani e dei Genovesi, che hanno più che altro l'aria di pirateria, attiravano potentemente tutta l'attenzione delle loro città.
Già da molto tempo, i Veneziani, siccome più vicini alla Grecia, avevano ottenuti grandissimi vantaggi commerciando colla medesima; e per compensare i beneficj di cui godevano, somministravano [389] le loro flotte agl'imperatori di Costantinopoli per valersene nelle guerre di mare; ma da cinquant'anni in qua questa buona armonia erasi non poco alterata. I Veneziani troppo fidando al proprio coraggio, non dissimulavano il loro disprezzo per la viltà greca, e vendicavansi colle armi alla mano de' più leggeri insulti che loro fossero fatti.
Dopo l'assedio di Corcira, nel quale i Greci ed i Veneziani avevano combattuto assieme sotto gli stessi stendardi, Manuele Comneno fu costretto di calmare la subita collera degli ultimi con umilianti sommissioni[393]. Ciò era accaduto del 1152, ma nel 1169 lo stesso imperatore, irritato senza dubbio da recenti offese, li fece tutti imprigionare nel medesimo giorno, assicurandosi delle loro proprietà in tutti i porti de' suoi stati. Non furono tardi i Veneziani a vendicarsene, devastando con una flotta di cinquanta galee l'Eubea, Chio ed altre isole, e forzando l'imperatore a domandare la pace, ed a promettere in compenso de' beni confiscati che non poteva [390] restituire, il pagamento di ragguardevole somma. Una grande popolazione umiliata da un pugno di gente non può non sentire per questi valorosi un odio eguale al terrore che la comprese. Quantunque i Veneziani, stabiliti a Costantinopoli ed in tutto l'Impero, avessero stretti legami di famiglia coi Greci, e sembrassero diventati loro concittadini, il solo loro nome li rendeva in faccia al popolo un oggetto di odio; talchè ogni rivoluzione di corte, ogni sedizione popolare, poteva essere il segno d'un massacro. Quando Andronico, l'anno 1183, cacciò dal trono Alessio Comneno, figliuolo di Manuele[394], i Veneziani furono attaccati all'impensata, saccheggiati e costretti a salvarsi colla fuga: del 1187 sotto il regno d'Isacco Angelo[395] furono nuovamente attaccati; e da quest'epoca fino al 1201 gl'insulti del popolo e le violenti esazioni degli ufficiali del governo moltiplicarono ogni giorno i titoli di malcontento e l'odio reciproco delle due nazioni. I negozianti pisani seppero approfittare delle disposizioni [391] in cui trovavansi i Greci verso i Veneziani, per soppiantarli nel commercio di Costantinopoli; e la loro colonia fu in breve la più ricca perchè non si rifiutarono di venire frequentemente alle mani coi Veneziani onde mantenersi cari al governo greco che li ricolmava di favori[396].
Il trono di Costantinopoli era a quest'epoca occupato da un usurpatore. Dopo i principi della casa Comnena ch'eransi fatti ammirare come superiori assai ed ai loro predecessori ed ai loro sudditi, la Grecia era stata da prima governata da un debole fanciullo, ultimo erede di questa stirpe; poi da un feroce tiranno, Andronico; e dopo questi dal debole Isacco Angelo, ch'era stato in fine balzato dal trono da suo fratello, privato della vista e posto in carcere: ma ciò che facilmente non accaderà giammai altrove, l'usurpatore non aveva nè maggiori talenti ne più coraggio di quello ch'egli aveva spogliato della porpora; ed il secondo Alessio Angelo, nelle delizie del suo palazzo, non occupavasi, in sull'esempio di suo fratello, che de' suoi piaceri e delle assurde predizioni degli astrologi.
[392] Tale era, l'anno 1198, lo stato dell'Oriente quando Innocenzo III facendo predicare la crociata da Folco di Nuelly pose in moto la maggior parte de' baroni francesi per riconquistare il santo Sepolcro. Tebaldo, conte di Champagne, Luigi, conte di Blois, Baldovino, conte di Fiandra, Ugo, conte di san Paolo, Simone, conte di Monfort, e Goffredo, conte di Perche, potevano risguardarsi come i capi dell'intrapresa[397]. Essendo morto Tebaldo avanti che la loro armata potesse porsi in cammino, i crociati, in un'assemblea tenuta a Soissons, nominarono loro condottiero Bonifacio di Monferrato, fratello di quel marchese Corrado che aveva così valorosamente difeso Tiro contro Saladino.
Dopo ciò i crociati risolvettero l'anno 1201 di passare in Palestina o in Egitto per la via di mare, e cercarono di fare coi Veneziani un trattato di sussidio e d'alleanza. Enrico Dandolo allora [393] duca, o doge di Venezia, offrì ai loro ambasciatori in nome della repubblica di fornire tanti bastimenti da trasporto, chiamati usceri o palandre, quanti bastassero per quattro mila cinquecento cavalli, e nove mila scudieri; vascelli per quattro mila cinquecento cavalieri, e venti mila uomini d'infanteria; le provvigioni per tutte queste truppe per nove mesi, e cinquanta galee armate per iscortarli su quelle coste in cui il servizio di Dio e della cristianità li chiamerebbe[398]. Domandavano in compenso, che i crociati avanti d'imbarcarsi pagassero ottantacinque mila marche d'argento e dividessero coi Veneziani a parti eguali tutte le conquiste che farebbero.
Ma prima che queste condizioni, accettate dai crociati, potessero risguardarsi come convenute, era necessario d'avere l'assenso, prima di sei savj e della quarantia, consigli fin a que' tempi stabiliti in Venezia per temperare l'autorità dei dogi; poi del popolo medesimo che non aveva per anco rinunciato ad ogni [394] ingerenza governativa. Polche Dandolo ebbe il parere de' suoi consiglieri, e preparati gli animi del popolo, riunendo per sezioni, prima duecento, poi fino mila cittadini, adunò l'assemblea generale composta di due mila e più persone nella chiesa di san Marco, e sulla vicina piazza. Colà dovevano essere introdotti sei deputati della più alta nobiltà francese che venivano ad umiliarsi innanzi ad un popolo di mercanti per implorarne l'assistenza. Uno di loro, Goffredo di Villehardovin, maresciallo di Champagne, lasciò scritta in vecchio francese una relazione di quest'ambasceria e di tutta la spedizione; eccone il racconto[399]:
«Il doge, poi ch'ebbe riuniti i suoi concittadini, disse loro, che ascoltassero la messa dello Spirito Santo, e pregassero Dio a consigliarli sull'inchiesta loro fatta dai messaggieri; e ciò fecero assai di buon grado. Finita la messa, il doge invitò i messaggieri affinchè pregassero il popolo umilmente ad approvare questa convenzione. Vennero i messaggieri alla chiesa, e furono curiosamente osservati assai da molta gente che prima non gli avevano così veduti. Goffredo di Villehardovin prese a parlare, com'era concertato ed assentito dagli altri messaggieri, e disse: Signori, i più alti e potenti baroni di Francia ne spedirono a voi; essi vi chiedono mercè: abbiate compassione di Gerusalemme caduta in servitù de' Turchi; e vogliate in onore di Dio accompagnarli, e vendicare la vergogna di Gesù Cristo. Essi fecero scelta di voi, perchè sanno che verun altro popolo marittimo è potente come voi ed il vostro popolo: c'imposero di gettarci ai vostri piedi, e di non rialzarci che allorquando avrete determinato d'avere pietà di Terra santa oltre mare. — Intanto i sei messaggieri inginocchiavansi ai [396] loro piedi piangendo; ed il doge e tutti gli altri gridarono ad una voce, stendendoci le mani: noi l'approviamo, noi l'approviamo[400].
»Nel susseguente anno i crociati ottennero da Innocenzo III l'approvazione di questa convenzione fatta coi Veneziani[401]; ma mentre la repubblica soddisfece dal canto suo scrupolosamente agli obblighi suoi, molti de' crociati vi mancarono vergognosamente. I sudditi del conte di Fiandra, invece di seguirlo, presero la strada del mare, e, passando in Siria colle loro proprie navi, non si unirono più all'armata crociata; il vescovo d'Autun, Guiche conte di Forest, ed altri molti andarono a Marsiglia per procurarsi il passaggio sopra vascelli mercantili[402]; di modo che i crociati, che incominciarono ad arrivare a Venezia dopo la Pentecoste, ed ai quali fu ceduta l'isola di san Nicola di Lido, non arrivarono al numero [397] che si era supposto, e quando si venne a riscuotere da cadauno di loro la capitazione convenuta, cioè due marche per uomo, e quattro per ogni cavallo[403], si fu ancora assai lontani dal compire le ottanta mila marche convenute, tanto più che molti dicevano di non poter pagare il loro passaggio, sicchè i loro baroni ricevevano di costoro quello che potevano averne. I conti di Fiandra, di Blois, di san Paolo, il marchese Bonifacio, ed i loro amici vollero sagrificare quanto avevano, e mandarono al doge tutto il loro vasellame; ma malgrado questo generoso sagrificio mancavano tuttavia [398] trentaquattro mila marche al compimento del pattuito prezzo[404].
»Allora il duca parlò ai suoi popoli, e disse loro: Signori, queste genti non possono pagarci: quanto hanno fin qui pagato, noi l'abbiamo tutto guadagnato in forza della convenzioni cui essi non sono in istato di soddisfare; ma il nostro diritto rigorosamente voluto non sarebbe di loro aggradimento, e noi ed il nostro paese ne saremmo biasimati assai. E bene invitiamoli dunque ad un nuovo accordo. Il re d'Ungheria si tiene a torto Zara in Schiavonia, che è una delle più forti città del mondo, e che, per quanto noi faremo, non potremo mai riavere senza l'ajuto di questa gente. Ricerchiamoli di andare a conquistarla per noi, e noi faremo loro rilascio delle 34,000 marche di cui ci vanno debitori, finchè Dio permetta a noi ed a loro di guadagnarle insieme. L'accordo venne proposto in questi termini; e fu impugnato assai da coloro che desideravano che l'armata si disperdesse: ma infine l'accordo fu fatto ed approvato.
[399] »S'adunarono allora, in un giorno di domenica, nella chiesa di san Marco tutto il popolo della città e la maggior parte de' baroni e dei pellegrini. Avanti che incominciasse la messa solenne, il duca di Venezia, che avea nome Andrea Dandolo, montò in pulpito, e parlò al popolo in questo modo: Signori, voi siete associati alla miglior gente del mondo, e pel più importante affare che altri uomini intraprendessero mai: io sono ormai vecchio e debole, ed avrei bisogno di riposo, essendo mal disposto di corpo; ma vedo che niuno saprebbe governarvi e condurre al par di me, che sono il vostro doge. Se volete acconsentire ch'io prenda l'insegna della croce per custodirvi e dirigervi, e che mio figlio faccia le mie veci, e custodisca la terra, anderò a vivere ed a morire con voi e coi pellegrini.
»E quand'ebbero ciò udito; Sì, gridarono tutti ad una sola voce, noi vi preghiamo da parte di Dio che la prendiate, e che venghiate con noi.
»Ebbero allora grande compassione il popolo della terra, ed i pellegrini, e furono versate molte lagrime perchè quest'uomo prode aveva sì grande motivo [400] di rimanersene, perchè vecchio, perchè, quantunque avesse begli occhi in testa, non perciò vedeva egli punto, avendo perduta la vista per una ferita avuta nel capo[405]. Mostrava egli gran cuore. Ah quanto male gli rassomigliavano coloro ch'eransi diretti ad altri porti per sottrarsi al pericolo. Così scese egli dal pulpito, ed andò avanti all'altare, e postosi in ginocchio, versando molte lagrime, gli fu cucita la croce sul suo grande cappello di cotone, perchè voleva che tutti la vedessero. Ed i Veneziani cominciarono a crociarsi questo giorno in molta abbondanza»[406].
In questo frattempo il figlio del detronizzato imperatore Isacco, che chiamavasi Alessio, avendo avuto modo di fuggire da Costantinopoli sopra una nave pisana, e di salvarsi in Italia, mandò i suoi deputati a Venezia per sollecitare i crociati ad ajutarlo a risalire sul trono de' suoi padri. Questo giovane principe aveva già visitata la corte di Roma, ed aveva cercato il favore del papa, ma questi era stato prevenuto dall'imperatore Alessio suo zio, il quale aveva spediti ad Innocenzo III ambasciatori di alto rango con grandiosi regali, e pregatolo a mandare alcuni legati a visitare il suo Impero[407]. Era stato intavolato un trattato tra Alessio, il patriarca di Costantinopoli e Roma, ed il papa aveva potuto lusingarsi di ricondurre i Greci all'ubbidienza, cui questi avevano già ridotti i Latini. Perciò quando da una parte il giovane Alessio gli chiese protezione, e dall'altra il vecchio Alessio gli scrisse nuovamente per pregarlo a non dare ajuto al fuggiasco che non era assistito da verun titolo ereditario, perchè [402] non era porfirogeneta, ossia nato in tempo che suo padre era sul trono, e perchè l'impero era elettivo: Innocenzo rispose in modo di richiamare a sè medesimo la decisione di questo affare, credendo di potere con una sentenza disporre a modo suo dell'Impero d'Oriente: quindi ordinò che i crociati non prendessero veruna parte nelle contese de' Cristiani, ed incaricò il cardinale di san Marcello di assumere in nome del sacro Collegio le informazioni relative a questa nuova causa[408]. Il giovane Alessio che non tardò ad avvedersi che poco poteva ripromettersi dalla mediazione del papa, passò in Germania presso il re Filippo di Svevia, competitore di Ottone IV, il quale avendo sposata sua sorella, cercò con tutti i mezzi di raccomandarlo caldamente ai crociati[409].
Intanto la flotta, poi ch'ebbe caricate tutte le macchine di guerra necessarie [403] ad un assedio, fece vela da Venezia il giorno 8 di ottobre, e giunse in faccia a Zara il 10 novembre, vigilia di san Martino[410]. Quantunque assai forte questa città si lasciò sgomentare dalla potenza dell'armata che veniva per intraprenderne l'assedio, e dopo cinque giorni i cittadini si arresero al doge salve le vite, ed il saccheggio della città fu diviso tra i confederati. Ma la stagione era ormai troppo avanzata, perchè una flotta di crociati potesse giugnere sicura in Egitto, e prese a Zara i quartieri d'inverno.
Durante tale dimora i baroni francesi ricevettero lettere del pontefice, colle quali loro rinfacciava aspramente la presa d'una città cristiana, ed il profano uso che avevano fatto delle loro armi, mentre che in forza de' voti emessi omai non appartenevano che a Gesù Cristo: [404] gli avvertiva poi, che se non si pentivano e non si affrettavano di restituire al re d'Ungheria tutto quanto avevano tolto ai suoi sudditi, sarebbero colpiti dalla scomunica già sospesa sul loro capo[411].
I Veneziani avevano fino da que' tempi adottata, rispetto alla santa sede, quella ferma ma rispettosa politica, colla quale seppero conservare verso la medesima una indipendenza che non conobbero le altre potenze cattoliche. Anche prima quando il cardinale Marcello erasi portato a Venezia per prendere, col titolo di legato, il comando della flotta crociata, gli avevano fatto sapere che, se era venuto come predicatore cristiano, si farebbero gloria di riceverlo; ma che, se intendeva di esercitare sopra di loro un'autorità temporale, non potevano accoglierlo sulla flotta[412]. Dopo aver avuta quest'ambasciata il cardinale erasene tornato a Roma. Le nuove minacce del papa non gli smossero punto, e piuttosto che sottomettersi, lasciaronsi scomunicare. I baroni francesi erano più [405] spaventati per le minacce del papa; onde spedirongli quattro deputati per ottenere d'essere riconciliati colla Chiesa[413]. Ma mentre cercavano di calmarlo colla loro sommissione, impegnavansi, contro l'espresso suo divieto, in un trattato col giovane Alessio, che per più lungo tempo ancora doveva tener lontane le loro armi dalla guerra sacra.
L'anno 1203 il principe greco erasi portato a Zara presso i crociati; gli aveva commossi col racconto delle proprie sventure e di quelle di suo padre, e più ancora colle offerte onde seppe abbellire la sua narrazione. Prometteva di ridurre l'Impero di Costantinopoli all'ubbidienza della Chiesa romana, di dividere tra crociati duecento venti mila marche d'argento, di mandare a sue spese in Egitto dieci mila uomini[414] (che Villehardovin chiama sempre terra di Babilonia[415]) quando egli non possa recarvisi [406] personalmente, e di mantenere perpetuamente cinquecento cavalieri alla custodia di Terra santa.
I Francesi erano già ben disposti a favore del giovane principe, che invocava, presso di loro, l'alleanza di sua famiglia con quella di Luigi il giovane[416]. I Veneziani d'altra parte abbracciavano con piacere un'occasione di vendicarsi dei torti ricevuti dai Greci, e di far loro provare il proprio potere: e gli uni e gli altri poi parvero sopra tutto mossi dalla considerazione che per conquistare la Siria era prima necessario d'essere padroni delle coste di uno dei due paesi limitrofi, l'Egitto, o l'Asia minore[417]. I più principali signori dell'armata, il marchese Bonifacio di Montferrat, il conte Baldovino di Fiandra, il conte Luigi di Blois, ed il conte Ugo di san Paolo, accettarono, d'accordo col doge, le condizioni loro offerte dal giovane Alessio; ma i cardinali legati [407] del papa abbandonarono i crociati, e passarono in Cipro, poi nella Siria, piuttosto che prendere parte alla spedizione contro la Grecia[418]; ed un gran numero di baroni, tra i quali il conte di Monforte, dopo aver dichiarato di non volere imbarazzarsi in un'intrapresa che offendeva il papa, si separarono dall'armata.
Già da lungo tempo sapevansi a Costantinopoli i maneggi del giovane Alessio, ed inoltre la risoluzione dei crociati, onde ebbero tempo di prepararsi a respingere il loro attacco. Di tutti i paesi d'Europa la Grecia è quella che invita più fortemente i suoi abitanti alla navigazione. In ogni tempo le numerose sue isole gli somministrarono esperti marinaj; ed anco a quest'epoca Costantinopoli divideva con Venezia l'impero del mare: era dunque a supporsi che una flotta greca venisse ad aspettare i crociati alla bocca dell'Adriatico, per impedirgli di avvicinarsi alle coste dell'Impero. Ma l'imperatore aveva affidato il comando delle sue flotte a Michele [408] Strufuos suo cognato, uomo bassamente avido, che aveva venduto perfino le ancore, i cordaggi e le vele dell'arsenale della marina; talchè nell'istante della guerra non trovaronsi sui cantieri vascelli lunghi proprj alla guerra[419]. Per farne di nuovi, le vaste foreste delle due coste della Propontide avrebbero somministrato il legname necessario; ma gli eunuchi del palazzo avevano prese in custodia quelle foreste, e non permettevano che si atterrassero le piante dei boschi consacrati alla caccia ed ai piaceri del loro signore[420].
Si sarebbero pure potuti prendere altri mezzi di difesa; perciocchè ai crociati, ritardati dalla quantità delle palandre, vascelli necessarj al trasporto d'un'intera armata, era impossibile di giugnere a Costantinopoli senza dar fondo più volte per procurarsi i viveri e rifare i cavalli dagl'incomodi del mare. Se le coste dell'Impero fossero [409] state preparate ad una vigorosa resistenza; se le munizioni ed i viveri fossero stati trasportati nell'interno, l'attacco sarebbesi reso così difficile, che il grosso partito de' crociati contrarj a quest'intrapresa sarebbero in più occasioni stati ascoltati ed avrebbero fatto rivolgere la flotta verso Terra santa, primo oggetto della loro spedizione. Ma i crociati approdarono ad Epidamno o Durazzo, ove invece d'incontrare opposizione, vi furono amichevolmente accolti dagli abitanti, che giurarono fedeltà al giovane Alessio[421]; approdarono di nuovo a Corcira, e vi riposarono tre settimane, non travagliati da altra opposizione che da quella di molti crociati che volevano ad ogni modo prendere la strada di Terra santa, ma che furono alla fine contenuti. Ebbero eguale accoglimento a Capo Maleo, a Negroponte, ad Andros, ad Abido, ed ovunque presero terra: l'imperatore non aveva preparata veruna resistenza; ed il popolo mancava di energia per supplire all'inerzia del sovrano.
Finalmente i Latini, sempre secondati da un vento favorevole, arrivarono il giorno 23 giugno, vigilia di san Giovanni, a tre leghe da Costantinopoli in faccia ad un'abbazia di santo Stefano, di dove la città mostravasi tutta intera al loro sguardo[422]. «La gente de' navigli, galee ed usceri presero porto, ed ancorarono i loro vascelli. Ora potete ben credere che molti, che mai non lo avevano veduto, guardavano Costantinopoli, e non potevano credere trovarsi più ricca città in tutto il mondo. Quando videro le alte sue mura, e le ricche torri che tutta la chiudevano all'intorno, e que' ricchi palazzi e quelle alte chiese, delle quali ve n'erano tante che niuno avrebbelo creduto se non le avesse vedute cogli occhi proprj in tutta la lunghezza e larghezza della città, che di tutte le altre era sovrana; sappiate che non eravi persona tanto ardita cui non battesse il cuore; nè ciò deve recare maraviglia, giacchè non fu mai fatta sì grande impresa.... Ciascuno osservava le proprie armi, pensando che ogni soldato ne avrebbe in breve avuto bisogno.»
Colà dove il Bosforo di Tracia sbocca nella Propontide o mar di Marmora, apresi un golfo profondo e s'allarga dalle coste d'Europa: i Greci danno a questo golfo il nome di Chrysocheras, o pure di corno di Bisanzo. Tra questo golfo e la Propontide è posto Costantinopoli sopra un triangolo bagnato da due bande dal mare. Il muro settentrionale della città stendesi lungo la riva del mare di Marmora sopra uno spazio di tre mila tese; un altro muro presso a poco della stessa lunghezza va a nord-ovest lungo il golfo Chrysocheras che tien luogo di porto: là dove si riuniscono questi due muri e dove il triangolo si termina in punta all'imboccatura del Bosforo di Tracia, è oggi posto il serraglio; ed all'altra estremità del muro settentrionale verso il fondo del porto era fabbricato il palazzo di Blacherna degl'imperatori greci. Un doppio muro che scende dal nord a mezzogiorno, chiude la città all'ovest, e taglia la sola comunicazione che ha colla terra. Dall'altra banda del golfo trovansi al nord della città e sempre sulle coste d'Europa i sobborghi di Pera e di Galata: e sotto di questo il golfo non ha più di cento tese di larghezza; nel qual luogo appunto è chiuso con [412] una catena onde assicurare i vascelli che trovansi nell'interno del porto. Di faccia alla punta di Costantinopoli sull'altra costa del Bosforo appartenente all'Asia trovasi la piccola città di Crisopoli, oggi chiamata Scutari; più a mezzogiorno, e sulla stessa Propontide quella di Calcedonia[423].
I crociati sbarcarono prima a Calcedonia; poi passarono a Scutari, e si riposarono nove giorni nei giardini e palazzi dell'imperatore[424]. Intanto i Greci spiegarono la loro cavalleria sulla spiaggia di Pera in faccia a quella dei Latini. I crociati, poi ch'ebbero rinfrescate le loro truppe e cavalli, unironsi a parlamento a cavallo in mezzo al campo per risolvere intorno al modo che terrebbero nell'attacco: divisero la loro piccola armata in sei corpi, o battaglie, e quando i vescovi ebbero esortati i soldati a confessarsi ed a fare testamento, perchè non potevano sapere quando Iddio disporrebbe delle loro vite, i cavalieri salirono sulle loro palandre [413] a canto ai loro cavalli sellati e disposti alla battaglia. Le galee rimorchiarono le palandre fino alla spiaggia d'Europa, e quando furono vicine alla riva, i cavalieri lanciaronsi in mare col caschetto in testa e la sciabla in mano, stando nell'acqua fino alla cintura; e loro tennero dietro i loro sergenti ed arcieri. Tostochè i Greci armati ed a cavallo sulla riva se li videro vicini[425], benchè di numero superiori assai, fuggirono a briglia sciolta, senza abbassare la lancia, di modo che i Latini non incontrarono più difficoltà per fare scendere a terra i loro cavalli.
La testa della catena che chiudeva il porto, era difesa dalla torre di Galata[426], di cui i Latini intrapresero l'assedio. Nella vegnente notte i Greci fecero una sortita per sorprendere gli assedianti; ma coll'ordinaria loro viltà si posero in fuga tostochè i Latini dieder mano alle armi: alcuni s'annegarono volendo gettarsi nelle loro barche, altri rincularono con tanto precipizio nella torre di Galata, [414] che non si avvisarono di chiudere le porte, e la fortezza fu presa da coloro che gl'inseguivano. La catena venne rotta all'istante, e la flotta veneziana entrò trionfante in porto. Alcune delle galee greche che vi si erano poste in sicuro furono prese; altre si mandarono a picco sulla riva opposta a Costantinopoli, ove i marinai le abbandonarono e si diedero alla fuga.
Alla estremità del porto due fiumi, il Barbisse ed il Cidaro, riuniti in un solo letto, passano sotto un ponte detto Pietra forata, che poteva essere lungo tempo difeso; i Greci lo tagliarono, non lasciando sull'opposta riva alcuna guardia. Per accostarsi dalla banda di terra alle mura delle città, l'armata doveva fare un giro del golfo, ed attraversare il ponte. S'impiegò un giorno ed una notte a rifare il ponte, e grandissima fu la maraviglia de' crociati nel vedere che niuno veniva ad impedirne il lavoro; ben sapendo che ad ogni crociato la città poteva opporre venti uomini abili alle armi[427]. Rifatto [415] il ponte, i crociati vennero ad accamparsi in faccia al palazzo di Blancherna. Strana maniera di formare un assedio, non potendo guardare che una sola porta della città.
I Veneziani desideravano che s'attaccasse la città dalla banda del mare per mezzo di scale e ponti levatoj posti sui loro vascelli: ma i Francesi rappresentarono che «non saprebbero così bene adoperarsi in mare, come in terra quando avevano i loro cavalli e le loro armi[428]» e fu convenuto che si attaccherebbe la città dalla banda di terra e di mare, combattendo le due nazioni sopra l'elemento a ciascuno più confacente per mostrarvi il proprio valore. Frattanto la posizione de' Francesi era assai pericolosa: non passava notte che non fossero [416] cinque o sei volte obbligati di prendere le armi; e quantunque respingessero ogni volta con vantaggio gli attacchi dei Greci, non osavano allontanarsi quattro tiri d'arco dal campo per procurarsi le vittovaglie che incominciavano a mancare; avevano bensì farine e carni salate per tre settimane, ma non avevano di carni fresche che quelle de' cavalli che ammazzavano.
In così difficile posizione ogni ritardo diventava fatale. I preparativi per l'attacco trovaronsi ultimati il decimo giorno, e fu tosto risoluto l'assalto[429]. I Francesi avevano sei battaglioni: a due affidarono la custodia del campo, e condussero gli altri quattro all'assalto. Da una parte cercarono di rompere la muraglia percuotendola col montone, dall'altra applicarono due scale ad un barbacane o ridotto avanzato posto presso al mare, col mezzo delle quali salirono sulle mura circa quindici cavalieri nel luogo detto la scala imperiale; ma furono colà incontrati dai Varangiani armati di scuri, che Villehardovin dice Inglesi e Danesi, e dagli ausiliarj Pisani, che la loro rivalità [417] coi Veneziani teneva attaccati all'imperatore[430], e furono respinti con perdita. In questo frattempo il doge di Venezia aveva disposta la sua flotta sopra una sola linea lungo le mura, da cui scacciava i difensori con frequenti scariche delle sue petriere e colle frecce degli arcieri, che posti sui ponti in mezzo all'alberatura dominavano le mura. Pure «sappiate che le galee non osavano prender terra. Ora potete udire le strane prodezze. Il duca di Venezia vecchio, gottoso, cieco, venne tutto armato sulla prora della sua galea, facendo portare innanzi a lui il gonfalone di san Marco, e gridava ai suoi di porlo a terra, o ch'egli farebbe giustizia dei loro corpi. Allora fecero che la galea prendesse terra, e saltando fuori, portano innanzi a lui il gonfalone di san Marco verso la città.» Tutti i Veneziani vedendo la manovra della galea del doge, slanciansi dietro a lui; piantano sulle mura il gonfalone di san Marco, e venticinque torri cadono in loro potere.
La città sembrava omai presa, ed il doge aveva già mandato ad avvisare l'armata francese ch'era padrone di un gran numero di torri da cui non poteva essere sloggiato. Ma quando tentò d'avanzarsi nel soggetto quartiere, un vasto incendio che i Latini attribuiscono ai Greci, i Greci ai Latini, lo fermò, obbligandolo a rinchiudersi in quella parte delle fortificazioni di cui erasi prima impadronito. Intanto l'imperatore Alessio spinto dai rimproveri del popolo che lo accusava di avere aspettato il nemico presso le mura, fece sortire da tre porte le sue truppe ad un miglio e mezzo da quella di Blancherna; e s'avanzò alla loro testa contro l'armata francese, con intenzione d'avvilupparla. I Francesi disposero i sei battaglioni innanzi alle fortificazioni del loro campo; i sergenti ed i scudieri a piedi si posero dietro la groppa de' cavalli, gli arcieri e frombolieri in sul davanti. Eravi un battaglione composto di più di duecento cavalieri, che avendo perduto il loro cavallo erano forzati di combattere a piedi. L'armata francese era collocata in maniera che non poteva attaccarsi che di fronte; ed ebbe l'avvedutezza di non moversi, giacchè avanzandosi nel piano, sarebbe stata avviluppata [419] dalla infinita gente contro cui doveva battersi. Avevano i Greci per lo meno sessanta battaglioni, ognuno de' quali era più numeroso di quelli dei Francesi, i quali avanzaronsi lentamente in ben disposta ordinanza fino a tiro di freccia. Quando il doge Dandolo fu avvertito che i suoi alleati erano impegnati in così disuguale battaglia[431], ordinò alla sua gente di ritirarsi e di abbandonare le torri che avevano prese, dichiarando di voler vivere o morire coi crociati. Fece dunque avvicinare le sue galee all'armata, e scese egli stesso il primo alla testa di tutti i Veneziani non necessari al servigio de' vascelli. Malgrado questo rinforzo, se Alessio avesse avuto il coraggio di attaccare i Latini, o avesse permesso di farlo a Lascari suo genero che gliene faceva istanza, probabilmente gli avrebbe oppressi[432]; ma tosto che gli arcieri ebbero scaramucciato un poco di tempo, Alessio fece suonare la ritirata, e tornò verso la città senza battersi, con grandissima maraviglia de' Latini. «E sappiate che Dio non liberò mai da maggior pericolo niuno, come in questo giorno [420] l'armata de' crociati; e sappiate che non vi fu alcuno tanto ardito che non ne risentisse estrema gioja.»
La notte del giorno medesimo in cui Alessio aveva mostrata la sua potenza e la sua viltà, risolse di fuggire. Di che datane parte ad alcuni de' suoi più fedeli, e facendo portare sopra un vascello una ragguardevole somma in oro, le pietre preziose, le perle e gli ornamenti della corona, vi si recò egli stesso con sua figlia Irene, e nella prima vigilia della notte si fece trasportare a Debeltos[433]. E per tal modo questo principe perdette per viltà se stesso e la patria. La Grecia aveva avuto altri tiranni, a petto ai quali Alessio era un buon re. Niceta terminando la storia del suo regno gli accorda ancora qualche elogio, facendone il paralello coi suoi predecessori. «Grandi erano, egli dice, la sua dolcezza e la sua clemenza; egli non faceva cavar gli occhi, non mutilare le membra, nè compiacevasi della carnificina degli uomini, e durante il suo regno nessuna matrona vestì per sua colpa l'abito di lutto.»
Tosto che seppesi in palazzo la fuga dell'imperatore, l'eunuco Costantino, prefetto [421] del tesoro, riunì i Varangiani e gli ausiliari per impegnarli a salutare imperatore Isacco suo fratello che si trasse allora di prigione per rimetterlo sul trono[434]. Nella mattina vegnente Alessio ed i crociati ricevettero gli ambasciatori del nuovo imperatore, che invitava il giovane principe a tornare in Costantinopoli, manifestandogli la rivoluzione accaduta in favore di suo padre. A tale notizia riunironsi il doge di Venezia ed i baroni, e prima di lasciar partire il loro protetto, spedirono quattro messaggieri, uno de' quali fu il nostro storico Villehardovin, onde ottenere da Isacco la conferma del trattato convenuto con suo figliuolo[435].
Allorchè il vecchio imperatore conobbe le promesse del figliuolo, si pose a gridare dolorosamente essere tanto considerabili, che non sapeva come soddisfarvi. Pure, soggiunse, i servigi che voi ci rendeste sono ancora più grandi, e quando vi donassimo tutto il nostro impero, non sareste meglio compensati di quello che meritiate. Dopo breve disamina confermò con una carta autenticata col suo suggello [422] le promesse del giovane Alessio. Dopo ciò questo principe, accompagnato dai baroni latini, entrò con magnifico apparato in città; e coloro che il giorno innanzi si risguardavano come i più fieri nemici di Costantinopoli, furono festeggiati quali suoi liberatori.
L'imperatore assegnò gli alloggi all'armata crociata ne' due sobborghi di Pera e di Galata, pregando i Latini di voler tenere le loro truppe dall'altro lato del golfo di[436] Chrysocheras, onde evitare che l'animosità nazionale si risvegliasse e che qualche contesa tra i suoi sudditi ed i suoi alleati non ponesse in pericolo la capitale o i suoi ospiti.
Infatti la collera de' Greci contro i Latini non poteva rimanere lungo tempo nascosta; esauriti erano i tesori dell'Impero, ed il pagamento di duecento mila marche promesse dal giovine Alessio non poteva eseguirsi senza inudite vessazioni. Si confiscarono i beni dei partigiani dell'ultimo imperatore; l'imperatrice Eufrosina sua moglie, ch'egli, fuggendo, aveva dimenticata in palazzo, fu spogliata; si spogliarono le chiese e le stesse immagini [423] de' santi delle argenterie[437]; ma a fronte di questi sacrilegi che rivoltavano il popolo, l'argento raccolto non bastava per soddisfare i Latini. Pure si fece un primo pagamento, ed i baroni diedero ad ogni soldato crociato quanto aveva sborsato pel suo passaggio.
L'insubordinazione de' Latini era un secondo motivo di odio ancora più potente che le estorsioni cagionate dalla loro avarizia. I Pisani, per l'intromessione del giovane Alessio, eransi riconciliati coi Veneziani, ed i Fiamminghi, altro popolo commerciante, strinsero più intrinseca amicizia coi cittadini delle due città. Unendo uno spirito di mercantile gelosia ai loro pregiudizj religiosi, risolsero insieme di saccheggiare il quartiere de' Saraceni in Costantinopoli, e discacciare questi mercadanti infedeli da una città che volevano intieramente sottomettere alla Chiesa. Attraversarono lo stretto senza difficoltà, non essendovi guardia che avesse ordine d'impedirlo, ed attaccarono improvvisamente i Saraceni, che, malgrado la sorpresa, si difesero valorosamente, assistiti dai Greci delle vicine contrade. Per forzarli a cedere, i Fiamminghi posero fuoco [424] alle case più vicine[438], e ben tosto un secondo incendio più terribile del primo divorò un terzo della città, attraversandola da un mare all'altro. Otto giorni le fiamme si andarono dilatando, occupando talvolta quasi un miglio di larghezza. Dopo tale disastro tutti i Latini che da lungo tempo erano domiciliati in Costantinopoli, ed erano più di quindici mila, abbandonarono le antiche loro abitazioni e si salvarono presso i crociati in Galata.
L'odio de' Greci attaccavasi pure al giovane Alessio, che veniva risguardato come l'autore di tanti disastri, e caduto in sospetto di volere, giusta le sue promesse, atterrare la religione, e ridarli sotto il giogo del pontefice di Roma[439]. Gli rinfacciarono come una viltà la sua domestichezza coi Latini, dicendo che questo principe macchiava l'illustre e glorioso nome d'imperatore romano quando entrava nelle tende dei barbari con poco seguito, quando partecipava ai loro giuochi, alle loro crapule, e quando permetteva a mercadanti insolenti di porre sul suo capo la berretta di lana, [425] mentre essi a vicenda ornavansi del suo diadema fregiato d'oro e di pietre.
Infatti Alessio niente ometteva di tutto ciò che poteva conciliargli l'affetto dei Latini; egli aveva da loro ottenuta la promessa di prolungare il loro soggiorno a Costantinopoli fino al prossimo mese di marzo, ed a tale condizione erasi obbligato di tenere l'armata provveduta di viveri, e di pagare le spese de' vascelli veneti. All'epoca del grande incendio di Costantinopoli, il giovane Alessio erasi avanzato nella Tracia, accompagnato dal marchese di Monferrato e da Enrico fratello del conte di Fiandra[440] per ricevere il giuramento di fedeltà dalle città poste lungo la costa del Bosforo, e per sottomettere quelle che si ostinassero a riconoscere l'autorità di suo zio il vecchio Alessio. Quando il principe ritornò per la festa di san Martino, dopo una campagna abbastanza gloriosa, trovò l'odio de' Greci cresciuto a dismisura per il recente infortunio. D'altra parte i Latini diventavano diffidenti; lagnavansi che il pagamento loro promesso non si facesse più sollecitamente, nè volevano ammettere per iscusa del ritardo i troppo legittimi [426] motivi dell'incendio della città e della guerra manifestatasi coi Valacchi e coi Bulgari. Trovarono che l'imperatore affettava con loro un orgoglio che prima non manifestava; e prendendo improvvisamente un partito violento, spedirono sei deputati, tre baroni e tre veneziani per isfidarlo nel suo palazzo.
Villehardovin fu anche in questa occasione del numero dei messaggieri, ma fu Coesnon di Bethuns, che giunto alla presenza dei due imperatori, dell'imperatrice e di tutta la corte, portò la parola; «Sire, egli disse, siamo venuti a voi per parte dei baroni dell'armata, e per parte del duca di Venezia: sappiate ch'essi vi rinfacciano il bene che vi hanno fatto... Voi gli avete giurato, voi e vostro padre, di osservare le convenzioni; essi hanno la vostra carta; ma voi non la osservaste come avevate obbligo di fare. Noi vi abbiamo più volte domandato, e vi domandiamo oggi in presenza di tutti i vostri baroni..... Se voi lo fate, ne sarete allora stimato assai; se non lo fate, sappiate che d'ora innanzi non vi tengono più nè per signore nè per amico. Al contrario essi procacceranno in ogni maniera il loro vantaggio, e ve lo mandano essi a dire, [427] imperciocchè non faranno male nè a voi, nè ad altri finchè v'abbiano sfidato; ch'essi non commisero giammai tradimento, e ne' paesi loro non sì costuma di farlo. Voi avete ben inteso quanto v'abbiamo detto, e voi vi consiglierete come vi piacerà[441].»
Dopo tale sfida che parve ai Greci il colmo dell'audacia, i sei messaggieri saltarono sui loro cavalli e sortirono dalla città, senz'essere fermati, quantunque poco mancasse che non venissero massacrati dal popolo. Dopo ciò accaddero varie scaramucce tra le due nazioni; i Greci tentarono invano di metter fuoco alla flotta latina, spingendole in mezzo diciassette navi incendiarie, che furono allontanate dal coraggio e dalla destrezza de' marinaj veneziani.
Una guerra di scaramucce facevasi non pertanto quasi contro la volontà dei due imperatori, che temevano i Latini, e cercavano di mitigarne il malcontento. Alcune bande di cittadini andavano a battersi coi crociati, ma senza capo, o senza che la corte permettesse che verun personaggio di riguardo vi prendesse parte. Il solo Alessio duca, di soprannome Mourzoufle, [428] che aveva sposata una figlia del vecchio Alessio Angelo, e ch'era decorato della dignità di protovestiario, eccitava i cittadini a vendicare il vilipeso onor greco, e mettevasi alla loro testa. In un incontro sulle rive del Balbissè, e presso al ponte di pietra forata, di cui voleva vietarne il passaggio ai Latini, diede prove di grandissimo valore, e corse pericolo d'essere fatto prigioniero. Il confronto della sua condotta con quella dei due imperatori riscaldava sempre più contro di loro lo sdegno del popolo. Il figlio, malgrado le offese de' Latini, mostravasi ancora ligio ai medesimi, e veniva accusato di volere introdurre in palazzo le loro truppe. Stando ad una lettera di Baldovino a suo padre[442], sembra infatti che fosse entrato in trattati su quest'oggetto. Il padre non aveva presso di se che astrologi e monaci impostori che promettevangli di fargli in breve ricuperare la vista, e di rendere il suo regno più glorioso che quello d'ogni altro imperatore d'Oriente. Infine la nazione si risolve a scuotere il vergognoso giogo che l'opprime.
Il 25 gennajo del 1204 il senato fu costretto di radunarsi coi principali del clero nel tempio di santa Sofia, e per ubbidire al popolo decretò l'elezione di un nuovo imperatore; ma tutti gli uomini d'una rispettabile famiglia rifiutavano questo pericoloso onore di mano in mano che veniva loro presentato; il popolaccio, affollato alle porte, domandò furibondo un nuovo monarca per rimpiazzare questa famiglia avvilita che più non sapeva sopportare, e fece successivamente designare coloro che vedeva più riccamente vestiti; e volevansi forzare ad accettare colla spada alla mano, ma tutti si rifiutavano. Pure mentre in mezzo a tanto tumulto un patrizio più degli altri ardito osava d'accettare la corona, Mourzoufle, corrotto l'eunuco prefetto del tesoro[443], persuase col di lui mezzo ai Varangiani che formavano la guardia, che il marchese Bonifacio stava per introdurre i Latini nel palazzo per rimpiazzarli, e si assicurò in tal modo del loro attaccamento; in seguito persuase i due imperatori a nascondersi per sottrarsi ai rivoltosi; ed avendoli egli stesso mostrato [430] un nascondiglio, li fece colà incatenare, e ben tosto uccidere.
Il ritratto di Mourzoufle non fu fatto che dai suoi nemici. Egli spogliò lo storico Niceta della carica di grande logotheta per darla ad un suo parente. Villehardovin divise le passioni dei crociati che si eressero in vendicatori dei detronizzati imperatori; e Baldovino, nella sua lettera ad Innocenzo III, ingrandisce i delitti dell'usurpatore per giustificarsi d'averlo spogliato. Ad ogni modo Mourzoufle mostrò nella sua breve e penosa amministrazione più talenti ed energia de' suoi predecessori. Per rifare il tesoro, ch'egli aveva affatto spogliato, fece rendere conto dell'amministrazione loro a quelli ch'erano stati decorati della dignità di sebastocratoro, o di Cesaro, ed impiegò il danaro che ne ritrasse a far costruire degli appoggi interni alle mura, ed a guarnire le torri di gallerie di legno. Armato di sciabla e di mazza, risvegliava il coraggio dei soldati, conducendoli egli stesso ai combattimenti, e sorprendendo i nemici che si allontanavano dal campo per foraggiare[444]. Ma quella troppo [431] avvilita nazione non era più capace, a fronte del suo esempio, di sentire patriottismo. Gli stessi parenti di Mourzoufle non sapevano perdonargli il pensiero di volerli togliere alla loro vita molle ed effeminata, i grandi lo detestavano come un soldato rozzo e mezzo barbaro, ed il popolo che mostrava d'amarlo, l'abbandonava vilmente nel pericolo. Baldovino, conte di Fiandra, erasi reso padrone di Filea sul mar nero, ov'erasi recato per procurar viveri all'armata: Mourzoufle l'attese all'uscita d'un bosco con un corpo di truppe assai superiore; ma quando i suoi soldati videro avvicinarsi i Latini, fuggirono, lasciando il loro generale quasi solo[445]. In questa circostanza una miracolosa immagine della Vergine che serviva di stendardo agl'imperatori, ed alla quale credevasi attaccata la salute dello stato, cadde in potere de' nemici.
Se dobbiamo prestar fede a Niceta, Mourzoufle cercò allora di venire a trattati; e così consigliati dal doge, i crociati offrirono la pace a condizione di pagare loro una ragguardevole taglia. Mourzoufle non accettò l'offerta, e l'improvviso [432] attacco d'un corpo di cavalleria latina ruppe la conferenza[446].
I Francesi non vollero esporsi soli ad attaccare la città dalla banda di terra, come avevan fatto nel primo assedio, conoscendo che avevano a fare con un nemico assai più attivo d'Alessio; accettarono quindi di battersi sulle galere veneziane, che si disposero nuovamente per l'assalto, collocando le scale lungo le antenne. Le due armate consumarono il rimanente dell'inverno nel prepararsi all'attacco ed alla difesa: finalmente il giovedì 8 aprile del 1104 i Latini fecer salire i cavalli sopra le palandre, che divisero in sei flottiglie, assegnandone una ad ogni battaglione francese: le galere erano poste tra i vascelli di trasporto e le palandre, e la linea di battaglia occupava quasi un mezzo miglio in faccia al quartiere che stendevasi dal palazzo di Blancherna fino al monastero d'Evergete; ed era questa la parte della città ch'era stata consumata dall'incendio. L'imperatore fece alzare il suo padiglione in mezzo alle rovine, ed aspettò l'attacco.
[433] Il venerdì mattina la flotta attraversò il canale, e diede principio all'attacco: i vascelli s'avvicinarono tanto alle mura, che quelli che stavano sui ponti potevano ferire colle loro spade le guardie delle torri. I Latini gettaronsi sulle mura in più luoghi, ma ogni torre era superiore di forze alla galera che l'attaccava; altronde tutte le galee che formavano la linea, non essendo ugualmente avanzate, le pietre e i dardi lanciati da quelle sul di dietro riuscivano egualmente dannosi ai nemici ed agli amici, onde furono costretti a ritirarsi dopo aver perduta assai gente.
La sera i crociati unironsi in una chiesa per deliberare sul modo di continuare l'assedio. Molti Francesi proposero di uscire dal porto, e di attaccare la città dalla parte di mezzogiorno per il Bosforo, o la Propontide, perchè da questo lato Mourzoufle non aveva fiancheggiate le mura di torri, nè assicurate con sostegni per di dentro; ma i Veneziani che conoscevano meglio il mare, opposero che la corrente del Bosforo batteva contro le mura a mezzogiorno, e respingeva tutti i vascelli che vogliono avvicinarsi da quella banda[447]. Fu perciò seguito il consiglio [434] del doge di differire l'attacco fino al lunedì seguente; di legare intanto i vascelli due a due, affinchè ogni torre venisse assalita da due navi, e che si rinnovasse l'attacco nello stesso luogo.
Il lunedì mattina 12 aprile, la flotta crociata attraversò nuovamente il canale, ed attaccò le mura. Durante il mattino i Greci resistettero con coraggio; ma a mezzogiorno un gagliardo vento del nord spingeva i vascelli crociati contro il muro, e ne facilitò l'abbordaggio. I vascelli dei vescovi di Troies e di Soissons chiamati il Paradiso ed il Pellegrino[448], ch'erano legati assieme, abbassarono i primi le loro scale sulla torre ch'essi combattevano; e nello stesso tempo un Francese ed un Veneziano lanciaronsi sulle mura[449]: e ben tosto gli altri vascelli accostaronsi egualmente. Furono all'istante prese quattro torri, ed atterrate tre porte, ed i Latini non solo s'impadronirono di questa parte delle mura, ma ancora di tutto il quartiere ch'era stato incendiato, e dello stesso padiglione di Mourzoufle; il quale, obbligato di fuggire, si rinchiuse [435] nel palazzo di Boucolèon. In seguito approfittando dell'oscurità della notte vicina corse tutto il rimanente della città eccitando gli abitanti a prendere le armi[450]. Egli loro rappresentava che i Latini chiusi entro le loro mura, in mezzo a strade di cui non conoscevano le sinuosità, potevano facilmente essere oppressi dall'immensa superiorità del loro numero; che l'intera loro fortuna, l'onore delle consorti, la vita stessa cadevano in potere del nemico, se non facevano un generoso sforzo per metterle in sicuro; che si ricordassero che andavano ad incontrare minori pericoli combattendo, di quelli che li minacciavano sottomessi che si fossero al nemico. Ma Mourzoufle parlava a gente che un lunghissimo despotismo aveva privata d'ogni energia, a gente cui la certezza della morte non bastava a rendere valorosa. Essi erano almeno quattrocento mila, ed i crociati francesi e veneziani non arrivavano ai trenta mila. Pure rifiutarono di combattere, e Mourzoufle, disperato, rientrò nel suo palazzo di Blancherna[451], e prese [436] con lui Eudossia sua moglie, ed Eufrosina sua cognata, moglie del vecchio Alessio, montò sopra una barca, e s'allontanò da una città che voleva la propria ruina.
Due nobili greci, Teodoro Lascari e Teodoro Duca, il primo de' quali era destinato a far risorgere l'Impero d'Oriente, sforzaronsi ancora, dopo la partenza di Mourzoufle, di riunire in diversi quartieri della città le truppe scoraggiate, e di condurle alla battaglia; ma non vi riuscirono, e furono anch'essi costretti a procacciarsi salvezza colla fuga. Durante la notte i Latini per assicurarsi dagli attacchi, cui vedevano d'essere esposti, avevano posto fuoco ai più vicini quartieri; e questo terzo incendio dilatandosi con furore distruggeva un'altra parte della città. La vegnente mattina, quando aspettavansi di dover combattere, e che dietro i loro calcoli supponevano doversi impiegare almeno un mese per sottomettere tutti i palazzi e tutte le chiese che potevano essere facilmente ridotti in fortezze, si videro venire all'incontro processioni di preti e di donne, che, portando innanzi a loro croci ed immagini, domandavano grazia per la loro città. Costantinopoli era presa, ed un pugno di [437] crociati aveva atterrato il trono dei padroni dell'Oriente.
Per sorprendente che fosse questa vittoria, non superava però l'ambizione e le speranze de' Latini. Mentre trovavansi ancora nel sobborgo di Galata, avanti al primo assalto, avevano di già tra di loro fatto un trattato di divisione di tutto l'Impero d'Oriente[452]. Il saccheggio della città di Costantinopoli formava il primo articolo del trattato. Avevano convenuto di mettere in comune tutto il bottino che farebbero sui Greci, di prendere prima su quest'ammasso le somme ancora dovute ai Veneziani, ed i sussidj loro promessi dal giovane Alessio; indi di dividere il rimanente in parti eguali tra i crociati e le truppe della repubblica. Erasi inoltre convenuto che i Veneziani conserverebbero in tutte le province dell'Impero, che omai ritenevansi per conquistate, tutti i privilegi di cui godevano in tempo de' monarchi greci: convennero di conservare il titolo ed il potere imperiale, e di decorarne un principe latino, assegnandogli però soltanto per patrimonio [438] un quarto dell'Impero, ed un quarto della capitale; riservandosi di dividere tra di loro gli altri tre quarti: che l'elezione dell'imperatore farebbesi nel seguente modo; sei baroni francesi e sei veneziani dovevano essere nominati dall'armata, e questi farebbero la scelta di un successore ad Augusto ed a Costantino.
La presa di Costantinopoli chiamò ben tosto i crociati a realizzare così vasto progetto. Incominciarono da quello del saccheggio, e la città fu senza riserva abbandonata alla brutalità de' soldati vincitori. Le lagnanze di Niceta, e l'esultanza di Villehardovin ci danno tutta l'estensione di questo disastro. La profanazione e l'insulto accompagnarono il saccheggio; e mentre i Latini si vantavano che dopo il cominciamento de' secoli non fu mai tanto guadagnato in una città, la capitale dell'Oriente fu ridotta in tale stato di avvilimento e di miseria da cui non si potè mai più rilevare. I templi non furono più risparmiati delle case private; i calici, i crocifissi, le teche delle reliquie furono levate e divise da mani barbare, e s'introdussero nelle chiese i cavalli ed i muli per caricarne le spoglie. Le stesse passioni religiose incitavano alla [439] profanazione delle chiese scismatiche[453]. Una prostituta ebbe l'impudenza di porsi a sedere sulla sede del patriarca, e danzava e cantava in mezzo ai soldati ubbriachi per insultare il culto de' Greci. Questi stessi soldati scorrevano in seguito la città conquistata, vestiti d'abiti pomposi, che avevano tolti a uomini o a donne della corte, e portando sulle loro teste penne d'airone, le sole armi dei vinti Greci.
Mentre i Latini esalavano con pubblici insulti il loro sdegno, che i soldati svergognavano le matrone, le fanciulle e perfino le vergini consacrate agli altari; la loro condotta nell'interno delle case non era meno odiosa. «Lo stesso giorno, dice Niceta, in cui fu presa la città, i soldati errando per le strade incominciarono ad introdursi nelle case, ove, dopo essersi impadroniti di tutto quanto loro veniva alle mani, si facevano ad interpellare i padroni sul conto delle ricchezze che potessero avere nascoste: agli uni strappavano il segreto a forza di percosse, ad altri ingannandoli colle promesse, a tutti spaventandoli colle minacce. Ma [440] tutto ciò che i Greci possedevano, tutto quello che manifestavano, tutto quello che presentavano ai loro ospiti, era preso: giammai non si ebbe di loro compassione; giammai non si permetteva di dividere l'alloggio, i viveri, i beni che pur erano poc'anzi suoi. Erano senza umanità scacciati dalle loro case[454].»
In fatti quasi tutti i nobili, i ricchi, coperti di miseri cenci, smagrati e deboli, coll'impronta in volto de' sofferti patimenti, sortirono a piedi dalla città piangendo la loro patria, la loro fortuna e spesso una figlia nubile, o una giovane sposa loro rapita; e perchè la condizione loro fosse ancora più crudele, trovavansi sulla strada esposti agl'insulti de' più abbietti loro concittadini; e questo era pure un altro indizio della disorganizzazione sociale. Il popolaccio di Costantinopoli, geloso dei senatori e dei ricchi, invece di unirsi con loro per difendere la patria, compiacevasi di vederli sventurati; e la gente di contado, ugualmente cieca, si rallegrava della rovina d'una capitale [441] che gli aveva dominati tanti secoli[455]. «A noi, scrive Niceta, altra volta membri del senato, attribuiscono la perdita della città; essi non temono l'occhio perspicace del Signore; essi che tradirono noi e la patria, non si vergognano di tanta falsità. Qual vi può essere oggetto più compassionevole che il delirio e la sventura di questi uomini stupidi, che non solo non pregano per il ristabilimento della città, ma che accusano Dio di lentezza, perchè non abbia sovvertiti assai più presto e noi e la città ed in maniera ancor più terribile, perchè abbia dilazionata la nostra morte, e mostrato ne' suoi giudizj il suo amore per gli uomini? Questo popolo non dovrebb'essere commosso per simpatia de' nostri mali? Noi più non abbiamo città, non case, non alimenti per vivere; noi che prima eravamo illustrati dalle nostre ricchezze e dal nostro potere.» Difatti Niceta, sortendo colla sua famiglia da Costantinopoli, aveva trovato nella Tracia le stesse disposizioni; di già i paesani riandando le passate memorie, che ne' lontani [442] secoli in differente governo dava alla Grecia maggior gloria, volgevano in ridicolo la nudità e la mendicità de' fuorusciti, chiamandola eguaglianza repubblicana[456].
Quantunque siavi luogo a credere che molta parte del bottino si mettesse in comune, pure quando coll'ammasso totale furono pagati i Veneziani, e che questi ebbero la metà loro spettante, rimase pei Francesi la somma di 500,000 marche d'argento. Era questo ben più di quanto sarebbe abbisognato per dissipare la burrasca che da lungo tempo minacciava Costantinopoli[457].
L'armata crociata passò in seguito ad eleggere l'imperatore. Sei baroni francesi e sei veneziani furono scelti per farla a norma della precedente convenzione. Assicurasi che uno de' Francesi indicò come degno dell'impero il doge Dandolo, di cui ricordò le imprese; ma un vecchio veneziano, Pantaleone Barbo, prese subito la parola, e facendo sentire che il primo magistrato di una repubblica libera non poteva essere nello stesso tempo capo d'una monarchia, diede il suo voto a Baldovino conte di Fiandra, ed ottenne subito per lui il voto de' suoi colleghi[458].
La sola capitale era stata sottomessa, e la debole armata de' crociati, perduta in mezzo d'un vasto Impero, lungi dal potersi lusingare di conquistarlo, doveva aspettarsi d'essere oppressa tosto che si dividerebbe. Pure il consiglio dei Latini [444] si occupò della divisione delle province fra i conquistatori, ed assegnò in feudo ad ogni guerriero città di cui appena sapeva il nome. Si eressero in regno per il marchese di Monferrato Tessalonica e la Tessaglia; l'Acaja fu divisa in ducati e principati, nomi feudali che feriscono l'orecchio associati a vocaboli greci; le province dell'Asia furono egualmente assegnate a coloro che dovevano conquistarle; ma i Latini non vi ottennero mai uno stabilimento. Malgrado l'anarchia cui la caduta di Costantinopoli dava in preda tutto l'Oriente, e quantunque i Greci, in cambio di sostenersi, si trovassero divisi tra sette oppure otto piccoli tiranni, che tutti pretendevano alla dominazione dell'Impero[459], i crociati non erano certo in istato di fare conquiste, meno poi di conservarle: le loro spedizioni nella Tracia e nella Grecia non ad altro servirono che a disvelarne la debolezza; e la guerra che loro dichiarò Giovaniccio re de' Bulgari[460] e de' Valacchi li ridusse ben tosto [445] alle ultime estremità, accrescendo in pari tempo le sofferenze e la miseria de' sudditi greci. Ma dopo l'assedio così gloriosamente condotto dai Veneziani, l'Oriente diviene straniero alla nostra storia; e la rapida decadenza e la totale caduta dell'Impero de' Latini rientrano nella storia di Costantinopoli. Ciò che soltanto deve ancora occuparci è il frutto che i Veneziani ottennero dalle loro conquiste.
Il trattato di divisione che doveva farli padroni d'un quarto e mezzo dell'Impero, giusta il titolo che lungo tempo portarono, è pervenuto fino a noi[461]; ma i nomi greci sfigurati da barbari geografi, sono a stento riconoscibili; nè il possesso fu abbastanza lungo perchè tale geografia potesse rettificarsi[462]. Distinguiamo però tra le province e le città date loro in dominio Lacedemone, Diracchio, Rodosto, Agios, Potamos, Gallipoli, Egine, Zacinto, Cefalonia; ma pare che molte città e province fossero dimenticate dai redattori del trattato [446] di divisione, che non le conoscevano. L'isola di Candia era stata assegnata al marchese di Monferrato, Bonifacio, re di Tessalonica; ma egli la cambiò coi Veneziani con terre più vicine alla sua capitale; e quest'isola che prese il titolo di regno, diventò in appresso uno de' più importanti possedimenti della repubblica[463].
Giammai alcuna nazione aveva intraprese conquiste meno proporzionate alle sue forze. La repubblica di Venezia non possedeva propriamente allora che la città ed il dogado, e la sua popolazione non doveva oltrepassare le 200,000 anime. Vero è che da più anni aveva fatte alcune conquiste in Dalmazia ed in Istria; ma non aveva mai incorporate alla nazione queste province suddite; e lungi dal potervi trovare generali e soldati per le sue armate, era in necessità di spedirvi magistrati e guarnigioni veneziane per contenerli. Frattanto la recente divisione gli accordava per lo meno sette in otto mila leghe quadrate di territorio [447] e sette in otto milioni di sudditi. Venezia che ancora non aveva potuto stendere la sua autorità sulla vicina Padova, ebbe il carico non solo di sottomettere un paese che poteva solo formare un potente regno, ma inoltre di difenderlo contro i Turchi, i Bulgari, i Valacchi, e forse contro i medesimi Latini di Costantinopoli e di Tessalonica, se veniva a nascere tra loro qualche gelosia.
Dopo una breve deliberazione, la repubblica provò il vivo e profondo sentimento della sua debolezza. Il senato dichiarò che rinunciava a conquiste lontane che avrebbero esaurita la nazione, e che non avrebbe in verun modo potuto conservare; e del 1207 pubblicò un editto che accordava a tutti i cittadini veneziani il permesso di armare a proprie spese vascelli di guerra, e di sottomettere per loro conto le isole dell'Arcipelago e le città greche poste sulle spiagge[464]. Con quest'editto cedeva loro la proprietà delle conquiste in feudo perpetuo, riservandosene soltanto la protezione. I mercanti veneziani ne approfittarono, ed aprendo il loro cuore a nuova ambizione, intrapresero [448] la conquista delle terre abbandonate. Nella storia di queste guerre private si mostrano sempre il piccolo numero degli assalitori e la viltà de' Greci vinti. Con questo titolo Marco Dandolo e Giacomo Viaro fondarono il ducato di Gallipoli, Marco Sannuto quello di Nasso, il quale era composto delle isole di Nasso, Paros, Melos ed Erinea, e si conservò fino al 1570 in cui fu tolto dai Turchi al XXI duca. Marino Dandolo sottomise l'isola d'Andros; Andrea e Gerolamo Ghisi quelle di Teone, Micone e Soiros; Pietro Zustinian e Domenico Micheli quelle di Ceos, Filocolo Navagero quella di Lemnos ch'ebbe il titolo di gran ducato.
D'altra parte i Genovesi vollero pur fare qualche conquista in paesi quasi abbandonati al primo occupante. Armarono cinque vascelli rotondi e venti galee, ed andarono a fondare uno stabilimento nell'isola di Creta o Candia[465]; ma ne [449] furono ben tosto scacciati dai Veneziani. S'impadronirono ancora di Modone e Corone nella Morea, poi dell'isola di Corfù. Pareva che la Grecia bastar dovesse a saziare i desiderj delle repubbliche marittime d'Italia; ma non potendo i Veneziani soffrire che i loro emuli vi avessero alcun principato, le spogliarono delle loro conquiste.
Se la divisione dell'Impero greco, distruggendo le ricchezze, la popolazione, ed ogni avanzo della potenza di queste province, le diede in preda alle invasioni di tutti i barbari del Nord e dell'Oriente; se dobbiamo considerarla come la principal cagione della distruzione di quest'Impero operata dai Turchi due secoli e mezzo dopo, ed accusarla perciò di aver distrutta la civiltà, le lettere e la filosofia in un paese, che, malgrado la sua corruzione, dava loro asilo; troveremo che tanti mali non furono compensati dalla limitata potenza reale aggiunta alla repubblica di Venezia. La saviezza e la moderazione del senato impedirono che i tesori e la popolazione dello stato andassero a seppellirsi in lontane province, come vi si perdettero tanti battaglioni di crociati, e tante nobili famiglie francesi. Ma l'ambizione de' particolari, [450] cui si abbandonò così vasto campo, costò pure alla nazione una parte importante de' suoi capitali, e le braccia di molti soldati. Il commercio e la navigazione che formavano la principale forza dello stato, furono da molti abbandonati per dedicarsi ad intraprese cavalleresche; e poco mancò che la divisione di questa preda non mutasse il carattere nazionale. Probabilmente il governo dispotico delle province conquistate riuscì dannoso alla capitale, che non tardò a sentirne gli effetti; per ultimo Venezia perdette ne' Greci utili alleati che formavano una barriera contro i Musulmani, la di cui vicinanza costò poscia a Venezia tante ricchezze e tanto sangue. Essa non conservò lungo tempo le città e province di terra ferma; ma tenne le isole quattro secoli, che furono cagione di continue guerre coi Turchi. In tal maniera adunque tutta la gloria acquistata in questa maravigliosa impresa fu a caro prezzo comperata colle lagrime e la miseria de' popoli sottomessi, e coll'indebolimento e la corruzione de' vincitori[466].
Stato delle repubbliche italiane. — Guerre civili. — Rinnovamento della Lega lombarda.
1216 = 1233.
Ottone IV e Federico II disputavansi ancora la corona imperiale quando venne a mancare Innocenzo III. Federico aveva già sperimentato il potente patrocinio della santa sede, la quale, finchè Ottone fu il più forte, lo favoreggiò caldamente; ma dopo la battaglia di Bouvines, Ottone non essendo più in grado di tenere contro alla crescente potenza del giovane rivale, il papa dichiarossi nemico del suo protetto, e tanto Innocenzo III, che Onorio III, rifiutarono, vivente Ottone, anzi fino al 1220, di accordare a Federico il titolo d'imperatore, e di porre sul di lui capo la corona d'oro, che pure gli avevano promessa.
Se l'interregno che precedette l'elezione di Ottone, aveva resa malferma l'autorità imperiale in Italia, la lotta tra le fazioni guelfa e ghibellina, tenuta viva dal papa, opponendo un imperatore all'altro, le [454] diede l'ultimo colpo. Dall'una all'altra estremità d'Italia tutto era discordia e guerra civile.
Abbiamo già mentovate in più luoghi le guerre di Lombardia senza per altro entrare in circostanziati racconti, perchè abbiamo diffidato di poter dare interesse a guerre sempre simili in ogni loro particolare, che cominciavano col saccheggio di alcune campagne, e terminavano dopo pochi giorni con una battaglia tra gli abitanti delle due città nemiche; guerre nelle quali l'arte era affatto sconosciuta, e nelle quali il solo valore, sempre adoperato nello stesso modo, decideva della vittoria.
Per quanto si voglia attentamente studiare la storia delle città lombarde, non si otterrà mai di togliere quella confusione che producono nella nostra memoria le loro rivalità, le alleanze, le guerre, nelle quali i soli nomi diversificano gli avvenimenti. Se ci fosse dato di penetrare nell'interno di queste città, conoscere le passioni che agitavano i popoli, i loro desiderj, le loro speranze, la politica delle loro assemblee e dei loro magistrati; potremmo forse indentificarci coi cittadini di queste repubbliche; ma sgraziatamente dopo la metà del XII secolo fino alla fine [455] del XIII, dobbiamo sormontare un lungo spazio di tempo, nel quale veruna città dell'Italia settentrionale, tranne Venezia, ebbe storici contemporanei. Abbiamo bensì alcune informi cronache nelle quali qualche monaco segnò il nome del podestà d'ogni anno, ed indicò il luogo in cui seguì la tale o tal altra importante battaglia. Nel tale anno, dicono, v'ebbe pace tra Cremona e Piacenza; nel tale altro vi fu guerra; senza però mai riferire i motivi delle guerre o le condizioni delle paci. In ventuna cronache lombarde ch'io lessi rapidamente e con tedio estremo, per cercarvi i materiali di questo capitolo, non trovai un solo pezzo che mi facesse conoscere le opinioni del secolo in quelle dello scrittore. Non per questo possiamo omettere di dare un'occhiata agl'interessi di queste città, che tanto essenzialmente appartengono alla nostra storia; onde soffermandoci un istante nelle principali, cercheremo almeno di conoscere le loro alleanze e le loro inimicizie.
Poichè Milano venne rifabbricato dagli sforzi generosi della lega lombarda, Milano aveva costantemente prosperato. Numerosa erane la popolazione, ricco e fertile il territorio, le milizie agguerrite, e le sue fortificazioni potevano sfidare le più [456] potenti armate. Dall'epoca della battaglia di Legnano che aveva consolidata la libertà lombarda, erano fino al presente passati quarantacinque anni, ed i capi dei consigli della repubblica, i vecchi ne' quali riponeva la sua maggiore confidenza, erano facilmente stati portati tra le braccia de' fuggitivi genitori, quando quindici anni prima di quella battaglia, la loro città venne spianata; e forse s'erano anch'essi strascinati nel fango, quando gli esiliati Milanesi si recarono sul luogo per cui doveva passare Federico Barbarossa, per chiedere grazia.
In seguito quando si rifabbricò la città, tutti furono testimonj dei nobili sforzi dei loro concittadini, e delle riportate vittorie. Erano le memorie dell'infanzia e della gioventù, di que' tempi ne' quali l'immaginazione più vivace riceve le più profonde impressioni. Perciò i Milanesi non seppero mai perdonare ai figliuoli di Barbarossa le battaglie e la severità del loro padre; e mentre i cittadini che avevano combattuto contro Federico I, aprivangli essi medesimi le porte della loro città dopo la pace di Costanza, e celebravano la perfetta loro riconciliazione con isplendide feste, le due susseguenti generazioni non istancaronsi di eccitare [457] nemici al suo nipote Federico II, e di fargli guerra.
A questo sentimento di vendetta nazionale deve attribuirsi la costanza colla quale i Milanesi rimasero attaccati alle parti d'Ottone IV, malgrado che il capo del partito guelfo si fosse dichiarato il difensore delle prerogative dell'Impero, malgrado che Ottone fosse il nemico della santa sede, e che i fulmini della Chiesa piovessero contro i suoi partigiani.
Mentre viveva ancora Innocenzo, i Milanesi erano stati citati a presentarsi al concilio di Laterano e ad abbandonare un imperatore scomunicato: e nel susseguente anno s'erano portati a Milano due cardinali, ed avevano da parte del papa ordinato alla repubblica di soccorrere Federico contro Ottone suo antico alleato[467]. In questo secolo le corti dei re obbedivano tremando a tali intimazioni; ma le repubbliche italiane erano più indipendenti; onde i due cardinali non tardarono ad accorgersi che non solo non avrebbero ottenuti i chiesti soccorsi, ma nemmeno avrebbero ridotti i Milanesi a lasciare [458] l'alleanza di Ottone, onde si ritirarono fulminando l'interdetto contro la città.
(1217) Di quest'epoca i Milanesi avevano fatta alleanza con Tomaso, conte di Savoja: le loro città confederate erano, in quest'epoca, Crema, Piacenza, Lodi, Vercelli, Novara, Tortona, Como ed Alessandria. L'interdetto del papa parve che in vece di sciogliere questa lega, ne riserrasse più strettamente i legami. Le città di Pavia, Cremona, Parma, Reggio, Modena ed Asti avevano abbracciato il contrario partito, ossia quello de' Ghibellini; e Brescia, d'ordinario alleata di Milano, dovette a quest'epoca conservarsi indifferente nelle contese delle altre città[468], perchè indebolita da una lunga guerra civile, e ruinata dal tremuoto che aveva atterrati i suoi più nobili edificj, doveva cercare di rifarsi con un lungo riposo. Bergamo non è pur rammentata dagli storici di questi tempi.
Ogni città si ascrive nelle proprie cronache qualche vittoria nella guerra quasi generale che tenne dietro all'interdetto [459] papale; onde può conchiudersi che i successi furono presso a poco compensati. Pare non pertanto che la città di Pavia soffrisse una continuata serie di perdite, che la Lomellina fosse saccheggiata ed incendiati molti castelli sulla destra del Po; per cui questa repubblica si risolvesse di abbandonare le antiche alleanze, unendosi ai Milanesi[469]. La città d'Asti non fu meno maltrattata di Pavia, prima dagli Alessandrini da lei provocati, poi dagli stessi Milanesi[470]; ma Cremona assalita dalla stessa lega, le oppose una più ferma resistenza. Il sei giugno del 1218 le armate delle due leghe vennero a battaglia avanti a Ghibello: i Pavesi erano stati forzati di unirsi ai Milanesi, coi quali trovavansi pure i Vercellesi, Novaresi, Tortonesi, Comaschi, Alessandrini, Lodigiani e Cremaschi: i Cremonesi avevano con loro le milizie di Parma, di Reggio e di Modena. La battaglia si protrasse dal mezzogiorno fino a notte innoltrata, e terminò colla rotta totale dei Milanesi[471].
Oltre queste guerre tra le città, altre se ne manifestavano ancora nell'interno di ogni repubblica, cui davano motivo l'insolenza dei nobili, o la gelosia dei cittadini. I primi, dopo essere stati forzati ad abbandonare i loro castelli per farsi abitatori delle città che gli avevano ammessi alla loro cittadinanza, trovaronsi resi più potenti dalla loro sconfitta. Essi non erano più, come per lo innanzi, dispersi e senza relazione gli uni cogli altri; anzi per l'opposto trovavansi uniti coi loro uguali, e più a portata di contrarre nuove alleanze; quindi maggiore erasi fatto il loro disprezzo pei borghesi, ai quali momentaneamente avevano dovuto cedere, e si credevano destinati a dominarli. Attribuivansi esclusivamente il nome di soldati (milites); e, quantunque a quest'epoca il valore fosse comune a tutti gl'Italiani, è probabile che superassero in virtù militari i loro concittadini, pei quali la guerra non era il principale affare. La rivoluzione che si fece in tutte le repubbliche, allorchè fu confidato ai podestà il supremo potere, era riuscita favorevole ai nobili. Un popolo geloso [461] poteva bensì volere esclusi dagl'impieghi i suoi proprj gentiluomini; ma qualunque volta passava a scegliere in paese straniero un uomo sconosciuto per sottomettersi al suo governo, non sapeva liberarsi dall'antica prevenzione di tutti gli uomini in favore della nascita; prevenzione che tanto naturalmente decide delle scelte, quando non conosconsi le altre qualità. Fu legge fondamentale di tutte le repubbliche italiane di non iscegliersi per podestà che un gentiluomo; e questa legge non fu pure violata quando, nel calore delle guerre civili, i nobili appartenenti ad ogni repubblica vennero degradati ed esclusi da ogni diritto di cittadinanza. Intanto i podestà gentiluomini cercavano d'avere ne' consiglj persone del loro ordine; quando terminate le loro funzioni tornavano in patria, vi portavano l'attitudine ai pubblici affari, talenti esercitati, ed il sentimento della loro superiorità sui borghesi e gli artigiani, che occupavano le principali cariche. Provavano allora, colle minacce e con un procedere arrogante, di ricuperare quelle prerogative ch'essi credevano usurpate al loro ordine. Per l'opposto i borghesi avevano fatta conoscenza degli affari nelle deliberazioni della piazza pubblica; [462] erano armati; avverano combattuto per essere liberi, e non per passare sotto un diverso giogo. Protetti da un governo benefico avevano veduto prosperare il loro commercio e le loro manifatture, avevano appreso ad apprezzarsi più assai che per lo innanzi, perchè la loro fortuna era quasi affatto indipendente. Erano perciò troppo alieni dal voler rinunciare a tutti i pubblici affari, e dal permettere che i soli nobili rappresentassero lo stato nelle più singolari occasioni, ne' consigli, nelle ambascerie.
(1221) A Milano i nobili erano spalleggiati dall'arcivescovo, il quale non poteva senza gelosia vedersi spogliato di ogni parte del governo. La contesa tra i due ordini si fece più viva l'anno 1221[472]. I gentiluomini furono forzati ad uscire di città, e ad afforzarsi nei loro castelli, ove furono ben tosto inseguiti dal popolo, che, dopo più o men lunghi assedj, gli obbligò ad arrendersi, e gli spianò; onde nel termine d'un anno la nobiltà fu ridotta a chiedere la pace. La numerosa popolazione di Milano doveva far trionfare il partito democratico. A Piacenza la fortuna delle armi si dichiarò per i [463] gentiluomini: avevano anch'essi adottata la determinazione di uscire dalla città; ma quando furono in campagna aperta, trovandosi circondati dai loro vassalli, ricuperarono quella superiorità che avevano perduta nell'interno della mura. Finalmente il papa li mandò come mediatore il cardinale d'Ostia, il quale nel 1221 terminò le loro guerre con un trattato di pace, in forza del quale la metà delle magistrature ed i due terzi delle ambascerie venivano riservate alla nobiltà, rimanendo al popolo tutti gli altri pubblici impieghi[473]. Cremona era stata agitata da eguali discordie, ed andò debitrice della pace all'immediato intervento di papa Onorio III, il di cui breve ci fu conservato da uno storico cremonese[474]. Una parola dell'annalista di Modena ne fa conoscere che la sua patria non andava esente da tali sedizioni[475]: abbiamo altrove accennate quelle di Brescia, e pare che tutte le città lombarde fossero più o meno agitate da tale discordia.
Molti storici moderni, parlando delle continue guerre tra le città, delle rinascenti [464] dissensioni tra i loro diversi ordini, dipingono l'antico stato d'Italia come affatto infelice, ed accordano la preferenza ai tempi loro. Nel calcolare la felicità di una nazione, noi oggi trascuriamo affatto di porre a calcolo quella d'una numerosissima classe di uomini, destinati dalla società ad affrontare tutte le vicende della guerra e della sventura. Questi è il loro mestiere, si suol dire, quando ci si parla dei patimenti dei soldati, come se il patimento fosse un mestiere. Allora la guerra non era un mestiere, nè era abbandonata a soldati mercenari, stranieri di cuore alla causa che sostenevano, e che, per avvezzarsi alla loro condizione, debbono chiudere gli occhi sulla sproporzione del pericolo cui vengono esposti e lo scopo che si propongono. Il soldato italiano combatteva sempre presso alle mura della propria città, non solo per la salvezza della patria, ma ancora per la propria, per ottenere un fine ch'egli conosceva, e per servire ad una passione che divideva coi suoi concittadini. Se aveva la disgrazia di essere ferito, non languiva negli ospedali, abbandonato alla dura indifferenza di subalterni chirurgi; ma ricondotto la stessa sera alla propria casa, l'amorosa cura che di lui si prendevano [465] la consorte, la madre, le sorelle, gli facevano quasi dimenticare i suoi dolori. Se periva sul campo di battaglia, periva nell'entusiasmo d'un patriotta per una cagione creduta sacra, tra le braccia de' suoi amici e de' suoi concittadini; non era contato tra i morti come un semplice soldato, come un essere ideale destinato soltanto ad aver luogo nel ragguaglio d'una battaglia in mezzo ad una colonna di numeri. Si sapeva d'aver perduto un uomo ed un cittadino, ed era pianto come uomo e come cittadino. La stessa sera della battaglia, se la notizia della sua perdita non era portata alla famiglia, doveva egli stesso tornare ad abbracciare i suoi figli.
Quindi per mettere a numero le armate non abbisognavano arrolamenti forzati; la guerra era un dovere passaggiero, e direi quasi il dilettevole trattenimento d'ogni cittadino; la guerra, cui dovevansi consacrare soltanto pochi giorni dell'anno, per riprendere in appresso le proprie occupazioni; la guerra che il cittadino non faceva giammai senza un vivo sentimento della sua importanza e della gloria della sua patria; la guerra che in lui manteneva l'abitudine di quel valore, che tanto dannoso sarebbe il lasciar perdere alla massa del popolo; quell'abitudine [466] che da lungo tempo non esisterebbe presso i moderni popoli, senza l'abuso d'una guerra privata, allora affatto sconosciuta, il duello.
In questa età le battaglie sono meno micidiali che le malattie; meno micidiali che la memoria crudele del paese natale, della memoria d'un bene perduto, che ogni anno fa perire di dolore tante reclute. Nelle guerre d'Italia tutto incominciava e finiva colla battaglia; niun soldato cadeva che sotto il ferro, ed inoltre le battaglie erano meno micidiali che a' nostri giorni. Calcolando anche tutta l'Europa, quantunque la guerra si facesse fino alla porta d'ogni cittadino, distruggeva assai meno gente nel tredicesimo che nel decimottavo secolo; ed inoltre non cadevano che vittime volontarie.
E convien dire che le interne discordie e le guerre esterne non fossero troppo dannose all'accrescimento della popolazione e delle ricchezze delle città, poichè in quell'epoca tutte le cronache parlano della necessità di dilatare le mura[476], dei pubblici [467] edificj innalzati in ogni città, delle rocche fortificate e di molti altri oggetti che attestano indubitatamente le sue forze e le sue ricchezze. Troviamo negli annali di Asti un indice insigne dell'accrescimento delle sue ricchezze. Ci dicono che l'anno 1226 gli abitanti d'Asti incominciarono a dar danaro ad usura in Francia ed in altri paesi d'oltremonti; dal qual genere di traffico ottennero da prima ragguardevoli profitti, poi gravi perdite[477]. In fatti il primo giorno di settembre del 1256 il re di Francia fece sostenere ne' suoi stati tutti i banchieri d'Asti in numero di circa cento cinquanta, e ne confiscò i beni del valore di più di ottocento mila lire. Senza accordare che Asti abbia potuto allora perdere così ragguardevole somma, che risponde a più di ventisette milioni di franchi[478], non può dubitarsi che i capitali [468] non si fossero accresciuti in Lombardia a dismisura, poichè le manifatture e l'agricoltura del paese permettevano che si sovvenissero alle straniere nazioni così egregie somme. È noto che in conseguenza di questo traffico, cui presero parte tutte le città occidentali d'Italia, fu in Francia indistintamente detto Lombardo l'usurajo ed il banchiere.
Bologna, nell'Emilia, era in allora, come Milano in Lombardia, un centro d'interesse intorno al quale dirigevansi tutti i negozianti delle vicine repubbliche. Bologna che pretendeva avere tra le prime conosciuta l'indipendenza nazionale, e che fa rimontare i suoi privilegi di città libera fino ai tempi d'Ottone I, non aveva, fino a tale epoca, occupato un luogo nella storia per causa di strepitose rivoluzioni, o di grandi sventure: la sua celebrità procedeva da più onorevole titolo. Bologna aveva, prima di tale epoca, ottenuto l'aggiunto di Dotta, che seppe conservare fino all'età nostra; era stata la prima città in cui si leggesse il diritto romano; la prima d'Italia ad avere una università.
In sul finire dell'undecimo secolo, una libera società di dotti, quali almeno [469] potevano aversi in quel tempo, avevano posto i fondamenti dell'università di Bologna[479]. Aprirono prima una scuola di logica e di grammatica, e poco dopo, ne' primi anni del secolo dodicesimo, Irnerio o Warnierio, aveva portate le leggi di Giustiniano, e per la prima volta preso ad interpretarle in faccia a numerosa udienza. Dopo Irnerio, altri celebri giureconsulti continuarono le stesse lezioni, e la scuola del diritto, più d'ogni altra, diede riputazione a Bologna. Fu questa scuola che gli ottenne i primi privilegi che un imperatore, Federico Barbarossa, accordasse alle lettere; ed i primi contrassegni del favore che un papa, Alessandro III, diede ad una università.
Nel susseguente secolo, l'università di Bologna aveva acquistata maggiore considerazione: era la principale e più famosa d'Europa per il diritto civile e canonico, e tutte le altre scienze vi prosperavano; grandissimo era il numero degli scolari, famosi i professori; e la città riponeva la sua gloria nel possedimento [470] di così rinomata università. Perciò voleva che i suoi professori giurassero di non aprire scuola in verun'altra città, e niente ometteva di quanto contribuir potesse a trattenerli presso di sè; mentre, invidiando tanta prosperità, Vicenza, Padova, Modena, Arezzo e Napoli, ove le scuole avevano incominciato più tardi, sforzavansi di togliere a Bologna i professori coll'allettamento di più ampli privilegi e generosi stipendi, onde aver parte anch'esse al rinnovamento delle lettere in Italia[480]. Forse i Bolognesi si rifiutarono lungo tempo dall'abbracciare le parti del papa o dell'imperatore, per non recar pregiudizio all'università; desiderando di conservare la benevolenza di tutti i governi, e riputandosi obbligati ad avere questi riguardi agli stranieri riuniti presso di loro per cagione degli studj. Vero è che inclinavano alla parte guelfa; ma lungo tempo non pertanto mostraronsi rispettosi verso Federico, e non si dichiararono contro di lui che quando furono da lui medesimo forzati a farlo.
Il territorio bolognese, dalla banda degli Appennini, confinava con quello di [471] Pistoja e di Fiorenza, ma le montagne erano un forte steccato per risparmiare alle confinanti repubbliche troppo frequenti querele; tanto più che i loro distretti erano sparsi di feudi indipendenti, posseduti dai conti Guidi, dagli Ubaldini, Ubertini e Tarlati. Questi gentiluomini non avevano ancora riconosciuta la sovranità di veruna repubblica, e procuravano di essere dimenticati da tutte, mantenendo la pace sulle loro montagne. Al nord i Bolognesi avevano confinanti i Ferraresi, sempre divisi da calde fazioni e dominati a vicenda da Azzo d'Este, di parte guelfa, e da Salinguerra, di parte ghibellina. I Modenesi, a ponente, e gl'Imolesi, a levante, stavano costantemente pel partito ghibellino, e con questi Bologna ebbe spesse volte guerra. La Romagna e la Lombardia erano divise in due leghe. Faenza, Cesena e Forlì avevano stretta alleanza con Bologna; mentre Rimini, Fano, Pesaro, Urbino ed i conti di Montefeltro tenevano la contraria parte. Ma se noi abbiamo omesso il circostanziato racconto delle guerre di Lombardia, a più forte ragione dobbiamo fare lo stesso rispetto a quelle della [472] Romagna[481], ove le popolazioni erano meno potenti, le città più povere; onde i prosperi o i sinistri avvenimenti avevano minore influenza sulla sorte d'Italia. Altronde la protezione che i Bolognesi accordarono, del 1216, ai loro alleati di Cesena, e la guerra che, del 1228, sostennero contro i Modenesi, non produssero alcuno notabile avvenimento[482]. Più importante fu un'altra guerra degli stessi Bolognesi contro Imola; aveano, nel 1222, saccheggiato quattro volte il territorio di questa città e ridotti gli abitanti in così misero stato, che per ottenere la pace acconsentirono a distruggere le loro mura, a cedere ai vincitori le porte della città che furono portate trionfalmente a Bologna; e per ultimo a ricevere un podestà bolognese[483]. Fu in occasione di così umiliante convenzione che l'imperatore Federico, [473] dichiarandosi protettore dell'oppressa città, sforzò, colle sue minacce, i Bolognesi ed il loro pretore a gettarsi scopertamente nel contrario partito.
Federico II, ossia Federico Ruggero, siccome chiamavasi avanti che fosse imperatore, trovavasi in Germania quando gli fu data notizia della morte d'Innocenzo III e della elezione di Onorio III, ch'era stato quattro anni, sotto i suoi ordini, governatore di Palermo. Federico fece due volte il fatale esperimento, che un suo ministro non potev'essere fatto papa senza diventare suo nemico[484]. Il subalterno, diventato superiore, rare volte sa difendersi dalla tentazione di far conoscere al suo antico padrone, che può anch'esso umiliarlo e farlo soffrire. Benchè Federico non fosse allora il campione della santa sede contro l'imperatore Ottone IV, il nuovo papa gli scrisse arrogantemente, ordinandogli di rassegnare al principe Enrico, suo figliuolo, il regno di Sicilia, onde non rimanesse unito a quello di Germania. [474] Ottone mori poco dopa il 19 maggio del 1218, e lo stesso papa propose nuove condizioni a Federico, prima di riconfermargli la promessa della corona imperiale. Voleva che si obbligasse ad andar subito in Terra santa per riprenderla ai Saraceni che ne occupavano la maggior parte; e che cedesse alla Chiesa il contado di Fondi, posto al mezzodì di Terracina e delle paludi Pontine.
Riuniva Federico il carattere delle sovrane famiglie di cui era erede, e delle nazioni tra le quali aveva vissuto. Aveva ereditato dai principi della casa di Svevia l'inclinazione alla guerra, ed un valore talvolta brutale; ma in sull'esempio dell'avo materno, Roberto Guiscardo, e come i Normanni cui succedeva, sapeva alla bravura associare un'astuta politica, una profonda dissimulazione. Educato sotto la sferza della corte romana, erasi avvezzato ad adoperare quelle armi della debolezza, che forse sdegnò in più matura età. Sapeva opporre alle insidie de' pontefici, che avevano lungo tempo preteso d'essere suoi amici, l'astuzia, e spesse volte la mala fede; le sue parole non erano giammai conformi ai suoi pensieri, e le promesse poche [475] volte guarentivano le sue future azioni[485].
Federico non era probabilmente determinato a passare in Terra santa allorchè lo promise ad Onorio III. Egli non aveva ancora recata interamente la Germania alla sua obbedienza, e dopo la morte di Ottone trovò necessario di rimanervi ancora due anni prima di venire a Roma a ricevere la corona imperiale; nel qual tempo (1220) fece coronare suo figliuolo Enrico re de' Romani. Erasi Federico ammogliato così giovane, che questo figlio aveva omai dieci anni, benchè egli stesso non oltrepassasse i ventisei. Venne in seguito a Roma con una riguardevole armata, evitando in cammino di avvicinarsi alle città lombarde che stavano pel contrario partito; ed il giorno 22 novembre del 1220 ricevette la corona imperiale, dopo aver rifatte le promesse di portarsi, senza ritardo, al soccorso di Terra santa[486].
Ma il regno di Puglia aveva, più che quello di Germania, estremo bisogno delle cure e delle riforme del monarca. [476] Dopo il regno di Guglielmo il cattivo, era sempre stato in preda delle guerre civili, e l'amministrazione trattata dai papi ne aveva a dismisura accresciuta l'anarchia. Tutti i conti, proprietarj d'una città o d'un castello, avevano quasi scosso del tutto il giogo dell'autorità reale; e Federico, per ristabilirla, non si fece scrupolo di adoperare la frode ed il tradimento. In mezzo alle feste che gli davano i suoi feudatari per onorare il suo ingresso nel regno, si fece rendere, in passando per san Germano, i diritti regali che l'abbate di questo monastero aveva usurpati[487]; prese possesso di molte rocche che il conte dell'Aquila si era appropriato; ed in Capoa istituì un tribunale destinato a riconoscere i titoli di tutti i feudatarj ed a riunire ai reali dominj i feudi di cui gli attuali possessori non sapessero giustificare il titolo. Dopo un'ostinata guerra, costrinse i conti di Celano e di Molise a sottomettersi[488]; e fece spianare molte delle loro rocche. Finalmente fece imprigionare i conti dell'Aquila, di Caserta, [477] di san Severino e di Tricarico, accusati di non essere andati in suo ajuto contro i Saraceni della Sicilia con quel numero di truppe che dovevansi dai loro feudi; ed in tal modo terminò d'abbattere l'indipendenza feudale de' suoi baroni l'anno 1222.
Lo stato della Sicilia era ridotto in assai peggiore condizione. I Saraceni e per l'odio che portavano ai Cristiani, e perchè oppressi da insopportabili contribuzioni, eransi ribellati: occupavano essi le montagne del centro dell'isola, e sotto la condotta d'un loro patriotta, detto Mirabet, saccheggiavano la valle di Mazara. La vicinanza dell'Africa facilitava loro i soccorsi de' patriotti, che, accostumati ne' deserti di Barbaria a vivere di ladroneccio, s'affrettavano di venire nella Sicilia a dividerne le spoglie. Federico gli attaccò vigorosamente; e, dopo averli più volte battuti (1223), offri loro nuove terre ne' suoi stati e campagne fertili, ma lontane dal mare, a condizione che gli rinnovassero il giuramento di fedeltà e servissero nelle sue armate. Più migliaja di Saraceni accettarono l'offerta, mentre altri ostinaronsi nella difesa delle loro montagne. Federico trasportò i primi nella Puglia, ove [478] diede loro la città di Lucera colle belle campagne della Capitanata[489]. Si pretese che questa prima colonia potesse, al bisogno, somministrargli venti mila soldati. Ventiquattro anni dopo ridusse gli altri Saraceni di Sicilia a stabilirsi ad eguali condizioni in una ricca valle tra Napoli e Salerno, ove occuparono la città di Nocera, che di poi conservò sempre l'aggiunto di Nocera dei Pagani.
Mentre Federico assicuravasi della dipendenza de' feudatarj, facendo smantellare le loro fortezze, andava in cambio fabbricandone di nuove nelle principali città della Sicilia e della Puglia, e stabiliva nella prima una guardia fedele che doveva rispondere di tutta l'isola. Tra le rocche innalzate da Federico, quella di Capuano posta nel centro di Napoli, ed oggi ridotta a palazzo dei re, sarà lungo tempo un nobile monumento della sua magnificenza[490]. La bellezza di questo palazzo determinò probabilmente i suoi [479] successori a stabilirvi la loro dimora quando Napoli diventò la capitale del regno. Federico aveva di questi tempi accordato a Napoli un più importante favore, fondandovi un'accademia, e chiamando a professarvi il diritto, la teologia, la medicina e la grammatica i più distinti letterati d'Italia[491]. E per riunire in Napoli tutta la gioventù de' suoi regni che voleva applicarsi allo studio, oltre i molti privilegi accordati all'accademia, prescrisse che le professioni letterarie non potessero esercitarsi che da coloro che riceverebbero i gradì nella medesima. Attribuì pure ai professori di questa Università il diritto di giudicare tutte le controversie che avrebbero luogo tra gli scolari; ed ordinò ai professori ed agli scolari di Bologna di recarsi a Napoli quando quella città aveva provocata la sua collera; ma l'università repubblicana non fece verun conto de' suoi comandi o delle sue minacce.
Mentre Federico andava ordinando i suoi regni, gli affari de' Cristiani in Terra santa erano estremamente peggiorati. Un [480] legato pontificio si era arrogato il diritto di comandare le truppe crociate, e la sua ignoranza ed ostinazione erano state cagione della perdita di Damietta e di una florida armata[492]. Qualunque volta il papa aveva sinistre notizie delle truppe di Terra santa, scriveva nuove lettere a Federico perchè si affrettasse di soccorrerla: e per determinarvelo più facilmente, gli offriva la successione al trono di Gerusalemme. Questo principe perdeva allora la consorte Costanza di Arragona; e Giovanni di Brienne, ch'era re titolare di Gerusalemme pei diritti della moglie, aveva una sola figliuola detta Yolante, legittima erede di questo regno posseduto dai Saraceni: e questa, dietro gl'inviti del papa, fu la seconda consorte di Federico. Dopo tali nozze celebrate l'anno 1225 aggiunse a' suoi [481] stemmi la croce, ed a' suoi titoli quello di re di Gerusalemme.
Se fino a tale epoca le sue intenzioni furono non senza ragione dubbiose, certo è intanto che dopo mandò più volte soccorsi ai confini di Terra santa, e fece grandi apparecchi per recarvisi egli medesimo con un'armata. I crociati di Germania, d'Inghilterra e d'Italia adunaronsi a Brindisi: Federico fece equipaggiare i bastimenti di trasporto, ed il giorno otto settembre del 1227 andò egli stesso a bordo della flotta col landgravio Luigi di Turingia, il principale de' crociati tedeschi. Ma le truppe de' popoli settentrionali, che nel cuor dell'estate soggiornavano in così caldo clima, trovaronsi attaccate da malattie epidemiche, che fecero perire molta gente, e scoraggiarono i superstiti. In tali frangenti cadde infermo e morì il landgravio; e lo stesso Federico non andò esente dal dominante contagio. L'imperatore dovette suo malgrado abbandonare un'impresa incominciata con sì fortunati auspicj; e scendendo dal suo vascello protrasse l'impresa fino al vegnente anno[493].
(1227) In quest'anno moriva ancora Onorio III, cui veniva surrogato Gregorio IX, della famiglia de' conti di Segna, e nipote d'Innocenzo III. Il nuovo pontefice che lusingavasi di vedere illustrato il primo anno del suo regno dalle vittorie di una crociata, s'abbandonò agli eccessi della collera quando seppe svanite tutte le sue speranze. Avea d'uopo di trovare un colpevole per potere in lui punire le avversità della fortuna, e senza monitorj, senza precedenti citazioni, il 29 del mese di settembre fulminò contro Federico la scomunica, perchè non era partito, come aveva promesso, all'epoca stabilita[494].
Nelle lettere che il papa diresse al clero del regno di Napoli, per giustificare una così strana procedura, accusa l'imperatore d'avere volontariamente dato i crociati in preda all'epidemia col riunirli nella stagione più calda ne' luoghi più insalubri, e coll'avere in seguito supposta una malattia ch'egli non ebbe mai, onde abbandonarsi senza ostacolo ai piaceri ed ai vizj.
[483] Federico dal suo canto inviò i suoi reclami a tutti i sovrani d'Europa[495]. Da Pozzuolo, ov'erasi recato per ricuperare la sanità in que' bagni resi così celebri dagli antichi poeti di Roma, scrisse ai cardinali, al clero de' suoi stati ed a tutti i re della Cristianità. Ordinò in pari tempo agli ecclesiastici di Napoli e della Sicilia di non fare verun conto dell'interdetto inflitto a tutti i luoghi in cui egli fosse per soggiornare e di continuare la celebrazione dei divini uffici[496]: finalmente per togliere ogni dubbio alla fatta promessa ed alla realtà della sua malattia che aveva sospesa l'esecuzione della crociata, faceva ogni cosa apparecchiare con grande sollecitudine per il passaggio di Terra santa nel susseguente anno.
(1228) In agosto del 1228 gli apparecchi erano terminati, e Federico partì infatti alla volta della Palestina, ma con un'armata assai meno numerosa che quella dell'anno addietro, perciocchè, a riserva di alcuni Tedeschi, non aveva oltramontani sotto i suoi ordini. S'imbarcò anche quest'anno a Brindisi, e [484] dopo un felice tragitto diede fondo a san Giovanni d'Acri[497].
Quest'impresa fatta, per quanto sembrava, soltanto per provare l'ingiustizia della scomunica, si risguardò dal papa come una nuova offesa, anzichè quale soddisfacimento del passato; ed arse di tanta ira, che, quantunque il popolo romano, sdegnato per così scandalosa parzialità, prendesse le armi contro di lui sotto la direzione dei Frangipani, e lo forzasse a ritirarsi a Perugia, non solo rinnovò contro di Federico la sentenza di scomunica, ma gli dichiarò la guerra, promulgò contro di lui una crociata, e sotto il comando di Giovanni di Brienne, re titolare di Gerusalemme e suocero dell'imperatore, mandò un'armata a saccheggiare la Puglia[498].
In quest'armata, oltre i sudditi del papa, trovaronsi i suoi alleati lombardi, ed i vescovi di Clermont e di Beauvais: e nel susseguente anno furono inoltre [485] chiamati dal papa a prender parte in questa guerra gli arcivescovi di Parigi e di Lione. Federico, partendo, aveva mandati ambasciatori al papa per ottenere un riconciliamento[499]; ma Gregorio non volle ascoltarli; ed invece incaricò i Francescani ed i Domenicani di far ribellare i sudditi di Federico e di pubblicare la falsa notizia della sua morte onde agevolare le conquiste di Giovanni di Brienne.
In Terra santa tutte le operazioni di Federico furono egualmente contrariate dai ministri del papa, e la sentenza di scomunica solennemente pubblicata in tutta la Palestina. Il patriarca di Gerusalemme sottopose all'interdetto tutti i luoghi che occuperebbe Federico, ed il gran maestro del tempio e di san Giovanni dichiararono di non poter servire sotto di lui; per cui l'imperatore fu forzato di acconsentire che nel suo proprio campo gli ordini non fossero dati in suo nome, ma in quello di Dio e della repubblica cristiana[500]. Mal si può [486] concepire come in mezzo a tanti svantaggi Federico abbia potuto ottenere dal soldano d'Egitto un onorevole trattato per la Cristianità. A quest'epoca il soldano era padrone di Gerusalemme; e perchè i Musulmani, come i Cristiani, attaccavano a questo luogo un'idea di santità, credevasi in coscienza obbligato di conservare ai primi la libertà di poter fare questo pellegrinaggio cui si obbligavano frequentemente. Ma non erano i medesimi sacri edifici che eccitavano la divozione delle due sette. I Cristiani veneravano soprattutto il santo sepolcro e la chiesa fabbricata sopra il medesimo; ed i Musulmani erano in ispecial modo devoti del tempio de' Giudei innalzato sopra le ruine di quello di Salomone; tempio che nelle visioni di Maometto era stato una delle visioni del profeta, quando fece il suo viaggio in cielo. Federico, conoscendo questi estremi, proponeva del 1229 di lasciare il tempio ebraico ed il suo circondario sotto la custodia de' Musulmani, a condizione che il soldano gli cedesse il rimanente della città e parte del suo territorio[501]. [487] Riservava per altro ai pellegrini, quando la proposta venisse accettata, il diritto di visitare lo stesso tempio, purchè mantenessero il debito rispetto[502]: e d'altra parte accordava ai Musulmani il diritto di entrare nella città di Gerusalemme; adottando prudenti misure per conservare la buona armonia tra le due nazioni e le due credenze[503].
La città di Gerusalemme essendo stata effettivamente ceduta agli ufficiali di Federico, questi alla testa delle sue truppe vi entrò come nella capitale del nuovo suo regno. Ma il patriarca avendolo prevenuto, [488] sottopose all'interdetto la città e la stessa chiesa del santo sepolcro, quai luoghi profanati dalla presenza dì uno scomunicato. Niun prete volle celebrarvi la messa, e Federico che doveva ricevervi la corona del nuovo suo regno, fu obbligato di prenderla dall'altare colle proprie mani e porsela in capo.
Gregorio IX, quando ebbe notizia di questo trattato, scrisse a tutti i principi d'Europa per informarli dell'intera sua disapprovazione, chiamando questa pace[504] un esecrabile delitto che ispirava orrore e sorpresa. Ma Federico che colla sua armata tenne dietro immediatamente alle lettere colle quali aveva annunciato il riacquisto di Gerusalemme, costrinse ben tosto il papa a mutar linguaggio. Riprese a forza tutte le città e fortezze che gli erano state tolte dalle truppe della Chiesa; atterrì in modo l'armata di Giovanni di Brienne, che si sbandò in pochi giorni, lasciando quasi solo questo guerriero veterano; ricevette le felicitazioni del senato e del popolo di Roma; ed ispirò abbastanza di spavento al papa per farlo acconsentire ad entrare [489] in trattati co' suoi ministri[505]: in conseguenza de' quali il papa soppresse le censure pronunciate contro l'imperatore, e lo riconciliò colla Chiesa, a condizione soltanto che questi accorderebbe un perdono generale a tutti i feudatarj ribelli.
Mentre Federico occupavasi interamente degli affari del suo regno di Puglia e di quelli di Terra santa; mentre si batteva ad un tempo contro i Saraceni, contro i crociati, contro i baroni ribelli e contro gl'intrighi degli ecclesiastici, il Settentrione dell'Italia, sotto la protezione della Chiesa, formava una lega assai più dannosa all'autorità imperiale, una lega che dava maggior consistenza alle repubbliche lombarde, rendendole affatto indipendenti.
Tutti i predecessori di Federico II avevano portato il titolo di re di Lombardia, o d'Italia; titolo loro conferito col porgli sul capo la corona ferrea conservata in Monza. Federico solo non avea ancora ottenuto dai Milanesi questa corona, quantunque non lasciassero di riguardarlo quale legittimo imperatore[506]. [490] Federico aveva fin allora dissimulato il suo risentimento; ma i Milanesi non ignoravano quanto un simile rifiuto doveva offendere la sua vanità; e per mettersi al coperto dalla sua collera, entrarono in trattati con quelle città che da più anni avevano mostrato attaccamento al partito guelfo. Proposero di dare maggior durata e consistenza alla loro alleanza, approfittando perciò dell'espressa concessione di Federico Barbarossa stipulata nel trattato di Costanza. Con questo trattato veniva alle città conservato il diritto di allearsi fra di loro per difendere la propria libertà, ed in ispecie di rinnovare, quando lo credessero conveniente, la confederazione o società lombarda.
Queste negoziazioni eransi incominciate l'anno 1226 quando i Lombardi ebbero avviso che Federico si disponeva di passare a Cremona, ove apriva una dieta del suo regno d'Italia[507]. Sentirono il bisogno di affrettare il trattato, onde il giorno due di marzo, in una chiesa del distretto di Mantova detta san Zenone di [491] Mozio, i deputati di Milano, Bologna, Piacenza, Verona, Brescia, Faenza, Mantova, Vercelli, Lodi, Bergamo, Torino, Alessandria, Vicenza, Padova e Treviso, rinnovarono per venticinque anni l'antica lega lombarda. I deputati obbligaronsi a far giurare quest'alleanza a tutti i cittadini di ogni città, e si promisero i vicendevoli soccorsi in caso che l'una o l'altra delle città fosse attaccata da qualsiasi nemico. Fin allora i termini del trattato non indicavano verun oggetto ostile; ma intanto si era formata una dieta delle repubbliche lombarde; i deputati a questa dieta, detti rettori, si obbligavano di mantenere con tutte le loro forze libere le città e la pace fra di loro; si adunavano assai spesso; e non potevano uscir di carica senza aver prima nominati i loro successori. E per tal modo si formava una nuova potenza atta di sua natura a tenere inquieto l'imperatore.
Infatti Federico fece di tutto per isciogliere questa lega; ma il papa, sotto i di cui auspicj erasi formata, si affrettò di entrare mediatore tra le città e l'imperatore, quale pacificatore dei fedeli. Del 1226 regnava ancora Onorio, il quale andava affrettando Federico a fare [492] l'impresa di Terra santa; e quando ottenne di essere arbitro tra i confederati e l'imperatore, non aggravò i primi di altre condizioni, se non che darebbero un determinato numero di soldati per la crociata, e non farebbero ulteriore opposizione al castigo degli eretici che si scoprissero fra i loro concittadini[508]. In forza di tali concessioni, ch'egli chiedeva per sè medesimo, non per Federico, lo ridusse a riconoscere la lega lombarda ed a lasciarla in pace.
Quando Gregorio IX, che succedeva ad Onorio, si trovò impegnato in una inconsiderata guerra coll'imperatore, angustiato dalle armi vittoriose de' Tedeschi, ricorse alla lega lombarda. E perchè i chiesti soccorsi non giugnevano abbastanza in tempo per riparare le sue perdite, accusava la lentezza de' suoi alleati, e minacciava di abbandonarli ne' loro bisogni[509]. Frattanto gli abitanti di Milano e di Piacenza avevano già spedite le loro truppe; e perchè contro ogni aspettazione vedevansi strascinati in una guerra offensiva, avevano in pari tempo [493] cercato di ristringere la lega nella Lombardia, che formava la loro sicurezza. Molte città lombarde erano governate dai Ghibellini, le quali formavano come una seconda lega opposta a quella delle città guelfe; e le repubbliche di Parma, Cremona e Modena erano principalmente cagione di gelosia e d'inquietudine. In una dieta guelfa, adunata in Mantova, si stabilì che niuna repubblica confederata riceverebbe per podestà o giudice un cittadino di città ghibellina[510], o un suddito dell'imperatore; che non sarebbe permesso a verun cittadino lombardo l'accettare pensioni, regali, feudi dall'imperatore o da' suoi aderenti; che i danni che venisse a soffrire taluna delle città della lega per cagione della guerra che intraprendevano, sarebbero proporzionatamente compensati dalle altre. Ma i prosperi successi di Federico, già di ritorno da Terra santa, furono tanto rapidi, che Gregorio IX si trovò forzato ad entrare in trattative di pace: e perchè il pontefice non ignorava che la lega lombarda era necessaria alla propria sicurezza, l'anno 1230 la fece comprendere [494] nel trattato di pace convenuto coll'imperatore.
Le città alleate avevano comperata a caro prezzo la protezione del papa, perciocchè ogni città aveva acconsentito a pubblicare contro gli eretici i sanguinarj editti dell'imperatore e della chiesa. Già da oltre vent'anni aveva cominciato in Francia la persecuzione contro gli Albigesi[511]: il racconto di queste crudeli spedizioni rendeva i popoli feroci; lo zelo, allora nel colmo del fervore, dei due nuovi ordini francescano e domenicano comunicavasi a tutte le classi dei cittadini, e le repubbliche italiane non opponevano più un'insormontabile ripugnanza allo stabilimento dell'inquisizione. Il 13 gennajo 1228 l'assemblea del popolo, adunata in Milano, pronunciò sentenza di esigilo e di confisca dei beni contro gli eretici[512]. Nel 1231 pubblicò un altro più severo editto mandato a nome comune del papa e dell'imperatore. [495] Finalmente due anni dopo fu per la prima volta alzato il rogo in Milano, ed il podestà Oldrado di Tresseno, che fabbricò nella Piazza de' Mercanti il palazzo pubblico in cui oggi conservansi gli archivj, fece porre sulla facciata di questo palazzo, sotto al basso rilievo che lo rappresenta a cavallo, una iscrizione in suo onore onde perpetuare la memoria ch'egli aveva il primo, siccome era doveroso, fatti abbruciare gli eretici[513].
Non dobbiamo per altro risguardare i persecutori degli eretici quali uomini essenzialmente feroci che facciano il male conoscendo di far male; nè è possibile di farsi ammirare dal proprio secolo a cagione di opere assolutamente malvage: e siccome a quest'epoca i Domenicani acquistarono grandissima opinione di santità, devono riconoscersi in loro grandi virtù associate a quella ardente sete di sangue che fa torto alla causa cui essi servivano. Una religione mistica è un culto reso al dolore[514]; ed i divoti [496] trovano un certo che di divino nella violenta scossa dell'anima pel tormento del corpo; il dolore diventa per loro stessi l'unico mezzo di purificazione, il solo sacrifizio che piacer possa alla divinità; inoltre si formarono un Dio che si assoggetta ai patimenti; un Dio il di cui sacrificio rinnovasi ogni giorno, ogni ora, in tutte le parti del mondo sull'altare ove il sacerdote celebra i misterj; un Dio che creò l'inferno ed i tormenti eterni; che in questa vita innalza l'uomo colle sofferenze; che dopo morte lo purifica colle fiamme del purgatorio[515]. Tutto è concatenato in questo sistema fondato sul dolore, e non se gli può rifiutare una specie d'ammirazione mista di ribrezzo, non solo a motivo della bella connessione delle sue parti, ma ancora per il disinteressamento e pel sacrifizio di sè medesimo, di cui forma l'essenziale carattere dell'uomo; e per [497] quel cupo e poetico dolore che attribuisce a tutti i grandi caratteri. Appunto perchè questo sistema non è incompatibile colle più nobili idee, sarà prezzo dell'opera lo svilupparlo. La persecuzione ne forma la sua essenza, considerandovisi i supplicj dei reprobi come un'offerta espiatoria dovuta alla divinità e come una salutare penitenza per que' medesimi che li dirigono: imperciocchè gl'inquisitori di mezzo alla gioja infernale di cui facevano mostra nelle esecuzioni, non lasciavano d'essere uomini, e fors'anco assai sensibili; sentivano profondamente l'offesa che facevano alla natura, e compiacevansi del tormento che provavano essi medesimi vedendo le pene che facevano soffrire, come compiacevansi dell'altrui dolore espiatorio. Tengasi ben in guardia la debole umanità dall'ammettere contraddizioni ne' sistemi che servono di base alla morale, dal rendere schiava la sua ragione, e di ammettere misteri assurdi sotto lo specioso pretesto di cose recondite; tengasi in guardia di non separare giammai dalla idea di Dio quella della bontà. — Questo carattere è quello per cui solo dobbiamo riconoscere il Padrone dell'universo; giacchè dal momento in cui le basi del pensiero [498] si troveranno smosse, il delitto potrà associarsi ai più nobili sentimenti, e quegli uomini che il cielo aveva formati per la virtù, saranno egualmente disposti a diventare i carnefici de' loro fratelli, o a maltrattare le proprie membra colle discipline.
Tre Domenicani, ne' tempi in cui parliamo, acquistarono un'alta riputazione di santità colla felice riuscita delle loro prediche contro gli eretici e colle crudeli leggi che fecero adottare a quelle stesse città, che molto tempo protessero la libertà di coscienza: erano questi frate Filippo di Verona, detto poi san Pietro martire, frate Rolando di Cremona, e frate Leone di Perego, in appresso arcivescovo di Milano. Andavano costoro d'una in altra città predicando nelle pubbliche piazze, per eccitare il popolo a vendicare col sangue l'offesa divinità; ed uno di loro ottenne di formare in Milano una privata società che adunavasi per l'estirpazione dell'eresia[516]. Vero è che i frati predicatori non avevano il solo scopo di mantenere colle loro esortazioni la purità della fede, scagliandosi ancora frequentemente [499] contro la scostumatezza e contro i progressi del lusso. Non pertanto, se dobbiamo credere agli storici della susseguente generazione, i costumi non erano mai stati così puri, ed il lusso non aveva mai chiesti minori sacrifici[517]. Le donne non vestivano che una stoffa di lino semplicissima; ed una tela bianca che loro avvolgeva il capo, si riuniva sotto il collo; l'oro e l'argento non brillavano sulle loro vesti; le loro mense non s'imbandivano di delicate vivande, bastandone una sola ad ogni famiglia; una fiaccola di legno resinoso illuminava l'interno delle case; e tutto il lusso di quel secolo ristringevasi alle armi, ai cavalli, alle torri, alle fortezze.
Un altro importantissimo argomento delle prediche dei monaci, argomento più degno della religione cristiana e di una divina missione, era quello di ricondurre la pace tra le private famiglie e tra città e città. Gl'Italiani non ne avevano giammai avuto così grande bisogno; tutte le città trovavansi in armi contro le vicine città, e tutte le famiglie erano divise dalle funeste fazioni guelfe [500] e ghibelline; tutti gli ordini de' cittadini battevansi tra di loro per togliersi a vicenda il potere e le magistrature. Queste semi-private guerre, queste rivalità del popolo colla nobiltà rendono tanto confusa, tanto oscura la storia del periodo di tempo di cui parliamo, che abbiamo preso consiglio di non entrare nella circostanziata narrazione dei diversi avvenimenti. Con quello stesso zelo con cui poc'anni prima avevano i preti predicata dall'altare la crociata e la distruzione degl'infedeli, si videro adesso nuovi missionarj passare d'una in altra città, predicando ai popoli, e loro ordinando in nome d'un Dio di pace il riconciliamento ed il perdono delle ingiurie.
Un uomo di gran lunga superiore agli altri si distinse in questa nobile carriera; fu questi fra Giovanni di Vicenza dell'ordine dei Domenicani. Diede cominciamento alle sue prediche in Bologna l'anno 1233[518]; e ben tosto i cittadini, i paesani delle vicine campagne, e soprattutto le persone addette alla professione delle armi, trascinati dalla sua eloquenza, unironsi intorno a lui. [501] Portavano essi croci e bandiere in mano, disposti non solo ad ubbidire alla voce del religioso, ma ancora ad eseguirne gli ordini. In mezzo a questa folla ch'egli aveva scossa co' suoi sermoni, vedeva tutti coloro, che in Bologna nutrivano antiche nimistà, venire a deporle a' suoi piedi, e giurar pace coi loro vecchi rivali. Gli stessi magistrati presentarongli gli statuti della città perchè li riformasse come meglio credeva, togliendo tutto quanto poteva essere cagione di nuove dissensioni.
Frate Giovanni passò in seguito a Padova precedutovi dalla sua fama. Vennero ad incontrarlo fino a Monselice i magistrati col carroccio[519]; e fattolo salire su questo sacro carro, l'introdussero in trionfo nella loro città, che di que' tempi era la più potente della Marca Trivigiana. Tutto il popolo, affollato nella piazza della valle, ascoltò la predica della pace, applaudì alle riconciliazioni che distrussero all'istante le passate nimistà, e fece istanza a frate Giovanni di riformare i loro statuti, ciò che praticò in tutte le città. Passò [502] in appresso a Treviso, a Feltre, a Belluno, ed ottenne gli stessi successi; visitò i signori di Camino, di Conegliano, di Romano, di san Bonifacio; ed i signori, come le città, lo fecero arbitro delle loro contese[520]: le repubbliche di Vicenza, Verona, Mantova e Brescia, ove recossi successivamente, accordarongli le medesime facoltà: ovunque potè riformare gli statuti municipali, alterarli a modo suo, aggiugnendo o levando tutto quanto credeva: finalmente gli fu in ogni luogo promesso d'intervenire alla solenne assemblea dei popoli lombardi, ch'egli convocò pel giorno 28 agosto susseguente nella campagna della Paquara, in riva all'Adige, lontana tre miglia da Verona.
Niuna così nobile impresa erasi giammai tentata come quella di pacificare venti popolazioni nemiche col solo suggerimento de' sentimenti religiosi, coi soli motivi del cristianesimo, col solo impero della parola: giammai un così grande spettacolo si presentò agli occhi degli uomini[521]. [503] L'intera popolazione di Verona, Mantova, Brescia, Padova e Vicenza trovavasi adunata nella campagna di Paquara, ed i cittadini di queste repubbliche avevano alla loro testa i proprj magistrati col carroccio. Gli abitanti di Treviso, Venezia, Ferrara, Modena, Reggio, Parma e Bologna vi erano altresì coi loro stendardi; i vescovi di Verona, Brescia, Mantova Bologna, Modena, Reggio, Treviso, Vicenza, Padova, il patriarca d'Aquilea, il marchese d'Este, i signori da Romano, e quelli della Venezia, vi erano intervenuti coi loro vassalli[522].
Frate Giovanni si era fatto preparare in mezzo alla pianura un pulpito altissimo, dal quale, se crediamo agli storici contemporanei, la canora sua voce, che sembrava venire dal cielo, fu miracolosamente [504] udita da tutti gli astanti. Prese per testo le parole della Scrittura, io vi dono la mia pace, io vi lascio la mia pace; e dopo avere con una eloquenza fin allora senza esempio fatto uno spaventoso quadro dei mali della guerra; dopo avere dimostrato che lo spirito del cristianesimo era uno spirito di pace; facendo valere l'autorità della santa sede di cui era rivestito[523], in nome di Dio e della Chiesa ordinò a' Lombardi di rinunciare alle loro inimicizie; dettò loro un trattato di pacificazione universale, per assicurare la quale fece sposare al marchese d'Este una figliuola d'Alberico da Romano; destinò all'eterna maledizione coloro che romperebbero questa pace; chiamò le distruggitrici pestilenze sulle loro greggia, e dannò le loro messi, i loro giardini, le loro vigne ad una perpetua sterilità[524].
Fin qui la condotta di frate Giovanni andava esente da ogni sospetto, vista ambiziosa o interessata; sembrando che il suo zelo non avesse altro motivo che la gloria di Dio, e l'amore degli uomini; ma l'assemblea di Paquara pose fine alla gloriosa sua carriera. L'entusiasmo ch'egli aveva eccitato, la pace universale che aveva conchiusa, gli fecero concepire troppo alta opinione di se medesimo, onde si credette fatto non solo per pacificare, ma ancora per governare gli uomini. Tornato a Vicenza, subito dopo l'assemblea, entrò nel consiglio del comune, e chiese che gli fosse affidato un illimitato potere nella repubblica, coi titoli di duca e di conte[525]. Erasi vociferato che questo santo uomo aveva colle sue preghiere tornati in vita molti morti, e risanati infiniti infermi; ed il popolo, ben lontano dal nodrire sospetti intorno alle intenzioni del santo, gli confidò tutta la sua autorità, sperando di vedere con perfetta eguaglianza divise tra i cittadini le cariche e gli onori. Di fatti fra Giovanni prese a riformare gli statuti della città, ma il suo [506] lavoro non soddisfece all'universale. Da Vicenza passò a Verona, ove ugualmente chiese ed ottenne la suprema signoria, in forza della quale fece tornare in città il conte di san Bonifacio, allora esiliato; chiese ostaggi alle fazioni nemiche, mise guarnigioni nei castelli di san Bonifacio, d'Ilasio e d'Astiglia, fece abbruciare sulla pubblica piazza, dopo averli egli stesso sentenziati, sessanta eretici che appartenevano alle principali famiglie di Verona, e per ultimo pubblicò molte leggi e regolamenti[526].
Intanto i Vicentini non tardarono ad accorgersi che il nuovo signore, invece di accrescere i privilegi del popolo, andava consolidando la propria sovranità: perchè aggiugnendosi ai loro timori i conforti de' Padovani che li consigliavano a scuotere così vergognoso giogo, mentre fra Giovanni trovavasi a Verona, il podestà di Vicenza, Uguzio Pilio, introdusse in città i nemici dei signori da Romano, e le milizie padovane per fortificarsi contro il nuovo sovrano. Un altro ecclesiastico, frate Giordano, priore di san Benedetto a Padova, [507] che grandissima influenza aveva sul governo di questa città[527], geloso della gloria del suo confratello, gli aveva probabilmente fatta ribellare Vicenza. Tosto che frate Giovanni fu avvisato dell'accaduto, accorse con alcuni soldati per reprimere i sediziosi, e già occupava il palazzo del podestà, che abbandonava al saccheggio, quando giungendo a Vicenza le milizie padovane, scacciarono i soldati di frate Giovanni, che rimase prigioniere. Sebbene per l'intromessione del papa fosse ben tosto rimesso in libertà, la sua prigionia aveva distrutto il suo potere in Verona come a Vicenza; onde trovossi costretto di restituire gli ostaggi che aveva ricevuti e le fortezze occupate dalle sue guarnigioni, ritirandosi a Bologna, dopo avere perduta ogni sua gloria, e lasciata la Lombardia in preda a tante guerre, quante la laceravano prima che desse principio alle sue predicazioni.
Il potere dell'eloquenza in questo secolo, quell'impero della parola con cui il frate di Vicenza si traeva dietro i popoli, e ne regolava i destini, fu il [508] primo effetto del rinascimento delle lettere, o forse al contrario il primo motivo dell'importanza che si diede allora allo studio delle lettere, e dei rapidi avanzamenti che poi fecero. Non deve sempre giudicarsi del merito d'un oratore dietro l'impressione che produce nel popolo; imperciocchè assai più che l'eloquenza influiscono sulla buona riuscita le disposizioni degli uomini, e quel rapido slancio sull'immaginazione del popolo, ancora nuovo ai prestigi ed ai piaceri della parola. Nè Demostene, nè Cicerone, nè Bossuet, scossero giammai così profondamente i loro uditori, quanto i frati predicatori di san Domenico, quanto san Francesco d'Assisi e sant'Antonio da Padova. Le repentine conversioni de' principali personaggi del secolo, i dotti che abbandonavano i loro studj, i principi che abdicavano il loro potere ascoltando un discorso di taluno di questi oratori religiosi, la facilità con cui le più gelose e turbolenti repubbliche rendevanli arbitri dei proprj destini, lo zelo dei soldati e de' contadini che seguivano il loro predicatore di città in città, e perfino ne' deserti, ne ricordano i favolosi effetti della poesia d'Orfeo e la magica forza della parola sui Greci, sopra [509] una nazione troppo simile all'italiana, egualmente nuova, egualmente entusiasta, egualmente dalla natura destinata ad aprire la nuova strada della poesia e dell'eloquenza.
Di tanti celebri oratori di questo secolo non abbiamo che i discorsi di sant'Antonio, dei quali il Tiraboschi, che era cattolico, ne parlò col rispetto da lui dovuto alle opere d'un santo di primo ordine[528]; pure non lasciò di osservare che questi discorsi, a fronte de' maravigliosi effetti attestati dagli storici contemporanei, non sono che un tessuto di passi scritturali e de' ss. Padri, con alcune riflessioni morali, senza ornamenti di stile, senza forza o profondità, senza varietà di figure, e per dirlo in una parola senza niente di tutto quanto forma il carattere d'un eloquente oratore. Ma ciò che sembrerà ancora più strano, si è che questi discorsi facevansi in latino. Vero è che, come l'osserva Tiraboschi, in tal epoca la lingua latina era più vicina alla volgare che si parlava comunemente, di quel che lo sia adesso la toscana ai dialetti delle diverse [510] province d'Italia, ove gli oratori e gli avvocati non adoperano pure che questa elegante lingua[529]: e pure sono intesi dalle ultime classi del popolo, che pur non sanno parlare lo stesso linguaggio[530].
Per altro in quest'epoca cominciavasi appunto a coltivare la lingua italiana non più come un barbaro dialetto, ma come una lingua adattata ad esprimere i sentimenti del cuore e le sottigliezze dell'ingegno; ed in quest'epoca i primi poeti siciliani prepararono colle loro rime e canzoni quella dotta lingua di cui Dante doveva bentosto usar sì nobilmente. Fino nella prima sua gioventù, Federico II, gli andava incoraggiando; era poeta egli medesimo, ed i pochi versi ch'egli scrisse probabilmente avanti [511] il 1212, sono forse i più antichi che siansi conservati in lingua italiana. I suoi figli, il suo ministro Pietro delle Vigne[531], e tutti i più riputati personaggi della sua corte, nutrivano lo stesso amore per la poesia, e l'incoraggiavano non meno col loro esempio, che colla loro splendida munificenza[532]. E per tal modo questa nuova poesia fu trattata soltanto dai sudditi del regno di Napoli, ed anche vivente Dante, la lingua volgare, ed in particolare quella de' poeti, chiamavasi siciliana[533].
La poesia italiana deve perciò in qualche modo la sua origine ai re siciliani ed ai loro sudditi. Conviene ascrivere questo vantaggio ch'ebbero sopra le repubbliche italiane, in gran parte all'amore dei piaceri e della effeminatezza pur troppo comune ai poeti, e che fece loro quasi sempre preferire il lusso e [512] l'adulazione delle corti alla severità ed all'eguaglianza repubblicana: pure un'altra ragione giustifica i Lombardi assai meglio, vale a dire il gusto che a quest'epoca avevano preso per la lingua provenzale, che coltivavasi già da oltre due secoli da diversi gentili poeti, e che perciò furon quasi tentati di adottare come lingua nazionale[534].
La Lombardia non ebbe mai, e nè pure ha presentemente una lingua scritta[535]; e vi si parlano informi dialetti diversi in ogni città, in ogni villaggio. Il dialetto lombardo era egualmente lontano dal provenzale e dal siciliano; e prima che Dante facesse adottare la lingua cortigiana, com'egli la chiama, di cui può risguardarsi come [513] il creatore, era ancora indecisa la scelta tra le due lingue, egualmente poetiche, egualmente coltivate, egualmente prossime al dialetto del popolo. I marchesi d'Este, ed in ispecial modo Azzo VII[536], il marchese di Monferrato, i signori da Romano e da Camino, intrattenevano alle piccole loro corti molti trovatori (Troubadours) della Provenza; i quali eran contenti di tenervi il rango di adulatori ed anche di buffoni, ed il nome che davansi spesse volte di giullari, ossia uomini festosi, non è atto ad indicare più alte pretensioni. Pure perchè le invenzioni cavalleresche erano allora di moda, più assai che i costumi della cavalleria, fingevano sempre ne' loro versi amori romanzeschi, pericoli, battaglie, unione in somma di valore e di galanteria. Devonsi riconoscere da questo gusto del secolo le stravaganti avventure che si raccontarono [514] come parte della loro storia, ma che vengono smentite dalle deposizioni di tutti gli autori contemporanei.
Fra i Trovatori si resero famosi molti Italiani colle loro poesie provenzali. Nicoletto di Torino, Bonifacio Calvi di Genova, Bartolomeo Giorgi di Venezia, quantunque adesso affatto dimenticati, formarono allora le delizie delle società. Due uomini pel loro carattere superiori a questi adulatori delle corti, acquistavansi in pari tempo somma riputazione tra le repubbliche lombarde coi loro canti provenzali. Ugo Catola consacrò i suoi poetici talenti contro la tirannia e la corruzione de' principi[537]; ma non ci rimase un solo de' suoi versi: e Sordello di Mantova giace nascosto entro una misteriosa oscurità. Gli scrittori del susseguente secolo ne parlano con profondo rispetto, senza entrare ne' particolari della sua vita: quelli che vennero più tardi, lo encomiarono quale generoso guerriero, qual difensore della sua patria: nè mancò chi lo facesse principe di Mantova[538]. La [515] nobiltà de' suoi natali, il suo matrimonio, le sue galanterie con una sorella d'Ezzelino da Romano, sono attestate dagli scrittori coetanei[539]; la violenta sua morte viene oscuramente indicata da Dante, e ciò che rende soltanto Sordello immortale è quanto di lui ne scrisse il poeta fiorentino, che dice d'averlo veduto nell'atto che con Virgilio stava per entrare nel purgatorio[540].
Venimmo a lei: o anima lombarda
Come ti stavi altera e disdegnosa,
E nel muover degli occhi onesta e tarda.
Ella non ci diceva alcuna cosa:
Ma lasciavane gir, solo guardando
A guisa di leon quando si posa.
Pure quando Sordello seppe che il compagno di Dante era di Mantova, senza ancor sapere che fosse Virgilio;
Surse ver lui del luogo ove pria stava,
Dicendo, o Mantovano, Io son Sordello
Della tua terra: e l'un l'altro abbracciava.
Ed all'occasione di questo tenero amore che avevano altra volta tutti gli uomini generosi pei loro compatriotti, Dante rimprovera alle repubbliche italiane le loro discordie con tanta eloquenza, che questo pezzo viene tenuto uno de' più belli del poema[541].
FINE DEL TOMO II.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO II.
Capitolo VII. Ambizione dei Milanesi; loro conquiste in Lombardia nella prima metà del secolo XII. — Regni di Lottario III e di Corrado II. — Rivoluzione di Roma. — 1110-1152. | pag. 3 | |
Anno | ||
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Stanchezza dei due partiti dell'impero e della Chiesa | ivi | |
Il governo municipale della città si rinforza sotto il regno d'Enrico IV | 4 | |
Rivalità di Milano e di Pavia | 5 | |
1100-1107 | Guerre tra le città alleate delle due metropoli | ivi |
1107-1111 | I Milanesi attaccano e distruggono Lodi | 8 |
1118 | I Milanesi attaccano Como | 9 |
Motivi religiosi e politici di tale guerra | 10 | |
Battaglia sul monte Baradello | 12 | |
1119 | Lega formata dai Milanesi contro i Comaschi | 15 |
Descrizione della città di Como | ivi | |
1118-1127 | Assedio di Como che dura dieci anni | 16 |
1125-1126 | I Comaschi oppressi dal numero de' loro nemici | 18 |
1127 | I Milanesi attaccano le mura di Como | 20 |
Disperata difesa dei Comaschi | ivi | |
Si ritirano nel castello di Vico | 21 | |
Capitolano | 22 | |
1129 | Guerra de' Milanesi contro Cremona | 23 |
1125 | Enrico V muore senza figli | ivi |
Rivalità tra le due case guelfa e ghibellina in Germania | ivi | |
Lottario II, duca di Sassonia, alleato de' Guelfi eletto imperatore | 25 | |
1127 | Corrado III di Franconia della casa di Hohenstauffen eletto imperatore del partito opposto de' Ghibellini | 26 |
1128 | I Milanesi si dichiarono per Corrado III che passa in Italia | ivi |
1127-1132 | Guerra civile vilmente sostenuta | 27 |
1133 | 4 giugno. Lottario II coronato dal papa in Roma | 28 |
1130-1139 | Scisma d'Innocenzo II, ed Anacleto II | ivi |
1130 | Civil guerra in Roma tra i due papi | 31 |
1134 | I due fratelli d'Hohenstauffen si sottomettono a Lottario | 32 |
1136 | Seconda spedizione di Lottario in Italia | ivi |
1137 | Il 3 dicembre. Morte di Lottario nelle montagne di Trento | 33 |
1139 | Predicazioni repubblicane di Arnaldo da Brescia | ivi |
Amicizia d'Arnaldo da Brescia e di Abaelardo | 34 | |
Arnaldo perseguitato si rifugia nel vescovado di Costanza | 35 | |
1140-1141 | Guerra dei Romani contro Tivoli | 36 |
1143 | I Romani rivoltati contro Innocenzo II ristabiliscono il senato | 38 |
1144 | Governo di Roma. Un patrizio e cinquantasei senatori | 39 |
Le torri dei partigiani del papa atterrate | 40 | |
Lettere del senato a Corrado III eletto imperatore | 41 | |
L'imperatore rifiuta di rispondere al senato di Roma | 42 | |
1145 | Lucio II volendo abolire il senato viene ucciso | 43 |
Eugenio III approva la costituzione del senato | 44 | |
Arnaldo da Brescia chiamato a Roma viene ricevuto trionfante | ivi | |
1143-1152 | Nuova forma ch'egli dà alla costituzione romana | ivi |
Capitolo VIII. Federico Barbarossa imperatore. — Sua prima spedizione contro le città d'Italia. — 1152-1155. | 48 | |
1152 | Morte di Corrado III eletto imperatore il 15 febbrajo | 48 |
Suo nipote Federico Barbarossa eletto suo successore | 49 | |
Severità inflessibile di Federico | 50 | |
Federico chiamato dal papa in Italia | 52 | |
S'impegna in tale spedizione nella dieta di Vurtzbourg | 55 | |
1153 | Presentansi alla dieta di Costanza due Lodigiani | ivi |
Federico ordina ai Milanesi di rimetterlo in libertà | 54 | |
Sdegno dei Milanesi nell'udire quest'ordine | 55 | |
Lagnanze di Pavia e Cremona contro i Milanesi | 56 | |
1154 | Federico entra in Lombardia, ed apre i Comizj in Roncaglia nel mese di ottobre | 57 |
Ascolta le accuse contro Chieri, Asti e Milano | 58 | |
Conduce la sua armata dalla parte di Novara | 59 | |
Saccheggio e distruzione di Rosate | 61 | |
I Milanesi puniscono il loro console per la collera di Federico | 62 | |
Cercano invano di calmarlo | ivi | |
Federico abbrucia il ponte del Ticino e distrugge Trecate e Galiate | 63 | |
1155 | Abbandona all'incendio Chieri ed Asti | 65 |
Intraprende il 13 febbrajo l'assedio di Tortona | 65 | |
I Milanesi soccorrono Tortona | 66 | |
Federico condanna a morte i prigionieri quali ribelli | 67 | |
Fa corrompere l'acqua degli assediati | 68 | |
Tortona s'arrende, e gli abitanti vanno a Milano | 69 | |
Federico s'incammina verso Roma | 70 | |
Papa Adriano IV aveva posto Roma sotto l'interdetto, per allontanarne Arnaldo | 71 | |
Federico si fa dare Arnaldo, che consegna al papa, che lo fa morire | 72 | |
Federico sforzato a tenere la staffa al papa | 73 | |
Rimanda con disprezzo i deputati del senato di Roma | 75 | |
Fa occupare dalla cavalleria la città leonina | ivi | |
Vien coronato in Vaticano senz'entrare in Roma | 76 | |
Batte le milizie romane poi si ritira a Tivoli | 77 | |
Passa nel ducato di Spoleti, e ne abbrucia la capitale | 78 | |
Nulla osa intraprendere contro Guglielmo I succeduto a Ruggero di Napoli morto in febbrajo 1153 | 80 | |
Federico licenzia l'armata in Ancona | ivi | |
Si sottrae a stento all'imboscata dei Veronesi e rientra in Baviera | 81 | |
Capitolo IX. Continuazione della guerra di Federico Barbarossa colle città lombarde. — Primo assedio di Milano, assedio di Cremona, presa e ruina di Milano. — 1155-1162. | 83 | |
1155 | I Milanesi rifabbricano Tortona | ivi |
1156 | Puniscono i loro vicini dichiaratisi per l'imperatore | 84 |
Il principe Roberto di Capoa perisce in prigione | 86 | |
Papa Adriano si riconcilia col re Guglielmo | 87 | |
1157 | Offende l'imperatore colle sue orgogliose pretese | 88 |
Federico annuncia una seconda discesa in Italia | 90 | |
1158 | Assemblea dell'armata dell'imperatore ad Ulma | 91 |
I Milanesi vogliono forzare i Lodigiani a giurar loro fedeltà | 92 | |
Questi per non prestarsi lasciano le loro borgate | 93 | |
Federico sottomette Brescia | ivi | |
Leggi militari intorno alla disciplina dell'armata | 94 | |
Passa l'Adda e s'impadronisce di Cassano, Trezzo, Melegnano | 97 | |
Rifabbrica Lodi quattro miglia distante dal vecchio | 98 | |
Conduce la sua armata sotto Milano | 99 | |
Sortite dei Milanesi | 100 | |
Assedio e presa dell'Arco dei Romani | 101 | |
Barbarie dei soldati pavesi e cremonesi | 102 | |
Il conte di Biandrate si offre ai Milanesi per trattare la pace | 103 | |
Vantaggiose condizioni ottenute dall'imperatore | 105 | |
Seconda dieta a Roncaglia | 108 | |
Il clero ed i legisti d'Italia partigiani del despotismo | 109 | |
Federico si fa attribuire dalla dieta tutte le regalie | 110 | |
La dieta gli dà il diritto di creare i giudici | 112 | |
Istituzione dei podestà | ivi | |
Il diritto di guerra privata tolto alle città | 113 | |
La città di Piacenza condannata | 114 | |
Federico domanda la Corsica e la Sardegna | ivi | |
1159 | Federico viola il trattato conchiuso coi Milanesi | 116 |
I Milanesi s'impadroniscono di Trezzo | 117 | |
Federico mette Milano al bando dell'impero | 118 | |
Contese di Federico con papa Adriano | ivi | |
Coraggio dei Milanesi | 120 | |
Federico guasta il territorio di Milano | 121 | |
Intraprende il 4 luglio l'assedio di Crema | 122 | |
I Milanesi mandano soccorso ai Cremaschi | 123 | |
Crudeltà di Federico contro i Cremaschi | ivi | |
Ne attacca gli ostaggi alle macchine | 124 | |
Lunga resistenza dei Cremaschi | 126 | |
1160 | Gli assedianti prendono le mura esteriori di Crema | 128 |
Capitolazione de' Cremaschi il 22 gennajo | 130 | |
1159 | Settembre. Morte d'Adriano IV. Scisma d'Alessandro III e di Vittore III | 131 |
Federico, favorevole a Vittore, è scomunicato da Alessandro | 132 | |
1160 | Federico licenzia l'armata e si riduce alla piccola guerra | 134 |
Combattimento di Cassano favorevole ai Milanesi | 135 | |
1161 | Combattimento di Bulchignano collo stesso esito | 137 |
Una nuova armata tedesca s'unisce a Federico, che abbrucia la messe dei Milanesi | ivi | |
Intraprende il blocco di Milano | 139 | |
1162 | I Milanesi forzati dalla fame a capitolare | 140 |
Si rendono a discrezione il primo marzo | ivi | |
Portano a Federico tutti i loro stendardi, e gli danno giuramento di fedeltà | 141 | |
Federico fa sortire il 16 marzo tutti gli abitanti dalla città | 143 | |
Ordina il 25 marzo di spianare Milano. Esecuzione di tale sentenza | ivi | |
Capitolo X. Oppressione dell'Italia. — Lega lombarda e sua resistenza all'imperatore. — Fondazione d'Alessandria. — 1162-1168. | 145 | |
1162 | Federico riceve a Pavia le felicitazioni dei principi | ivi |
Compassione eccitata dagli emigrati milanesi | 147 | |
Le città già rivali gli danno asilo | ivi | |
Terrore di tutti gl'Italiani. Sommissione de' Genovesi | 148 | |
Federico riconcilia i Pisani ed i Genovesi | 150 | |
1163 | I feudatarj pisani in Sardegna ricorrono all'imperatore | 152 |
1164 | Barisone, giudice d'Arborea, accetta il titolo di re | 153 |
Opposizione dei consoli pisani al nuovo titolo | ivi | |
Barisone viene arrestato per debiti dai Genovesi | 155 | |
La guerra tra Pisa e Genova si rinnova per le cose della Sardegna | 156 | |
1165-1169 | Guerre civili a Genova | ivi |
1169 | Conciliazione delle parti in un'assemblea | 157 |
1163 | Federico fa demolire le mura di Tortona | 159 |
1164 | I podestà dell'imperatore opprimono le province | 160 |
I Milanesi domandano grazia all'imperatore | 161 | |
Malcontento dei Veronesi | ivi | |
Confederazione di Verona, Vicenza, Padova e Treviso | 162 | |
Federico torna in Germania a rifare l'armata | 163 | |
Vi è trattenuto da una guerra | 164 | |
1165 | I Romani si sottomettono ad Alessandro III, che torna in Roma | 165 |
1166 | Morte di Guglielmo il malvagio re di Napoli. Gli succede Guglielmo il buono | 166 |
L'imperatore rientra in Italia alla fine d'autunno | 167 | |
1167 | Marcia verso l'Italia meridionale | 168 |
Dieta dei deputati delle città a Pontida per trattare della comune difesa | ivi | |
27 aprile. I Milanesi ricondotti nella città, e rifatte le loro mura | 170 | |
I Cremonesi vogliono far entrare nella lega i Lodigiani | 172 | |
Vengonvi costretti colle armi | 174 | |
Quindici città s'impegnano nella lega lombarda | 175 | |
Alleanza di Manuele Comneno con Ancona | ivi | |
Il conte di Tuscolo batte le milizie romane | 177 | |
Federico si presenta in faccia alla città leonina | 177 | |
I suoi soldati mettono il fuoco alla chiesa di santa Maria in Campo Santo | 178 | |
Papa Alessandro III fugge da Roma | 179 | |
I Romani trattano coll'imperatore | ivi | |
Un'epidemia si manifesta nell'armata tedesca | 180 | |
Federico obbligato di ritirarsi col resto dell'armata | 182 | |
In una dieta a Pavia sfida la lega lombarda | 184 | |
La lega s'impegna di scacciar l'imperatore d'Italia | ivi | |
1168 | Federico fugge segretamente d'Italia | 186 |
Nuovi confederati ingrossano la lega | 187 | |
La lega prende a fabbricare Alessandria | ivi | |
Capitolo XI. Natura della lega lombarda. — Guerre dell'arcivescovo Cristiano luogotenente dell'imperatore contro le città libere. — Assedio d'Ancona. — Federico respinto sotto Alessandria, battuto a Legnano, tregua di Venezia, pace di Costanza. – 1168-1183. | 191 | |
Prosperità della lega lombarda | ivi | |
Vero momento per istabilire il governo federativo | 192 | |
I Lombardi non ebbero l'idea di {530} questo governo | 195 | |
Condizioni della loro alleanza | 196 | |
1168-1171 | L'imperatore tenta di disunire gli alleati | 198 |
1171 | Manda in Toscana l'arcivescovo Cristiano | ivi |
Alleanze de' Pisani coll'imperatore d'Oriente | 199 | |
1172 | L'arcivescovo vuol pure il pacificatore di Toscana | 200 |
1173 | Fa imprigionare i consoli di Pisa e Fiorenza | 201 |
Forma un'armata di Sienesi, Pistolesi e Lucchesi | 202 | |
Nel primo anno fa la guerra in Toscana | ivi | |
1174 | Conduce la sua armata sotto Ancona | 203 |
L'assedia di concerto coi Veneziani | 204 | |
Gli assediati mancano di viveri | 206 | |
Eroismo di Stamura | 207 | |
Un vecchio impedisce agli Anconitani d'arrendersi | 209 | |
Gli Anconitani mandano a domandar soccorsi in Romagna | 211 | |
Generosità d'una dama d'Ancona | 212 | |
Un'armata romagnola ne fa levare l'assedio | 213 | |
Federico rientra in Italia in ottobre | 215 | |
Forza Asti a sottomettersi | ivi | |
Intraprende l'assedio d'Alessandria | 216 | |
Lo continua per quattro mesi d'inverno | 217 | |
1176 | La dieta de' Lombardi a Modena leva un'armata per soccorrere Alessandria | 218 |
Federico, durante una tregua, tenta sorprenderla | 219 | |
Leva l'assedio e marcia verso Pavia | ivi | |
L'incontrano i Lombardi e per rispetto non lo attaccano | 220 | |
Conferenza per la pace e sospensione d'armi | 221 | |
L'imperatore eccita sospetti nella lega | 222 | |
1175 | I legati del papa vanno a Pavia da Federico | 223 |
Romponsi i trattati e ricomincia la guerra | 225 | |
Cristiano attacca i Bolognesi | ivi | |
1176 | Federico riceve il soccorso di una nuova armata | 226 |
Preparativi de' Milanesi per difendersi | 227 | |
Vittoria de' Milanesi a Legnano | 228 | |
Federico abbandonato cerca di far pace | 231 | |
Manda ambasciatori a chiederla ad Alessandro III | ivi | |
Il papa promette di venire al congresso lombardo | 232 | |
L'imperatore trova partigiani tra i Lombardi | ivi | |
Cremona e Tortona segnano la pace | 233 | |
1177 | Il papa e gli ambasciatori di Napoli arrivano a Venezia | 235 |
Discussioni intorno al luogo delle conferenze | 236 | |
Si sceglie Venezia | 237 | |
Pretensioni delle città | 238 | |
Pretensioni dell'imperatore | 239 | |
Condotta ambigua del papa | 242 | |
Propone una tregua di più anni | ivi | |
La tregua vien segnata il 6 luglio | ivi | |
Federico ricevuto in Venezia, e riconciliato col papa | 245 | |
1178 | Il papa tornato a Roma si riconcilia col senato | 246 |
1178-1183 | Trattati per una pace definitiva | 247 |
1183 | Defezione di Tortona e di Alessandria | 248 |
Dieta a Costanza per trattare la pace | 250 | |
Trattato di Costanza il 25 giugno 1183 | 251 | |
Capitolo XII. Ultimi anni di Federico Barbarossa. — Enrico VI suo figlio riunisce all'impero il regno delle due Sicilie. — Torbidi eccitati nelle repubbliche italiane dalla nobiltà. — 1183-1200. | 255 | |
Le dissensioni civili compresse in tempo di guerra si rinnovano dopo la pace nelle città libere | ivi | |
1183 | I Milanesi cambiano la costituzione | 258 |
Prime gelosie tra i nobili ed il popolo | 260 | |
Costituzione di Bologna | 261 | |
Nuove leggi nelle altre repubbliche | 263 | |
1183-1197 | Rapida successione de' sovrani in quindici secoli | 264 |
1184 | Ritorno pacifico di Federico in Italia | 267 |
Fa sposare l'erede dei re di Sicilia ad Enrico | 268 | |
Decadimento del regno delle Due Sicilie | 270 | |
Federico per averlo mantiene la pace in Italia | 272 | |
1187 | Gerusalemme presa da Saladino il 2 ottobre | 274 |
1187 | Terza crociata | 275 |
Gl'Italiani vi s'impegnano con calore | 276 | |
1188 | Pace de' Cristiani per far guerra a gl'infedeli | ivi |
1189 | Federico prende la croce | 278 |
1190 | S'annega nel fiume Salef in Armenia | 279 |
Enrico VI paragonato a suo padre | 280 | |
1189 | Guglielmo II muore a Palermo | 281 |
1190 | Tancredi, figlio naturale di Ruggero, gli succede | ivi |
Enrico VI cerca ajuto dai Genovesi e dai Pisani per conquistare la Sicilia | 282 | |
È forzato a fuggire, e sua moglie è fatta prigioniera | 283 | |
1194 | Morte di Tancredi e di suo figlio | 284 |
Gli succede Enrico VI e si rende odioso ai popoli | ivi | |
1197 | Muore improvvisamente l'otto settembre | 285 |
Gli succede Federico II di quattr'anni | ivi | |
1191 | Guerra tra Brescia e Cremona | 286 |
Vittoria de' Bresciani sui Cremonesi | 288 | |
1198-1199 | Guerra tra Parma e Piacenza | 289 |
Potenza dei Gentiluomini della Venezia | 290 | |
Fortezze nell'interno delle città | 292 | |
Discordia tra i gentiluomini | 293 | |
Potere dei podestà nelle città | 294 | |
L'elezione dei podestà divisa spesso tra due famiglie rivali | 295 | |
Casa da Romano nella Marca Trivigiana | 297 | |
Inimicizia d'Ezelino e di Tisolino | 298 | |
1194 | Ezzelino II in guerra con Vicenza | 299 |
Nascita d'Ezzelino III | 300 | |
1197 | Seconda guerra d'Ezzelino II con Vicenza | 301 |
1198 | Si riconcilia con Vicenza e si disgusta con Padova | 302 |
Antico patrimonio dei marchesi d'Este | 303 | |
Obizzo d'Este sposa la figlia d'Adelaide di Ferrara | 305 | |
1180-1220 | Guerre civili a Ferrara | 306 |
Le repubbliche transpadane sottomettono i nobili | 307 | |
1192-1193 | Gerardo Scannabecchi, pretore di Bologna | 308 |
1200 | Guerra civile a Brescia tra i nobili ed il popolo | 310 |
Capitolo XIII. Pontificato d'Innocenzo III. — Stabilimento del potere temporale della Chiesa. — Abbassamento del partito ghibellino. — 1197-1216. | 313 | |
Preponderanza del partito imperiale sotto Enrico VI | 315 | |
1197 | Innocenzo III eletto papa di 37 anni | 316 |
Rivalità fra due contendenti al trono imperiale | 318 | |
1192 | Il senatore in Roma sostituito al senato | 320 |
1197 | Innocenzo III ne limita l'autorità | 321 |
1207 | Attribuzioni del senatore fissate nel 1207 | 322 |
1197 | Innocenzo III ordina ai suoi cardinali di togliere ai generali d'Enrico VI le province loro infeudate | 324 |
Tutte le città dichiaransi per il papa | 325 | |
Lega Guelfa di Toscana sotto la protezione del papa | 326 | |
Costituzione di questa lega | 327 | |
Fedeltà all'impero della repubblica di Pisa | 329 | |
Innocenzo III reclama la tutela di Federico II | 331 | |
1198 | Fa la guerra al generale Marcovaldo | 332 |
Debolezza del papa in Sicilia, sua potenza altrove | 333 | |
Gualtieri, conte di Brienna, reclama la sua eredità | 335 | |
1205 | Gualtieri ucciso in una battaglia coi Tedeschi | 336 |
1206 | Ottone IV battuto da Filippo. Il papa tratta con questo | 337 |
1208 | Assassinio di Filippo. Enrico IV riconosciuto imperatore | 338 |
1209 | Viene in Italia a prendere la corona imperiale | 339 |
Vuole riconciliare i nobili della Marca Trivigiana | 341 | |
Ezzelino II sfida Azzo VI d'Este; lo stesso fa Salinguerra | 343 | |
Riconciliazione di questi gentiluomini | 344 | |
Ottone IV coronato a Roma | 346 | |
Si avvicina ai capi del partito ghibellino | ivi | |
Innocenzo III gli oppone Federico II | 348 | |
1210 | Ottone muove guerra a Federico, ed invade il regno | 349 |
1212 | Viene chiamato in Allemagna da' nuovi torbidi | 350 |
Federico II va a Genova per passare in Allemagna | 351 | |
Viene secondato dalle città ghibelline | 352 | |
Attraversa la Lombardia ed i Grigioni | 352 | |
1214 | Ottone IV disfatto a Bouvines da Filippo Augusto | 353 |
1215 | Prime dissensioni di Firenze | 357 |
Governo di questa città fino al 1207 | ivi | |
Bondelmonti offende le famiglie ghibelline | 358 | |
Bondelmonti ucciso presso alla statua di Marte | 359 | |
Tutta la nobiltà divisa tra i Bondelmonti ed Uberti | ivi | |
1215-1248 | La guerra si continua in Fiorenza | 360 |
Successi delle intraprese d'Innocenzo III | 361 | |
Sua smisurata ambizione, ingiustizia ed orgoglio | 363 | |
Fonda l'inquisizione. Crociata contro gli Albigesi | 365 | |
Dottrina de' Pauliciani ed Albigesi | 366 | |
Moltiplicazione de' Pauliciani e Paterini nelle città d'Italia | 369 | |
Ardore del papa nel perseguitarli | 370 | |
Chiama in suo ajuto san Francesco e san Domenico | 371 | |
1203 | San Domenico comincia a predicare contro gli eretici | 372 |
1206-1211 | Crociata contro gli Albigesi. Sue crudeltà | 373 |
Costanza di san Domenico arrestato dagli Albigesi | 375 | |
1214 | Quarto concilio ecumenico di Laterano | 376 |
1216 | Morte d'Innocenzo III a Perugia | 377 |
Capitolo XIV. Digressione sulla quarta crociata. — Conquiste delle repubbliche italiane in Oriente. — 1198-1207. | 379 | |
La conquista di Costantinopoli è opera dei Veneziani e dei Francesi | 380 | |
L'impero greco snervato dal despotismo | 381 | |
Tutti i suoi vantaggi resi nulli dal despotismo | 384 | |
Impotenza e sterilità de' Greci per dieci secoli | 387 | |
Colonie de' Latini a Costantinopoli | 388 | |
1152-1201 | Contese de' Veneziani coi Greci | 389 |
Alessio Angelo imperatore d'Oriente | 391 | |
1198 | Quarta crociata predicata da Folco di Neuilly | 392 |
1201 | I crociati domandano vascelli a Venezia | ivi |
I deputati dell'alta nobiltà di Francia mandano deputati a Venezia | 393 | |
1202 | I crociati fuor di stato di mantener la promessa ai Veneziani | 397 |
Il doge Dandolo propone per prezzo de' vascelli di ajutarlo nella presa di Zara | 398 | |
Prende anch'egli la croce per marciare coi crociati | 399 | |
Il figlio d'Isacco Angelo implora il soccorso de' crociati | 401 | |
Prendono Zara | 403 | |
Il papa rimprovera ai crociati la presa di Zara | ivi | |
1203 | I crociati promettono protezione al principe greco | 405 |
I legati del papa, e più baroni si separano dalla crociata | 407 | |
I crociati arrivano innanzi a Costantinopoli | 410 | |
Descrizione della città e porto | 411 | |
Dopo essersi riposati a Scutari attraversano il golfo | 412 | |
Viltà de' Greci che fuggono innanzi ai crociati | 413 | |
Galata presa dai Latini, ed il porto aperto ai Veneziani | ivi | |
I crociati s'accampano al palazzo di Blancherna | 415 | |
Primo assalto di Costantinopoli il 17 luglio | 416 | |
Andrea Dandolo padrone del Muro, fermato da un incendio | 417 | |
Rinuncia al suo vantaggio per soccorrere i Francesi | 419 | |
Alessio Angelo fugge la seguente notte co' suoi tesori | 420 | |
Il deposto Isacco Angelo viene tolto di prigione e rimesso sul trono | 421 | |
Promette ai crociati di mantener le promesse di suo figlio | ivi | |
I crociati stabiliti ne' sobborghi di Pera e Galata | 422 | |
La rapacità de' Latini eccita l'odio de' Greci | 423 | |
Il giovane Alessio cerca di tenerseli amici | 425 | |
Lagnanze de' Latini pei ritardati sussidj | ivi | |
Mandano a sfidare l'imperatore | 426 | |
Si ricomincia la guerra e si fa debolmente | 427 | |
1204 | Il 25 gennajo. Rivolta dei Greci | 429 |
Alessio duca proclamato imperatore | 430 | |
Suoi vani sforzi per destare il coraggio dei Greci | 431 | |
I crociati ricominciano l'assedio di Costantinopoli | 432 | |
Sono respinti dalla parte del porto | 433 | |
Il 12 aprile s'impadroniscono delle mura | 434 | |
Alessio duca fugge | 436 | |
I Latini mettono il fuoco alla città che s'arrende | ivi | |
Convenzione dei Latini per dividere la conquista | 437 | |
Saccheggio di Costantinopoli | 438 | |
Oppressione e patimenti dei Greci | 439 | |
Il popolaccio insulta i senatori fuggitivi | 440 | |
Baldovino di Fiandra eletto imperatore | 443 | |
Divisioni delle province tra Francesi e Veneziani | 444 | |
L'isola di Candia è ceduta ai Veneziani | 446 | |
I Veneziani rendono diviso in tanti feudi il territorio ai loro cittadini | 447 | |
Tentativi dei Genovesi per partecipare allo spoglio dei Greci | 448 | |
La conquista della Grecia più nociva che utile ai Veneziani | 449 | |
Capitolo XV. Stato delle repubbliche italiane ne' primi tempi del regno di Federico II. — Guerre civili. — Rinnovamento della lega lombarda. — 1216-1234. | 453 | |
Guerre causate dalla rivalità di Federico II e di Ottone | ivi | |
Non possono darsi circostanziate notizie delle guerre di quest'epoca | 454 | |
1216 | Odio ereditario dei Milanesi verso la casa di Hohenstauffen | 456 |
Rimangono costantemente attaccati al partito d'Ottone | 457 | |
1217 | Loro alleanza con Tomaso di Savoja e con molte città lombarde | 458 |
Pavia ed Asti forzate di seguire le loro parti | 459 | |
I Cremonesi li battono il 6 giugno a Ghibello | ivi | |
1218 | Gelosie eccitate dai gentiluomini nelle città lombarde | 460 |
Occupano esclusivamente la carica di podestà | 461 | |
1221 | I nobili esiliati da Milano e da Piacenza | 462 |
Confronto delle guerre dell'età di mezzo con quelle de' nostri giorni | 464 | |
Aumento di popolazione e di ricchezze malgrado le frequenti guerre | 466 | |
Potenza di Bologna | 468 | |
1080-1100 | Cominciamento dell'università di Bologna | 469 |
Alcune altre università rivali | 470 | |
Guerre dei Bolognesi coi loro vicini | 472 | |
1222 | Forzano gli abitanti d'Imola a ceder loro le porte della città | ivi |
1218 | Ottone IV muore il 19 maggio. Federico II fa prova dell'ingratitudine del papa | 474 |
Carattere di Federico II | ivi | |
1220 | Il 22 novembre. Riceve da Onorio III la corona imperiale | 475 |
1222 | Costringe ad ubbidirgli i grandi signori della Puglia | 476 |
1223 | Trasporta a Lucera i Saraceni di Sicilia | 478 |
1224 | Fabbrica fortezze nelle principali sue città | ivi |
Fonda l'università di Napoli | 479 | |
1226 | Sposa Yolante di Lusignano erede del regno di Gerusalemme | 480 |
1227 | Si dispone a partire crociato, e n'è impedito da una malattia | 481 |
Il 29 settembre viene dal papa scomunicato, per non essere partito all'epoca che avea fissata | 482 | |
Federico riclama contro questa scomunica | 483 | |
1228 | Passa in Terra santa ove lo seguono le scomuniche papali | 484 |
1229 | Ottiene dal Sultano d'Egitto una pace vantaggiosa e la restituzione di Gerusalemme | 486 |
Torna in Italia e disperde le crociate armate dal papa contro di lui | 488 | |
1226 | 2 marzo. La lega lombarda rinnovata contro l'imperatore | 489 |
Il papa la prende sotto la sua protezione | ivi | |
1230 | La fa comprendere in un trattato di pace coll'imperatore | 491 |
1238 | Persecuzioni contro i Paterini in Lombardia | 494 |
Carattere de' persecutori; mescolanza di religione e di ferocia | 495 | |
Predicazione di tre celebri domenicani | 498 | |
Predicazione della pace | 499 | |
Frate Giovanni, di Vicenza, predicatore della pace | 500 | |
1233 | 18 agosto. Assemblea di Paquara in cui fra Giovanni predica la pace a dodici popoli adunati per udirlo | 503 |
Autorità di cui si fa investire in Vicenza ed in Verona | 505 | |
Potere dell'eloquenza de' Monaci | 507 | |
Predicano in latino al popolo | 509 | |
1212-1233 | Cominciamento della poesia italiana in Sicilia | 510 |
La lingua provenzale allora coltivata in Lombardia | 512 | |
Trovatori italiani che scrivono in provenzale | 514 | |
Sordello mantovano di tutti il più celebre | ivi |
Fine della Tavola.
1. Campi, Istoria di Cremona l. I, p. 17. — Ludov. Cavitelli Cremon. Annales apud Grævium t. III, p. 1293.
2. Galvan. Fiamma Manip. Florum c. 159. Rer. Ital. t. XI. p. 628.
3. Johan. Bap. Villanove Laudis Pomp. Hist. ap. Craevium t. III, l. I, p. 856. — Landulphi Junior. Hist. Mediol. c. 16, p. 486.
4. Galvan. Flam. Manipulus Florum c. 163. t. XI. R. It. p. 629. — Trist. Calchi Hist. Patriæ l. VII, p. 208.
5. Cumanus, seu de Bello comensi anonimum Poema ap. Scr. Rer. Ital t. V. p. 399. Cum notis Jo. Mariæ Stampæ.
Testantur montes, testatur, et hoc Baradellus.
Troja suis ducibus defenditur; Hector in illis
Affuit, Æneas, nec non Paris, Hectoris omnes
Pugnabant fratres, pugnat fortissimus Adam
Deque Piro dictus, duros deverberat hostes,
Hortatur socios, in pugna recreat omnes.
Cuman. V. 38. p. 414.
7. Guido Grimoldi di Galavesca. Gli storici milanesi risguardano come una cosa vergognosa per la loro patria l'avere sostenuto lo scisma, onde o non ne fanno parola, o cercano di darne colpa ai Comaschi loro nemici; e per tal modo resero oscura assai questa parte del loro racconto: ma ciò che non è dubbioso, si è che Landolfo Carcano, difeso dai Milanesi, era un vescovo scismatico eletto da Enrico V (Scheda Antiqu. ap. Jos. Mariam Stampam præfatio ad Cumanum p. 407.); e che il poeta comasco dà ad Anselmo da Clivio, uno degli arcivescovi di Milano, l'aggiunto di male pactus, che pare corrispondere al vocabolo di simoniaco. Veggasi Cumanus v. 686, p. 428.; la prefazione premessa al Poema dal Muratori p. 402, e Landolfo di s. Paolo c. 37, t. V, p. 507.
8. Landulph. Junior Hist. Mediol. c. 34, p. 504. Notæ Saxii ad eundem. — Trist. Calcus Hist. pat. l. VII, p. 210.
9. Cum. v. 63.-114, p. 415. — Trist. Cal. Hist. Patriæ l. VII, p. 211. — Bern. Corio Stor. Mil. p. I, p. 28.
10. Quest'isoletta, a sedici miglia al nord di Como, e cinquanta passi solamente lontana dalla spiaggia, può avere un miglio di circuito. Ebbe un castello assai forte fabbricato dai Lombardi.
11. Cumano v. 200.-215. Malgrado la positiva testimonianza del poeta comasco, seguito poi da tutti gli storici lombardi, io dubito tuttavia di questa lega fra tante città, che non avevano verun motivo di nimicizia verso i Comaschi, ed erano anzi fra di loro rivali. Forse eransi soltanto arrolati all'armata milanese pochi volontarj di quelle città; forse il poeta ne accrebbe il numero per render più gloriosa la lunga resistenza e la caduta della sua patria.
12. Piano di Como presso Alessandro Ducker. Grævius t. III, p. 1199.
13. Cumanus v. 263. Trovansene altri esempi ne' successivi anni v. 271 e 313.
14. Cum. V. 1834 e segu. p. 452. — Veggasi la nota a p. 15.
15. Lecco è posto all'estremità del Golfo a Levante, dove le acque del lago tornano a formare l'Adda.
16. Cum. v. 1815, e segu. p. 452.
17. Cumanus v. 1900, e segu. p. 454.
18. Cum. v. 1953 p. 455.
19. Id. v. 1974 ad finem p. 455.
20. Otto Frising. de Gest. Friderici I lib. II c. 2. Rer. Ital. t. VI pag. 699. — Mascovius Commen. de Reb. Imp. sub Conrado III lib. III p. 141.
21. Chron. Weingartense de Guelfis ap. Leibn. t. I. p. 781. Stando ad una cronaca bavara citata da Mascovio lib. III, p. 141, tali nomi furono dati alle parti dopo la battaglia di Winsberg tra Corrado III e Guelfo il 21 dicembre del 1140.
22. Otto Fris. in Chr. l. VII, c. 17, p. 137. — Mascov. Comment. de Reb. Imp. sub Lothario II l. I, p. 1.
23. L'anno 1127 alla Dieta di Mersburgo. Mascov. p. 12.
24. Mascov. Comment. l. I, § 6, p. 9.
25. Otto Frising. Chron. l. VII c. 17, p. 137.
26. Landulphus Tun. l. I § 23, p. 37.
27. Mascov. Comment. l. I § 23, p. 37.
28. Otto Fris. Chron. l. VII, c. 18, p. 138.
29. Fulconis Benev. Chron. t. V, p. 115. Se crediamo a quest'autore, Lotario non aveva con lui più di duemila soldati.
30. Stando anche alla relazione del Fleury, Stor. Eccles. lib. LXVIII, c. 1 e 2, qualunque uomo imparziale giudicherà illegale l'elezione d'Innocente.
31. Baron. Ann. Eccl. ad ann. 1130, p. 183.
32. Ventisette contro diecinove. Tra i primi contavasi il vescovo di Porto decano del sacro Collegio ed il più vecchio Cardinale, che godeva del favore del popolo e della nobiltà.
33. Anonimus apud Baronium ann. 1130, § 2, t. XII, p. 184.
34. Mascovius l. II, § 7 et 9, p. 59-64.
35. Otto Fris. de Gest, Frid. I, l. II, c. 21, p. 719.
36. Gunt. in Ligur. l. III, v. 170, p. 41 apud Pitheum Scrip. Germ. Basileæ 1569.
37. Bar. ad an. 1140, § 4-19. — Fleury St. Eccl. l. LXVII.
38. Intorno ad Arnaldo da Brescia merita di esserne letta l'Apologia pubblicatasi in Pavia l'anno 1790 in due volumi in 8.º, e dedicata al Patrizio veneto Andrea Quirini. Oltre l'apologia trovasi nel secondo volume la di lui vita, nella quale il dottissimo autore raccolse ed illustrò tutto ciò che intorno a questo celebre teologo era stato scritto nel suo secolo, o nel susseguente. N. d. T.
39. Baron. Ann. Eccl. an. 1199, § 10 et 11.
40. Sancti Bernardi Epist. 195, 196. Questo Santo così scriveva al vescovo di Costanza: «Voi scorgerete in costui un uomo che apertamente si ribella contro il clero, confidando nel tirannico potere della gente di spada; un uomo che insorge contro i medesimi vescovi, ed inveisce contro tutto l'ordine ecclesiastico. Sapendo io ciò, non saprei in tanto pericolo meglio consigliarvi e più sanamente, che a seguire il precetto apostolico, di allontanare il male che vi sta vicino. Un amico della Chiesa vorrebbe piuttosto che fosse legato, che posto in fuga, onde pellegrinando di più non faccia danno ad altri. Il Papa nostro Signore, quand'era ancora con noi, ne aveva dato l'ordine in iscritto, dietro le informazioni avute del male che quest'uomo andava facendo; ma sgraziatamente non trovossi alcuno che volesse fare una così buona azione.»
41. Otto Fris. in Chron. lib. VII, p. 143.
42. Si suppone che questa colonna appartenesse al tempio di Giove conservatore. È di marmo greco d'ordine corinzio di sessantaquattro palmi d'altezza. Vast. Itin. t. I, p. 110.
43. Otto in Frisin. Chron. l. VII, c. 31, p. 145.
44. Corrado II per l'Italia è III per la Germania.
45. Mascov. Com. de rebus Imp. sub Corrado III, l. III, pag. 114. — Otto Fris. Chron., l. VII, c. 22, p. 140. — Id. de gestis Frid. I. l. I, c. 22, p. 656.
46. De gestis Friderici I, l. I, c. 27 et 28, p. 662.
47. Godef. Viterb. in Pant. pars XVII, t. VII. R. It. p. 461.
48. J. de Muller scrive che, stando ad una cronaca di Corbia, duemila Svizzeri delle montagne accompagnarono Arnaldo a Roma, e lo assistettero a ristabilirvi la libertà. B. I, c. 14, p. 410.
49. Gunt. in Ligurino, lib. III, p. 43. — Otto Fris. de gestis Frid. I, l. II, c. 21, p. 719. — Le vite dei papi scritte da Bernardo Guidoni, e dal Cardinale di Arragona, t. III, p. 437 439, quasi niente contengono d'importante.
50. A torto si è tentato di attribuire ad Arnaldo da Brescia opinioni troppo libere in punto di religione e di governo. Lasciando da banda le prime perchè affatto straniere alla presente storia, non credo inutile il dare qualche schiarimento rispetto alle seconde, trattandosi di un uomo ch'ebbe tanta parte ne' movimenti popolari di Roma e di Brescia; e vedremo che tutta la sua colpa si riduce all'aver predicato contro il dominio secolare del clero. Lunga fu la lotta che sostenne nella sua patria contro il vescovo Mainfredo, il quale faceva ogni sforzo per rialzare in Brescia il prostrato edificio della signoria episcopale, onde andava accarezzando i nobili, mirando a valersi delle forze loro per distruggere i consoli, e farsi egli principe. Lo che conoscendo Arnaldo contrario allo spirito, alle leggi ed all'utilità della Chiesa, animò i consoli ed il popolo ad opporsi agli attentati dell'ambizioso vescovo. Colle scritture e coi sacri canoni mostrava al popolo che i vescovi, siccome descritti in capo alla milizia di Dio, non devono prender parte nelle faccende secolaresche; che come successori degli apostoli debbono esserne gl'imitatori; non essendo giusto che abbandonino la parola di Dio per occuparsi di governi temporali, di milizie, ec. Queste spiacevoli verità annunciate da Arnaldo al popolo con robusta eloquenza, e confermate dalla santità de' suoi costumi, riunirono contro di lui il vescovo, tutto il clero, gli abati ed i monaci, i quali accusando Arnaldo di eresia al concilio lateranese, ottennero, colla calunnia, di farlo condannare. S. Bernardo chiama pessimo scisma, non eresia il titolo d'accusa dato ad Arnaldo. E tale doveva veramente essere in faccia alla corte pontificia la dottrina d'Arnaldo, che non solo non concedeva agli ecclesiastici la superiorità da loro pretesa sopra il temporale dei principi, ma accordava ai principi una piena autorità sopra i beni ecclesiastici per regolarne l'uso a tenore dei canoni.
Obbligato di abbandonare la patria per sottrarsi alle calde persecuzioni del clero, fu alcun tempo a Costanza, e nella Svizzera, di dove passò in Francia per difendere il suo maestro Abaelardo accusato da s. Bernardo. Ma sul principio del pontificato d'Eugenio III si ridusse a Roma per appoggiare colla sua eloquenza e co' suoi consigli la fazione de' Romani, che contrastavano al papa la temporale signoria. E forse vi fu chiamato dai Romani medesimi, conoscendo quanto poteva esser utile al loro partito. Nè Arnaldo mancò alle loro speranze, perchè distinguendo accuratamente le incumbenze ecclesiastiche dalle secolari, persuase al popolo, che il Papa doveva accontentarsi della cura spirituale di tutta la cristianità, ma non addossarsi ancora il peso del governo temporale, la di cui alta ispezione doveva lasciare all'imperator de' Romani suo sovrano, e l'immediata amministrazione al senato ed al popolo romano. A tal fine confortava i Romani non solo a conservare il senato, ma a repristinare ancora tutti gli antichi ordini e costumanze, l'ordine equestre, i tribuni, i censori, i consoli, e l'antica forma de' giudizj e delle milizie. N. d. T.
51. Vedasi intorno a questo regno, Mascovius Comment. de rebus Imp. sub Corrado III lib. IV et V.
52. Otto Frisin. de Gestis Frid. I. l. II, cap. 2. Scrip. Rer. Ital. tom. VI, p. 699.
53. Ibid. — Gunteri Ligurinus lib. I, p. 12. ap. Pitheum.
54. Gunt. Ligur. lib. I, p. 6. — È anche dubbioso che vi fossero Genovesi, perciocchè il nome di Ligures viene dato da Guntero a tutti i Lombardi.
55. Otto Frisin. Frid. I. lib. II, cap. 7, p. 703.
56. Otto Frising. I. II, cap. 7.
57. Otto Morena Hist. Land. t. VI. Rer. Ital. p. 957. — Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 173, t. XI, p. 634.
58. Otto Morena Rerum Laudensium p. 965.
59. Otto Morena p. 971.
60. Otto Fris. lib. II, cap. 12. 15, p. 706. — Otto Morena p. 969. — Sire Raul, seu Radulphus Mediol. De gestis Frid. I. p. 1175, t. VI. — Ligurinus l. II, p. 24.
61. Sire Raul p. 1175.
62. De rebus gestis Frid. I. l. II, cap. 14, p. 710.
63. Otto Morena p. 973.
64. Otto Fris. de gest. Frid. I, l. II, cap. 13, e 15.
65. Ibid. Cap. 14.
66. Epist. Frid. ad Ottonem Frisin. ap. Scrip. Rer. Ital. t. VI, p. 635.
67. Tristani Calchi Hist. Patriæ, l. VIII, p. 222.
68. Otto Fris. de Gest. Frid. I. l. II, cap. 15.
69. Tutti gli storici contemporanei chiamano questa borgata Cairo, ed il Muratori suppone che si parli d'un castello di tal nome posto alle falde delle Alpi liguri quaranta miglia lontano da Asti. Ma ponendo mente alla strada tenuta da Federico, non può essere che Chieri. Questa borgata, ch'egli attraversò passando da Torino ad Asti, ebbe governo repubblicano fino alla fine del tredicesimo secolo.
70. Otto Fris. l. II, c. 17. p. 712. — Trist. Calchi l. VIII, p. 222.
71. Tristano Calco ci diede i nomi de' capi di questi valorosi.
72. Otto Fris. de gestis Frid. I. l. II, c. 17.
73. Ibid. cap. 19.
74. Otto Morena, p. 981. — Otto Fris. l. II, c. 20 e 21, p. 718. — Abbas Usp. in Chron., p. 283. — Godafr. Viterbiensis in Pantheo. pars XVIII, t. VII, p. 464. — Sicardi Ep. Crem. Chron., p. 599, tom. VII Rer. Ital.
75. Otto Fris. l. II c. 21. p. 718.
76. Bar. Ann. Ecc. ad ann. 1155, §. 2, 3, e 4. Card. Aragonius in Vit. Ad. IV. p. 442. Sc. Rer. Ital T. III. P. 1.
77. Vita ad Pap. — Otto Fris. l. II, c. 21, p. 721.
78. Mur. Ant. It. Dis. IV. vol. I, p. 117.
79. Otto Fris. l. II, cap. 22.
80. Anast. Bibl. de vita Leonis IV, p. 240. Sc. Rer. It., t. III.
81. Si chiama oggi Ponte S. Angiolo, prima Pons Aelii Adriani.
82. Otto Fris. L. II, c. 23, p. 724.
83. Otto Frising. Lib. II, c. 24, p. 725. — Se l'imperatore aveva realmente diritto di sovranità sovra di Roma, non è meraviglia che il papa facesse la surriferita dichiarazione. N. d. T.
84. Idem. Ibid. p. 726.
85. Romualdi Salernit. Chron. p. 197. t. VII.
86. Otto Frising. l. II, cap. 25.
87. De Gestis Frid. I, l. II, c. 26.
88. Otto Mor. Hist. Ver. Land. p. 983. — Trist. Calchi Hist. Patriæ l. VIII, p. 223.
89. Sire Raul de Gest. Frid. I, p. 1176.
90. Carol. Sigon. de Regn. It. l. XII, p. 293. — Sire Raul p. 1179. — Trist. Calch. l. VIII, p. 225.
91. Ibid.
92. Romualdi Salernit. Chronicon p. 198.
93. Willelmus Tyrius l. XVIII, c. 8. p. 937, Gesta Dei per Francos.
94. Baronius Annales an. 1166, § 1.
95. Ibid. § 4.-9.
96. Radevicus Frisingensis, Appendix ad Ottonem de rebus gestis Friderici I. l. I, cap. 8. tom. VI. Rer. Ital. Radevico fu canonico di Frisinga che continuò l'istoria incominciata dal suo vescovo Ottone. Noi siamo per congedarci da costui che pure è uno de' più eleganti storici, illuminati ed imparziali de' mezzi tempi. Ottone di Frisinga aveva sortiti illustri natali, essendo figliuolo di Leopoldo marchese d'Austria e di Agnese sorella dell'imperatore Enrico V: era fratello di Corrado III, re dei Romani, e zio di Federico Barbarossa. Ci rimangono di lui due opere: una cronaca dal principio del mondo fino a' suoi tempi pubblicata a Basilea in fog. nel 1569, da Pitteo, divisa in otto libri. Noi abbiamo più volte citato il settimo, che contiene il secolo precedente al suo. L'ottavo è consacrato alla storia religiosa. L'altra sua opera è ancora più interessante, contenendo il racconto della prima discesa di Federico in Italia, ed è divisa in due libri. Fu pubblicato nel t. VI, Rer. Ital. Ottone morì del 1158. Benchè il suo continuatore Radevico non sia senza merito, non compensa la perdita d'Ottone, che è quasi il solo autore che sparga qualche luce sopra un secolo barbaro ed oscuro.
97. Otto Fris. l. II, c. 31.
98. Radevic. Fris. l. I, c. 19.
99. Radev. Frisin. l. I, c. 22.
100. Idem cap. 25.
101. Otto Morena Hist. Laud. p. 995.
102. Ibid.
103. Radev. Frigius. l. I, c. 25.
104. Tale regolamento viene riferito per intero da Radevico, lib. I, c. 26. Un Tedesco contemporaneo, e suddito di Federico, chiamato Guntero, fece un poema di 12 canti dei quattro libri d'Ottone di Frisinga, e del continuatore Radevico. Gli ha quasi sempre servilmente parafrasati ne' suoi versi, che pure sono i meno cattivi dei poeti storici di questo secolo. Egli tradusse perfino questo regolamento, lib. VII, p. 101, ciò che forma una strana sorte di poesia. Il suo Ligurinus si stampò in Basilea del 1569 in seguito alla storia di Ottone di Frisinga per cura di Pitteo.
105. Otto Morena, p. 1007. — Sire Raul, p. 1180. — Radevic. Frising. l. I, c. 29. — Gunterus in Ligurino, l. VII, p. 105.
106. Otto Morena, p. 1009. — Joh. Bapt. Villanovæ, Laudis Pomp. hist. ap. Grævium, t. III, lib. II, p. 863.
107. Radev. Frising. l. I, c. 31.
108. Idem l. I, c. 32. — Sire Raul, p. 1180.
109. Radevico dice che la città aveva cento stadj di circuito. Questa misura greca ugualmente straniera allo storico tedesco ed agli assediati, non ci dà che un'idea assai inesatta. Le mura presenti hanno circa sei mila tese di lunghezza.
110. Eranvi altravolta in tutte le piazze di Roma, e probabilmente in tutte le colonie romane, di tali portici chiamati archi di Giano, destinati a difendere i mercanti dal sole e dalla pioggia. L'arco di Giano quadriforme nel Velabro di Roma è il solo che siasi conservato fino ai nostri giorni. La torre posta sull'uno e sull'altro erano opere posteriori de' tempi barbari.
111. Rad. Fris. l. I, c. 38. — Otto Morena, p. 1013.
112. Tre franchi. Le monete de' tempi d'Ottone erano state alterate assai: Federico le ristabilì. Il suo danaro d'argento pesava un danaro ed un grano; ma lasciò ugualmente in corso il danaro di terzuolo pesante 18 grani con un terzo di fino e due di rame. Venti di questi grani formavano il soldo in discorso. Devo al conte Luigi Castiglione di Milano, ed alla sua ricca collezione di monete milanesi, tutte le mie teorie intorno alla storia monetaria di Lombardia, che gli antiquarj hanno lasciata nella più profonda oscurità.
113. Forse alcuno l'avrà scritto, ma non so che nemmeno a que' tempi potessero provare gli ulivi presso Milano. N. d. T.
114. Radev. Frising. L. II, c. 39.
115. Rad. Fris. t. I, c. 40 — Ligur. l. VIII, p. 114.
116. Questo trattato viene fedelmente riportato da Radevico Frisingense. L. II, c. 41.
117. Il preambolo di questo trattato non ricorda nè l'umiliazione dei Milanesi d'implorare perdono, nè la clemenza dell'imperatore di accordarla. Niente ritrovasi nella sua forma che sia più duro delle condizioni. Comincia con semplicità in tal modo. «In nomine Domini nostri Jesu Christi, haec est conventio per quam Mediolanenses in gratiam imperatoris redituri sunt et permansuri.»
118. Le nostre guide in questa parte di Storia fino alla conquista di Milano sono tre scrittori contemporanei. Radevico Canonico di Frisinga di cui ho già parlato, è il primo. Allievo di Ottone di Frisinga di cui ne continuò la storia, adotta i suoi pregiudizj di famiglia, ed è come il maestro, appassionato ammiratore di Federico cui dedicò la sua Storia, cercando ad ogni modo di dar risalto alla sua gloria, a spese de' suoi nemici. Pure non era insensibile all'entusiasmo della libertà, e siccome d'ordinario riporta estesamente gli atti originali, la verità traspira dalla sua narrazione ancora quando non è favorevole al suo Eroe. Il secondo è Ottone Morena: magistrato lodigiano, ed impiegato da Federico nell'ufficio di giudice, scrisse una storia de' suoi tempi, intitolata Historia rerum laudensium assai voluminosa, ed abbondante di curiose particolarità, ma marcata dell'impronta di quella servilità che io rimprovero ai legisti italiani, e piena d'invettive contro Milano. Abbiamo finalmente uno storico milanese Sire Raul, o Rodolfo milanese, la di cui storia di Federico I sempre abbreviatissima, e probabilmente interpolata in più luoghi, c'istruisce assai più delle passioni de' Lombardi, che de' fatti. Qualunque ella siasi, ci è pertanto preziosa, perchè Rodolfo è il solo scrittore repubblicano di questo mezzo secolo, di cui siasi conservata l'opera, col di cui sussidio si possano rettificare gli esagerati racconti degli scrittori del contrario partito. Lessi pure, ma con pochissimo profitto, due scrittori tedeschi contemporanei Otto de Sancto Biasio, ed Abbas Uspergensis Chronicon.
119. Rad. Fris. lib. II, c. 4. p. 786. — Gunther. Ligurinus, l. XVIII, p. 124.
120. Otto Mor., p. 1019. — Radev. Fris., l. II, c. 7.
121. Radev. Fris. l. II, c. 6.
122. Radev. Frisin. l. II, c. 7.
123. Idem, l. II, c. 9.
124. Caffari Annal. Gen. l. I, p. 270 et 271.
125. Sire Raul p. 1181, 1182. — Otto Morena p. 1021. — Radev. Frisin. l. II. c 21.
126. Radev. Fris. l. II. c. 32. — Otto Morena p. 1023. — Sire Raul p. 1182.
127. Radev. Fris. l. II, c. 18.-20, et 30, 31. — Baron. ad ann. 1159, § 1.-19.
128. Ho riportata fedelmente questa declamazione più da retore che da storico, perchè non è in facoltà d'un traduttore di mutilare il testo. Il discreto lettore darà quel peso che merita a quest'uscita dell'autore, non perdonabile che in un lungo lavoro pregevole per infinite bellezze. N. d. T.
129. Radev. Fris. l. II, c. 23.
130. Sire Raul, p. 1182.
131. Radev. Fris. l. II, c. 45, p. 823.
132. Radev. Fris. l. II, c. 47. — Gunt. Lig. l. X, p. 146.
133. Otto Mor. p. 1037, 1139. — Sire Raul p. 1183. — Trist. Calchi Hist. patr. l. II, c. 48, et 49.
134. Radev. Frising. l. II, c. 48, et 49.
135. Otto Morena p. 1046.
136. Radev. Fris. l. II, c. 59. — Otto Moren. 1045, 1047. — Guntheri Ligurinus l. X. p. 148, 150.
137. Radev. Fris, l. II, c. 62.
138. Quantunque le repubbliche lombarde impugnassero le armi per difendersi contro le armate imperiali, non cessarono però mai, anche in tempo che trovaronsi vittoriose, di riconoscere le prerogative dell'Impero e di rispettare l'imperatore, che non avrebbe facilmente trovato veruna città ribelle, se loro avesse lasciati i privilegi accordati da Ottone il grande, e non si fosse collegato, per opprimerne alcune, colle città rivali, le di cui milizie sfogavano sotto il di lui nome i loro odj privati sui vinti. Del resto quante lagrime e quanto sangue dovettero versare quelle semi-repubbliche per una larva di libertà, ed in sostanza mancanti di vera indipendenza, di unione fra loro e per conseguenza di quiete e di ogni civile felicità! N. d. T.
139. Barron. ad ann. 1159, § 70, et sequ. — Vita Alexan. papæ III a Card. Arragon. t. III, Rer. Ital. p. 448.-450.
Qui incominciamo a far uso della storia di Alessandro III, scritta da un autore contemporaneo e raccolta con alcune altre dal cardinale di Arragona. Questa preziosa opera ci compensa di quella di Radevico che termina poco dopo quest'epoca. Essa devesi piuttosto risguardare come la storia della guerra di Lombardia, che come quella del pontefice. Questa storia, ordinatamente scritta, è particolarizzata in modo che ben si conosce dettata da un testimonio oculare; e vi si trova tutta quella imparzialità che può pretendersi da una storia scritta in mezzo alle guerre civili. Sembra probabile che l'autore morisse prima di papa Alessandro, poichè il racconto non arriva che fino al 1178. Le altre due vite, quasi contemporanee, dello stesso papa raccolte da Amalrico Augerio e da Bernardo Guidone, non meritano pure di essere ricordate.
140. L'elogio che il nostro autore fa alla vita anonima di papa Alessandro III, non deve farci dimenticare dell'epoca in cui fu scritta, nè l'autore di essa, quantunque assai diligente, s'innalza però sopra il livello del suo secolo. N. d. T.
141. Otto Mor. p. 1061. — Radev. Fris. l. II, c. 75. Questa è l'ultima notizia che prendiamo da così pregevole scrittore, il quale dettò la sua storia lo stesso anno 1160, e la terminò allorchè furono licenziate le truppe allemanne. Alla stessa epoca termina Guntero il suo poema; onde dei Tedeschi non ci rimangono che Ottone da s. Biagio e l'abate Uspergense. Sussidio assai debole.
142. Otto Morena Hist. Laud. p. 1087.
143. Otto Morena Hist. Laud. p. 1087.
144. Otto de Sancto Blasio in Chron. c. 16. Scrip. Rer. Ital. t. VI, p. 874.
145. Morena nel suo barbaro latino li chiamava blava, che è la biada degl'Italiani, vocabolo adoperato per indicare il raccolto d'autunno e sopra tutto la biada di Turchia e la sagina, che io credo non ancora coltivata in Italia nel dodicesimo secolo. Si potrebbe per altro risguardare questo passo come una prova del contrario.
146. Anticamente il nome generico di biava usavasi in Lombardia per indicare qualunque specie di granaglie, ma il grano turco s'incominciò a coltivare alcuni secoli dopo l'epoca di Federico Barbarossa. N. d. T.
147. Sire Raul p. 1186.
148. Otto Morena p. 1099. È vero che l'imperatore lasciava in loro arbitrio di arrendersi a discrezione o sotto così dure condizioni, che i suoi medesimi cortigiani non credevano eseguibili; e perciò s'applicarono al primo partito. Burchardi Ep. de Excid. Med. t. VI, Rer. Ital. p. 915.
149. Otto Mor. p. 1103, 1105. — Sire Raul p. 1187. — Otto de Sancto Blasio c. 16, p. 875. — Trist. Calchi Hist. patr. l. X, p. 253. — Galv. Flamma Manip. Flor. c. 189, p. 642. — Veggasi sopra tutto, Epist. Burchardi Notarii Imp. ad Nicol. Sigebergensem abbatem t. VI, Rer. Ital. p. 915.-918. Abbiamo in questa lettera un assai circostanziato racconto della ruina di Milano e dell'impressione che fece sui Tedeschi la vittoria dell'imperatore.
150. Queste sono piuttosto crudeltà dei tempi che di Federico, cui il nostro autore rende più sotto la debita giustizia, dicendo che se incrudelì nel caldo della guerra, mostrossi poi umano coi nemici sottomessi, non infierendo che contro le insensibili mura. Nè ai Milanesi doveva riuscire inaspettato l'ordine di atterrare la loro città, dopo ch'essi avevano usato lo stesso trattamento ai Lodigiani. N. d. T.
151. Otto Mor. p. 1105, 1107. — Trist. Calc. Hist. Patr. l. X, p. 256. — Joh. Bapt. Villan. Hist. Laud. Pomp. l. II, p. 875.
152. Sire Raul p. 1188. — Galv. Flam. Manip. Flor. c. 192. p. 644. — Bern. Corio Stor. Milanesi p. I, p. 54.
153. Caffari Ann. Genuenses l. I, p. 271.
154. Idem. p. 278.
155. Questo trattato viene riportato per intero dal Muratori. Antiqu. Ital. Diss. XLVIII. t. IV, p. 253.
156. Caffari Ann. Gen. p. 280.-283. — Breviarium Pisanæ Hist. p. 173.-174. — Uber. Fol. Gen. Hist. l. II, p. 268. — Marang. Cronache di Pisa. Scrip. Etr. t. I, p. 387.
157. Obertus Cancel. Ann. Gen. l. II. p. 292.
158. Obertus Cancel. Ann. Genuens. p. 293, 294. — Breviar. Pisanæ Hist. p. 175, 176. — B. Marangoni Cron. di Pisa p. 394.
159. Obert. Can. p. 295.-298. — B. Maran. Cron. di Pisa p. 398.
160. Obertus Canc. p. 310.
161. Obertus Canc. Ann. Genuens. p. 324-327. Uberti Foliettæ Genuensis Hist. l. II, p. 278.
162. Otto Mor. Hist. Laud. p. 1123.
163. Id. Ibid. p. 1127-1129. Non sappiamo per altro se Otto Morena sia sempre l'autore di questa parte della storia, o se abbia a quest'epoca incominciato la continuazione scritta da suo figliuolo Acerbo. La narrazione dal padre viene senza interrompimento continuata dal figliuolo e da uno sconosciuto, senza che possa sapersi ove termina l'uno, ed incomincia l'altro. Acerbo Morena militò sotto l'imperatore, e morì nella spedizione di Roma l'anno 1167. Acerbo manifesta sentimenti più generosi e più liberali del padre.
164. Sire Raul p. 1189.
165. Vita Alex. III a Card. Arragonio p. 456 — Se può darsi fede allo storico greco Cinnamo (L. V, c. 13. p. 103. Bisan. t. XI), quest'alleanza fu conchiusa ad istigazione dell'imperatore Manuele Comneno geloso del crescente potere di Federico. Egli contestavagli il titolo d'imperatore, e mandò Niceforo Calufi a Venezia, ed altri agenti di minor conto nelle altre città con ragguardevoli somme di danaro per eccitare alle armi i Lombardi in difesa della loro libertà.
166. Acerbus Morena p. 1123.
167. Vita Alex. III. a Card. Arrag. p. 456.
168. Otto de Sancto Blasio Chron. c. 18. et 19. t. VI. Rer. It. p. 875 — Conradi ab. Usper. Chron. p. 293. apud Pithaeum.
169. Vita Alex. III. a Card. Arrag. p. 456.
170. Ibid. p. 457. — Romuald. Saler. Chron. p. 205.
171. Guglielmo I, coronato ancora vivente il padre l'anno 1150, morì del 1166. Romual. Saler. p. 205. Questo storico che dopo la congiura di Matteo Bonella fu il principale liberatore del re, fu pure uno de' principali suoi ministri, uno dei più ricchi prelati del regno, suo confessore, e suo medico. La sua storia di questo assai curioso regno merita d'essere letta.
172. Vita Alex. III. a Card. Arragonio p. 457. — Acerbus Morena Hist. Laud. p. 1131. — Otto de Sancto Blasio c. 20. p. 876.
173. Federico partì da Lodi l'undici gennajo ed intraprese l'assedio d'Ancona ai primi di luglio.
174. Pontida è posta tra Bergamo e Lecco quasi ad uguale distanza, ed è celebre il suo monastero per questa dieta della federazione lombarda.
175. Sigon. de Regn. It. l. XIV. p. 320 — Acerbus Mor. p. 1133 — Trist. Calchi Hist. Pat. l. XI, p. 268.
176. Sire Raul p. 1191.
177. Acta Sancti Galdini apud Bolland. 18 april. p. 594. No. 5. notæ ad Morenam p. 1134.
178. Acer. Morena p. 1135 — Trist. Cal. Hist. pat. l. XI. p. 268 — Galv. Flam. man. Flor. c. 198, 201. p. 648 — Jacobi Malvetii Chron. Brix. dist. VII. c. 46, p. 879, t. XIV.
179. Acerbus Morena Hist. Laud. p. 1135.-1136.
180. Giuramento dei confederati in decembre del 1167, ap. Murat. Diss. XLVIII, t. IV, p. 261.
181. Sigon. de Reg. Ital. l. XIV, p. 320.
182. Vita Alex. III; a Card. Arag. p. 457.
183. Vita Alex. III, a Card. Arag. p. 458.
184. Sonovi in Roma cinquanta chiese di questo titolo. Questa doveva probabilmente essere quella di santa Maria della pietà in Campo Santo, eretta da Leone IV. Vasi Itiner. di Roma, p. 656.
185. Vita Alex. III, p. 458. — Ann. Eccles. Baronis. an. 1167, § 11. — Acerbus Morena p. 1151, 1153. — Romualdus Salern. Chron. p. 208.
186. Contin. Acerbi Morenae p. 1153, 1155. — Vita Alex. III, p. 459. — Otto de Sancto Blasio Chron. c. 20, p. 878. — Conrad. Abbas Usperg. Chron. p. 294.
187. Continuator Acerbi Morenae p. 1137.
188. Vita Alex. III, p. 460. — Contin. Acerbi Mor. 1155.-1159. — Trist. Calchi Hist. l. XI, p. 271.
189. Baron. An. 1168, § 75.-78. Epist. Johannis Saresberensis ad Sanctum Thomam l. II, ep. 62. In Codice Vaticano.
190. Contin. Acerbi Mor. p. 1139. Qui termina il racconto di questo storico, che malgrado la sua parzialità ci riusciva molto utile.
191. Questo trattato viene riportato dal Muratori nella diss. XLVIII, t. IV, p. 263.
192. Vita Alex. III, a card. Arag. p. 460. — Otto de s. Blas. c. 22, p. 880. — Benv. de s. Georg. Hist. Montifter. p. 345. t. XXIII, Rer. Ital. — Trist. Calchi Hist. Patr. l. XI, p. 272. — Oberti Cancel. Ann. Genuenses l. II, p. 324.
193. Il nostro autore avrebbe dovuto avvertire l'enorme disuguaglianza delle città componenti la lega e la ricchezza del loro territorio, potentissimi ostacoli al mantenimento di un governo federativo. N. d. T.
194. Murat. Diss. XLVIII, p. 265, 266. — Nella formola del giuramento trovansi queste parole: neque pacem, neque treguam, neque guerram recruditam cum imperatore faciam.
195. Giuramento del reggente dell'associazione delle città in gennajo 1176. Murat. Ant. It. Diss. XLVIII, p. 269.
196. Intorno ai dominj ed alla successione dei conti Guido veggansi le ricerche di Fr. Idelfonso da s. Luigi. Delizie degli eruditi toscani t. VIII, p. 89 e 195.
197. Breviar. Pisanae Hist. Rer. Ital. t. VI, p. 186.
198. Cron. di Bern. Marangoni p. 436. Brev. Pis. Hist. t. VI, p. 187.
199. Le Cronache di Pisa accusano Cristiano d'essersi lasciato guadagnare dall'oro de' Lucchesi.
200. Brev. Pisanae Hist. p. 188. An. Genuens. t. II, p. 347. e seguenti.
201. Eransi i Veneziani disgustati nel 1171 con Manuele Comneno, il quale prima di dichiarar loro la guerra aveva fatto arrestare tutti i negozianti veneti, e porre sotto custodia le loro mercanzie. Questa nuova lite li consigliò a cercar l'alleanza di Federico, abbandonando la lega lombarda amica di Manuele. Jo. Cinnami Hist. l. VI, c. 10. p. 128.
202. Boncompagno dotto Fiorentino, che fu il primo professore di belle lettere nell'università di Bologna, scrisse cinquant'anni più tardi una elegante relazione di quest'assedio. Probabilmente è questi lo scrittore indicato dal Sigonio col nome di Beno Fiorentino. L. V, anno 1218. Tale relazione trovasi nel tom. VI, R. Ital. del Murat. p. 921. sotto il titolo Liber de obsidione Anconae auctore Magistro Boncompagno Florentino.
203. Boncomp. de obsid. Anconae p. 929.
204. Boncompagni Obsidio Anconae c. 4. p. 931.
205. L'autore dice due, e tre moggia. La misura attuale d'Ancona si chiama rubbia, e pesa seicento quaranta libbre di dodici once. Ho supposto che sia l'antico moggio.
206. Boncompagni Obsidio Anconae c. 10. p. 933. I discorsi che si attribuiscono ai personaggi storici sogliono considerarsi come verosimili invenzioni dello scrittore: ma quand'anche il presente fosse di Buoncompagni e non del vecchio cui viene attribuito, l'avversione che l'autore manifesta per la servitù dei preti non sarebbe meno notabile in un professore guelfo di Bologna, che in un abitante d'Ancona. Sono in un modo o nell'altro le opinioni di quel secolo, e poco monta il sapere chi le manifestasse. Ho abbreviato alquanto il discorso, senza farvi verun altro cambiamento.
207. Il castello di Bertinoro, che già appartenne alla contessa Matilde, è posto tra Forlì e Cesena vicino a Forlimpopoli.
208. Boncomp. Obsidio Anconae c. 11, p. 37.
209. Boncompagni Obsidio Anconae c. 24. p. 944. — Joan. Cinnami Hist. l. VI, c. 12. p. 131. Bisan. Ven. t. XI. — Il Cinnamo non parla che della contessa, e le attribuisce una compiuta vittoria sull'armata del prelato. — Romuald. Salernit. Chron, p. 214.
210. Vita Alex. III, a Card. Arrag. p. 463.
211. Romualdi Salern. Chron. p. 213.
212. Sigonius de Regno Ital. Lib. XIV, p. 326.
213. Vita Alex. III p. 464 — Sire Raul p. 1292 — Romualdi Saler. Chron. p. 213 — Trist. Calchi Hist. patr. Lib. XII, p. 227 — Ottob. Scribæ Annal. Genuens. l. III, p. 552 — Olio de Sancto Blasio c. 25. p. 881.
214. Vita Alex. III, p. 465.
215. Compromissum Federici I. et civitatum ap. Murat. Ant. Ital. Dissert. XLVIII, p. 275.
216. Romualdi Salern. Chronic. p. 214.
217. Vita Alex. II, a Card. Arrag. p. 466.
218. Sigon. de Reg. Ital. l. XIV, p. 330. — Galv. Flamma Manip. Flor. c. 205, p. 650. — Romualdi Salern. Chron. t. VII, p. 215.
219. Vita Alex. III, a Car. Ar. 467. — Sire Raul p. 1192. — Otto de Sancto Blas. Chron. c. 13. p. 882. — Corradi Abbatis Usperg. Chron. p. 297. Edit. Basil. 1569. — Baron. ad an. § 17. — Trist. Calchi Hist. Patr. l. XII, p. 278.
220. Federico fece la prima impresa d'Italia in ottobre del 1154, la seconda in luglio del 1158. L'imperatrice gli condusse una terza armata per l'assedio di Crema in luglio del 1159. I principi allemanni scesero in Italia colla quarta l'anno 1161, che fu quella che distrusse Milano. Del 1166 Federico alla testa d'una quinta armata s'avanzò fino a Roma e perdette le sue truppe per la febbre maremmana, si consumò quasi tutta la sesta armata nell'assedio d'Alessandria, e la settima finalmente fu battuta dai Milanesi a Legnano l'anno 1176.
221. Vita Alex. III, p. 467.
222. Vita Alex. III, p. 469. — Istoria di Cremona d'Ant. Campi pittore ed archit. Cremon. dedicata a Filippo IV d'Austria verso il fine del I libro, p. 24. — Romual. Salern. Chron. p. 217.
223. Uno degli ambasciatori, Romualdo arcivescovo di Salerno, storico da noi rammentato più volte con lode, ci ha lasciata una assai circostanziata ed interessantissima relazione del suo viaggio e della sua missione. Siamo ben fortunati d'averla, perchè all'epoca presente ci abbandonano quasi tutte le guide che fin qui diressero la nostra narrazione. Questa relazione che comincia nella cronaca di Romualdo t. VII, p. 217, viene ancora riportata negli Annali del Baronio all'anno 1177.
224. Il soggiorno del pontefice a Zara risguardato senza dubbio come una specie d'esiglio, diede motivo cento cinquant'anni più tardi all'invenzione d'un favoloso racconto, ripetuto poi ciecamente da tutti gli storici del quattordicesimo e quindicesimo secolo. Si disse che il papa, salvandosi sul mare adriatico dallo sdegno di Federico, venne travestito a procacciarsi un asilo in Venezia; dove, dopo alcuni mesi che vi esercitava in un'isoletta la professione di giardiniere, fu riconosciuto. Allora il doge ed il senato si affrettarono di rendergli i più grandi onori; e venuto a riclamarlo con una potente flotta Ottone figliuolo di Federico, i Veneziani lo sconfissero e fecero prigioniero. Che per tale avvenimento Federico risolse di far la pace; e che ricevuto in Venezia, quando s'accostò per baciare il piede al papa, questi glielo pose bruscamente sul capo, pronunciando queste parole: Ambulabis super aspidem et basiliscum et conculcabis leonem et draconem: cui l'imperatore rispose: non tibi sed Petro, ed il papa replicò: et mihi, et Petro. — Vita Alex. III, ex Amalrico Augerio Scrip. Rer. It. t. III, p. II, p. 373. — Gio. Villani l. V, c. III. — Malavolti Istoria di Siena p. I, l. III, p. 34. — Corio storia di Milano p. I, p. 60. — Il Baronio che smentisce questo racconto ad an. § 4 e segu. Questo romanzo caro ai Veneziani fu illustrato dai più celebri pittori, che ne fecero l'argomento dei quadri che adornano la magnifica sala del gran consiglio della repubblica. Si mostravano non senza orgoglio agli imperatori che visitavano il palazzo di san Marco.
225. Il Muratori ne conservò, disser. XLVIII, p. 277, il documento intorno al quale aprirono questa discussione intitolata: Petizione preliminare indirizzata a nostro signore l'imperatore dai rettori di Lombardia, Marca, Venezia e Romagna.
226. Baron. ad an. §. 78. — Romuald. Archiep. Saler. Chron. p. 225.
227. Sire Raul p. 1192, 1193 — Baron. ad an. 1177, §. 82, 85 — Romualdus Salernit. Chron. p. 225. — Abbiamo, è vero, uno storico lombardo contemporaneo, Sicardo vescovo di Cremona, ma egli parlò di questo negoziato, e della guerra che lo precedette, senza circostanziare i fatti particolari che non avremo motivo di citarlo altra volta. Intorno a questo trattato veggasi Sic. Chron. t. VII p. 602.
228. Sire Raul, p. 1192-1193 — Romualdus Salernit., p. 223 — Baron. §. 82, 85.
229. Romualdi Salern. Chron. p. 226.
230. Baron. Ann. §. 29 — Instrumentum treguæ apud. Murat. Antiq. Ital. disser. XLVIII, p. 283.
231. La tregua si dichiarò comune, da una parte a Federico ed al suo partito, cioè Cremona, Pavia Genova, Tortona, Asti, Alba, Torino, Ivrea, Ventimiglia, Savona, Albenga, Casal sant'Evaso, Monvelio, Imola, Faenza, Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini, Castrocaro, i marchesi di Monferrato, Vasto e Bosco, ed i conti di Biandrate e di Lomellina. Dall'altra parte alla società dei Lombardi, composta a quest'epoca di Venezia, Treviso, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Ferrara, Mantova, Bergamo, Lodi, Milano, Como, Novara, Vercelli, Alessandria, Carnesino, Belmonte, Piacenza, Bobbio, Reggio, Modena, Bologna, il marchese Malaspina e gli uomini di S. Cassano e di Doccia.
232. Baron. §. 98 et 99 — Romual. Saler. Chron. t. VII, p. 231.
233. Vita Alexan. III. a Card. Arag., p. 471.
234. Tra i prelati scismatici ch'entravano in tal epoca in seno della Chiesa, contavansi i vescovi di Padova, Pavia, Piacenza, Cremona, Brescia, Novara, Acqui, Mantova e Fano, che quasi tutti tenevano le parti dell'imperatore, perchè le loro gregge, con cui erano poche volte d'accordo, seguivano il partito della Chiesa.
235. Vita Alex. III, p. 475.
236. Vita Alexan. III. p. 473.
237. Charta reconciliationis Federici I Aug. cum populo Dertonensis Urbis. Murat, dissert. XLVIII, p. 289.
238. Sigonius de Regno, p. 340. Vero è ch'egli riferisce quest'avvenimento all'anno 1184 con manifesto errore, imperciocchè l'anno 1183 la città d'Alessandria fu compresa nel trattato di Costanza tra le città alleate dell'imperatore sotto il nome di Cesarea.
239. Sigonius l. XIV, p. 338. — Il loro pieno potere presso Murat, dissert. XLVIII, p. 291.
240. Questi preliminari conservati nell'archivio di Modena furono impressi dal Muratori nella dissertazione XLVIII, p. 295. Antiq. Ital.
241. Corpus Juris Civilis ad calcem, liber de pace Constantiæ.
242. L'imperatore dichiara nel preambolo di questo trattato che la sua dolcezza e la sua clemenza sono tali, che, quantunque avesse il potere di castigare i colpevoli, ha voluto perdonar loro e far loro del bene; che per conseguenza accoglie nell'ampiezza della sua grazia la società dei Lombardi ed i loro fautori che una volta offesero il suo impero. Questo è un prendere ben dall'alto le mosse per accordar poi così importanti concessioni.
243. La lira allora valeva circa lire 63 peso per peso, e lire 25 equivalevano a lir. 1575 d'Italia.
244. In questo trattato furono comprese come confederate le città di Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma e Piacenza. L'imperadore dichiarava sue alleate Pavia, Cremona, Como, Tortona, Asti, Cesarea ossia Alessandria, Genova ed Alba. Si lasciò Ferrara in libertà di dichiarare entro due mesi se accedeva al trattato, dal qual favore furono escluse Imola, Castro, san Cassiano, Bobbio, Gravedona, Feltre, Belluno e Ceneda. Venezia non fu nominata perchè, risguardandosi affatto indipendente dall'Impero, non volle con questo trattato sottoporsi alla più leggiere dipendenza.
245. Galv. Flam. Man. Flor. c. 215. Scr. Rer. Ital. XI, p. 655.
246. Galv. Flam. Man. Flor. c. 223. Scr. Rer. It. t. XI, p. 657.
247. Il consiglio di credenza.
248. Il Sigonio de Reb. op. omn. t. III, ad an. ed il Ghirardacci l. II, p. 63, riportano questa costituzione all'anno 1128. Tale epoca parmi anteriore assai all'origine di quasi tutte le istituzioni di cui parlano.
249. Il Ghirardacci scrive che i consoli ed i pretori governavano a vicenda la repubblica e talvolta congiuntamente, e che l'ultimo aveva la stessa autorità dei consoli, ed inoltre le insegne del potere, cioè il cappello, lo stocco e lo scettro, e che dall'usare queste insegne di podestà venne ai pretori il nome di podestà. N. d. T.
250. Sicard. Ep. Crem. Chron. t. VII, p. 602.
251. Hugo Falcandus historia sicula t. VII, Rer. Ital. p. 272, e seguenti.
252. Ugo Falcando viene risguardato siccome il più eloquente storico del suo secolo, ed ancora del seguente. Fu detto il Tacito della Sicilia; e nel quadro che fece dei delitti della corte di Guglielmo, si possono in fatti ravvisare molti tratti che ci rammentano Claudio e Tiberio quali furono dipinti dal grande storico di Roma: ma Falcando, volendo far pompa d'eloquenza, distrugge l'impressione che vorrebbe fare, e rende sospetta la sua veracità. La sua storia non abbraccia, strettamente parlando, che il regno di Guglielmo il malvagio ed i primi anni della minorità del suo successore, cioè dal 1154 al 1169. Questa storia fu dal Muratori inserita nel t. VII, Rer. Ital.
253. Veggasi il quadro fatto da Giacomo di Vitrì dei costumi de' Latini orientali che in Oriente chiamavansi Pullani: sono questi i creoli delle nostre isole d'America. Historia Hierosol. l. I, c. 72. Gesta Dei per Franc. p. 1088.
254. Il venerabile Guglielmo arcivescovo di Tiro non potè risolversi a terminar la storia delle sventure della sua patria. Non ci rimangono che la prefazione e poche linee del suo ventesimo terzo libro, che doveva contenere il racconto di Gui di Lusignano e della presa di Gerusalemme. Gesta Dei per Francos, p. 1042. — Veggasi adunque Giacomo di Vitrì. Hist. Hierosolim. l. I. c. 94, e 95. — Gesta Dei per Franc. p. 1119. — Bernardus Thesaurarius de Acquisitione terræ sanctæ c. 148. — 166. t. VII, Rer. Ital. p. 783. ec.
255. Venne universalmente attribuita la morte d'Urbano III al dolore concepito per la perdita di Gerusalemme. La città si rese a Saladino il 2 ottobre, ed Urbano morì a Ferrara il 19 dello stesso mese; cosicchè egli non poteva aver ricevuta la notizia dell'ultima catastrofe, ma soltanto delle precedenti disavventure. Murat. Ann. t. X, p. 139.
256. Veggansi queste lettere presso Baronio ad ann. § 18. t. XII, p. 780.
257. Ottobonus Scriba, contin. Caffari, Ann. Genuen. l. III, p. 359, t. VI. — Breviar. Pisanæ hist. p. 191.
258. Otto de Sancto Blasio Chron. c. 31. p. 887. t. VI. — Annal. Ecclesiast. ann. 1188.
259. Annal. Eccles. 1190. § 9. t. XII, p. 804. — Jacob. de Vitriaco Hist. Hieros. l. I, c. 99. p. 1121 — Bernard. Thesaurar. de acquis. Terræ sanctæ c. 169. p. 804. — Sicardi Episc. Cremon. Chron. p. 611, t. VII, Rer. Ital. — Marini Sanuti Secreta Fidelium Crucis l. III, p. X, c. 2. Gesta Dei per Francos t. II, p. 196.
260. Hugo Falcandus Hist. Sicula p. 252.
261. Guglielmo morì il 16 novembre del 1189.
262. Richardi a sanct. Germano Chron. t. VII, Rer. It. p. 970. — Chron. Monast. Fossae novae t. VII, p. 877.
263. Ottobonis Scribæ Ann. Genuen. l. III, p. 367.
264. Ibid.
265. Richardi de san. Germano Chron. p. 971.
266. Ibid. p. 973.
267. Ibid. p. 975.
268. Murat. Ann. d'Ital. t. X, p. 183. ad ann.
269. Richard. de san. Germano Chron. p. 976. — Chron. Fossae Novae p. 880. — Anon. Cassin. Chron. t. V, p. 143. — Otto de san. Blasio c. 39 et 40, p. 893.
270. Il 28 settembre 1197.
271. Richard. de san. Germano Chron. t. VII, p. 977. — Johan. de Ceccano Chron. Fossae Novae p. 883. — Conradus Abbas Usperg. Chron. p. 304.
272. Federico II, o Federico Rogero nacque a Iesi nel dicembre del 1194. Sua madre morì il 27 novembre dell'anno 1198.
273. Jacobi Malvecii Chron. Brixian. dist. VII. c. 62. 63. t. XIV. p. 883 — Sicardi Epis. Cremon. Chron. t. VII. p. 615 — Chron. breve Cremon. t. VII. p. 636 — Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 222. t. XI. p. 656.
274. Si pretende che i Cremonesi, gettandosi nel fiume, gridassero: è meglio annegarsi che morire. Così l'ironia s'attacca spesso alle più funeste memorie; e facile è il passaggio dal ridicolo al terrore.
275. Negli anni 1198 e 1199.
276. Tanto i Malaspina, che i feudatari imperiali della Liguria erano dipendenti dall'Impero, da cui ricevevano l'investitura del rispettivo feudo; come pure il duca di Massa ed il principe di Carrara. Tutti avevano nella loro giurisdizione il jus sanguinis, ma il solo duca di Massa aveva ancora quello di battere monete, ottenuto dall'Impero circa due secoli sono. N. d. T.
277. A quest'epoca eranvi a Ferrara trentaquattro famiglie nobili, e trentadue torri. Cron. Parva Ferrar. t. VIII, p. 480-482.
278. Pavia chiamossi la città dalle cento torri, delle quali rimangono in piedi non poche anco a' dì nostri. N. d. T.
279. Gerardi Maurisii Vicentini Historia Scrip. It. T. VIII, p II. — Dalla casa di Montecchio prese Shakespear Montagu in Romeo e Giulietta — Ricardi Comit. de S. Bonifatio vita, t. VIII, p. 121 — Chron. Veronen. p. 623.
280. Rolandini de factis in Mar. Trivis. Chron. l. I, c. 7, p. 176.
281. Rolandino ricorda nello stesso tempo tre divorzi accaduti in questa famiglia. Egli ne parla come di avvenimenti allora comuni, senza farvi alcuna osservazione. Erano forse allora permessi dalla Chiesa? o soltanto dissimulati?
282. Nacque il 4 aprile del 1194.
283. Girardi Maurisii Hist. p. 11.
284. Roland. l. I, c. 7. p. 176.
285. Id. l. I, c. 7. p. 176.
286. Gerar. Maur. p. 14. — Ant. Godii Nob. Vicentini Chron. p. 74.
287. Veggansi diversi trattati tra il marchese ed i suoi sudditi, Antiquit. Ital. Dissert. XLV, t. IV, p. 42. 45. e seguenti ad ann. 1198, e 1204.
288. Chronica parva ferrariensis, t. VIII, p. 481. — Chronic. Fratr. Francisci Pipini, l. I, c. 46. t. IX, p. 628.
289. Chron. parva Ferrar. p. 481. Di queste guerre civili scrisse estesamente Gio. Battista Pigna nella sua storia de principi d'Este. Venez. 1572. in 4.º l. II, p. 161, e segu. Ma il suo racconto abbonda di così grossolani errori, che non si può prestargli veruna fede.
290. Memoriale Potestatum Regiensium t. VIII, p. 1077 et seguent. Negli Annales Veteres Mutinenses, e nel Chronicon Parmense non trovansi rispetto al XII secolo che i nomi dei consoli e dei podestà: ma il Muratori diede nella prefazione al Malvezzi t. XIV, p. 774, due carte di gentiluomini che in tale epoca sottomettonsi alla repubblica di Modena.
291. Uno storico di Bologna riferisce sotto l'amministrazione di Gerardo una leggenda che mi sono fatto lecito di riferire in questo luogo, come prova dei costumi e della credulità di que' tempi.
Una giovane vergine chiamata Lucia, non meno bella che nobile, erasi chiusa nel monastero di santa Catterina di Bologna. Un Bolognese di lei innamorato prendeva posto ogni giorno sotto la finestra cui ella s'affacciava per udire la messa nella chiesa del suo convento. Lucia osservò l'emozione del giovane nell'istante in cui ella s'avvicinava; e rammentò le parole dettele dal vescovo nell'atto di darle il velo: «ch'ella disgiunga per sempre i suoi occhi da quelli degli uomini;» onde si credette obbligata a Dio di nascondersi interamente agli sguardi del suo amante, il quale il susseguente giorno vide la finestra chiusa da una gelosia che toglieva assolutamente Lucia a' suoi sguardi. Era questo l'istante in cui erano i Cristiani tuttavia costernati dalla perdita di Gerusalemme ed in cui chiamavansi tutti i cuori generosi a prendere la croce. Giurò il giovane di consacrarsi a Dio, come la sua diletta, partì per terra santa, e nel primo incontro, spingendosi nelle prime linee degl'infedeli, vi cercò piuttosto la morte che la vittoria. Atterrato e fatto prigioniero, fu dai Saraceni sottoposto a crudeli tormenti perchè rinegasse la fede. Trovandosi tra le mani dei carnefici, gridò: «O vergine santa, o casta Lucia! Se tu vivi ancora sostieni colle tue preghiere quello che tanto ti amò; e se ti trovi in cielo, rendimi propizio il mio Signore!» Ebbe appena dette queste parole, che cadde in profondissimo sonno, e quando svegliossi, si trovò ancora carico di ferri presso al monastero di santa Cristina. Lucia lo stava aspettando risplendente di gloria e di bellezza. — «Lucia vivi tu ancora?» gridò egli. «Io vivo, ma della vera vita; va, deponi i tuoi ferri sul mio sepolcro e ringrazia Iddio del favore che ti ha fatto.» Ella era morta lo stesso giorno in cui egli aveva abbandonato l'Europa. — Cherubino Ghirardacci istoria di Bologna. Lib. IV, p. 106.
292. Ibid. p. 102.
293. Jacob. Malvecii Chron. Brixian. Dist. VII, c. 81.-84, p. 894. t. XIV.
294. Additam. ad Roland. Regiminum Paduæ t. VIII, p. 368.
295. Innocenzo III pretese in seguito, egli è vero, ch'Enrico era stato scomunicato per avere arrestato Ricardo I d'Inghilterra: effettivamente egli era incorso nelle generali scomuniche fulminate contro tutti coloro che attaccheranno i crociati; ma questa formidabile sentenza non era mai stata contro di lui fulminata.
296. Egli aveva scritto intorno alla miseria dell'umana condizione e sopra alcuni punti di disciplina. Vita Innoc. III, ex anonim. Synchrono a Balutio edita, et rursus Scrip. Ital. t. III, p. I, p. 486, § 2.
297. Innocenzo, tutore del giovinetto principe, si credette obbligato di porre sulla bilancia ancora i diritti del suo pupillo. Abbiamo di lui uno scritto intitolato: Deliberatio Domini papæ super facto de tribus Electis; e conchiude in favore d'Ottone. Annales Eccles. Oderici Raynaldi ad an. 1290. § 26, e seguenti p. 51. t. XIII.
298. Fu l'anno 1191. La carta trovasi nella Diss. XLV, Antiqu. Ital. M. Ae. t. IV, p. 35.
299. Storia diplomatica dei senatori di Roma di Antonio Vitale, Roma 1791 2 vol in 4.º t. I, p. 76. — Michel Conrigio Curtius Comment. de senatu Rom. post tempora reip. liberæ l. VII, c. 4. § 187. p. 282. Genevæ 1769. — Vita Innoc. III, p. 487. ubi per errorem nuncupatur Benedictus Cariscus vice Carissimi.
300. Corrad. Ab. Usperg. Chron. p. 303. Gli abitanti di Tusculano si riunirono ancora sotto capanne fatte di frasche e formarono una borgata al disotto dell'antica loro patria, cui rimase poi sempre il nome di Frascati.
301. Vita Innocent. III, § 8. p. 487.
302. Storia de' senatori di Roma d'Antonio Vitale.
303. Questa formola di giuramento è testualmente riportata nella storia diplomatica dei senatori di Roma, p. 82.
304. Otto de Sancto Blasio Chron. c. 41. v. 898. — Conrad. Abb. Usperg. Chron. p. 304.
305. Vita Innocentii III, § 9 e 10.
306. Scipione Ammirato Istorie fiorentine l. I, p. 63. anno 1197.
307. Dissertaz. sopra l'istoria pisana del cavalier Flaminio del Borgo. Diss. IV, p. 157. — Vita Innoc. III, § 12, p. 488.
308. Scipione Ammirato è l'autore anonimo De Libertate civitatis Florent. ejusque dominii 1722 p. 69. Io non ho letto l'ultima opera.
309. Di là in nome di san Miniato al Tedesco, o dell'allemanno.
310. È questi uno de' migliori scrittori di second'ordine, e tra i non originali. Egli scrisse in sul finire del sedicesimo secolo.
311. Malavolti Ist. di Siena. Venez. 1599. p. I. l. IV, p. 44.
312. Flaminio del Borgo, Dissertaz. IV, p. 159, prometteva di dare per disteso questo atto nell'appendice n.º 10, ma io credo che quest'appendice non siasi più pubblicata. Del rimanente il diploma trovasi impresso nella Diss. L, p. 473, delle antich. ital.
313. Croniche di Pisa di Bernardo Marangoni, Supplement. Florent. ad Script. Ital. t. L, p. 479.
314. Vita Innoc. III, § 28. p. 494.
315. Pietro Giannone istoria civile del regno di Napoli, l. XIV, c. 3.
316. Ib. l. XV. — Ricardi de s. Germano Chron. p. 977.
317. Oderic. Raynald. Ann. Eccles. 1200. § 46, p. 57. — Innocent. Epist. l. III, ep. 2.
318. Ib. 1198, § 71. p. 18. Annalium Raynaldi.
319. Ib. 1200. § 9. p. 45.
320. Ib. 1198. § 35.
321. Ib. 1204. § 72, 73. p. 121.
322. Ib. 1207. § 15. p. 155. et Innoc. Epist. l. IX. ep. 217.
323. Ib. 1213. § 73.-79. p. 210.
324. Richardus de s. Germano Chron. I, p. 975. — Chron. Monast. Fossae novae, p. 830.
325. Chron. Fossae Novae 884. — Richardi de s. Germano Chron. p. 980.
326. Odericus Raynald. Annal. Eccles. 1200. § 26. e seg. p. 51. 1201. § 5. e seg. Otto de sancto Blasio c. 48. p. 905. — Conradus Abbas Uspergensis p. 305.
327. Oderic. Raynald. 1206. § 15. p. 142. et 1207. § 7. p. 154.
328. Arnold. Lubec. l. VII, c. 6. — Abbas Usperg. in Chron. p. 310. L'abbate d'Usperg, contemporaneo e partigiano di Filippo, scrisse la storia del suo regno con più calore ed interessamento che non suole trovarsi in altra parte della sua cronaca.
329. Id. p. 312. — Otto de sancto Blasio c. 50.
330. Gerardi Maurisii civis vicentini Historia p. 18. Scrip. Rer. Ital. t. VIII.
331. Antichità Estensi del Muratori, p. I, c. 39.
332. Gerardi Maurisii civis Vincent. His. p. 18, Sc. Rer. It. t. VIII.
333. Gerard. Maurisius, p. 19.
334. Rolandini de factis in Marchia Tarvisana, l. I. c. 10, t. VIII, p. 178.
335. In data di Foligno il 5 gennajo 1210. Ant. Esten.
336. Il 4 ottobre 1209.
337. Vita Innoc. III, §. 134. e seg. p. 562 — Queste sedizioni incominciarono l'anno 1208; ma ci assicura Raynaldo, che furono pure eccitate da Ottone. An. Eccles. 1208 §. 7. p. 158.
338. Datato a Poggibonzi l'otto delle calende di novembre 1209. Istoria Pisana di Flaminio del Borgo, diss. IV, p. 170.
339. Ricardus de sancto Germano Chron. p. 983.
340. Ant. Ital. med. ævi, dissert. LI, t. IV, p. 608.
341. Sembra che tale matrimonio si proponesse l'anno 1201 dal re d'Arragona. Innoc. Epist. l. V. ep. 51 — Od. Rayn. 1202. §. 6. p. 73.
342. Richardus de sancto Germano Chron. p. 983. — Abbas Usperg. Chron. p. 313.
343. Abbas Uspergensis Chron. p. 313.
344. Il nome di Guelfi e di Ghibellini fu in questi tempi più universalmente adottato; perchè l'antica denominazione di partito dell'Impero e di partito della Chiesa era divenuta un controsenso.
345. Annal. Genuens. Continuat. Caffari l. IV, p. 403.
346. Ann. Genuens. Contin. Caffari l. IV, p. 403.
347. Galvan. Flam. c. 244, p. 664, t. XI.
348. Sicardi Epis. Cremon. Chron. p. 623, t. VII.
349. Chronic. Veronense t. VIII, p. 623.
350. Il 27 luglio 1214 — Conradus Abbas Usperg. Chronicon p. 319.
351. Istorie Fiorent. di Leonardo Aretino, traduzione dell'Acciajuoli lib. I, p. 4. Ediz. veneta 1476.
352. Veggasi il Quadro dell'Agricoltura toscana dell'autore di questa istoria. Un Vol. in 8.º, Ginevra 1802.
353. Leonardo Aret. l. I, p. 30 — Procopii Cæsariensis de Bello Gotico l. III, c. 5. p. 117. Edit. Veneta.
354. Istoria fiorentina di Ricordano Malespini c. 99. Scrip. Rer. Ital. t. VIII. p. 942 — Giovanni Villani l. V. c. 32. t. XIII. p. 146.
355. A questi autori del secolo decimoquarto, oltre le storie fiorentine di Niccolò Machiavelli, possono aggiungersi quelle di Lorenzo Pignotti pubblicate nel decorso anno. N. d. T.
356. Ricordano Malesp. Istor. fiorent. c. 104, p. 945 — Gio. Villani l. V, c. 38, p. 150 — Coppo de Stefani l. II. — Delizie degli eruditi toscani t. VII — Questi tre scrittori si copiavano l'un l'altro quasi senza variazione di vocaboli; e Machiavelli in principio del II. lib. delle sue storie fiorent. replicò il loro racconto. Ediz. del 1796. p. 90.
357. La sua risposta fu il proverbio, cosa fatta capo ha, che diventò poi parola di sangue, la quale non poteva pronunciarsi senza far fremere i repubblicani di Fiorenza.
358. Ricordano Malespini, c. 105, p. 946.
359. Il palazzo Strozzi in piazza dell'Erbe ed il palazzo Ricardi, altra volta dei Medici, sono monumenti di questo genere d'architettura. Sono opere ambedue fatte in sul declinare del secolo XV; ma il gusto de' loro fondatori erasi formato sopra più antichi modelli.
360. Azzo VI morì in novembre del 1212.
361. Ciò accadde nel giorno di Pentecoste del 1213. Sicardi Chron. p. 624 — Campi Istoria di Cre. l. II. p. 39 — Manip. Flor. Galvanei Flam. c. 246. p. 655.
362. Giannone Istoria civile l. XIV. c. 3.
363. Ibid. Lib. XV. c. 14 — Rich. de sancto Germano Chron. p. 982.
364. Annales Eccles. Oderici Rainaldi ann. 1204, § 56 p. 117.
365. Il Lettore Cattolico si ricordi che le presenti osservazioni sono scritte da un Protestante. Del resto i sudditi Austriaci sanno che l'Augusta Imperatrice Maria Teresa, la di cui memoria sarà sempre cara agli amici della religione e della clemenza, abolì ne' suoi stati di Lombardia il tribunale dell'inquisizione, repristinando i Vescovi nei naturali loro diritti di giudici e di conservatori della fede, e dissoggettando i suoi sudditi da qualunque tribunale non dipendente dalla legittima sovrana autorità. N. d. T.
366. Si ha ragione di sperare che il sig. Muller celebre storico tedesco, darà sulla migrazione delle sette riformate grandissimi schiarimenti, essendo l'argomento delle sue più erudite indagini.
367. Quasi si dicesse, che si consacrano a soffrire: pati. Pietro dalle Vigne e Federico II danno questa etimologia al loro nome in una legge pubblica contro i medesimi.
368. Forse il nostro autore deferì ad alcune frasi della scrittura — Non potestis duobus dominis servire ec. — Spiritus promtus, caro autem infirma ec. — ed alle opinioni volgari intorno agli spiriti cattivi e simili: ma gli era troppo facile il convincersi del contrario.
369. Duchesne Historiæ Franc. Scriptores t. V. — Petrus Vallisernensis Hist. Albigensium c. 2. p. 556. — Odericus Raynald. ann. 1206. § 59., e seguenti p. 118. Il cattolico anche non istrutto riconosce e la concupiscenza, sottomessa alla grazia, ed i demonj creature incapaci di nuocere senza la divina permissione.
370. Guido Elnensis Episc. de Haeret. comment. apud Oder. Rayn. § 64. p. 119. ann. 1204.
371. Cod. Teod. de Haeret. Lex 9, 34, 36, 38, 43, 44.
372. Frid. II, Authenticae Constit. Tit. I, Lex 5.-8.
373. Innoc. III, Epist. l. IX, ec. — Oder. Ray. ad ann. 1206.
374. Dat. Viterb. 9. cal. act. Pontif. an. X. — Ray. ad an. 1207.
375. Giovanni Villani Lib. V, c. 24, e 25. p. 143.
376. L'autore rovescia sopra san Domenico tutta la fierezza de' meno moderati inquisitori che vennero dopo di lui. Intorno a quest'argomento possono leggersi la storia dell'inquisizione di F. Paolo Sarpi, che pure non può cadere in sospetto di parzialità. N. d. T.
377. Antiq. Ital. Maed. Aevi Dissert. LXV. — Leggasi intorno alla fondazione di questi due ordini la Cronaca dell'abb. Uspergense a p. 318. Dice che questi due ordini rivalizzavano con quello degli umiliati, coi poveri di Lione e con altri entusiasti, che pure avevano tentato di formare anch'essi un ordine religioso sotto la protezione del papa; ma che, vittime di questa gelosia, furono perseguitati e bruciati come eretici.
378. Istoria civile del regno di Napoli l. XV, c. 4.
379. Vedasi la lettera d'Innocenzo III, per eccitare alla crociata contro Raimondo conte di Tolosa, presso Oderico Rainaldo all'anno 1208. § 15. p. 161.
380. Vita Innocentii III, ex MS. Bernardi Guid. Scrip. Rer. Ital. t. III, p. I. p. 480. — Lo stesso racconto viene confermato da Amalrico Augerio. Vita Innoc. III, t. III. p. II. p. 379.
381. Cæsarius l. V, c. 21. ap. Raynald. ad ann. 1209.
382. Vita Innoc. III, ex MS. Bern. Guid. p. 482. Vedasi pure Petri Monoeci Vallium Cernaii, seu Vallisernensis Hist. Alb. apud Duchesne Hist. Franc. Sc. t. V, c. 52.
383. Vita san. Dom. a B. Jordano l. I, c. 8. — Ray. ad ann. 1209. § 3. p. 152.
384. In Canon. 21 e 22. Concil. Labbei. — Ray. 1215. § I, p. 219.-222.
385. Leggansi intorno a quest'argomento gli autori cattolici, e tra questi Fleury stor. Eccles. all'anno 1216. N. d. T.
386. Thom. Cantip. Vita Liutgardæ Virginis l. II, c. 7. apud Surium, t. III, die 16. Jun. — Rayn., 1216. § II.
387. La prima crociata è quella di Gotifredo di Bouillon l'anno 1096; la seconda quella dell'Imp. Corrado e di Luigi VII, l'anno 1148; la terza quella di Federico Barbarossa, Filippo Augusto e Riccardo cuor di leone l'anno 1189: ma di mezzo a queste grandi spedizioni, altre armate crociate passarono in Oriente, motivo per il quale alcuni storici chiamano la presente la quinta crociata. N. d. T.
388. Sentenza pronunciata contro i Greci il 16 luglio del 1054. Vedi Collectio concil. t. XI, p. 1457.-1460.
389. Decline and fall of the Roman Empire c. 60.-61.
390. Niceta quando fu presa Costantinopoli non volle più scrivere la storia, per vendicare la sua patria offesa dai barbari, e perchè il loro nome non passasse alla posterità. Nicetas Choniates in Murzuflum, c. 6. Edit. Venet. p. 307. a
391. Gibbon decline and fall, c. 54. ad init.
392. Nicetas Chron. Constant. status. p. 309. a b
393. Nicetas Chron. in Manuel. Comment. l. II, c. 5. Edit. Venet. Scrip. Byzant. p. 45. — Joan. Cinnami Hist. l. VI, c. 10, p. 128. t. XI.
394. Nicet. in Alex. Manuel. Comnen. filium c. 11. p. 138.
395. Id. in Isaacium Angelum l. II, c. 10. p. 203.
396. Nicetas in Alexium lib. III, cap. 8. et 9. p. 280.
397. Geoffroy de Villehardovin, Della conquista di Costantinopoli, in Script. Byzant. Edit. Venet. t. XX, p. 1. — Doutreman, Costantinopolis Belgica, lib. II, p. 88, dà un catalogo di tutti i più illustri crociati. Rispetto agl'Italiani per altro è assai mancante.
398. Villehard. c. 13 e 14, p. 4. — Andreæ Danduli Chron. Venet. l. X, c. 3, p. 28. Scrip. Rer. It. t. XII, p. 320. — Ibid. in instrumentum Conventionis p. 323.
399. Non è questo il testo medesimo di Villehardovin, e nemmeno può dirsi una traduzione; devo dunque render conto delle fatte mutazioni. Villehardovin terminò la sua storia avanti il 1213. Per la maggior parte de' Francesi il linguaggio di quel tempo non è più intelligibile; non pertanto non sarebbe stato prezzo dell'opera il citarlo se non ne conservavo il gusto originale, ed il suo andamento. Credetti di poter farlo intendere senza mutarlo, e sostituendo la moderna all'antica ortografia, le presenti desinenze e conjugazioni alle sue, che avvicinano egualmente l'italiano ed il gallese; conservando per altro tutti i medesimi vocaboli, a meno di pochi affatto inintelligibili, e lo stesso ordine nelle frasi.
400. Villehard. c. 16-17, p. 5.
401. Vita Innocentii III, c. 84, apud Script. Rer. Ital t. III, p. 526.
402. Villehard. § 25-26, p. 9. — Rhamnusius de Bello Costante l. I, p. 27.
I Veneziani avevano domandato per 4500 cavalli, 4 marchi | lir. 18,000 |
Per i loro cavalieri, 2 marchi | 9,000 |
Per due scudieri per cavallo, nove mila scudieri, 2 marchi | 18,000 |
Per venti mila pedoni, 2 marchi. | 40,000 |
Totale N. 85,000 |
Perchè i Veneziani fecero sempre le loro monete con argento purissimo, valuto il marco cinquanta lire, e la totale somma lir. 4,250,000 lire francesi, lo che è ben lontano dal formare un prezzo esorbitante.
404. Villehard. § 30.
405. Lo storico Andrea Dandolo, uno de' suoi discendenti, dice soltanto che aveva la vista debole, et visu debilis. Lib. X, c. 3, p. XXX, p. 322. Ducange nelle sue Osservazioni sopra Villehardovin, N.º 204, assicura che a tal epoca aveva novantaquattro anni, e novantasette quando morì l'anno 1205. Nè Villehardovin, nè Andrea Dandolo non indicano, parlando della sua vecchiaja, una così straordinaria età.
406. Villehard. § 32-33. È questo il vocabolo inglese plenty, abbondanza, che trovasi frequentemente in Villehardovin; e ne abbiamo fatto pluralità.
407. Gesta Innocentii III, c. 61. p. 507 e seguenti.
408. Ib.
409. La moglie di Filippo era quella principessa greca ch'era stata promessa a Guglielmo, figlio di Tancredi, e caduta in mano di Enrico IV nella presa di Palermo. Conrad. Ab. Usperg. Ch. p. 304.
410. Villehardovin c. 39-44, p, 13-14. — Dandolus in Chron. lib. X, c. 3, p. XXVII, p. 321. Stando a Ramnusio questa flotta era composta di 420 vascelli, cioè 50 galee armate, 240 navi da trasporto a vela quadrata, e cariche di truppe, 70 vascelli carichi di viveri e di macchine, e 120 uscieri pei cavalli. De Bello Const. l. I, p. 33.
411. Vita Innocentii III, c. 87, p. 529.
412. Ib.
413. Villehardovin c. 53-54, p. 17.
414. Villehard. c. 46, p. 15. — Dandol. l. X, c. 3, p. 28.
415. Dal nome di Babilonia d'Egitto, una delle tre città che formano riunite il Cairo. Veggasi Guglielmo di Tiro l. XIX, c. 13, p. 963, che sempre, da buon critico, e da buon geografo, esamina i nomi de' paesi.
416. Agnese figlia di Luigi VII aveva sposato Alessio Comneno, ed in seguito Andronico imperatore di Costantinopoli: non era questi un parentado assai vicino.
417. Villehardovin c. 47.
418. Epist. Inn. III l. VI, epist 47. — Oderic. Rayn. 1203, § 9, p. 87.
419. Si assicura che i Greci avevano avuto poco prima sui cantieri di Costantinopoli 1,600 vascelli di guerra. Constant. Belg. l. II, c. 9, p. 145.
420. Nicetas Choniates in Alexio l. III, c. 9, p. 286.
421. Villehard. c. 56 e seguenti.
422. Villehard. c. 66, p. 22.
423. Veggansi le piante ed i disegni di Costantinopoli, della Propontide e del Bosforo in Banduri Imperium Orientale, t. II, p. I.
424. Villehard. c. 69-81, p. 22 e seg.
425. Villehard. c. 82, p. 24.
426. Nicetas Choniates in Alexium l. III, c. 10, p. 287.
427. Villehardovin dice duecento, ciò che deve credersi assai esagerato. Dice altrove che v'erano quattrocento mila uomini in Costantinopoli, d'altra parte l'armata crociata sembra che fosse ridotta alla metà del suo primitivo numero, e per l'assenza di coloro che mai non giunsero a Venezia, e non pagarono il prezzo convenuto, e per la diserzione di molti. Può dunque ritenersi di sedici mila uomini, cioè dieci mila fanti, due mila cavalli e quattro mila sergenti, senza contare i Veneziani. Tre mesi dopo Villehardovin fa montare i crociati a 200,000 uomini compresi i Veneziani, c. 153. p. 42.
428. Villehard. c. 84, p. 26.
429. Il 17 luglio 1203. Nicet. in Alex. l. III, p. 228.
430. Εἰ καί προς τῶν ἐπικȣρων Ρωμαίοις Πίσσάτων, καί των πελεκύρων Βαρβάρων γεοναιότερον ἀπεκρούθησαν. Nicet. Choniates ann. l. III, p. 288.
431. Villehard. 93, p. 29.
432. Nicetas Choniates in Alexium l. III., p. 289.
433. Nicetas Choniates in Alexium l. III, p. 289.
434. Nicet. in Isaacum, et Alex. Angelos § 1. p. 291.
435. Villehard c. 95.-96, p. 30.
436. Nicetas Choniates in Isaac. et Alex. § I. pag. 292.
437. Ib. p. 293.
438. Villehard. § 107.-108, p. 33.
439. Nicetas, § 3. p. 295.
440. Villehard. § 105.-106. p. 33.
441. Villehard. § 112 p. 35.
442. Gesta Innoc. III, § 92. p. 534. Villehardovin non pertanto non parla di questi trattati.
443. Nicetas Chon. in Isaac. et Alex. § 4.-5.
444. Nicetas Choniat. in Murzuflum § I, 299.-300.
445. Villehard. § 118, 119. p. 37.
446. Essi domandarono cinquanta centinaja d'oro, che dietro il calcolo di Gibbon sono 50,000 libbre pesanti d'oro, ossiano 48,000,000 di franchi.
447. Villehard. § 126. p. 39.
448. Balduin. Ep. ad pontif. De Gestis Innoc. III, p. 535.
449. Villehard. § 128. p. 40.
450. Bald. ad pont. Inn. III, § 92. p. 535.
451. Nicetas Chon. in Murzuflum, c. 2. p. 301.
452. Veggasi questo trattato nelle note alla cronaca di Dandolo, p. 326.
453. Nicetas Choniates in Murzuflum. § 4. p. 303.
454. Nicetas Choniates Constantini status, § 2. p. 310.
455. Nicetas Choniates in Balduin. Flandrum § II. p. 340.
456. Ισοπολιτειαν. Nicetas Const. Status, § 5. p. 313.
457. Villehard. § 135. p. 42. In un'altra edizione leggesi 400,000; la maggiore delle due somme equivale a ventiquattro milioni, con cinquanta mila marche, o due milioni quattrocento mila dovute ai Veneziani, e la parte di questi, fa montare a 50,400,000 il valor totale del bottino diviso. Altrettanto probabilmente era andato a profitto particolare. I tre incendj che avevano consumata più di mezza la città, avevano distrutte altrettante e più ricchezze, e nella profusione che seguiva il saccheggio, i più preziosi effetti avevano talmente perduto di valore, che il profitto de' Latini non equivaleva forse al quarto di quanto costava ai Greci. E per tal modo Costantinopoli avanti di essere attaccata possedeva probabilmente per 690,000,0000 di ricchezze.
458. Rhamnusius l. III, p. 136 citato nelle osservazioni sull'istoria di Villehard. p. 155, nomina i Veneziani, Vitale Dandolo, Ottone Querini, Bertuccio Contarini, Pantaleone Barbo e Giovanni Baseggio. Dand. in Chron. l. X, c. 3. p. 35. p. 330.
459. Gregor. Arcopolita Hist. c. 4.-9.-etc. Hist. Byzant.
460. Il nome di Bulgari leggermente alterato da Villehardovin coll'ommissione d'una sola vocale, ne disvela l'origine d'un epiteto ingiurioso, che ai tempi delle crociate era nome d'una nazione, ma d'una nazione rispettabile e feroce.
461. In notis ad Chron. And. Danduli p. 328.
462. Rannusio, De Bello Constan. l. IV, p. 162, si sforza di rettificare e spiegare questa divisione dell'Impero.
463. Il cambio fu convenuto il 12 agosto 1204. Hist. de Costant. sous les emp. Franc. par Dufresne Ducange, l. I.
464. Dufresne du Cange Hist. de Costant. l. II. — Rhamnus. de Bello Costant. l. VI, p. 272.
465. Nicet. Choniat. in Bald. Flandrum § 10. p. 337. Gli Annali di Genova parlano di tali conquiste, come di affari privati d'Enrico conte di Malta, cittadino genovese, ch'erasi reso padrone di Malta, che gli serviva per esercitare la pirateria. Ogerius Panis Contin. Caffari An. Genuen. l. IV, ad an. 1206, 1209, p. 394.-400.
466. Congedandomi per lungo tempo dagli storici bizantini, soggiugnerò alcune osservazioni intorno a quelli di cui ho fatto uso in questo capitolo. Abbiamo avuta la fortuna di poter esaminare quattro ragguardevoli autori, quasi tutti contemporanei, cadauno de' quali scrisse con opposte mire per quattro differenti nazioni. Niceta, senatore di Costantinopoli, e grande logoteta dell'Impero, rifugiatosi a Nicea dopo la ruina della sua patria, scrisse la storia degl'imperatori de' suoi tempi dalla morte d'Alessio Comneno fino al Baldoino di Fiandra. A fronte della inopportuna sua eloquenza, della ricercatezza dello stile, e forse anco delle sue esagerazioni, vuol essere annoverato tra i buoni storici di Costantinopoli. Le particolari sue sventure, aggiunte a quelle della sua patria, rendono ancora più interessante la sua storia. Rispetto a questo storico, ed agli altri che hanno scritto in altre lingue, mi sono fatto un preciso dovere di esaminare il testo originale, e di non citare che le mie traduzioni. I miei lettori conoscono oramai sufficientemente le azioni, il carattere e lo stile di Goffredo Villehardovin, lo storico francese della crociata. Questo valoroso soldato, l'amico del venerabile Dandolo, e del marchese-re Bonifacio, nella spartizione dell'Impero orientale fu fatto maniscalco della Romelia, come prima lo era della Sciampagna: ebbe in feudo Messinopoli e Masianopoli nel regno di Tessaglia, e suo nipote dello stesso nome, giunto in Grecia dopo la presa di Costantinopoli, conquistò il principato dell'Acaja che trasmise alla sua discendenza. Anche i Veneziani hanno in quest'epoca il loro storico. È questi Andrea Dandolo discendente del vincitore di Costantinopoli, e doge anch'egli due secoli dopo. Non abbagliato dalla gloria della sua patria o della famiglia, riferisce imparzialmente i più importanti avvenimenti: ma questa sua scipita imparzialità, che ne fa essere forastieri in Venezia come nella Grecia, è un difetto forse più spiacevole che le appassionate esagerazioni di Niceta. La storia di Dandolo viene arricchita da importanti note, da diplomi e trattati riferiti per intero. Per ultimo, rispetto alla storia della crociata, l'anonimo autore della vita d'Innocenzo III ci mette sott'occhio tutto quanto può favorire gl'interessi degli ecclesiastici. Nel precedente capitolo ci siamo frequentemente valsi di questa vita, pubblicata la prima volta da Stefano Baluzio, la quale non arriva che all'anno undecimo d'Innocenzo. Forse l'autore morì prima del suo eroe: ad ogni modo sparse molta luce su questo pontificato, e contiene molti documenti originali, e fra gli altri le lunghe lettere che Baldovino imperatore di Costantinopoli scrisse al papa per giustificare la sua conquista e la sua elezione.
Ho citati pochi altri scrittori greci e latini, dai quali ho presi vari fatti, poichè non volli abusare della sofferenza de' miei lettori citando nomi di scrittori affatto inutili alla mia storia.
Nel quinto tomo della storia di Francia del Duchesne trovansi riportate alcune lettere scritte da Costantinopoli dal conte Ugo di san Paolo e dallo stesso Baldovino, le quali, sebbene nulla aggiungano di particolare ai fatti raccontati da altri storici, ne interessano per rispetto di coloro che le scrissero. Histor. Francor. Script. t. V, p. 272.-283. Due moderni scrittori Rahmnusius, de Bello Constantinopolitano, e d'Outreman, Constantinopolis Belgica, cercarono nelle voluminose loro opere di dare maggiore risalto, il primo alla gloria veneta, l'altro alla fiamminga.
467. Galvan. Flammæ Manip. Flor. c. 248, e 249. t. XI, p. 666.
468. Jacobi Malvecii Chron. Brix. distinct. VII, c. 96, p. 900.
469. Galvan. Flammæ Manip. Flor. c. 250. p. 667.
470. Chron. Astense, ab Ogerio Alferio edit. t. XI, p. 142.
471. Chron. Breve Cremon. t. VII, p. 640. — Joh. de Musis Chron. Plac. t. XVI, p. 458. — Chron. Parm. t. IX, p. 764.
472. Chron. Placent. p. 459.
473. Campi Cremona Fedele l. II, p. 42.
474. Annales Veteres Mutinensium t. XI, p. 58, ad ann. 1224.
475. Denina, Muratori, Tiraboschi ec.
476. Vedansi Annales Mutinenses ad an. 1188, 1200, 1211, 1214, 1226 ec. p. 55.-58. — Malvecius Chron. Brixianus, c. 100, 102. ann. 1223. p. 901. — Chron. Parmense ad ann. 1221. p. 764. — Memoriale Potestat. Regiensium, ann. 1229. t. VIII, p. 1106, ec.
477. Chron. Astense Agerii Alferii t. XI, p. 142, 143.
478. Se si trattasse di lire milanesi calcolando dietro il peso de' terzaruoli del 1250, sessanta de' quali facevano una lira, questa valerebbe trentaquattro lire, diecissette soldi, sei denari; e le 800,000 lire farebbero più di ventisette milioni e mezzo della nostra moneta. Confesso di non avere a quest'epoca verun dato sicuro intorno ed valore preciso della moneta d'Asti.
479. Tiraboschi Stor. della Letterat. Ital. t. III. l. 2, c. 7, § 10 e seguenti.
480. Tiraboschi t. IV, l. 1, c. 3.
481. Cronica di Bologn. di F. Bartol. della Pugliola l. XVIII, p. 251. — Annales Cæsenatens. t. XIV, p. 1093.
482. Chron. Mutinense t. XV, p. 559.
483. B. della Pugliola, Cronica di Bologna p. 253. — Mattei de Griffonibus Memoriale historicum de rebus bononien. t. XVIII, p. 109. — Ghirardacci, Istoria di Bologna, l. V, p. 140.
484. Giannoni, Historia Civile di Napoli, l. XVI. Introd.
485. Vedasi la sua lettera ad Onorio III datata il 16 degl'Idi di giugno del 1219, apud Oder. Raynald. 1219, § 7 e 8, p. 264.
486. Raynaldus, 1220, § 21, p. 275.
487. Richardi de S. Germano Chron. t. VIII, p. 992.
488. Ibid. p. 996.
489. Giann. Ist. Civile del Regno di Napoli l. XVII, c. 2, p. I. — Richardi de s. Germ. Chron. p. 996. — Gio. Villani l. VI, c. 14, t. XIII, p. 162. — Gli storici italiani confondono spesso Lucera con Nocera.
490. Giov. Villani Stor. Fior. l. VI, c. 1, p. 155.
491. Petri de Vineis Epistolae, l. III, ep. 10, 11, 12, 13, edizione di Basilea del 1566, p. 411 e seguenti.
492. Raynaldi Annales Eccles. 1218, § 11, pag. 1219, § 12 e seg., p. 265, 1220, § 55, p. 281 e 1221, § 10, p. 283. — Era questa la quinta crociata, condotta dai re di Cipro, di Gerusalemme e d'Ungheria, dal duca d'Austria, da quello di Bavier, ec. Si riunì in Acri l'anno 1217. La storia di questa infelice crociata fu scritta da Giacomo di Vitry, l. III, p. 1119 e seg., e da Oliverius Scholast. Coloniens. p. 1188. — Gesta Dei per Francos.
493. Richardi de S. Germano Chron. p. 1002. — Petri de Vineis Epistol. l. I, Lettera 21, p. 142.
494. Lettera di Gregorio IX ai vescovi del Regno presso Raynald. an. 1227, § 30, p. 341.
495. Conradus Abb. Usperg. Chron. p. 234.
496. Petri de Vineis epist. l. I, c. 23, p. 175.
497. Marini Sanuti Secreta Fidel. crucis l. III, p. XI, c. 11, p. 211.
498. Rayn. An. Eccles, 1228, § 5, p. 349. — Vita Greg. IX ex card. Arr. coll. p. 576. Sc. Rer. Ist. — Chron. Richar. de san. Germano, p. 1004.
499. Raynaldi, 1228, § 18, p. 352.
500. Bernardi Thesaurarii de acquisit. Terræ sanctæ t. VII. Rer. Ital. c. 207, p. 846. — Giannone l. XVI, c. 7. — Secreta. Fidelium Crucis Marini Sanuti l. III, p. XI, c. 12, p. 212.
501. Questo trattato viene riportato da Oderico Raynaldo all'anno 1229, § 15 e seg. p. 359.
502. § quarto del trattato.
503. Il papa cercò di confondere il tempio lasciato ai Musulmani con quello del santo sepolcro riservato ai Cristiani. In conseguenza di ciò accusò Federico d'avere acconsentito ad una profanazione; e tutti i posteriori storici, non eccettuati Muratori e Giannoni, furono tratti in errore dalle invettive degli ecclesiastici. Pure chiarissimi sono i termini del trattato; non lo sono meno quelli di Riccardo da san Germano: e l'interdetto pubblicatosi nella stessa chiesa del santo sepolcro, e l'incoronazione celebratasi nella stessa chiesa, provano evidentemente che trovavasi in potere dei Cristiani. Gibbon fu quello che avvertì questo volontario errore degli scrittori ecclesiastici.
504. Oder. Rayn. ad annum.
505. Chronic. Richardi de sancto Germano, p. 1007-1021.
506. Galvan. Flamma Manip. Florum t. XI, c. 253, p. 668.
507. Memorie della città e della campagna di Milano ne' secoli bassi del conte Giorgio Giulini vol. VII, l. I, p. 404. — Corio delle Istorie Milan. p. II, p. 88.
508. Ann. Eccles. Raynaldi an. 1226, § 26, p. 329.
509. Ibid. 1229, § 33, p. 362.
510. Bernard. Corio Storia di Milano, p. II, d. 90.
511. In Italia, ove questi settarj erano numerosi, chiamavansi Cathari, vocabolo che avevano preso essi medesimi dal Greco, corrispondente a quello di Puritani, che altri novatori presero alcuni secoli dopo.
512. Corio p. II, p. 94.
513. Qui solium struxit, catharos, ut debuit, uxit. — Memorie della città di Milano l. II, p. 469.
514. Devo parte delle idee che qui espongo all'eloquente Storia del Politeismo di B. Constant, che mi fu comunicata manoscritta dalla amicizia dell'autore.
515. Convien dire che il sig. Sismondi sentisse l'esagerazione delle presenti osservazioni, onde per non farsene garante, indicò l'opera da cui le aveva prese. Il lettore cattolico darà loro il peso che meritano. N. d. T.
516. Memorie della città e campagna di Milano, an. 1233, l. LI, p. 478-483.
517. Ricobaldi Ferrariensis Hist. Imperat. t. XI, p. 128.
518. Cronica di Bologna di F. Bartolameo della Pugliola t. XVIII, p. 257.
519. Rolandinus de factis in Marchia Tarvisana, t. VIII, l. III, c. 7, p. 203.
520. Gerardi Maurisii Vicentini Hist. t. VIII, p. 30.
521. Parisio da Cereta, autore coetaneo, dice che si trovarono a quest'assemblea più di 400,000 persone. Chron. Veron. t. VIII, p. 627. Il Tiraboschi che in un modo assai interessante trattò la storia di fra Giovanni, risguarda questo numero come esagerato. Stor. della Lett. d'Ital. t. IV, l. II, c. 4, § 6, p. 233. Ma io non trovo ragione per renderlo dubbioso.
522. Antonii Ledi Chron. Vicent. t. VIII, p. 80. — Riccardi Comitis s. Bonifacii vita t. VIII, p. 128. — Monachus Patav. Chron. t. VIII, p. 674.
523. Lettera di Gregorio IX a frate Giovanni ap. Raynald. an. 1233, § 37 e 37, p. 405.
524. L'atto stesso della pace, o a dir meglio quello di una delle paci dettate questo giorno da fra Giovanni, ci fu conservato da Muratori: Antiq. Ital. Diss. XLI, t. IV. p. 641. Quasi non contiene altra condizione, che il perdono delle ingiurie.
525. Gerardi Maurisii Hist. Vicent. p. 38.
526. Chron. Veron. Parisii de Cereta p. 627.
527. Intorno all'influenza di Giordano, vedasi: Rolandini ad an. 1228, l. II, c. 17, p. 197.
528. Stor. della Letter. Ital. t. IV, l. III, c. 5, § 24.
529. Talvolta i predicatori parlavano al popolo in latino, ossia litteraliter et sapienter: indi lo spiegavano in italiano, ossia maternaliter. Veggansi le Antich. Estensi ad an. 1189, t. I, c. 36.
530. Ciò s'intende facilmente ammettendo che la lingua dotta d'Italia non è il dialetto toscano, comechè di tutti il migliore, ma una lingua universale, a formare la quale concorsero più o meno tutti i dialetti. Veggansi tra gli altri Dante De vulgari eloquio, ed il bel dialogo di Pierio Valeriano da me pubblicato nell'Appendice del primo Tomo della Storia letteraria della Piave.
531. Lodovico Castelvetro in una sua erudita lettera, che sarà in breve pubblicata con molte altre tuttavia inedite, prova che Pietro delle Vigne, ed il giudice Colonna di Messina ec. scrissero poesie in provenzale ed in siciliano, niente in lingua italiana. N. d. T.
532. Tiraboschi p. IV, l. III, c. 3, § 5, p. 360.
533. Dantes Aligh. de vulgari eloquio c. 12.
534. Scrisse Dante che a' suoi tempi, cioè verso il 1300, non erano ancora passati 150 anni da che si era incominciato a scrivere in lingua italiana In vita nova. L'anno 1158 regnava ancora Ruggeri I, re di Sicilia. Pare che a' suoi tempi e ne' suoi stati si tentasse per la prima volta di far versi italiani. Suo nipote, Guglielmo II, accordò la sua protezione ai poeti: la sola azione che gli procurò il soprannome di buono.
535. Anche questo è detto poco cautamente perchè molti dialetti lombardi possono mostrare diverse opere stampate da qualche secolo, ed assai ne' tempi a noi più vicini. N. d. T.
536. Azzo VII regnò dal 1215 al 1264. — Rimangono tuttavia molti poemi de' trovatori italiani e provenzali fatti in onore delle dame di casa d'Este in principio del secolo XIII. — Tirab. l. III, c. 3. Muratori Ant. Est. t. II, p. 20. — Millot Hist. des Troubadours t. I, p. 278. t. III, p. 431, ec.
537. Tiraboschi t. IV, l. III, c. 2. p. 334.
538. Historia Urbis Mant. a Batt. Platina l. I, p. 680. Scr. Rer. It. t. XX. — Tirab, loc. cit. § 15, p. 342.
539. Roland. de factis in Marchia l. I, c. 3, p. 173.
540. Purgat. c. 6. v. 61. Nel libro de vulgari eloquio così parla di Sordello: ut Sordellus de Mantua qui tantus eloquentiæ vir existens non solum in poetando s sed quomodolibet loquendo patrium vulgare deseruit. c. 15.
541. Non si può non desiderare di conoscere qualche saggio delle poesie di Sordello, non fosse altro che per confrontare il provenzale coll'italiano. Molti pezzi da me non veduti si conservarono in un MS. dell'anno 1254 nella libreria di Modena, ove dimenticai di farne ricerca. Eccone uno assai breve riportato dal Lambeccio nelle sue note alla storia di Platina, t. XX. Rer. It. 681. È intitolato: Tensa de Sordel et de Peyre Guilhem; ossia sfida di Sordello e di Pietro Gulielmo.
Guilhem.
En Sordel que vas en semblan
De la pros contessa preysan?
Car tout dison et van parlan
Que per s'amar etz ia vengnutz,
E quen cujatz esser sos drutz
En blanchatz etz por ley canutz.
Sordel.
Peyre Guilhem, tot sot son affan
Mist Dieu in ley far per mon dan.
Les beautatz que las autraz an
En menz, et el pres son menutz.
Ans fos ab emblanchatz perdutz
Che esso non fos advegnutz.
Guglielmo.
E ben, Sordello, che ve ne pare di quest'amabile contessa sì pregiata? perchè tutti dicono che il suo amore vi tien qui, che voi credeste poter essere il suo amante, e che per lei vi s'imbiancano i capelli e vi abbandonano le forze.
Sordello.
Pietro Guglielmo, Dio pose in lei ogni suo studio per farne il mio tormento. Le beltà delle altre non sono nulla, piccolo ne è il prezzo. Foss'io piuttosto sorpreso dalla vecchiaja, che provar quel ch'io provo.
Il rimanente del poema manca: ma basta questo per dare un saggio della lingua, e delle prime regole che adottarono i poeti per la forma delle stroffe, e per la struttura dei versi. Ne feci la traduzione in grazia di coloro che non hanno troppa pratica de' nostri antichi autori.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (Brunswich/Brunswik e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
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