Title: Storia delle scienze ad uso dei licei scientifici
Author: Corrado Barbagallo
Release date: October 1, 2024 [eBook #74502]
Language: Italian
Original publication: Milano: Dante Alighieri
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)
CORRADO BARBAGALLO
STORIA DELLE SCIENZE
AD USO DEI LICEI SCIENTIFICI
* * Scienza: obietto e metodo. — La scienza nell’Oriente classico. — La scienza nella Grecia classica ed ellenistica. — La scienza nel periodo romano. — La scienza araba e cristiana medievale. — La scienza nel Rinascimento (secc. XV-XVI). — La scienza nell’evo moderno (i secc. XVII-XVIII). — La scienza nell’età contemporanea (i secc. XIX-XX) * * * * *
MILANO-ROMA-NAPOLI
SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
DI
ALBRIGHI, SEGATI & C.
1925
PROPRIETÀ LETTERARIA DELLA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
DI
ALBRIGHI, SEGATI & C.
Le copie non firmate si ritengono contraffatte.
Città di Castello, Tipografia della Casa Editrice S. Lapi.
Un punto del programma di filosofia dei nuovi Licei scientifici riguarda appunto la storia della scienza. A questa esigenza credo risponda non indegnamente il presente volumetto.
Quale per me sia stata la difficoltà della trattazione, tutti gli insegnanti di materie filosofiche e storiche capiranno, e mi saranno (ne sono sicuro) assai grati per i resultati raggiunti. Essa consisteva nella insufficente conoscenza — per definizione! — del contenuto scientifico della materia, di cui occorreva esporre lo svolgimento secolare. Questa conoscenza ho dovuto, meglio che mi è stato possibile, conquistare ex novo. Taluno potrà forse giudicare troppo estesa la narrazione assegnata alla scienza greca. Se così egli pensasse, voglia credere che ciò è avvenuto ad intenzione. Il valore della scienza greca, nella storia del pensiero umano, è incalcolabile, come sa chi vi si accosta da vicino, e io non potrei meglio scagionarmi dall’ipotetico appunto se non adoperando le parole di uno dei massimi storici della filosofia — il Windelband —: «Se poi qui sembri assegnata all’antichità una parte considerevole dell’opera, ciò è dipeso dal convincimento che, per una comprensione storica della nostra esistenza intellettuale, l’elaborazione dei concetti, raggiunta e data dallo spirito greco, nella natura e nella vita umana, è più, importante di tutto ciò che d’allora in poi è stato pensato».
Compio il mio dovere, ringraziando il professore Dionisio Gambioli, uno dei pochi studiosi italiani di storia delle scienze, dell’aiuto che mi ha pôrto nella revisione di questo lavoro.
C. B.
Prefazione | Pag. V |
Introduzione | 1 |
La scienza nell’Oriente classico | 4 |
La scienza nella Grecia classica ed ellenistica | 14 |
La scienza nel periodo romano | 51 |
La scienza araba e cristiana medievale | 65 |
La scienza nel Rinascimento (secc. XV-XVI) | 71 |
La scienza nell’evo moderno (i secc. XVII-XVIII) | 111 |
La scienza nell’età contemporanea (i secc. XIX-XX) | 149 |
[1]
1. Scienza: obietto e metodo. — La «scienza», di cui intendiamo disegnare la storia nelle pagine che seguono, non è da identificare con la semplice conoscenza, e neanche con ogni forma di sapere. Una storia della «scienza», in questo secondo significato, sarebbe una storia universale del pensiero umano in tutti i suoi aspetti: filosofico, scientifico, artistico, politico, economico ecc. ecc. Neanche la semplice conoscenza è scienza. L’obietto proprio del riassunto che segue sarà invece la storia dello svolgimento delle scienze della natura, intese nel senso più largo,[1] le quali concernono i fenomeni che l’antichità e il Medio Evo definirono esattamente physicà (cose della natura materiale), contrapponendoli a metafisicà (problemi riguardanti l’al di là della natura sensibile).
Questa conoscenza della natura diviene scienza, allorchè le nostre cognizioni intorno ad essa si fanno organiche e metodiche, non si limitano all’accertamento di un fatto, o di più fatti, ma badano a ritrovare le loro connessioni intime, le condizioni necessarie, per cui quei fenomeni avvengono, in una parola, la loro legge.
Naturalmente, in questa ricerca delle leggi dei fenomeni, di cui, talvolta, parecchie discendono da una o da [2] più leggi generali, che anch’esse è possibile stabilire, succede alla scienza di entrare in contatto con la metafisica e con la religione, due discipline, il cui compito specifico è perseguire il fine e l’essenza delle cose. Sarà ciò che osserveremo più volte, ed alla cui considerazione non potremo sfuggire per le connessioni intime che tale ricerca ebbe, ed ha ognora, con quella scientifica. Ma bisognerà sempre tener presente che questo campo superiore non è quello proprio della scienza, la quale intende solo a riguardare le leggi delle concomitanze e delle successioni costanti dei fenomeni.
— Elemento importantissimo della scienza è il metodo. Parrebbe a prima vista che ci debbano essere due categorie di scienze: quelle che deducono le loro leggi da principii più generali ed evidenti, come le matematiche, scienze (si dice) di puro ragionamento, e quelle della natura, in cui si osserva la realtà, se ne sperimentano i fenomeni, si inducono da questi leggi generali, e poi si torna, finchè si può, a sperimentarle.
Ma è semplice illusione. Le matematiche presentano i loro resultati in forma deduttiva, ma anch’esse si formarono, ottennero i loro resultati fondamentali attraverso la osservazione e la successiva induzione. Viceversa, anche la deduzione è usata largamente nelle scienze della natura, allorquando, da una certa legge, ricavata in seguito ad osservazioni, si deducono gli effetti possibili, o quando, da una ipotesi, si deducono conseguenze, che dovranno poi essere sperimentate. Ogni scienza, può dirsi, ha una fase induttiva in cui l’osservazione tiene il primo posto, e una fase deduttiva, in cui l’osservazione serve solo a controllare (non più a suggerire!) la legge. O, per parlare con maggiore precisione, nel lavoro scientifico, induzione e deduzione (ovverosia osservazione, e cioè la considerazione dei fenomeni, che avvengono fuori di noi allo stato naturale; ragionamento, e cioè il lavoro del pensiero per iscoprirne i varii rapporti; esperimento, e cioè la ripetizione [3] artificiale e consapevole del fenomeno osservato), sono processi inseparabili e necessari. E, come vedremo, la scienza ha potuto avanzare solo allorquando fra questi processi s’è avuto perfetto equilibrio; ha vaneggiato o s’è arrestata, quando la preferenza per uno solo di essi ha fatto trascurare gli altri.
Le scienze classiche degli antichi furono: astronomia, matematica, fisico-chimica,[2] medicina, zoologia e botanica. Noi esporremo la storia della scienza tenendo presente, per maggior chiarezza, anche per l’età medievale e moderna, questa classificazione. Avvertiremo però quali mutamenti siano, dall’evo antico ad oggi, avvenuti in codesta partizione della scienza, e ne accenniamo qui anticipatamente i due principali: talora, la suddivisione di alcune di queste scienze in altre, divenute ormai indipendenti; tal’altra volta, l’intreccio, in uno solo, di più di uno di questi rami, che ha dato luogo a scienze, che oggi, anch’esse, hanno una personalità indipendente.
[4]
2. Nell’Egitto antico. — Le due scienze, particolarmente coltivate dagli Egizi, furono l’astronomia e la medicina. Lo studio dell’una e dell’altra venne suggerito da ragioni pratiche. Quelle della medicina sono facili a intendere; quelle dell’astronomia si collegano con la coltivazione del suolo, tanto curata in Oriente, e che rimane soggetta all’influenza del cielo e delle stagioni. Lo studio dell’astronomia venne poi, a quegli antichi, singolarmente agevolato dalla straordinaria trasparenza dell’atmosfera, che faceva scorgere a occhio nudo le stelle anche di 4ª e 5ª grandezza, e dal clima mitissimo, che permetteva di vivere a lungo all’aperto.
A). Astronomia. — Gli Egizi tengono il primo posto, fra gli antichi popoli orientali, nello studio dell’astronomia. Essi favoleggiavano che il Dio Theut avesse loro insegnato tutte le arti e tutte le scienze.
I sacerdoti egizii crearono ovunque nei loro templi scuole di astronomia e vi stabilirono veri e propri osservatori. I sacerdoti del Sole studiarono in particolare il sole e giunsero a fissarne la carta. Poco a poco, grazie a questo studio universale, e a questa vera e propria collaborazione [5] dei sacerdoti-astronomi dei varii templi, l’Egitto del periodo tebano, verso i secc. XVIII-XVII a. C., potè vantare la sua carta del cielo.
Gli Egizi antichi studiarono anche la luna; misurarono e divisero il tempo in mesi, calcolati sulle fasi della luna, di 30 giorni l’uno, e fecero perciò l’anno di 360 giorni (anno lunare). Quest’anno fu distribuito, a sua volta, in tre stagioni (di 4 mesi l’una), corrispondenti alle tre fasi agricole del Paese: l’inondazione del Nilo, la raccolta, la seminagione.
Ma notarono bene le differenze tra l’anno regolato sulle fasi della luna e l’anno regolato sul corso del sole, più lungo di 5 giorni e 1⁄4.[4] Cercarono di rimediare a tale divario, aggiungendo all’anno lunare dei giorni intercalari, e alla fine adottarono — forse per primi — l’anno solare.
Probabilmente gli antichi Egizi conobbero altri particolari fenomeni astronomici: per es., questo, che il circolo, descritto dal giro annuale del sole sulla sfera celeste — quello che diciamo eclittica, perchè le eclissi hanno luogo quando la luna è in essa o vicina ad essa — fa un angolo di 23°, 52′ con l’equatore celeste, che si dice appunto l’obliquità dell’eclittica. E dovettero — anch’essi — notare che gli equinozi e i solstizi cadono gli uni quando l’eclittica solare incontra l’equatore celeste; gli altri, quando il sole raggiunge la sua massima distanza dall’equatore.
Pur troppo, come tutti gli Orientali, gli Egizi non isfuggirono al pericolo di confondere l’astronomia con la magia e con l’astrologia, e anch’essi credettero che ogni giorno avesse una potenza sua speciale, che bisognava o fuggire o assoggettare alla potenza umana. Questa fu, anzi, per gli Egizi la vera scienza; l’altra, tutto il complesso delle loro osservazioni e notazioni positive di astronomia, che tanto oggi apprezziamo, fu, per essi, come il [6] cascame, il resultato, imprevisto e trascurato, della «vera» scienza.
B). Medicina. — Gli Egizi ebbero anche scuole numerose di medicina, in cui si insegnava a diagnosticare e curare le malattie. Pur troppo, l’eccessivo rispetto, per motivi religiosi, dell’integrità del corpo umano impedì loro di dedicarsi alla anatomia. In compenso, la loro medicina fu piena del concetto di spiriti vitali, che presiedessero a tutte le funzioni organiche, e, in pratica, le loro cure furono grossolanamente empiriche, esclusivamente sintomatiche, senza che mai i loro medici riuscissero a cogliere e curare la causa del male. Vigeva però, in questa scienza, una grande specializzazione.
C). Matematiche. — Per molto tempo si è creduto che gli Egiziani avessero coltivato l’aritmetica e la geometria[5] solo per degli scopi pratici, come quelli del fare i conti e di misurare i campi, per cui avrebbero adottato un sistema di misure, analogo al nostro decimale. Ma tale giudizio sull’importanza della matematica, presso gli Egizi, è assolutamente errato. I vari Papiri matematici[6] egizi, che noi oggi conosciamo, e che ci dànno una chiara idea della coltura matematica dal 3000 al 500 circa a. C., ci mostrano questa scienza in pieno sviluppo presso quel popolo.
Essi conoscevano il calcolo delle frazioni, le equazioni di primo grado a un’incognita, possedevano nozioni di geometria ecc. Gli Egizi, dunque, pervennero, in questa [7] scienza, in epoca remotissima, a uno stadio assai elevato. Soltanto, le loro cognizioni matematiche, dopo il 3000 rimasero stazionarie, non progredirono più, probabilmente perchè le loro scoperte matematiche (come anche quelle delle altre scienze) venivano registrate nei loro libri sacri, a cui, in conseguenza, non fu più lecito apportare modificazioni.
D). Chimica. — Una scienza, o, piuttosto, una tecnica che nell’antichità preellenica, sembra essere stata particolare degli Egizi è la chimica, il cui nome è forse egiziano. Questo probabilmente si dovette alla copia di metalli e pietre preziose, che gli antichissimi Egizi ebbero a disposizione e alla loro intensa attività industriale. Essi conoscevano, credendoli tutti minerali, l’oro, l’argento, l’elettro, il lapislazuli, lo smeraldo, lo stagno, il bronzo, il rame, il ferro, il piombo (non però il mercurio!). Ne conoscevano i diversi gradi di purezza, le possibili leghe dell’uno con l’altro. Confondevano però i metalli naturali con le leghe e con certi minerali, colorati e brillanti, naturali o artificiali. Tuttavia, ripetiamo, la chimica degli Egizi (come di tutti i popoli antichi), più che scienza, fu arte pratica industriale. Essi erano abilissimi nel fabbricare e tingere il cuoio e il vetro, nel tingere il cotone, nel temprare l’acciaio, nel fabbricare perle e gemme artificiali,[7] smalti, nel lavorare i differenti metalli. Inoltre avevano notizia di numerose altre sostanze — amido, acido acetico, canfora, bitume, nafta, carbonato di sodio ecc. ecc. — e se ne servivano per gli stessi scopi, per cui oggi noi ce ne serviamo.
Essi, dunque, conoscevano numerose operazioni di chimica. Ma quale si fosse la maggior parte di queste operazioni noi non sappiamo, al solito, perchè le loro industrie erano monopolii statali o di collegi sacerdotali, e i [8] loro metodi venivano, quindi, circondati da un geloso segreto, assai più che molti procedimenti industriali dei nostri giorni.
D’altra parte, la mancanza della libertà di comunicarsi a vicenda i fatti osservati, nel che consiste una delle principali ragioni dell’accrescimento della scienza moderna, ne impedì il progresso presso gli Egizi. Onde, se la chimica fu arte di pratici, non fu mai, in Egitto, vera scienza, nè dette luogo, come in Grecia, a speculazioni sulla natura, sull’essenza della materia e sulle sue origini.
3. In Caldea: A). Astronomia. — I Caldei, ossia i Babilonesi, coltivarono non meno intensamente degli Egizi l’astronomia. Essi osservarono e notarono un cumulo enorme di fatti astronomici: lo stato del cielo in ogni notte di ciascun anno, l’aspetto delle costellazioni, il corso degli anni, il corso e le eclissi solari e lunari. Alessandro, entrando in Babilonia nel 332 a. C., vi trovò annali astronomici che rimontavano al 2234 a. C. Ma, più che tra gli Egizi, tutta questa scienza fu, presso i Caldei, contaminata di misticismo. Per i Caldei, cioè, lo studio dei fenomeni era nulla. L’importante era la ricerca delle divinità, che vi presiedessero, nonchè dei mezzi per conquistarne le volontà. E questa è vera e propria magia o astrologia o scienza (diciamo così) delle profezie.
Ad ogni modo, i fenomeni, notati dai Caldei, erano un elemento positivo che non poteva andare trascurato, e che li traeva naturalmente a indurne delle leggi generali. Tale fu, ad es., quella, preziosa, del riprodursi delle eclissi totali di sole a periodi di 18 anni e 10 od 11 giorni.[8]
Come gli Egizi, i Caldei misurarono dapprima l’anno secondo le fasi della luna (anno lunare), dividendolo in 12 mesi eguali di 30 giorni. Poi pervennero a calcolare il più lungo anno solare, e, per la misura del tempo, inventarono l’orologio solare e l’orologio ad acqua.
[9]
L’astronomo, che divulgò nel mondo greco la scienza» caldea fu Beroso, un caldeo ellenizzato, che, in sullo scorcio del IV secolo a. C., fondò una scuola astronomica nell’isoletta di Cos. Dall’astronomia caldaica i Greci trassero numerose e preziose cognizioni, che mirabilmente sfruttarono e fecondarono.
B). Medicina; Matematica. — Quanto alla medicina, i Caldei rimasero molto addietro in confronto agli Egizi, chè, assai più che dedicarsi allo studio positivo delle malattie, essi si compiacquero di applicare ai malati riti e formule magiche, nella illusione di curarli.
— Anche i progressi dell’aritmetica e della geometria furono, presso i Caldei, secondo sembra, minori che presso gli Egizi, giacchè quelle due scienze servivano loro per iscopi esclusivamente pratici. I sistemi di misure, da essi adoperati, furono quello decimale e quello sessagesimale, in cui l’unità è divisa in 60 parti o in multipli e sottomultipli di 60 (come, ad es. la nostra ora, il circolo). Conoscevano però le così dette progressioni, aritmetica e geometrica,[9] le frazioni; possedevano nozioni elementari di geometria e pare che nella notazione dei numeri facessero, come noi, uso del valore di posizione, ossia assegnassero ai numeri un diverso valore a seconda del posto occupato dalle cifre che li compongono.
4. Le scienze presso gli altri popoli orientali. — La scienza degli altri popoli dell’Oriente classico (Assiri, Ebrei, Fenici, Iranici, Indiani), che per altro noi conosciamo [10] confusamente, non vanta — sembra — alcuna originalità. Essa fu attinta per intero a Caldei e ad Egizi, e non ebbe uno sviluppo indipendente. Ciò si dovette dapprima all’impero politico, che Egizi e Caldei esercitarono lungamente su gran parte delle restanti popolazioni orientali; poi, alla unificazione che dell’Oriente classico fece l’Impero persiano, nella seconda metà del sec. VI a. C.
Solo gli Indi — abitatori della metà superiore della penisola dell’Indostan — mantennero una civiltà indipendente. Ma i loro progressi scientifici rimasero ben lontani dall’altezza da essi stessi raggiunta nel campo della letteratura e della filosofia. Memorabile è solo, per noi, la loro matematica. Essi usarono le cifre che noi diciamo arabiche (perchè trasmessici dagli Arabi), che tanto, al confronto della numerazione, romana, hanno agevolato i calcoli aritmetici, perchè in esse il valore dei numeri dipende dalla posizione delle cifre che li compongono, e tra esse v’ha un segno speciale per indicare l’assenza di ogni unità: lo zero.
Ma questa sarebbe ben piccola cosa. Assai più importante è il fatto che gli Indi furono i veri perfezionatori dell’aritmetica e i creatori dell’algebra,[10] che pure rimase ignota ai Greci sino al tardo periodo romano.[11] Anche i Greci, vedremo, furono maestri in matematica; ma il loro genio si rivelò principalmente nella geometria, nello studio, cioè, delle forme, non dei numeri. In conseguenza la matematica moderna, sebbene, non influenzata direttamente dalla matematica indiana, è, nel suo spirito, più vicina a questa che non alla scienza greca.
[11]
Ma, come dicevamo, gli Indi rimasero quasi isolati nello sfondo delle civiltà orientali più antiche, all’incirca tanto quanto quel popolo orientale, non classico, nè di razza caucasica, che furono i Cinesi, i quali pervennero a parecchie delle scoperte scientifiche cui il mondo doveva giungere più tardi, ma senza avere la fortuna di comunicarle altrui.
Viceversa, una parte importante nello scambio della coltura scientifica, specie di quella suscettibile di applicazioni pratiche, la matematica commerciale e la chimica, ebbero i Fenici, la cui breve civiltà si svolge tra il crepuscolo dell’età micenea e l’aurora della civiltà greca (XIII-VIII sec. a. C. circa).
Ma l’importanza di tutta la scienza orientale è di avere costituito il terreno storico, da cui spiccherà il suo volo superbo la scienza greca. Questa scienza, appunto, si inizierà nelle contrade orientali, sulle coste dell’Asia Minore, colonizzate dagli Elleni, e tutti gli scienziati greci dell’età classica attingeranno largamente alla Caldea, all’Egitto, persino all’India, di cui leggeranno i libri, interrogheranno i sapienti, studieranno con religione le dottrine.
5. La scienza etrusca. — Ma per un’altra via la scienza orientale influì sull’Occidente: attraverso la coltura etrusca, ossia con la migrazione, dall’Oriente, nell’Italia antica, della civiltà degli Etruschi, popolo, intimamente penetrato di coltura orientale. Quivi, infatti, nell’Italia antica, la scienza etrusca dominò nettamente, dal X o IX sec. a. C., il mondo, italico e romano, fino a che non vi rimase soverchiata dalla scienza greca.
A). Astronomia e fisica. — Come gli Egizi al dio Theut, così gli Etruschi credevano di essere debitori degli elementi di tutte le scienze a Tagete, semidio meraviglioso, incarnazione quasi della Intelligenza.
Anch’essi studiarono l’astronomia. Fu questo còmpito dei sacerdoti etruschi (come lo era stato di quelli egizi e [12] caldei). La studiarono, al solito, e ne notarono scrupolosamente i fenomeni, a fine di penetrarne il significato, e trarne insegnamenti per l’avvenire. Ma, dalle continue, sistematiche osservazioni, essi non solo ricavarono la conoscenza di un mondo di fenomeni celesti, ma finirono con avvertirne i legami, le leggi che li regolavano. Essi giunsero così a conoscere il corso degli astri — specie del sole e della luna —, a determinare l’anno solare, a dividere questo in mesi e a ripartirne i mesi in periodi minori, così come insegnarono ai Romani.
L’osservazione degli Etruschi si stendeva anche a molti fenomeni dell’atmosfera: piogge, venti, uragani, nubi, e specialmente i fulmini. Onde essi per tal modo gettarono le fondamenta della meteorologia (studio dei fenomeni atmosferici). Compilarono in proposito calendarii, con indicazioni meteorologiche, riguardanti l’intera annata; conobbero taluni degli effetti chimici della elettricità (per es. il cangiamento dei colori, prodotto dal fulmine), tennero diarii del ripetersi dei tuoni, notarono come l’Italia, in quanto penisola assai allungata, fosse più di altri Paesi, adattissima alla generazione dei fulmini ecc. ecc. E se la scienza astronomica e meteorologica degli Etruschi non fece ulteriori progressi, ciò si dovette, al solito, all’essere stata l’attenzione degli studiosi distratta dall’osservazione dei fenomeni e rivolta alla inutile ricerca dei loro arcani significati.
Ma la fisica fu concepita specialmente dagli Etruschi come scienza pratica, come scienza di applicazione. Perciò furono maestri in quel ramo di questa disciplina che si denomina meccanica. Le loro mirabili costruzioni di vòlte, l’uso delle colmate per prosciugare le paludi, i molini a braccia, ecc. presuppongono numerose nozioni, specialmente di meccanica.
B). Chimica. — Lo stesso è a dire della chimica: tutto il complesso delle notizie che noi possediamo sulla vita etrusca, sulla direzione delle loro conquiste, sulla loro [13] attività industriale, c’impone il convincimento che essi dominassero la chimica non meno profondamente degli Egizi.
C). Medicina. — La medicina etrusca (come quella caldaica) fu traviata da pregiudizi mistico-religiosi. Essa era considerata come arte sacra concessa all’uomo per rivelazione, e perciò affidata ai soli sacerdoti. Tuttavia gli Etruschi riuscirono a conoscere, la virtù curativa di molte piante, e seppero estrarne i farmaci; conobbero la virtù di molte acque. E la stessa arte degli arùspici, sacerdoti incaricati di ricercare nelle viscere degli animali i segni, onde preveder l’avvenire, fu, per gli Etruschi, un ottimo mezzo, con cui acquistare indirettamente cognizioni anatomiche sul corpo umano. La stessa arte etrusca rivela nelle sue rappresentazioni questa conoscenza realistica del corpo degli animali.
[14]
6. Le origini: gli Ionici (sec. VII-primi del sec. V a. C.). — Mentre la civiltà etrusca irrompeva nel mondo romano (secc. VIII-VI a. C.), nasceva la prima scienza greca.
Nasceva, non già nella Grecia peninsulare, ma nelle contrade del mondo ellenico più vicine alle influenze orientali, fra i Greci delle colonie d’Asia Minore, la parte del mondo greco allora più evoluta, economicamente e culturalmente. Ma la differenza tra la scienza orientale e la scienza degli scienziati-filosofi greci di questo tempo consiste in ciò: la prima ha caratteri troppo empirici e, insieme, troppo superstiziosi; raccoglie osservazioni, abbondanti, ma slegate, e se ne serve per erigervi sopra un mondo di misticismi e di superstizioni; la scienza greca, invece, si affretta a ricavare dai fenomeni osservati, e per via del ragionamento, una concezione della vita e del mondo, affatto indipendente dalle antiche rivelazioni religiose. Ciò che manca a questa scienza, e la fa, talora, precipitare nella vana imaginazione, è l’abito, lo scrupolo di provare e riprovare le leggi che essa formula, le sue ipotesi. Essa però, molte volte, ha coscienza che di ipotesi provvisorie veramente si tratta, non di sicure dottrine scientifiche.
Gli scienziati-filosofi dei secoli VII e VI e dei primi lustri del sec. V a C. sono Talete di Mileto, Anassimandro di Mileto, Anassimene di Mileto, Eraclito di Efeso, [15] Pitagora di Samo, Senofane di Colofone, Parmenide di Elea:[12] tutti, come si vede, salvo uno (Parmenide) originari delle colonie greco-asiatiche.
A). La scuola ionica. — Talete (secc. VII-VI a. C.) fu matematico e astronomo. Gli antichi lo celebravano per aver egli predetto un’eclissi totale di sole (probabilmente quella del 19 maggio 557 a. C.).[13] Ma tale predizione, noi sappiamo, non era punto una novità presso gli Orientali (cfr. § 3). Che il mondo degli astri si reggesse secondo leggi immutabili era un luogo comune della scienza egizia e caldea, e Talete, educato a questa scuola, non fece che ripeterlo tra Greci. Riuscì anche (ci raccontano gli antichi) a misurare l’altezza degli oggetti inaccessibili, paragonandone l’ombra con quella di un altro oggetto piccolo, accessibile e misurabile, ossia osservando che la lunghezza dell’ombra dell’uno sta alla lunghezza dell’ombra dell’altro come l’altezza del primo, all’altezza del secondo.[14] Conobbe le proprietà elettriche dell’ambra, che, stropicciata, attrae i corpi leggeri, e quelle magnetiche della calamita. Ma tutte queste sono osservazioni slegate.
Più importante è la parte che Talete ebbe in un altro ordine di problemi.
Quale l’origine del mondo? Quale l’origine della vita? Ecco le due domande che si poneva (e a cui rispondeva) il racconto (il mito) religioso del tempo. Talete vi risponde, prescindendo completamente da questo. Risponde che l’elemento originario e fondamentale del mondo e della vita è l’acqua: l’acqua, che nutrisce le piante e gli animali, che sviluppa calore, che compone i semi vegetali e animali. Il mondo, dunque, sarebbe nato dall’acqua, ossia tutti gli elementi della vita si sarebbero svolti da una [16] fase primitiva in cui tutto era acqua. Si trattava di una ipotesi fondata sur un’osservazione superficiale e non suffragata di prove.[15] Ma cotale ipotesi si sforzava di assegnare all’origine del mondo un processo naturale, differente da quello inculcato dalla religione del tempo, e, sebbene per caso, essa coincideva con una delle dottrine scientifiche, oggi più diffuse sulla origine della vita.
Anassimandro sostituisce all’acqua qualcosa di meno materiale: un che d’«indefinito», di «indistinto», da cui sarebbero derivati la terra (al centro dell’universo), l’acqua e l’aria (quest’ultima in una cerchia più esterna rispetto all’acqua), e poi il fuoco, là dove brillano le stelle. Sono questi i quattro elementi, che saranno ritenuti semplici e primordiali sino alle scoperte della chimica moderna. Siamo, anche questa volta, di fronte a una spiegazione ipotetica dell’origine del mondo, suscitata da osservazioni frettolose della realtà, non cimentate ad alcuna prova. Ma anche questa spiegazione è indipendente da quella degli antichi miti religiosi, e vuol ritrovare la ragione del mondo nel mondo medesimo, non fuori di esso.
Anassimandro si propose anche il problema della origine dell’uomo. Egli immagina che l’uomo sia nato in un periodo in cui il nostro pianeta non era completamente [17] solidificato, e giaceva ancora in uno stato semiliquido. La specie umana sarebbe perciò stata in origine una specie acquatica, i cui germi avrebbero dapprima galleggiato sull’acqua, e poi si sarebbero dischiusi sulla terra. Più tardi, nelle nuove condizioni, di vita, essi avrebbero assunto vera forma umana.
V’è in questa concezione taluno degli elementi della moderna teoria del trasformismo, o evoluzionismo, vegetale e animale (cfr. § 40 A): in primo, quello dell’adattamento della specie alle condizioni dell’ambiente e la sua conseguente trasformazione. Ma non v’è il concetto fondamentale di quella dottrina: la derivazione delle forme, vegetali o animali, superiori dalle inferiori. D’altra parte, Anassimandro si propose solo il problema dell’origine dell’uomo, non quello, in genere, della origine delle varie specie animali e vegetali. Ond’è che, se a proposito di Anassimandro, di trasformismo volesse parlarsi, dovrebbe dirsi più propriamente che non è la sua teorica sull’origine dell’uomo, ma è la sua teoria cosmica dell’indistinto (donde sarebbero derivati i distinti elementi del mondo) quella che precorre la teoria dell’evoluzione, almeno secondo la formuleranno il filosofo inglese Erberto Spencer e l’italiano Roberto Ardigò nella seconda metà del sec. XIX.
Anassimandro ebbe anche delle vedute originali in astronomia. Per lui la Terra ha forma di disco circolare piatto; ma può reggersi nello spazio perchè egualmente distante da tutti gli altri punti; onde non v’è ragione che abbia ad accostarsi ad alcuno di essi. Può leggersi qui un’anticipazione, sia pur grossolana, della gravitazione universale?
Anassimene (588-524?), più giovane di Talete e di Anassimandro, torna a Talete, e pensa che principio delle cose sia uno solo degli elementi della materia. Non però l’acqua, ma l’aria, che si stende all’infinito, e sarebbe, nella sua essenza, qualcosa di identico all’anima umana. [18] Da essa, per via di condensazione e di rarefazione, ossia, attraverso modi diversi di aggregazione delle varie particelle, avrebbero avuto origine tutte le sostanze nei loro varii stati, solido, liquido, aeriforme. Egli stesso si propose, in modo più preciso, il problema dell’origine della vita organica, ossia delle piante e degli animali, e per primo formulò l’idea che tanta fortuna avrà talora, più tardi, e che anche oggi, sotto certe condizioni, la scienza torna ad ammettere: l’idea della generazione spontanea (ossia non da germi preesistenti) delle piante e degli animali, sotto l’influenza che il calore solare avrebbe esercitata sul primitivo fango terrestre.[16]
Per Eraclito di Efeso (vissuto intorno al 500 a. C.), principio universale è, non più l’aria o l’acqua, ma il terzo elemento, il fuoco, ossia il calore, che determina lo sviluppo della vita dell’universo. Ma questa è la parte meno interessante della sua dottrina. Il concetto più geniale è quest’altro: che tutte le cose della natura non giacciono in una condizione di stabilità, ma ondeggiano in un fluttuare perenne. Nulla sta, ma tutto si muove e trapassa eternamente in forme diverse. È questo, il principio cardinale della citata, moderna dottrina della evoluzione!
I quattro filosofi-scienziati, che abbiamo sopra ricordati, questi quattro primi «fisici» greci, come li denominò taluno degli antichi, appartengono tutti a un comune ambiente di coltura. Come accennammo, essi sono discepoli [19] di quella scienza detta ionica, fiorita presso un gruppo di colonie greche sulle rive dell’Asia Minore, e fondate specialmente da quegli Elleni che si dissero di stirpe ionica, e che dal loro nome chiamarono Ionia tutto il Paese occupato.
Presso questi pensatori noi non troviamo una distinta separazione di studii scientifici; essi sono un po’ di tutto: matematici, astronomi, chimici, fisici, botanici ecc. Non troviamo, neanche, dietro le loro speculazioni, un rigoroso procedere scientifico. Pure v’ha, di certo, nell’opera loro, non solo, come siamo andati rilevando, lo sforzo di affrancare il concetto del mondo, della sua esistenza, delle sue leggi, da qualsiasi ingerenza della divinità, ma altresì l’affermazione di talune intuizioni scientifiche, fondate sull’osservazione — per quanto scarsa e superficiale —, che rimarranno per secoli al fondo della scienza umana.
La più tenace fra essi è la dottrina dei quattro elementi semplici (acqua, aria, fuoco, terra), da uno o più dei quali, e dalle cui combinazioni e trasformazioni sarebbe nato l’universo, si sarebbe generata la vita. Questa dottrina, attraverso variazioni e oscillazioni, permane, come radicata, da Talete ad Eraclito. Ed essa travalicherà la scienza greca, e persisterà sino al fondatore della chimica moderna: il Lavoisier (cfr. §§ 31 B).
B). Pitagora. — Maggiore importanza dei precedenti ha Pitagora di Samo (seconda metà del sec. VI), nato anch’egli e vissuto, nei suoi giovani anni, in patria, ma che più tardi si recò nella Magna Grecia, e quivi, a Crotone, fondò una scuola, che, tramandata per molte generazioni, doveva essere una delle più gloriose dell’antichità e congiungere la coltura greco-orientale con quella dell’Occidente colonizzato dai Greci. Pitagora imprende a coltivare quella disciplina, che più scarsamente i filosofi ionici avevano studiata: la matematica, e che, per avere, meno delle altre, bisogno di esperienze e di strumenti scientifici, poteva più rapidamente e più sicuramente progredire. Pitagora è il ritrovatore di molte leggi matematiche, [20] riguardanti i numeri e le proporzioni; è, anzi, il creatore della aritmetica e della geometria greca. Egli distinse i numeri pari dai dispari, e ne dedusse parecchi teoremi: 1) le successive addizioni di numeri dispari danno, come resultato, i quadrati delle serie pari e dispari;[17] 2) la somma di numeri pari dà, come resultato, cifre che sono il prodotto di numeri successivi diversi solo di un’unità.[18] In geometria, risolse il famoso «teorema di Pitagora»: «in un triangolo rettangolo il quadrato della ipotenusa (il lato opposto all’angolo retto) è equivalente alla somma dei quadrati degli altri due lati (cateti)», e quest’altro: «Trasformare un poligono nel quadrato equivalente».[19]
Pitagora fu astronomo, non meno grande che matematico. Primo insegnò che la terra è di forma sferica, affermando così una delle fondamentali dottrine moderne e dominando, come vedremo, tutta l’astronomia antica. Egli ignora il movimento di rotazione terrestre, ma assegna alla terra un movimento di rivoluzione, non però intorno al sole, bensì intorno a un fuoco centrale, collocato nel mezzo dell’universo, che illuminerebbe anche il sole. Questo movimento di rivoluzione si compirebbe in 24 ore da ovest a est e, con la Terra, girerebbero, in una stessa sfera, i pianeti, il sole, la luna.
Pitagora fu anche fisico, e ci tramandò le prime leggi dell’acustica. In base ad esperienze sopra i suoni, resi da un bicchiere, più o meno pieno d’acqua, egli determinò quali lunghezze deve avere una corda perchè sia capace di rendere le differenti note della scala inimicale, e con quali pesi debba tendersi una corda perchè, a parità di lunghezza, renda ugualmente i suoni di codeste note.
[21]
Egli giungeva così al concetto, scientificamente esatto, che il suono è prodotto dalle vibrazioni, determinate nella massa dell’aria, dall’urto dei corpi sonori, e che la varietà dei suoni dipende dalla varietà delle onde sonore e dalla massa del corpo vibrante.
Studî analoghi egli fece anche sui suoni resi dai tubi, e dimostrò l’analogia, che esiste, fra questi suoni e quelli emessi da corde vibranti.
Ci troviamo, dunque, con Pitagora di fronte a una scuola di scienza sperimentale. Egli stesso affermava che nell’universo esiste un ordine, un’armonia costante, e che «i numeri sono i principii di tutte le cose», ossia che tutto è retto da leggi immutabili e che in ogni fenomeno esiste una regolarità, una legge, che può esprimersi mediante numeri o rapporti fissi delle grandezze che vi figurano.
C). La scuola eleatica. — Altri studiosi greci, venuti, nel VI sec. a. C., dalle colonie greco-asiatiche dell’Asia Minore in Italia, nella Magna Grecia, ma non già nell’ambiente dove fiorivano Pitagora e i Pitagorici, sibbene assai lungi da loro, in Elea (la Velia romana), sulla costa tirrenica, fondarono una scuola, che si disse eleatica, e che ha grande importanza per le origini della scienza. Di Senofane di Colofone (560-460 a. C.), del quale è nota la critica acerba alla religione antropomorfica greca, e la credenza in un Dio, spirituale ed eterno, che farebbe tutt’uno col mondo (panteismo), si ricordano altresì gl’inizi di quella critica della umana conoscenza, che dovrà affaticare tanta parte della filosofia e della scienza moderna. Egli sosteneva che le nostre conoscenze sono limitate, relative, soggettive, e che la realtà vera noi non siamo mai in grado di conoscerla. Ma, come scienziato, Senofane si ricollega a Talete, ad Anassimandro, ad Anassimene. A Talete, in quanto pensa che gli avanzi fossili di animali, che primo riconobbe, comprovano che l’acqua, il mare, è l’elemento da cui uscì la terra e la vita; ad Anassimandro, in quanto anch’egli ribadisce il concetto che l’uomo derivi dal pesce [22] e che la sua prima apparizione si collochi nello stadio originario, tra fluido, e solido, del nostro pianeta; ad Anassimene, in quanto egli torna ad ammettere la generazione spontanea: il sole, riscaldando la terra, ne avrebbe fatto produrre piante e animali.
Opinioni analoghe seguì e sviluppò il suo discepolo Parmenide di Elea. Ma questi poneva altresì un’altra teoria, base della chimica moderna: che cioè la materia è perenne, indistruttibile, e non avrebbe potuto originarsi se essa non fosse mai esistita, come non può mai svanire. La scienza moderna, formulerà la identica legge allorchè sentenzierà: «Nulla si perde e nulla si crea!»
7. Dalle guerre persiane alla fine del V secolo a. C. — Nell’età delle Guerre persiane, ossia nei primi decenni del V sec. a. C., e nell’età successiva, che suol dirsi di Pericle — dal massimo uomo politico ateniese che domina la scena della vita greca —, e che si stende all’incirca fino all’ultimo quarto dello stesso secolo, il centro della coltura greca si sposta man mano dall’Asia Minore e dalla Magna Grecia alla Grecia peninsulare e insulare. L’invasione e la devastazione persiana, in Ionia, hanno provocato la decadenza di queste città e la fuga della parte più agiata e più eletta dei loro abitanti. Le persecuzioni delle democrazie greche della Magna Grecia contro i Pitagorici, che quivi si erano organizzati in partito politico aristocratico, ne ha provocato l’esilio e la dispersione. Intanto Atene è divenuta il cervello, politico ed economico, del mondo greco, e quivi perciò convengono pitagorici, ionici, eleatici a professarvi e a diffondervi le loro dottrine.
A). Astronomia e matematica. — Le scuole astronomiche e matematiche, fondate da Pitagora e da Talete, continuano, nella prima metà del secolo, a fiorire in Italia (Magna Grecia) e nella Ionia. Un discepolo di Pitagora — Filolao — vissuto all’incirca un secolo dopo il Maestro [23] (metà del sec. V a. C.), concepisce per la prima volta, sebbene in modo assai confuso, il movimento di rotazione della Terra intorno al proprio asse. Non a torto quindi il sommo Copernico (sec. XVI), nella sua opera classica Le rivoluzioni delle sfere celesti, lo considererà come uno dei suoi precursori. Da Filolao l’idea della rotazione della Terra passò agli altri pitagorici del sec. VI (Iceta, Eraclito, Eefanto).
Ma sia questo come l’altro fondamentale concetto dell’astronomia pitagorica della sfericità della Terra, e del suo movimento di rivoluzione, non travalicano la coltura greca dell’Occidente. Altrove la Terra è sempre concepita come un disco piatto, tenuto in sospeso dall’aria. Ma Anassagora di Clazomene (metà del sec. V), che soggiornerà e professerà lungamente in Atene,[20] insegnerà che il sole è una massa incandescente più grande del Peloponneso, e che la luna riceve luce dal sole, e ha anch’essa, come la Terra, e monti e valli... Un suo contemporaneo, di lui poco più giovane, un dimenticato discepolo di Talete e sommo matematico — Enopide di Chio (intorno al 460 a. C.) — calcola l’anno solare in 365 giorni, 8 ore e 57 minuti,[21] e compila un calendario relativo. Con maggior precisione l’ateniese Metone calcolerà, nel 432 a. C., che 19 anni solari sono eguali a 235 mesi lunari, commettendo il solo errore di appena mezz’ora (30m, 9s).
Questi progressi in astronomia dipendono dai progressi delle matematiche greche. Matematici sono infatti, Enopide e Metone. E il discepolo di Enopide — Ippocrate di Chio (fiorito intorno al 450 a. C.), che professò l’insegnamento in Atene —, oltre ad occuparsi di parecchi problemi matematici, tra cui della famosa quadratura del circolo, dettò il primo libro scolastico di geometria: Elementi di geometria. [24] In esso egli introdusse per primo l’uso di indicare con lettere dell’alfabeto i punti principali delle figure a fine di agevolare le dimostrazioni, e in ogni sua parte si rivelò uno dei più grandi geometri dell’antichità.
B). Medicina. — Fuori di Atene fiorisce rigogliosa la scienza medica. Essa aveva avuto origine nei templi sacri al dio della Salute, Esculapio. Intorno a questi templi, come intorno a cliniche popolose, sorsero numerose scuole mediche, con carattere decisamente scientifico.
Le più importanti furono quelle di Crotone (nella Magna Grecia) e di Cnido (in Asia Minore) e di Cos (una delle Sporadi meridionali), dove appunto erano due famosi templi sacri ad Esculapio. In queste scuole si impartivano lezioni scientifiche, e si facevano studii clinici e pratiche chirurgiche; da esse uscirono medici famosi, i quali, alla Corte dei re di Persia, presero il posto dei medici caldei ed egiziani; da esse provenne una notevole letteratura scientifica medica. In questa letteratura è scomparso il concetto primitivo che le malattie si debbano a cause soprannaturali, e che, per guarirle, occorra invocare e placare gli dèi. I nuovi scienziati pensano che «ogni malattia ha una causa naturale, e senza causa naturale nulla può accadere» (Ippocrate).
Alla metà del sec. V, il medico Alcmeone di Crotone, un pitagorico, insegnava che il cervello è la sede dell’umano pensiero: scoperta, che doveva superare infinite difficoltà prima di diventare di dominio comune. Nella scuola di Cnido la medicina era profondamente specializzata: essa ammetteva innumeri malattie e, per ciascuna, uno specifico. Ma il principe dei medici e della scienza medica del tempo è Ippocrate di Cos (460-380 circa a. C.), da non confondere col matematico suo omonimo, uno, appunto, dei più grandi maestri la cui scienza dominerà tutto l’evo antico.
Ippocrate si oppone alla scuola di Cnido, in quanto egli è sopra tutto un’igienista. Per lui la sanità si fonda [25] sulla equilibrata mescolanza dei quattro umori contenuti nel corpo umano: bile gialla, bile nera, sangue, pituita. La malattia è una perturbazione di questa combinazione, e la scienza medica può solo aiutare, non creare, il processo naturale, tendente a ristabilirne l’equilibrio. Onde, assai più importante del curare i mali, è prevenirli con norme igieniche.
Ad Ippocrate si attribuiscono numerosissime opere: ben 53 volumi; ma i più di questi appartengono, non al maestro, ma alla sua scuola, e risalgono alla seconda metà del sec. V a. C.
Pur troppo, i pregiudizi religiosi non permettevano ancora il sezionamento del cadavere, e, quindi, impedivano i progressi dell’anatomia, base della scienza medica. Però si facevano notevoli operazioni chirurgiche, ma non amputazioni, ignorandosi il modo di legare le arterie e di arrestare le grandi emorragie.
C). Fisico-chimica; scienze naturali. — Frattanto proseguiva in Grecia l’attivo speculare di filosofi e di scienziati sui problemi, che primi gli ionici avevano posti, a fine di giungere a una spiegazione dell’origine, della formazione, delle trasformazioni, dell’universo.
Empedocle di Agrigento — un greco di Sicilia — (484-?? a. C.), da un lato approfondisce le dottrine di Parmenide sulla indistruttibilità della materia; dall’altro, ripiglia quelle di Anassimandro sui quattro elementi primordiali: acqua, aria, terra, fuoco. Ma per lui (ecco la novità che lo distingue dai Ionici!) i quattro elementi sarebbero originari e intrasformabili, irreducibili dall’uno all’altro, e mossi, non già da una forza loro interiore, ma da agenti esterni: un fluido positivo e uno negativo, l’amore e l’odio. Attraendosi o respingendosi, determinerebbero la formazione della materia. Questa, la sua teoria della natura.
Empedocle stesso tornò a proporsi il problema della vita organica. Anch’egli, come Anassimene, è un credente [26] nella generazione spontanea. Ma egli non imagina che le forme superiori siano nate contemporaneamente alle inferiori; le piante, insieme con gli animali. Secondo Empedocle, nacquero prima le piante; poi, dal terreno, alcune parti degli animali, le quali, attratte dall’Amore, che domina il mondo, si organarono fra loro. Di tali organismi sopravvissero quelli adatti alla vita; scomparvero quelli inadatti. Eccoci dunque, in presenza della teorica della «sopravvivenza dei più adulti», ch’è uno dei concetti fondamentali dell’evoluzionismo nella forma, che assumerà nelle opere di Carlo Darwin, nel sec. XIX (cfr. § 40 A).
Empedocle stesso fu autore di una teorica fisica — di una dottrina della visione —, che persisterà attraverso la scienza greca fino all’età moderna: che, cioè, noi vediamo perchè il nostro occhio lancia dei raggi visivi a percepire l’imagine degli oggetti.
D). Democrito di Abdera (460-370). — Ma eccoci venuti faccia a faccia col più grande scienziato greco, con cui si chiude il V sec. a. C.: Democrito di Abdera (in Tracia) (460-370 circa). Democrito si occupò di tutte le scienze: matematica, astronomia, medicina, fisica ecc., e fu, con Aristotele (cfr. § 8 C), il massimo, forse, fra gli scienziati dell’antichità greca, ossia di tutta l’antichità.
La parte più notevole delle sue dottrine è quella che oggi diremmo fisico-chimica. Per Democrito, non esistono gli elementi semplici, primordiali, di genere diverso, o (secondo affermava Empedocle) irreducibili fra loro, che esistevano pei primi pensatori greci; per lui, non v’ha che un’unica materia e lo spazio vuoto. Questa materia — la materia — è formata di atomi, particelle estremamente piccole, qualitativamente identiche, ma diverse per forma, misura, peso. Gli atomi precipitano nello spazio vuoto, ma con rapidità diversa, come diverso è il loro peso, e si raggruppano dando luogo ai vari corpi. Il peso e la durezza dei corpi sono determinati dalla varia grandezza e dal vario addensamento degli atomi; il colore e il gusto sono dati [27] dalla diversa impressione che, gli atomi, a seconda la grandezza e la forma, esercitano sui nostri sensi. Anche l’anima umana è formata di atomi, il cui movimento genera il pensiero.
V’ha, quindi, secondo Democrito, una continuità perfetta tra il mondo fisico e il mondo spirituale. Un atomo, urtato da un altro, aquista una certa oscillazione che comunica a tutti gli atomi vicini. Così, ad esempio, un oggetto sonoro comunica il suo moto all’aria, e dall’aria giunge all’orecchio, ove produce una vibrazione atomica. Questa vibrazione, comunicandosi agli atomi dell’anima, determina le sensazioni, che persistono anche quando il primo stimolo è venuto meno.
Così i moti e i fenomeni della vita materiale e spirituale avvengono tutti per attività propria ed esclusiva della materia. Democrito è, quindi, il fondatore del materialismo filosofico, che non contrappone spirito a materia, ma li considera come un’entità unica, e concepisce la materia non già inerte, ma come animata da una energia interiore, e l’energia (lo spirito), come formata dagli stessi elementi della materia.
Com’è evidente, la teoria atomica di Democrito è piena di una grande originalità. Ma, se ben si guarda, anch’essa procede per insensibile gradazione dall’altra dei quattro corpi semplici. Uno degli scienziati ionici, sostentori di quest’ultima, Anassimene, vedemmo (cfr. § 6 A), avea insegnato che i corpi sarebbero prodotti dal diverso condensarsi di un’unica materia semplice — l’aria —, ossia attraverso modi diversi di aggregazione delle sue particelle. Da questa concezione alla teoria atomica il passo è breve, e le due scuole, che si contenderanno accanitamente il dominio della fisica e della chimica — quella degli elementi semplici, irreduttibili fra loro, e quella atomica che concepisce la materia come tutta formata di infinitesimi elementi fra loro omogenei — sarebbero (come tante volte è avvenuto nella storia della scienza) l’una una filiazione dell’altra.
[28]
Come che sia di ciò, la dottrina atomica di Democrito rimase solitaria nel mondo antico. Dalla oscurità e dal silenzio la trarranno, a larghissimi intervalli di tempo, Epicuro, in Grecia, Lucrezio, in Roma. Ma la scienza chimica moderna, dal Rinascimento a oggi, non sarà che una lotta per il trionfo della dottrina democritèa, e questa è oggi finalmente riuscita a provare la sua sostanziale verità.
Fu Democrito, oltre che un filosofo della fisico-chimica, uno «studioso della natura», «che ne investigò tutti i dominii», uno scienziato, che ci lasciò scritti di vera e propria chimica, nonchè di zoologia e di botanica, secondo precisamente ci diranno gli antichi alchimisti? È possibilissimo; ma nulla, pur troppo, ci è rimasto dell’opera sua. Fu però, certamente, geometra insigne, nonchè astronomo, e pur senza telescopio o spettroscopio, intravide che nello spazio esistono innumeri sistemi solari, alcuni in formazione, altri in dissoluzione; alcuni, abitati da esseri viventi, altri, privi di vita. E in ottica egli fu il fondatore di una teorica della visione, che nell’antichità si contrappose all’altra, assolutamente errata, di Empedocle (§ 7 C) e poi ripresa dal Platonici. Per Democrito, noi vedremmo gli oggetti, non perchè l’occhio emani raggi visivi, ma perchè delle particelle degli oggetti sono proiettate sulla nostra pupilla.
8. La scienza nel IV secolo a C.: A). Platone (429-348). — La biografia del sommo Platone, uno dei pensatori, che più vasta influenza eserciteranno sul pensiero antico e moderno, sta a cavaliere fra il V e il IV secolo a. C., in un’età nella quale, se, in conseguenza della catastrofe della Guerra del Peloponneso (431-404 a. C.), la potenza politica ed economica di Atene declina, la città conserva sempre l’antica superiorità intellettuale e culturale. Ma l’insegnamento di Platone appartiene alla prima metà del IV sec. a. C., ossia al periodo successivo alla morte del maestro di lui, Socrate (399), e al ritorno di Platone dai suoi numerosi viaggi, forse in Egitto, certo nella Magna [29] Grecia, dove fiorivano ancora i Pitagorici. La sua scuola ebbe sede in Atene, nei giardini di Academo, e da ciò essa prese il nome antonomastico di Academia.
Il contributo di Platone alle scienze vere e proprie è (con un’unica eccezione, la matematica) quasi nullo. A ciò lo conduceva fatalmente la sua filosofia. Per essa, la verità, la realtà non risiedono nel mondo sensibile, ma in un mondo ultrasensibile, il mondo delle forme astrattive — delle idee, come Platone le denomina —, ossia delle forme perfette, degli schemi ideali, di cui ogni oggetto terreno non è che una cattiva copia. Il mondo dei fenomeni sensibili non era quindi degno della sua attenzione, e Platone non si piegò ad occuparsene che negli ultimi anni, sotto l’influenza dei Pitagorici. La sua concezione del mondo è infatti esposta nel suo tardo dialogo — il Timeo —; ma anche quivi, sebbene egli mescoli le teorie dei primi ionici a quelle dei Pitagorici, è ben difficile ritrovare qualcosa di più di un’imaginazione poetica.
Invece la matematica, specie la geometria, è la scienza delle forme perfette, e perciò Platone la ritenne indispensabile a chiunque voglia studiare filosofia — la disciplina a lui principalmente cara —, anzi indispensabile alla educazione e alla formazione della mente umana.
Principale suo merito fu di aver trasformata la logica dei primi geometri, fondata sulla intuizione, in un metodo rigoroso, e perciò di avere curato l’esattezza delle definizioni dei termini geometrici (punto, linea, superficie ecc.), quali noi più tardi ritroveremo in Euclide (§ 9 D). Altro suo merito fu di avere introdotto in geometria — o, piuttosto, di avere severamente e completamente perfezionato — il metodo analitico delle dimostrazioni geometriche.[22]
[30]
Platone si occupò anche della risoluzione di qualcuno dei più interessanti problemi geometrici, sui quali indagavano i suoi contemporanei, e diede vigoroso impulso allo studio dei corpi solidi, fino allora negletto.
L’astronomo vale in Platone assai meno del matematico; anzi, per lui, l’astronomia aveva valore scientifico solo in quanto si legava alla geometria.
Egli crede ancora che la Terra stia al centro del sistema solare, e che i corpi celesti ruotino intorno ad essa. Distingue però i moti dei pianeti Venere e Mercurio da quelli, più lenti, degli altri pianeti; e riconosce che la luna splende di luce solare riflessa. Solo, in età tarda, grazie alle relazioni intellettuali coi Pitagorici, egli finì (secondo sembra) con l’ammettere la rotazione della Terra e, forse, altresì, a concepire il dubbio che non questa, ma un qualche altro corpo celeste più eletto sia collocato al centro dell’universo.
Il contributo di Platone alle scienze fisiche e chimiche è, dicevamo, nullo. La sua teoria sulla visione è quella di Empedocle (§ 7 C). Come si vede, dunque, il sommo Platone, la cui filosofia dominerà e travalicherà i secoli, fu, nei riguardi delle scienze, salvo in matematica, assai inferiore a molti suoi contemporanei, sovra tutto al grande Democrito, assai meno noto di lui, e inferiore, certamente, al grande filosofo che immediatamente gli segue: Aristotele. La sua filosofia, anzi, è carica di uno spirito antiscientifico. Tuttavia, come vedremo, allorchè, in sulla fine del Medio Evo, le scienze si saranno impantanate, senza più riuscire a districarsene, nell’aristotelismo, la filosofia platonica avrà gran parte nelle fortune della loro rinascita (cfr. § 18).
B). Astronomia; medicina. — Nell’età successiva a Platone, i discepoli di Pitagora e di Democrito giungevano ai resultati più interessanti in astronomia e in fisica.
I Pitagorici continuavano a sviluppare la teoria della sfericità della terra e a organizzare intorno ad essa tutta [31] la geografia astronomica. Se tra la scienza astronomica dei Pitagorici il concetto della rotazione della terra era ormai invalso largamente, Eraclide di Eraclea, discepolo di Platone, passava ad ammettere che i pianeti Mercurio e Venere si muovano intorno al sole. Egli faceva, così, un nuovo passo verso quella concezione moderna del sistema solare; che noi diciamo eliocentrica[23] o copernicana. Ma i più rimanevano fermi al sistema, che le apparenze sembravano inculcare: che, cioè, la Terra sia immota e che i corpi celesti ruotino intorno ad essa, su sfere concentriche (ben 27!), pur avendo, ciascuno, un movimento suo proprio, oltre a una rotazione giornaliera intorno alla Terra. L’ideatore di questo sistema, che precorre quello tolomaico, e nel quale la scienza astronomica finirà con adagiarsi sino al sec. XVI, fu uno dei più grandi matematici del tempo Eudosso di Cnido (408-355).
Nel campo delle scienze naturali, continua a fiorire la medicina, rigogliosa nelle due scuole, di Cos e di Cnido. Pur troppo, la scuola di Cos rimase dommaticamente attaccata alla dottrina del maestro Ippocrate, e l’una e l’altra continuarono ad astenersi dal sezionamento del cadavere umano, ossia ad inibirsi le più elementari conoscenze anatomiche.
Ma come il sec. V aveva avuto una mente enciclopedica — Democrito —, così l’uomo che, nella seconda metà del IV secolo, riassume tutto il pensiero scientifico dell’età sua è Aristotele.
C). Aristotele (384-322). — Aristotele di Stagira (in Calcidica) era figlio di uno dei medici della Corte del re di Macedonia, Filippo II, e fu medico egli stesso. Più tardi ascoltò in Atene le lezioni di Platone e, più tardi ancora, dopo il 335 a. C., insegnò colà, come il Maestro suo, nella scuola che egli stesso aperse in città, nel Ginnasio[24] del Liceo.
[32]
Aristotele fu, al pari di Platone, filosofo, letterato, scienziato in ogni genere di scienze; ma, laddove Platone si dimostrò filosofo più che grande che scienziato, Aristotele fu tanto grande scienziato quanto grande filosofo.
Aristotele può dirsi il primo filosofo realista nella storia del pensiero umano. Per lui, tutto il sapere deriva dalla esperienza. Questa, dunque, bisogna interrogare, per via dell’osservazione, innanzi di formulare delle teorie. Solo più tardi dai principî generali così stabiliti sarà possibile dedurre nuove verità.
Egli non soggiungeva se occorresse provare sperimentalmente anche questa seconda serie di verità. Ma i generali criterii scientifici di Aristotele sono di tal natura, da autorizzarci a questo completamento del suo pensiero e da permettere che lo si ritenga (nella teoria, se non nella pratica) veramente precursore dei metodi della scienza moderna.
Aristotele lasciò scritti d’ogni genere — di zoologia, anatomia, fisiologia, fisica, astronomia ecc. —, ma certo egli non fu in tutto egualmente grande. La sua matematica (specie la geometria) contiene talune delle definizioni più difficili; in un’opera perduta di meccanica, osò per il primo applicare la geometria alla fisica. Ma la sua astronomia[25] è priva di originalità, e segna un regresso rispetto alla astronomia dei Pitagorici. Egli ammette la sfericità della luna, desumendone la dimostrazione dagli aspetti della luna nelle sue fasi, che sono precisamente gli aspetti che assumerebbe un corpo sferico di cui una sola metà sia illuminata. Ma questo concetto e questa dimostrazione non erano nuovi. Dalla sfericità della luna Aristotele deduce quella degli altri pianeti, giungendo a una conclusione esatta attraverso un ragionamento audacissimo, anzi errato. La sua dimostrazione della sfericità della Terra, che egli ammette, è fondata su taluni degli stessi [33] argomenti che noi oggi adottiamo. Per contro, egli non crede alla possibilità del movimento di rivoluzione della Terra, e al sistema eliocentrico preferisce la teoria delle sfere di Eudosso, che, d’altra parte, egli complica con pregiudizi ed errori. Peggio ancora, le stelle sono per lui corpi animati: concetto che ricavava dalla religione greca.
Superiore è la fisica aristotelica.[26] Essa però non condivide la teoria atomica di Democrito. Per Aristotele, l’unità qualitativa della materia è inamissibile: talune materie sono pesanti; altre, come l’aria e il fuoco, leggere. Aristotele repugna altresì dal concetto del «vuoto» (in cui, secondo Democrito, si muoverebbero gli atomi), del quale l’esperienza non gli porgeva alcun segno. Per lui, il vuoto non esiste, ed egli inaugura così quella dottrina che «la natura ha orrore del vuoto», destinata a un’esistenza più volte secolare. E se ammette che ciò che noi diciamo nascere e morire siano null’altro che mutamenti di cose esistenti, determinati dal moto, questo moto non ha, come per Democrito, pura natura meccanica. Per Aristotele, la materia è inerte, e il moto, che noi vi sorprendiamo, dipende, invece, in ultima istanza, dallo Spirito, dalla Volontà suprema che regge il mondo, e ch’è la vera causa di ogni fenomeno fisico, mentre le cause meccaniche non sono che cause parziali o pseudo-cause.
Questa sua netta separazione fra materia ed energia, fra mondo della materia e mondo dello spirito, collocano Aristotele fra i filosofi e gli scienziati che saranno detti dualisti di fronte ai monisti, quale Democrito era stato.
Tuttavia, nel ritornare alla teoria dei quattro elementi, Aristotele introduce alcuni concetti originali. Anzitutto, un nuovo elemento — l’etere —, di cui sarebbe formato il mondo celeste. In secondo, nella zona terrestre, i quattro tradizionali elementi sarebbero collocati in una gerarchia di nobiltà, come per altro anche Anassimandro sembrava [34] imaginarli: al centro, la Terra; alla superficie di questa, l’acqua; più su, l’aria, e più su ancora, al contatto dell’etere, il fuoco. Per questo contatto, si trasmetterebbero alla Terra gl’influssi celesti: in primo, la luce e il calore solare.
Non basta: per Aristotele, se i quattro elementi sono il sostrato comune di ogni sostanza, essi possono trasformarsi l’uno nell’altro, in forza dell’azione di quattro qualità: caldo e freddo, secco e umido. Variando una qualità, è possibile il passaggio, la trasformazione da uno a un altro elemento. Le diverse sostanze resulterebbero di quantità proporzionali dei quattro elementi, combinate variamente sotto l’influsso delle citate qualità. Tali sono i metalli, la carne, il sangue, le ossa, il legno. Dalla combinazione di queste sostanze derivano gli esseri organizzati: le piante e gli animali.
Queste furono le famose teorie aristoteliche sugli elementi, e sulle loro combinazioni, che domineranno la filosofia e la scienza umana per oltre un millennio.
Ma sin qui non si tratta che di filosofia fisica, nella quale permane il carattere generale della fisica greca, nel periodo classico, per cui le ardite teorie generali discendono da una fugace osservazione di fenomeni naturali, piuttostochè da una serrata e insistente analisi dei medesimi.
Pur troppo, Aristotele, non ostante il suo realismo filosofico, segue questo stesso metodo pericoloso, anche quando vuole spiegare singoli fenomeni fisici, ossia ricercarne le loro cause parziali, ch’è poi l’oggetto che noi oggi assegniamo in primo luogo alla scienza. Egli toccò tutti i dominii della fisica che noi oggi consideriamo. In meccanica cercò di dimostrare la teoria della leva, ed enunciò parecchie leggi sulla caduta dei gravi, pur troppo, erronee per mancata esperienza, come questa che «i corpi cadono con velocità proporzionale al loro peso». Si occupò di acustica (i fenomeni del suono); di termica (i fenomeni del calore): Aristotele pare conoscesse la differente conducibilità dei corpi [35] nei riguardi del calore; di ottica: contro Empedocle e Platone, e d’accordo con Democrito, sostenne che noi vediamo perchè particelle dei corpi stimolano il nostro occhio. E anche su parecchi fenomeni meteorologici — ad es., sulla formazione della rugiada — egli fece osservazioni acute e veraci.
I suoi difetti di sperimentatore non hanno più presa sulle scienze naturali (zoologia e botanica), nelle quali l’osservazione diretta e l’induzione sono quasi tutto. Ed ecco perchè Aristotele è sommo zoologo.
I suoi scritti di zoologia (Storia naturale degli animali, Delle parti degli animali; Della generazione degli animali), contengono nozioni di anatomia comparata, di fisiologia, di psicologia animale. In tal modo egli affrontò tutti i problemi, intorno a cui oggi si affaticano i zoologi moderni.
Aristotele menzionò circa 500 specie di mammiferi, uccelli e pesci; studiò, senza disdegnarle, le specie animali inferiori; osservò, analizzò, dissecò, gli organi degli animali e ne investigò le rispettive funzioni, giungendo a rilievi esatti, anche se la spiegazione, che ne dette, risulta, talora errata.
Egli fu inoltre il primo zoologo classificatore, e, delle specie animali, ci lasciò una classificazione ben fondata, ossia fondata, come ogni classificazione dev’essere, su caratteri essenziali, e che può stare a paro con quella classica del sec. XVIII, che si intitola a Linneo (33 B), o, anzi, la supera, in quanto tiene conto delle specie animali inferiori. Meglio ancora: Aristotele non ammette una separazione recisa fra le varie specie, ma una continuità progressiva, concetto che solo tardi entrerà nella scienza moderna, e precisamente nel sec. XIX.
Le opere aristoteliche di botanica sono andate perdute, ma, per quanto ne sappiamo, come Aristotele è il primo e solo grande zoologo dell’antichità, così può dirsi il fondatore della botanica scientifica.
Egli ebbe, anche su questo terreno, vedute esatte e [36] geniali: colse l’analogia esistente tra il mondo vegetale e animale; distinse in molte piante le loro varietà sessuali, e, sopra tutto, organizzò lo studio, metodico e positivo, della botanica.
Appunto questa è l’opera sua più feconda come scienziato: di avere, ad ogni occasione, ribadito, e personalmente praticato, che le scienze della natura possono essere fondate solo sulla conoscenza dei fatti, e che i fatti vanno rilevati e accertati accuratamente.
Egli seppe così inspirare nei discepoli il metodo dell’osservazione positiva; e inoltre inculcare la necessità della divisione del lavoro, la sua organizzazione scientifica, che tanto fruttificheranno nell’avvenire.
9. La scienza greca nel periodo ellenistico (seconda metà del sec. IV-sec. I a. Cr.): A). Caratteri generali. — Il quarto secolo a. C. si chiude con la conquista dell’Oriente, da parte di Alessandro Magno, cui segue, subito dopo, la formazione degli Stati così detti ellenistici, fra cui per civiltà primeggiarono quello dei Tolomei (in Egitto) e quello — più tardo, ma non meno illustre —, di Pergamo (nell’Asia minore nord-occidentale).
La conoscenza di nuovi Paesi e di nuovi fenomeni naturali; il più intimo contatto con la scienza degli Orientali; i nuovi bisogni materiali delle società ellenistiche; infine, i grandi mezzi, che le Corti dei nuovi monarchi posero a disposizione della scienza e degli scienziati — valga per tutti il Museo di Alessandria, che conteneva sale anatomiche, magnifici gabinetti, biblioteche, un osservatorio astronomico, un giardino zoologico ecc. — tutto ciò non potè non guidare a nuovi progressi, che altrimenti sarebbero stati irragiungibili. Ma la scienza di questo tempo non differisce da quella precedente per un semplice carattere quantitativo. Altro suo tratto differenziale è questo: ch’essa, ora, rimane indifferente ai grandi problemi filosofici, in cui fin adesso si era talvolta sperduta, e preferisce [37] dedicarsi alla indagine dei fatti e allo studio concreto dei varii ordini di fenomeni naturali. Questo atteggiamento più modesto, ma più pratico, paragonabile a quello che assumerà la scienza nell’età moderna, fu ultima e non piccola causa dei suoi progressi nel periodo ellenistico.
Tuttavia tanto progresso e tanto splendore non illuminano tutto il periodo alessandrino. Gli ultimi due secoli — il II e il I a. C. — segnano, in quasi tutti i campi della scienza, un periodo di decadenza e di stazionarietà. Ciò si deve sia al cessare di quegli impulsi che la conquista greca dell’Oriente aveva dati; sia alla decadenza e ai torbidi interni dell’Egitto tolomaico; sia, infine, al fatto che le opere dei grandi scienziati del IV-III sec. avevano, nell’opinione degli uomini, rizzato come dei limiti insuperabili al pensiero scientifico; onde si cominciò a ripetere quello che gli altri avevano affermato, piuttostochè sforzarsi di superarlo e di progredire.
B). Geografia astronomica. — Si apre ora un’età di grandi scoperte geografiche, appunto incoraggiate, e, talora, ordinate da Alessandro Magno e dai successori. Si hanno perciò, per la prima volta, notizie precise dell’Asia, occidentale e centrale, dell’Africa, dell’Europa occidentale. Ma questa più esatta conoscenza materiale della Terra, dà un’importanza nuova alla geografia astronomica o matematica.
Si cerca anzi tutto di fissare le dimensioni del nostro pianeta. Il sommo geografo dell’epoca, Dicearco, scolaro di Aristotele, fondandosi sulla opinione della sfericità della Terra, cercò misurarne la circonferenza. Pervenne, è vero, a resultati superiori alla realtà: km. 50 000 circa.[27] Ma il suo lavoro fu ripreso da Eratostene di Cirene (276-195?) il quale errò di soli km. 4633 in più del vero, raggiungendo la cifra di km. 44 700.
[38]
Il grande matematico Euclide (vissuto intorno al 300), contemporaneo di Dicearco, introdusse nella geografia astronomica molti dei concetti che noi ora adottiamo: circoli massimi, meridiani, poli ecc. Euclide, per altro, non faceva che raccogliere in un corpo unico dottrine di tutta una scuola di astronomi — gli Sferici —, che studiavano appunto questo ramo della geografia astronomica, movendo dalle teorie matematiche intorno alla sfera.
L’opinione, sempre più radicata, della forma sferica della Terra e l’ampliata esplorazione della vita sulla superfice terrestre condussero anche a una trattazione scientifica della varietà fra le stagioni sulle diverse contrade della Terra e a una corrispondente divisione del nostro pianeta in zone.
C). Astronomia. — Ma la conquista dell’Asia esercitò una grande e diretta influenza sull’astronomia, in quanto pose la scienza greca in immediato rapporto con quelle egizia e caldaica.
Da queste nuove conoscenze la teoria, fin allora dominante, che la Terra fosse il centro immobile del mobile mondo celeste, ricevette un colpo, dal quale stentò assai a rilevarsi, anche presso i più caldi fautori del sistema geocentrico.[28]
Furono anzi tutto determinate, in modo più esatto, la grandezza degli astri e la loro distanza dalla Terra, e Aristarco di Samo, astronomo della scuola alessandrina della prima metà del sec. III a. C., pervenne al resultato, fin allora inaudito, che il Sole è assai più grande della Terra, e che, precisamente, i rispettivi diametri starebbero come 1 a 6 1⁄3-7 1⁄8, e i volumi, come 1 a 254-368.[29] Egli stesso fu il Copernico dell’antichità, l’inobliabile sistematore della teoria eliocentrica che, molti secoli più tardi, sarà detta copernicana: che, cioè, la Terra gira sul suo [39] asse e intorno al sole, il quale rimane immobile nel mezzo del Cielo. Le stelle fisse poi sarebbero così infinitamente lontane da noi, che tutto il giro di rivoluzione della Terra starebbe al cielo stellato come il punto del centro alla periferia di un circolo.
Anche allora, come si farà parecchi secoli più tardi, si gridò all’empietà contro l’audace innovatore, che detronizzava dal suo seggio la Terra. Pur troppo, la conoscenza del moto dei pianeti era poco avanzata per ricavarne delle prove in sostegno del sistema eliocentrico. Onde Aristarco ebbe contro di sè la maggioranza degli scienziati, e perfino il più grande matematico e fisico del suo tempo: Archimede di Siracusa.
Ma, dopo Aristarco, il sistema di Eudosso non era più sostenibile. Fu necessario correggerlo. Lo corresse allora, verso la fine del III sec., il grande matematico Apollonio di Perga (in Panfilia) con la sua teoria degli epicicli. Secondo questa complicata teoria, non i pianeti ruoterebbero intorno alla Terra, ma si muoverebbe su questa linea soltanto il punto centrale di un circolo minore (emiciclo), mentre il pianeta si muoverebbe sulla periferia di questo stesso circolo.
Tale ipotesi fu ingegnosamente perfezionata, nella metà del II sec. a. C., dal più grande astronomo del periodo alessandrino, forse dal più grande astronomo greco — Ipparco di Nicea (in Bitinia) — che però non visse ad Alessandria, ma a Rodi, ove fondò un osservatorio e dettò la maggior parte delle sue opere.
I principali servizi che egli rese alla astronomia dipesero in massima parte dall’avere egli applicato a questi studii un ramo speciale delle matematiche — la trigonometria —,[30] riescendo in tal modo a rappresentare assai esattamente il movimento del sole, della luna, dei pianeti, o, più propriamente, a costruire tutto quell’ingegnoso «sistema tolomaico», [40] che rimarrà in vigore fino al sec. XVI, e che l’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo, vissuto tre secoli dopo, non farà che ripetere fedelmente dal suo predecessore di cinque secoli innanzi.
Con lo stesso metodo trigonometrico Ipparco riuscì a determinare, più o meno esattamente, le distanze del sole e della luna dalla Terra, fondandosi sul fenomeno delle eclissi.
Osservatore attentissimo, e sopratutto sistematico confrontatore delle sue personali osservazioni con quelle più antiche, a fine di rilevare i cambiamenti astronomici, egli non solo fece scoperte individuali, ma rettificò e completò moltissime cognizioni già note. Così redasse un nuovo Catalogo di stelle (ben 1080 stelle!), di ciascuna delle quali dette la longitudine e latitudine, e le distribuì, secondo il loro splendore, in 6 grandezze. Questo Catalogo, che ha subìto poche variazioni, salvo l’aggiunta di alcune costellazioni invisibili nei paesi civili del mondo antico, rimase come un modello di scienza per circa 16 secoli.
Questo attento studio del cielo e i confronti con le osservazioni dei suoi predecessori condussero altresì Ipparco a parecchie scoperte: per es., alla scoperta della così detta precessione degli equinozi, che cioè il Sole, nel suo movimento annuo (eclittica) nella sfera celeste, dopo la sua partenza dal punto equinoziale, ritorna alla nuova posizione equinoziale un po’ prima di tornare nella sua posizione iniziale rispetto alle stelle.[31] Onde l’anno solare o tropico (o periodo necessario al sole per tornare alla sua stessa posizione rispetto ai punti equinoziali celesti) e l’anno sidereo (periodo necessario al sole per tornare alla stessa posizione rispetto alle stelle) non coincidono: il primo è più breve del secondo; quello (l’anno solare o tropicale) sarebbe di 365 giorni, 5 ore, 55 minuti; questo [41] (l’anno sidereo) supererebbe il primo di 20m e 12s. Tale resultato di Ipparco è assai vicino ai valori moderni.[32]
Egualmente Ipparco perfezionò molto la teoria delle eclissi solari e lunari, che dopo di lui poterono essere predette con grandissima sicurezza ed esattezza.
Ipparco, come la massima parte degli scienziati greci, subì, pur troppo, la grande sciagura di non poter essere conosciuto direttamente dai posteri, chè tutte le sue opere, salvo una insignificante, andarono perdute. Tuttavia ciò che ne conosciamo indirettamente, specie attraverso gli scritti di Tolomeo, basta a farci rimpiangere in lui uno dei più straordinari scienziati dell’antichità, e certo il massimo fra gli astronomi, come quello che non solo seppe osservare con sicuro senso critico, ma seppe felicemente disposare le matematiche all’astronomia. Dopo di lui, per oltre tre secoli, fino a Tolomeo, la scienza astronomica greca non procederà di un sol passo.
D). Matematica e fisica. — Questi grandi progressi della geografia astronomica e dell’astronomia furono possibili, l’abbiamo implicitamente accennato, grazie ai contemporanei progressi della matematica. La fine del sec. IV e tutto il sec. III è infatti l’età d’oro delle matematiche. Alessandria d’Egitto, Pergamo (in Asia Minore), e non più Atene, sono ora i centri maggiori di questi studii. La matematica, anzi, domina ora e investe le altre scienze: prime, l’astronomia e la fisica.
Ad Alessandria, intorno al 300 a. C., insegnò Euclide, e ivi scrisse i suoi Elementi, che per la parte geometrica, sono rimasti fino ai giorni nostri il testo scolastico più diffuso e forse più perfetto. Essi ci appaiono mirabili, per là chiarezza, l’ordine, il metodo. Ma gli Elementi euclidei comprendevano anche trigonometria[33] e la così detta teoria [42] dei numeri, che ha per oggetto lo studio astratto delle proprietà dei numeri.
Euclide non fu soltanto matematico; fu anche autore di una o due operette (oggi sperdute) sui fenomeni e sulle leggi ottiche, in primo sulla riflessione, e pare abbia anche scritto di meccanica, occupandosi delle leggi della caduta dei corpi. Suoi concetti — erronei — furono, ad esempio, questi: 1) che la velocità di caduta di un corpo sia tanto più rapida quanto più rado (meno denso) è il mezzo in cui il corpo si muove, e che, quindi, nel vuoto, la sua velocità dovrebbe essere infinita; 2) (e questo è la ripetizione di un concetto aristotelico) che le velocità di caduta di corpi della medesima natura siano proporzionali al loro peso. Ma Euclide fu sopra tutto maestro. Pel contenuto scientifico dell’opera sua, egli deve molto ai predecessori, specie ai Pitagorici; ma tutta sua è la meravigliosa sistemazione della materia; sua la scelta dei teoremi, che la copiosa matematica greca gli offriva; sua la loro logica connessione.
Matematico e fisico, insieme, fu Archimede di Siracusa († 212 a. C.).
Archimede è il nobile e maraviglioso difensore della sua patria contro gli assalti romani durante la Seconda Guerra punica, e perì ucciso da un ignaro soldato romano, allorchè la città fu presa dopo un assalto furioso. Cotale difesa egli aveva compiuto mediante ingegnose macchine di guerra, a noi sconosciute. Ma egli fu altresì autore di scoperte fondamentali, che fanno di lui il più grande matematico dell’evo antico.
— Citiamone alcune delle più facili e popolari: 1) un cerchio è equivalente a un triangolo rettangolo, i cui cateti sono l’uno eguale al raggio e l’altro alla circonferenza del cerchio; 2) il rapporto del cerchio al quadrato del diametro [43] è approssimativamente eguale a 11⁄14; 3) la circonferenza di un cerchio eccede 3 volte il suo diametro di una parte minore di 1⁄7 e maggiore di 10⁄71 del diametro stesso; 4) il volume e la superficie di una sfera sono, rispettivamente, eguali ai 2⁄3 del volume e della superficie di un cilindro circoscritto alla sfera (che abbia eguale base ed eguale altezza): teorema, questo, che Archimede volle raffigurato sulla sua tomba.
In fisica, Archimede fu il primo scienziato greco che toccasse il campo della idrostatica. Egli determinò quel principio, ch’è la base della idrostatica e ch’è detto, appunto, legge di Archimede, secondo cui «un corpo immerso in un liquido perde (apparentemente) tanto del suo peso quanto è il peso del volume del liquido spostato». Per tale legge fu possibile ritrovare il peso specifico dei corpi, che appunto Archimede cominciò a saper determinare.
Si dice, anche, abbia inventato l’idrometro, a fine di misurare la densità dei varii liquidi, e specie delle acque sorgive, di cui si ritenevano dannose quelle ricche di sali. Ma egli fu sopra tutto il fondatore della meccanica come scienza. Egli scoperse la teoria del centro di gravità dei corpi, della leva e praticamente inventò la puleggia, la vite, il paranco;[34] fabbricò macchine da guerra, e si occupò, come altri suoi contemporanei di ottica, sì da essergli attribuita l’invenzione di specchi concavi, coi quali avrebbe bruciato i navigli romani che assediavano Siracusa.
Ultimi fra i matematici di questo meraviglioso periodo furono i citati astronomi Apollonio di Perga (seconda metà del sec. III) e Ipparco (II sec. a. C.). Apollonio visse a Pergamo, che allora rivaleggiava con Alessandria quale centro della coltura mondiale. Anch’egli fu studioso e maestro di geometria e, sebbene molto attingesse a Euclide e ad Archimede, l’opera sua segna un deciso progresso sui suoi due sommi predecessori, specie per quanto [44] riguarda lo studio delle sezioni coniche (ellisse, iperbole, parabole). E a lui, forse, spetta il merito di avere gettato le basi della trigonometria in Grecia. Della nuova disciplina, ossia della trigonometria piana e sferica, come accennammo, si giovò Ipparco per i suoi calcoli astronomici. Dopo di lui, le matematiche, al pari dell’astronomia, decadono sino al II sec. di C., ossia fino a Tolomeo.
Se i due grandi fisici dei sec. IV-III. — Euclide e Archimede — congiunsero strettamente lo studio della matematica a quello della fisica, non così avviene dei successori; o, almeno, non ci consta che così avvenisse. Gli ultimi fisici del periodo alessandrino furono piuttosto dei pratici che degli scienziati.
Due tra questi meritano di essere ricordati: Ctesibio, vissuto nella seconda metà del II sec. a. C., ed il suo discepolo Erone, vissuto tra il II e il I secolo (morì nel 50 a. C.). Ctesibio fu inventore dei sifoni, trombe prementi a due corpi di tromba, che i Romani usarono per gli incendii, ma che il Medio Evo obliò come tante altre cose. Fu anche inventore dell’organo idraulico e trovò il mezzo di comprimere l’aria, e quindi di fabbricare armi (fucili?) ad aria compressa.
Assai più famoso fu Erone. Le sue Meccaniche sono un copioso manuale dell’ingegnere e dell’arte del costruire. Vi si studiano la leva, il verricello, il cuneo, la vite (concepita come un cuneo attorcigliato sopra un cilindro), e talune altre macchine.
Erone si occupò anche di ottica, e cercò di determinare le leggi della riflessione della luce. Ma più famoso è il suo giocattolo eolipila, nel quale egli mostrò la prima applicazione del vapore come forza motrice. Dopo di che, come seguì all’astronomia e alla matematica, anche la fisica rimase stazionaria fino a Tolomeo.
E). Chimica. — La chimica teorica, ossia la filosofia chimica, ch’era stata il pascolo più gradito degli intelletti [45] greci nei secc. IV e V, è, in questo periodo ellenistico, rappresentata in modo eminente da Epicuro di Samo (342 a. C.-270 a. C. circa), che visse a lungo e tenne scuola ad Atene. Epicuro è un continuatore di Democrito, sebbene, in certi punti, la sua dottrina atomica se ne distacchi nettamente. L’atomo, è, per lui, principio indivisibile, eterno, indistruttibile della materia, nella quale nulla viene dal nulla e niente perisce. L’atomo possiede, oltre alla estensione, alla forma, al peso, un suo proprio movimento. Con questa correzione a Democrito, il quale aveva opinato che il moto degli atomi dipendesse dal loro peso, Epicuro salvava il sistema da un’obiezione di Aristotele che nel vuoto i corpi dovrebbero cadere tutti con eguale velocità. Affaticati, dunque, da un moto perenne, che è una loro proprietà, gli atomi, roteando nello spazio vuoto e combinandosi insieme, formano i corpi e i mondi, ciascuno dei quali ha un principio, e tutti sono destinati a perire. Gli esseri viventi, in ognuno di questi mondi, sono anch’essi combinazioni di atomi. Non dunque l’intelligenza divina o una causa finale li crea o guida, nè il mondo è fatto per l’uomo, nè ha alcuna finalità, ma esso è conseguenza meccanica di un processo meccanico.
Anche l’anima, come aveva detto Democrito, è composta di atomi, che il corpo costringe insieme. La morte, che scioglie questo legame, permette anche la separazione degli atomi dell’anima, la cui immortalità sarebbe, dunque, secondo Epicuro, una superstizione.
Ma in questo periodo alessandrino, certo per il più intimo contatto con la scienza egiziana, la chimica greca passa da teoria filosofica a scienza sperimentale, da scienza ad arte operativa. Si sviluppa, cioè, la chimica sperimentale e industriale, nella forma precisa in cui noi, oggi, l’intendiamo.
I Papiri greci così detti di Leyda e di Stocolma[35] scoperti in tombe tebane, se forse appartengono al periodo romano, [46] ripetono cognizioni, tradizionali nella scienza egizio-ellenistica, e, insieme con notizie di magia e di astrologia (con le quali la chimica degli antichi andò sempre malamente mescolata), contengono vere e proprie nozioni di chimica. Trattano delle leghe metalliche, dei procedimenti di tintura della porpora, della virtù delle piante. I chimici ellenistici conoscono parecchi processi farmaceutici e chimici (distillazione, cristallizzazione, sublimazione) e, non ostante ignorino gli acidi minerali, hanno esperienza di numerose reazioni chimiche. I metalli noti a questi scienziati sono sette: piombo, stagno, rame, argento, oro, mercurio e asemo (argento impuro, o, forse elettro, lega d’oro e d’argento).
Ma lo sforzo principale di sì faticose ricerche si rivolge in due direzioni: a) la trasformazione di tutti i metalli inferiori in oro (al quale scopo quei chimici prescrivono numerose ricette); b) la preparazione di medicinali che giovino a preservare l’uomo da ogni male, perfino, a liberarlo dalla morte.
È stato appunto questo tratto della scienza chimica — l’alchimia[36] medievale — a ingenerare l’erroneo concetto, che essa fosse tutta una scienza di ciurmadori. Noi oggi possiamo giudicare più equamente: nè tutta la chimica greca fu ricerca della trasformazione dei metalli inferiori in oro, nè questa trasformazione contrastava alle dottrine fisico-chimiche del tempo. Le dottrine, infatti, dei Ionici, quelle fisiche di Aristotele e la stessa dottrina atomica incoraggiavano questa fiducia, in quanto le prime o facevano derivare tutti i corpi da un unico elemento, o concepivano l’un elemento trasmutabile nell’altro; e la seconda sosteneva la perfetta omogeneità della materia.
Può dirsi di più: quali che ne siano la difficoltà pratica, [47] l’idea della trasformazione dei metalli non contradice ai più sani concetti chimici che noi oggi possediamo. La moderna teoria della radioattività (cfr. § 38 B) ad es., avverte che la trasformazione della materia avviene normalmente, anche allo stato naturale.
Quello che invece deve ancor oggi condannarsi, in questo secolare tentativo dell’antica chimica, è la sovrapposizione, alla ricerca scientifica, di elementi, mistici e magici, con i quali invano si cercò di rimediare al continuo insuccesso di un esperimento scientifico. Ma questa fu responsabilità di tempi più tardi.
I papiri greci sopra citati menzionano alchimisti greci, i quali vengono citati precisamente con pseudonimi tratti dai nomi dei più grandi scienziati e filosofi greci: Platone, Aristotele, Democrito, Teofrasto. Non si tratta, naturalmente, dei grandi scienziati che ebbero questo nome, ma di persone, assai più oscure, che scrissero sotto nomi altrui. Il più famoso di costoro (si dice) sarebbe stato appunto Democrito, del quale viene ricordata una Fisica e Mistica. Certamente, le teorie in essa enunciate si ricollegano al grande scienziato del sec. V, precursore dei chimici moderni. Ma pur troppo, l’opera citata è un centone di brani diversi di scritti non democritèi.
F). Zoologia e Botanica. — I grandi viaggi e le esplorazioni dell’epoca ellenistica dovevano imprimere un possente sviluppo ai progressi della zoologia e della botanica. Ora soltanto infatti si schiudeva ai Greci la visione della fauna e della flora delle regioni tropicali e subtropicali. Aristotele aveva descritto l’elefante solo per udito dire; esso divenne dopo Alessandro, per gli usi di guerra, un animale popolarissimo. Ma si devono sopra tutto ai Tolomei la raccolta e l’allevamento di specie rare animali nel meraviglioso giardino zoologico, collocato nella reggia di Alessandria.
Lo stesso è a dire delle piante. Teofrasto, discepolo di Aristotele, scrisse due eccellenti trattati di botanica. [48] E di botanica e di zoologia si occuparono sistematicamente i dotti di quell’accademia che fu il Museo di Alessandria, fondato dai Tolomei.
G). Medicina. — Anche la medicina progredisce, perchè progrediscono i due ordini di ricerche, che vi stanno a base: quelle sull’anatomia e quelle sulla fisiologia del corpo umano. Finalmente, si osa procedere al sezionamento del cadavere umano, e persino, anche, alla vivisezione dei criminali condannati a morte. Alessandria è, come di tante altre discipline, il focolare della scienza medica del tempo; e tale rimase fino alla catastrofe dei Tolomei (30 a. C.) ed oltre. Qui visse il più grande anatomista e fisiologo dell’antichità Erofilo di Calcedonia (primi del III secolo), il quale scoperse finalmente l’anatomia del sistema nervoso, la sua funzione nel corpo umano, e determinò sperimentalmente l’importanza del cervello come sede centrale dei sensi e del pensiero: nozioni, queste, ignorate dal sommo Aristotele. Egli stesso scoperse che la pulsazione delle arterie dipende dal cuore, e che queste non contengono (come si credeva) aria, ma sangue. Seppe finalmente distinguere le arterie dalle vene: scoperse, in altri termini, la legge della circolazione del sangue.
I progressi dell’anatomia ebbero ripercussioni immediate nel campo della chirurgia. Si compivano ora con relativa facilità operazioni difficilissime. Continuavano ancora a fiorire in piena vitalità le due antichissime scuole mediche di Cos e di Cnido: della prima, anzi, il maggior rappresentante è adesso Erofilo, come, della seconda è Erasistrato. Ma sorge ora, nel III sec., in Alessandria e, fiorisce vigorosa, una terza scuola — quella degli empirici, alla cui testa è un discepolo di Erofilo, Filino di Cos. Per gli empirici, la ricerca delle cause delle malattie è superflua, e si può fare a meno dell’anatomia. Infatti essi curavano solo i sintomi, e, quindi, abbondavano in rimedi farmaceutici. In conseguenza, se non la medicina, la farmacologia fece, per mezzo loro, grandi progressi.
[49]
10. Valore della scienza greca. — Noi ci siamo dilungati sulla scienza greca perchè essa occupa nella storia del pensiero umano, non soltanto un posto di prim’ordine, ma quella identica posizione, che noi, giudicando dal nostro punto di vista attuale, assegniamo alla scienza moderna, rispetto alla scienza di ogni tempo. Tutti i grandi problemi che noi ci poniamo, la scienza greca si pose, e i principali tra essi risolse nella stessa direzione, secondo cui oggi li risolviamo. Nel campo scientifico, i presupposti e il metodo del pensiero greco sono quegli stessi che noi usiamo: la più completa indipendenza da ogni pregiudizio estraneo, l’osservazione, l’induzione, l’esperimento, il ragionamento, logico e matematico, la riprova. E se gli scienziati non applicarono rigorosamente questi concetti, ciò non dipese da una inesatta visione di quanto occorreva praticare, ma di una infedeltà dei singoli individui alla generale metodica della scienza greca.
Come resultati positivi, la scienza greca ci lascierà, in fatto di matematica, solidamente piantate, delle parti di questa disciplina, che noi oggi coltiviamo: l’aritmetica, la trigonometria e, specialmente, la geometria, non però l’algebra.
In fatto di astronomia, ci lascerà per lo meno il concetto della sfericità della terra, che i moderni hanno di poco corretto, e la spiegazione dei movimenti di tutto il sistema solare, che, a parte l’ipotesi che l’ispira, è veramente preziosa. In fisica e chimica, ci lascierà la teoria atomica e tutta un’abbondante serie di esperienze chimiche; in medicina, le profonde verità della scuola ippocratica travalicheranno i secoli; infine, quanto a zoologia e a botanica, l’una e l’altra scienza furono dai Greci — da essi soli — fondate, e la perfezione, a cui le portarono di un sol balzo (specie Aristotele e Teofrasto), non troverà degno termine di paragone se non soltanto nell’evo moderno.
Così, per secoli, la scienza greca dominerà il mondo: tutta la scienza romana, medievale (cristiana ed araba) si [50] aggirerà intorno ad essa, come intorno al suo polo, talora corrompendola, talora falsandola, sempre ripetendola, non mai sorpassandola. Se, anzi, quel pensiero, più tardi, non sarà capace di grandi sviluppi, ciò avverrà perchè i continuatori si sforzeranno di parafrasarne la lettera, ma non più di intenderne le ispirazioni. E allorquando, con l’età del Rinascimento (secc. XV-XVI), la scienza umana ripiglierà il corso interrotto del suo progresso, ciò si dovrà, in gran parte, al fatto che gli uomini saranno tornati ad ascoltare direttamente la grande voce del pensiero greco.
[51]
11. La scienza nel mondo romano. — La scienza romana, come la coltura in genere del popolo romano, ebbe due periodi distinti: a) uno che corrisponde all’incirca ai primi cinque secoli di storia romana (dalle origini alla conquista dell’Italia meridionale, 754-270 a. C.), nei quali lo sviluppo del pensiero romano, sebbene contemporaneo a quello greco, ne rimase quasi del tutto indipendente, e in cui la scienza romana fu soggetta alle influenze locali, specie a quelle etrusche; b) un secondo periodo, che comincia dalla metà del III secolo a. C. e va sino al Medio Evo, nel quale la civiltà e le scienze romane furono profondamente influenzate dalla scienza greca del periodo classico e del periodo ellenistico.
In questa età, anzi, in cui l’Italia romana dominò tutto il mondo civile, non si può più parlare di scienza romana, ma della universa scienza, resa e diffusa in lingua latina o greca. Tuttavia, se è possibile stabilire in termini generici la distinzione che abbiamo enunciata, non è possibile trattare con rigore che soddisfi — separatamente — della scienza romana, nel primo e nel secondo periodo, perchè tutti i documenti che ce ne rimangono provengono esclusivamente da quest’ultimo, e perciò vi si trovano confusi insieme elementi italici ed elementi greci.
Praticamente, è più raccomandabile distinguere le opere di scienza del periodo romano scritte in latino da quelle [52] scritte in greco — la lingua, per eccellenza universale, della coltura antica —: come in realtà faremo nelle pagine seguenti.
A). La coltura scientifica romana. — Essa fu di valore grandemente inferiore a quella greca; il che deve probabilmente attribuirsi meno alle congenite qualità intellettuali del popolo romano, quanto a due fatti: 1) le difficili vicende che esso dovette affrontare e che non gli permisero per gran tempo di dedicarsi alla pura contemplazione scientifica; 2) il fascino dominatore, che su di esso, quando volle accostarsi alla coltura, esercitarono la scienza etrusca e poi quella greca.
B). Matematica e Astronomia. — Le cognizioni matematiche dei Romani furono scarsissime. La loro numerazione, che noi ben conosciamo,[37] era probabilmente di origine etrusca. Pei calcoli essi adoperavano l’ábaco: tavoletta suddivisa in colonne, nelle quali, per indicare le diverse unità del numero da rappresentare, si ponevano tante pietruzze (calculi),[38] quante occorrevano, oppure dei bottoni mobili, cui si assegnava un diverso valore a seconda il posto che occupavano nella scannellatura. Con tale sistema la moltiplicazione e la divisione si facevano per successive addizioni e sottrazioni attraverso un processo difficile e complicato.
L’aritmetica dei Romani conosceva anche le frazioni e le note regole dell’interesse. La loro geometria era la scienza pratica degli agrimensori. E anche entro questi limiti, essa si riduce ai problemi più semplici; manca di definizioni, di concetti fondamentali; molto spesso, di precisione. Ad es., per calcolare l’area di un fondo o di una città, i geometri si stavano paghi a misurare la lunghezza del circuito.
Nessuna traccia di matematica pura. Gli scrittori latini [53] di matematiche sono tutti posteriori al II secolo a. C., allorchè l’influenza greca era sensibile. Citiamo, fra essi, taluno illustre in altre discipline, o che rechi un valore speciale: il poligrafo[39] M. Terenzio Varrone (116-27 a. C.); Sesto Giulio Frontino (46-103 d. C.), ispettore degli acquedotti al tempo Vespasiano, forse il maggiore tra i matematici latini; il letterato C. Apuleio, un numida del II secolo di C.; Marziano Capella, un cartaginese del V secolo.
Quello che si è detto delle matematiche deve a maggior ragione ripetersi dell’astronomia. In questo campo il contributo del pensiero romano è assolutamente nullo. Se si parla di una storica riforma del calendario fatta da C. Giulio Cesare nel 46 a. C., per cui il calendario romano, in arretrato di 3 mesi, venne corretto, e per l’avvenire l’anno solare fu considerato di 365 e 1⁄4 (esso è in realtà di 3⁄400 più breve), ciò si dovette, non già a Cesare, ma all’astronomo greco Sosigene di Alessandria.[40] E se, nel tardo periodo della storia romana, si ebbero scrittori di astronomia (il citato Varrone, lo stesso C. Giulio Cesare, G. Firmino Materno, il citato Marziano Capella ecc.), essi furono o dei compilatori di scritti greci, o, peggio ancora, dei fraintenditori del pensiero greco, di cui non colgono mai la portata scientifica.
Il fatto stesso che il governo romano ebbe per sua norma di perseguitare gli «astronomi», certo mettendoli insieme con astrologhi, maghi e impostori, significa il poco conto in cui tale scienza era tenuta, e che essa si meritava.
C). Fisica e chimica. — Meno incolti furono i Romani in fisica e chimica, discepoli in ciò degli Etruschi. Ma la somma delle nozioni, di cui li troviamo in possesso, [54] non prova nulla, per il loro valore scientifico in questi campi. La loro scienza fisica e chimica, fu, come in genere tutta la scienza romana, pura erudizione. Essi preferivano rielaborare dottrine e cognizioni altrui, specie greche, di quello che scoprire nuovi fatti e nuove leggi scientifiche.
Le teorie atomiche di Democrito e di Epicuro vennero divulgate nel mondo romano dal grande poeta Tito Lucrezio Caro (95-52 a. C.) in un poema famoso, La Natura. Ma, oltre all’organico sistema scientifico che qui si illustra ed espone, è possibile cogliere, attraverso le opere letterarie e di compilazione scientifica dei Romani (L’Architettura di Vitruvio, vissuto nell’età di Augusto e Tiberio; le Questioni naturali del filosofo L. Anneo Seneca (2-66 d. C.)), le quali, se piccolissimo ne è il valore scientifico, furono adoperate nel Medio Evo come testo di fisica; la universale enciclopedia, ch’è la Storia naturale di Plinio il Vecchio († 79 d. C.), ecc.), numerose nozioni di fisica e di chimica che i Romani possedevano. Le meno comuni di tali cognizioni riguardano: a) le proprietà magnetiche (comprese quelle repulsive) della calamita; b) il fenomeno dei fulmini; c) il rapporto della temperatura con l’altezza e con l’evaporazione; d) la riflessione e la rifrazione della luce; e) la diversa velocità della luce e del suono; f) il fenomeno dell’arcobaleno e la natura dei colori; g) la diversa conducibilità dei corpi rispetto al calore ecc. ecc.
In modo analogo, i Romani, venuti in contatto con l’Oriente classico e con la civiltà ellenistica, nella quale l’industria teneva un posto eminente, entrarono in possesso di molte nozioni di chimica, di cui principalmente ci informa la Storia naturale di Plinio. Questi sapeva che si può fabbricar l’oro, o, piuttosto, del similoro, estraendolo da certi zolfi metallici. Sapeva che si può fabbricare l’ottone, riscaldando insieme rame, calamina e carbone di legna. Sapeva in che modo si fabbrica il bronzo, come si tratta il piombo, e persino distingueva il mercurio, nella qualità naturale estratta in Spagna, dalla sua qualità artificiale [55] di idrargirio, prodotto dalla distillazione del cinabro.
I Romani conoscevano anche molti composti metallici, che usavano o come sostanze coloranti o come medicinali. La loro chimica farmaceutica era, anzi, copiosissima. Ma la massima parte di questa dottrina l’avevano ricevuta dall’Oriente, ed essa, in ogni modo, non costituisce della scienza vera e propria, ma semplice empirismo meccanico.
D). Medicina. — Nel mondo romano, per circa sei secoli, la medicina non è che scienza pratica, attinta in genere agli Etruschi. Il maggior teorico ne fu Catone il Vecchio (II sec. di C.), tutto pieno di profondo aborrimento per la scienza greca in genere, per la scienza medica dei Greci, in specie.
La medicina scientifica fu portata nel mondo romano da un greco, un tal Arcagato, alla vigilia della Seconda Guerra punica (219 a. C.); e da questo momento essa passa, e rimane quasi esclusivamente, in potere dei Greci, e sostituisce del tutto la originaria scienza medica romana, anche se tra i suoi autori vi sarà qualche romano, come A. Cornelio Celso (età di Augusto).[41]
Ad ogni modo l’unica disciplina scientifica, che svegliò le intense preoccupazioni romane, fu certamente la medicina. Se la scienza è greca; se i medici sono greci, gl’incoraggiamenti, che dall’età di Cesare alla fine dell’Impero romano d’Occidente, lo Stato vi prodigò, furono romani.
Non solo i medici sono onorati indirettamente, con privilegi e con esenzioni da carichi pubblici, per loro e per le loro famiglie, ma la medicina è l’unica scienza che lo Stato tenga in onore e per cui esso fondi cattedre speciali accanto a quelle letterarie fondamentali delle scuole romane. Tale politica scolastica, che la Repubblica e l’Impero fedelmente [56] seguiranno, portò alla formazione di scuole di medicina, private e ufficiali, a Roma e in qualche altra città provinciale non greca dell’Impero, nonchè del soggiorno e dell’operosità scientifica, in Roma stessa, di taluno dei più insigni medici dell’antichità: M. Antonio Asclepiade e Antonio Musa, medici di Augusto, Senofonte di Cos, medico di Caligola e Claudio, Galeno, medico di M. Aurelio e Commodo ecc. ecc.
E). Zoologia e Botanica. — Egualmente, i Romani dapprima studiarono gli animali e le piante per utilità pratica, e soltanto per questo. Di tal natura ci appaiono le preoccupazioni, relative alle scienze naturali, negli scrittori di agricoltura: Catone il vecchio, Varrone, Columella. Lucrezio nel suo poema ha intendimenti scientifici; ma egli non fa che ripetere Democrito ed Epicuro, ossia gli atomisti. Egli è perciò un fautore della generazione spontanea delle piante e degli animali. Non di più valgono i libri della Storia naturale di Plinio, dedicati alla zoologia e alla botanica: pura compilazione, senza discernimento critico, di gran lunga inferiore alle opere di scienza greca. E lo stesso è a ripetere della Storia degli animali di Eliano (II sec. di C.),[42] e di qualche operetta erudita di età posteriore. In tutti questi autori, nessuno sforzo di osservazione diretta, di penetrazione, di organizzazione sistematica di resultati e di concetti personali.
Per trovare qualcosa di più eletto e di più originale in fatto di Scienze naturali occorre, nella letteratura latina, discendere fino agli scrittori cristiani, ai padri della Chiesa. S. Agostino (359-430), infatti, si propose di nuovo l’altissimo problema dell’origine della vita organica, e lo risolse contrariamente alla parola della Bibbia, ma, grazie a una ingegnosa interpretazione della medesima, conformemente ai più sani concetti della scienza antica. Iddio [57] non avrebbe creato immediatamente o direttamente le piante e gli animali; ma avrebbe impartito alla materia le leggi della generazione: avrebbe creato la vita, potenzialmente, non attualmente. Tale il concetto della sua polemica coi Manichèi: De Genesi contra Manichaeos.
La interpretazione di S. Agostino sarà più tardi quella di S. Tomaso di Aquino.
12. La scienza greca nel periodo romano (I-V sec. d. C.). — Ma contemporaneamente allo stabilirsi, nel mondo, del dominio romano, in seguito alla distruzione che la potenza romana compiè delle antiche dinastie ellenistiche dei Tolomei (in Egitto), dei Seleucidi (nel Regno di Siria), degli Attálidi (nel Regno di Pergamo), si ha l’ultima fioritura della scienza greca, pur troppo, assai pallida al confronto dei due periodi precedenti.
A). Matematica ed Astronomia. — Il più grande scienziato di quest’età è il dotto che ancor oggi ricordiamo: il celebre astronomo e matematico Claudio Tolomeo, che fiorì ad Alessandria intorno al 125-151 d. C. La sua opera principale è la Meghíste Syntáxis[43] (Sommo Compendio), che i suoi discepoli e successori denomineranno semplicemente la Meghíste, e gli Arabi, preponendovi l’articolo, ne faranno un Almidschisti, ossia Almagesto, sotto la quale denominazione ha signoreggiato tutta la scienza astronomica sino a Copernico.
In quest’opera sono parecchie dimostrazioni matematiche, alcune originali, altre no. Ma la parte più notevole è quella astronomica.
Tolomeo non fu un innovatore. La sua astronomia e la sua geografia astronomica sono tutte contenute negli studi e nelle osservazioni degli scienziati che lo avevano preceduto, specie del sommo Ipparco. Probabilmente, egli non fu un osservatore; ma gli sviluppi e i perfezionamenti, [58] che arrecò all’opera dei predecessori e, sopra tutto, la perfetta sistemazione del sistema astronomico che da lui prese il nome di Tolomaico, lo fecero per secoli maestro della scienza astronomica.
I punti fondamentali della teoria tolomaica sono contenuti nei primi due e negli ultimi cinque libri dell’Almagesto, sebbene egli scrivesse in proposito opere minori:
a) la terra è sferica; di che Tolomeo porge parecchi di quegli argomenti probativi, che anche oggi noi rechiamo, tralasciando però quello classico, tratto dall’eclisse,[44] e aggiungendo l’altro dell’aumento della superficie della Terra visibile, quando un osservatore si eleva a una certa altezza;
b) però la terra è immobile, e l’argomento che egli porta contro le prove, che inducevano i Pitagorici a sospettare di un movimento rotatorio della Terra, è notevole anche perchè è stato inconsapevolmente ripreso in questi ultimi tempi: le apparenze potersi spiegare egualmente tanto con un moto degli astri intorno alla Terra quanto con un moto della Terra intorno agli astri. Perchè, dunque, (egli chiedeva) propendere per la seconda soluzione, che contrasta alla diretta esperienza del senso?
c) la teoria del movimento dei pianeti. In questa parte Tolomeo conduce alla perfezione l’ipotesi di Apollonio di Perga e di Ipparco cfr. § 9 C.
Accanto a questi postulati fondamentali, Tolomeo portò all’astronomia parecchi contributi minori:
a) una trattazione più precisa dei movimenti della luna;
b) la descrizione e il metodo di costruzione del suo principale strumento astronomico: l’astrolabio;
[59]
c) numerose nozioni di geografia astronomica: una nuova misurazione della circonferenza della terra; tavole di longitudine e latitudine per le località conosciute ecc. ecc.
Con Tolomeo, la teoria eliocentrica è decisamente battuta, e la teoria geocentrica trionfa completamente. Ma tanta vittoria si accompagna con un fenomeno sgradevolissimo: con lui, con Tolomeo, il progresso della scienza astronomica, nell’antichità, nel Medio Evo, nonchè nella prima parte dell’età moderna, si arresta decisamente. Dopo di lui, non avremo più astronomi, e la scienza astronomica greca sembrerà di aver esaurito tutto il suo compito.
Fu questa vera gloria, ossia fu veramente meritato il riconoscimento di tanta autorità senza confini, che riuscì in modo unico a mettere fuori combattimento ogni altra autorità?
Oggi, al di sopra del grandioso duello, che nel secolo di Galilei e di Copernico si combattè, e non sempre in nome della scienza, pro e contro il sistema tolemaico o copernicano, può rispondersi affermativamente.
L’opera di Tolomeo, nella quale, con tutti i suoi errori, si compendia la parte più caratteristica della astronomia antica, è davvero superba. In essa, sul fondamento della sterminata copia di osservazioni, che gli Orientali, e poi i Greci, avevano fatte, si giungeva, coll’aiuto specialmente delle matematiche, alla enunciazione di alcune leggi generali, nel che consiste la vera scienza. Inoltre, la raffigurazione e, talora, la spiegazione dei varii movimenti del sistema solare, che Tolomeo condusse alla perfezione, fu, ed è, per la scienza astronomica un acquisto di valore incalcolabile. L’errore stesso che la macolava, la ipotesi geocentrica, che informa la dottrina tolomaica (come quella dei suoi immediati predecessori), non era da Tolomeo ammessa come una verità indiscutibile, ma come l’ipotesi provvisoria, che meno difficilmente d’ogni altra (a suo avviso) spiegava i fatti, di cui si ricercavano le leggi, e con cui essa sembrava meglio accordarsi. I seguaci di Tolomeo [60] che di quell’ipotesi faranno un dogma inviolabile, tradiranno il maestro; non lo continueranno.
Certamente, Tolomeo fu meno originale di quello che il volgo non pensi. L’astronomo alessandrino dovette moltissimo a Ipparco, cosa per altro, ch’egli stesso riconobbe. Ma a lui, d’altra parte, si deve il merito di aver saputo apprezzare l’opera di Ipparco, di avercela conservata e tramandata, non senza renderla più completa e perfetta, specie grazie alla propria competenza matematica.
Dopo Tolomeo noi non abbiamo a nominare che due soli matematici: Pappo e Diofanto. Pappo appartenne alla scuola alessandrina, fiorì intorno al 300 d. C., commentò l’Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide, e ci lasciò una Synagoghè, ossia una collezione di scritti sulla geometria, importantissima nei riguardi della storia della geometria greca. Egli è così l’ultimo geometra dell’antichità classica.
Diofanto di Alessandria è di poco più giovane di lui. La sua importanza sta in questo: che egli ci lasciò una Aritmetica, o, piuttosto, 7 libri di questa sua opera, che è il più antico trattato di algebra greca da noi posseduto. E poichè noi non sappiamo per nessuna via, se, prima di Diofanto, i Greci avessero coltivato l’algebra, la sua importanza, per questo rispetto, è veramente unica.[45]
B). Fisica e Chimica. — Il talento universale di Tolomeo (se non propriamente il suo genio) domina anche il campo della fisica. Egli scrisse un libro di Ottica, dal quale apprendiamo: a) ch’egli studiò con cura i due fenomeni della riflessione e della rifrazione della luce, e per primo misurò l’angolo di incidenza e quello di rifrazione nel passaggio della luce dall’aria nell’acqua, dall’aria nel vetro, dal vetro nell’acqua; b) che svolse una teorica degli specchi piani e concavi.
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Pur troppo, la teoria, con la quale egli spiegava il fatto della visione, è una delle più arretrate: ancora quella empedoclea (cfr. § 7 C). Anch’egli immaginava che la visione avvenisse per dei «raggi visivi», che l’occhio lancia sull’oggetto a percepirne l’imagine. Democrito e gli Aristotelici avevano imaginato qualche cosa di meglio (cfr. §§ 7 D; 8 C). Tolomeo, invece, regredisce, fino ad Empedocle, accettando, della dottrina aristotelica, solo questo: che i raggi visivi, partiti dall’occhio, raggiunto l’oggetto, rimbalzano sull’occhio stesso, e vi determinano la sensazione del vedere.
Oltrechè di ottica, Tolomeo si occupò di acustica, e nelle sue Armoniche ci dette un’opera sulla musica, nella quale si contiene la gamma diatonica con le note musicali e gli accordi che ancor oggi adoperiamo.
C). Chimica. — Noi sappiamo pochissimo, o nulla, quasi, dello stato della chimica nell’Impero romano al di fuori del campo della civiltà romana. Tuttavia, dai replicati editti di persecuzione degli imperatori contro gli alchimisti e contro gli scritti egiziani di alchimia si può argomentare che di chimica dovesse continuarsi a scrivere e a studiare in Egitto, ma che questa disciplina fosse ridotta a materia troppo spregevole per unire contro di sè l’aborrimento di imperatori italici ed extraitalici, pagani e cristiani.
Gli scritti di chimica, che se ne poterono salvare, si rifugiarono nelle biblioteche private delle regioni più orientali dell’Impero, e ivi furono tradotti dal greco in siriaco. Di là la scienza araba verrà più tardi a disseppellirli.
D). Medicina. — Grazie al favore accordato dal governo romano alla medicina; grazie alla persistenza della scuola medica di Alessandria, che, per tutto l’Impero, rimase come un istituto universale di perfezionamento, il periodo romano, a cominciare dal I, anzi, dal II sec. a. C., vanta, non solo grandi scienziati greci nel campo della medicina, ma, altresì, nuove correnti di pensiero medico.
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Un nuovo indirizzo comincia con Asclepiade di Bitinia, vissuto lungamente a Roma nei secc. II-I a. C. e amico di Cicerone, Lucrezio, M. Crasso ed altri: la scuola che, di fronte all’ippocratismo greco e al vecchio empirismo romano, si disse metodista.
La medicina di Asclepiade si fondava sull’osservazione dello stato dei tessuti, e non più degli umori, del corpo umano. Secondo Asclepiade e i suoi continuatori, soltanto la permeabilità dei pori e la regolarità delle secrezioni e delle evacuazioni dànno la esatta idea dello stato di salute degli individui.
I metodisti curavano perciò i malati con maggior abbondanza di medicine che non gli ippocratici. Ciò non ostante, il loro metodo curativo — la loro terapeutica —, sia perchè si affidava molto alle risorse del malato, sia perchè si fondava in gran parte sur un trattamento igienico, li raccostava molto agli ippocratici.
Metodista fu Celso, cui abbiamo accennato (§§ 11 D) e, più ancora, Sorano di Efeso (II sec. d. C.), che studiò in Alessandria e insegnò a Roma, e fu autore di un eccellente manuale sulle Malattie delle donne. Un secolo dopo, Sorano trovò un fedelissimo ripetitore e divulgatore in Celio Aureliano (III-IV sec. d. C), autore di un volume sulle Malattie acute e croniche.
Di contro al metodismo, sorsero l’eclettismo, deliberato ad accogliere da ogni scuola tutte le verità di cui esse erano capaci, e il pneumatismo, un ramo (o una corruzione) del vecchio ippocratismo, i cui seguaci credevano nell’esistenza di uno pneuma, agente universale degli esseri organici, ispiratore universale dei processi fisiologici.
Ma il massimo medico greco dell’età romana è Galeno di Pergamo (131-201 o 210 d. C.), che visse lungamente a Roma, che combattè i metodisti e a cui gli antichi attribuivano circa 500 opere d’ogni genere; ma di cui in realtà ci rimangono solo un’ottantina di trattati medici autentici.
[63]
Studiò ad Alessandria e perciò fu grande anatomista; ma dell’uomo conobbe solo lo scheletro, e della restante anatomia ebbe notizia per l’analogia con gli animali, che dissecò e vivisezionò in gran copia. Fu anche fisiologo, cioè conoscitore delle funzioni dei vari organi, specie di quelli del sistema nervoso. Però le sue interpretazioni, le sue dottrine fisiologiche valgono assai meno della sue conoscenze positive.
Egli fu, in sostanza, un ippocratico. Ma l’antica dottrina di Ippocrate dei quattro umori egli volle artificiosamente far coincidere con quella dei quattro corpi semplici dei filosofi ionici e con le quattro qualità aristoteliche, della materia (caldo, freddo; secco, umido).
La sua patologia (studio delle malattie) è buona come descrizione, e buona, anche, la sua classificazione delle malattie attinta ai metodisti. La sua terapeutica (cura delle malattie) è assai somigliante a quella ippocratica: fondata, cioè, sull’igiene, fiduciosa nelle risorse naturali dell’organismo e, sopra tutto, come suol dirsi, temporeggiatrice. Ma, a differenza degli Ippocratici, la sua farmaceutica è abbondante.
Capitato a Roma tra molte sètte mediche rivali, egli le dominò tutte, scegliendo da ciascuna il meglio. Fu, in fondo, un eclettico, ma non volle dirsi tale. Però dove potè portare i contributi della anatomia e della fisiologia sperimentale egli riuscì veramente originale e fecondo.
E). Zoologia e botanica. — La zoologia e la botanica non fecero, durante l’età imperiale romana, alcun progresso. Rimasero immobili ad Aristotele e a Teofrasto. Un solo nome emerge: quello del greco Dioscoride, il quale, pur ripetendo ed enumerando fatti botanici, noti ai suoi predecessori, descrisse 600 piante e ne tentò una classificazione in quattro gruppi: aromatiche, alimentari, medicinali, vinifere. Pur troppo, di buono, in questa classificazione, v’è solo il tentativo: i criterii che la ispirarono furono, come si vede, superficialissimi.
[64]
13. Valore della coltura scientifica dell’età romana. — Al paragone della scienza greca del periodo greco classico e di quello ellenistico, deve convenirsi che la scienza, nei secoli che scorrono dal I secolo dell’êra volgare alla fine dell’Impero romano, discese a un livello assai basso. La coltura latina, in Italia e nelle provincie conquistate da Roma, vi arrecò un contributo minimo, e la nuova fase della scienza greca è assai pallida cosa al confronto delle età precedenti: dove non si ha ripetizione od elaborazione di dottrine già note si ha, letteralmente, un regresso; i nuovi cultori della scienza sono dei letterati, degli eruditi più che degli scienziati.
Tale il quadro generale, che non muta aspetto per le eccezioni, che sono rappresentate, in astronomia, da Tolomeo, in matematica, da Diofanto, in medicina, da Celso e Galeno.
Quali le ragioni del fatto? La prima è lo scarso interessamento della coltura latina, verso le scienze, che portò di conseguenza la scarsezza di scuole scientifiche, private e pubbliche, l’indifferenza dello Stato per ogni incoraggiamento a questo ramo di studî. Poi la decadenza, politica, economica, sociale, della nazione greca, che portò la sua decadenza intellettuale. Finalmente, la distruzione delle grandi monarchie ellenistiche (dei Tolomei, dei Seleucidi, degli Attalidi), che sì numerose istituzioni avevano creato a vantaggio della scienza, e a cui poco o nulla fu sostituito.
Nei due ultimi secoli dell’Impero, a queste cause si deve aggiungerne una nuova, che eserciterà la sua influenza su tutto il Medio Evo: lo spirito deliberatamente antiscientifico della nuova religione cristiana.
[65]
14. Carattere generale della cultura scientifica del Medio Evo. — La coltura scientifica nel Medio Evo — in quest’età piena di disordini, d’invasioni esterne, di torbidi interni —; la coltura scientifica, diciamo, come ogni forma di coltura, decade profondamente. I suoi caratteri più visibili sono i seguenti:
a) Fin adesso le singole scienze si erano andate specializzando, e avevano via via assunto una fisionomia propria; ora, invece, ciascuna perde la sua fisionomia e tutte tornano ad uno stadio indistinto, per cui l’una si confonde ed infonde nell’altra. Non si avrà più una scienza matematica, fisica, medica ecc., ma si avrà una scienza universale che abbraccia tutto il sapere, fortemente ridotto e indifferenziato, dell’epoca. La scienza cede il posto all’enciclopedia universale. Insigne monumento letterario fra tutti gli altri, ma che reca anch’esso, in modo solenne, l’impronta di questo preciso carattere della scienza medievale, è la Divina Commedia di Dante Alighieri.
b) Nell’antichissimo Oriente le scienze erano state impacciate e ingombre di prevenzioni religiose. Nel periodo classico greco, i progressi della scienza erano stati impacciati dall’eccessivo speculare filosofico in luogo del paziente osservare e sperimentare. Il periodo greco-ellenistico aveva decisamente rotto con questo andazzo. La scienza aveva tralasciato di proporsi il problema ultimo dell’essere [66] e aveva preferito ricercare le leggi di gruppi singoli di fenomeni.
Ora, invece, si torna all’antichissimo indirizzo. Ora, come nell’Oriente classico, la scienza è asservita alle dottrine e agli insegnamenti religiosi. In tempi, come furono i secoli del Medio Evo, di ardente fede cristiana e dominati dall’autorità grandissima della Chiesa, non poteva accadere altrimenti. Il primo compito del pensatore medievale è credere; il secondo è intendere. Ma bisognerà intendere solo per meglio credere! Tuttavia, se la formula della fede è quella fissata dalla rivelazione dell’Evangelo, legittimamente interpretata dalla Chiesa, non si mancherà di cercare di dimostrarla anche con gli aiuti del pensiero laico. E giacchè tra i pochi libri superstiti dell’antica, sempre onorata, coltura classica il primo posto è tenuto dalle opere di filosofia di Aristotele, i concetti fondamentali dell’aristotelismo sono ora adoperati a cementare l’edifizio del pensiero della filosofia cristiana.
Tale il carattere del grosso della filosofia medievale, o, per lo meno, della così detta scolastica:[46] la corrente più ampia, di filosofia medievale, che mette capo all’opera del suo massimo filosofo, S. Tomaso d’Aquino (1227-1275), e i cui criterii regoleranno quasi tutta la scienza medievale.
c) Ma non solo è ora falsato il contenuto della scienza, bensì anche il metodo per arrivarci. Assolutamente, non si studiano più, non più si osservano ed esperimentano i fatti, come Aristotele aveva inculcato e la scienza ellenistica praticato; non se ne elaborano i resultati con l’aiuto della libera ragione. Ma si cerca di creare la scienza, deducendone concetti e leggi da nozioni generali di filosofia o da postulati religiosi. Anche da Aristotele, ossia dalle regole che egli aveva assegnate all’umano ragionare, sono tratte ora le norme, con cui allacciare, attraverso i suoi anelli la nuova catena di deduzioni scientifiche. Così, privata di [67] due dei suoi necessari elementi — l’osservazione e l’esperimento — la scienza medievale costruirà dottrine puramente formalistiche, e tanto vuote quanto presuntuose, come quelle che si ritenevano fondate su teoriche superiori e infallibili.
Questo complesso di presupposti filosofici e di nozioni pseudo-scientifiche sarà intitolato ad Aristotele: sarà detto l’aristotelismo medievale, tanto diverso dallo spirito del vero Aristotele, e contro cui la scienza dovrà lungamente combattere quando vorrà risorgere.
Una netta distinzione va però fatta, nel Medio Evo, fra la coltura scientifica del mondo arabo e la coltura scientifica del mondo cristiano occidentale. La decadenza, di cui parliamo, si riferisce specialmente a quest’ultimo, ove pure, specie grazie al pensiero greco, la scienza era dapprima nata è salita a grande altezza. Il mondo arabo invece, ossia quella parte dell’Asia Occidentale, dell’Africa settentrionale, e, più tardi, la Spagna, conquistate nei secc. VII-VIII dal nuovo popolo semitico degli Arabi, non perde i contatti con la scienza greca, ne diviene, anzi, l’erede, si sforza di conoscerla, diffonderla, approfondirla.
Qui, più che di decadenza, deve parlarsi di arresto, di stasi. E la prima rinascita scientifica dell’Occidente sarà dovuta alle influenze arabe.
15. La coltura scientifica nell’alto Medio Evo (secoli VI-XII): A). Nel mondo cristiano. — Dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente, in Europa, il culto delle matematiche si spegne completamente per circa un secolo. Il matematico non è che un astrologo, un indovino, un ciarlatano, la cui scienza è interdetta ufficialmente dai nuovi governi barbarici. Un solo personaggio è da menzionare tra la fine del sec. V e i primi del sec. VII: Severino Boezio (480-524), una delle vittime della reazione degli ultimi anni del re ostrogoto in Italia, Teodorico. Egli fu autore di un operetta famosa, scritta in carcere, La filosofia [68] consolatrice (De consolatione philosophiae), ma scrisse anche due libri di aritmetica e di geometria, riassunto di matematici greci, specie di Euclide. Or bene, nella sua geometria, egli ci fa cenno della conoscenza, presso gli antichi (egli dice i Pitagorici), di cifre, somigliantissime a quelle usate dagli Arabi d’Occidente (i così detti numerali Gubar), che sono le progenitrici delle nostre cifre. Noi non riusciamo, neanche oggi, a spiegare in che modo la notizia di tali cifre fosse penetrata nella coltura matematica dei Romani del Medio Evo. Tuttavia, a parte questo particolare, che c’impressiona, la Geometria di Boezio, l’ultima opera matematica romana, dell’evo antico e la prima dell’evo medio, è di scarsissimo valore. Contiene gli enunciati del primo libro di Euclide, di poche proposizioni del terzo e quarto libro senza dimostrazione. Alquanto migliore è la sua Aritmetica. Tuttavia, l’una e l’altra rimasero in Occidente, per circa sette secoli, come l’unica fonte di questo genere di coltura scientifica.
Le discipline matematiche, come la coltura dell’epoca risorgono, nel sec. IX, al costituirsi dell’Impero carolingio, che rinnova nella storia medievale la stessa funzione, che avea avuta l’antico Impero romano: quella cioè di costituire, in mezzo a un mondo barbarico, un’oasi di pace e di civiltà. Or bene, nella riforma della istruzione dell’Impero, fatta da Carlo Magno, e di cui il merito principale è da attribuire al monaco anglosassone Alcuino (735-804), che fu come il suo ministro della istruzione pubblica, noi troviamo che le nuove scuole, nel corso superiore (il quadrivio), hanno anche l’insegnamento dell’aritmetica, della geometria, dell’astronomia. Egli, Alcuino, compose, a questo proposito, una raccolta di problemi dal titolo — Quesiti per aguzzare l’ingegno dei giovani —, ed egli stesso, con altri, fu incaricato di tenere a Corte delle lezioni di matematica e di astronomia.
La riforma dell’istruzione, compiuta da Carlo Magno e da Alcuino, ha carattere principalmente ecclesiastico. Certo, [69] il grande imperatore volle che anche il popolo potesse istruirsi, e richiese che in ogni cittadina o villaggio, il prete tenesse scuola gratuita ai fanciulli. Ma le sue grandi riforme riguardarono le scuole annesse ai vescovati e ai monasteri, dove monaci e laici, ma specie i primi, avrebbero coltivato i rami superiori della coltura.
La sua riforma non potè mancare di dare qualche frutto, se non per la scienza (nella quale non troviamo l’ombra di un progresso, anzi si rimane lontanissimi dall’altezza raggiunta nel periodo alessandrino), per la diffusione della coltura. Naturalmente, le tempestose vicende che l’Impero carolingio dovette affrontare dalla morte di Carlo Magno alla sua finale catastrofe, nell’887, non erano fatte per incoraggiare gli studii scientifici. Di peggio avvenne col dissolversi dell’Impero, e con le lotte che tosto si accesero in ognuna delle tre grandi sezioni politiche, che ne emersero (Italia, Francia, Germania), fra i pretendenti alla Corona regia e imperiale.
Soltanto, in sullo scorcio del sec. X, al primo consolidarsi della monarchia in Francia per opera della Casa dei Capetingi, e, in Germania, per opera degli Ottoni, si ha una ripresa nel campo della coltura scientifica.
Anche ora, come nei cinque secoli precedenti, benchè non manchino scuole laiche, private o sovvenute dai municipii, la coltura vive specialmente all’ombra dei conventi, e nelle scuole ecclesiastiche (vescovili e monastiche). Non a caso, perciò, il più grande dotto del sec. X è un monaco — Gerberto (940-1003, che sarà poi papa Silvestro II) — matematico, astronomo, fisico ecc. La sua celebre scuola ebbe sede a Rheims; vi si insegnavano tutte le discipline scientifiche del tempo; vi si davano esperimenti di fisica, e a lui si attribuisce la costruzione di organi idraulici. Egli stesso scrisse di matematica (non andò tuttavia oltre il segno a cui era giunto Boezio), e ricercò dovunque libri antichi di scienza, divenuti ormai rarissimi.
Proprio, a motivo della sua scienza e delle sue pratiche [70] scientifiche, la vita di Gerberto fu agitatissima. Il volgo lo riteneva uno stregone; le autorità ecclesiastiche lo colpirono più volte. Ma è innegabile la sua influenza sui suoi contemporanei e sui dotti dei due secoli a lui successivi: i secc. XI e XII. In questo lungo periodo la scuola di Rheims fu la mèta del pellegrinaggio degli amatori della scienza di ogni Paese; i quali, tornati in patria, vi diffondevano il sapere che colà avevano attinto.
Una speciale importanza ebbe il fatto che, nella sua scuola di Rheims, Gerberto aveva insegnato anche le dottrine filosofiche di Aristotele, che però egli non conosceva direttamente, ma attraverso quanto ne tramandavano gli scrittori latini, specie Boezio. L’amore, che egli seppe istillare per Aristotele, fu così grande, che i suoi discepoli furono invogliati a ricercarne direttamente le opere, e le chiesero, più che alla letteratura greca, di cui si era scordata la lingua, alle traduzioni arabe. Dal che dovevano venire profondi rivolgimenti.
La ignoranza scientifica, che fin ora abbiamo notata presso gli Occidentali nell’alto Medio Evo, nei riguardi delle scienze più nobili dell’antichità — la matematica, e l’astronomia — è forse ancor più profonda nei riguardi della fisica, della chimica, della zoologia, della botanica.
Non soltanto la parola fisica, ma il contenuto stesso di questa disciplina, viene ora giudicato come qualcosa di abietto — quale cura volgare delle cose materiali —, anzi di contrario alla religione e alla scienza divina. Quindi la «fisica» fu fieramente avversata dalla Chiesa, nè il clero, nelle cui mani era tutta la coltura del tempo, volle occuparsene. Gli eretici medievali sono denominati epicurèi, ed eretica è considerata la più grande teoria fisica dell’antichità — quella atomica —, insegnata da Democrito e da Epicuro.
Tuttavia l’atomismo non è spento, e noi troviamo un fisico, un monaco, Guglielmo de Conches († 1150), il quale, [71] pur senza pronunziare il nome aborrito, è un ripetitore della teoria atomica.
Ma la condanna morale della religione e della Chiesa contro gli studii di fisica non risultava sufficiente. Gli oscuri contravventori dovevano essere numerosi. Perciò, con l’organizzarsi della Inquisizione, in sui primi del sec. XIII, fu inferto un colpo mortale allo studio della fisica: nel 1245 i Domenicani lo proibirono assolutamente in seno al loro ordine. In tema di fisica non si può nè ricercare nè speculare; si deve star paghi alla teoria enunciata da S. Tommaso d’Aquino (1227-75), il massimo filosofo medievale, la quale, in fondo, è una teoria aristotelica. Che, cioè, la materia è inerte, priva di energia interna, e la vita, il moto delle cose, non dipendono da essa, ma dallo Spirito, dalla Volontà suprema che regge il mondo, e ch’è la vera causa di ogni così detto fenomeno fisico.
Unico, nuovo strumento fisico, introdotto nell’Europa medievale, è la bussola; il che fu dovuto alle superiori esigenze delle città marinare italiane. La sua prima menzione risale al sec. XII, ma essa ne è certamente anteriore. Gli Amalfitani pare ne fossero gli introduttori in Occidente, avendola conosciuta presso gli Arabi, che a loro volta, forse, l’avevano appresa dai Cinesi. Essa era, allora, grossolanamente formata da un ago calamitato, collocato sur un assicella di legno o in una cannuccia galleggiante sull’acqua. L’Amalfitano Flavio Gioia (secc. XIII-XIV) non fu dunque l’inventore, ma solo il perfezionatore della bussola.
Col decadere o col disparire dell’attività industriale in Occidente, manca l’incentivo a qualunque speculazione ed esperienza di chimica. Solo verso i secc. XI-XII, sotto l’influenza dell’alchimia araba, che, attraverso la Spagna e l’Italia meridionale, passa nell’Occidente cristiano, comincia a svilupparsi un’alchimia cristiana.
Analogamente, l’unico scritto, che possa avere attinenza con le scienze così dette naturali (zoologia e botanica) è un [72] libro de Le Origini del vescovo di Siviglia, Isidoro (a mezzo il sec. VII), in cui quelle discipline dimostrarono di essere precipitate in uno stadio ancor più caotico che non negli ultimi secoli del periodo romano.
Unica scienza, che sornuota all’universale naufragio, è la medicina, grazie alla sua importanza pratica.
Le scuole mediche non furono, come le altre, in cui s’impartiva la restante cultura scientifica, vietate dalle autorità ecclesiastiche, o perseguitate dai Barbari, o trascurate dai principati barbarici medievali. In tutto l’Occidente, nel corso dei secc. X-XII, si hanno scuole di medicina nei chiostri, tal quale come, un tempo, in Grecia, prima di Ippocrate, e fuori di essi. A Milano, nell’VIII secolo, si insegnano le dottrine di Ippocrate e di Galeno; nelle abbazie di San Gallo (in Francia) e di Monte Cassino, in Italia, si copiano manoscritti medici antichi. Ma la Scuola medica più gloriosa è quella che si istituisce, non sappiamo precisamente quando, certo prima del mille, in Salerno, capoluogo dell’omonimo principato longobardico, dove gli insegnamenti medici si ispirano a Galeno; dove si narra ci fossero anche donne diplomate in medicina; dove si impartiscono precetti medici, che fanno testo, e richiamano l’attenzione di principi indigeni e stranieri, quali il re d’Inghilterra; una scuola, insomma, che più tardi attirerà su di sè il favore e la protezione dei sovrani normanni, prima, dei monarchi svevi, poi.
Gli è appunto in questo tempo, ossia nell’età di Federico II di Svevia (primo cinquantennio del sec. XIII), che la cultura dell’Europa cristiana occidentale entra in diretto rapporto con la cultura araba.
B). Gli Arabi e la coltura (secc. VII-XII). — Mentre le tenebre dell’ignoranza calavano sull’Europa occidentale, si fondava in Oriente l’Impero arabo, il quale, nei sec. VII-VIII, si stendeva già sulla Persia, sulla Mesopotamia, la Siria, l’Egitto, su tutta l’Africa settentrionale e, in Occidente, anche in Spagna.
[73]
Alla dinastia dei Califfi Abassidi toccò la massima parte — tutta la sezione orientale — di questo vasto impero, ed essi posero la loro capitale in Bagdàd sull’Eufrate, non lungi dall’antica Babilonia, e perciò in sede adatta ad accogliere le correnti della civiltà ellenistica, ossia della civiltà greco-orientale, che da Alessandro Magno si era sparsa per tutto l’Oriente, e della civiltà indiana, rimasta fin allora come isolata dal mondo.
Essi, a differenza dei principi dell’Europa occidentale loro contemporanei, furono grandi mecenati, sommi protettori delle scienze e delle arti.[47] Alla loro Corte si raccolsero scienziati greci, persiani, indiani; essi fecero ricercare, studiare e tradurre le principali opere della scienza greca antica, e, se non sempre gli Arabi ne continuarono con nuovi progressi i resultati, ne furono — essi i barbari di ieri — i più fedeli custodi.
L’efficacia dell’opera loro non cessa coi secc. XII-XIII, allorquando il mondo arabo orientale subì delle gravissime traversie, attaccato dai Cristiani con le Crociate, in Spagna e nell’Asia occidentale, e dai barbari, Turchi e Mongoli, nell’Asia orientale. Sotto i colpi di questi ultimi, barbari ferocissimi, finisce, anzi, il califfato di Bagdàd (1258). Ma gli Arabi, da un lato, consegneranno all’Occidente cristiano la fiaccola del sapere, che soli per sette secoli avevano custodita, dall’altro, lascieranno in eredità ai Mongoli conquistatori la stessa passione della coltura, da cui essi erano stati presi. E le Corti del famoso Gengiskan, nel sec. XIII, e poi, un secolo più tardi, quella del terribile Tamerlano (in Samarcanda) rivaleggeranno per splendore di mecenatismo con quelle arabe, che le avevano precedute.
Bagdàd non fu l’unico centro della coltura araba. In Egitto essa ebbe sede in Cairo, la nuova città araba, che detronizza la greca Alessandria, e dove, specie per opera [74] dei Califfi Fatimidi, viene fondata una biblioteca più grandiosa di quella di Alessandria. Nella Spagna, dove non dominarono gli Abassidi, ma i Califfi Omiadi, fiorirono scuole luminose: a Siviglia, Cordova, Granata, Toledo, altrove.
C). La coltura scientifica degli Arabi: a) Matematica e Astronomia. — Le due scienze, nelle quali gli Arabi si segnalarono specialmente, furono le matematiche e l’astronomia. Essi ebbero il vantaggio di poter fondere insieme i progressi compiuti in matematica e in astronomia, dai Greci, alle cui opere attinsero direttamente, con quelli, compiuti dagli Indiani. Al principio del sec. X tutti gli scritti principali dei matematici greci — in primo, gli Elementi di Euclide, l’Almagesto di Tolomeo, e poi le opere di Apollonio, Archimede, Erone, Diofanto — erano tradotte in arabo, e gli Arabi si erano appropriati di tutte le conquiste matematiche del genio greco. D’altro canto essi leggevano le opere matematiche degli Indiani,[48] e da loro ritraevano il sistema di numerazione e le progredite cognizioni algebriche (cfr. § 4).
Singolare è la storia delle cifre così dette arabiche (le quali poi sono indiane), che gli Arabi adottarono, e che da loro sono passate a noi. Gli Indiani non usarono un sistema di numerazione identico per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Fin dal secondo secolo di C., essi possedevano nove segni per indicare i primi nove numeri, ma non lo zero, elemento fondamentale della futura numerazione indiano-araba, e della nostra attuale, come quello che, pur non avendo valore, serve a dare un differente valore alle cifre cui si raccosta. Queste cifre pare siano state conosciute in Occidente (cfr. § 15 A), e certo furono adottate dagli Arabi di Spagna col nome di numerali gubar. Più tardi, verso l’ottavo secolo di C., non solo la forma delle antiche cifre indiane è cambiata, ma ad esse si è [75] aggiunto lo zero nella nota forma di cerchietto: tali sono i numerali, che furono adottati dagli Arabi d’Oriente. Modificazioni ulteriori trasformarono le cifre indiane nei moderni segni detti devanagari, che anche gli Arabi accolsero e trasmisero a noi, porgendoci così il mezzo di eseguire rapidamente le operazioni aritmetiche con l’usare una serie brevissima di dieci segni numerici, ma fondata sul principio che una cifra, scritta a sinistra di un’altra, acquista un valore dieci volte maggiore.[49]
Più tardi, però, ossia fin dal sec. IX, gli Arabi vantano, oltre alle traduzioni greche, opere originali.
Quale il valore e il contributo, recato direttamente dagli Arabi alle matematiche e all’astronomia? Il loro merito è, diremo così, di carattere più estensivo che intensivo. Essi acquistarono una conoscenza completa di tutto quanto i Greci avevano scoperto nelle matematiche; ma, eccezion fatta della trigonometria, che perfezionarono, che trattarono per i primi indipendentemente dall’astronomia, e a cui dettero la forma attuale, essi lasciarono immutate, quali le avevano ricevute dai Greci, le altre parti della geometria. Per contro, avendo appreso l’algebra dagli Indiani, l’applicarono alla geometria, e si spinsero fino alla soluzione delle equazioni di 3º grado mediante costruzioni geometriche. Come si vede anche da quest’unico esempio, gli Arabi non trattarono separatamente geometria ed algebra, ma l’una col mezzo dell’altra, precorrendo e fissando in tal modo uno dei caratteri della matematica moderna ed anche molti dei progressi della geometria, dopo il sec. XVI.[50]
Dell’astronomia gli Arabi ebbero bisogno, forse più che [76] delle matematiche, perchè certe norme religiose richiedevano la conoscenza della direzione in cui si trova la Mecca; perchè i digiuni e le festività maomettane dovevano farsi in corrispondenza delle fasi lunari; perchè la mirabile trasparenza del cielo orientale invita naturalmente alle osservazioni astronomiche; infine perchè, specie le civiltà orientali, con cui gli Arabi entrarono in intimo contatto, credevano fermamente che i moti degli astri, le eclissi ecc. avessero influenza sul destino degli uomini e che si potesse predire il futuro delle vicende umane (cfr. §§ 2 A; 3 A).
Per ciò gli studii astronomici furono, presso gli Arabi, in gran voga, e, oltre a voler tradotte le opere degli astronomi greci, i principi arabi fondarono osservatorii astronomici (a Damasco, Bagdàd, Cordova) e fecero istituire serie, continuate e metodiche, di osservazioni. Si ebbe perciò campo di correggere e perfezionare le tavole astronomiche greche e gli istrumenti fin allora conosciuti e adoperati; si applicò, infine, largamente, la matematica all’astronomia.
Come abbiamo accennato, anche quando, in Oriente, il dominio dei Califfi cedette il posto a quello dei Mongoli, l’eredità della loro scienza — specie in astronomia — rimase intatta, e gli astronomi di Gengiskan usavano strumenti, per grandezza e per costruzione, superiori, forse, a quelli usati dagli Europei nell’età di Copernico (sec. XVI).
Tuttavia deve dirsi che nessuna grande scoperta può essere attribuita all’astronomia araba. Gli Arabi assimilarono le idee altrui, le perfezionarono, le corressero, in quanto erano osservatori pazienti e calcolatori abilissimi. Ma nulla più: il massimo dei servizi, reso dagli Arabi all’astronomia, può dirsi questo: ch’essi conservarono e tramandarono all’età moderna la scienza greca, la quale senza di loro sarebbe forse andata dispersa.[51]
[77]
Ecco qualche nome di matematici-astronomi arabi: Maometto ben Musa al Hovarezmi (sec. IX), Al Battani e Abul Wafa (sec. X), Gebar, Omar Al Hayami (secc. XI-XII), Nassir Eddin (sec. XIII), astronomo di Gengiskan; Zerkakali, in Spagna (sec. XI), ecc.
D). Fisica e Chimica. — Come in astronomia e matematica, così anche in fisica, gli Arabi furono fedeli discepoli dei Greci, le cui dottrine essi continuarono, e, in qualche punto, perfezionarono. Ma in verità essi trattarono a fondo un solo ramo della fisica: l’ottica. Notevolissimi, ad esempio, furono gli studii di ottica di Al Hazen (secc. X-XI), che scrisse appunto un’Ottica. Egli sostenne, e, per la prima volta, in modo preciso, che il fenomeno della visione non dipende da raggi luminosi, che partano dall’occhio, ma al contrario, da fasci di raggi luminosi, in forma di piramide, che si partono dall’oggetto, e penetrano nell’occhio, aventi come vertice il punto dell’oggetto da cui muovono e come base la pupilla dell’occhio. Egli è il primo fisico che ci abbia dato una descrizione particolareggiata dell’occhio umano. Non basta: nella sua Ottica, pigliando le mosse da Tolomeo, egli ristudiò a fondo le leggi della propagazione, della riflessione e della rifrazione della luce. Famoso è il problema di ottica che porta il suo nome (il problema di Al Hazen): data la posizione di un punto luminoso e dell’occhio, trovare il punto nello specchio (sferico, cilindrico, conico), in cui avviene la riflessione.
Altri dopo di lui tornò a studiare i fenomeni dell’ottica, del calore, della meccanica (specie la questione del peso specifico). Tuttavia, gli Arabi non aggiunsero nulla alle teorie fisiche greche in questi altri campi. Non si può dire neanche che circa ai concetti di materia e di forza, e ai loro rapporti, si discostassero dai Greci. Aristotele rimase il loro esclusivo maestro, ed anch’essi, come Aristotele, opinarono per il dualismo di questi due elementi (cfr. § 8 A).
Per contro, una disciplina, nella quale gli Arabi vennero [78] considerati maestri, fu la chimica od alchimia, parola, quest’ultima che infatti, avvertimmo, significa semplicemente la chimica.
Con gli Arabi, ossia sotto il dominio dei Califfi, la chimica, quale scienza sperimentale, si stacca nettamente dalla chimica industriale e diviene una scienza a sè, coltivata non più da mestieranti o da artigiani, ma da colti scienziati operatori.
Il più grande chimico o alchimista arabo è Gebar,[52] le cui opere sono numerose e, per la chimica araba del Medio Evo, fondamentali. Sua teoria, chiave di ogni altra era questa: che tutti i metalli sono composti di zolfo, di mercurio (solo più tardi l’alchimia vi aggiungerà il sale e l’arsenico, che però spesso verrà confuso con lo zolfo), e le loro differenze dipendono dalle proporzioni relative e dal grado di purezza di questi due loro componenti. Ma lo zolfo, il mercurio, di cui Gebar parla, non sono le sostanze, che noi conosciamo e che così denominiamo; sono invece le quintessenze delle medesime. Il mercurio rappresenterebbe il principio della fusibilità, della lucentezza, della malleabilità; lo zolfo, il principio della combustibilità e del colore. Chi perverrà a isolare queste quintessenze, questi principii potrà fabbricare tutti i metalli.
Questo è uno dei concetti capitali della chimica nel Medio Evo. Sulla traccia segnata dal Gebar, lavorarono gli Arabi di Oriente e di Spagna dei secc. IX-XI — Rhazes, Avicenna, Albiruni —, sì che deve dirsi che, se egli fu uno dei primi e il più grande, non è punto l’unico chimico arabo.
Quei dotti conoscevano e praticavano comunemente gran numero dei nostri processi chimici (distillazione con l’alambicco, sublimazione, calcinazione, filtrazione); preparavano molte sostanze saline (carbonato di soda, potassa, [79] sale ammoniaco, nitrato di argento, allume, sublimato corrosivo, ossia bicloruro di mercurio); conoscevano il modo di preparare taluni acidi (aceto, acqua ragia, vetriolo).
Ma tutte queste conoscenze dovevano, secondo i chimici arabi, non restare fine a se stesse. Dovevano, da un lato, servire alla medicina (i chimici furono in buona parte medici); dall’altro, e principalmente, servire a raggiungere lo scopo supremo della conquista del sovrano reagente, con cui trasmutare tutti i metalli vili in oro o almeno in argento.
Questo reagente molti alchimisti dicevano di averlo trovato. Esso sarebbe stato la pietra filosofale. Ma, se su di essa si davano formule misteriose, nessuno all’infuori degli interessati ebbe la fortuna di vederla e toccarla.[53] È chiaro come, avviata su questa strada, la chimica dovesse cadere in mano di falsari, di ciurmadori, o anche, semplicemente, di visionari. Ne seguì che, non ostante il gigantesco lavorio chimico che gli Arabi iniziarono, o a cui dettero un grande impulso, e che durerà fino al sec. XVIII, le imposture e le illusioni vi si mescolavano in tale e tanta copia, da nascondere quasi completamente i resultati utili.
E). Medicina e scienze naturali. — Al pari di quella chimica, la letteratura medica degli Arabi medievali d’Oriente e d’Occidente è immensa, e di non spregiabile valore. Tuttavia deve dirsi che essa si fonda, al solito, sulla scienza medica dei libri greci del periodo ellenistico e romano, e assai spesso ne ripete alla lettera gl’insegnamenti. Fra i Greci del periodo romano, il grande dominatore della scienza medica è Galeno, e Galeniani sono [80] Rhazes (IX-X sec.), Avicenna (930-1037), uno dei maggiori intelletti dei secc. X-XI, matematico, chimico, filosofo, ma sopra tutto medico e autore di un Canone della medicina, attinto sostanzialmente a Galeno, e, con Avicenna, Averroè (Maometto ibn Rochd) (sec. XII), spagnolo e discepolo ideale di Avicenna, autore, anche lui, di un corso completo di medicina.
Lo stesso non è a dire della zoologia e della botanica araba. Gli Arabi arrecarono assai piccolo contributo all’una e all’altra scienza. Descrissero un certo numero di animali dei paesi, da essi conosciuti e conquistati, e di piante, cui attribuivano un valore, medicinale o economico; ma nulla di scientifico in tutto ciò.
F). Valore della scienza araba medievale. — Il giudizio, che deve farsi della scienza araba, è identico a quello che può portarsi su tutta la cultura in genere di questo popolo. La scienza araba, salvo un po’ nelle matematiche, non ebbe gran che di originale, e diffuse e seguì fedelissimamente quella greca. Ma questo appunto fu il suo merito indimenticabile: in un’età, nella quale tanto preziosa eredità veniva dimenticata e sperduta, essa ne raccolse, e serbò inviolata, la memoria, e, quando la vitalità storica del popolo arabo si spense, trasmise intatto all’avvenire il prezioso tesoro.
16. La scienza bizantina. — Si deve anche agli Arabi, o piuttosto alla loro invasione, il fatto che una parte dei dotti greci, sparsi nelle capitali dell’Oriente, ellenistico e romano, fuggissero atterriti dinanzi ai conquistatori e si rifugiassero a Costantinopoli, cuore e cervello del mondo bizantino.
Per tale circostanza si ebbe qui appunto, tra il sec. VII e il 1453 (l’anno della conquista turca di Costantinopoli), il fiorire dell’ultima scienza greca.
Pur troppo, si tratta di fioritura di scarsissimo valore: la decadenza, che era cominciata presso i Greci in seno [81] al mondo romano, si aggrava paurosamente presso i Bizantini. Non ostante la diretta cognizione della lingua greca, in cui tante opere di scienze erano state dettate; non ostante i meravigliosi manoscritti antichi, che solo le biblioteche costantinopolitane possedevano, il contributo dell’età bizantina alla scienza ellenica è quasi nullo. La vita agitata che per secoli visse l’Impero bizantino, l’intolleranza religiosa, anzi, peggio ancora, la volontaria soggezione degli spiriti a numerose limitazioni dogmatiche, contennero in assai angusti confini lo sviluppo della scienza bizantina, che si fermò a uno scalino di poco più elevato di quello della scienza cristiana occidentale e, per valore, rimase lontanissima dalla scienza ellenistica e da quella araba.
Tuttavia, indirettamente, l’età bizantina giovò molto alla scienza. Da questo sovrano centro di coltura si diffusero molti dei libri, che gli Arabi conobbero e tradussero; e di qui, dopo il 1453, si diffonderanno per il mondo, non solo i libri, ma, altresì, i dotti greci, che in ambiente più favorevole coopereranno non poco al risorgere della coltura scientifica dell’evo moderno.
17. Cultura arabo-cristiana nei secc. XII-XIV: A). Considerazioni generali. — I secoli XII-XIII registrano un intimo contatto culturale del mondo cristiano occidentale col mondo arabo, specie con i vicini Arabi di Spagna. In questi due secoli si traducono parecchie opere scientifiche arabe in latino. Questo produsse due conseguenze: da un lato, la coltura medievale cristiana dell’Occidente, la cui lingua colta era il latino, si mise, attraverso il mondo arabo, in contatto con la coltura scientifica greca; dall’altro, ricominciò a formarsi un vero spirito e un acconcio atteggiamento intellettuale, scientifico presso gli Occidentali.
Si notano perciò alcuni segni di declino nell’impero assoluto, fin ora esercitato, dalla filosofia scolastica. Accanto alla dottrina cristiana del mondo e dei suoi fenomeni, fondata sulla rivelazione dell’Evangelo e illustrata [82] dalla filosofia; in una parola, accanto alla teologia, vengono a collocarsi le dottrine greco-arabiche, che procedono secondo i metodi di ragione — quella che si disse la filosofia in senso ristretto — e a cui mettono capo le scienze. Sorge così, in questo tempo, la strana dottrina delle «due verità», per cui ad alcuni problemi, filosofici e scientifici, si dànno ora due soluzioni: una vera, di fronte alla teologia, e una, vera di fronte alla filosofia, cioè, posti i principii e i criterii del pensiero greco-arabico. In tal modo, mentre fin adesso la rivelazione religiosa aveva dominato la scienza, questa ora se ne rende indipendente, ponendovisi a fianco, se non di contro. Inoltre, dalla scolastica si diramano correnti di pensiero che potrebbero dirsi, e talora sono dette, eretiche: correnti mistiche e razionalistiche, ma egualmente rivoluzionarie, ed esse sono appunto quelle preferite dai maggiori scienziati di questo tempo, come Ruggero Bacone e Raimondo Lullo.
Fra i più grandi traduttori di opere classiche di questa età, si noverano Adelardo (Athelard di Barth), monaco inglese (sec. XII), che avrebbe voltato gli Elementi di Euclide dall’arabo, dando così all’Occidente la prima traduzione di quest’operetta classica; poi Platone di Tivoli (sec. XII) e sovra tutti Gherardo di Cremona (sec. XII), che tradusse dall’arabo circa 70 opere di matematica e di astronomia, tra cui l’Almagesto di Tolomeo. Anche in quest’età, furono tradotte, dall’arabo in latino, quelle opere di Aristotele, che ancora l’Occidente ignorava, che meno di quelle già note erano assimilabili dalla teologia cristiana, e che dettero grande impulso alla coltura scientifica.
Contemporaneamente, venivano fondate in Europa, sin dal principio del sec. XIII, parecchie università. Prima tra esse sembra sia stata quella di Parigi (1200). Poi vi seguirono quella di Oxford (1214) e quella di Napoli, nel 1224, per opera di quel grande principe che fu Federico II. Ed egli stesso, che ben conosceva la coltura araba, incaricò parecchi dotti del suo Regno di apprestare traduzioni dall’arabo [83] di opere scientifiche classiche. Altre Università, fondate nel sec. XIII, furono Cambridge (1231), Orléans, Padova, Praga, ecc.[54]
B). Matematica ed Astronomia. — Di tutto ciò si ha una sensibile conseguenza nel campo delle matematiche. Mentre fin adesso i matematici erano stati continuatori della scienza greco-romana, e perciò erano detti abacisti (dall’abaco romano, cfr. § 11 B), si hanno, d’ora innanzi, dei prosecutori delle matematiche indo-arabiche, e saran detti algoritmici.[55]
Tuttavia il più grande matematico del sec. XIII, l’italiano Leonardo da Pisa (Leonardo Fibonacci = figlio di Bonaccio), può dirsi un autodidatta. Figlio di mercanti, viaggiò in Egitto, Siria, Grecia, Sicilia, e nel suo Liber abaci, primo portò, nell’Occidente cristiano, le cifre indiane e l’aritmetica indo-arabica. In quest’opera classica, donde per secoli i matematici attingeranno i materiali dei loro libri, si trovano illustrati e spiegati: 1) i metodi più perfetti, allora noti, per il calcolo dei numeri interi e delle frazioni; 2) le estrazioni delle radici quadrata e cubica; 3) la teoria delle grandezze incommensurabili; 4) la teoria delle equazioni di 1º e 2º grado.
Il Liber abaci è soltanto un libro di aritmetica e algebra. Leonardo vi fece seguire un’altra operetta di geometria (Practica Geometriae), in cui raccolse, con metodo perfetto e con eleganza di dimostrazione: 1) quanto al suo tempo si sapeva sul calcolo delle aree delle figure piane rettilinee e dei poliedri; 2) quanto si sapeva sulla misurazione del cerchio, della sfera e del cilindro; 3) gli elementi fondamentali della trigonometria.
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Contemporaneo all’italiano Leonardo da Pisa è il monaco francescano inglese Ruggero Bacone (1211-1294)[56] uno dei più potenti genii del Medio Evo, che fu professore di matematica e di astronomia ad Oxford, e cultore, anche, di fisica, astronomia, chimica. Ma la grande importanza di Bacone non istà nei contributi particolari, da lui arrecati a questa o a quella disciplina, ma nell’avere, primo nel Medio Evo, combattuto l’indirizzo della scienza del tempo, che non osava scostarsi dall’autorità di Aristotele, e nell’aver sostenuto l’importanza dell’esperimento e del ragionamento matematico nelle ricerche scientifiche. Sua è la definizione che l’esperienza deve essere «signora della scienza della speculazione», ossia della filosofia, e sua fu la massima che «nulla è possibile conoscere senza esperienza». Questo solo bastò a farlo condannare, nel 1280, come eretico al carcere a vita, donde venne rilasciato circa un anno prima della sua morte, e basta a fare di lui un glorioso precursore della scienza moderna.
Intorno a questi due uomini sommi sta una folla di figure minori, ma la cui presenza e la cui operosità mostrano come adesso, in tutta Europa — Italia, Inghilterra, Germania — le scienze matematiche, grazie a una più intima conoscenza delle opere greche ed arabe, progrediscono lentamente. Non più, in questi ultimi secoli del Medio Evo, le scarse e superficiali conoscenze di Beozio e di Isidoro di Siviglia, ma notizie, ampie e precise, attinte dagli Arabi, o anche scritti originali, come quelli di Leonardo. Sopra tutto, notevole e feconda è la intima unione della geometria con l’algebra, che gli Arabi avevano iniziata e che Leonardo consacra.
I Fiorentini dei secc. XIII e XIV, grandi mercanti e viaggiatori cosmopoliti, aggiunsero un altro elemento di progresso, con la semplificazione delle operazioni e con le prime nozioni di aritmetica commerciale. Essi per primi introdussero nei libri di aritmetica le regole del tre semplice [85] e composta, del guadagno e della perdita, di società, di sconto, ecc.
— L’influenza della coltura araba sulla astronomia non fu meno grande che sulle matematiche. La graduale conquista cristiana della Spagna araba ebbe per contracolpo l’assoggettamento dei vincitori alla scienza dei vinti Arabi. A Toledo, fin dal sec. XI, era stato pubblicato un prezioso volume di tavole astronomiche compilate sotto la direzione dell’astronomo arabo Arzachel, ch’è l’opera più notevole dell’astronomia araba. Or bene, nel sec. XIII, re Alfonso X di Castiglia, appena ebbe riconquistato alla cristianità Toledo, si affrettò a riunirvi un corpo di dotti, ebrei e cristiani, che calcolarono sotto la sua direzione una nuova serie di tavole astronomiche (Tavole Alfonsine, 1252), le quali miglioravano e correggevano quelle precedenti, ed ebbero grande diffusione in Europa. Egli stesso fece pubblicare una grande enciclopedia della scienza astronomica del tempo (Libros de Saber), che non è soltanto una traduzione di testi arabi, ma opera in gran parte originale. Vi si ritrova un disegno rappresentante l’orbita del pianeta Mercurio intorno alla Terra, in forma non già di circolo, ma di ellisse. Ed è questo il primo tentativo, che solo Keplero applicherà largamente, di rappresentare i moti celesti mediante curve, diverse dal circolo.
Nel sec. XIV, nel mondo cristiano occidentale, l’astronomia comincia a essere coltivata anche fuori della Spagna. Anche il sommo Ruggero Bacone (1214-1294) in Inghilterra, si occupava di astronomia, e colà ebbe grande popolarità, senza dubbio superiore al merito, Giovanni Halifax (latin. Sacrobosco), per qualche tempo professore anche a Parigi. Dal gennaio 1337 al gennaio 1344 sono tutta una serie, sistematica e interessante, di osservazioni metereologiche di un ignoto studioso di Oxford. Ma un nuovo, glorioso centro di studii astronomici sarà la Università di Vienna, fondata nel 1365, da cui usciranno taluni dei più grandi astronomi della Rinascenza (secc. XV-XVI).
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C). Fisica e Chimica. — Il più grande fisico del sec. XIII è Ruggero Bacone dianzi citato: fisico nel pieno senso, che il Medio Evo assegnava questa parola, ossia studioso di tutti i fenomeni che cadono sotto i sensi e che riguardano la materia. Quale continuatore e discepolo della scienza araba, egli fu un cultore appassionato di ottica (le opere di Al Hazen furono al tempo suo tradotte in latino). Perciò a lui si attribuì — a torto — l’invenzione degli occhiali e, magari, del telescopio. Vero è, tuttavia, che egli (come farà poco più tardi Leonardo da Vinci) ci lasciò la descrizione di un gran numero di meccanismi, dei quali riteneva possibile la costruzione.
Mentre in Inghilterra il pensiero scientifico era così degnamente rappresentato da Bacone, nell’Italia del sec. XIII, i diritti dell’esperienza e della scienza sperimentale trovavano un difensore in un medico, un contemporaneo di Dante, Pietro d’Abano (1250-1315), professore di medicina a Padova e autore di un Conciliatore, specie di enciclopedia della scienza del suo tempo. A quest’opera, seguendo Bacone, egli premette una introduzione teorica sulla natura e sul metodo delle scienze, e questa parte è notevolissima perchè egli, in Italia, rappresenta in modo eminente il pensiero degli scienziati laici. Or bene, questa nuova scienza, cui il mondo greco-arabo ha rivelato i suoi tesori, osa affermare che essa possiede un proprio metodo e principii razionali diversi da quelli della teologia, e che nella ricerca delle cause dei fenomeni naturali non si devono introdurre concetti teologici e forze soprannaturali.
Dopo di ciò, Pietro d’Abano espone molte delle verità fisiche del suo tempo, fra cui, leggiamo queste, ignote agli antichi: che l’aria è un corpo pesante; che al di là di una certa altezza, l’aria non è turbata da movimenti; che i corpi celesti sono luminosi perchè forniti di calore, ecc. ecc.
Egli stesso fu chiamato a insegnare a Costantinopoli, [87] e di là portò in Italia, aggiungendovi un commento, l’originale greco delle Questioni meccaniche di Aristotele.
Per tutto ciò, al pari di Bacone, questo grande italiano del sec. XIII venne (per fortuna, dopo morto) condannato quale eretico, onde il suo cadavere fu disseppellito, e le sue ceneri vennero sparse al vento. Contemporaneo di Dante e di Pietro d’Abano, è un altro «fisico», un personaggio, la cui memoria rimane, nella storia della nostra letteratura, popolare per la sua qualità di detrattore della Divina Commedia e di Dante stesso: Francesco Stabili (1269-1327), detto Cecco d’Ascoli, che anch’egli perì bruciato vivo, in Firenze, come eretico. Nella sua opera — al solito enciclopedica — L’Acerba noi troviamo talune cognizioni fisiche, frutto di sue proprie esperienze: un’esatta idea dell’eco (riflessione di onde sonore) e dell’arcobaleno (riflessione dei raggi solari o lunari); il concetto esatto che il tremolìo estivo delle ombre è prodotto dal riscaldamento dell’aria, che il tuono e il lampo sono due aspetti di un unico fenomeno, ecc. ecc. Ma da queste enciclopedie — come da altri elementi della scienza fisica del tempo — può trarsi un’importante conclusione generale: che nel Medio Evo (come nell’antichità) solo due sono i dominii della fisica largamente coltivati: la meccanica e l’ottica.
A proposito di ottica, il sec. XIII e l’Italia hanno il merito incomparabile di una scoperta, che beneficii infiniti doveva recare al genere umano: gli occhiali di vetro o di cristallo di rocca. Di essi Venezia divenne tosto il massimo centro di fabbricazione. E a proposito di meccanica, si conoscono ora — sono, anzi, diffusi — gli orologi a ruote e a pesi, con soneria, che già gli Arabi conoscevano, e con meccanismi atti a indicare altri fenomeni (il corso annuo del sole, le fasi della luna, ecc.), mirabili a vedere e resistentissimi.[57] Anche di questi oggetti la prima fabbricazione se ne ebbe in Italia.
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La bussola viene ora notevolmente perfezionata, essendosi, in sui primi del sec. XIV, introdotta, nella fabbricazione di questo apparecchio, la sospensione del magnete in cerchi concentrici mobili (la così detta sospensione cardanica),[58] che fece la bussola veramente utile per la navigazione in alto mare.
È naturale pensare che il risveglio, economico e industriale, che si manifesta decisamente in Italia nell’età dei Comuni, e che accenna qua e là in tutta Europa dopo il sec. XII, abbia ridato vita alla chimica anche presso gli Occidentali.
Noi conosciamo grandi nomi, di alchimisti cristiani dei sec. XIII-XIV, che posseggono esattamente i processi fondamentali della chimica: Alberto Magno (1193-1280), monaco tedesco e maestro del più grande filosofo medievale S. Tomaso d’Aquino, anch’egli non ignaro di alchimia, l’universale Ruggero Bacone, il suo discepolo lo spagnolo Raimondo Lullo (1235-1315), un Pseudo-Gebar (sec. XIII), e altri minori.
In modo particolare le cognizioni e gli esperimenti, di cui ci fanno testimonianza gli scritti latini, che vanno sotto il nome di questo falso Gebar, e quelli attribuiti al Lullo, non possono, se autentici, non sorprendere i chimici moderni, che solo più tardi e con grande fatica vi sono pervenuti. Pare che il Lullo fosse fra i primi a saper ottenere l’alcool mediante distillazione; che sapesse disidratarlo mediante carbonato di potassio, che a sua volta otteneva, calcinando il cremor di tartaro. Pare che sapesse preparare parecchi estratti e olii essenziali, buon numero di composti metallici (ad es. il precipitato rosso e quello bianco) e che conoscesse l’azione dell’acido nitrico (acqua forte) e dell’acqua regia sui metalli.
Quanto poi al pseudo-Gebar, anch’egli conobbe gli [89] acidi minerali: acido solforico, acido nitrico (acqua forte) e acqua regia.
Gli Italiani occupano un posto a parte nella scienza chimica di questo tempo. Di loro non si fanno grandi nomi; ma essi ebbero il merito grandissimo d’essere chimici valenti, anzichè pseudo-scienziati dell’alchimia. In quest’età di infatuazione superstiziosa alcuni di loro irridono alla fede degli alchimisti, che si illudevano di poter trasmutare tutti i metalli in oro, e Pietro d’Abano sentenzia esplicitamente che «non si può produrre per arte il metallo, nè trasformarlo». In compenso essi perfezionano i sistemi delle tessiture e tinture delle stoffe, eccellono nell’arte del vetro, delle false pietre preziose, dell’oreficeria, nella fabbricazione dei medicinali, e perfino della polvere pirica applicata al lanciamento dei proiettili.[59] In Firenze, nel sec. XIV, esistono fabbricanti di cannoni e di proiettili di ferro; altrove si fabbricano bombarde; e di fabbricazione italiana sono le prime armi da fuoco usate in sullo scorcio del Medio Evo. Gli Italiani stessi sono i primi a conoscere l’acquavite, l’acqua forte e l’arte di incidere, per mezzo di questa e dell’acqua regia, sui metalli.
In tutte queste cognizioni pratiche e positive di chimica, gli Italiani del tempo lasciarono anche dei trattati teorici e pratici.
D). Medicina e scienze naturali. — Le scuole mediche si fanno, nei secc. XIII-XIV, fitte e numerose. I Normanni e gli Svevi, che hanno fondato un vasto regno nell’Italia meridionale, sino a poco prima divisa in molti staterelli e soggetta a parecchi dominatori, riconoscono e incoraggiano lo Studio medico salernitano, che nel 1252 assume il titolo di Università. Non lungi v’è la Università di Napoli; più a nord, vi sono le scuole mediche di [90] Roma, Pisa, Siena, Bologna, Padova, e, fuori d’Italia, Montpellier, Parigi e molte altre.
Queste scuole dànno impulso agli studî di medicina e, tra i grandi teorici del tempo, ritroviamo i citati Alberto Magno, Pietro d’Abano, e il fiorentino Taddeo Alderotti anch’egli ricordato dall’Alighieri.
Anche la zoologia e la botanica guadagnano in questo estremo scorcio del Medio Evo; specie grazie ai viaggi di esplorazione del sec. XIII, nei quali il primo posto è tenuto dai fratelli Polo, di cui rese conto Marco Polo nel suo Milione. Alberto Magno è anche un naturalista, e dalle sue opere di zoologia e di botanica si rileva ch’egli non si limitava a copiare gli antichi, ma sapeva essere un osservatore attento e originale.
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18. Il Rinascimento e le scienze. — Condizioni favorevoli al progresso delle scienze esistevano già, dunque, all’aprirsi dell’età, che si denomina del Rinascimento: i secc. XV-XVI: un più intimo contatto con la scienza greca, in piccolissima parte, direttamente, in massima parte, attraverso la letteratura araba; nuovi centri di studio; sopra tutto, un intenso ardore di conoscere, quello stesso ardore, che aveva promosso le traduzioni di libri arabi.
Nuove condizioni ancor più favorevoli sopraggiungono nel corso del sec. XV, che segnò una fase importantissima della storia universale.
a) la formazione di Stati, vasti e ordinati, in Europa, di vaste signorie, in Italia, alla cui testa sono principi mecenati e amanti della coltura, o che almeno, per bisogno di popolarità, ostentano di amarla;
b) un vivo interessamento alla coltura classica, che sospinge i letterati del tempo a ricercare e a scoprire numerosi libri latini, ad apprendere il greco e a mettersi in diretto rapporto con la più grande coltura che gli uomini avessero fin allora avuta, quella greca;
c) un diretto contatto con la coltura greca. Due furono i momenti, in cui questo contatto potè principalmente avvenire: il Concilio religioso di Firenze del 1438, cui parteciparono rappresentanti della Chiesa greca, e nel quale si sperò che tutta la cristianità avesse a unificarsi [92] sotto la Chiesa di Roma; il periodo immediatamente successivo all’occupazione turca di Costantinopoli (1453). In occasione del Concilio di Firenze, dotti greci vennero in Occidente, recando la cognizione della lingua e della letteratura greca. Tra essi il più famoso fu Giorgio Gemistio Pletone, ardente cultore dell’antica filosofia platonica. Ma, più ancora, dopo la presa di Costantinopoli, seguì la fuga in Italia di molti altri dotti costantinopolitani, recanti, insieme con la coltura greca, numerosi manoscritti greci di scienza, oltre che di letteratura;
d) l’arte della stampa che diffonde prodigiosamente e rapidamente ovunque la coltura;
e) i grandi viaggi di scoperta, che mettono gli Europei in rapporto con due mondi: l’Asia e l’America.
Tutte queste circostanze creano e diffondono ciò che sopra tutto importava: lo spirito scientifico. I letterati classicisti del tempo — i così detti umanisti — sono apostoli del ragionamento scientifico, perchè combattono astrologi, filosofi, alchimisti, interpreti di sogni, mistici, superstiziosi. Essi concepiscono i fenomeni naturali, all’infuori di ogni influenza estranea e superiore, e lottano contro il falso aristotelismo medievale, la sua pedanteria, i suoi sofismi, le sue vane controversie.
La stessa conoscenza della filosofia di Platone — certo meno positiva di quella di Aristotele — giova anch’essa, come a tutta prima non parrebbe, al risorgere del pensiero scientifico. Poichè allora, infatti, il pericolo era negli ostacoli che alla scienza opponeva il pensiero medievale, tutto poggiante sull’aristotelismo, il platonismo, che attacca questo da un altro fianco, e che è riconosciuto come una nuova concezione del mondo, degnissima di rispetto, concorre allo scredito dell’aristotelismo e, quindi, all’affrancarsi dell’umana ragione.
19. Il Rinascimento e il naturalismo: Telesio; Bruno; Campanella. — Il nuovo mutamento degli spiriti [93] delle persone colte si rispecchia, oltre che nella scienza, nella filosofia, ossia nella nuova concezione del mondo e dei suoi rapporti col pensiero umano. La filosofia del Rinascimento è, come suol dirsi, naturalistica; mira, cioè, a rivendicare l’importanza e l’onnipotenza della Natura, là dove il Medio Evo non aveva collocato che la volontà e l’onnipotenza di Dio; ad assegnare alla Natura quell’energia, quella virtù intima, che, ad es., il vecchio Democrito vi aveva riconosciuta; a non più considerare la Natura come manovrata da una potenza dominatrice — lo Spirito —, da essa indipendente e ad essa esteriore.
I filosofi della Rinascenza, che inaugurano questo indirizzo, che poi, nei secc. XVIII-XIX, traboccherà — talora — in vero materialismo, sono Bernardino Telesio (1509-1588) e Giordano Bruno (1548-1600). Ad essi si può aggiungere Tomaso Campanella, il corso della cui vita si spinse molto più innanzi, fino alla metà del sec. XVII, ma le cui opere fondamentali vennero concepite e scritte in sullo scorcio del sec. XVI.
Bernardino Telesio è, prima di tutto, un naturalista, anzi, un passionato, un amatore, un poeta della natura, innanzi che filosofo. Egli ne investigò tutti i dominî: dalle scienze naturali alla matematica; dalla medicina alla fisica. Questa universale conoscenza trae però il Telesio, non già a fare nuove scoperte scientifiche, ma a voler penetrare le leggi prime che governano l’universo, a costruire un sistema della natura, nel quale tutti i fenomeni, dai più elementari ai massimi, si svolgessero, naturalmente e gradualmente, secondo leggi naturali, l’uno dall’altro, in conformità di un principio unico, che tutti, e il loro processo con essi, riuscisse a interpretare e a spiegare.
Perciò, come il poeta romano Lucrezio, egli scrive La Natura, ch’è l’opera sua fondamentale. Quest’opera, infatti, è un nuovo poema filosofico dedicato alla Natura, la quale viene concepita come vivente da sè, per potenza propria, affidata alle sue leggi, anche se l’autore frequenti [94] volte si appelli alla sapienza di un Supremo Reggitore e Creatore.
D’altra parte, e questo non importa meno, la conoscenza della Natura il Telesio vuol coglierla nel contatto immediato con essa, sulla fede dei sensi, lungi dal fascino, o dall’incubo, di ogni autorità, cioè secondo quest’accenno allora significava, lungi dall’autorità di Aristotele.
Sostanzialmente identici sono il concetto e il sentimento di Giordano Bruno. Anche per lui esisterebbe un Dio che trascende la Natura e l’ha creata. Ma questo Dio di tutti i credenti, nella concezione che il Bruno ha del mondo, si confonde con un Dio, immanente nell’Universo, il quale ultimo avrebbe per ciò, per se stesso, una potenza ed un’anima. Per Aristotele — e il Bruno è anche lui un odiatore di Aristotele —, materia e forma, materia ed energia, lo vedemmo, erano distinte; la materia restava, informe; era vivificata, «formata», dal di fuori. Per Bruno, essa contiene nel proprio seno, tutte le forme che più tardi rivelerà, ed essa può generarle tutte quante, l’una dopo l’altra, perchè è vivificata in sè dal di dentro, da una potenza divina.
Questo concetto di una Natura, di un universo pervasi da un’anima loro interiore, da un Dio ch’è in essi, e non fuori di essi, è altresì il concetto fondamentale della religione naturale di Tomaso Campanella (1568-1639), che, secondo le sue speranze, dovea diventare il lievito di un rinnovamento sociale, di una nuova Repubblica degli uomini.
20. Matematica. — Fra i grandi studiosi e scrittori di matematica della prima metà del sec. XV sono da ricordare un noto pittore e letterato italiano, Leon Battista Alberti (1404-72), il francese cardinal Nicola da Cusa (1401-1464), i tedeschi Giorgio di Peuerbach (1423-1461), e Giovanni Müller, più noto sotto lo pseudonimo di [95] Regiomontano[60] (1436-71). Questi due ultimi sono tra i primissimi che leggessero e traducessero direttamente i sommi matematici greci, ricevendone, non solo preziosi insegnamenti, ma ispirazioni a conclusioni originali. Il Peuerbach e il Regiomontano concepiscono per i primi la trigonometria — piana e sferica — come scienza indipendente dall’astronomia, e vi dànno il massimo impulso e la forma moderna. Il nome di trigonometria compare proprio sullo scorcio di questo secolo come titolo di un’opera del matematico Pitisco: «Trigonometria, ossia risoluzione dei problemi relativi ai triangoli» (1495). Grandissima è l’altezza a cui la matematica perviene nella seconda metà del sec. XV.
In questa età nasce, e si impone definitivamente, l’algebra simbolica, quale noi oggi la usiamo, con i segni che adoperiamo, e si sviluppa la teorica delle equazioni. A questa età appartiene uno dei massimi genii universali che il pensiero umano vanti: il toscano Leonardo da Vinci (1452-1519). Leonardo fu fisico, meccanico, musico, cultore di tutte le arti del disegno e fu anche sommo matematico, in quanto egli diceva che non v’ha punto certezza nelle scienze se non si può applicarvi la matematica.
Di matematica, infatti, si occupano i suoi superstiti manoscritti, specie di quelle teorie geometriche, che trovano applicazione nell’arte del disegno. Alcuni problemi geometrici, da lui studiati, riguardano tuttavia soggetti di natura differente: ad es., il metodo (noto alla scienza greca) di misurare l’altezza di un oggetto dalla sua ombra; il metodo di misurare la larghezza di un fiume; la quadratura di un settore circolare, trasformandolo in un triangolo, la cui base sia eguale alla lunghezza dell’arco del settore; la quadratura del circolo, problema che noi oggi sappiamo irresolubile.[61]
[96]
Ma più grande di lui, come matematico, è un altro italiano, un monaco toscano dell’Ordine dei Minori, Fra Luca (Luca Paciuolo) (1445-1514), che insegnò matematica a Firenze, Perugia, Roma, Milano e altrove.
La sua opera principale è un Compendio di aritmetica, geometria, proporzioni e proporzionalità. Esso contiene un trattato di aritmetica speculativa sulle proprietà dei numeri, una aritmetica pratica, e degli elementi di geometria. La caratteristica di quest’opera è quella che già gli Arabi avevano impressa alle matematiche, e taluno dei matematici cristiani dei secoli precedenti (ad es. Leonardo da Pisa) aveva ribadita: l’intima connessione dell’algebra indiana con la geometria greca.
Le opere matematiche di Fra Luca furon le prime a essere divulgate per le stampe. Può quindi imaginarsi l’enorme influenza ch’esse esercitarono sulle matematiche del secolo successivo.
Anche il polacco Nicola Copernico (1473-1543), di cui dovremo occuparci a momenti come astronomo, fu uno dei più rinomati matematici del sec. XVI e autore di parecchie, importanti e originalissime, scoperte in trigonometria piana e sferica. E matematico insigne, fu taluno dei suoi scolari, quale Rhaeticus.[62]
Nel sec. XVI la idea di fecondare la geometria con l’algebra, e viceversa, diviene un’opinione comune fra i matematici. Vi giungono, insieme, il francese — Francesco Vieta (1540-1603), uno dei massimi intelletti matematici di ogni tempo, gli italiani Girolamo Cardano (1501-76), Nicolò Fontana, da un suo difetto di pronunzia sopranominato il Tartaglia (1505-57), G. Battista Benedetti (1530-90). Ma questo non [97] vuol dire che in ciascuna delle due discipline, isolatamente considerate, non si facciano nuove conquiste. In algebra si giunge per la prima volta alla risoluzione delle equazioni di 3º grado. Vi perviene (nel sec. XV o XVI?) un oscuro matematico italiano, Scipione del Ferro, di cui non sappiamo altro se non che egli fu professore a Bologna fra il 1496 e il 1526; poi, più sicuramente, Gerolamo Cardano stesso e il Tartaglia (Nicolò Fontana), che si disputarono acremente la priorità della scoperta. Il Cardano stesso iniziò la risoluzione delle equazioni di 4º grado, ma questa fu raggiunta in modo inequivocabile soltanto dal discepolo suo, Luigi Ferrari (1522-1565).
21. Astronomia: Copernico (1473-1545). — Taluni dei matematici sopra ricordati furono anche astronomi: tali il Peuerbach, il Regiomontano, Leonardo da Vinci. Il Regiomontano fondò a Norimberga una scuola astronomica, che passò fra le più famose e benemerite del tempo. Colà egli fece importanti osservazioni sulla cometa del 1472: la prima, che venisse considerata, non più quale soggetto di vano terrore superstizioso, ma come oggetto di studio scientifico. E ivi stesso, a Norimberga, si cominciarono a pubblicare delle Effemeridi astronomiche, contenenti dati astronomici per trovare la longitudine sul mare, al quale scopo il Regiomontano aveva escogitato un nuovo metodo. Le tavole astronomiche, contenute in queste Effemeridi, erano infatti molto più precise di tutte quelle precedenti, e servirono per i grandi viaggi di scoperta dell’epoca.
Forse, specie per noi Italiani, non sarà superfluo ricordare una delle scoperte astronomiche di Leonardo da Vinci: l’ipotesi, con cui egli spiegò ottimamente l’illuminazione color cinereo, che si osserva nella parte oscura del disco lunare, quando la parte risplendente è minore del mezzo disco. Egli spiegò ch’essa dipende dal riflesso della luce terreste sulla luna, chè, allorchè la luna è quasi nuova, la metà della Terra, illuminata dal sole, è rivolta verso di essa.
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Ma l’astronomo più famoso del sec. XVI di poco più giovane (di appena una generazione) del Regiomontano e del Vinci, è Nicolò Copernico (1473-1543) di Thorn, colui che rivolgerà da capo a fondo le concezioni astronomiche del mondo colto, e che perciò può essere definito il Tolomeo dell’astronomia moderna.
Copernico studiò dapprima nella Università di Cracovia, e poi in Italia, a Bologna, a Padova, a Ferrara, dove si laureò. Quindi si dedicò alla carriera ecclesiastica e fu nominato canonico a Frauemberg (1497), dove passò la maggior parte della sua vita e del suo tranquillo lavoro. Morì settantenne nel 1543.
Contro quello che si potrebbe pensare, Copernico, al pari del più famoso astronomo dell’antichità (Tolomeo), fu mediocre osservatore. Gli strumenti, di cui egli si serviva, erano rozzi, nè egli curò, come poteva, di procurarsene di migliori. Le sue osservazioni, che Copernico stesso indica nelle sue opere, sono scarse e inesatte, nè egli teneva alla loro assoluta esattezza, bastandogli, diceva, un grossolano accordo fra la teoria e l’osservazione. Le sue dimostrazioni molte volte, sono debolissime, qualche volta errate.[63] Egli, inoltre, scrisse pochissimo, restando, anche in questo, addietro a molti dotti del suo tempo. Le sue opinioni astronomiche furono, anzi, note per mezzo d’altri, specie per mezzo del giovane astronomo Giorgio Joachim (Rhaeticus), e il manoscritto dell’unica sua grande opera sulle rivoluzioni delle sfere celesti (De revolutionibus orbium coelestium), che egli vergò in sui primi del sec. XVI, rimase inedito quasi fino alla sua morte: l’autore ne ricevette la prima copia il 24 maggio 1543, il giorno stesso della sua morte.
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Ciò non pertanto, l’opera, massima e quasi unica, a cui è legato il nome del Copernico, è, come l’Almagesto tolomaico, un monumento insigne della scienza umana, e basta solo accennarne il contenuto per avere il senso della mole di pensiero e di studio che v’è dentro.
Il De revolutionibus consta di sei libri, di cui il più notevole è il primo. Di esso i capitoli 1º-3º trattano della sfericità della terra; i successivi, dal quarto all’ottavo, del movimento di rotazione di questo pianeta. Il Copernico avverte che, mancando l’occhio nostro di mezzi per giudicare senza riferimenti della direzione del moto di un oggetto, l’apparente rotazione diurna della sfera celeste, potrebbe dirsi con egual ragione prodotta da una sua reale rotazione quanto da una rotazione della Terra, con la stessa velocità, ma in direzione opposta. Or bene, egli soggiunge, come non sentire che è più semplice far girare la sola Terra che far descrivere orbite immense a corpi celesti collocati a differenti distanze? Come non avvertire che con la prima concezione si eliminano alcune delle difficoltà più gravi dell’antico sistema tolomaico, e si dà una spiegazione, più semplice e più soddisfacente, dell’intero sistema solare?
Anche per Copernico, dunque, la sua dottrina eliocentrica, come per Tolomeo la sua dottrina geocentrica, non era che una più comoda e più verisimile ipotesi.
Il cap. 9º dell’opera espone alcune altre ipotesi che possono definirsi come il germe della teorica della gravitazione universale. Il cap. 10º — il più importante — sviluppa il sistema del mondo, ossia degli astri e dei loro movimenti, quale Copernico lo concepiva. Il resto del libro, dopo il cap. 11º, ha interesse soltanto matematico, e il Rhaeticus, per incarico del Copernico, l’aveva pubblicato in anticipazione quale testo di trigonometria.
Il II libro dell’opera contiene nozioni di geometria sferica e di trigonometria, tavole astronomiche e il catalogo delle stelle, che è il vecchio catalogo di Tolomeo, lievemente [100] ritoccato. Il III libro tratta del moto di rivoluzione della Terra.[64] Il libro IV tratta della luna e dei suoi movimenti; il V e il VI degli altri cinque pianeti (oltre la Terra) allora conosciuti: Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno.
Come si vede, il De Revolutionibus non è un’opera organica, ma, come l’Almagesto, abbraccia tutti i dominî dell’astronomia del tempo, e li guarda da un nuovo punto di vista. I fondamentali concetti copernicani — la sfericità della Terra, i moti di rotazione e di rivoluzione del nostro e degli altri pianeti — vantavano una antichissima e autorevolissima storia; tuttavia non solo non erano riusciti a prevalere nell’antichità greca, ma erano stati dimenticati dall’astronomia medievale, che (secondo si era espresso il più grande e autorevole filosofo di quest’età, S. Tomaso d’Aquino) voleva essere decisamente geocentrica.
Copernico ritorna a Pitagora, all’astronomia dei Pitagorici, ne sviluppa le ipotesi, ne rinsalda e completa le dimostrazioni, e, se egli non riesce a dimostrare perfettamente nè la verità del suo sistema, nè l’errore del sistema tolomaico; se parecchie delle osservazioni, su cui le nuove argomentazioni si fondano, abbisogneranno di ulteriori correzioni e rafforzamenti, pure le salde basi di un nuovo mondo del pensiero astronomico, che finirà col rovesciare l’antico, erano gettate. Ma ciò che oggi impressiona si è notare che pochissimi si accorsero della rivoluzione, che Copernico iniziava. La forma, rimessa e pacata, della sua esposizione, le astruse dimostrazioni matematiche, e la stessa prefazione dell’editore, che presentava il libro come un insieme di semplici ipotesi, adatte semplicemente a calcolare i moti celesti, fecero in modo che l’opera, a tutta [101] prima, non sollevasse serie discussioni, proteste, esaltazioni. Queste proteste e condanne dovevano venire più tardi, nel sec. XVII, nell’età della Controriforma, e da parte della Chiesa cattolica. Per adesso, invece, chi attaccò Copernico furono i capi del movimento protestante: primi Lutero e Melanchton.
22. Fisica. — Nella fisica, o, meglio, nella «scienza della materia», è, durante i secoli XV-XVI, più sensibile che altrove la lotta del pensiero del Rinascimento col pensiero medievale, duramente legato alla tradizione dell’aristotelismo. Su questo terreno, specialmente, Aristotele è attaccato dai seguaci di Platone, che torna a essere conosciuto, e dagli scienziati sperimentalisti, i quali sostengono (talora con un’irriverenza giustificata solo dal fanatismo avversario) che, anzichè leggere Aristotele, e credere ciecamente in lui, è più sicuro e più dilettevole sperimentare e provare ciò che si afferma e in cui si dice di credere. I fisici, più degni di memoria, del secolo XV sono il cardin. Nicola di Cusa, Leon Battista Alberti, persino Cristoforo Colombo, grazie alle note dei suoi viaggi, e sopra tutti il sommo Leonardo da Vinci. L’Alberti fu inventore di un apparecchio per determinare la profondità di un bacino, calcolando il tempo che un corpo più leggiero dell’acqua impiega a risalire a galla dal fondo. Il Colombo fece interessanti osservazioni, specie meteorologiche: indicò la direzione dei venti tropicali; dimostrò l’efficacia dei boschi nella condensazione del vapore acqueo; osservò la deviazione occidentale dell’ago della bussola, scoprendo così la declinazione magnetica[65] e le sue variazioni nei vari punti del globo.
Ma assai più grandioso è il contributo che il sommo [102] Leonardo da Vinci recò alla fisica. Anzi tutto, egli è il massimo precursore di quel metodo sperimentale, su cui poggia la scienza moderna, e che a lungo si è discusso se fosse scoperto dall’italiano Galilei o dal francese Cartesio o dall’inglese Francesco Bacone (cfr. § 26). Leonardo, anzi, potrebbe a buon diritto dirsene il fondatore. Per lui, ogni conoscenza, che non poggi sull’esperienza, è vana e non partorisce che illusioni. «La sapienza» (questa, la sua massima) «è figliola dell’esperienza». Ma l’esperienza, nel significato che Leonardo vi attribuisce, non è solo la nemica della fede nell’autorità convenzionale o del vano speculare. È altresì tutto quel complesso di osservazioni che noi distinguiamo in ogni procedimento scientifico: osservazione dei fatti; induzione, ossia generalizzazione delle leggi in essi riscontrate; esperimento che le comprovi; applicazione delle matematiche a rappresentare con precisione la legge ritrovata; deduzione di un principio da un altro.
Questi procedimenti non solo Leonardo voleva, in teoria, che la scienza e gli scienziati seguissero, ma praticò egli stesso. Fu perciò osservatore, sperimentatore prodigioso, matematico, coordinatore unico dei resultati, pratici e teorici, delle sue operazioni ed esperienze. Epperciò possiamo veramente dire di trovarci con lui nella pienezza del metodo sperimentale.
Pur troppo, è difficilissimo, stante il saccheggio che i suoi discepoli e i successori fecero dei manoscritti leonardeschi, ai quali soltanto (e non al pubblico insegnamento) egli affidò la propria, sconfinata dottrina, restituire esattamente la somma preziosa delle scoperte e delle divinazioni, il cui merito a lui, personalmente, compete.
I suoi sparsi precetti di idraulica sono bastati a far comporne un trattato (Del moto e della misura dell’acqua), che fu pubblicato nel 1828, e, solo un secolo più tardi di lui, i cultori di questo ramo della fisica giunsero al segno a cui egli era già pervenuto.
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Inoltre Leonardo notò i fenomeni così detti di capillarità,[66] le figure formate dalla sabbia sparsa sulle lamine vibranti, la formazione di onde liquide stazionarie. Immaginò numerosi strumenti e meccanismi: il laminatoio, il dinamometro, il pernio a piano inclinato, su cui una porta, girando, si chiude da sè; le sedie pieghevoli a tre piedi; il tornio a ovale. In ottica, riconobbe che l’occhio deve essere considerato come una camera oscura fotografica, e che le imagini sulla retina appaiono capovolte, la loro persistenza, la differenza fra le immagini, che si formano nell’occhio destro da quelle che si formano nell’occhio sinistro ecc. ecc.
Ma la parte della fisica, in cui Leonardo riuscì veramente maestro, fu la meccanica, alla quale applicò rigorosamente le matematiche. Egli seppe determinare il centro di gravità della piramide, dividendola in piani, paralleli alla base. Seppe trovare quale parte di una forza agisca per muovere un corpo in una data direzione, ossia seppe determinare, come si dice, la componente efficace della forza in quel verso, decomponendo la forza stessa secondo la direzione del moto e secondo la perpendicolare alla traiettoria del mobile. Seppe valutare la forza motrice, moltiplicando il peso sollevato per l’altezza: p. es. (scrisse), se qualcuno scende una scala di gradino in gradino, la somma di tutte le forze motrici, che potrebbero essere utilizzate, durante ogni caduta parziale, è eguale alla forza motrice che si otterrebbe cadendo dall’alto al basso della scala.
Le sue ricerche di meccanica, applicate al volo degli uccelli, lo fanno un precursore dell’aviazione moderna: studiò, infatti, minutamente il volo degli uccelli, e riconobbe che l’uccello prende il suo punto d’appoggio nell’aria, [104] e, per quanto più pesante di questa, abbisogna di una piccolissima forza per sostenersi, grazie alla velocità e al fatto che l’animale, colla sua pressione, rende più densa l’aria, in cui si muove.
Ma Leonardo non fu soltanto un teorico; egli fu grande ingegnere e costruttore: compiè opere idrauliche mirabili nel Milanese e in Francia, e imaginò un apparecchio di aviazione, anzi, taluno parlò dei suoi tentativi pratici di aviatore.
I fisici maggiori del sec. XVI furono in genere dei pedissequi continuatori del Vinci, o anzi, secondo a ragione si è sospettato, dei divulgatori, come di cose proprie, di quanto essi trovarono nei manoscritti del Maestro.[67]
Tali furono Nicola Tartaglia, G. B. Benedetti, i quali si occuparono di meccanica e di balistica,[68] giungendo a conclusioni interessanti: 1) sul moto dei proiettili, che il Benedetti riconobbe essere, per tutta la traiettoria, curvilineo, e non già in parte rettilineo e in parte curvilineo; 2) sulla bilancia, per la quale, contro Aristotele, il Tartaglia sostenne essere più sensibili le piccole bilance a braccia corte; 3) sulla caduta dei gravi, per cui il Benedetti negava (contro Aristotele) che la velocità di due gravi identici, cadenti in mezzi diversi, siano inversamente proporzionali alla densità dei mezzi, e dimostrò che il rapporto di quelle velocità è costante e che la legge di Aristotele si verifica solo se la densità dei corpi è eguale alla somma delle densità dei due mezzi attraverso cui i gravi cadono.[69]
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Tuttavia sarebbe esagerato affermare (e pensare) che la meccanica di questo tempo sia tutta dominata da Leonardo. Su di essa influiscono, in pari misura, la dottrina del sommo italiano e la rinnovata conoscenza dei libri del greco Archimede, che solo ora vengono tradotti in latino; onde duplice (non unica!) è la scaturigine dei nuovi progressi.
Anche il matematico Gerolamo Cardano (1501-76) si occupò di meccanica e di idraulica. Ma altri scienziati del secolo XVI studiano altri rami della fisica. In questo campo eccelle Francesco Maurolico di Messina (1494-1575). Egli si occupò di ottica: 1) dimostrò che il cristallino dell’occhio funziona come una vera lente; 2) scoperse le cause della presbitìa (nella debole potenza di rifrazione del cristallino, per cui occorre l’aiuto di una lente convergente) e della miopìa; 3) spiegò perchè l’imagine, data dai raggi solari, sopra un piano, dopo avere attraversato un foro di forma qualunque, sia sempre circolare (in quanto essa, ha per base il disco del sole).
Ma degni di menzione a parte sono gli studii di questo secolo — i primi studii in proposito — relativi a una forza che oggi domina il mondo: l’elettricità. Fu l’inglese Guglielmo Gilbert (1540-1603) di Colchester ad occuparsene, in un’opera famosa, Il Magnete; i corpi magnetici e la Terra considerata come un grande magnete (1600), che il Galilei disse degna di riscotere l’invidia della scienza di ogni Paese, e che racchiude e illustra studii di lunghi anni.
Come parecchi degli scienziati del Rinascimento, il Gilbert è un aspro censore dei metodi scolastici, in fatto di ricerche scientifiche, ed inculca invece lo studio diretto delle cose, dei fatti, l’osservazione, l’esperimento. Egli quindi, con Ruggero Bacone, con Pietro d’Abano, con [106] Leonardo da Vinci, è uno dei più illuminati precursori del metodo sperimentale.
Il Gilbert cominciò con lo studiare il magnetismo: nella calamita, nel ferro, nel nostro pianeta. Notò che esso diminuisce in proporzione del calore, e commise perciò l’errore di vederne nel freddo la causa fisica. Emise per primo l’ipotesi che la Terra sia da considerare come un grande magnete, ossia fornita delle proprietà fondamentali della calamita — polarità, rivoluzione, attrazione —; la qual cosa potè sperimentare, adoperando pei suoi esperimenti una piccola calamita a forma di globo, che denominò Terrella, rispetto alla quale gli aghi di ferro si comportavano come si comportano di fronte alla Terra, e persino che la loro declinazione magnetica aumentava procedendo dall’equatore (della sferetta) ai poli. Studiò anche — ciò che doveva essere utilizzato molto più tardi — l’induzione magnetica (cfr. § 37 A) e rilevò primo il fatto che di una calamita rotta in più parti si ottengono altrettante calamite.
Dagli studî sul magnetismo il grande fisico inglese passò a quelli sull’elettricità, che distinse dal magnetismo. Ventidue secoli dopo Talete, il Gilbert, ripigliando l’antica osservazione che l’ambra si eletrizza con lo strofinio, rilevò che tale proprietà è posseduta da parecchi corpi. Studiò quindi le condizioni proprie della elettricità, determinò i corpi capaci di eletrizzarsi (idioelettrici), inventò la prima rozza macchina elettrica (l’elettroscopio); in una parola, gettò le fondamenta della scienza dell’elettricità. E dette a questa forza misteriosa il nome che noi abbiamo adottato: elettricità.[70]
23. Chimica. — La chimica dei secc. XIV-XV, sebbene praticamente possa vantare di aver accresciuto il numero dei suoi ritrovati, rimane in fondo allo stadio precedente di alchimia ricercatrice del processo unico per la trasmutazione [107] dei metalli. Infatti, un utile insegnamento non poteva derivare, alla chimica del tempo, dalla scienza antica. Questa, allorchè aveva voluto specializzarsi, non era stata, anch’essa, che alchimia!
Uno degli alchimisti più famosi e anche più misteriosi (non sappiamo con sicurezza se dei sec. XV o XVI) è quello le cui opere recano, come autore, il nome di Frate Basilio Valentino, della cui vita nulla ci è noto. Queste opere contengono un numero impressionante di fatti chimici ignoti ai più degli studiosi. Egli conobbe l’antimonio e i suoi preparati, l’arsenico, lo zinco, il bismuto, il manganese, gran numero di preparati mercuriali e sali di piombo, il vetriolo verde (solfato di ferro), il vetriolo azzurro (solfato di rame), il cloruro doppio di ferro e ammonio, il sale ammoniaco, l’etere, il cloruro e il nitrato di etile, dimostrando così un progresso scientifico, che impressiona, rispetto a tutti i suoi contemporanei.
Se la personalità del Valentino ci è ignota, tale non è però quella di Leonardo da Vinci, che anche alla chimica consacrò una parte della sua attività molteplice e prodigiosa. Egli ebbe profonde cognizioni di chimica tecnologica (la chimica applicata alle arti e all’industria), studiò la solubilità di certi pigmenti vegetali nell’alcool e, sopra tutto, la chimica dei colori, che applicò ai suoi quadri meravigliosi, e nella quale fu maestro. Egli, inoltre, è uno degli studiosi di chimica del nostro Rinascimento che cominciano a reagire contro gli errori, le illusioni, le speculazioni dell’alchimia medievale.
Ma un fenomeno interessante che si accenna in fine del secolo è questo: il sorgere o, piuttosto, il diffondersi di una scuola di alchimisti, i quali applicano i ritrovati della chimica alla preparazione di specifici farmaceutici. La nuova scuola di questi chimici-medici si disse degli iatrochimici, e il più famoso, e famigerato, fra costoro, nel sec. XVI, è uno degli uomini più geniali e disordinati di tutti i tempi: Paracelso (Filippo Aurelio Teofrasto Paracelso), [108] medico, chimico, filosofo, ed anche, pur troppo, astrologo e ciarlatano (1493-1541).
Il passaggio dalla alchimia alla farmaceutica e alla medicina non era casuale: la pietra filosofale non doveva servire solo per fabbricar l’oro, ma (come vedemmo) anche per ritrovare l’elisir di lunga vita, ossia per scoprire il segreto della medicina universale. Per fortuna, come dal fallimento dell’alchimia applicata ai metalli, uscirà la chimica vera e propria, così il fallimento del segreto della medicina universale lascerà dietro di sè il residuo utile di una grande quantità di cognizioni di chimica medica e la piena consapevolezza dell’importanza della chimica per la medicina. Il filosofo inglese e contemporaneo di Galilei, Francesco Bacone, definirà, con una vecchia parabola, in modo efficacissimo, quest’importanza, storica e scientifica, dell’alchimia. «L’alchimia» (egli scrisse) «può essere paragonata a quel tale che, morendo, avvertì i figlioli di aver lasciato loro un tesoro sepolto in qualche parte della sua vigna. Essi scavarono e non trovarono nulla. Ma, avendo per tal modo rivoltato il terreno intorno alle radici delle viti, ebbero una vendemmia abbondante. Così le ricerche e gli sforzi, diretti a fabbricare l’oro, condussero a molte utili invenzioni...».
Ma forse il carattere più saliente dell’alchimia nei secc. XV-XVI è la sua decadenza nel concetto degli scienziati medesimi, o, piuttosto la distinzione, che ora essi cominciano a fare, tra le sue parti sane e quelle caduche. Benedetto Varchi, un letterato del Rinascimento, in un trattato apposito (Sulla verità o falsità dell’Alchimia), distingue tre specie di alchimia: quella «vera», che insegna a fabbricare i metalli; la «sofistica», che fabbrica metalli artificiali somiglianti ai veri solo nei particolari esteriori; la falsa, che imagina di poter cavare dalle varie sostanze i loro principii e ricreare la vita, e donare l’immortalità, e ridonare la giovinezza. Questa, infatti, è l’arte a cui noi moderni sogliamo dare il nome spregiativo [109] di alchimia. Le altre due (la vera e la sofistica) entrano nei quadri della nostra scienza, e, pur dispogliate di alcuni pregiudizi che le ingombravano, hanno dato luogo alla chimica moderna.
24. Medicina; zoologia; botanica. — Nei secoli del Rinascimento la medicina fiorisce nelle Università, italiane e straniere, che continuano a moltiplicare di numero e a crescere di importanza: a Padova, a Cambridge, a Salamanca (ormai cristiana), a Roma, Avignone, Pisa, Praga, Firenze, Pavia, Vienna, Colonia, Palermo, ecc. Intanto l’irrompere della coltura classica — e più dello spirito della coltura classica —, oltre a far conoscere direttamente molte opere greche, dà impulso, anche in medicina, alla osservazione diretta.
Così le malattie sono meglio conosciute e descritte, la loro diagnosi e la terapeutica, più sicure. Vengono scoperte e definite nuove malattie (tifo, scorbuto ecc.).
Anche i progressi considerevoli delle belle arti (specie della pittura e scoltura), e il realismo che ora le domina, contribuiscono allo sviluppo della scienza medica. Michelangelo Buonarroti e Leonardo da Vinci, specie il secondo, sono dei profondi studiosi dell’anatomia umana.
Il rinnovato amore della natura e le grandi scoperte del Nuovo Mondo, i grandi viaggi del sec. XVI in Arabia, Egitto, Siria, dànno, dopo venti secoli — dall’età delle conquiste e scoperte dell’età ellenistica —, alla zoologia e alla botanica, un impulso insolito. Il ricordato filosofo Bernardino Telesio è un dotto naturalista. Viaggiatori, colonizzatori e i primi missionari iniziano la coltura europea alla conoscenza delle ricchezze naturali del Nuovo Mondo. Queste ricchezze, però, sono più abbondanti nei riguardi della flora, che non in quelli della fauna. Le rivoluzioni geologiche avevano ridotto d’assai la fauna delle due Americhe, sì che queste non dettero che poche specie [110] animali ignorate: tra quelli domestici, ad es., solo il maiale d’India e il tacchino.
Maggiori, quindi, più notevoli, sono ora i progressi della botanica al confronto della zoologia. E, sia per brama di curiosità, sia per rinnovato amore di bellezza e di ricchezza, si aprono, specie nel sec. XVI, grandi giardini botanici: a Padova (1525), a Pisa (1544), a Leyda (in Olanda) (1577), e poi in Francia, a Montpellier, a Parigi (1598). Gli scienziati europei hanno ora agio di scrivere libri contenenti ampie e precise descrizioni, anzi (come non si era mai usato) raffigurazioni grafiche delle varie piante: il che sarà di utile immenso alla scienza. Abbiamo così il tedesco Brunfels (1470-1534), che studia scientificamente la flora europea, e Girolamo Bock (1498-1554) e Leone Fuchs (1501-68), che sono tra i maggiori osservatori e studiosi di botanica. Il primo, anzi, ritenta, dopo tanti secoli, una classificazione delle piante, dando così inizio a tutte la serie dei tentativi di questo genere, che riempiranno i secoli seguenti. Ultimo, in ordine di tempo, fra i botanici del secolo XVI, Andrea Cisalpino (1519-63), distribuisce le 840 specie di piante, ch’egli enumera, in 15 classi, suddivise a loro volta, per i loro caratteri, in 47 sezioni. Criterio distintivo della classificazione non sono più le apparenze esterne, ma il seme, le sue parti e l’embrione.
Ecco, dunque, un nuovo carattere della botanica del secolo: lo studio delle singole parti della pianta: fiore, frutto, organi sessuali.
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25. Caratteri della scienza moderna. — I caratteri della scienza moderna, che si affermano in modo deciso nei secoli XVII-XVIII, sono i seguenti: a) una crescente specializzazione, per cui le vecchie discipline scientifiche si dirompono in parecchie altre, di cui ciascuna abbraccia un dominio ampio quanto quello d’una delle antiche, classiche discipline scientifiche; b) una influenza feconda dell’una scienza sull’altra, che determina conquiste altrimenti impossibili. Così i ritrovati e le scoperte della fisica influiscono potentemente sui progressi della chimica; gli uni e gli altri, sui progressi dell’astronomia, della medicina, delle così dette scienze naturali, e viceversa; c) infine, una precisione d’indagini, di accertamento di fatti, una volontà deliberata di strappare alla natura il suo segreto, che erano ignote alla massima parte della scienza antica e medievale, una libertà e un rigore di ragionamento, che certamente era ignota a quest’ultima.
Tuttavia queste ragioni non bastano a spiegare i progressi, quasi miracolosi, della scienza nei secoli XVII-XX. Hanno bisogno di essere a loro volta spiegate. La grande causa prima è di natura sociale, non intellettuale; è il fatto sovrano, che domina i tre quarti della scienza e della storia moderna e contemporanea: lo sviluppo della industria, il nascere della grande industria moderna, e che impose agli [112] uomini — come condizione necessaria di vita — gravissimi problemi di tecnica, che sarebbero stati irresolubili senza l’aiuto della scienza. Per tal modo questa venne sollecitata a tentativi, a sforzi inauditi, che per l’addietro non erano punto necessari, e bisognò che s’ingegnasse a soddisfarli.
26. Il metodo sperimentale. — La rinnovazione nei sistemi di ricerca scientifica, che avviene nel sec. XVII, va sotto il nome di conquista del metodo sperimentale. I fondatori e i formulatori del metodo sperimentale, in sulla soglia dell’età moderna, sono principalmente tre: Galileo Galilei (1564-1642), Francesco Bacone (1561-1626), Cartesio (Renato Descartes) (1596-1650). Ma, come abbiamo avvertito, l’opera loro è preceduta da una preparazione — filosofica e scientifica — di almeno tre secoli.
Il Galilei è un nemico feroce dell’autoritarismo, impersonato nella filosofia aristotelica medievale, a cui la scienza si era per circa un millennio inchinata, e anche della tendenza a voler ricercare l’essenza delle cose naturali: «impresa», a suo avviso, «impossibile», «fatica» perfettamente «vana». Non ha neanche un’assoluta fiducia nei nostri sensi, nella ragione umana, che spesso tradiscono, anzichè tradurre, la realtà. Perciò egli raccomanda la massima cautela nell’osservare e nell’indurre e replicati e instancabili tentativi di osservazioni e di esperienze.
Il compito dello scienziato, spiega il Galilei, è leggere — voler leggere — nel «gran libro della Natura», che questa «continuamente tiene aperto innanzi a quelli che hanno occhi nella fronte e nel cervello». Perciò, innanzi tutto occorre decifrare esattamente i caratteri della Natura, ossia stabilire esattamente le condizioni in cui avvengono i fenomeni. A questo giovano sopra tutto l’osservazione e l’esperimento. Queste due operazioni ci avvertono di quello che è causa e di quello che è effetto, in quanto, posta la prima, deve seguire il secondo, e, rimossa la prima, viene [113] rimosso il secondo. La risposta, che la natura offre a tali interrogazioni, non concerne la qualità delle cose, che dipende da noi, soggetto senziente, ma la figura, la grandezza, il movimento delle cose, i loro rapporti, ossia la quantità. Solo per questo è possibile riassumere in formule di matematica (la scienza per eccellenza delle quantità) i resultati della osservazione e dell’esperimento. Ed è con la matematica, che l’intelletto umano conquista una conoscenza assoluta; si raccosta all’intendere di Dio. Onde non a torto il Galilei si dice replicate volte un pitagorico, giacchè i Pitagorici ebbero in grande stima la scienza dei numeri, e tributa sommo onore a Platone, che diceva divino l’umano intelletto solo in quanto riesce a cogliere la natura e il valore dei numeri. Di questi pochi concetti sparsi qua e là nelle opere galileiane (specie nelle Macchie solari, nel dialogo dei due Massimi sistemi, ne Le nuove scienze, nel Saggiatore), senza mai l’intenzione di erigere un sistema di metodica scientifica, il Galilei fu il più felice e fortunato applicatore, e ciò lo pone al primo posto nella storia del metodo sperimentale.
Il suo contemporaneo, invece, il filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626), pessimo sperimentatore e pessimo scienziato, sì da ignorare le scoperte del Galilei e da combattere Copernico, volle nel contrapporsi alla scolastica gettare le basi di un nuovo metodo scientifico. A tale intento mirano, le sue due opere De dignitate et augmentis scientiarum (Dignità e progressi delle scienze) e il Novum organum (Il Nuovo organo), parti di un’opera (Instauratio magna), ch’egli non riuscì mai a completare.
Anche Bacone attacca il principio di autorità e la scolastica. Attacca anche la scienza greca, che egli misconosce, e che, a suo avviso, rappresenterebbe l’infanzia del pensiero umano. Bisogna invece, esclama, ripetendo lo stesso concetto del Galilei, leggere direttamente nel gran libro della Natura. E, per ben leggere, occorre osservare, indurre dalla osservazione, qualche legge generale, e poi [114] sperimentare la legge, che così s’è indotta. Questo, la differenza, che deve correre fra la scienza antica e la moderna!
Sperimentando — avverte — bisogna confermare le esperienze positive con esperienze negative. Non basta, ad es., osservare, e provare con l’esperimento, che le cause A, B, C, D producono gli effetti a, b, c, d. Bisogna mostrare che, rimosse le prime, vengono meno anche i secondi.
Anche questo diceva il Galilei; e, al pari dello scienziato italiano, il filosofo inglese inculca che bisogna dubitare a lungo delle nostre osservazioni ed esperienze, ossia degli inganni che ci tendono i sensi e la ragione. Noi siamo (esclama Bacone nel suo linguaggio imaginoso) illusi spesso dalla natura umana (idola tribus = gli idoli della razza), dalla nostra natura individuale (idola specus = gli idoli della spelonca del nostro io interiore), dalle nostre prevenzioni metafisiche (idola theatri = gli idoli dell’istrionismo dei metafisici), e fa d’uopo che stiamo in guardia contro noi stessi.
Non bisogna neanche — avverte egli stesso, come il Galilei, — ricercare le cause prime, l’essenza della natura. La scienza ha scopi più modesti: la ricerca della legge che unisce tra loro i diversi momenti dei fenomeni, le loro leggi (le cause parziali aristoteliche). Però, a differenza del Galilei, Bacone è un avversario dell’applicazione della matematica alla fisica, che avrebbe dominii assolutamente separati dalla prima.
Questo, il nocciolo del pensiero baconiano, che non solo è avvolto in un linguaggio astruso, ma è anche sparso di contradizioni e di errori. Come, ad esempio, conciliare la sua lotta contro la ricerca delle cause prime con la sua fede di alchimista nel raggiungimento della forma più «semplice» della natura, conquistata la quale, sarà possibile trasformare tutti i corpi in oro?
Comunque, attraverso le vedute confuse e il ragionare scolastico, drizzato contro la scolastica, il carattere dell’opera baconiana è quello di una intenzionata formulazione di un nuovo metodo scientifico.
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Il francese Renato Cartesio (1596-1650), che è più giovane di Bacone e del Galilei, è ancor meno dell’uno e dell’altro l’inventore ex integro del metodo sperimentale. Ma nel suo classico Discorso del metodo (1637) egli ebbe il merito di riunire e coordinare in un sistema chiaro elementi sparsi, presso scienziati e filosofi, a lui cronologicamente anteriori.
Anche Cartesio, come il Galilei, raccomanda molto di fissar bene i particolari dei fenomeni e di non lasciarsi illudere dal senso e dalla ragione. Bisogna — inculca — accettar per vero solo quello che risulta ad evidenza tale. Ma l’originalità della sua dottrina, che però corrispondeva esattamente alla pratica del Galilei e della sua scuola, sta nel secondo precetto cartesiano, nel precetto di scomporre ciascuna delle difficoltà, che si affrontano, in difficoltà minori, in parti, via via più piccole e più semplici. Solo, compiuto questo lavoro, si può procedere di nuovo dalla conoscenza di questi minori elementi alla conoscenza di tutto l’insieme, avendo però ben cura di non omettere alcun termine.
Il metodo cartesiano, dunque, è un processo di analisi e di sintesi, di decomposizione e di ricomposizione, di intuizione (==osservazione) e di ragionamento. Ma siccome il ragionamento dipende dalla intuizione, a questa, ossia alla visione immediata della verità, che coglie in piena evidenza ogni singola nozione, si riducono in ultima istanza tutte le fonti della scienza.
Le opere scientifiche di Cartesio — la sua Diottrica e la sua Geometria (cfr. § 27) sono saggi pratici di questo metodo.
27. Matematica. — Il Seicento e il Settecento sono i secoli aurei delle matematiche moderne e come tali possono venir paragonati all’età di Euclide, Archimede, Apollonio nello sviluppo del pensiero greco.
Alla fine del sec. XVI, i principii fondamentali e i contorni [116] dell’aritmetica, dell’algebra, della teoria delle equazioni erano stabiliti e disegnati. Tuttavia, per mancanza di buoni libri di testo, relativi a queste discipline, la loro cognizione era limitata ai dotti e, persino, la moderna notazione algebrica e trigonometrica non era familiare ai più, nè universalmente adottata.
Ma nei secc. XVII-XVIII si erige l’intera costruzione della matematica contemporanea: la trigonometria e la geometria vengono fecondate profondamente dall’algebra; l’algebra, dalla geometria, donde nasce la geometria analitica.[71] In contrapposto a quest’ultima, viene sistematizzata la geometria così detta descrittiva, che ha per iscopo di fissare i metodi per rappresentare i corpi a 3 dimensioni su un piano a 2 dimensioni. In questa età ha origine l’analisi infinitesimale moderna, di cui è dubbio se alcuna traccia sia possibile ritrovare presso i Greci del periodo alessandrino. L’algebra fissa definitivamente quei segni e quei simboli, che noi oggi usiamo, rompendo per sempre con l’uso della indicazione, sia pur abbreviata, di quei concetti, ch’essa voleva esprimere, e acquistando così una incredibile rapidità di movimenti. Ora si tenta giungere al di là delle equazioni di 4º grado, affrontando così dei problemi, cui giammai l’algebra, indiana o araba, erano giunte. Finalmente, con la redazione delle tavole logaritmiche, si acquista una brevità infinitamente maggiore nei calcoli.
Consideriamo partitamente ciascuno di questi dominii della nuova matematica. Il valore — immenso — dei suoi risultati è dovuto a tutta una pleiade di matematici sommi. L’opera del Vieta nel campo della trigonometria, piana e sferica, è ora continuata dai tedeschi Gauss ed Euler[72] (1707-83), dal russo Lexell, dai francesi Lhuillier e Delambre.
[117]
I progressi della stereometria, ossia di quel ramo della geometria, che studia le figure nello spazio, sono, nel sec. XVII, accresciuti e intensificati dall’astronomo Keplero (1571-1630) e dall’italiano Bonaventura Cavalieri (1591-1647), grazie all’applicazione del calcolo infinitesimale, e proseguiti, con lo stesso mezzo, in sullo scorcio di questo secolo e nel successivo, dal grande astronomo e matematico inglese Newton (1643-1727) e dal sommo filosofo e matematico tedesco, Leibniz (1646-1716).
Ma l’età moderna assiste, come dicevamo, al trionfo della geometria analitica, il più squisito strumento della matematica moderna. La legittimità della applicazione dell’algebra alla geometria e, reciprocamente, della geometria all’algebra, che ne costituisce l’essenza, è così spiegata dal filosofo e matematico francese Cartesio. Le figure geometriche risultano di grandezze e di forme. Le prime si risolvono in numeri; ma questo è possibile anche delle seconde. La forma di ogni figura, infatti, risulta dalla posizione dei punti di cui si compone, e questa può essere determinata con delle grandezze. La posizione, infatti, di un punto nello spazio a tre dimensioni dipende da tre quantità, p. es., dalle distanze di questo punto da tre piani fissi formanti un angolo triedro: queste tre quantità sono le tre coordinate del punto. Ecco, dunque, la forma, attraverso la posizione, ricondotta alla grandezza; ed eccoci autorizzati a portare l’algebra, ossia il calcolo in tutti i campi della geometria. Ma l’algebra (continuava Descartes) tratta dei rapporti e delle proporzioni in generale. Or bene, è d’uopo rendere evidenti i suoi processi più complicati, far apparire le sue conclusioni in forma concreta. E il mezzo migliore, per raggiungere tale scopo, è usare quei segni, che più vivamente colpiscono la nostra immaginazione, ossia le figure geometriche. Perciò appunto è lecito e utile giungere persino alla risoluzione grafica delle equazioni.
Se il Descartes è, sopratutto, il filosofo della geometria [118] analitica, il massimo studioso ne fu il suo contemporaneo, Pietro Fermat (1602-65). Ma il primo manuale di geometria algebrica spetta ad un italiano; fu scritto da Marino Ghetaldi nel 1630.
Con la geometria analitica, la geometria acquistava una elasticità nuova. La geometria classica abbisognava di un procedimento speciale per ogni singolo problema. La geometria analitica, invece, si fonda su poche regole, e con esse può dimostrare se una proposizione sia vera o falsa.
Come dicevamo, in contrapposto alla geometria, che, entrando nell’analitica, abbandonava l’antico suo campo di scienza delle forme dello spazio, la pratica della descrizione degli oggetti si sistematizza, diviene ora scienza soggetta a leggi sue speciali.
I fondatori della geometria descrittiva o proiettiva furono il Desargues (1593-1662), il Pascal (1623-62), uno dei più grandi genii matematici, il Monge (1746-1818). La sua prima cattedra venne istituita dalla Rivoluzione francese alla École normale, nel 1794, e tenuta dal Monge stesso. Più tardi, sotto l’Impero napoleonico, questi insegnò geometria descrittiva alla Scuola Politecnica di Parigi, e le sue lezioni andarono a formare il classico testo, che ha per titolo Géométrie descriptive (1800).
Passando dalla geometria all’algebra pura, la risoluzione delle equazioni di 4º grado è, nei secc. XVII-XVIII, raggiunta con metodi, diversi da quelli del secolo precedente (cfr. § 20), da parecchi matematici a un tempo: da Descartes e Tschirnhausen (sec. XVIII), dall’Euler e dal Lagrange (sec. XVIII).
Furono appunto questi tre ultimi a tentare disperatamente, con i mezzi algebrici, la soluzione di equazioni di grado superiore al quarto; ma senza riuscirvi. Il Leibniz (1646-1716) e il Gauss per primi giudicheranno impossibile condurre a termine questa impresa per le vie dell’algebra, e l’Abel, in sui primi del sec. XIX, darà, di tale assunto, una dimostrazione apodittica.
[119]
Il sec. XVII segna altresì, avvertimmo, gli albori o, (come altri vuole) la rinascita dell’analisi infinitesimale. È l’analisi infinitesimale il capitolo più delicato e più squisito della scienza dei numeri. Si serve di parecchi processi (calcolo integrale, differenziale, calcolo delle variazioni ecc.), e si dice infinitesimale, perchè, penetrando a fondo nell’essenza stessa della grandezza, la decompone per meglio studiarla in parti infinitamente piccole.
Fu il francese Bachet de Méziriac (1587-1638) a darne per primo una trattazione moderna, e tosto i grandi matematici dei sec. XVII e XVIII, più volte nominati (Newton, Leibniz, Fermat, Euler, Lagrange) e, oltre a questi, il francese Rolle si posero sulle sue orme, o ne ripeterono con altri metodi i felici tentativi.
Finalmente, le prime tavole logaritmiche risalgono ai primi del sec. XVII, per merito del Neper, del Bürgi, del Jost, del Briggs.
Tale il quadro superbo delle matematiche, nei secoli XVII-XVIII. Il secolo XIX ne continuerà l’opera, approfondirà i resultati, perfezionerà i metodi, troverà, per i vari problemi, nuove soluzioni, sopra tutto assoggetterà parecchie scienze, in primo la fisica, com’era avvenuto in Grecia, nell’età di Euclide e di Archimede, alle matematiche; separerà la professione del cultore della scienza pura da quella dell’ingegnere, che avrà ad applicarla, ma esso non darà più vita ad alcun nuovo ramo delle matematiche.
28. Astronomia: Keplero; Galilei; Newton; Laplace; Herschel. — La dottrina copernicana fu ben lungi dal conquistare di colpo il consenso degli scienziati e, tanto meno, dall’opinione pubblica. Se il citato Raethicus e qualche altro l’accettarono con entusiasmo, e si dedicarono a dimostrarne più esattamente alcuni punti particolari, lo stesso non può dirsi della maggior parte dei dotti. Taluno dei maggiori si studiò di disegnare un sistema intermedio. Fu questo il tentativo del danese Ticone Brahe (1546-1601), uno dei più [120] grandi e più esatti osservatori e calcolatori fra gl’immediati successori di Copernico. Egli suppose che i cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno) girassero intorno al sole, mentre il sole girerebbe annualmente intorno alla Terra, e l’intera sfera celeste compirebbe anch’essa una rotazione diurna intorno al nostro pianeta.
A). Keplero. — Ma negli ultimi suoi anni si incontrò con lui Giovanni Keplero (1571-1630); questi, anzi, fu, suo assistente, al castello di Benateck (in Boemia), ove il Brahe aveva installato un osservatorio, e i resultati delle osservazioni, che furono quivi condotte, giovarono molto a fare del Keplero uno dei più validi sostenitori del copernicanesimo.
Keplero cominciò dallo studiare il pianeta Marte. Cotale studio gli ispirò le due prime così dette leggi di Keplero: 1. Marte descrive un’ellisse (e non già una circonferenza)[73] e il sole ne occupa uno dei fuochi; 2. La linea retta che unisce Marte al sole descrive aree eguali in tempi eguali.
Questi due leggi, che il Keplero aveva riscontrate per Marte, le concepiva (ed a ragione) comuni a tutti i pianeti, convinto, com’era, della piena uniformità delle leggi della natura. Tale concetto egli svolse nella sua Armonia del mondo (1619). Tuttavia, questa, ch’è considerata la sua opera massima, è troppo ingombra, conformemente alla mentalità del suo autore, di speculazioni, or mistiche or fantasiose. Una, però, delle affermazioni notevoli, in essa contenute, è la così detta «terza legge di Keplero», relativa al rapporto fra le grandezze delle orbite dei pianeti e i loro tempi di rivoluzione: «Il quadrato del tempo di rivoluzione di ciascun pianeta è proporzionale al cubo della sua distanza media dal sole».
Ma il libro, nel quale il Keplero si rivela interamente copernicano, è un testo scolastico di astronomia, pubblicato [121] tra il 1618 e il 1621 e intitolato appunto Epitome dell’Astronomia di Copernico.
Un’altra sua opera meno popolare, ma più sostanziosa, sono le sue Tavole Ridolfine (1627) (dal nome dell’imperatore, di cui era matematico ufficiale): una nuova serie di tavole astronomiche, assai più perfette di tutte quelle precedenti (§ 17 B), e capaci di permettere di determinare la posizione di un corpo celeste qualsiasi, in qualunque tempo, così come la predizione di svariati fenomeni astronomici.
Tuttavia il Keplero fu un divinatore della scienza più che uno scienziato nel senso preciso della parola. I suoi volumi sono per la massima parte ingombri di inutili speculazioni, di pregiudizi astrologici, di profezie vane, e recano un carattere perfettamente opposto a quelli del suo grande contemporaneo: Galileo Galilei.
B). Galilei. — La biografia del Galilei è popolarissima. Egli nacque a Pisa nel 1564, e, sebbene i suoi genitori desiderassero farne un commerciante, egli preferì dedicarsi a qualche carriera più elevata e studiò medicina nella università di Pisa. Pur troppo, non le discipline mediche lo attiravano, ma le matematiche e le scienze sperimentali. Per le ristrettezze economiche della sua famiglia, non potè compiere i suoi studii a Pisa, e dovette studiare privatamente. Nel 1589 ottenne a Pisa la cattedra di matematica e astronomia. Qui cominciò i suoi primi esperimenti di meccanica. Ma la poca ortodossia, lo scarso rispetto alle opinioni convenzionali che egli manifestò nel trattato, in cui ne rese conto, contribuirono a fargli lasciare la cattedra e a indurlo a trasferirsi con lo stesso ufficio a Padova (1592). Il nuovo soggiorno fu per lui più propizio; e gli anni del suo insegnamento colà furono quelli della conquista della notorietà e della gloria.
Il Galilei lasciò Padova solo dopo diciotto anni, desiderando scaricarsi del peso dell’insegnamento e tutto dedicarsi alle sue ricerche, e tornò in Toscana, primo matematico e filosofo del Granduca.
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Per sua disgrazia, la sua intensa operosità scientifica cadeva in un periodo della vita italiana — il periodo della Controriforma — nel quale tutto il mondo cattolico, per meglio difendersi dagli assalti della rivoluzione protestante, si sforzava di ricondurre la società verso il pensiero e la disciplina medievale. Bastò perciò che, nel bel mezzo di una discussione, che lo riguardava incidentalmente, egli si dichiarasse consenziente col pensiero copernicano, perchè venisse denunciato alla Inquisizione come professante opinioni contrarie alle sacre scritture. Così, ora soltanto, nel 1615, il copernicanesimo veniva ufficialmente condannato, e il Galilei era «ammonito», oltrechè invitato ad «abbandonare» quelle eretiche opinioni.
Il Galilei, com’era giocoforza, parve sottomettersi. Ma egli riaccese la spinosa questione, diciassette anni più tardi, col suo dialogo classico (dal punto di vista scientifico e da quello letterario) Sui due massimi sistemi del mondo, Tolomaico e Copernicano (1632). In questo scritto, non ostante la finissima ironia della conversazione, era manifesto come l’autore intendesse assegnare la palma della vittoria polemica al sostenitore della teoria copernicana.
Questa volta egli fu invitato a dichiarare umilmente di essersi ingannato, di «abiurare, maledire e detestare» i suoi «errori», e venne condannato al confine presso Roma, e poi ad Arcetri. Nel 1638 era colpito da cecità, e quattro anni dopo, nel 1642, il Veggente, scopritore di nuovi mondi moriva nel più gelido buio.
La gloria del Galilei, come astronomo, è in gran parte una diretta conseguenza del suo grande valore di fisico, anzi, in generale di scienziato. La costruzione, di cui egli fu capace, di un sistema di lenti, convesse e concave — il telescopio — con cui osservare i corpi celesti, riducendone la distanza di ben 30 volte, e quindi aumentandone di altrettante la grandezza, gli permise di dominare il cielo assai più e meglio dei predecessori.
Ma anche altri, quasi nello stesso tempo, adoperavano [123] il telescopio, e rimasero assai addietro di lui. Un’altra fonte del suo successo fu perciò il rigore delle sue osservazioni, dei suoi ragionamenti, dei suoi esperimenti, ossia delle riprove a cui egli assoggettava ogni sua induzione e deduzione, e che gli giovò infinitamente nel campo della fisica, là dove in modo speciale l’esperimento è possibile. Per questo appunto, come avvertiamo, assai più che in virtù di speculazioni teoriche, il Galilei è ritenuto fondatore del metodo sperimentale.
Le sue prime scoperte astronomiche, consegnate nel Messaggero celeste (Sidereus nuntius del 1610), riguardano principalmente due argomenti: il nostro satellite, e i satelliti di Giove.
Il Galilei smentì per primo la comune opinione astronomica che la luna, come gli altri corpi celesti, fosse liscia e rigorosamente sferica, e vi scoperse le montagne, di talune delle quali calcolò esattamente l’altezza; vi notò la mancanza di nubi e (ciò che più importava nei riguardi del sistema copernicano) la sostanziale analogia tra la luna e la Terra; il che voleva dire fra i fenomeni terrestri e quelli celesti.
In modo analogo, il Galilei scoperse per primo i satelliti di Giove, rilevando, contro i Tolomaici, come non solo la Terra, ma anche altri corpi celesti siano centro di movimenti, e come, anche visibilmente, taluni corpi celesti girino intorno ad altri corpi, che apparentemente si muovono. Questo, appunto, gli astronomi copernicani sostenevano avvenire della Terra rispetto al Sole, mentre gli astronomi tolomaici ne escludevano la possibilità. Ora il fatto, visibile a chiunque, che la cosa accadeva per Giove e per i suoi satelliti, in condizioni identiche a quelle della Terra rispetto al Sole, era un gravissimo argomento contro la loro dottrina.
Più tardi, insegnante a Padova, il Galilei scoperse la singolare struttura di Saturno, pianeta composto di tre parti. A Firenze osservò che Venere ha delle fasi somiglianti a [124] quelle lunari. Finalmente osservò le macchie solari, e le dimostrò come inerenti a quest’astro, mentre chi prima le aveva notate le aveva ritenute effetto del passaggio di altri pianeti, dinanzi al sole. Questa scoperta veniva a concludere con la dimostrazione di un movimento rotatorio del Sole intorno a un suo asse della durata di circa un mese.
Le ultime scoperte astronomiche del Galilei, condotte a termine prima che il suo autore piombasse nella completa cecità, sono un ritorno ai suoi primi studî, e riguardano la luna. Egli osservò come l’opinione comune, che la luna ci volga sempre una stessa faccia, non sia esattissima, e che noi possiamo vedere di tanto in tanto, a seconda del luogo da cui guardiamo, differenti porzioni della luna. A mutare la nostra posizione di osservatori lunari ci conduce poi, ogni giorno, senza nostra volontà, il movimento giornaliero della Terra. Così il Galilei scopriva quelle che oggi si dicono le librazioni della luna.
C). Newton. — Isacco Newton (1642-1727) nacque nello stesso anno in cui moriva il Galilei, e la sua grande opera è una prosecuzione geniale di quella di Keplero e del Galilei stesso. Ma per tal via egli giungerà alla concezione più profonda e più vasta della scienza astronomica moderna: la gravitazione universale.
Il Newton pose a se stesso il problema: — Per quale causa avviene che i corpi celesti si muovano nello spazio? — Era la domanda legittima, che s’imponeva agli scienziati dopo il tramonto del sistema tolomaico. Il matematico e filosofo francese, Cartesio, vi aveva risposto con una sua teoria dei vortici. Tutto lo spazio sarebbe pieno di un fluido — l’etere — le cui parti agiscono sull’altra, e producono moti circolari. Così l’etere è percorso e agitato da un gran numero di vortici, e un vortice immenso ha per centro il sole e trascina nel suo giro la Terra e i pianeti.
Era una teoria che il suo autore nè dimostrò, nè mise d’accordo con le leggi di Keplero, nè sperimentò, e che nemmeno portò alla scoperta di nuove verità. Il Newton, [125] invece, muove dalle leggi di Galilei sulla caduta dei gravi. Il Galilei aveva insegnato, in fisica (cfr. § 29), che un corpo, abbandonato a se stesso, e non influenzato da altro corpo, si muove sempre con la stessa velocità e nella stessa direzione. Avea insegnato che il moto circolare cambia continuamente direzione sotto l’influsso di una causa esterna. Quale causa, dunque, influiva sui pianeti perchè essi, anzichè procedere sempre nella stessa direzione, sono tratti a muoversi in senso circolare intorno a un centro, ch’è all’incirca il sole? Newton suppose appunto che tale influenza (accelerazione) fosse dovuta al sole. Ma secondo quali proporzioni questa influenza è diversa a differenti distanze? Facendo uso della terza legge di Keplero (cfr. § 28 A), egli potè formulare l’altra legge, secondo cui l’attrazione fra il sole e i componenti il sistema solare varierebbe inversamente al quadrato della distanza, ossia, come si espresse, che l’accelerazione (che il sole esercita sopra i pianeti) è proporzionale ai quadrati inversi della loro distanza dal sole stesso. Il che vuol dire che, a distanza doppia, tale accelerazione si riduce a 1⁄4; a distanza tripla, è 1⁄9, a distanza decupla, è 1⁄100, ecc. ecc. Questa legge, osservò Newton, regola anche i rapporti tra la Terra e qualunque corpo cadente sopra di essa, ossia che l’accelerazione prodotta dalla Terra sopra un corpo qualunque è inversamente proporzionale al quadrato della distanza del corpo dal centro della Terra. E siccome, in ogni corpo, è da considerare altresì la quantità di materia — la massa — che lo compone, egli formulò nella sua opera somma — i Principii matematici di filosofia naturale (1687) — la sua legge così: — La Terra attrae un corpo qualunque con una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal centro della Terra, e direttamente proporzionale alla massa del corpo medesimo.
A questo concetto egli ne aggiunse più tardi un altro: la sua «terza legge sul moto»; ad ogni azione si contrappone sempre una eguale reazione. Esemplificando, se un sasso posa sopra la nostra mano, la forza con cui esso preme [126] sopra la mano è uguale a quella esercitata dalla mano per sostenerlo. E, analogamente, se la Terra attira in giù una pietra con una certa forza, la pietra attrae con forza eguale la Terra. Se in questo secondo caso l’influenza (accelerazione) che subisce la Terra risulta infinitamente minore di quella subita dal sasso, ciò non vuol dire che quell’influenza non esista, ma che la massa della Terra è infinitamente maggiore, sì da rendere l’influenza del sasso pressochè nulla. In termini generali, dunque, la legge della gravitazione poteva così formularsi: Ogni particella della materia attira ogni altra particella con una forza proporzionale alla massa di ognuna di esse, e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.
Or bene, questa legge che regola la caduta dei corpi sulla Terra, e insieme l’attrazione solare sulla medesima, deve potersi applicare ai rapporti fra tutti i corpi celesti. Ognuno dei pianeti deve esercitare la sua potenza di attrazione sul sole e su tutti gli altri pianeti, e secondo le leggi sopra esposte. Ma, siccome i pianeti sono, come massa, infinitamente minori del sole (tal quale il sassolino rispetto alla Terra), così ne segue che il moto di ciascuno è pochissimo influenzato dagli altri, e quasi completamente dominato e diretto dal sole. Tuttavia l’influenza degli altri pianeti non è affatto insensibile, e produce a lunghi intervalli di tempo perturbazioni constatabili; così come perturbazioni sensibili esercita l’attrazione solare sul moto della luna intorno alla Terra e sui moti dei satelliti di Giove e di Saturno, intorno ai loro pianeti, che Newton ebbe a constatare per primo. In tal modo, il grande astronomo inglese, partendo da un’ipotesi ammessa provvisoriamente, constatava una serie di fatti, spiegabili solo, e nel modo più felice, con la sua stessa ipotesi.
Ma la più singolare conseguenza della sua teorica era questa: che, se i pianeti attraggono il sole, anche il sole deve avere un certo moto, in forza dell’attrazione che su di essi esercita la massa dei suoi pianeti, sia pure che, [127] data la relativa piccolezza dei corpi che lo attraggono, il suo movimento debba di necessità svolgersi in piccolo spazio. Tale conseguenza, che fu dapprima supposta solo in linea teorica, corrisponde a un fatto reale. Il sole, invero, si muove, con tutto il suo sistema planetario intorno a un centro di gravità; ma questo punto è così poco distante dal centro del sole, che tale distanza non può essere mai molto maggiore del diametro solare.
Sorprendente conseguenza, quest’ultima, che, uscita dalla dottrina del massimo tra gli astronomi copernicani, vendicava d’un colpo il tolomaismo dagli attacchi degli avversari! Se la Terra, infatti, non era più il centro del mondo, non lo era neanche il sole, e l’uno, come l’altra, non potevano aspirare alla regale corona della immobilità!
La gravitazione del Newton dava ragione (e il suo primo autore ne ebbe consapevolezza) anche di altri fenomeni astronomici: a) la forma non perfettamente sferica della Terra, conseguenza della mutua gravitazione delle diverse particelle terrestri sotto l’azione del moto di rotazione; b) la precessione degli equinozi, che gli antichi avevano osservata, e che veniva spiegata quale effetto di un lentissimo mutamento di direzione dell’asse terrestre. Or bene, questo fenomeno era a sua volta conseguenza della non perfetta sfericità della Terra, che fa in modo che la Terra non ruoti esattamente intorno al suo centro, come avverrebbe se fosse una sfera perfetta, e perciò subisca una progressiva deviazione del suo asse; c) le maree, dovute all’attrazione, lunare e solare; d) i moti delle comete, la cui orbita (dimostrò il Newton) è in molti casi o una parabola o una ellisse allungata, soggetta all’azione e all’influenza solare.
Tali, la grandiosa concezione newtoniana e le sue principali applicazioni. Egli aveva trovato la legge più generale a cui soggiaccia il moto dell’universo. Più in là non si è potuti andare; e la domanda residuale delle sue conclusioni — perchè i corpi si attraggano nel modo che [128] Newton indica — rimane ancor oggi senza risposta, anche se il sec. XIX, il secolo dell’elettricità, abbia tentato subordinarla alle superiori leggi che regolano le correnti elettriche. Le leggi newtoniane segnano così ancora il confine ultimo — l’ultima Thule — della nostra scienza astronomica.
D). Laplace. — Da Newton a Laplace, per circa un mezzo secolo, l’astronomia non vanta alcun grande pensatore. Avviene anzi il fenomeno singolare che gli astronomi si distribuiscano in due schiere: gli osservatori e i matematici, quali più precisamente Newton era stato.
Tra i primi, i due più famosi sono Edmondo Halley (1658-1742), il cui nome è legato ai suoi studii sulle comete, alle quali applicò, sviluppandoli, i principii del Newton, e Giacomo Bradley (1692-1762), uno dei più grandi e precisi osservatori del cielo, famoso per le due scoperte dell’aberrazione della luce e della nutazione dell’asse terrestre.[74]
Gli astronomi matematici newtoniani (o, come anche si dissero, gravitazionali), fioriscono a preferenza in Francia. Fra essi, com’è naturale, troviamo nomi di sommi matematici Euler, Lagrange e il filosofo francese D’Alembert, uno dei direttori della famosa Enciclopedia del secolo XVIII, che tanto impulso doveva esercitare sulle idee della Rivoluzione. Ma il più grande di loro è Pietro Simone Laplace (1749-1827).
Il Laplace fu autore di parecchie scoperte astronomiche, che espose nella sua opera maggiore: la Meccanica celeste, ma delle quali, benchè importantissime, poichè hanno un valore particolare, non è qui il luogo di discorrere. Il suo nome, invece, è legato alla popolarissima ipotesi nebulare, [129] destinata a spiegare l’origine e la formazione del sistema solare, ch’egli sviluppò nel suo Sistema del mondo, e a cui giunse contemporaneamente — ma indipendentemente — il sommo filosofo tedesco Emanuele Kant.
Il Laplace, notando che i pianeti e i satelliti si muovono intorno al sole nella stessa direzione, ch’è poi identica a quella dei rispettivi movimenti di rotazione; notando, inoltre, la perfetta uniformità di altri particolari di codesti movimenti, trasse la conclusione che i varii corpi del sistema solare devono avere avuta una identica origine. Ed avanzò la seguente ipotesi: che i corpi del sistema solare si siano formati per la graduale condensazione di una vasta, originaria nebulosa agitata da movimento rotatorio, la quale andò man mano scindendosi in una serie di anelli, che furono i pianeti e i satelliti.
E). Herschel. — Un posto a parte nella storia dell’astronomia del sec. XVIII va assegnato al tedesco Federico Guglielmo Herschel (1738-1822). La sua inclinazione all’astronomia fu veramente unica, ma la fortuna, ch’egli ebbe in questo campo, la dovette sopra tutto all’aver saputo costruire telescopi, per grandezza e perfezione, assai superiori a quelli fin allora in uso.
Comunque, l’importanza dell’opera sua sta in questo: nell’avere per un momento interrotto gli studî sul sistema solare, nei quali da Copernico l’astronomia si indugiava, e nell’aver rivolto deliberatamente la sua attenzione a tutto il restante infinito mondo delle stelle fisse e delle nebulose. Herschel è stato il più grande scandagliatore del cielo nell’età moderna, e in esso seppe leggere come niuno mai aveva saputo. Ma, così ricercando, egli fece del pari inaudite scoperte nel campo stesso del sistema solare: scoperse il pianeta Urano, due suoi satelliti e due nuovi satelliti di Saturno; studiò a fondo il sole, sul quale espose però una singolare strana teoria: che l’interno ne fosse freddo, scuro e solido; che questo interno solare fosse circondato da due strati gassosi, e che soltanto da quello superiore (la fotosfera), caldo e luminoso, derivassero il calore e la luce.
[130]
Con Herschel, il corso della cui vita si stende fino ai primi del sec. XIX, si chiude la trionfale storia dell’astronomia nei secc.. XVII-XVIII, con la quale l’età successiva non ha fin ora potuto certamente competere.
29. Fisica: Il sec. XVII. — Non ostante Leonardo da Vinci, fino al sec. XVII, una fisica scientifica, vera e propria, non esisteva. Si aveva una somma di scoperte e alcune grandiose concezioni, di cui la Rinascenza era debitrice all’antichità. La fisica moderna comincia invece col Galilei e col Newton: col Galilei, in quanto egli è fondatore del metodo così detto sperimentale, e in quanto con lui soltanto la fisica si organizza nelle sue grandi sezioni: meccanica, termica (calore), ottica (luce), acustica (suono), elettricità, magnetismo; col Newton e col Galilei, in quanto, per loro iniziativa, la fisica riceve l’innesto fecondo delle matematiche.
Le scoperte fisiche del sec. XVII sono più abbondanti, in una volta sola, di quelle di tutti i diciassette secoli dell’êra cristiana. Si scoprono ora le leggi della caduta dei gravi e si fonda così la meccanica; si scopre la legge della compressibilità dei gas; si inventa la macchina pneumatica; si distinguono i principali fenomeni ottici e se ne costruiscono gli strumenti relativi; si fonda una quasi esatta teoria della luce. Infine, questo secolo, nel quale la storia della fisica vanta i nomi di Galilei, Torricelli, Cartesio, Otto di Guericke, Boyle, Hoocke, Halley, Huyguens, Newton, affronta da vicino la potenza demonica della elettricità.
Il Galilei ebbe la fortuna di poter dominare da maestro parecchi dei campi della fisica. Egli scoperse le leggi della caduta dei gravi, ossia del moto dei corpi, la cui trattazione occupa i suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche del 1578, e la parte più interessante del successivo suo famoso Dialogo sui massimi sistemi. Queste leggi, ciascuna regolarmente e criticamente sperimentata, correggevano, o rovesciavano, quelle aristoteliche, in cui l’antichità, il Medio Evo e l’età moderna si erano adagiate.
Esse, anzi tutto, smentivano il fondamentale principio aristotelico, in cui s’era creduto per duemila anni, che i corpi [131] cadano con una velocità proporzionale al loro peso (§§ 8 A; 9 D), e sostituivano a questo il nuovo principio che tutti i corpi cadono con la stessa velocità qualunque sia il loro peso.[75] Quindi insegnavano: 1) che i corpi tendono a conservare il moto ricevuto, e non possono modificarlo, nè in grandezza nè in direzione, senza l’azione di una causa esterna; 2) che il moto circolare cambia continuamente direzione, ed è quindi dovuto all’azione continua di cause esterne; 3) che, se un corpo cadesse nel vuoto, si muoverebbe di moto naturalmente accelerato; 4) che la velocità di caduta è uguale per tutti i corpi, qualunque sia il loro peso; 5) che la velocità di caduta è direttamente proporzionale al tempo impegnato nel cadere. Queste leggi ebbero, come abbiamo veduto (§ 28 C), una grande influenza sulla astronomia da Newton in poi.
Il Galilei scoperse le leggi del pendolo, che sono poi un caso speciale del moto dei gravi. La principale è quella dell’isocronismo (le oscillazioni di un pendolo avvengono tutte nel medesimo tempo, quali che siano la natura e il peso dell’oggetto che oscilla). Un’altra è questa: la durata di un’oscillazione del pendolo diviene due o tre volte maggiore, quando la lunghezza del pendolo diventa, rispettivamente, quattro e nove volte maggiore, ossia: la durata dell’oscillazione del pendolo cresce con la radice quadrata della sua lunghezza. Con queste leggi il Galilei gettava le fondamenta della dinamica, come il greco Archimede aveva fondato la statica.
Passando dalla meccanica alla termica (il capitolo della fisica che si occupa del calore), il Galilei fu probabilmente l’inventore, fin dal 1603, del termometro ad aria. Le sue scoperte nel campo dell’ottica sono notissime. Egli inventò e costruì quel telescopio, che tanti servizi doveva rendergli nei cieli. Ma meno noto è il fatto ch’egli inventò e fabbricò [132] un «telescopio per vedere gli oggetti molto vicini», ossia che fu l’inventore del microscopio (1614), e ch’egli, ben presentendo che la luce non si comunica istantaneamente dagli oggetti luminosi all’occhio umano, tentò — per il primo, sia pure invano — determinarne la velocità. I resultati degli studi del Galilei sui gas e sui liquidi sono ancor oggi vitali in fisica. Egli dimostrò, sperimentalmente, col mezzo della bilancia, che l’aria è pesante, mentre il sommo Tolomeo aveva, contro Aristotele, sostenuto l’opposto. Dimostrò egualmente, in via sperimentale, il diverso peso dei liquidi, e inventò la bilancetta, per determinare il peso specifico dei corpi.
In acustica, tentò la misurazione della velocità di propagazione del suono.
Finalmente, il Galilei si occupò anche del magnetismo della calamita, e ne costrusse di sì potenti, da sostenere pesi 26 volte maggiori del proprio.
Tutta la fisica del sec. XVII può dirsi dipenda dal Galilei e non faccia che continuarne l’opera. Per altro, egli lasciava dietro di sè numerosi discepoli, una scuola di fisica sperimentale, e l’amore vivo, in Italia e fuori, per quest’ordine di ricerche. Così da noi, in Toscana, a Firenze, si fonderà, con intendimenti scientifici, l’Accademia del Cimento (1657); in Inghilterra, la Royal Society (1663); in Francia, per iniziativa del grande ministro di Luigi XIV, il Colbert, l’Académie des Sciences (1666). Nelle pagine che seguono riassumiamo i principali resultati della scienza del tempo nei varii dominii della fisica:
1. Termica. — I dotti dell’Accademia del Cimento perfezionarono il termometro, sì da sostituire, al termometro ad aria, il termometro ad alcool. I termometri fiorentini si diffusero per il mondo, e nel 1659 venne in Francia costruito il primo termometro a mercurio. Ciò che mancava era solo l’accordo sulla temperatura di partenza, da cui sarebbe occorso cominciare la graduazione. Inoltre gli Accademici del Cimento stabilirono che la dilatazione, [133] prodotta dal calore, nei solidi, è minore di quella prodotta nei liquidi; notarono il così detto salto d’immersione, che, cioè, immergendo un termometro in acqua calda (o fredda), il livello del liquido a tutta prima si abbassa (o innalza) per la dilatazione (o il restringimento) del vaso che lo contiene; notarono che l’acqua, congelandosi, aumenta di volume nel rapporto di 8 a 9 (esattamente, sappiamo oggi, di 8,3 a 9); fissarono la diversa capacità termica dei corpi, ecc. ecc.
2. Meccanica. — Evangelista Torricelli (1608-47), il discepolo preferito del Galilei, partendo dal principio che anche i gas sono pesanti, inventava il barometro, ossia il noto strumento, capace di registrare la pressione atmosferica. Al termometro e al barometro presto si aggiunsero l’igrometro (misuratore dell’umidità dell’aria) e il pluviometro; onde si poterono istituire regolari e precise osservazioni metereologiche.
La camera barometrica dette mezzo di fare numerose esperienze sul vuoto. Interessanti furono gli studî sui fenomeni di capillarità, fin allora a torto creduti effetti di pressione atmosferica, e fu così ritrovata la legge che l’elevazione dei liquidi nei tubi capillari è in ragione inversa al diametro di detti tubi (legge del Jurin).
Ma dal barometro era facile passare alla costruzione della macchina pneumatica. Chi vi pervenne fu uno dei più felici scienziati sperimentatori, Ottone di Guericke di Magdeburgo (1602-86), l’autore della esperienza notissima del crepavescica e dell’altra più famosa degli «emisferi di Magdeburgo», aventi per iscopo di provare la forza della pressione atmosferica.[76] Poco dopo (o contemporaneamente?) vi perveniva l’inglese Roberto Boyle (1627-71). [134] Fu allora sperimentalmente dimostrato l’errore della secolare teoria aristotelica che «la natura ha orrore del vuoto», che, cioè, il vuoto, in natura, è impossibile. Ma (ciò che fu più importante) queste esperienze sul vuoto accrebbero di parecchio le cognizioni del secolo sugli altri fenomeni fisici. Fu trovato che il suono non si propaga nel vuoto; che, per contro, le attrazioni, magnetiche ed elettriche, vi si trasmettono; che, il barometro discende man mano che si rarefà l’aria, nella quale esso è immerso; che l’acqua bolle tanto più rapidamente quanto più rarefatta è l’aria, in cui è immerso il recipiente che la contiene, ecc. ecc.
Queste ricerche sul vuoto condussero altresì alla scoperta sulla elasticità o compressibilità dell’aria che porta il nome di legge Boyle o legge Mariotte (come la denominano i Francesi dal fisico Edmondo Mariotte, 1620-84). Secondo questa legge, i gas si contraggono in ragione diretta del peso da cui sono caricati; ossia che esiste una proporzionalità inversa fra il volume dei gas e la pressione a cui vengono sottoposti.
3. Suono e luce. — Finalmente si potè determinare quasi esattamente la velocità del suono,[77] e si affrontò di nuovo, senza dapprima riuscirvi, il calcolo della velocità della luce. Sarà primo un danese (Olaf Römer) nel 1655, a poterla fissare in 311 000 km. al secondo, errando di poco per eccesso piuttosto che per difetto.[78] Ma l’operosità del Galilei nel campo dell’ottica aveva diffuso, in Italia e fuori, una vera passione per questo ramo di studii. Perciò fu possibile che si formasse in Italia una scuola eccellente di tecnici e di costruttori di lenti e di cannocchiali, e che fuori d’Italia il problema della luce venisse affrontato alle sue radici. Sono due le opinioni [135] che, in questo secolo, si scontrano e si combattono intorno alla natura della luce. L’una espose il Newton nella sua classica Ottica, e, sorretta dall’enorme autorità del suo formulatore, dominò quasi tutta la scienza del tempo. Secondo questa teorica, la luce si deve a emissioni, che fanno i corpi luminosi, di correnti di corpuscoli in tutte le direzioni: corpuscoli moventisi in linea retta, intersecandosi e rimbalzando in ogni senso, senza peso, insensibili a ogni influenza (teoria delle emissioni). L’altra dottrina espose Cristiano Huyghens (1629-95), un olandese, in un suo Trattato della luce, nel quale erano profondamente studiati tutti i fenomeni ottici, propagazione, riflessione, rifrazione, e che è il più completo trattato su questa materia. Secondo l’opinione dell’Huyghens, la luce si deve a vibrazioni longitudinali delle molecole dei corpi luminosi, vibrazioni interamente paragonabili a quelle determinate dal suono nell’aria o, da un grave che cade, nell’acqua (teoria delle ondulazioni).
Formulata precisamente in questo modo, la dottrina dell’Huyghens non era esattissima nei suoi particolari (le vibrazioni della luce non sono longitudinali, cfr. § 37 E); ma essa sola, che pure raccolse pochi consensi, era nel vero; l’altra del Newton risulterà, fra non molto, radicalmente sbagliata.
Il Newton studiò anche egregiamente il fenomeno della rifrazione della luce; scompose, mediante un prisma di cristallo di rocca, un raggio di luce nei suoi colori elementari, e cercò di dare una teoria dei colori, imaginando che la loro diversità dipenda dalla grandezza delle molecole luminose; spiegazione che, anch’essa, oggi riconosciamo inesatta (cfr. § 37 E).
4. Magnetismo ed elettricità. — Del magnetismo terrestre si occupò il grande astronomo Edmondo Halley (1658-1742), e fin dal 1683, in seguito a uno studio sulla declinazione magnetica, tornò all’idea, che era stata del Gilbert (§ 22): che la Terra sia un grande magnete, e vi assegnò quattro poli magnetici. Questa ipotesi dei [136] quattro poli è oggi abbandonata. Ma un viaggio dell’Halley negli Oceani Atlantico e Pacifico, allo scopo di verificare la sua dottrina, gli permise di costruire la prima grande carta terrestre di declinazione, nella quale sono riuniti con linee continue i punti di eguali declinazioni. Più tardi egli stesso collegò acutamente al magnetismo terrestre il fenomeno delle aurore boreali.
In questo stesso secolo si studiano più a fondo anche i fenomeni elettrici: sono Ottone di Guericke, il Boyle e poi Francesco Hawksbee ad occuparsene. Il Boyle, in un importantissimo esperimento, mostrò che l’azione elettrica si esercita, come la luce, attraverso il vuoto. L’Hawksbee ebbe per il primo l’intuizione di una dottrina, che sarà propria del sec. XIX: la luce essere di natura identica alla elettricità (cfr. § 37 E). Anche il Newton discorre di elettricità e di forze elettriche, che egli definisce «forse» come «il resultato di un principio etereo (?) messo in moto dalla vibrazione delle particelle dei corpi elettrizzati». Ma, non ostante i grandi nomi di tali scienziati, la gloria dell’elettricità sfuggì al sec. XVII.
Singolare e degno di nota è il fatto che questa età, così carica di scienze, torna a porsi, come gli antichissimi greci, il problema più alto e più arduo: quello della costituzione della materia. E vi giunge, non, come farà il sec. XIX (cfr. § 38 A e B), attraverso la fisica e la chimica, ma esclusivamente attraverso quello della fisica. Fu Roberto Hooke (1635-1703) a discorrerne in una Lettera del 1662 al Boyle, ed egli dichiarò di opinare (con Democrito ed Epicuro) che le particelle dei corpi siano in continuo movimento e costrette a mutar direzione per l’urto con altre particelle o con altri corpi...
Era in fondo un resuscitare la teoria atomica, dopo secoli di oblio.
30. Fisica: Il sec. XVIII. — Il secolo XVIII non ha, per tre quarti del suo corso, nomi di fisici, che si [137] possano paragonare ai grandi dell’età che immediatamente lo aveva preceduto. Ma fu tutto un secolo di somma operosità, di raccoglimento, di progressi modesti e costanti, che tanto giovarono a consolidare le audaci conquiste del sec. XVII e a preparare la gloria del sec. XIX.
Si penetra a fondo la costituzione dell’aria, anzi, si riesce a dominare tutti i gas e i loro fenomeni. I fatti dipendenti dal calore (fusione, volatilizzazione, liquefazione) sono studiati minutamente e determinati quantitativamente. Si misura la compressibilità dei liquidi, che l’Accademia del Cimento aveva negata. Progrediscono le ricerche di acustica e di meccanica; e, se la grande autorità del Newton incombe tuttavia sui progressi dell’ottica, in compenso, grazie ai newtoniani, piglia largo campo la fisico-matematica, ossia l’applicazione della matematica alla fisica.
Come facemmo per l’età precedente, illustriamo anche questa volta i principali resultati del sec. XVIII in fisica.
A). Scoperte varie. — Fra gli studiosi maggiori dei fenomeni relativi al calore, ci furono, in questo secolo, Daniele Fahrenheit[79] (1690-1740), inventore del termometro, che porta il suo nome. Nel suo primo strumento, ch’era ad alcool, il punto 96° corrispondeva alla temperatura del corpo umano sotto l’ascella, e lo zero, alla temperatura di un miscuglio di ghiaccio, acqua e sale ammoniaco. Più tardi, allorchè egli cominciò a sostituire il mercurio all’alcool, fissò al 32° la temperatura del ghiaccio in fusione (lo 0° del termometro centigrado) e, al 212°, quella dell’acqua in ebollizione (il 100° del centigrado).
Il termometro centigrado, che noi oggi usiamo più di consueto, fu introdotto dagli scienziati svedesi Andrea Celsius (1701-44) e Märten Strömer. Giuseppe Black (1728-99) e, sopra tutti, i grandi francesi Antonio Lorenzo Lavoisier e l’astronomo Laplace studiarono la dilatabilità dei metalli; studiarono e determinarono la quantità di calore sviluppata [138] nella combustione del carbonio e dell’idrogeno, e, quindi, il fenomeno della respirazione animale.
Indagarono nei fenomeni luminosi l’astronomo G. Bradley (cfr. § 28 D) (scopritore dell’aberrazione della luce), e i due Giovanni Bernouilli (padre e figlio), che cercarono di spiegare i modi di propagazione della luce dal sole e dalle stelle, fino a noi, adoperando l’ipotesi dell’etere, che prevarrà nel sec. XIX (cfr. § 37 F). Il grande matematico Leonardo Euler (1707-83) rivendicò, solo contro la folla dei newtoniani, la teoria ondulatoria della luce dell’Huyguens, e per primo, esattamente, spiegò le diversità dei colori con la diversa durata delle vibrazioni.
Studiarono la compressibilità dei gas Daniele Bernouilli (1700-1782), uno dei maggiori fisici dell’epoca. E finalmente, fatto caratteristico, un frate, professore di astronomia a Bologna, l’ab. G. B. Guglielmini, verificò per primo, lasciando cadere un corpo dalla torre degli Asinelli a Bologna, la deviazione verso oriente dei corpi cadenti, quale conseguenza del moto della Terra, comprovando così, in modo ineccepibile, la scomunicata teoria copernicana!
Ma su due punti della fisica del sec. XVIII è necessario indugiare in modo speciale: 1) la macchina a vapore che suscitò la grande industria e rese possibile il grande commercio moderno; 2) le nuove scoperte sul terreno della elettricità, le quali saranno capaci di non minori e incalcolabili resultati.
B). La macchina a vapore. — La macchina a vapore, come quasi tutte le scoperte dell’età moderna, era anch’essa nota alla scienza greca. Il fisico alessandrino Erone ne aveva costruita una, ch’egli aveva denominata eolipila (§ 9 F). Ma non vi erano seguite applicazioni pratiche. Eolipile furono costruite anche nella Rinascenza, anzi pare che i minatori di Boemia si servissero di una macchina a vapore per estrarre dal sottosuolo il minerale greggio. Neanche Dionigi Papin (1647-1713), al cui nome la macchina a vapore [139] suole collegarsi, riuscì, attraverso i suoi numerosi tentativi, a costruirne una soddisfacente. Egli — infelicissimo — rimase sempre qualche pollice al di qua della gloriosa scoperta, di cui pure aveva intravisto gli elementi fondamentali.
La macchina a vapore moderna è il portato diretto delle esigenze dello sviluppo industriale, nella Inghilterra nel sec. XVIII, e si connette a questo grande fenomeno di storia economica, più che ad alcuna astratta speculazione scientifica. Fu primo Tomaso Savery, capitano di marina e meccanico abilissimo, a trarre ispirazione dai tentativi di Papin per costruire una macchina a vapore, capace di trar fuori dalle miniere inglesi l’acqua, che vi rendeva pressochè impossibile l’estrazione del carbon fossile (1699). Cotale macchina fu perfezionata da due artigiani dei dintorni di Darmouth, Tomaso Newcomen e Giov. Cawley; poi, da un fanciullo, addetto appunto a una macchina-vapore di una miniera — Enrico Potter (1713) —, il quale riescì a rendere automatico il movimento dei suoi rubinetti. Si perviene così al periodo glorioso dello splendore e della diffusione della macchina a vapore, a cui dette il suo nome Giacomo Watt[80] (1736-1819). Il Watt vi aggiunse dapprima un condensatore del vapore, separato dal cilindro (condensatore isolato); poi trasformò radicalmente i principii, su cui la macchina fin allora poggiava; da ultimo costruì la macchina a doppio effetto e trasformò il movimento rettilineo in movimento circolare, capace di far girare una ruota, che a sua volta trasmettesse il movimento a organi speciali.
Solo allora la macchina a vapore entrò in ogni genere di lavori industriali, in Inghilterra e nel continente, moltiplicando la produzione e alleviando la fatica umana.[81]
[140]
Mentre Watt, in Inghilterra, rendeva praticamente utile la macchina a vapore, in America, negli Stati Uniti, dove del pari nasceva l’industria moderna, Oliviero Evans costruiva (1780) la macchina a vapore ad alta pressione, nella quale, cioè, il vapore era riscaldato ad oltre 100 gradi, per cui la sua forza di espansione si moltiplicava in proporzione geometrica. Nello stesso periodo di tempo la macchina a vapore veniva adoperata per la navigazione fluviale. I primi tentativi furon fatti, in Francia, sul Doubs e sulla Senna. Furono anche fatte le prime prove di locomozione terrestre a vapore con rozze automobili e con piccole locomotive su binarii, e, meglio ancora, con vere e proprie funicolari, la cui motrice a vapore era fissa, e sul suo albero si arrotolava il cavo che trascinava i vagoncini.
Così nasceva la macchina a vapore, che dominerà, e informerà del suo spirito, tutto il secolo XIX.
C). Elettricità. — Le prime macchine elettriche con disco di vetro, quali le adoperiamo oggi, furono fabbricate nella seconda metà del sec. XVIII. Nello stesso tempo fu scoperta la bottiglia di Leyda, che venne dapprima usata a scopo medico, e costò la vita a taluno di coloro che primi l’adoperarono.[82] Poco dopo, nel 1737, Beniamino Franklin (1706-90), nativo di Boston, ossia di quelle colonie inglesi d’America, ove la coltura e l’industria cominciavano a svilupparsi, avanzava l’ipotesi che il fulmine non fosse uno scoppio di gas esplodenti (come si credeva), ma vero fluido elettrico, e che quindi dovesse essere attratto dai corpi acuminati, come il fluido elettrico nelle bottiglie di Leyda. Movendo da questa ipotesi, che egli non [141] sapeva essere già stata avanzata da altri fisici europei, il Franklin pervenne alla scoperta del parafulmine (1753). La invenzione fu introdotta dapprima in America, poi in Europa e, in Italia, in Piemonte, da G. B. Beccaria, professore di fisica a Torino, tra il 1748 e il 1772.
Tuttavia, a parte questa scoperta, le teorie elettriche del Franklin debbono giudicarsi assai grossolane: fra l’altro, egli imaginava (del resto come tutti i suoi contemporanei) che l’elettricità fosse materia esistente in tutti i corpi. Se questi ne contenessero più della misura normale, l’elettricità era positiva; se no, negativa.
Il citato Beccaria si occupò anch’egli, pressochè esclusivamente, di elettricità, e studiò le azioni chimiche, prodotte dall’elettricità, scaricata dalla bottiglia di Leyda, l’elettricità atmosferica, e dall’osservazione di fenomeni luminosi, accompagnanti il passaggio delle correnti elettriche nel vuoto, ribadì il concetto di Halley che l’aurora boreale fosse effetto di scariche elettriche nelle regioni più elevate dell’atmosfera.
Ma fu un francese Carlo Agostino Coulomb (1736-1806) a scovrire la legge, che porta il suo nome, la quale ricollega l’elettricità alla gravitazione universale e sembrerebbe dimostrare che la ipotesi newtoniana è (quale appunto il sommo astronomo inglese l’aveva concepita) una legge universale della natura. La legge Coulomb dice infatti: «l’attrazione (o la repulsione) fra due cariche elettriche possedute da due sfere conduttrici, è direttamente proporzionale al prodotto delle cariche e inversamente proporzionale al quadrato della distanza fra i centri delle due sfere».
Verso il 1780, l’italiano Luigi Galvani (1737-98) scopriva l’elettricità animale, come è noto, in una rana scorticata. Verso lo stesso tempo iniziava le sue ricerche sull’elettricità uno dei più grandi fisici italiani, Alessandro Volta.
31. La chimica: A). Fino al Lavoisier. — Le società scientifiche, sorte in Italia e fuori (Accademia del Cimento, [142] Società reale londinese, Accademia della Scienza di Parigi), tra il fermento della rinascita scientifica che seguì all’età del Galilei, si occuparono in modo speciale di fisica. Ma era impossibile che l’innovazione dei criteri e dei metodi di lavoro, compiuta nell’una disciplina, non si ripercotesse anche sull’altra. Il Galilei della chimica del sec. XVII è Roberto Boyle (1626-91), che noi abbiamo già ricordato anche tra i grandi fisici del tempo, come uno degli scopritori della legge di compressione dei gas. Egli combatte il concetto di pochi corpi, principii chimici (elementi) di tutte le cose, su cui la fisico-chimica antica e l’alchimia medievale si erano fondate.
Non ci sarebbero solo l’aria, l’acqua, la terra, il fuoco degli aristotelici, o lo «zolfo», il «mercurio», il «sale» degli alchimisti, da cui tutti gli altri corpi resulterebbero. Ci sarebbero, invece, assai più numerosi elementi, risultanti ciascuno, a sua volta, di particelle semplicissime.
Lo stesso Boyle distinse per il primo, come noi facciamo, i miscugli dalle combinazioni chimiche, e incoraggiò le consuetudini delle analisi chimiche allo scopo di accertarsi della natura di questi composti.
Dopo il Boyle, l’analisi diviene strumento principale delle ricerche chimiche. Per essa, applicando sistematicamente certe reazioni e certi reagenti, e sempre con maggior precisione, si scopersero elementi fin ora sconosciuti. Dall’analisi qualitativa si passò all’analisi quantitativa. Si accrebbe il numero degli strumenti destinati a tale scopo e si moltiplicarono i processi industriali per la fabbricazione dei varii prodotti.
Di queste scoperte due sono fondamentali: quella dell’inglese Priestley (1774) sull’ossigeno dell’aria, quella del Cavendish (anch’egli inglese) sui due componenti dell’acqua: l’idrogeno e l’ossigeno. In tal modo, due corpi, per secoli ritenuti «semplici» — l’aria e l’acqua —, venivano decisamente scomposti!
Al passivo di questo bilancio sta una delle teorie più [143] tenaci nella chimica di questo periodo: quella del flogisto. È questa una errata, ma famosa, teoria della combustione,[83] la quale veniva attribuita a una particolare sostanza, diffusa, più o meno, nei corpi combustibili, il flogisto.[84] In essa credette anche taluno dei migliori, il Cavendish, ad es., il quale ultimo, anzi, identificò il flogisto con l’idrogeno.
Tale era lo stato della chimica, in Europa, allorchè apparve il Lavoisier.
B). Lavoisier (1743-94) e la sua scuola. — L’importanza enorme dell’opera chimica di Antonio Lorenzo Lavoisier, di quest’uomo, che, vissuto nel cuore della Rivoluzione francese, a soli 51 anni fu dal fanatismo giacobino costretto a lasciare la testa sul patibolo, consiste nell’avere scoperto esattamente, non dei nuovi corpi, ma alcuni fondamentali processi dei corpi.
Il Lavoisier, movendo dalle scoperte del Priestley e del Cavendish, in alcune sue memorie del 1777 e specie nel suo classico Trattato elementare di chimica (1789), dimostrò, in modo assoluto e definitivo, che tutti i processi di combustione non sono che altrettanti fenomeni di combinazione dell’ossigeno dell’aria con la materia combustibile. In tal modo egli colpiva mortalmente la dottrina più radicata, in seno alla chimica dei sec. XVII-XVIII: quella già citata del flogisto.
Grazie alla sua scoperta, egli spiegava la natura degli acidi, quali combinazioni di ossigeno con fosforo, zolfo, carbone ecc., e rinforzava la dottrina del Boyle circa la esistenza di numerosi corpi semplici, che (a suo avviso) sarebbero stati i metalli e i vari corpi combustibili (carbone, zolfo ecc.): gli uni e gli altri immutabili di peso e (contro le vedute alchimistiche) inconvertibili dall’uno all’altro.
[144]
È dello stesso Lavoisier, sebbene non mai formulato esplicitamente, il principio della conservazione della materia, che non si crea nè si distrugge, che solo alcuni fra i Greci antichissimi avevano divinato, e a cui egli si ispirò in tutto il suo lavoro. Strumento prezioso di tale dimostrazione fu la bilancia. Ma la innovazione pratica più importante, che risale a lui, è la nuova nomenclatura chimica per cui ogni sostanza viene denominata per mezzo degli elementi che la compongono. Questa nomenclatura, non ostante nuove correzioni e scoperte, è quella che ancor oggi noi usiamo.
Dopo il Lavoisier, l’attenzione della chimica, almeno dei seguaci della sua scuola, si accentra intorno alla funzione dell’ossigeno e dell’idrogeno. Ma è singolare notare come dall’opera di uno dei suoi ideali discepoli risorga, ancor una volta, quella teoria atomica, che il Lavoisier con la sua teorica, dei corpi semplici sembrava aver seppellita. È Gius. Luigi Proust (1761-1826) a scoprire la «legge delle proporzioni definite», ossia che le proporzioni degli elementi di ciascun corpo sono invariabili, perchè vi si combinerebbero atomi definiti e di peso costante. Egli stesso supponeva che tutti i corpi potessero ridursi al più leggero tra essi — l’idrogeno —, ossia ch’essi fossero degli stati diversi di condensazione degli atomi di idrogeno.[85]
32. Medicina. — Nei secoli XVII-XVIII la scienza medica è dominata e impacciata da alcuni preconcetti di carattere filosofico. Il più famoso è quello dell’esistenza di una forza vitale, di un zoogeno, come altri la definiva, che determinerebbe tutti i fenomeni della vita. In corrispondenza le malattie dipenderebbero da un qualche cosa — da un quid — perturbatore di questa forza vitale.
La sede di questo ente perturbatore è ora, da taluni scienziati, collocata nel sangue, focolare di tutte le malattie [145] (così la scuola umorale); da altri, nei nervi (così la scuola solidale). Altri, invece, pensa che le malattie dipendano da un difetto di energia vitale, ed altri ancora, che presto divennero moltissimi, da un eccesso di questa forza onde il noto uso ed abuso dei salassi.
Ma, accanto a questa metafisica medica, non mai cimentata alla prova, si ha una vera e propria scienza, tanto più progredita, in quanto su di essa influiscono potentemente le scoperte di tutte le altre scienze.
Appunto perciò i secoli XVII e XVIII sono pieni di scoperte mediche di prim’ordine. Il fisiologo Hancey (1578-1658) scopre il meccanismo della circolazione del sangue. In Francia, il grande Cartesio, fisiologo, oltre che filosofo, matematico, fisico, diffonde la importantissima dottrina delle cellule, componenti elementari degli organismi animali e delle loro funzioni. Si comincia a fondare l’anatomia microscopica, ossia lo studio microscopico del corpo umano. Lazzaro Spallanzani (1728-99) scopre i corpuscoli bianchi del sangue, il funzionamento della digestione e della respirazione. Il Galvani (1737-98) (vedemmo) scopre e comincia a studiare l’elettricità animale, fondando così la elettrofisiologia e la elettroterapia. L’anatomia del sistema nervoso è ora approfondita, e lo Scarpa (1752-1832) ritrova i nervi del cuore, dell’udito, dell’olfatto; il Cotugno, il nervo nasale-palatino. Gli organi della vista e dell’udito sono investigati a fondo con il microscopio e con altri mezzi.
I procedimenti della chirurgia acquistano imponenza ed importanza. I medici delle grandi monarchie europee, specie di quella francese, compiono operazioni impressionanti. E le accademie scientifiche europee ne diffondono la cognizione.
La filosofia materialistica del sec. XVIII, fatta popolare dagli Enciclopedisti francesi, inculca il concetto che l’uomo sia niente altro che una macchina organica, dominata da mere leggi fisiche. Vera o falsa codesta concezione, essa contribuisce potentemente al progresso della medicina. [146] L’affermazione più eretica, e che contradiceva a credenza di secoli, fu quella, formulata anche dal nostro Chiarugi (1758-1820): la pazzia essere una malattia a base somatica (corporea), come tutte le altre.
33. Zoologia e botanica: A). Secolo XVII. — I libri di scienze naturali del sec. XVII sono ricchi di relazioni sulla fauna e sulla flora del Nuovo Continente. Anche il vecchio mondo, data la grande quantità di viaggiatori, esploratori, missionari, è meglio conosciuto. L’olandese Marcgrave scrive perciò la Storia naturale del Brasile (1648); l’olandese Bontius (Giacomo de Bondt) informa sulla fauna di Giava (1631). Queste, come altre opere del tempo, possono essere ancor oggi consultate con utilità. Tuttavia, presso gli zoologi del sec. XVII, lo spirito di osservazione non supera gran fatto l’abito delle compilazioni vecchio stile. Presso i botanici si nota uno sforzo crescente verso tentativi di classificazioni più scientifiche. Si fissa chiaramente il concetto di specie, determinato dalla costanza della forma e dalla infecondità, in seguito all’incrocio con altre specie. E degna di ricordo è una classificazione di G. Pitton de Tournefort (1656-1708), che durò fino a Linneo.
Nuovo impulso alle scienze naturali viene dalla invenzione del microscopio, il che accade verso la fine del secolo. Allora il Leeuwenhoek (1632-1723) scopre gli infusori, inaugurando così la scienza dell’innumere regno dei microrganismi, e, con lo stesso mezzo, verso lo stesso tempo, si comincia a tentar di spiegare il modo di fecondazione e riproduzione delle piante, a distinguerne i sessi, a penetrare nel mistero della circolazione della linfa, della nutrizione, della respirazione delle piante. Si scopre la composizione cellulare dei vegetali. Nasce, cioè, quella che ora si dice la fisiologia delle piante.
B). Secolo XVIII: Linneo; Buffon; Erasmo Darwin. — Lo scienziato che, in fatto di scienze naturali, domina nettamente tutto il secolo XVIII, e col [147] quale appunto si apre quest’età, è lo svedese Linneo (1707-1778).
Linneo è il primo grande classificatore della scienza moderna. Sotto tale riguardo, egli si ricollega ad Aristotele. Il suo Sistema della natura (1738) abbraccia tutte le specie, animali, e vegetali, allora conosciute, e le distribuisce nelle grandi categorie, ancor oggi, almeno nel linguaggio corrente, superstiti. Egli distingue gli animali in mammiferi, uccelli, pesci, insetti, vermi. Aristotele, forse, aveva classificato meglio, distinguendo gli animali in vertebrati (a sangue rosso) e invertebrati (a sangue bianco) e avendo preso in considerazione anche molluschi e crostacei.
Linneo distingue i vegetali in piante a fiori visibili e piante a fiori invisibili (crittogame), e suddivide la prima di queste due grandi categorie a seconda i caratteri sessuali del fiore, che sono elementi essenziali e facili a riconoscere. Così egli distingueva le piante a fiori visibili in piante del tutto o in parte ermafrodite, e ciascuno di questi due gruppi, in gruppi minori, a seconda del numero degli stami e dei pistilli.
Ma un tratto caratteristico, sebbene errato, della scienza della natura di Linneo è il concetto della fissità delle specie, ossia il concetto che le specie sono qualitativamente distinte le une dalle altre e immutabili sin dalla origine loro.
Un grande contemporaneo di Linneo è Buffon (Giorgio Luigi Leclerc Buffon, 1707-1788). Non è un classificatore, e non vuol esserlo; egli dubita molto della fissità delle specie, come Linneo la concepiva, e come egli stesso da prima l’aveva ammessa. In molti passi dei suoi scritti si dichiara convinto del variare delle specie sotto l’influenza dell’ambiente e attraverso caratteri acquisiti. È così un precursore dell’imminente evoluzionismo. Ma il tratto caratteristico della sua opera di zoologo è quello di avere fondato la geografia zoologica e di avere, ben ordinando le specie, rimosso confusioni ed errori.
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Proprio in sullo scorcio del secolo XVIII ha principio quella teoria dell’evoluzione, la cui disputa, appassionata e appassionante, non meno di quella tra tolomaismo e copernicanesimo, empirà del suo rumore il sec. XIX. Vive in questo tempo il nonno di Carlo Darwin: Erasmo Darwin (1731-1800), studioso e poeta delle scienze naturali, e autore, fra l’altro, di due opere in versi, il Giardino botanico e gli Amori delle piante. Ma la sua grande opera della maturità è la Zoonomia, e in essa egli vuole, fra l’altro, spiegare l’origine e le trasformazioni delle specie, le quali, come più tardi gli evoluzionisti insegneranno, si trasformano in altre diverse o superiori, mediante la persistenza dei caratteri acquisiti.
Particolare degno di nota, in quegli stessi anni, l’identico problema era meditato dal più grande poeta, e anche grande scienziato, tedesco, Volfango Goethe, l’autore immortale del Faust, nelle sue Metamorfosi delle piante. Ed egli lo risolveva in modo identico!
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34. Caratteri della scienza nei secc. XIX-XX. — Le cause del progresso grandioso della scienza nei secc. XIX-XX si debbono al perfezionamento e all’applicazione rigorosa del metodo, che i due secoli precedenti avevano additato alle ricerche scientifiche. Ma v’ha un altro fatto storico di prim’ordine, un fatto, cui accennammo in uno dei paragrafi precedenti, allorchè intraprendemmo a discorrere della scienza nell’età moderna (§ 25), che sollecita d’urgenza questo progresso: lo sviluppo della grande industria. Questo sviluppo non è stato mai così imponente, a tratti così mostruoso, come in questi ultimi due secoli. Or bene, esso ha imposto alla scienza problemi nuovi, gravissimi, e l’ha sforzata verso la loro soluzione. La grande industria ha portato altresì l’enorme incremento della popolazione, nell’uno e nell’altro continente, e questo fatto, a sua volta, ha imposto agli uomini altri ordini di problemi: come trovare il necessario alla vita di nuove decine e decine di milioni di persone; come costruire le nuove gigantesche città; come proteggerle dalle epidemie. Or bene, a tutto questo, senza l’aiuto di mezzi straordinarii di conquista della natura, o di difesa dai suoi flagelli, non era possibile provvedere.
Tuttavia, in genere, non può dirsi che i secc. XIX-XX abbiano fatto scoperte paragonabili a quelle dei secc. XVI-XVII. Nè c’è stato più un Galilei o un Newton, nè si sono ritrovate [150] ex novo le leggi della dinamica o della gravitazione universale. Unica eccezione può fare, in fisica, il ramo della elettricità. Tutto il resto non è stato che progresso quantitativo, straordinario però sino al punto, che i resultati ne sono apparsi originali e nuovi come qualità.
Il carattere più saliente della scienza, in questi ultimi centoventicinque anni, è quello stesso che si disegnava nei secc. XVII-XVIII, ma, ora, in proporzioni assai maggiori: la compenetrazione di ogni disciplina scientifica nell’altra, al che si devono i massimi progressi di ciascuna. Così lo spettroscopio, un puro strumento fisico, è stato autore di profonde rivelazioni in astronomia; la fisica, con la macchina elettrica, con la termodinamica, ha rinnovato la chimica; i metodi e le scoperte dell’una e dell’altra hanno rivoluzionato i campi della medicina, della zoologia, della botanica; la matematica domina ovunque.
Frattanto, com’era cominciato ad avvenire sin dal sec. XVIII, i vecchi confini fra le varie discipline scientifiche sono rotti, e dalle unioni di parti dell’una con l’altra o di parti diverse di ciascuna, fra loro, sono nate scienze, aventi ognuna una individualità propria: elettro-chimica, elettro-magnetica, zooiatria, anatomia microscopica, termo-dinamica, fisico-matematica ecc. ecc. Certi rami di una sola scienza hanno assunto tale ampiezza, da costituire da soli delle vaste scienze: l’analitica, l’aritmetica superiore, in matematica; la meccanica, la elettrotecnica, l’ottica, in fisica; la chimica organica, l’elettrolitica in chimica; la fisiologia, la patologia, l’anatomia, la clinica, in medicina, e così via. In tal modo il fronte della scienza moderna presenta un’ampiezza senza paragone più imponente che in tutti i secoli passati.
35. Matematiche. — I secoli XIX-XX hanno continuato e approfondito gli indirizzi matematici dei due secoli precedenti. La geometria analitica e la geometria proiettiva sono state coltivate da una folla di scienziati. Questo secondo, [151] anzi, ha mutato nome: la geometria proiettiva di Monge è divenuta la geometria sintetica o superiore, specie per i mutamenti in essa introdotti da Giacobbe Steiner (1796-1863) e da C. Giorgio Cristiano Staudt (1798-1867), il quale formulò un sistema di geometria, concepita al di fuori di ogni idea di numero e di grandezza. Presso i Francesi, il più grande maestro di geometria superiore del sec. XIX è stato il Poncelet (1788-1867); fra gli Italiani, Luigi Cremona (1830-1903).
La geometria moderna ha anche affrontato la discussione delle ipotesi comunemente ammesse dalla nostra geometria elementare — l’antica geometria euclidea —, e n’è nata così la geometria non euclidea.
Il calcolo infinitesimale o, semplicemente, l’analisi, è stato anch’esso approfondito da una pleiade di scienziati, illustri, tra cui citeremo soltanto l’Halphen, la signora Sofia Kowalwski, il grande francese Enrico Poincaré e gli italiani Fr. Brioschi (1824-1897), il fondatore dell’Istituto tecnico superiore di Milano, e Ulisse Dini, morto da poco. Ma sono sorti anche nuovi importanti rami della matematica pura: la così detta teoria dei numeri o aritmetica superiore, la teoria delle forme e la teoria dei gruppi, le funzioni ellittiche, ecc., che dànno un colorito nuovo alla scienza matematica dei secc. XIX-XX. Inoltre, come più volte abbiamo accennato, l’impero della matematica sulla fisica è diventato assai più possente e intimo che per l’innanzi. Ne sono così nate la meccanica analitica, la fisico-matematica ecc.
36. Astronomia. — L’astronomia dei secc. XIX-XX non ha un solo grande nome da contrapporre agli astronomi dei due secoli precedenti e nessuna grande scoperta, che possa competere col copernicanesimo o col newtonianesimo. Ma vanta una folla di studiosi provetti (Delaunay, Adams, Leverrier, Maxwell, Helmholtz ecc. ecc., e, fra gli Italiani, Secchi, Schiaparelli, ecc.), i quali, lavorando nel campo dell’astronomia così detta gravitazionale (matematica) [152] e dell’astronomia descrittiva o astrofisica, hanno stabilito e dimostrato molti punti, ch’erano rimasti oscuri, e precisato e completato molte ricerche del passato.
I progressi del primo di questi due rami dell’astronomia si debbono sopra tutto alla collaborazione della matematica; del secondo, al perfezionarsi degli strumenti di osservazione, alla fotografia, e principalmente alla così detta analisi spettrale (V.i più innanzi), coadiuvata dalle accresciute cognizioni chimiche.
Cerchiamo di elencare alcuni dei principali resultati, dell’una e dell’altra astronomia, cominciando dall’astronomia gravitazionale:
1º Il sec. XIX iniziò, per deliberazione del Congresso internazionale di astronomia, tenutosi a Parigi nel 1887, la carta stellare del cielo, il cui studio è stato distribuito tra diciotto Osservatorî, i quali avrebbero proceduto con metodi e stromenti identici. La carta dovrà contenere le stelle fino alla 14ª grandezza, e in tutto circa 20 milioni di stelle. In Italia ne sono stati incaricati la Specola Vaticana e l’Osservatorio di Catania.
2º È stato stabilito esattamente l’aumento secolare di velocità (5"-6") della luna, che anche Halley e Laplace avevano notato e tentato calcolare. Quale la causa? L’astronomo Delaunay (1865) suppose che si trattasse di un’apparente accrescimento di velocità della luna, ma che in realtà fosse la Terra a rallentare il suo cammino per l’attrito delle maree, ossia per le influenze, che le maree dell’Oceano eserciterebbero sulla rotazione terrestre, per cui il giorno si allungherebbe di 1⁄10 di secondo ogni 10 000 anni. Ma non è che una ipotesi.
3º La stessa azione delle maree allungherebbe la distanza fra il sole e la Terra, tra la Terra e la luna. Questi due corpi, anzi, si suppone, sarebbero un tempo stati vicinissimi, e la luna avrebbe ruotato intorno alla Terra nell’identica durata di tempo in cui la Terra ruotava intorno al suo asse: i due corpi, anzi, si sarebbero mossi, come se fossero stati congiunti l’uno all’altro.
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4º Nel 1843-46 venivano scoperti, e non già per osservazione, ma per calcoli condotti a termine dagli astronomi gravitazionali — Adams e Leverrier — il pianeta Nettuno, la sua posizione e la sua orbita, che disturbavano i movimenti di Urano. Solo più tardi il pianeta fu segnalato dall’astronomia descrittiva, e precisamente dall’Osservatorio di Berlino.
Ed ecco ora le principali conquiste dell’astronomia descrittiva:
1º Sono state scoperte parecchie centinaia di piccoli pianeti (asteroidi), specie tra Marte e Giove, alcuni con orbite grandemente inclinate sull’eclittica ed assai eccentriche, somiglianti, perciò, più a quelle di comete che di pianeti o stelle fisse.
2º Insieme con gli asteroidi, sono stati scoperti numerosi satelliti dei varii pianeti, tra cui altri cinque di Giove, oltre i primi quattro scoperti dal Galilei. Taluni di essi hanno particolarità singolari. Un satellite di Marte ha una rivoluzione più veloce della rotazione di quella del suo pianeta, sicchè gli ipotetici abitanti di Marte dovrebbero vederlo levarsi a occidente e tramontare a oriente. Ma più strano è il caso del satellite di Nettuno, che (come quelli di Urano) ruota intorno al suo pianeta da est a ovest.
3º Sono stati studiati minutamente, fino ai limiti del possibile, le superficie dei pianeti e dei satelliti. Noi conosciamo i monti, i crateri della luna, la loro altitudine, e sappiamo che la luna non ha acqua e, forse, neanche atmosfera.
È stato studiato Giove, il gigante dei pianeti del nostro sistema solare, e si è potuto determinare che esso ha una densità pari ad appena 1⁄4 di quella della Terra, poco maggiore dell’acqua, e che perciò si trova in uno stadio che potrebbe dirsi pastoso.
Grazie alle osservazioni dell’astronomo italiano Giov. Virginio Schiaparelli, noi adesso conosciamo bene la superficie di Marte, il più vicino (a noi) dei grandi pianeti, con le [154] sue macchie, che sono state talora interpretate per acqua e terra, con le sue grandi linee, scure e parallele, denominate canali, e inesplicabili. Sappiamo che gli anelli di Saturno non sono corpi (solidi o liquidi) continui, ma corpuscoli solidi rotanti intorno al pianeta.
4º Lo studio del sole, della sua composizione è progredito enormemente, grazie, dicevamo, alla analisi spettrale, ossia all’analisi della sua luce mediante lo spettroscopio, con il quale gli astronomi analizzano lo spettro[86] prodotto dai raggi di una sorgente luminosa. Noi conosciamo con questo mezzo le caratteristiche della luce emanata da un solido o un liquido o un gas (a piccola o ad alta pressione), o che attraversa un gas. E abbiamo perciò potuto concludere che lo spettro solare dimostra che la luce del sole proviene da un corpo a temperatura, elevatissima incandescente (solido o liquido, o da un gas ad alta pressione), e che ha attraversati gas più freddi, esistenti nell’atmosfera solare. Nel sole ci sarebbero ben 30 o 40 metalli: sodio, ferro, idrogeno, carbonio ecc. allo stato di vapore. La luce irradia specialmente dalle parti esterne, le più fredde, e la temperatura crescerebbe andando dall’esterno verso l’interno. Anche la densità del sole sarebbe pari ad appena 1⁄4 di quella terrestre.
5º Lo studio delle comete, delle altre stelle, delle nebulose — grazie sempre alla spettroscopia e alla fotografia — è di molto progredito.
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Una domanda, che si sono posti gli astronomi dei secc. XIX-XX, è questa, se la ipotesi del Laplace sulla formazione del sistema solare ne sia riescita confermata o no. Quella teoria ha dovuto affrontare alcune difficoltà: i satelliti [155] di Urano e Nettuno hanno (dicevamo) un movimento retrogrado, e gli asteroidi hanno orbite eccentriche e assai inclinate: il che rompe l’uniformità e la simmetria dei movimenti del sistema solare, su cui Laplace, aveva fondato la sua ipotesi. Ma tali eccezioni sono forse spiegabili. D’altra parte, tutte le restanti osservazioni hanno accresciuto il numero dei corpi, i cui movimenti recano le caratteristiche segnate dal Laplace; l’esame spettrale ha mostrato l’uniformità della materia dei corpi componenti il sistema solare; infine, noi possiamo anche sorprendere nebulose in un processo di condensazione analogo a quello supposto dal Laplace per la nebulosa, donde sarebbe uscito l’intero sistema solare. In conclusione può dirsi che la vecchia ipotesi dell’astronomo francese esca dalle nuove scoperte più rafforzata che indebolita.
37. Fisica. — A differenza dell’astronomia, la fisica dei secc. XIX-XX vanta scoperte ed applicazioni grandiose. Uno dei più possenti impulsi ai suoi progressi è stato l’uso costante del calcolo matematico nei problemi di fisica, che ne ha cambiato in gran parte le basi e l’indirizzo.
Innanzi a tutte stanno le applicazioni della elettricità, di cui diremo fra poco. Ma contemporaneamente si è, in questi due secoli, iniziata l’analisi spettrale; si sono conquistate le regioni dell’aria; si è concepito il calore come dovuto al moto molecolare, e si è fondata la termodinamica. Le vecchie teoriche sulla natura della luce sono state abbandonate e sostituite, come aveva voluto l’Huyguens, con la teoria ondulatoria della luce, medesima, ossia con la esistenza di vibrazioni luminose dell’etere. A queste vibrazioni si tende a riferire anche i fenomeni elettrici e magnetici, sì che la natura degli uni è (si afferma) identica a quella degli altri. Il sec. XVIII ammetteva ancora una mezza dozzina di imponderabili (luce, flogisto, calore, suono, elettricità ecc.); oggi non se ne ammette che uno solo: l’etere.
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In altra direzione, le scoperte di Enrico Hertz hanno dischiuso la strada alla telegrafia, alla telefonia senza fili, e l’elettricità, applicata alla chimica, ha ispirato una nuova concezione della materia, che sembra finalmente rispondere all’eterna domanda che da venti secoli — dall’età di Talete e di Democrito —, il pensiero umano, pur lottando contro se stesso, torna invincibilmente a proporsi: — Quale l’essenza della materia?[87] —
A). Gli studî sull’elettricità. — L’iniziatore degli studî moderni sulla elettricità è Alessandro Volta (1745-1827), la cui prima giovinezza cade in sullo scorcio del sec. XVIII. Allora egli aveva scoperto l’elettroforo e l’elettroscopio. Nel primo anno del nuovo secolo, egli scoprirà e fabbricherà la pila elettrica, che reca il suo nome (pila di Volta), formata di coppie di dischi di zinco e rame, ciascuna separata dall’altra da un corpo conduttore bagnato. Questa pila era capace di emettere scariche elettriche continuatamente, e non già interrottamente e bruscamente, come faceva la bottiglia di Leyda.
Le immediate scoperte, a cui la pila dette luogo, furono numerose, e accesero molte, talora utopistiche, speranze. Ma la più notevole per le sue conseguenze (sebbene casuale) seguì poche settimane dopo che il Volta ebbe annunziato a un amico d’Inghilterra, e descritto a lui privatamente, la sua pila, e cioè prima ancora che egli l’avesse fatta di ragion pubblica. Codesta scoperta consistette nella proprietà della pila di scomporre l’acqua in ossigeno e idrogeno. Per essa venivano gettate le basi della elettrochimica, ossia di un nuovo, straordinario metodo per la ricognizione dei fenomeni chimici, il quale rivoluzionerà la scienza, che li riguarda.
Nel 1821 il fisico Davy, avendo fatto comunicare i due poli della pila con due bacchette orizzontali di carbone, [157] distanti fra loro pochi centimetri, scopriva la luce elettrica. Ma un anno prima (1820) il fisico Arago aveva annunziato, e ripetuto all’Accademia delle scienze di Parigi, una esperienza del chimico danese Gian Cristiano Oersted[88] (1777-1859), la quale dimostrava, sperimentalmente, ciò di cui in passato si era talora sospettato: l’esistenza di un rapporto costante fra il fenomeno elettrico e quello magnetico.[89] Nello stesso anno Francesco Arago (1786-53) scopriva che il filo di ferro, il quale trasmette la corrente elettrica, attira la limatura di ferro, ossia che la corrente elettrica crea intorno a sè un campo magnetico. Sarebbe, dunque, il magnetismo una conseguenza dei fenomeni elettrici?
Il fisico Andrea Maria Ampère (1775-1836) dimostrò questo fatto con una serie di esperimenti classici. Anzi egli formulò in proposito un’ipotesi suggestiva, ma intorno alla quale la scienza ancora discute. Secondo questa ipotesi, le molecole della calamita, come dei vari corpi magnetizzabili (ad es. il ferro), sarebbero percorse da piccole correnti circolari perpendicolari all’asse del corpo stesso. Ma poichè esse correnti si rivolgono in tutte le direzioni, non esercitano nessuna azione esterna. Invece, sotto l’azione della elettricità quelle correnti pigliano una direzione comune, cioè il corpo si magnetizza.
Questa teoria e tutte le dottrine minori, che vi si connettono, l’Ampère svolse in una sua Memoria del 1823, nella quale gettava le fondamenta della elettrodinamica.
In qual modo codesta teorica si applicherebbe a spiegare il magnetismo terrestre? Come, nel sec. XVI, il Gilbert aveva considerato la Terra come un grande magnete, così, ora che il magnetismo veniva identificato con l’elettricità, l’Ampère considerava la Terra come una grande sfera percorsa da correnti elettriche in direzione da est a ovest. [158] Tale idea fu cimentata alla prova dell’esperimento su una sfera di legno, dall’italiano Leopoldo Nobili (1794-1835), e su di essa, egli potè riprodurre tutte le particolarità dell’azione della Terra sull’ago magnetico.[90]
Nel 1825 Guglielmo Sturgeon fabbricava il primo elettro-magnete, avvolgendo un grosso filo di rame sopra una bacchetta di ferro verniciato a forma di ferro cavallo, il quale, appena la corrente lo attraversava, diveniva una potente calamita, capace di sostenere 154 libbre. Era così creato il pezzo fondamentale di tutti i futuri apparecchi, trasmettitori a distanza di segnali (telegrafi e telefoni elettro-magnetici), o che da una data energia elettrica ne ricavano un’altra, diversa dalla prima (trasformatori), o che trasformano il movimento in energia elettrica (dinamo),[91] o questa in quella (motori elettrici)[92] ecc. ecc. Infatti il primo telegrafo Morse (di Samuele Morse, 1791-1872) sarà del 1837;[93] il primo cavo telegrafico sottomarino (fra Douvres e Calais), lungo 45 km., è del 1851, e nel 1858 venne terminato il primo cavo sottomarino europeo-americano, intorno a cui, però, occorse, per renderlo sicuro, lavorare un altro decennio circa.
Anche le prime macchine elettro-magnetiche vennero tentate a mezzo il sec. XIX, appena fu nota l’enorme [159] forza attrattiva dell’elettro-calamita. Il primo motore di tal genere fa costruito nel 1831, e il primo battello, mosso da motori elettro-magnetici, fa provato nel 1837 a Pietroburgo sulla Neva. Ma si trattava di un mezzo troppo costoso, e tale l’elettromagnete rimase finchè non furono noti i fenomeni così detti d’induzione. Tali fenomeni vennero scoperti, in modo definitivo, da Michele Faraday (1791-1867) intorno al 1831. Secondo i suoi resultati, una corrente elettrica avrebbe potuto generare, attraverso un magnete, altre correnti con potere magnetizzante. Ed egli, infatti, riuscì a produrre le correnti d’induzione elettro-magnetica, le cui conseguenze industriali sono infinite, e hanno rivoluzionato l’industria e reso possibili le automobili, nonchè gli apparecchi della moderna aviazione.
Alle correnti d’induzione elettro-magnetiche si collega anche il telefono. Lo inventò per primo un italiano — Antonio Meucci — nel 1849; ma esso fu solo rivelato al mondo dall’Esposizione universale di Filadelfia del 1876. A questa Esposizione però non figurava la scoperta del Meucci, ma quella di Alessandro Bell, di cui ancora usiamo l’apparecchio ricevitore. Poi il telefono si diffuse superbamente in America e in Europa.
Nella seconda metà del sec. XIX, si sono studiati intensamente, e con resultati preziosi, gli effetti della scarica elettrica attraverso il vuoto. Le prime esperienze, veramente impressionanti, furono quelle di Guglielmo Crockes[94] del 1873. Per esse il grande fisico credette di ritrovare un quarto stato della materia (oltre il solido, il liquido, il gasoso), tanto diverso dal gasoso quanto questo lo è da quello liquido. Venti anni dopo, seguirono gli esperimenti di Guglielmo Corrado Röntgen,[95] che, nel 1895, scopriva i raggi X o Röntgen (dal nome del ritrovatore), pei quali i corpi, che alla luce ordinaria risultano opachi, [160] divengono trasparenti, onde fu possibile fotografare (radiografare) lo scheletro umano.
Tale la gamma meravigliosa delle scoperte dal sec. XIX nei dominî della elettricità.
B). Il telegrafo senza fili. — Il telegrafo elettrico senza fili ha anch’esso una ben faticosa preistoria; fu tentato più volte nel corso del sec. XIX: e in Francia e in Inghilterra e altrove. Ma la sua fortunata istoria comincia dal giorno in cui il fisico Hertz e gli altri che si posero sulle sue orme (Lodge, in Inghilterra, Righi e Calzecchi-Onesti, in Italia, inventore, l’uno, dell’eccitatore, l’altro, del ricevitore, Tesla in America, Enrico Poincaré in Francia) ricercarono i mezzi più opportuni per produrre, raccogliete e guidare le onde elettriche. Il 2 giugno 1896 un giovane italiano, appena ventiduenne, discepolo del Righi — Guglielmo Marconi — fece brevettare un suo sistema di telegrafia senza fili che doveva poi diventare universale. Questo non conteneva alcun elemento nuovo. Ma il suo autore aveva saputo felicemente combinare insieme elementi, che, uno ad uno, gli altri avevano trovati, e farli convergere verso un successo pratico. Anche prima di Colombo, dirà con fine ironia, giustamente, un fisico moderno, si conoscevano le uova; solo però il grande Genovese insegnò il modo di tenerle ritte in piedi...
C). La locomotiva; la conquista dell’aria. — Non ostante l’applicazione della macchina a vapore a carrozze automobili fin dal 1829, la locomotiva era più un’aspirazione che una realtà. Nell’ottobre di quest’anno, Giorgio Stephenson costruiva quel tipo di locomotiva, che poco dopo doveva figurare nel primo tronco ferroviario inglese Liverpool-Manchester. Solo allora le ferrovie diventarono uno dei meccanismi indispensabili della civiltà contemporanea.
Gli aerostati erano stati scoperti in sullo scorcio del sec. XVIII. Il pallone aerostatico dei fratelli Mongolfier fu provato nel 1783. Dieci anni più tardi, essi venivano [161] impiegati a scopi militari sul fronte belga nelle Guerre della Rivoluzione. Questi aerostati sono stati gli strumenti che fino a ieri maggiormente hanno giovato alla scienza: un’ascensione del fisico Gay Lussac del settembre 1804 provò che l’aria a m. 6366 di altezza non contiene idrogeno; che, quindi, il lampo e il tuono non si possono attribuire alla combinazione di questo gas coll’ossigeno dell’aria; e provò altresì che la forza magnetica scema con l’allontanarsi dalla Terra, ecc. Ma questo non significava ancora la conquista dell’aria.
L’automobile, l’autoscafo, il dirigibile e l’areoplano poterono trionfare solo quando vennero scoperti i motori a scoppio, nei quali una miscela gasosa (ottenuta mescolando l’aria col vapore di un liquido combustibile, ad es. la benzina), viene incendiata dalla scintilla di una piccola macchina a induzione, e con la sua esplosione mette in moto l’apparecchio.
Questi motori sono i più leggeri possibili, dacchè il loro peso per cavallo-motore può scendere sino a 4 kg. Fu Santos Dumont, nel 1898, a Parigi, a farne l’applicazione al primo dirigibile, che girò intorno alla torre di Eiffel.
Le prime esperienze con gli areoplani rimontano al 1891, ma il merito di aver dato sicurezza a questo genere di locomozione aerea spetta agli americani fratelli Wright[96] (1903). Tuttavia il principio, a cui gli aeroplani obbediscono, è diversissimo da quello dei dirigibili. Gli aeroplani sono più pesanti dell’aria, tal quale l’aquilone, con cui si baloccano i fanciulli. Solo in essi la funzione della corda dell’aquilone è sostituita dall’impulso del motore. Esattamente, un aquilone potrebbe paragonarsi a un aeroplano tenuto all’àncora, e un aeroplano, a un uccello immobile su le ali.
D). Termodinamica. — Tutte le numerose applicazioni [162] della moderna termodinamica poggiano sul principio che il calore può trasformarsi in movimento (lavoro), e viceversa; o, più precisamente che fra le due quantità di calore e di lavoro (reciprocamente create) esiste una equivalenza perfetta, indipendente dalla natura dei corpi nei quali la trasformazione avviene (legge della conservazione della energia). Gli studii concreti sulla migliore applicazione di questo principio si debbono all’inglese Rumford, ai tedeschi Mach, Mayer, Helmholtz, Clausius, agl’italiani Morosi e Paoli, al francese Sadi-Carnot (1796-1832)[97] e a molti altri. Esso fece possibili le potenti e mirabili macchine termiche moderne e rese servigi grandi allo studio di numerosi fenomeni, elettrici e chimici, allo studio dei corpi gasosi, e, in modo speciale, alle ricerche sul cangiamento di stato fisico dei corpi.
E). Teorie ottiche. — Nel sec. XIX, tra il 1815 e il 1825, si perveniva, finalmente, per merito di Agostino Fresnel, a una teorica esatta circa il problema, difficilissimo, della natura della luce. Si ripigliava, ma con una sostanziale correzione, la teoria delle vibrazioni dell’Huyghens del sec. XVII. I raggi luminosi sarebbero, come l’Huyghens li aveva concepiti, la direzione in cui si propagano le vibrazioni dei corpi luminosi. Però queste vibrazioni non devono più imaginarsi longitudinali, ondulatorie, come quelle di uno stagno, in cui si scagli un sasso, ma perpendicolari alla direzione nella quale si propaga l’onda, ossia al raggio luminoso. Per rendere concretamente l’idea per via di una grossolana imagine sensibile, il raggio luminoso e le vibrazioni possono, secondo la teorica del Fresnel, paragonarsi alle spazzole che servivano un tempo a pulire i tubi di vetro dei lumi a petrolio, in cui un filo di ferro reggeva delle rigide [163] setole di crino, irradianti in tutte le direzioni e perpendicolari al filo che le sorreggeva. L’argomento principe che vale a consolidare questa teoria delle vibrazioni, contro la teoria newtoniana delle emissioni, fu raggiunto solo nel 1850 dal Foucault e dal Fizeau. Secondo la teoria delle emissioni, giusta le leggi che presiedono alla rifrazione, la velocità della luce dovrebbe crescere passando da un corpo meno denso a uno più denso (dall’aria nell’acqua); il rovescio dovrebbe accadere secondo la teoria delle vibrazioni. Or bene, successive, accurate misurazioni fecero rilevare che la velocità della luce (298 000 km. circa al secondo nell’aria) si riduce a 3⁄4 di codesta cifra nell’acqua, mentre deve essere superiore nel vuoto assoluto.
Così la teoria newtoniana era condannata, e la contemporanea, dispregiata divinazione dell’Huyghens, vendicata!
Ma dove avviene la vibrazione luminosa, ossia la vibrazione che si fa luce? Il Fresnel e i fisici, che lo seguirono, notando che la luce, a differenza del suono, si trasmette anche nel vuoto (come avviene negli spazi interplenatarii e sotto la campana pneumatica), adottarono l’opinione che la vibrazione luminosa abbia luogo in un mezzo imponderabile, sparso nello spazio e in tutti i corpi, che, rievocando un’antica parola greca, denominarono etere; che, anzi, la luce è vibrazione dell’etere.
Il Fresnel stesso credette poter determinare il perchè delle varietà dei colori nella luce, e riprese la teoria dell’Euler (§ 30 A): i colori non dipendono (come il Newton aveva pensato) dalla grandezza delle molecole luminose, ma dalla durata delle vibrazioni, ossia dalla lunghezza dell’onda. Questa lunghezza crescerebbe dal violetto al rosso.
L’eco delle discussioni, che la teorica del Fresnel aveva suscitate, non era ancor spenta, quando un altro grande fisico del secolo — James Clerk Maxwell (1831-79) — formulò una ipotesi assai suggestiva, che per altro era balenata anche al Faraday. Le onde elettromagnetiche (egli osservò) sono, come le onde luminose, costituite da vibrazioni [164] trasversali alla direzione della loro propagazione. Inoltre la velocità di queste onde è quella stessa della luce. Inoltre, nel 1845, il Faraday era riuscito a magnetizzare un fascio di luce, ossia a fare in modo, sotto l’azione di un grande magnete, che le sue vibrazioni avvenissero secondo un piano differente da quello originario. Sarebbero dunque le onde luminose niente altro che onde elettromagnetiche? Sarebbe la luce ment’altro che elettro-magnetismo? Nacque così la teoria elettromagnetica della luce, che è adottata da gran parte degli scienziati contemporanei.
Ma come col Maxwell, e poi con l’Hertz, la dottrina sulla natura della luce sembrò identificarsi con quella della natura dell’elettricità e del magnetismo, così, poco dopo, essa fu estesa all’altro agente imponderabile, che noi riscontriamo nel mondo dei fenomeni fisici: il calore. Tutti sono stati ritenuti, egualmente, effetto di vibrazioni dell’etere, anzi le vibrazioni stesse di questo agente misterioso e meraviglioso della natura.
F). L’etere. — Che cosa, dunque, sarebbe l’etere? Poichè esso esiste nel vuoto, dovrebbe essere considerato come imponderabile. Inoltre esso non dovrebbe avere consistenza, dovrebbe essere immateriale, perchè non oppone alcuna resistenza sensibile ai corpi celesti che vi si muovano dentro (non si dà neanche il senso percettibile di alcun vento d’etere). Ma è di una elasticità enorme, come nessun gas conosciuto, perchè le sue vibrazioni (luminose, elettromagnetiche ecc.) sono rapidissime; ed è anche condensabile perchè nei corpi la velocità di propagazione delle sue vibrazioni è minore che nel vuoto, e in proporzione della loro densità.
Ma non è tutto. Poichè le vibrazioni (luminose, elettromagnetiche ecc.) dell’etere hanno una direzione perpendicolare all’asse della loro propagazione, ciò significa che l’etere presenta uno dei caratteri specifici dei corpi solidi... Nei gas le differenti particelle si possono spostare, ossia vibrano, senza che si manifesti alcuna reazione [165] delle une sulle altre; qualche traccia di reazione — e quindi di rigidità — comincia ad apparire nei liquidi, ma soltanto i solidi posseggono la rigidità occorrente perchè delle vibrazioni trasversali possano produrvisi e mantenervisi. Ora le vibrazioni esclusivamente trasversali, anzi perpendicolari, dell’etere fanno supporre in questo «corpo» una rigidità maggiore che nei solidi, per es., nell’acciaio... La «materia» per eccellenza imponderabile, sarebbe dunque, al tempo stesso, per eccellenza solida?... Ma come mai un solido può essere attraversato da altri solidi, secondo avviene dell’etere, percorso da pianeti e stelle fisse?... Le sue proprietà, dunque, sarebbero diversissime da quelle da noi conosciute presso i corpi che sogliamo raggiungere coi nostri sensi, e pressochè paradossali...
Che più? Nell’etere stesso alcuni fisici credono di poter additare la ragione della gravitazione universale, rispondendo così a una domanda dinanzi alla quale lo stesso Newton aveva dovuto arrestarsi: — Quale la causa della gravitazione universale? —
G). Che cosa è la materia? — Anche a questa domanda ha creduto di poter rispondere, ancora una volta, la scienza del sec. XX, e ha costruito la teorica elettrica della materia, cui ha portato il contributo, veramente geniale, dei suoi studii, il nostro Augusto Righi. Ma a questa teoria ha contribuito, in misura maggiore, la scienza chimica, e perciò ce ne occupiamo più innanzi (§ 38 B), a tale proposito.
38. Chimica: A). La nuova teoria atomica. — Il sec. XIX si apre, in chimica, come dicevamo, con la rinascita della teoria atomica. Si era già avviato su questa strada, sin dal 1815, Guglielmo Prout;[98] ma il suo massimo sistematizzatore è Giorgio Dalton (1768-1844). Studiando le sostanze gasose, il Dalton pervenne al concetto che ogni gas è composto [166] di particelle respingentesi fra loro con una forza che diminuisce con la distanza dei loro rispettivi centri. Più tardi, studiando le proporzioni delle combinazioni chimiche tra le varie sostanze, notò che queste proporzioni si possono esprimere con numeri interi o con multipli di essi. Così, ad es., nei due idrocarburi metano ed etilene uno stesso peso di idrogeno è combinato con una quantità di carbonio doppia nell’etilene di quella contenuta nel metano. Lo stesso avviene nei cinque ossidi dell’azoto. Egli notò in conclusione tre fatti: a) che ogni corpo (come aveva stabilito G. Luigi Prout) è invariabilmente composto degli stessi elementi uniti nelle identiche proporzioni (legge delle proporzioni definite); b) che, quando un elemento si unisce con un altro, per dare origine a nuovi composti, in ciascuno di questi composti, in rapporto a una quantità costante di uno di essi, le quantità dell’altro variano in proporzioni multiple (legge delle proporzioni multiple);[99] c) che, quando due corpi A e B si combinano separatamente con un terzo corpo C, le quantità, con cui A e B si uniscono con C, sono eguali a quelle in cui si uniscono fra loro A e B o multipli di esse (legge delle proporzioni reciproche). Onde il Dalton concluse che la materia deve essere composta di atomi, aventi dimensioni e peso diversi, per le diverse sostanze, ma identici per ciascuna sostanza e che la combinazione chimica altro non è che un raccostamento di atomi.
Tali vedute furono confermate, contemporaneamente e successivamente, da ricerche collaterali di altri: Gay Lussac, Ampère, Davy, Berzelius ecc. Tuttavia la nuova ipotesi andava incontro a talune difficoltà pratiche; alcune esperienze nuove sembrarono contradirla. E bisognò rettificarla. Il tentativo più razionale, diretto a tale scopo, venne fatto, nel 1813, dall’italiano Amedeo Avogadro (1776-1856). Secondo la sua teoria (che però si limitava ancora [167] ai gas), volami eguali di qualsiasi gas — semplice o composto — nelle stesse condizioni di temperatura e pressione, contengono il medesimo numero di molecole ch’egli chiamava particelle integrali, onde i pesi relativi di tali volumi rappresentano i pesi relativi di dette molecole. Però, nel caso dei gas semplici, le particelle integrali sarebbero composte di un certo numero di atomi della stessa specie, mentre, nel caso di gas composti, risulterebbero di atomi di specie differenti. Tale ipotesi introduceva, oltre l’atomo, il concetto di molecola, e assegnava, all’uno e all’altro, una funzione diversa nella costituzione della materia. La molecola sarebbe una associazione di atomi, l’ultima particella fisica della materia; l’atomo sarebbe quella particella di materia, che, nelle reazioni chimiche, non soggiace, praticamente, a ulteriore divisione, anche se noi, teoricamente, possiamo concepirla divisibile.
Ciò non ostante, questa teoria non ebbe l’onore di un riconoscimento universale se non dopo il Congresso chimico europeo del 1860 a Carlsruhe. Colà il chimico italiano Stanislao Cannizzaro (1826-1910), tornando a sviluppare la teoria dell’Avogadro, mostrò quanto facilmente essa risolvesse molte delle difficoltà in cui si avviluppava la chimica del tempo, e come la migliore interpretazione della teoria del Dalton fosse quella appunto offerta dall’Avogadro.
Da allora in poi le formule chimiche, oggi in uso, seguono il metodo indicato dall’Avogadro: danno, cioè, l’indicazione degli atomi e delle molecole dei corpi. Così, ad esempio la formula chimica dell’acqua (H2O) significa che ogni molecola è composta di 2 atomi di idrogeno e di 1 atomo di ossigeno.
B). Radioattività e sue conseguenze teoriche. — Negli ultimi anni del sec. XIX la teoria atomica ha subito un’ulteriore trasformazione, in seguito alla scoperta del fenomeno della radioattività. Non solo: questa scoperta ha dato un colpo inatteso al concetto della intrasformabilità [168] dei corpi, affermata solennemente agli albori della chimica moderna contro l’alchimia medievale, e ha improvvisamente rivendicato, non la pratica, ma il principio ispiratore di quest’ultima.
Nel 1896 Enrico Becquerel trovò che i sali d’uranio emettevano una radiazione invisibile, che però poteva impressionare la lastra fotografica. Dopo di allora si è trovato che altre sostanze possiedono tale proprietà ed emettono radiazioni di genere diverso, che si sogliono indicare con le prime tre lettere dell’alfabeto greco (α, β, γ: alfa, beta, gamma).
Questi elementi radioattivi sarebbero forme di materia, le quali subiscono trasformazioni, aventi per resultato quello di riprodurre, a loro volta, nuove forme, dotate di proprietà, chimiche e fisiche, diverse da quelle della sostanza madre. Uno dei corpi, prodotti dall’uranio è appunto il radio, scoperto dalla signora Curie nel 1898: esso, sopra tutti, dotato di potenza radioattiva, e il solo che si sia ottenuto allo stato di sale puro e di metallo libero.
Il radio, dunque, ci permette di assistere al fenomeno di un’organica e naturale trasformazione della materia. Dal radio, che ha il peso atomico 226,5, si ottiene, per successive perdite di particelle alfa, il radio A, B, C, D, E e poi il radio F, che ha il peso atomico 210,5, e che, emettendo sempre raggi alfa, darebbe il corpo avente il peso atomico 206,5, prossimo cioè a quello del piombo, il cui peso atomico è 206,9; il che sembra confermato da osservazioni geologiche. Analogamente, il torio dal peso atomico 232,5 scenderebbe a 208,5 che è il peso atomico del bismuto.
Siamo, dunque, di fronte a vere trasformazioni della materia, le quali si producono in un solo atomo, o mediante proiezioni di particelle alfa e con diminuzione del peso atomico, o con emissione di raggi beta senza che il peso atomico varii (almeno sensibilmente) o senza alcuna [169] emissione, come avviene nei corpi non radioattivi, e che dànno origine a corpi radioattivi.
L’atomo (l’indivisibile!), dunque, sarebbe un corpo divisibile...., un complesso di corpuscoli minori (quelli che si dissero gli elettroni),[100] un edifizio assai complicato e delicato, capace di assumere nuove configurazioni e proprietà, capace di disgregarsi con perdita dei suoi componenti e dare origine a nuovi corpi di peso atomico inferiore.
Talune osservazioni sui fenomeni della elettricità e della luce nei corpi hanno altresì indotto a considerare l’atomo come formato da una parte centrale immobile ed elettrizzata positivamente, intorno alla quale ruotano dei corpuscoli carichi di elettricità negativa: gli elettroni. La stessa sua porzione centrale sarebbe un nucleo di elettroni, e il tutto potrebbe paragonarsi a un microscopico sole cinto di pianeti, che ruotano intorno ad esso. La radioattività sarebbe una proiezione delle particelle interne di questo infinitesimo sistema solare, quale conseguenza della stabilità imperfetta dell’atomo, che è costretto a disintegrarsi e a proiettare elettroni fino a che esso non trovi un sistema stabile, ossia non si trasformi in una sostanza, che allora non sarà più radioattiva.
Questa, l’ultima forma assunta dalla antichissima teoria atomica democritèa; questa, l’ultima risposta della scienza alla eterna domanda: — Che cosa è la materia? —
C). Chimica organica. — La nuova teoria atomica è forse la scoperta più impressionante che la chimica contemporanea, potentemente aiutata dalla fisica, abbia compiuto nell’età più recente. Ma altre più modeste, sebbene, forse, più solide, possono starvi a fianco. Sin dai primi decenni del sec. XIX cominciò a diventar popolare la chimica così detta organica, ossia la chimica delle sostanze organiche.
[170]
La costituzione chimica di molte sostanze organiche era già nota fin dai secoli precedenti. Ma lo sforzo di tutta la prima metà del sec. XIX fu di tentar di distinguere quale fosse la differenza qualitativa fra i prodotti del mondo organico e i prodotti del mondo inorganico.
Dapprima si suppose che gli elementi delle sostanze organiche differissero, per la natura loro, da quelli delle sostanze inorganiche. Ma gli esperimenti, compiuti nella prima metà del sec. XIX, smentirono questa supposizione. Dove dunque la differenza? Un’altra ipotesi era quella che il sec. XIX ereditava dal sec. XVIII: che, cioè, alla formazione dei prodotti organici presieda una speciale «forza vitale». A risolvere il problema aiutò molto la scoperta dell’isomerismo nelle sostanze organiche e inorganiche. Fu scoperto, cioè, che delle sostanze, formate degli stessi elementi, nelle stesse proporzioni, hanno proprietà affatto diverse l’una dall’altra. Ad es., la grafite e il diamante sono chimicamente carbonio, ma hanno proprietà le mille miglia lontane dal carbonio. Si venne così al concetto che le proprietà di una sostanza non dipendono dalla loro composizione chimica, ossia dalla natura dei loro atomi, ma dalla disposizione di questi atomi nella molecola.
Questo concetto fu ribadito dai progressi, cui la chimica man mano pervenne, nella riproduzione artificiale di molti degli elementi degli organismi, vegetali e animali. Le più notevoli tra queste sintesi chimiche riguardano gli zuccheri e le proteine, essendo i primi tra i più caratteristici prodotti della vita delle piante; le seconde, fra i più importanti prodotti vitali in quanto entrano nella composizione dei tessuti animali.
Si trovò in conseguenza che i «prodotti organici» sono composti di elementi chimici inorganici, e, precisamente, di carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, più fosforo (o zolfo), e che ciò che li rende «organici» deve essere solo un diverso aggruppamento dei loro atomi. In questo [171] modo la chimica si poneva in contatto con la vita, e un suo ramo speciale si dice oggi, appunto, biochimica.[101]
Un’altra conclusione è derivata da queste esperienze: che i processi chimici della vita organica sono sostanzialmente analoghi a quelli che si praticano nei laboratorii scientifici, anche se talora qui si ottengono alcuni prodotti organici con metodi diversi (in genere più energici e più rapidi) di quelli che la natura preferisce seguire.
D). Elettrolisi. — Con la elettrolisi chimica siamo in presenza di una delle più mirabili applicazioni della fisica alla chimica. Si tratta dei fenomeni che avvengono nelle soluzioni di sostanze chimiche sotto l’azione della corrente elettrica. Intorno ad essa il fisico Arrhenius formulò la sua teoria della dissociazione elettrolitica o ionizzazione (ioni sarebbero gli atomi carichi di elettricità). Secondo questa teoria, non sarebbe la corrente elettrica quella che determinerebbe la scomposizione delle molecole dei corpi nei loro atomi (gli ioni); questi esisterebbero già disciolti, allo stato libero,[102] innanzi il passaggio della corrente. La quale, invece, si limiterebbe ad attirarli verso il polo positivo o negativo, ossia, come si dice, ad orientarli.
E). I nuovi elementi chimici. — I nuovi procedimenti di analisi chimica hanno portato alla scoperta di un numero grandissimo di sostanze elementari (corpi semplici, come una volta si diceva), quali al tempo del Lavoisier non era possibile concepire. Fino al sec. XIX, noi lo sappiamo, non se ne imaginavano che quattro (terra, aria, acqua, fuoco) o tre (zolfo, mercurio, sale). A mezzo il sec. XIX, erano 62. Essi si contano oggi in numero di circa 80, senza tenere conto delle sostanze che provengono dalla disintegrazione dell’uranio, del radio e del torio e delle loro emanazioni. [172] La successione di tali scoperte segna le tappe di una conquista, via via più intima, del mistero della natura.
39. Medicina. — I grandi progressi della medicina, nel sec. XIX, sono stati determinati dai progressi di tutte le altre discipline scientifiche, che le hanno fornito i propri strumenti ed i propri resultati.
La fisica ha fornito alla medicina lo specchio per la esplorazione della laringe, l’elettricità, per la cura di gran numero di malattie, specie quelle nervose; la chimica le ha fornito l’anestesia per le operazioni chirurgiche; la fisica, la chimica e la botanica, insieme, i mezzi e i resultati delle ricerche sui batterî, le sieroterapie (contro il vaiolo, il carbonchio, la difterite, l’idrofobia, il tifo) ecc. ecc.
D’altra parte, i progressi della medicina sono stati determinati dalla introduzione, anche in questa scienza, del metodo sperimentale.
Lo scienziato, a, cui spetta il merito di questa galileiana rivoluzione è stato Claudio Bernard (1813-78). I suoi criterii in proposito sono svolti nella sua Introduzione allo studio della medicina sperimentale, ch’è del 1865. Il Bernard vi sostiene i concetti del determinismo, che, cioè, ogni fenomeno è determinato da condizioni materiali, che ne sono le sue cause prossime, e che, se si riproducono, fanno riprodurre anche il fenomeno, e vi combatte il vecchio vitalismo, del sec. XVIII, per cui, in luogo di queste condizioni materiali, sarebbe esistito un certo «principio vitale», che rendeva superflua ogni altra ricerca.
Per ritrovare queste condizioni, il Bernard raccomanda l’esperimento, anzi esperienze comparative.
Questo non era nuovo; le altre scienze seguivano siffatto metodo da trecento anni almeno, e i pochi medici, veramente scienziati, del sec. XVIII non si erano comportati diversamente. Potrebbe dirsi, anzi, che da tale punto di vista, la nuova scienza del sec. XIX ne abbia continuato e completato e perfezionato i metodi; ma questo perfezionamento [173] e completamento hanno dato luogo a resultati assolutamente imprevisti e grandiosi. La medicina dei secc. XIX-XX ha mirato a cogliere esattamente il rapporto tra l’anatomia patologica — le lesioni locali — e i sintomi di queste lesioni: ciò che costituisce la così detta clinica. Ha perciò cercato di stabilire con esattezza i quadri di ciascuna malattia. E questo è stato un mezzo potente per la graduale conquista della terapia di ciascuna.
Centro scientifico della medicina, nella prima metà del sec. XIX, furono la Francia e Parigi. Colà si ebbe Cruveillier per l’anatomia umana, Laennec per la clinica medica, Esquirol per la psichiatria (malattie mentali); sopra tutti, il ricordato Claudio Bernard, che non fu solo l’introduttore in medicina del metodo sperimentale, ma il più grande fisiologo del secolo. Per questa parte, il merito — grandissimo — del Bernard fu duplice: a) collegare strettamente lo studio dell’organismo umano, allo stato normale (fisiologia), con quello dell’organismo umano, allo stato malato (patologia), e dimostrare quanto il primo ordine di conoscenze giovi al secondo; b) fermare l’attenzione sui fenomeni vitali, ch’egli concepiva analoghi per i due regni delle piante e degli animali.
Contemporaneamente si sviluppava la scienza tedesca: con sede, prima, a Vienna; poi dopo il 1870, dopo l’unificazione e l’ascesa, politica ed economica, della Germania, a Berlino.
A Vienna, tra il 1837 e il 1897, lo Schleider e lo Schwann fondavano la così detta dottrina cellulare. Questa dottrina approfondiva largamente la teoria delle cellule animali, a cui già era pervenuto il sec. XVIII, dichiarando la cellula punto di partenza e sede di tutti i fenomeni vitali. Il sommo patologo Virchow[103] estendeva tale dottrina alla patologia, dichiarando le cellule (e non già il sangue e i nervi), i veri focolari delle malattie. Probabilmente, [174] questa violenta reazione alla teoria umorale del secolo scorso oltrepassava la verità: anche l’alterazione del sangue (si ammette oggi) è causa di malattia, ma essa conteneva la massima parte di vero.
In conseguenza Heule[104] e Köllicher fondavano lo studio dei tessuti (istologia) allo stato, sano e malato, schiudendo così la fonte di un altro larghissimo contributo alla medicina contemporanea.
L’Italia, nella prima metà del secolo, a motivo delle sue condizioni politiche, delle agitazioni per l’indipendenza e per l’unità, che distraevano gli spiriti dalla scienza pura; a motivo dell’oscurantismo dei governi, che diffidavano della scienza stessa e non vi fornivano, nelle scuole superiori, alcun aiuto, rimase assai addietro dalle altre nazioni in tutti i rami della scienza medica. Ma la lotta per la conquista del sapere, iniziatasi, dopo il 1860, con volontà eroica, di successo, pur in condizioni materiali difficilissime e con scarsi aiuti governativi, e l’intimo contatto, in cui la nostra scienza si volle ora porre con la scienza d’oltr’Alpe, ebbe la virtù di suscitare una splendida scuola medica italiana.
Ecco taluni degli studii e talune delle scoperte moderne, coi relativi autori, su questo campo: la scoperta ch’è il midollo rosso delle ossa a fabbricare il sangue (Bizzozzero); gli studii sulle funzioni del cervelletto, sugli organi a secrezione interna (le così dette glandole); la cura della tubercolosi e del tetano; la scoperta delle ptomaine (veleni svolti dal cadavere) (Selmi); l’interpretazione della origine e della diffusione della malaria (Celli, Grassi); la scoperta degli agenti infettivi della polmonite e della meningite cerebro-spinale; il processo del così detto morbo di Banti; la diagnosi del cancro (Fichera); la batteriologia, e la sierologia (Pasteur); l’antisepsi; la fasciatura elastica per le emorragie.
[175]
Altra caratteristica della medicina, nei secc. XIX-XX, è stata quella di allargare la sua considerazione dall’individuo alla collettività, ossia dalla terapeutica della malattia alla cura preventiva dell’individuo e della collettività. Così sono nate la medicina e la igiene sociale, che hanno di molto ridotto la mortalità ed elevato la media della vita. Inoltre la medicina è passata a proteggere anche la vita degli animali.
Da tutto ciò è seguito che oggi la medicina non è più una scienza, ma è un fascio di scienze: anatomia, istologia, fisiologia, patologia, igiene, clinica medica, clinica chirurgica, psichiatria, neuropatologia, chirurgia, ostetricia, ginecologia, otorinolaringoiatria, tossicologia, zooiatria, zootecnica, acquicoltura e pesca, ecc. ecc.
40. Zoologia e botanica: A). La teoria della evoluzione. — Nel sec. XIX le vecchie zoologia e botanica puramente descrittive, le quali non facevano che accumulare e collezionare materiale, cominciarono a declinare nella estimazione scientifica. Si volle penetrare più a fondo il processo della vita. Già lo sforzo di classificare, secondo tratti essenziali, le varie specie, animali e vegetali, e i primi accenni della teoria dell’evoluzione, nel sec. XVIII, erano appunto mossi da questo impulso. Ma il sec. XIX adottava completamente il nuovo indirizzo, e ne fu dominato per gran tempo. Nacquero così la botanica e la zoologia, che si dissero scientifiche, e per gran tempo gli scienziati vecchio stile furono costretti a nascondersi nell’ombra dei loro ricchi gabinetti. Allora irruppe in piena luce la teoria della evoluzione, ossia la dottrina così detta trasformistica delle specie.
Il Lamarck (Giovanni Battista Pietro Antonio di Monet, cavaliere di Lamarck) (1744-1829), il più illustre e consapevole fondatore della teoria della evoluzione, intitolò la grande opera, ch’egli dedicava a questo soggetto, con la denominazione di Filosofia zoologica (1807). Egli si [176] schiera contro l’opinione corrente, la quale si appoggiava alla grandissima autorità di Cuvier, circa la fissità e invariabilità delle specie, e contro la teoria della creazione diretta. Non gli animali (egli afferma) furono creati per i modi di vita, in cui oggi li vediamo muoversi, ma i loro modi di vita li han fatti quali li vediamo. L’ambiente naturale li costringe e certe funzioni, le quali talora sviluppano organi esistenti, talora ne impongono la nascita ex-novo, tal’altra fanno sparire gli organi che esistevano. La funzione, dunque, — essa soltanto! — determina l’organo e tutti i caratteri di ogni animale e di ogni specie. Vero è che le variazioni avvengono lentissimamente, attraverso molti secoli, ma i caratteri acquisiti si ereditano, e a lungo andare questa eredità determina l’origine di nuove specie e la sparizione delle specie intermedie.
Queste teorie il Lamarck ribadì nella Introduzione alla sua più tarda Histoire des animaux sans vertèbres (1816). Ma caddero, naturalmente, nella impopolarità universale, furono soffocate dalla condanna della scienza ufficiale, e il loro autore morì nella povertà e nella disistima più immeritata.
Tuttavia nei cinquant’anni che scorsero tra la pubblicazione della Filosofia del Lamarck e l’Origine delle specie di Carlo Darwin, non sono rari gli accenni di scienziati di ogni ordine verso la nuova eresia, benchè nessuno voglia essere confuso col grande eretico francese.
Carlo Darwin (1809-87), nipote di Erasmo (§ 33 B), iniziò la sua gloriosa carriera scientifica, non solo ignorando Lamarck, ma aborrendone e ammettendo (fino al 1834 almeno) la teoria della creazione diretta delle specie. Un grande viaggio di esplorazione scientifica, che egli fece nell’America del Sud, tra il 1831 e il 1836, cominciò a scuotere quella sua opinione convenzionale. Egli fece colà un mondo di osservazioni, e prese un cumulo enorme di appunti. Or bene le sue osservazioni e i suoi appunti lo costringevano a constatare, con l’eloquenza del fatto, le [177] variazioni e la variabilità delle specie animali e vegetali. Tuttavia, egli non s’affrettò a lanciare nessuna ipotesi; fece la relazione del suo viaggio, e continuò a osservare e studiare. Nel 1839 un libro famoso di Malthus sulla Popolazione gli fece balenare l’idea che le variazioni delle specie, ossia la scomparsa di alcune e la persistenza di altre, dipendessero da una lotta per l’esistenza, attraverso cui le specie meglio adatte alla vita, meglio capaci di adattamento, trionfano e sopravvivono, mentre le altre scompaiono. Questa legge egli chiamò della selezione (scelta) naturale, e svolse nel suo libro famoso su L’Origine delle specie (1859). Ogni individuo, come ogni specie, ha caratteri suoi differenziali, dipendenti dal caso, ossia da cause impossibili a determinare. Gli individui e le specie lottano tra di loro per conquistarsi il cibo, l’aria, l’abitazione. Quelli che hanno i caratteri più adatti per tal fine (o che sanno acquistarli), sopravvivono, mantengono quei caratteri, li perfezionano, dànno luogo a nuove specie. Gli altri sono destinati a sparire.
Il Darwin, in tal modo, escludeva dal novero delle cause delle variazioni delle specie ogni fattore, che non fosse quello della selezione per l’esistenza o, anche, della conquista della femmina (selezione sessuale). Ciascuna di queste sue affermazioni era corredata (ecco il tratto caratteristico e il merito indimenticabile del Darwin!) da una mole enorme e decisiva di fatti. Però, più tardi, egli dovette convenire che i nuovi caratteri delle specie derivavano anche dall’azione dell’ambiente e dall’uso (o dal disuso) degli organi, il quale ultimo determina, negli animali e nelle piante, conseguenze ereditarie. In tal modo egli si riaccostava visibilmente a Lamarck.
Questi concetti il Darwin usò nella spiegazione delle origini delle specie superiori — l’uomo compreso —, e nella sua Origine dell’uomo (1881) escluse l’idea di una creazione, diretta e materiale, dell’uomo, nel senso letterale, biblico. Ciò non era nuovo. Anche S. Agostino e S. Tommaso [178] d’Aquino avevano elevato il trono e la dignità di Dio creatore (§ 11 E). Ma il Darwin sostituì al concetto di creazione quello di derivazione della specie umana da specie inferiori, oggi disparse. Fu questo l’assunto che gli procurò le lotte più accanite perchè esso veniva a distruggere l’antropocentrismo della tradizione religiosa, come, parecchi secoli innanzi, Copernico e Newton ne avevano distrutto il geocentrismo.
Ciò non pertanto, oggi, sia pure con maggior giustizia verso Lamarck, la teoria, o l’ipotesi, dell’evoluzionismo domina la botanica e la zoologia. E alle antichissime, eterne domande, che primi i filosofi ionici si erano poste — «Donde nacque la vita?»; «Quale l’origine dell’uomo?» — la scienza moderna crede (o s’illude?) di aver dato una risposta soddisfacente.
B). Problemi minori. — Il problema principe della origine delle specie ha, nei secc. XIX-XX, fatto passare in sott’ordine gli altri progressi botanici e zoologici.
Non ostante la repugnanza, con cui, verso la metà del secolo, la botanica e la zoologia descrittive erano considerate, deve dirsi che la conoscenza materiale del mondo delle piante e degli animali si è, d’allora ad oggi, accresciuta per varie ragioni: a) i viaggi di esplorazione, con iscopi scientifici, alle regioni polari, in alta montagna, sotto il livello del mare, in regioni impervie o inospitali (Africa del centro, Australasia, Oceania); b) la creazione di numerose società scientifiche con Bollettini ed Atti, i quali permettono ai naturalisti di pubblicare subito le vicendevoli ricerche, e subito prenderne conoscenza; c) i numerosissimi Musei di scienze naturali, ordinati con metodo; d) gli allevamenti scientifici, che permettono, a piante e ad animali esotici, di vivere a lungo e di riprodursi; e) la rappresentazione di piante e animali fatta con mezzi perfetti (fotografia, incisione, litografia, cromolitografia).
Per questa più approfondita conoscenza, si sono alle antiche aggiunte nuove classificazioni di animali e di piante. [179] Pur troppo, si tratta di tentativi che non possono mai dirsi definitivi. Se a classificare i gruppi superiori noi possiamo far intervenire l’indole delle funzioni più vitali, che per essi ben conosciamo, non così avviene per i gruppi inferiori, meno conosciuti e più difficilmente conoscibili. Per questi bisogna starsi paghi in gran parte dei caratteri esteriori, formali (morfologici); e ogni nuova scoperta sposta continuamente i caratteri differenziali.
Come per ogni altra scienza, anche per la botanica e la zoologia, il concorso delle altre discipline scientifiche (fisica, chimica, geologia) è valso ad approfondirne la conoscenza. La quale è ormai così sconfinata, da aver dato luogo a numerose e vaste discipline speciali: embriogenia (che studia lo sviluppo degli organi dell’ovulo); embriologia (che studia il piccolo animale che l’uovo racchiude); fisiologia (studio del funzionamento degli organi, animali e vegetali, allo stato normale); ontogenia, la quale trae dalla embriogenia le conseguenze opportune circa l’origine prima dell’animale e le trasformazioni che ha potute subire dalle epoche antichissime; biologia, la quale studia i rapporti degli animali, tra loro, con le piante, e le leggi della loro vita;[105] paleontologia zoologica e botanica, che studia gli animali e le piante esistenti nei periodi preistorici o antichissimi; istologia (che studia i tessuti) vegetale e animale ecc. ecc.
In questo modo, e con tutti questi mezzi, la scienza moderna affronta la conquista del mistero della natura, con cui essa si batte da almeno tre millennî.
1. In senso ristretto, per scienze naturali si intendono solo zoologia, botanica, mineralogia, zoologia.
2. L’antico nome classico (che talora comprese anche le nostre scienze naturali, in senso ristretto) fu, così per la fisica come per la chimica, quello unico di physicà (le cose della natura sensibile). Oggi, per fisica (a differenza della chimica) intendiamo propriamente la scienza che tende a constatare e a rappresentare le modificazioni transitorie, che si manifestano nei corpi senza alterarne la natura. Tuttavia i confini tra chimica e fisica sono assai incerti e lo divengono sempre più.
3. S’intende per Oriente classico, principalmente, l’Egitto antico, la Assiria, la Caldea, la Palestina, la Fenicia, la Media, la Persia, l’India antica.
4. Esattamente: giorni 365, 5h, 48m, 46s.
5. L’obietto de l’aritmetica è di formare e rappresentare i numeri e di fare su di essi le operazioni, che hanno per iscopo di determinare le quantità le une con le altre, seconda le vicendevoli relazioni. La geometria, invece, ha per iscopo di studiare la grandezza e la forma dei corpi, prescindendo dalla materia che li costituisce.
6. Gli antichi, specie gli Egiziani, scrivevano su carta di papiro, naturalmente assai resistente. E poichè solevano riporre i loro volumi, o piuttosto rotoli, nelle tombe dei morti e talora fasciarne il cadavere imbalsamato, così ci hanno dato il mezzo di conoscere, a tanta distanza, e dopo tante vicende, la loro letteratura.
7. Le più antiche perle artificiali egizie risalgono al 3500 a, C.; il vetro più antico, al 1830 circa a. C.
8. Tale periodo denominavano saros (= 6585 giorni).
9. Progressione aritmetica o per differenza è una serie di termini tali che la differenza fra uno di essi e quello che lo precede è costante. Progressione geometrica o per quoziente è una serie di termini tali, che il quoziente di ciascuno di essi per quello che lo precede è costante. Immaginando una serie di n termini e indicando con r la ragione della progressione geometrica, le due progressioni si formulano algebricamente così:
10. L’algebra non ha per iscopo, come l’aritmetica, di trovare i valori delle quantità che si cercano, ma di trovare il sistema di operazioni che occorrono per dedurne il valore che si cerca, date le condizioni del problema.
11. L’unico autore greco, studioso di algebra è — sembra — Diofante (IV sec. di C.); cfr. § 12 A.
12. Elea, nella Magna Grecia sulle coste della Lucania.
13. Non però, come si ripete, l’eclissi del 28 maggio 585, che a Mileto non fu visibile come eclissi totale, e cominciò in sul tramonto del sole.
14. Questo è il problema geometrico, che dimostra come due triangoli equiangoli hanno i lati omologhi proporzionali.
15. Una dimostrazione sperimentale della teoria di Talete crederà di poterla dare nell’età moderna, G. Battista von Helmont (1577-1644). Questi piantò un salice di 5 libbre in 200 libbre di terra, disseccata in un forno, e inaffiò per 5 anni la pianta con sola acqua. Dopo 5 anni essa pesava 169 libbre e 3 once, mentre la terra di nuovo disseccata, aveva perduto solo 7 once di peso. Secondo tutte le apparenze, quindi, l’acqua soltanto aveva prodotto 164 libbre di sostanza lignea, foglie, radici. L’errore dell’interpretazione del v. Helmont dipendeva dal falso concetto del tempo suo sulla natura chimica dell’acqua, ritenuta ancora corpo semplice. Un’altra prova della trasformazione dell’acqua in terra si credette dare, fino al 1770, facendo bollire a lungo in vasi di creta acqua distillata, dopo di che rimaneva in fondo al vaso una specie di terra, che si interpretava come acqua trasformata nell’elemento più pesante. Senonchè si scoperse che questa terra corrispondeva alla quantità di vetro, che l’acqua, bollendo, aveva sottratta al vaso che la conteneva...
16. «L’apparizione della vita rientra, come tutta intera la fisiologia, nel dominio delle forze fisico-chimiche; essa si sarebbe prodotta in uno stato di cose, che noi possiamo oggi ricostruire col pensiero; che sussiste in alcuni sistemi solari, ma che disparve per sempre nel nostro. La facoltà di dare nascimento alla materia viva è stata poco a poco riservata agli esseri viventi, man mano che le radiazioni solari e le radioattività della Terra s’indebolivano, ma non è stato sempre loro privilegio esclusivo». (E. Perriev, La Terre avant l’histoire: les origines de la vie et de l’homme, Paris, La Renaissance du livre, 1923, pp. 81). Come si vede anche da questi righi, la scienza moderna non afferma la nascita, per generazione spontanea, di tutte le specie animali e vegetali, ma della più semplice ed elementare materia vivente.
17. Ad. es., 1 + 3 = 22; 1 + 3 + 5 = 32; 1 + 3 + 5 + 7 = 42, ecc.
18. Ad. es., 2 + 4 =3 × 2; 2 + 4 + 6 = 4 × 3.
19. Si è dubitato se il «teorema di Pitagora», già noto ai Cinesi, spetti proprio al Sapiente di Samo. Certo non è di Pitagora la tavola di moltiplicazione che porta questo nome. Tale assegnazione derivò da un equivoco della più tarda matematica romana, che qui non è il luogo di illustrare.
20. Venne quivi condannato all’esilio per empietà, ossia sotto l’accusa di professare dottrine religiose contrarie a quelle della sua città, e si ritirò a Lampsaco, ove morì nel 428 a. C.
21. Essa è, esattamente, di giorni 365, 5h, 48m, 46s.
22. Si dice metodo analitico di dimostrazione quello in cui si ammette il problema come risoluto e si deduce da ciò qualche conseguenza. Se questa è falsa, il teorema è assurdo; se è vera, e se le varie parti si possono invertire, si ottiene, rovesciandole, una dimostrazione sintetica.
23. Che ammette, quale centro del sistema, il sole (in greco, elios).
24. Luogo dedicato agli esercizi sportivi.
25. È contenuta specialmente nella sua Metafisica e nel suo Il Cielo.
26. Aristotele scrisse i Physicà e una Meteorologia.
27. La circonferenza dell’equatore è di km. 40 077; quella di un meridiano, di km. 40 009.
28. Sistema geocentrico, ossia che pone la terra (grec. ghê) al centro dei movimenti del sistema solare.
29. In realtà il diametro del sole è 109 volte maggiore di quello terrestre e il volume, più grande 1 milione di volte.
30. Sulla definizione di trigonometria, vedi più innanzi a p. 41, n. 2.
31. Com’è manifesto, qui il fenomeno è spiegato, movendo dalla considerazione del giro apparente del sole.
32. Anno solare: 365 giorni, 5h, 48m, 46s.
Anno sidereo: 365 », 6h, 9m, 9s.
33. La trigonometria ha per oggetto l’applicazione del calcolo alla determinazione di una figura poligonale, sia tracciata su superficie piane che su superficie sferiche. Poichè qualunque poligono si può «comporre in triangoli (grec.: trigonoi), la sua determinazione completa si riduce a quella di una serie di triangoli; donde il nome di trigonometria.
34. Unione di una o due pulegge a una o due rotelle.
35. Dalle città, dove oggi si conservano.
36. Alchimia vuol dire, semplicemente, la chimica. Al è l’articolo arabo.
37. È quella dei nostri orologi e delle iscrizioni lapidarie: I(= 1); V (= 5); X (= 10); L (= 50); D (= 500); M (=1000), ecc.
38. Onde la parola calcolare.
39. Scrittore di ogni genere di discipline.
40. La innovazione di Cesare e di Sosigene fu più vasta: essi cercarono di segnare, nell’anno tropico, per la latitudine di Roma, i dati della levata e del tramonto delle principali stelle.
41. Scrisse un De re medica (La medicina), un riassunto di storia medica fin da Ippocrate. Tuttavia quest’operetta non era uno scritto a sè ma faceva parte di un’Enciclopedia: Celso non fu un medico, ma uno storico della medicina.
42. Benchè abbia scritto in greco, Eliano era di Preneste; egli è quindi un Italico, anzi un latino.
43. Il nome esatto era veramente Megàle Syntáxis (Grande Compendio).
44. Un’eclisse di luna è prodotta dall’ombra della terra, che intercetta i raggi solari. La forma circolare dell’orlo dell’ombra, come si disegna sulla faccia della luna, durante l’eclisse, prova che la forma della terra deve essere sferica.
45. Sull’algebra degli Indi, cfr. § 4.
46. La filosofia ufficiale delle scuole del tempo.
47. Di questi Califfi va menzionato, almeno, Harun al Raschid (786-809), ch’è uno dei personaggi delle novelle arabe, Mille e una notte.
48. Sappiamo in modo positivo che, nel sec. VIII, fu tradotta in arabo una importantissima opera astronomico-matematica indiana del sec. IV o V: il Surya-siddhanta (Scienza del Sole).
49. Chi vuole persuadersi della prodigiosa semplificazione arrecata all’aritmetica dalle cifre arabe, può eseguire con numeri romani e con numeri arabi la semplicissima operazione di moltiplicare per se stesso un numero, per es. 1898 (MDCCCXCVIII).
50. Della matematica araba noi conserviamo anche traccia in alcune denominazioni, di cui ormai abbiamo scordato l’origine. Il nome dello zero è derivato dall’arabo (as-sifir = vuoto); e la stessa origine ha la parola cifra che in alcuni vecchi trattati matematici significava (come oggi, in inglese, cipher) lo zero.
51. Dell’astronomia araba noi abbiamo ereditato, oltre ai nomi di talune costellazioni (Adebaran, Vega ecc.), alcuni termini assai comuni: zenit, nadir (il punto della sfera celeste opposto allo zenit), almanacco, ecc.
52. Del IX o X sec., da non confondersi col Pseudo-Gebar latino del sec. XIII. Il nome completo di questo dotto è Abu Abdallah Gebar ben Hagyân ben Abdallah al-kufi.
53. Ecco una ricetta per fabbricare la pietra filosofale, a fine di trasformare i metalli in mercurio: «Di parecchie cose prendi 2, 3 e 3, 1; 1 e 3 fa 4; 3, 2 e 1. Fra 4 e 3 vi è 1; 3 da 4 fa 1; poi 1 e 1, 3 e 4; 1 da 3 fa 2. Fra 2 e 3 vi è 1. 1, 1, 1, e 1, 2, 2 e 1, 1 e 1 a 2. Allora 1 è 1. Ho detto tutto...».
54. Si trattò, molte volte di semplici riconoscimenti ufficiali a scuole di fondazione privata.
55. La parola algoritmi o algorismi è semplicemente il nome di un grande matematico arabo (Maometto al Hovarezmi); ma per un singolare equivoco fu più tardi adoperata come derivante da un algorismus (aritmetica), e liber algorismi venne interpretato come libro di aritmetica...
56. Da non confondersi con Francesco Bacone contemporaneo del Galilei, di cui diremo al § 26.
57. Uno di questi orologi a suoneria funzionò a Douvres dal 1348 al 1872!
58. Il fisico G. Cardano, ch’è del sec. XVI, non ha nulla a vedere con questa invenzione.
59. L’inventore della polvere da cannone sarebbe stato, secondo l’opinione volgare, Ruggero Bacone. Ma in verità, la sua polvere non era che una varietà del fuoco greco, conosciuto da grandissimo tempo, fors’anco, da Indiani e da Cinesi.
60. È la traduzione latina del nome della sua città natale: Königsberg.
61. Il classico problema della quadratura del circolo, su cui per secoli i matematici si sono affaticati, è il problema di costrurre con la riga e il compasso un quadrato equivalente a un circolo o una retta di lunghezza eguale a una circonferenza. Il problema è resolubile solo approssimativamente, come approssimativo è il rapporto di una circonferenza al suo diametro.
62. Il suo vero nome fu Giorgio Joachim. Il suo appellativo deriva dal nome latino del distretto in cui era nato: Rhaetia.
63. Un unico esempio. All’antica obiezione che, se la Terra avesse un suo movimento di rotazione, rischierebbe di saltare in pezzi e gli oggetti liberi, collocati alla sua superficie rimarrebbero indietro, egli risponde, fra l’altro, con un sofisma: che bisogna distinguere fra moti naturali e moti artificiali, e che i primi non possono portare gli sconvolgimenti temuti, propri dei secondi...
64. In questo libro v’ha una nuova, importante spiegazione sulla precessione degli equinozi. Per il greco Ipparco, che prima l’aveva studiata (§ 9 C), essa dipendeva da un movimento dell’equatore celeste. Per Copernico, la precessione degli equinozi dipende da un lento spostamento dell’asse terrestre, che però torna nella posizione primitiva, dopo circa 26,000 anni.
65. Ciò avvenne per la prima volta il 13 sett. 1492, quando, trovandosi egli a 200 miglia marine dall’Isola del Ferro, determinò in 5°, 30’ verso occidente l’angolo che l’ago della bussola fa col meridiano terrestre.
66. Se un sottile tubo a pareti ricurve viene immerso in un liquido, che aderisce, in quanto le bagna, alle sue pareti, il liquido racchiuso nel tubo si eleva rispetto al suo livello generale. Il contrario avviene nel caso di liquidi che non aderiscono alle pareti del tubo. Questi sono i fenomeni di capillarità.
67. Questi aveva affidato i suoi manoscritti e strumenti al discepolo F. Melzi, che li depositò a Vaprio (presso Milano). Colà furono derubati e sparpagliati fra gli studiosi.
68. Quella parte della meccanica che insegna a dirigere il movimento dei corpi pesanti attraverso lo spazio.
69. In termini matematici, la cosa si esprime così: Se m è la massa del corpo, a l’accelerazione che esso acquista cadendo in un mezzo di peso specifico d, la forza motrice è ma. Essa è anche eguale al peso del corpo diminuito dalla spinta sofferta dal mezzo: quindi, dicendo v il volume e d il peso specifico del corpo, questa forza sarà ancora v (d - d). Ossia ma è = v (d - d). Se il corpo cade in un altro mezzo, si avrà ma′ = v (d - d′); e quindi, dividendo membro a membro, a : a = (d - d) : (d - d′), ossia il rapporto delle due velocità è costante. Viceversa, ponendo d = d + d′, la legge di Aristotele si avvera con esattezza.
70. «Ci piace chiamarla forza elettrica (vim electricam)».
71. Più esattamente, la geometria analitica consta dell’applicazione di due principii: quello che i matematici dicono delle coordinate e il reciproco legame dell’algebra alla geometria. Separatamente, i due principii erano noti e applicati prima della geometria analitica.
72. Leggi: Oiler.
73. Che tale fosse la forma delle orbite percorse dai pianeti era stato intuito dalla astronomia araba, cfr. § 17 B.
74. L’aberrazione consiste in questo, che noi vediamo le stelle non dove esse realmente si trovano, ma in una diversa posizione apparente, assegnata loro, dal moto della luce, combinato con la rotazione terrestre, ossia dalla risultante del rapporto delle due velocità. La nutazione è un movimento oscillatorio dell’asse terrestre, determinato dall’attrazione lunare.
75. Non è fuor di luogo ricordare il classico esperimento compiuto dal Galilei dalla Torre degli Asinelli di Bologna. Due palle di piombo, l’una di 100 libbre, l’altra di una sola libbra, lanciate di lassù, giunsero contemporaneamente al suolo. Era la condanna senza appello della fisica aristotelica, dietro verdetto della scienza sperimentale del Rinascimento!
76. Erano emisferi metallici di 1, 2 piedi di diametro, in cui si faceva il vuoto. Secondo i calcoli di von Guericke, sarebbe occorsa una forza di 2686 libbre per vincere la pressione che li teneva uniti. E, in un’esperienza del 1654, poterono essere distaccati solo applicandovi 16 cavalli: quattro paia per ciascuno.
77. In 1077 piedi al secondo. Oggi viene ragguagliata tra i 1038 e i 1022 piedi (m. 330 circa) al secondo nell’aria a O°. Nell’acqua è di m. 1435, e tripla all’incirca nei solidi.
78. La velocità della luce viene oggi calcolata, in cifra tonda, in 300.000 km. al secondo.
79. Leggi: Farenait.
80. Leggi: Uott.
81. Innanzi l’applicazione della macchina a vapore alla filatura di cotone, il prodotto annuo delle manifatture di cotone inglesi non raggiungeva i 50 milioni; nel 1835, toccava il miliardo. E la contea di Lancaster (leggi: Láncester) produceva ora, ogni anno, tanto filo quanto neanche 20 milioni di abili lavoratrici, intente tutto il giorno al fuso e alla conocchia.
82. Il nome di bottiglia di Leyda proviene da uno degli esperimentatori del tempo: Pietro von Musschenbroeck, (1692-1761) di Leyda, in Olanda.
83. Fu formulata da G. E. Stahl (1660-1734).
84. Da phlox: fiamma.
85. Si rammenti la teoria del greco Anassiméne (§ 6).
86. Si dice, è noto, spettro, la fascia dei 7 colori, in cui un prisma scompone la luce.
87. Di questo punto ci occupiamo nel paragrafo relativo alla chimica; cfr. § 38 B.
88. Leggi: Erstet.
89. La sua famosa esperienza fu questa: facendo correre una corrente elettrica parallelamente all’ago magnetico, questo descrisse una oscillazione di quasi 90° col meridiano magnetico.
90. L’apparecchio, che egli usò, viene oggi denominato dal fisico inglese Barlow, che poco di poi lo riprodusse.
91. Le dinamo sono speciali armature a forma di anello avvolte da matasse di filo di rame, il cui primo inventore fu, nel 1864, l’italiano Antonio Pacinotti (1841-1912), insegnante nella Università di Pisa; onde si dicono anello di Pacinotti. Da questo derivarono le dinamo del Gramme e del Siemens, che oggi corrono il mondo.
92. Anche la trasmissione elettrica dell’energia, ossia il mezzo con cui trasportare l’energia elettrica a distanze di centinaia di chilometri, si deve a un italiano, a Galileo Ferraris (1847-97), insegnante al Politecnico di Torino. Egli, che non fece brevettare l’opera del suo ingegno, e morì povero, ha, inoltre la gloria immensa di essere il ritrovatore del segreto degli impianti idroelettrici, nerbo della industria contemporanea, specie di quella italiana.
93. La prima idea del telegrafo spetta al Volta e a Luigi Magrini (1806-68) della R. Università di Padova, che lo sperimentò nel 1837.
94. Leggi: Cruq.
95. Leggi: Rentgen.
96. Leggi: Vráit.
97. Ecco il principio classico del Carnot in fatto di termodinamica: «La potenza motrice di una cascata d’acqua dipende dall’altezza e dalla quantità del liquido; la potenza motrice del calore dipende anch’essa dalla quantità di calorico impiegata e dall’«altezza della caduta», cioè dalla differenza di temperatura dei corpi fra cui si fa lo scambio del calorico.»
98. Secondo il Pr., tutti i corpi sarebbero stati diversi di condensazione degli atomi di idrogeno: il più leggero fra essi.
99. Ad es. il ferro e lo zolfo si possono combinare nel rapporto di 56 (ferro) a 32 (zolfo), dando il monosolfuro di ferro, o di 56 a 64, dando il bisolfuro di ferro.
100. Secondo Thomson, ogni elettrono è 1700 volte più piccolo di un atomo di idrogeno.
101. da bios (grec. vita).
102. Cioè in uno stato diverso da quello in cui noi li ritroviamo nei corpi, e incapaci di reagire sull’acqua perchè carichi di elettricità.
103. Leggi: Fircov.
104. Leggi, Oile.
105. La paternità del termine biologia, in questo senso preciso, spetta al Lamarck.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.