Title: Memorie della vita di Giosue Carducci (1835-1907)
Author: Giuseppe Chiarini
Release date: June 23, 2024 [eBook #73895]
Language: Italian
Original publication: Firenze: Barbèra
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MEMORIE DELLA VITA
DI
GIOSUE CARDUCCI
(1835-1907)
RACCOLTE
DA
UN AMICO
(GIUSEPPE CHIARINI).
Seconda edizione corretta e accresciuta.
FIRENZE,
G. BARBÈRA, EDITORE.
1907.
FIRENZE, 706-1907. — Tipografia Barbèra
Alfani e Venturi proprietari.
Compiute le formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.
ALLA MEMORIA
DI
ADRIANO LEMMI.
[1]
Feci la conoscenza personale del Carducci nell’estate del 1855. Lo avea veduto tre anni avanti a San Giovannino delle Scuole Pie alle lezioni di filosofia, dove andavo qualche volta benchè avessi terminati l’anno innanzi gli studi. Egli entrò ch’era già cominciata la lezione, entrò con passo ardito e franco e con la testa alta, e andò a mettersi al suo posto nei gradi più bassi dell’anfiteatro. Io aveva sentito parlare di lui con ammirazione dai suoi compagni di scuola, da alcuno dei quali ebbi copia di qualche sua poesia, che mi parve molto bella. Più tardi uno di quelli stessi compagni mi diede a leggere manoscritta la canzone su Dante che il Carducci aveva composta nel 1854 per una Accademia delle Scuole Pie, della quale dovrò parlare più avanti. La canzone avea fatto un po’ di chiasso, specie fra i giovani, e ne corsero delle copie manoscritte, una delle quali appunto fu data a me. Io ne restai vivamente ammirato, e me ne crebbe il desiderio, che già avevo, di conoscere di persona l’autore. Avevo fatta da poco la conoscenza di Enrico Nencioni, stato condiscepolo del Carducci alla scuola di retorica [2] del Padre Barsottini, e suo amicissimo. Esposi a lui il mio desiderio, ch’egli fu lieto di sodisfare. Il Carducci faceva allora il secondo anno di studi alla Scuola Normale Superiore di Pisa; ma veniva spesso nei giorni di vacanza a Firenze, dove aveva parenti, presso alcuno dei quali andava ad alloggiare. Quando lo andai a trovare in compagnia del Nencioni, egli abitava presso una zia, in via Borgognissanti. Andammo di mattina (era di domenica) fra le nove e le dieci. Egli era prevenuto, sapeva che io era un grande ammiratore, anzi adoratore, del Leopardi, che amavo i classici, che facevo dei versi, che ammiravo grandemente i suoi. Ci venne incontro in maniche di camicia; ci demmo subito del tu, come s’usa fra giovani, si cominciò a parlare di letteratura, si parlò del Leopardi, del Giordani; io gli chiesi qualche cosa di suo, egli mi trascrisse lì per lì sopra un grande foglio di carta gli ultimi due sonetti da lui composti, quello che comincia Poi che mal questa sonnacchiosa etade e l’altro Ai sepolcri dei grandi italiani in Santa Croce; dopo di che ci lasciammo, ed io me ne tornai lieto e contento come se portassi meco un tesoro.
Ci rivedemmo qualche volta nei giorni appresso in compagnia del Nencioni, di Ottaviano Targioni Tozzetti, di Giulio Cavaciocchi e di altri amici del Carducci e del Nencioni, che diventarono anche amici miei. Egli tornò indi a poco a Pisa, poi andò a passare le vacanze autunnali in famiglia a Pian Castagnaio, dove suo padre era medico condotto; io dovei per ragione d’impiego andare ad Arezzo, dove stetti fino ai primi del 1856. Avevamo promesso [3] di scriverci: io fui il primo; egli mi rispose da Pian Castagnaio il 4 settembre 1855, dicendomi che là infieriva il colèra (il quale infieriva pure ad Arezzo), e che aveva dovuto lasciare gli studi per curare gli ammalati. Fino dai primi casi egli con un suo fratello ed altri due giovani senesi avean prestato volontari l’opera loro; in seguito di che il Municipio aveva composto di essi e di altri tre una commissione di assistenza gratuita, incaricando lui della direzione.[Vedi note pag. 433]
Al riaprirsi dell’anno accademico 1855-56 il Carducci tornò alla Scuola Normale; io ai primi del 1856 tornai, come ho accennato, a Firenze. D’allora in poi le mie relazioni con lui e cogli altri amici fiorentini furono continue, quasi giornaliere. Ma prima di proseguire, sarà buono dire qualche cosa della infanzia e della prima giovinezza del poeta. Il che farò, lasciando quanto più è possibile la parola a lui stesso, e giovandomi delle testimonianze altrui. A questa parte della Vita saranno dedicati i due primi capitoli: di ciò che narrerò negli altri fui testimone io stesso. E poichè l’antica amicizia ha mantenuto fra noi una corrispondenza epistolare che va senza interruzione dall’anno 1855 a questo in cui scrivo, attingerò, oltre che dalla memoria, da questa specie di domestico archivio ciò che mi parrà conferir meglio a delineare viva e vera la figura dell’uomo e dello scrittore.
[5]
Ricordo d’infanzia: «Via, via, brutto te.» — La famiglia Carducci e il padre del poeta. — I primi anni e i primi studi a Bolgheri e a Castagneto. — La famiglia Carducci a Firenze e Giosue alle Scuole Pie. — Giosue a retorica dal Padre Barsottini — Il Carducci e il Nencioni. — Passione di Giosue pei libri. — Il primo passo. — Il Carducci a Celle. — Primi sonetti satirici. — Accademia dei Risoluti e Fecondi. — Canzone del Carducci su Dante letta all’Accademia.
«Io della mia infanzia, scrive il Carducci, non ho memorie nè belle nè buone nè curiose.
«Il mio più antico ricordo mi pone subito, ahimè, in relazione con un essere dell’altro sesso, come si direbbe con la lingua d’un certo uso, che, secondo i manzoniani, dovrebbe anche essere la lingua del buon gusto. Mi ritrovo in un luogo nè bello nè brutto — forse un giardinetto presso la casa ove nacqui, — a una giornata nè di primavera nè d’inverno nè d’estate nè d’autunno. Mi pare che tutto, cielo e terra, sopra, sotto, e d’intorno, fosse umido, grigio, basso, ristretto, indeterminato, penoso.
«Io con una bambina dell’età mia, della quale non so chi sia o chi sia stata, dondolavamo, tenendola [6] per i due capi, una fune; e mi pare che così dicevamo o credevamo di fare il serpente. Quando a un tratto ci si scoperse tra i piedi una bella bodda: è il nome, nel dialetto della Versilia, d’un che di simile al rospo.
«Grandi ammirazioni ed esclamazioni di noi due creature nuove su quell’antica creatura.
«Le esclamazioni pare fossero un po’ rumorose. Perchè un grave signore, con gran barba nera e con un libro in mano, si fece in sull’uscio a sgridarci, o meglio a sgridarmi. Non era mio padre: era, seppi molto tempo dopo, un marito putativo d’una moglie altrui alloggiata per certo caso ivi presso.
«Io brandendo la fune, come fosse un flagello, me gli feci incontro gridandogli: Via, via, brutto te!
»D’allora in poi ho risposto sempre così ad ogni autorità che sia venuta ad ammonirmi, con un libro in mano e un sottinteso in corpo, a nome della morale.»[1]
Questo aneddoto mostra già nel fanciullo una delle qualità più caratteristiche dell’uomo. Perciò l’ho messo qui, affinchè sia come il battesimo della vita del nostro poeta.
***
Il piccolo ribelle nacque il 27 luglio dell’anno 1835 alle ore 11 di sera in Val di Castello, frazione del [7] comune di Pietrasanta, da Michele Carducci e Ildegonda Celli. Gli furono dati all’atto del battesimo, ch’ebbe luogo due giorni dopo, i nomi di Giosue, Alessandro, Giuseppe, essendo compare un suo zio Natale Carducci.[Vedi l’atto di nascita nelle note a pag. 434]
La famiglia Carducci, stabilita da gran tempo fra Serravezza e Pietrasanta, discendeva dai Carducci di Firenze; e il nonno del poeta, Francesco Giuseppe, andava orgoglioso di tale discendenza, e si compiaceva molto, nella intimità della famiglia e degli amici, di evocarne le gloriose memorie. Ma quelle memorie, troppo lontane, non ebbero alcuna influenza sui suoi sentimenti politici: e nemmeno la familiarità sua col poeta repubblicano Giovanni Fantoni, di cui era grande ammiratore. Egli era e rimase un fedele suddito del Granduca di Toscana; e come tale odiò le novità e le rivoluzioni. Il padre del poeta invece, il dottore Michele, avea nel sangue l’istinto della battaglia e della libertà. Fin da scolare prese parte alle cospirazioni politiche, fu carbonaro, e dei pochi Toscani che pei fatti del 1831 patirono relegazione e prigionia. Quando gli nacque il primo figliuolo Giosue, egli a Val di Castello era medico di una società francese che aveva assunto l’escavazione di certe miniere di piombo argentifero, poste tra Val di Castello e Serravezza. Ma o fosse l’indole sua irrequieta, o che non gli piacesse, o non [8] gli convenisse, l’ufficio presso la società mineraria francese, o che, come altri dice, gli desse fastidio la sospettosa vigilanza della polizia, ben presto abbandonò la Versilia per la maremma toscana, e verso il 1838 andò medico condotto a Bolgheri, frazione di Castagneto, e feudo dei Conti della Gherardesca.
***
Tra Bolgheri e Castagneto la famiglia Carducci passò ben undici anni, che il poeta chiama la sua triste primavera e dei quali parla egli stesso così: «Mio padre era un manzoniano fervente.... Ridottosi a vivere in condotta in uno dei più oscuri paeselli della maremma, viveva coi contadini, e, nelle ore di riposo o di sosta, con alcuni pochi libri di storia e letteratura che, oltre i non pochi dell’arte sua, aveva raccolti ed amava. Figuravano tra questi bellissime le opere del Manzoni, con i giudizi del Goethe, le analisi critiche del Fauriel, i commenti del Tommaseo; e quei volumi, rilegati con certa pretensione di lusso, mostravano impressi nelle costole a oro certi fregi che rendean figura come di casette con due alberetti davanti. Io, ragazzo di circa dieci anni, credevo che quella fosse la canonica di Don Abbondio; e leggevo e rileggevo I promessi sposi. Perchè fino a quattordici anni non ebbi quasi altro maestro che mio padre, il quale altro non m’insegnava che latino; ma, un po’ per [9] l’indole sua, un po’ per i doveri di medico, mi lasciava molta libertà e molto tempo per leggere.
«E io insieme alle opere del Manzoni lessi l’Iliade, l’Eneide, la Gerusalemme, e la Storia Romana del Rollin, e la Storia della Rivoluzione Francese del Thiers; i poemi con ineffabile rapimento, le storie con un serio oblio di tutto il resto: e, aiutato da qualche conversazione di mio padre con certi amici ed ospiti, per ragazzo ne intendevo anche troppo. Invasato così di ardore epico e di furore repubblicano e rivoluzionario, io sentivo il bisogno di traboccare il mio idealismo nell’azione; e per ciò in brigata co’ miei fratelli e con altri ragazzi del vicinato organizzavo sempre repubbliche, e repubbliche sempre nuove, ora rette ad arconti ora a consoli ora a tribuni, pur che la rivoluzione fosse la condizion normale dell’essere, e cosa di tutti i giorni l’urto tra i partiti e la guerra civile.
«La nostra repubblica consisteva di ragunanze tumultuose e di battaglie a colpi di sassi e bastoni, con le quali intendevamo riprodurre i più bei fatti de’ bei tempi di Roma e della rivoluzione francese. In coteste rappresentazioni, del resto, il rispetto alla storia non era certo spinto a quegli eccessi pedanteschi che soglion guastare o raffreddare l’effetto vivo drammatico. Che benedette sassate applicai un giorno a Cesare il quale era su ’l passare il Rubicone! Per quel giorno il tiranno dovè rifugiarsi non so dove con le sue legioni, e la repubblica fu salva. [10] Ma il dì appresso Cesare mi colse in una macchia, affermando sè essere Opimio e quello il luco delle furie: invano io protestai contro l’anacronismo e per la mia qualità di Scipione Emiliano: egli mi fece togliere in mezzo da’ suoi cretensi come un Gracco qualunque e flagellare, mentre io chiedevo che almeno rispettasse la storia lasciandomi libero di farmi uccidere al mio schiavo. Come picchiavano e rideano quei cretensi! Me ne vendicai, per altro ed in breve, e storicamente, quando, presa d’assalto una rimessa che facea da Tuileries, stimai bene di lasciar libero il corso al furor popolare su gli svizzeri prezzolati di Luigi XVI.
«Ma il rumore di questi grandi fatti giungeva qualche volta alle orecchie del mio manzoniano padre, il quale allora, nulla commosso dalle mie oneste ferite, mi condannava pur troppo a lunghe prigionie; in mezzo alle quali egli di quando a quando riappariva per rivedermi il latino, e mi lasciava tre libri su ’l tavolo, dicendomi serio ed asciutto: — Leggete qui, e persuadetevi che il taratantara classico non è più per questi tempi. — I tre libri erano: la Morale cattolica di Alessandro Manzoni, i Doveri dell’uomo di Silvio Pellico, e la Vita di San Giuseppe Calasanzio scritta da certo padre Tosetti (parmi) del secolo passato.
«Che idea fosse quella del manzoniano mio padre di dare a leggere la Morale cattolica a un ragazzo, io non so: so che d’allora in poi per un gran [11] pezzo morale cattolica e frati, doveri dell’uomo e santini, furono per me la stessa cosa; e odiai, odiai quei libri, d’un odio catilinario. Essi mi rappresentavano la mortificazione, la solitudine, la privazione di libertà e d’aria e di combattimento, la fame delle grandi letture, un nuovo carcere tulliano. Trovavo uno sfogo ad affacciarmi alla finestra, declamando la parte di Guglielmo de’ Pazzi:
Soffrire, ognor soffrire? altro consiglio
Darmi, o padre, non sai? Ti sei tu fatto
Schiavo or così che del mediceo giogo
Non senti il peso e i gravi oltraggi e l’onte?
Dispetto! i cretensi e gli svizzeri eran sotto la finestra, e ridevano, e mi gettavano pomi.»[2]
Queste battaglie e le letture non erano i soli svaghi del selvatico fanciullo, dice il Borgognoni: «e’ si teneva in casa e allevava con grande amore una civetta, un falco e (imaginate!) anche un lupacchiotto.» Ma il padre, cui tutto ciò non andava a genio, «un bel giorno ammazzò il falco e regalò a un tale di Livorno il lupo.» Giosue ne fu così addolorato, che «scappò di casa e passava le giornate intere errando pei boschi in riva al mare e su pei colli cretacei.»[3] Aveva intorno a dieci anni; e cominciò fin d’allora a sentirsi tentare dalla smania di far versi; scrisse prima alcune ottave sulla presa [12] di Bolgheri, poi alcune terzine sulla morte di Cesare e un sonetto per la morte della sua civetta. In questo tempo essendoglisi messa addosso una febbre maremmana, che gli durò due anni, il padre (che stava allora a Bolgheri), per vedere di guarirlo, lo mandò a Castagneto in casa d’un collega. Qui Giosue, sentendosi pienamente libero, cominciò, dice il Borgognoni, a farla da uomo; si legò in amicizia con un tale Alessandro Scalzini repubblicano, e nella casa di lui spiegava ai molti che accorrevano a sentirle, le poesie del Giusti, che allora andavano attorno manoscritte. Fu richiamato a casa dal padre nel 1846; ma due anni dopo, nella primavera del 1848, tutta la famiglia si trasferì a Castagneto, e Giosue vi riprese la vita di prima. «Allorchè, scrive il Borgognoni, fu affisso a Castagneto il bollettino che annunziava lo statuto largito da Carlo Alberto, il Carducci ci scrisse sotto col lapis:
Esecrato Carignano
Va il tuo nome in ogni gente,
con quanta approvazione dello Scalzini non è da chiedere. Seguì in quei giorni una dimostrazione nel paese. Se non che non si vedeva bene dove la dimostrazione andasse a parare. Allora il Carducci persuase lo Scalzini e i suoi a levare il primo grido: Abbasso tutti i re! viva la repubblica! Lo Scalzini gridò, tutti gridarono: la dimostrazione era riuscita.»[4]
[13]
***
Intanto il padre, che, uomo libero e battagliero, come s’è detto, avea preso parte fin dal principio ai moti del 1848, e tal parte che ben presto la dimora di Bolgheri non gli parve più sicura per lui, aveva trasportato le sue tende a Castagneto; ma anche qui non potè durare lungamente. In quelli anni gli umori e le voglie erano così diverse e divise, che un uomo poco prudente correva rischio d’attaccare lite ad ogni momento. Dovè dunque l’anno dipoi, al tempo del governo provvisorio del Guerrazzi, abbandonare anche Castagneto: andò come medico interino a Laiatico, ma ci stette ben poco, costretto a fuggire dalla reazione moderata toscana, che ivi lo colse. I contadini, dice il Borgognoni, lo costrinsero a baciare un busto in gesso di Leopoldo II, e lo bastonarono anche, pare, un pochino. Egli allora riparò a Firenze, dove avea parenti da parte della moglie, dove gli era più facile passare inosservato, e dove poteva provvedere meglio all’educazione dei figliuoli. Ben presto la famiglia andò a raggiungerlo, e si allogarono in una povera casa in fondo di via Romana, segnata del n. 1843. I figliuoli, che allora eran tre, Giosue di 14 anni, Dante di 13, Valfredo di 8, furono subito messi alle Scuole Pie.
Il corso classico secondario si compieva allora in tutte le scuole di Toscana in sei anni; tre anni [14] di grammatica (1ª, 2ª, 3ª grammatica), un anno di umanità e due di retorica. Per quelli che volevano proseguire gli studi, c’era un corso di scienze (filosofia, matematiche, fisica) che durava un anno. Giosue fu inscritto nel maggio 1849 alla classe di umanità, i due fratelli a classi inferiori. Era maestro di umanità un Padre Michele Benetti, uomo colto e studiosissimo di Dante e dei classici antichi, dei quali aveva, con un discorso a stampa, preso le difese contro il Padre Ventura, che giudicava pericoloso lo studio di essi nelle scuole. Non pare ch’ei facesse speciale attenzione al Carducci: e si capisce; egli avea una classe di 62 scolari parecchio indisciplinati; e il Carducci era stato da lui poco più di tre mesi. Ma nei registri, che ancora si conservano, il maestro aveva notato che il giovinetto era «assai bene istruito», e perciò fra gli scolari «da passarsi», e che aveva tenuto una condotta irreprensibile.
Dei 62 scolari del Benetti soli 8 avevano in quell’anno ottenuto la nota di irreprensibile; ed i 62 erano all’esame ridotti 43, avendone il maestro dovuti espellere 8 e costringere altri a ritirarsi, per gravi ragioni d’indisciplina. Ciò che dimostra, osserva il Padre E. Pistelli, alla cui cortesia devo queste notizie,[5] che gli scolari d’oggi non sono peggiori di quelli d’allora. «Io, soggiunge il Pistelli, in 22 anni [15] d’insegnamento ho dovuto espellere uno scolaro solo.» Gli esami furono dati dal 21 al 31 agosto; e il Carducci fu approvato con queste classificazioni: nei due latini scritti mediocre, nella spiegazione a voce di Virgilio (En., l. V) ottimo, nei precetti di letteratura bene, nella sfera armillare mediocre, nella storia toscana bene.
«Da vecchio il Benetti, dice il Pistelli, parlava sempre dei suoi scolari, e ne aveva avuti, a Firenze, a Cortona, a Siena nel Collegio Tolomei, una infinità. Ma non ho memoria d’avergli sentito ricordar mai il Carducci. Era uomo molto pio e scrupolosissimo, e forse non ricordava volentieri chi in quegli anni era chiamato il cantore di Satana.»
***
Mentre Giosue stava per finire la scuola di umanità, il padre ebbe per un momento l’idea di farlo entrare nel Liceo Militare e ne fece domanda; ma poi, quale ne fosse la ragione, abbandonò quell’idea; e terminate le vacanze scolastiche, il giovane riprese i suoi studi alle Scuole Pie.[Vedi le note a pag. 434]
Il corso di retorica durava ordinariamente due anni, e il Carducci li fece tutti due (1849-50, 1850-51). Era maestro il Padre Geremia Barsottini, «anima ardente e, a quei giorni, liberale», dice il Pistelli; [16] un buono e brav’uomo davvero, dalla figura maestosa e imponente, che contrastava in modo singolare con la sua faccia sempre piena di sorriso e le sue maniere cortesi e carezzevoli. Era amato e stimato, non pure dagli scolari, ma da tutta la cittadinanza; ebbe fama di valente oratore; e di un suo volume di versi, un po’ rugiadosi e sdolcinati, che piacevano molto alle signore, furono fatte più edizioni. Pubblicò anche un’antologia omerica «Le bellezze d’Omero», e fu studioso dei classici; ma era e si mantenne sempre romantico. Perciò il Carducci, che pure gli volle bene, non lo tenne mai per un modello di insegnante; e perciò egli, per quanto sentisse l’ingegno del Carducci, gli preferì il Nencioni, romantico come lui.
Nel primo anno di retorica il Carducci ebbe tra i condiscepoli Torquato Gargani, ma non il Nencioni; il quale, per quanto appare dai registri, fu con lui soltanto il secondo anno (1850-51).
Pel passaggio dal primo al secondo anno di retorica non c’erano esami. Negli esami alla fine del secondo anno il Carducci fu approvato con queste note: prosa italiana, bene assai; versione scritta dal latino, ottimo; versione dal classico a voce, bene; versione scritta dall’italiano in latino, ottimo; precetti, ottimo. L’esame di greco, ch’era libero, il Carducci non lo diede. Se l’esame del Carducci fu buono, quello del Nencioni fu migliore, avendo egli avuto la nota di ottimo anche nel latino orale, e di bene [17] nella prosa italiana, senza l’assai, che attenua. Del qual fatto è, secondo il Pistelli, da cercare la ragione nell’essere il Nencioni romantico come il maestro. Non bisogna credere però che il buon Barsottini non avesse nei due anni ch’ebbe sotto di sè il Carducci, misurato tutto il valore di lui. Attesta il Pistelli nelle sue note di avere una sola volta parlato del Carducci al Barsottini, quando questi era vecchio e malato; e il Barsottini gli disse: «Ha mantenuto tutto quello che prometteva, ed era tanto!»
Io poi ricordo. S’era negli anni fra il 1865 e il 1870: il Carducci, venuto da Bologna a Firenze a passare alcuni giorni, era con me in via Larga, non lungi da San Giovannino. A un tratto ci viene incontro il Padre Barsottini, con la faccia illuminata da quel suo sorriso gioviale, che pareva volere abbracciare e proteggere le persone colle quali egli parlava. Si fermò, prese per le mani il Carducci, e guardandolo affettuosamente, non senza un po’ di soggezione, gli disse: «Bravo il mio Giosue, tu sei diventato un gran professorone.» Più che nelle parole, c’era nel tuono della voce e in tutta l’espressione del viso del buon frate la sodisfazione del maestro che diceva fra sè: Ed io l’ho avuto scolare! Non parmi che il Carducci rispondesse con molta espansione alla espansione del maestro; egli era allora la bestia nera dei moderati toscani; e ciò lo metteva subito di cattivo umore tutte le volte che s’incontrava con qualche toscano non dei pochissimi [18] (cinque o sei) suoi intimi. A me quell’incontro fece molto piacere; e ne serbai viva memoria. Non credo che il Carducci abbia poi riveduto più il Barsottini.
Per essere ammesso al corso di scienze il Carducci dovè l’anno appresso (1851-52) dare un esame di aritmetica, nel quale fu approvato; e si inscrisse alle lezioni di geometria, di fisica e di filosofia. Di geometria e di filosofia era insegnante, o, come allora dicevano, lettore, il Padre Celestino Zini, che fu più tardi direttore delle Scuole Pie, e morì arcivescovo di Siena; di fisica, il Padre Filippo Cecchi, che avea fin d’allora buon nome fra gli scienziati e che poi s’acquistò fama per lavori importanti di meteorologia e di fisica. Nel registro del Padre Zini il Carducci è notato irreprensibile per la condotta, notabile per il profitto; ma nella colonna della frequenza è scritto: «quasi assiduo»: nell’esame fu approvato a pieni voti e pluralità di plauso, come risulta dall’attestato che conservasi nell’archivio della R. Scuola Normale Superiore di Pisa.[Vedi le note a pag. 435]
Gli anni dal 1850 a tutto il 1852 furono i tre anni che il Nencioni passò, come dice nel suo Consule Planco, «in continua compagnia, in fraterna comunanza di studj e di affetti»[6] col Carducci.
[19]
Alla quasi assidua frequenza alle lezioni di filosofia può servir di commento il fatto accennato dal Borgognoni,[7] e confermatomi dagli stessi Carducci e Nencioni, delle grandi passeggiate che i due amici andavano a fare insieme pei colli di Firenze, saltando la scuola. Anche mi raccontarono come essi, specialmente il Carducci, per fare imbroncire il buon Padre Zini, lo aspettassero talora alla porta dell’aula, quando usciva od entrava, e gli esprimessero la loro ammirazione per la filosofia del Leopardi, dicendogli all’orecchio: — Padre Zini, evviva il Leopardi. — Naturalmente il buon frate attribuiva alla inesperienza e al bollor giovanile queste scappatelle, e pur rimproverandole le compativa.
***
«Quante cose, dice il Nencioni nello scritto che sopra ho citato, potrei raccontare della vita domestica e scolastica del Carducci!» Giacchè anche lui, come il Gargani, ci ha abbandonati innanzi tempo, e a me non è dato supplire che in piccola parte alla copia di notizie che loro avrebbero potuto dare sulla prima giovinezza dell’amico nostro, riferirò qui due pagine dello scritto del Nencioni, note certamente a molti, ma che tutti rileggeranno volentieri.
«Mi par di vederlo ancora, a scuola di retorica, un sabato che si doveva spiegare qualche frammento [20] di classico latino ad libitum, escir dal suo posto, traversare impettito e fiero la scuola, e presso la cattedra del maestro levarsi di tasca con meraviglia di tutti noi un libriccino in carta pecora, un vecchio elzeviro, e cominciare a leggere.... Era un Persio senza note. Stupore nella scolaresca, e un certo imbarazzo nel nostro buono e bravo maestro, Padre Geremia Barsottini. — Lesse, costruì, tradusse, commentò, franco, preciso, sicuro, e se ne tornò al suo posto fra un silenzio d’ammirazione. — Da quel giorno fu il dittatore della scuola. Lo vedo ancora arrivare le mattine d’inverno quasi sempre in ritardo, in giacchetta di panno turchino con bottoni d’ottone, con berrettino militare, senza paletot, senza mantello, senza sciarpe, sfidando i geli, come Souvarow.
«L’adolescenza e la prima gioventù del Carducci sono state veramente spartane: quelli anni così ridenti per tutti, furon per lui anni di sacrifizj, di perseveranza, di lavoro ostinato, di dignitosi silenzi, di nobili e alteri rifiuti. E conosco una povera casa in Firenze, in fondo di via Romana, che fu testimone di giornaliere ignote lotte, — consolate solo dalle pure gioje della poetica ispirazione, da entusiasmi di ammirazioni artistiche, dalla lettura di qualche libro prestato — povera casa dove il Carducci ha scritto i primi suoi versi, le Odi oraziane, — e che a me ha insegnato più e meglio di tutti i palazzi Strozzi e Farnese, che cosa sono le realtà e le idealità della vita.
[21]
«Legato a lui fin d’allora di fraterna amicizia, gli procuravo dei libri — ed ebbi così la fortuna di fargli conoscere alcuni poeti stranieri, lo Schiller, fra gli altri, — e di italiani il Leopardi; i cui Canti (vecchia edizione Piatti) da me prestati al Carducci, destarono nel futuro poeta delle Odi barbare un vero fanatismo. Ricopiò, mi rammento, più della metà del volume; e il Bruto Minore, e la Saffo, gli imparò subito a mente. — Guido Mannering e altri romanzi dello Scott, il Guglielmo Tell, alcune scene del Fausto, lo colpirono vivamente fin d’allora: di Byron, a quel tempo, ammirava più la vita che le poesie (è vero che lo leggeva tradotto in barbara prosa). Lamartine non gli andò mai giù. Gli scritti clandestini di Giuseppe Mazzini, che riceveva da un suo stretto parente, lo facevan ruggire.... Anche l’Ortis è un libro su cui l’ho visto fremere e piangere.
«Cosa singolare! i libri di erudizione, particolarmente filologica, erano per lui letture gradite, e avidamente cercate, quasi quanto i poeti. Mi ricordo che dopo avere nitidamente trascritto, con una diligenza da benedettino, le sue imitazioni da Orazio — una quarantina di odi, di cui due solamente sono restate negli Juvenilia, — egli cedè volentieri il volumetto manoscritto, in baratto con una vecchia edizione del Malmantile annotato dal Biscioni, e tornò a casa glorioso e trionfante col grosso polveroso volume, prezioso per lui più per le note erudite che per l’arguto testo fiorentino.»
[22]
A proposito della sua passione pei libri il Nencioni mi raccontò che il giorno che egli riuscì ad avere, non so se comperate o donategli, le poesie del Foscolo, per le quali spasimava da lungo tempo, tornando a casa, salì in ginocchione la scala che dall’uscio di strada conduceva diritta al povero quartiere, e giunto nella stanza dov’era sua madre, presentatole il libro, volle s’inginocchiasse a baciarlo. La mattina di poi, quando il Gargani andò da lui, lo trovò non ancora finito di vestire, che gli veniva incontro, e lì in cima alla scala, senza lasciarlo entrare, gli lesse ad alta voce, commentando con le sue ammirazioni, una gran parte dei Sepolcri.
***
Nell’anno 1852, mentre studiava, o a dir meglio (sono sue parole) non studiava affatto filosofia dagli Scolopii, il Carducci fece il primo passo verso il numero dei più, cioè degli uomini stampati. «Lo feci presto, dice, e da buon italiano, con un sonetto, un sonetto d’occasione, e quale occasione! per i coristi del Teatro di Borgo Ognissanti, o salvo il vero, della Piazza Vecchia.... Stavo vicino di casa in via Romana con Emilio Torelli stampatore, e già dei fedeli, dei veramente e onestamente fedeli, di F. D. Guerrazzi. Egli mi chiese il sonetto. Come dir di no a un democratico del ’48, che aveva tale una franca impostatura tra di soldato e di ciompo (egli fu capitano dei municipali, e sua madre era [23] piemontese), e portava sempre uno smisurato cappello o di felpa o di paglia, all’ombra delle cui grandi ale poteva riparare una cospirazione? Diedi il sonetto; e fu stampato, anonimo. Non me ne ricordo, ma ci doveva essere qualche frase di Armonide Elideo, o, meno arcadicamente, d’Angelo Mazza.
«Il vero primo passo per altro, e questo con la ferma intenzione di peccare, solamente non seguìta dall’effetto, lo avevo mosso qualche mese innanzi. In quegli anni io scrivevo sempre: ammiravo il bello da per tutto, cioè non capivo nulla. Ebbi in una giornata di luglio il coraggio di mettere assieme in tutti i metri che mi corsero per la testa (nessun barbaro: allora, al più, rifacevo alcaiche sul modello del Fantoni) una novella romantica. L’intitolai Amore e Morte. C’era dentro un po’ di tutto — un torneo in Provenza — e il rapimento della regina del torneo fatto da un cavaliere italiano vincitore — e una fuga con dialoghi al lume di luna tra gli abeti — e il fratello della vergine non più vergine che raggiungeva gli amanti in Napoli — e un duello — e la morte del vago — e la monacazione della vaga — e un successivo impazzamento — e l’annessa morte dopo la confessione in
Endecasillabi
Catullïani
Dolci per facili
Modi toscani.
(Rossetti, Veggente in solitudine.)
[24]
················
Ricordo.... due strofe, quando la regina del torneo posava una ghirlanda su ’l capo del vincitore, che s’era tratto l’elmo:
Qui la bella di Tolosa
Del baron gli occhi fisò,
Poi tremante e vergognosa
Chinò gli occhi e sospirò.
Ma una fiamma al roseo volto,
Una fiamma le salì
Quando il nero crin disciolto
Fra le dita errar sentì.
«Finita che ebbi la novella verso le quattro di sera, e il caldo era grande (come scrivevano i vecchi cronisti), pensai a farla stampare. Perchè no? Leggevo stampati tutti i giorni tanti versi che mi parevano peggio dei miei. L’abate Stefano Fioretti pistoiese compilava allora certo foglio teatrale e letterario, intitolato non ricordo più se l’Arpa o il Liuto o il Trovatore o il Menestrello, o quale altro de’ nomi d’oggetti di spogliatoio melodrammatico che usavano ancora su quegli sgoccioli del romanticismo. Mi manca il tempo e la serenità dell’animo a raccogliere e rendere i tratti di ciò ch’era allora l’abate toscano: non prete del tutto, ma nè men secolare: molto arcadicamente o romanticamente letterato: il cappello lungo; cravattina simulante il collare sotto al solino imbiancato co ’l turchinetto; abito moderatamente talare tenuto aperto per lasciar [25] vedere una catenella d’argento a mezzo la sottoveste abbottonata fin molto in su; tutto in nero, s’intende; nero ed argento; in argento legate possibilmente le lenti, pomo d’argento o d’altro metallo biancheggiante nella canna d’India; infine andatura un po’ solenne, ma con passi di minuetto e naso all’aria. Il Fioretti del resto era persona piacente, e galantuomo, e buon compagno: aveva l’ufficio del giornale in un de’ vicoli che rameggiano da via Calzaioli. Salgo le scale con grande trepidazione; il direttore non c’era, c’era la governante, o la cameriera, o la nipote; non so in somma che cosa fosse precisamente. Il che mi piacque, non mica per la cameriera o governante o nipote — che era del resto un bel pezzo di ragazza, tipo fiorentino del Ghirlandaio un po’ volgarizzato — ma io, figuratevi, ero troppo fresco dell’Amore e Morte e della mia creazione di Gilda. Mi piacque perchè così potei scrivere una lettera al direttore (a parlare mi sarei imbrogliato), con la quale gli lasciavo e raccomandavo la mia novella: sarei tornato il giorno dopo per la risposta. Tornai; e il piacente abate con squisita cortesia mi fece capire che la mia novella era troppo lunga e troppo letteraria per un foglio come il suo.
«Rividi poi, circa il 59, e più volte, l’abate Fioretti; e finimmo buoni amici. Mi dava o mi mandava certe sue cantate storiche. Una mi ricordo: Gli Orti Oricellari a tempo dell’ultima cacciata dei [26] Medici da Firenze, fu musicata dal Mabellini per i parentali a Niccolò Machiavelli celebrati in Pistoia la sera del 26 luglio 1863. E me ne ricordo un’aria a più voci tra Palla Rucellai, il Machiavelli figliolo e Zanobi Buondelmonti.
Palla.
Ah.... del ribelle moto
Côrremo i frutti amari.
Machiavelli.
Ai Medici devoto
Vedrem l’Oricellari?
Palla.
Tutti i tiranni abomino
Detesto al par di te;
Ma nella plebe instabile
Non so ripor la fe’.
Buondelmonti.
Torna a regnare il popolo
Che plebe vil non è.
»Io gli lodai quella cantata. Sicuro! Gli ero debitore dell’avermi risparmiato la stampa della novella. Immaginatevi se i critici italiani avessero poi scoperto che a sedici anni feci una poesia romantica!»[8]
[27]
***
Finiti nel 1852 gli studi agli Scolopii, il Carducci andò colla famiglia a raggiungere il padre, che fino dall’anno innanzi era andato medico condotto a Celle nel Montamiata. Quivi passò quasi tutto il 1853, riordinando e compiendo con assoluta libertà, che lo condusse ad un classicismo assoluto, i suoi studi letterari. Non li aveva tralasciati mai neppure a Firenze nell’ultimo anno mentre studiava filosofia. Anzi specialmente in quell’anno le conversazioni col Nencioni, i libri ch’ei gli procurava da leggere, quelli che cercava da sè nelle biblioteche fiorentine, dove volle vedere anche i codici, contribuirono a svolgere, non senza un po’ di confusione, le attitudini sue svariatissime, di erudito insieme e d’artista. Dalla lettura dei lirici dei primi secoli nel Manuale del Nannucci, nella raccolta del Valeriani e nei codici della Riccardiana, passava a scrivere odi saffiche o alcaiche ad imitazione d’Orazio, sonetti burleschi e satirici, e, come s’è visto, anche poemetti romantici.
De’ sonetti satirici ne avea composti fin da retorica. I primi a provare la mordacità della sua musa giovanile furono i suoi compagni di scuola. Mi ricordo che il Nencioni, raccontandomi le loro inimicizie e guerricciole di scolari, mi recitava dei pezzi di sonetti carducciani veramente feroci. Il Carducci poi, mandandomi nel settembre del 1860 da Pistoia [28] la intiera raccolta manoscritta di tutti i suoi sonetti burleschi e satirici, mi scriveva: «Ho voluto conservare due di quelli fatti da ragazzo per un’ambizioncella di mostrare come pensavo e sentivo ec. ec., e come presto incominciai l’arringo satirico, pel quale veramente sarei fatto più che per ogni altro.» E prometteva di mandarmi poi altri saggi di poesia satirica puerile, «sciatti saggi, diceva, ma che pur dicono qualche cosa, molto più certo delle poesie serie che facevo a quel tempo.»
Non ricordo bene; ma credo che fra quei sonetti ce ne fosse uno su Celle (ad imitazione di quello del Berni su Verona) il quale cominciava così:
Questa Celle è una terra di Toscana,
ed uno contro un suo compagno di scuola, che avea parlato male di lui.
Quei sonetti li rimandai dopo parecchi anni al Carducci, che ne fece una scelta per la edizione definitiva degli Juvenilia.
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Mentre il nostro era a Celle avvenne un fatto che determinò la scelta della sua carriera nella vita.
Fra gli scolari di retorica delle Scuole Pie, in quelli anni che c’era appunto il Carducci, esisteva un’Accademia, che avea nome dei «Risoluti e Fecondi», [29] della quale era come Presidente il Padre Barsottini. Ne facevano parte i migliori alunni, e tra questi naturalmente dei primi il Carducci, il Nencioni e il Gargani. Per una delle tornate di cotesta Accademia, che fu tenuta nel 1853, il Carducci, narra il Borgognoni, mandò alcuni suoi versi sulle Crociate, «i quali, dice egli, oltre che al Padre Barsottini, ebbero la ventura di piacere non poco e a Leopoldo Cempini (stato già amico del Giusti) e al canonico Sbragia, prete di parte moderata scappato nel 1848 in Piemonte col Giorgini, i quali due si trovarono tra gli astanti. Lo Sbragia anzi disse al Barsottini persuadesse il Carducci a concorrere alla Scuola Normale, di cui egli era in allora il rettore. Il Barsottini non si fece pregare, come non si fece pregare il Carducci, il quale concorse, ottenne e andò.»[9] Così avvenne che il Carducci prese la via dell’insegnamento.
Anche entrato alla Scuola Normale, Giosue seguitò ad appartenere all’Accademia, la quale tenne una delle sue più famose sedute l’8 settembre 1854. Ne fu stampato il programma (Firenze, coi tipi Calasanziani, 1854) con questo titolo: «Il Genio cristiano | del medio Evo | in Italia | Trattenimento letterario | dato | nella Sala delle Scuole Pie fiorentine | dagli Accademici | Risoluti e Fecondi | la sera del dì 8 settembre 1854.» Il discorso preliminare [30] fu letto dal Padre Barsottini, compilatore del programma, il quale comprendeva ben 22 numeri. Lessero poesie, fra gli altri, Pietro Dazzi (Boezio nella sua carcere); Enrico Nencioni (Il trovadore); Cesare Parrini (Federigo Barbarossa). Ultimo lettore, quello del n. 22, fu il Carducci; e il numero diceva così: «I fatti accennati dimostrano quali elementi di vita accoglie in sè il Medio Evo. Non manca che una voce la quale tuoni su questo Caos, come un tempo sul Caos antico la voce di Jeova, e crei. Questa possente voce è la voce di Dante. — Canzone del signor Giosue Carducci, Accademico Risoluto.»[Vedi l’intero programma nelle note a pag. 436]
Questo, nota il Pistelli, «era il pezzo forte del trattenimento, ed ebbe un gran successo.» La canzone fu poi stampata per intero a pag. 33 del volumetto di Rime (San Miniato, tip. Ristori, MDCCCLVII) con questa nota: «Questo canto fo pubblico, perchè il meno ignoto de’ miei saggi poetici e quello che meno spiacque, e perchè forse a miglior tempo lo racconcerò: fatto nella primissima gioventù parmi dia più fumo che luce.» Nelle successive edizioni delle sue poesie il Carducci ne accolse soltanto due frammenti, Prometeo e Dante, con correzioni, non molte, ma notevoli, nel secondo.
[31]
Il Carducci alla Scuola Normale Superiore di Pisa. — Pratiche religiose. — Burle dei compagni. — Riunioni al caffè dell’Ebe. — Il ponce nel guardaroba. — «Viva Giove! abbasso il successore!» — Il Poverello d’Assisi e i Fioretti di san Francesco. — Il mercato dei maialini. — Allocuzione ai maialini fratelli in Gesù. — La toilette per prepararsi a studiare Tito Livio. — Una lezione di letteratura italiana presa dal Nisard. — Prepotente bisogno di studiare. — Rigori disciplinari e beghineria. — Il beato Giovanni della Pace. — Lettera del Carducci sulla Scuola Normale. — Umor nero. — La cerimonia della laurea. — Gli esami di magistero. — Epopea sul padre Arno Dio etrusco dalla glauca capelliera. — Pratiche e raccomandazioni per la nomina del Carducci a maestro di retorica nel Ginnasio di San Miniato.
La Scuola Normale Superiore di Pisa, istituita con decreto napoleonico del 29 gennaio 1813, riordinata con motuproprio granducale del 1846, fu, nella nuova sua forma di istituto aggregato all’Università, e perciò dipendente dal capo di essa, che allora chiamavasi Provveditore, aperta soltanto il 12 novembre 1847. Era, ed è ancora, una specie di Collegio convitto (come il Ghislieri di Pavia), con un certo numero di posti gratuiti, che si conferiscono [32] per concorso fra giovani che hanno compiuto gli studi secondari e vogliono darsi alla professione dell’insegnamento. I giovani ammessi hanno nella scuola, salvo che non chiedano un correspettivo in denaro, vitto e alloggio durante il corso degli studi universitari, assistono alle lezioni dell’Università, hanno altre lezioni nell’interno del Convitto, e al fine degli studi prendono, oltre la laurea, il diploma di magistero, cioè di abilitazione all’insegnamento nelle scuole secondarie.
Sulla fine del 1853 il Carducci si presentò alla Scuola accompagnato dal padre. Era vestito dell’uniforme prescritta allora dal regolamento (soprabito e panciotto di panno turchino, calzoni neri, mantello nella stagione invernale, e cappello a staio). I normalisti, che erano sparsi a crocchi nell’andito del primo piano, aspettando il suono della campanella che li chiamasse a desinare, fecero subito liete accoglienze al nuovo venuto; e bench’egli fosse di modi un po’ bruschi, presero subito a volergli bene.
Uno di quei normalisti, entrato anche lui in quell’anno alla Scuola, che si affezionò subito al Carducci, e gli fu poi sempre amico fedele e sincero, Ferdinando Cristiani, scrisse, pregato da me, una breve notizia sul Carducci alla Scuola Normale, che fu pubblicata nella Rivista d’Italia (fascicolo di maggio 1901). Da essa e da alcuni appunti favoritimi da un altro compagno di studi del Carducci alla Normale, il prof. Giuseppe Puccianti, traggo [33] per la maggior parte il materiale di questo capitolo, riferendo, dove mi sembri opportuno, le parole stesse dei due egregi uomini amici miei.
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«Gli atti della vita quotidiana della Scuola Normale, scrive il Cristiani, erano regolati da un rigido orario, per la veglia e il riposo, per lo studio e la ricreazione, per la mensa e il passeggio, per la messa e il rosario. Poteva forse a qualcuno mancare la voglia, ma non il tempo, di pregare: ogni mattina la messa, ogni sera il rosario ed altre giaculatorie non brevi. Nè finivano qui gli obblighi religiosi; chè ogni due o tre mesi un reverendo veniva a fare raccolta dei nostri peccati.
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»Ogni mese dovevamo pure intervenire, cogli altri scolari della Università, alla congregazione, nella chiesetta di San Sisto. Guai a chi avesse ciarlato durante la lunga predica, o fosse mancato all’appello; i bidelli con lapis e carta prendevano nota di tutto per riferirne ai superiori. Per giunta alla derrata, tutte le domeniche c’era spiegazione del Vangelo, fatta dal Rettore.
»Tutte queste pratiche di religione toglievano del tempo allo studio; e il Carducci, che del tempo era economo come l’avaro della borsa, portava anche [34] alla messa, in cambio del libro d’orazioni, un qualche classico del formato in sedicesimo.
»Qualche volta i compagni stessi si divertivano a disturbarlo mentre egli studiava; ed ecco come. Al Carducci, ricevuto normalista, era stata assegnata la seconda camera a destra di chi entra dalla porta del corridoio interno. Nella anticamera, una stanzuccia piuttosto buia, si trovavano in fila su una panca dieci lucernette d’ottone a un lucignolo e, d’inverno, anche dieci caldanini, che erano i nostri caloriferi. Sicchè, tornando la sera a casa, ognuno di noi andava a prendere il suo lume; e siccome a quell’ora Giosue stava già al lavoro, così a parecchi veniva il desiderio di dare un saluto all’amico Pinini.[10] Se Giosue era di buon umore, la porta di camera stava aperta, e allora s’entrava tutti e ci si sdraiava sul letto e si facevano scherzi che non spiacevano a Giosue; ma se poi ci dimenticavamo la discrezione, sapeva metterci fuori per amore o per forza. La camera serrata a chiave era segno d’umor nero, o forse di più intensa voglia di studiare; e siccome non si voleva neppur in quelle sere lasciar di salutarlo a modo nostro, gli si faceva la serenata in coro, cantando stornelli di vario genere con accompagnatura di contrabbasso, [35] fatica speciale di un nostro compagno, che produceva quel suono strisciando il pollice all’uscio. La pazienza, si dice, ha un limite, e il Carducci faceva presto a varcarlo. Una sera, aperto l’uscio all’improvviso, rincorse di furia cantanti e suonatori, che fuggirono a gambe levate.
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»Dopo desinare, a stagion buona, scendevamo nel cortile, dove per unico passatempo erano una dozzina di grosse palle di legno da giocare alle bocce. A quei tempi non si parlava nè di ginnastica, nè di scherma, nè v’era biliardo o altro giuoco. Terminata la ricreazione, si studiava, ciascuno nella propria camera, fino all’ora del passeggio. Uscivamo a coppie, o anche soli, ma quasi sempre c’incontravamo fuori di Porta alle Piagge; e lì avvenivano spesso vivissime discussioni fra il Puccianti e il Carducci, tanto più vive quando il primo, per incitare l’amico alla lotta, metteva innanzi la questione della superiorità del Manzoni sugli altri poeti moderni: allora, da una parte e dall’altra se ne sentivano delle cotte e delle crude, e la disputa finiva a sera, quando tutti d’amore e d’accordo tornati in città ci riunivamo al caffè dell’Ebe. Riunioni clamorose e gioconde, che erano per Giosue il divagamento più grato. Là era nel suo vero regno, e, con davanti il ponce ed un sigaro in bocca, teneva desta per un’ora la geniale conversazione. Conveniva sovente a quei ritrovi serali [36] Felice Tribolati, ingegno arguto e narratore inesauribile di piacevoli aneddoti appresi dalla bocca di Giovanni Rosini, di cui fu ammiratore e familiare. C’era anche Narciso Pelosini, già dottore in legge e praticante l’avvocatura, allora giovane d’idee avanzate, non fervente cattolico come dipoi. Col Tribolati e col Pelosini, ora morti, veniva talora Francesco Bonamici, giovane di molti studi e d’ingegno e, come il Pelosini, di parola facile e abbondante.
»Qualche altro divertimento ce lo procuravamo da noi in collegio, nelle poche sere che i più denarosi avevano il permesso d’andare al teatro. Adunati in una stanza al terzo piano, che serviva ad uso di guardaroba, avendo con noi rhum, zucchero, limone, e una macchinetta a spirito, si faceva il ponce bianco, che sorseggiavamo poi allegramente tra i più svariati e gioviali discorsi e sollazzi.»[11]
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A proposito di burle e del Manzoni, una volta il Puccianti fece questa al Carducci. Passando una sera davanti alla porta della camera di lui e trovandola chiusa, perch’egli era già a letto, si mise a battervi su dei pugni così sonori, che avrebbero, [37] dice lui, svegliato anche un baco da seta quando dorme la grossa. Giosue, se non era sveglio, si svegliò, e si diè a gridare con quanto ne aveva in gola e a bestemmiare. Il Puccianti, che non voleva altro, cessati i picchi, cominciò a declamare ripetutamente ad alta voce l’Inno del Manzoni:
Dormi, fanciul, non piangere,
Dormi, fanciul celeste,
con quel che segue. A ciò il Carducci non potendo reggere, balzò giù dal letto, aprì furiosamente la porta, e presentandosi sulla soglia ignudo com’era, gridò rabbiosamente: — Viva Giove! abbasso il successore! — Guai, dice il Puccianti, se i superiori l’avessero sentito!
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Una mattina i due amici andarono insieme all’Università. Appena arrivati, il bidello dice loro: Il professore stamani non fa lezione. Era una bella giornata di primavera, ed essi pensano di godersela andando a fare una passeggiata fuori delle mura. Giosue era di bonissimo umore, e in quella disposizione d’animo che, specie quando trovavasi in compagnia di qualche amico, eccitava in lui l’estro inesauribile delle bizzarrie. Bisogna sapere, dice il Puccianti, che tutti i giorni egli era come dominato da un’idea fissa. L’idea fissa di quella [38] mattina era il Poverello d’Assisi, per amore del quale egli aveva imparato a memoria i luoghi più belli e singolari di quel singolarissimo libro dei Fioretti. «Quindi (cedo la parola all’amico Puccianti), appena uscito sul Lungarno tutto sorriso dal sole, in quell’ora del tempo e in quella dolce stagione sentì le varie voci della natura, e come se fin da quel giorno meditasse il Canto dell’amore, molto comicamente e in istile che chiamerò francescano cominciò a tirar giù le lodi, non mica del Gran Pan che non è morto, ma proprio delle creature, e più particolarmente di frate Sole, di frate Arno e perfino di suora Luna, che non c’era.
»In san Francesco la lauda delle creature son pochi versi, e lui (il Carducci) non la finiva più: un’idea o un’immagine se ne tirava dietro un’altra, come le ciliege. Basti il dire che dalla cantonata di via San Frediano eravamo arrivati alla Porta fiorentina, e lui seguitava con la stessa foga, anzi pareva che cominciasse in quel momento. Passata la Porta, ci fermammo sulla piazza di San Marco, e lì ci dette negli occhi uno spettacolo a cui non eravamo avvezzi. C’era il mercato dei maialini. A quella vista l’oratore francescano, che fino a quel momento si era occupato unicamente delle creature prive di senso, rivolgendosi a un tratto alle creature sensate, si fece ad esortare quei leggiadri porcellini fratelli in Gesù a render grazie a Dio dei tanti doni che ne avevano ricevuti ec. ec. [39] E siccome tutte quelle dolci e divote cose le indirizzava specialmente a quello dei maialini che aveva più vicino, io, per metterlo al punto, gli dissi come in aria di sfida: — Sta bene che tu gli dica coteste dolci cose, ma scommetto che non hai il coraggio di abbracciarlo. — Non ho il coraggio...? o sta’ a vedere. — Si chinò, e gli stese le braccia al collo, dicendogliene in particolare delle altre anche più dolci. Dopo di che ce ne tornammo alla scuola senza altri incidenti.»
Quando trent’anni più tardi il Puccianti lesse il sonetto Santa Maria degli angeli, che è un’apostrofe a frate Francesco, e termina così:
Ti vegga io dritto con le braccia tese
Cantando a Dio: — Laudato sia, Signore,
Per nostra corporal sorella morte!
il pensiero gli corse subito al mercato dei maialini in piazza San Marco.
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Un’altra mattina, narra il Puccianti (ed anche qui lascio a lui la parola), «entro nella stanza del Carducci, e lo trovo tutto intento a pettinarsi, a farsi un bel nodo alla cravatta e spazzolarsi con cura, cercando di mettersi nella maggiore eleganza relativa possibile. — Vedi, mi dice, mettendomi a studiare Tito Livio, faccio come faceva (a prenderlo [40] a parola) il Machiavelli quando entrava nelle corti dei principi antichi, e li interrogava ed essi gli rispondevano, e si pasceva così del cibo che solum era suo, come ci dice egli stesso nella famosa lettera al Vettori. — O gli abiti curiali? domandai io. — Questi miei son tanto curiali quant’erano i suoi — mi rispose; e si mise a tavolino. Tanto è vero che gli scherzi suoi avevano bene spesso un fondamento erudito. E veramente fin d’allora possedeva un’erudizione singolare nelle cose storiche e letterarie e anche filologiche, così antiche, come moderne.
»Se un professore esponeva a scuola una dottrina non sua, senza indicarne le fonti, egli spesse volte le cercava e le trovava. Una volta appunto sentiamo all’Università una lezione sull’epopea primitiva e secondaria premessa da un nostro insegnante ad un suo corso sulla Divina Commedia. Ci parve bellissima, com’era veramente. — Sai da chi l’ha presa? — mi disse Giosue. — Dal Nisard. — Cerca il libro, traduce dal francese in buon italiano tutta la lezione, e chiamato poi a ripetere, la ridice con una franchezza tale da far meraviglia agli uditori. E non aveva mica molta facilità di parola; tutt’altro; anzi, preso all’improvviso, era spesso impacciato, e la frase gli usciva di bocca come a scatti, faticosa. Avvezzo fin d’allora a frugare col pensiero a fondo le cose, e a scegliere i modi più efficaci per manifestarle, faceva come sentire lo sforzo di una composizione necessariamente affrettata. [41] Non era un parlatore, era uno scrittore fino da normalista. Ma in casi simili a quello detto sopra faceva sempre così: scriveva le cose da dire, le rileggeva più volte, e, siccome lo scritto dalla carta gli si stampava nella memoria tenace, venuto il momento le ridiceva tali e quali, e stavo per dire le rileggeva ad alta voce nel libro della mente.»
Alla meravigliosa erudizione del giovane Carducci conferiva senza dubbio in gran parte la memoria felice, ma in parte anche maggiore lo studio, ch’egli fece sempre intenso e continuato. Lo studio non era per lui l’adempimento di un dovere, era un bisogno prepotente dello spirito. Narra il Cristiani ch’egli, concedendo al sonno poche ore della notte, passava quasi sempre l’intera giornata a studiare. «Anche oggi, dice, passati da allora quarantacinque anni, mi par di vederlo seduto al suo tavolino, con in bocca una gran pipa di spuma, tutto assorto nello studio degli autori suoi prediletti, scriver note e pensieri, o scattar come una molla e, a passi concitati, andar su e giù per la camera, declamando ad alta voce i luoghi degli scrittori ond’era più fortemente commosso.»[12] Anche attesta il Cristiani che, mentre parecchi normalisti, come in generale accade alla maggior parte degli studenti, erano costretti a lunghe veglie all’avvicinarsi degli esami, il Carducci non avea bisogno, per prepararsi [42] ad essi, di alterare menomamente il suo sistema di vita e l’ordine delle sue occupazioni. Non solo: ma come egli, buono in fondo e cordiale nonostante i suoi modi un po’ bruschi, era largo d’aiuto ai compagni, che all’occasione non lo risparmiavano, così trovava il tempo di ripetere e spiegare loro le lezioni dei professori; ciò che accadeva specialmente verso la fine dell’anno scolastico.
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Che cosa il Carducci pensasse dei suoi insegnanti, della vita e degli studi alla Scuola Normale, appare da una lettera ch’egli mi scrisse ai primi del 1856, quando faceva là l’ultimo anno. Sicuro, non bisogna prendere alla lettera le sue parole, il cui colorito è estremamente acceso, come portava la sua bollente natura e la irritazione dell’animo prodotta dall’ambiente in cui era costretto a vivere.
Pisa, e specialmente l’Università e la Scuola Normale che n’era parte, scontavano le pene del loro passato liberalismo; le pene dell’aver protestato per non voler le Dame del Sacro Cuore, le pene delle lezioni patriottiche del Centofanti e di altri professori, le pene del battaglione universitario del 1848. Da ciò una recrudescenza di beghineria che pesava sopra tutta la città, da ciò l’eccesso di pratiche religiose, con le quali si credeva stupidamente di rimettere la gioventù nella retta via dell’ossequio alla [43] Chiesa e allo Stato (cioè al restaurato Governo granducale); da ciò i nuovi e inauditi rigori verso gli studenti, ai quali per ogni menoma scappatella si minacciavano e si applicavano punizioni; da ciò il Provveditore trasformato in una specie di capo di Polizia, e i bidelli e i serventi in spie e questurini.
Naturalmente se c’era modo di mantener viva l’agitazione nei giovani per il desiderio della libertà, e il trionfo delle idee patriottiche era codesto.
Immaginarsi come ne dovesse fremere internamente il Carducci! Egli aveva, è vero, una distrazione potente e un conforto grande negli studi, che lo assorbivano intero; ma in cotesto porto, nel quale riparava dalla vita reale, lo sdegno e la irritazione contro questa trovavano nuovo alimento, e le sue idee e i suoi pensieri se ne coloravano sempre più in nero.
Quella recrudescenza di beghineria che ho detto, della quale l’Arcivescovo e il clero di Pisa profittavano pei loro fini, soffiandoci dentro in tutti i modi, diede occasione al Carducci di scrivere la poesia satirica Al beato Giovanni della Pace, ch’è stampata in fine dei Juvenilia. Mandandomela nel maggio del 1856, mi scriveva: «Ti voglio mandare uno scherzo fatto in questi giorni, non perchè meriti come poesia, ma perchè tu vegga come ad ogni occasione io protesti contro il secoletto ipocrita. Da un pezzo in qua (due anni mi pare) è venuta la manía di riscavare i vecchi santi e di metterne [44] su de’ nuovi, ultimo guizzo dell’idea cristiana-romantica. A questi giorni, e precisamente dopo trattata e firmata la pace di Parigi, hanno trovato un frate del secolo XIII, che appunto ha nome di Giovanni della Pace, venerato in Pisa nei secoli passati. Hanno stabilito di riscavarlo, metterlo in onoranza nel Duomo, portarlo a processione. Figurati il buggerio. Il Carducci ha scritto questo Inno sacro.» Seguiva la trascrizione dell’Inno: poi ripigliava la lettera, parlando delle pratiche ch’ei già faceva per avere il posto d’insegnante di retorica a San Miniato, chiedendo in proposito qualche consiglio agli amici, e dandoci la notizia che aveva stabilito di cominciare nelle vacanze la traduzione in versi del III libro dell’Eneide di Virgilio e della Teogonia di Esiodo.
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Ed ora ecco alcuni frammenti della lettera alla quale sopra ho accennato. A me era venuta improvvisamente l’idea di abbandonare il meschino impiego che allora avevo, e di andare alla Scuola Normale. Ne scrissi al Carducci, chiedendogli consiglio e istruzioni; ed egli mi rispose: «E tu.... vorresti entrare nella Scuola Normale? Cessi Dio tanto pericolo che ti minaccia se tu vieni qua, dove questa marmaglia o ti farà perdere il senno o ti spingerà al suicidio.... Se tu vieni qua, dalla parte dell’insegnamento (del latino), avrai un professore ciarlone, [45] che ti stancherà a forza di citazioni e di date quando fa bene, quando cioè copia da tutti i libri che può aver per le mani, senza mentovar mai nessuno: del resto ti dirà con aria cattedratica quelle cosette che sanno anche i bambini della seconda, senza un’ombra mai di critica, senza un bagliore di ragionamento; cose fritte e rifritte da tutti gli accademici, da tutti gli scrittori di retorica, da tutti gli arcadi di tutti i tempi; e così correranno i tuoi tre anni di studi sulla letteratura latina, sulla quale perderai molti giorni senza imparare altro che date.... Per la letteratura greca avrai due uomini che il greco lo sanno; sentirai che dissertazioni calorose, infiammate, vulcaniche sulla funzione degli aoristi! sentirai declamata con l’enfasi epica la genealogia de’ tempi de’ verbi, come se fosse la genealogia degli Eacidi; ma della filosofia di cotesta divina letteratura greca, de’ bei tempi di Atene, delle cause che ispirarono coteste opere divine, del metodo e del sistema di cotesta poesia, del confronto con la latina e con l’italiana, nulla, nulla, nulla: chè coteste menti son nate per declinare verbi, non per sentire e far sentire il bello, non per pensare: guai, guai nella Scuola Normale a colui che pensa! Della filosofia razionale e morale non ti parlo;... ti avviso però che della razionale avrai a ripetitore un collegiale, avvezzo a giurare sulle parole del maestro, il quale senza aver mai visto in viso una traduzione dal greco, ti comincierà a dir male delle [46] arti e lettere greche e ti leverà alle stelle i Goti: e tu freddamente l’ammazzerai, e allora ti metteranno in galera. Bandita la letteratura italiana: già saprai da te come i giovani usciti finora dalla Scuola Normale adulterano laidamente la lingua toscana: imparerai il gergo convenzionale, grammatico, retorico, filosofico: la lingua in cui scrissero Dante, Machiavelli, Leopardi, fa paura a questi vili oppressori e castratori degli ingegni giovanili: chi studi davvero cotesta lingua, bisogna che studi gli scrittori repubblicani del Trecento, nazionalissimi del Cinquecento, e pensatori tremendi del secolo nostro; bisogna che studiando cotesta lingua, studi la nazione, e imprima come suggello nell’animo il carattere italiano puro. E nella Scuola Normale, guai, guai, tre volte guai a costui! — In quanto al trattamento per ora si sta male, i venturi staranno malissimo. Avrai sempre addosso un imbecille che parla sempre di frati, di monache, di conventi, e che moverebbe compassione se non fosse arcinoiosissimo. Nel direttore degli studi un galantuomo, buon uomo, il quale ti mostrerà in sè l’impotenza e l’idea risibile che piglia il galantuomo circondato da birboni d’ogni maniera: crederà di farti del bene col chiacchierarti intorno sempre, sempre, sempre, e ti darà buone parole, ti sarà gentilissimo, ma non ti schermirà mai dalle stoltezze e dalle oppressioni dei vilissimi superiori. Sarai inondato da una caterva di spie vilissime, minacciato da un provveditor [47] birro arcivilissimo, che ti griderà sempre punizioni e carcere, e se tu non vuoi altro, galera.... Quando non ti oltraggino, ti stomacheranno o con il mormorare di continuo femminilmente su’ fatti altrui, col parlare di lettere come parlano dei paduli di Vecchiano, con l’aver sempre in bocca il quattrino e il tozzo, o spregiare o compassionare ogni infelice che non abbia o il quattrino o il tozzo (materialisti manzoniani). In fine se vuoi venire alla Scuola Normale, o càstrati o schiàcciati, o fatti banderuola a tutti i venti, o vieni per imparare a soffrire e a odiare. Questi sono i danni: degli utili ve n’è uno solo, quello di divenire dottore senza spendere altro che 40 lire.»
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Il Carducci avea fin da giovane dei periodi di umor tetro che talvolta gli duravano a lungo. In quei periodi avea bisogno di star concentrato in sè stesso; ogni fatto esterno, ogni rumore, ogni voce, che tentasse distrarlo, lo urtava, lo infastidiva, lo faceva dare in escandescenze. Non c’era che qualche intimo, che potesse allora avvicinarlo, qualche intimo che, conoscendolo bene e volendogli bene, sapesse evitare ogni parola, ogni atto, ogni accenno che non gli andasse a genio, e secondando il suo bisogno di taciturnità, fosse capace di star con lui magari per delle ore senza profferire parola.
[48]
Quando egli era in uno di quei periodi, se gli avveniva di parlare o scrivere sopra un argomento qualunque, le parole, i ragionamenti, le immagini gli uscivano dalla bocca o dalla penna colorate in nero: i fatti non si alteravano, ma la luce sotto la quale erano esposti dava loro un aspetto che, pur rispondendo nella sostanza al vero, differiva alcun poco da esso. Probabilmente la lettera di cui ho riferito alcune parti fu scritta in uno di quei periodi; e si capisce come il Carducci, al quale la regola, la disciplina e le consuetudini della Scuola Normale e della Università non andavano punto a genio, sfogasse scrivendola tutte le ire e le scontentezze che gli avevano amareggiato quelli anni di studio. Oramai egli stava per uscirne. Ma pur troppo non doveva essergli molto più lieta, benchè in apparenza più libera, la vita d’insegnante che uscito di là avrebbe cominciato.
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Il corso degli studi alla Scuola Normale durava tre anni. Alla fine del primo i normalisti doveano rispondere sulla materia del terzo corso universitario; alla fine del secondo doveano dare l’esame di laurea. Il Carducci si presentò a questo esame il 16 giugno 1855, e il 25 fu insignito della laurea.
«Allora, per ottenerla, scrive il Cristiani, non si presentavano tesi, e perciò l’esame non differiva [49] da quello degli altri anni del corso universitario. Un po’ diversa da quella d’oggi era la cerimonia della laurea. I candidati in giubba e cravatta bianca movevano insieme verso la curia arcivescovile, e lì, entrati in un’ampia sala, dove si tenevano anche i pubblici dibattimenti delle cause appartenenti al fôro ecclesiastico, attendevano la venuta del vicario capitolare.
»Il vicario, entrato in compagnia del cancelliere, dava principio alla cerimonia con un discorso sui doveri che i buoni cittadini hanno d’esser fedeli al Sovrano, e zelanti della nostra santa religione, e faceva recitare ai candidati il Credo; poi, fatte infilare loro certe cappe sdrucite della forma di quelle dei professori d’Università, li chiamava a nome a uno a uno, li faceva avvicinare, e misurava loro in testa un berrettone dottorale, profferendo la formola: accipe pileum pro corona. Poneva fine alla cerimonia il giuramento solenne che tutti dovevano profferire, ripetendo parola per parola quello che ad alta voce leggeva il cancelliere. Suggellava la consacrazione lo squillo di due trombe.»[13]
Nel luglio dell’anno appresso (1856) ebbero luogo i pubblici esperimenti che conferivano ai normalisti il grado di magistero. «Il 2, scrive il Cristiani, il Carducci fece la lezione sul tèma di letteratura italiana da lui scelto: Dell’influenza provenzale [50] nella lirica del secolo XIII.... Il tèma era stato trattato da lui con lungo studio e con grande amore; tuttavia gli mancarono due voti di plauso; mentre non glie ne mancò neppur uno nella lezione (che fece qualche giorno dopo) sul tèma di filosofia, Del culto interno ed esterno, copiata in gran parte dal Rosmini.»[14]
Il Carducci usava fin d’allora, come notò già il Puccianti, scrivere le lezioni che dovea dire a voce, affine d’imprimersele nella memoria più ordinate, più chiare, più precise. Io posseggo l’autografo delle due lezioni ch’egli fece per ottenere il magistero; e credo non dispiacerà ai lettori conoscere la chiusa di quella sulla letteratura italiana, la quale nel manoscritto ha un titolo un po’ diverso da quello indicato dal Cristiani. È intitolata: Della poesia cavalleresca o trovadorica, e finisce così:
«A mostrare il processo di questo risorgimento intellettuale (il risorgimento della letteratura e dell’arte in Italia sul finire del medio evo), bisognerebbe ch’io con la scorta dell’istoria condottomi prima là su le sponde del mar di Sicilia dove fino dal 1180 suonava la rozza ma fervida italiana canzone di Ciullo d’Alcamo, quindi su le piazze di Assisi e di Fano dove le armi de’ cittadini uccidentisi tra loro restarono dal ferire alla poesia ispirata di san Francesco e di fra Pacifico, poi nella grande [51] Università di Bologna madre del sapere italiano, mi fermassi in ultimo a contemplare la società fiorentina del secolo XIII, di quel tempo che i nostri cari cronisti chiamano il tempo del buon popolo vecchio.
»Vedrei colà virtù civili grandissime senza burbanza, virtù famigliari amabilissime senza mollezza, virtù artistiche grandissime senza sforzo: e quei nobili e quelli artefici che seduti insieme nella chiesa di San Giovanni dettarono le costituzioni del 1250 e del 1282, trattare, disvestito il lucco, il pennello e lo scarpello, la penna e la spada, come si trattavano allora: vedrei i figliuoli di cotesti uomini alla scuola di Brunetto Latini, altri apprendere a ben parlare e ben guidare il comune in su le opere di Cicerone e di Sallustio, e fra questi Giovanni Villani; altri accogliere il tesoro dell’enciclopedia contemporanea, e tra cotesti il Cavalcanti e l’Alighieri, che vi si ispiravano alla poesia filosofica: quindi tra le feste popolari del Calen di maggio, tra le splendide cavalcate de’ giovani, nelle cortesi ragunanze di popolo o sotto le loggie delle potenti famiglie o intorno al San Giovanni nascere la freschissima poesia di Dino Frescobaldi e Gianni Alfani.
»Dopo ciò noi avremmo innanzi agli occhi tutto il processo della poesia toscana, la quale comincia didascalica e con la forma narrativa della visione ed allegoria nel Tesoretto del Latini, nella Intelligenza [52] di D. Compagni; seguita filosofando con maestà italiana nelle canzoni dell’Alighieri e del Cavalcanti; quindi nelle ballate e ne’ sonetti d’essi e dell’Alfani e del Frescobaldi con una religiosa purità di affetto non più sentita, con una agilità di forme non più veduta pare voglia aspirare al cielo, a quella guisa che vi aspirano i due angeli dipinti da Giotto nel tempio d’Assisi; infine dinanzi al popolo italiano ammirato sorge solitaria e gigantesca accanto a Santa Maria del Fiore la Divina Commedia.
»Tutto ciò avveniva, o signori chiarissimi, in quel tempo così superbamente compianto da una gente che ripone la somma civiltà nel non far nulla o nel rifar male quello che gli antichi fecero bene, in quel tempo che Carlo Botta chiamò lo stolido e scapestrato medio evo, fra quelli uomini che Carlo Botta chiamò goffe bestiaccie del medio evo. E fra quelle goffe bestiaccie erano Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri. Ora dirimpetto ad essi fra i moderni economisti e politicanti chi grande?»
Il Carducci trattò poi nell’età matura questi medesimi argomenti di storia letteraria con ben altra compiutezza di studi ed originalità di pensieri; ma non è senza interesse vedere com’egli vi si cimentasse fin d’allora, in un tempo cioè in cui erano una novità in Italia; e vi si cimentasse per impulso del proprio ingegno, senza avere dai suoi professori nessuno indirizzo, nessun consiglio ed aiuto.
[53]
***
Finiti gli esami, Giosue andò per qualche giorno a casa a Santa Maria a Monte, indi a Firenze a trovare gli amici; ma, prima di lasciare la Scuola Normale, mi ragguagliò con lettera dei 3 luglio del resultato del suo esame sulla letteratura italiana. La lettera diceva così:
«Ieri ebbi l’esame, o meglio feci la lezioncetta, e l’esito ne fu per me più che gradevolissimo. A pena cominciai ebbi l’uditorio dei chiarissimi in capelli bianchi e in toga, e dei chiarissimi in erba, e degli oscurissimi ancora, contro il costume attentissimo e silenzioso per un’ora (e dovevo parlare mezz’ora): e io lo padroneggiai col portamento e con la voce. Vi fu chi disse ch’era rimasto spaventato dalle mie citazioni fatte a memoria. Non potei finire del tutto il mio ragionamento, perchè il Provveditore mi disse da ultimo, vedendo che non la finivo più: Debbo annunziare al dottor Carducci, con mio dispiacere, che il tempo assegnatogli dalla legge è di già scorso da due quarti d’ora. E sonò il campanellino. E allora io birichinescamente feci un salto col quale dalla cattedra fui in terra tutto d’un pezzo. E l’uditorio rimase meravigliato anche della mia agilità nel far salti. Poi vennero i mirallegro, gli abbracciamenti, i baci dei chiarissimi e dei non chiarissimi, e tutte le persone della sala mi si raccolsero [54] intorno. Poi andò a finire in un gran simposio; dopo il quale, la sera, lung’Arno, accompagnato dagli amici, io declamava un’epopea improvvisa sul padre Arno Dio etrusco dalla glauca capelliera, il quale non voleva riconoscere i lumi a gaz nè il vapore: e vi entravano di mezzo Tarconte, Porsena, la vergine Camilla e Turno, i quali andavano a spegnere i lumi a gaz, e portavano fuori le vecchie lucerne sepolcrali di Tarquinia e dei sepolcreti di Ceri. Eroe dell’epopea, ch’io un po’ cantavo, un po’ declamavo, era un vaso etrusco personificato, il quale entrava nell’Ussero e spaccava le tazze, i gotti, e simili buggeratelle moderne. E i compagni ridevano tremendamente, e la gente passava di lontano intimorita: e tutto questo lo facevo in abito nero, e con grandissima cravatta bianca, e i solinoni bianchi fuori, secondo il costume del Tasso.»
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Per la nomina del Carducci al Ginnasio di San Miniato si adoperarono anche il Rettore della Scuola Normale e il Provveditore della Università, i quali pur non potevano ignorare il carattere forte e indipendente del giovane; ma anch’essi erano vinti dalle prove d’ingegno e di dottrina ch’egli avea date, le quali naturalmente dovea parer loro che tornassero ad onore della Scuola e della Università. Per questa ragione anche i professori gli volevan [55] bene e lo portavano, come si dice, in palma di mano, perdonando alla singolarità dell’ingegno le sue capestrerie.
Uno di essi, il professore di pedagogia e direttore della Scuola Giuseppe Pecchioli, scrisse nell’agosto da Livorno al proposto della cattedrale di San Miniato, da cui principalmente dipendeva la nomina degli insegnanti del Ginnasio, raccomandando come ottimo il Carducci, insieme a due altri, l’un dei quali buono e l’altro mediocre, e dicendolo: «Attissimo alla cattedra di letteratura latina e greca, benchè il suo forte, a vero dire, sia piuttosto la letteratura italiana.» Proseguiva la lettera dicendo: «Sulla moralità non debbo far gradazioni, perchè, in tutto il tirocinio universitario e normalistico, la loro condotta è stata esemplare, come si conveniva a giovani iniziati ad una carriera delle più delicate e importanti.»[15]
Quei professori non erano aquile, ma avevano abbastanza comprendonio da capire che il Carducci non era un allievo come gli altri; e forse speravano, nella loro ingenuità ed ignoranza del mondo in mezzo al quale vivevano, che quei giovani usciti dalla rigida disciplina scolastica ed entrati nella vita, avrebbero, per il bisogno di assicurarsi il tozzo, smorzato a poco a poco i loro ardori giovanili, e finito col diventare uomini seri e posati. Povera [56] gente! come ci vedevano poco! Il Carducci e il Cristiani (nominato con lui al Ginnasio di San Miniato) prima che finisse l’anno doverono fuggirne; e l’uno di lì a poco divenne il poeta della rivoluzione, mentre l’altro era andato a combattere le battaglie per la liberazione d’Italia.
Ma non anticipiamo.
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Gli amici di Firenze. — L’ode alcaica A Giulio. — Prime prove letterarie nell’Appendice alle Letture di famiglia. — Fiori e spine di Braccio Bracci. — La Diceria di G. T. Gargani. — Scandalo sollevato dalla Diceria. — Gli amici pedanti e la Giunta alla derrata. — Giovinetto romantico inventato dal Carducci. — Il Carducci in famiglia a Santa Maria a Monte. — Mia visita al Carducci a Santa Maria. — Il Carducci va maestro di retorica a San Miniato al Tedesco. — Il Passatempo e gli amici pedanti. — La casa dei maestri. — Alla méssa in domo. — Processo per accusa d’empietà. — Il Cristiani propone al Carducci di stampare le sue poesie. — «Jacta est alea.» — Pubblicazione delle Rime. — «Viva Apollo Febo lungi-oprante, Patareo, Delio, Cinzio, e moia chi dice di no.» — Il Carducci lascia San Miniato.
Mentre il Carducci era a Pisa, specie nell’ultimo anno, stette in continua corrispondenza con gli amici di Firenze, scrivendo al Gargani, al Targioni ed a me, più spesso che agli altri a me, che ero una specie di segretario della nostra piccola società. La corrispondenza era sopra tutto letteraria, ed aveva per iscopo di comunicarci i nostri lavori e di confortarci a vicenda nel sostenere col ragionamento e coll’esempio il classicismo in letteratura. Ci preparavamo, senza saperlo, alla fondazione [58] della società degli amici pedanti, che sorse in quell’anno stesso, e affilavamo le armi per le future battaglie.
Il 27 aprile 1856, mandandomi manoscritta l’ode alcaica A Giulio, ristampata in tutte l’edizioni dei Juvenilia, Giosue mi scriveva: «Ode alcaica di soggetto serio, e in cui si tratti con forme classiche di cose del medio evo, e di 21 strofe, non è stata mai fatta in Italia; questo solo di singolare ha l’ode mia. Quel che mi vo’ sforzar di provare col fatto, è di far vedere che si posson trattare con le forme greche e latine le cose a cui dicono i barbari italiani volersi forme nuove, e intendono le romantiche. Quello che ho detto io con le forme d’Orazio e Giovenale, questi cani l’avrebber detto con le forme dei cori del Manzoni.»
Le lunghe lettere che il Carducci mi scriveva e le poesie che mi mandava, erano da me lette agli altri amici, al Targioni e a Torquato Gargani, coi quali facevamo tutti i giorni la nostra passeggiata al Parterre fuori di porta San Gallo. E là disputavamo di letteratura, parlavamo degli ultimi libri letti, ci consultavamo sui lavori da fare o che stavamo facendo. Avevamo tutti tre le stesse idee in fatto di letteratura, ch’erano pure le idee del Carducci, benchè ciascuno, s’intende, avesse gli autori suoi prediletti. Ma era questione del più o del meno: tutti eravamo d’accordo nel mettere sopra tutti Dante e il Petrarca fra gli antichi, l’Alfieri, il Parini, [59] il Monti, il Foscolo, il Leopardi fra i moderni. Io aggiungevo a questi un prosatore, il Giordani, del quale a poco a poco inoculai l’ammirazione anche agli altri.
Il Targioni aveva preso di recente la laurea in legge, ma aveva tutt’altra voglia che di fare l’avvocato. Il Gargani era tornato di fresco da Faenza, dove aveva fatto per tre anni il precettore in una casa privata.
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Si aggiungevano spesso a noi nelle nostre passeggiate al Parterre il Nencioni ed altri giovani stati condiscepoli di lui, del Carducci e del Gargani alle Scuole Pie; ma non tutti avevano le nostre idee nè facevano della letteratura la loro prediletta e principale occupazione. Ricordo fra questi Luigi Prezzolini, dottore in legge, gran giobertiano, che disprezzava il Giordani, chiamandolo retore e parolaio, ed avea perciò con me frequenti e feroci dispute; e Giulio Cavaciocchi, grande ammiratore del Tommaseo, nostro aiutatore nelle ricerche di lingua al tempo delle nostre guerre letterarie, e grande cercatore di spropositi negli scritti del Fanfani. Il Prezzolini andò, dopo il 1860, segretario del Peruzzi ministro a Torino e finì prefetto (la politica del Pelloux lo mise a riposo nel 1899 ancor valido di forze e pieno di spirito, di che egli si afflisse, e indi a poco morì). Il Cavaciocchi entrò anche lui [60] verso il 1860 negli uffici pubblici, aggiunse alla sua ammirazione per la prosa del Tommaseo quella per la prosa del Ranalli nelle Storie, e morì di mal sottile nel 1867, che non aveva ancora trenta anni.
Questi due nostri amici non scrivevano allora e non scrissero mai nè articoli per riviste, nè libri: il loro amore per la letteratura, più savio del nostro, si limitò sempre alla lettura: noi invece scrivevamo e pubblicavamo. Il Carducci, il Nencioni ed io avevamo stampato dei versi fino dal 1855 in un Almanacco delle dame edito dal cartolaio Chiari a Firenze; e il Carducci anche prima di quel tempo il sonetto pei coristi del teatro di Borgo Ognissanti e un’ode per nozze: aveva poi pubblicato in quello stesso anno 1855 un’Antologia poetica con larghe annotazioni intitolata L’arpa del popolo, componendola delle poesie già da lui di mano in mano illustrate nelle Letture di famiglia, periodico fondato e diretto da Pietro Thouar. Ma le nostre vere prove letterarie le cominciammo l’anno appresso nell’Appendice alle Letture di famiglia, altro periodico fondato e diretto dal Thouar stesso. Il Carducci vi pubblicò, sotto il titolo di Saggi di studi sopra la lingua e letteratura latina, il commento di un pezzo delle Georgiche di Virgilio e dell’Epodo VII di Orazio, con la traduzione in prosa e larghissime illustrazioni. I versi della Georgica commentati e tradotti sono i 43-71 del primo libro. Alla traduzione seguono cinque dissertazioni: I, Dell’accordare il tempo stabilito [61] da Virgilio all’arare con quello stabilito da Esiodo, e della primavera e dello Zefiro; II, Del monte Tmolo; III, Dell’India conosciuta da’ Greci e da’ Romani; IV, Dell’Arabia in generale, e particolarmente dell’Arabia felice e de’ Sabei; V, Dei Calibi, e dei ritrovatori e lavoratori del ferro. Con uguale larghezza illustrò l’Epodo oraziano, facendo seguire al commento osservazioni e notizie particolari sopra i punti più importanti, sopra i traduttori e gli imitatori. Oltre ciò collaborò col Targioni e col Gargani ad un saggio d’interpretazione delle poesie del Parini, del Foscolo e del Leopardi, pubblicato in quello stesso anno 1856, dopo il quale cessammo di scrivere nell’Appendice.
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Intanto un livornese nostro coetaneo, Braccio Bracci, che noi non conoscevamo di persona, e che più tardi divenne nostro buon amico, pubblicò un volumetto di versi «Fiori e Spine», con in fondo una lettera del Guerrazzi, che, per una delle poesie ristampata nel libro, chiamava il poeta uccello destinato a gran volo. Il Gargani, che da guerrazziano, quale il Carducci lo avea conosciuto alla scuola dì retorica, si era nei tre anni di dimora a Faenza convertito, come dice il Carducci stesso, a un classicismo rigidamente strocchiano, ebbe primo di noi conoscenza dei versi del Bracci, e ne fece col Targioni [62] e con me argomento di discussione nelle nostre passeggiate. I versi erano su per giù dei soliti, come ne facevano i giovani d’allora, che avean letto il Prati e gli altri moderni. Il Bracci aveva in famiglia qualche improvvisatore, credo il padre stesso; ed egli pure, se ben ricordo, fra le allegre brigate d’amici improvvisava. Nessuna meraviglia quindi che ne’ suoi versi ci fosse un po’ dell’improvvisatore; ma non c’era nessun sapore di classicità; l’espressione era poco meditata e lavorata; qualche verso non tornava; e poi quel titolo «Fiori e Spine» e l’elogio del Guerrazzi, che consigliava il poeta a studiare la poesia degli Alemanni, dei Polacchi, degli Scandinavi e dei Russi, tutto ciò ci fece uscire dai gangheri, e fece venire in testa al Gargani di scrivere una critica del volumetto del Bracci. Al che il Targioni ed io lo incoraggiammo. Il Carducci, appena informato da me di ciò, mi rispondeva: «Ho caro, anzi carissimo, che il Gargani attenda a riveder le bucce al Bracci: ci avevo pensato io: l’esame me ne distornò: del resto vorrei che fra noi facessimo giuramento di non lasciare impunito qualunque libretto di poesia sia per venir fuori da oggi in poi. Anche questo sarebbe un mezzo ad ispaventare la canaglia. La quale ho sentito dalla tua lettera legarsi a nuova offesa del nome italiano. Facciano: noi risponderemo alla loro strenna col libro nostro sul Pazzi e con articoli di critica. E sosterremo a mezza spada, finchè morte ne segua, [63] la scuola antica, e con lavori di nostro e con osservazioni su gli altrui; così, anche non potendo eseguire la intenzione nostra, ci valga e basti l’onore dell’aver protestato e francamente, giovani e soli, contro una irruzione straniera nelle lettere peggiore della irruzione straniera armata nel paese.»
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Inutile dire come queste parole aggiungessero sproni alla nostra voglia di battagliare. Il Gargani cominciò subito a scrivere la critica dei versi del Bracci, e giorno per giorno veniva leggendo al Targioni ed a me ciò che aveva scritto; noi facevamo le nostre osservazioni, assentendo più volentieri dove la critica era più feroce. Per noi era questione più che altro di sentimento, non era quindi e non poteva essere questione di serenità di giudizi. Perchè le punture della critica fossero più acute, il Gargani elesse pel suo discorso, anzi Diceria, com’egli la chiamò, la forma ironica, esaltando ciò che intendeva deprimere, deprimendo ciò che voleva esaltare. Il discorso gli si allargò per via, tanto che il Bracci divenne poco più che il pretesto per assalire tutta la letteratura romantica. Ma dove pubblicare il discorso? Era troppo lungo per un articolo di giornale; e difficilmente se ne sarebbe trovato uno a Firenze che volesse accoglierlo. Allora si pensò di stamparlo in opuscolo a spese nostre, cioè [64] degli amici. Il Carducci ai 5 di giugno mandava come contributo suo e del Pelosini quattro paoli, scrivendo: «Di più non possiamo per ora. Gli altri leopardiani (il Tribolati e il Bonamici) invieranno, spero, presto.» Come si vede, non eravamo ricchi.
Che cosa fosse la strenna che io denunziavo al Carducci come nuova offesa al nome italiano non ricordo esattamente: credo la strenna intitolata Il Giglio fiorentino, pubblicata appunto in quell’anno a Firenze dagli editori G. Riva e Comp. Era un volume in-8º di pag. 148; e fu compilata da Ferdinando Martini, che aveva allora sedici anni e che non vi mise il suo nome, ma vi mise innanzi una sua breve prosa, della quale più tardi fece giustizia da sè, scrivendoci su di sua mano: scritto asinesco. La copia dov’è questa giustizia è ora posseduta da Guido Mazzoni, che dandomene notizia aggiunge: «Del resto la strenna è come tutte le altre; tra i collaboratori anzi ve n’ha degli eccellenti: il Tommaseo, il Thouar, il Maffei, il Carcano, il Conti, l’Emiliani Giudici, il Borghi, ecc. E ci son lettere inedite del Giusti, del Giordani, del Gioberti.»
Probabilmente io avevo avuto notizia della strenna molto inesattamente dal Cavaciocchi; e su quella inesatta notizia avevo scritto chi sa che cosa al Carducci. Il nostro libro sul Pazzi doveva contenere sei canzoni sopra sei busti, che lo scultore amico nostro aveva, per nostro suggerimento, incominciato a modellare, con l’intenzione di scolpirli in marmo. [65] Erano i busti dell’Alfieri, del Parini, del Monti, del Foscolo, del Leopardi, del Giordani. Il Carducci avea già scritto la canzone pel busto d’Alfieri, che si legge nei Juvenilia, il Gargani scrisse quella sul Foscolo, che pubblicò più tardi con un’altra canzone, un idillio e dieci sonetti (Faenza, Conti, 1861), Francesco Donati (uno scolopio che avendo fino dai primi del 1856 conosciuto alcuni di noi, diventò subito amico di tutti) scrisse, ma non pubblicò mai, quella sul Parini.[Vedi le note a pag. 443] Quella sul Monti non rammento con esattezza a chi fosse assegnata: parmi al Carducci. Il Targioni ed io cominciammo, ma non finimmo, le nostre sul Leopardi e sul Giordani.
Il libro poi non si fece: e dei busti furono finiti, se ben ricordo, quelli soli dell’Alfieri, del Parini, del Foscolo e del Leopardi.
Ma fu finita e stampata in quattro e quattr’otto la Diceria del Gargani con questo titolo: «Di Braccio Bracci e degli altri poeti nostri odiernissimi, Diceria di G. T. Gargani, a spese degli amici pedanti.» Il nome di amici pedanti fu una trovata del Gargani, ch’ebbe subito la nostra approvazione.
***
Quando il Carducci, dati gli esami a Pisa, e fatta una visita alla famiglia, andò a Firenze, la Diceria era stata pubblicata allora allora, ed aveva, com’è [66] naturale, sollevato uno scandalo enorme. I nostri amici stessi (non pedanti, s’intende), con a capo il Nencioni, la condannavano. La condannava anche il Donati, che pure era classico quanto noi. Degli altri è inutile dire. Anzi il Nencioni, per mostrare che non partecipava al classico nostro fanatismo, pubblicò nello Spettatore alcuni versi Al Manzoni. Restammo a difendere la Diceria il Carducci, il Targioni ed io, che da quel momento fummo i soli veri amici pedanti. Non che non sentissimo anche noi quel che c’era in essa di esagerato e di irragionevole nella sostanza, di strano e di barocco nella forma; ma si trattava dell’onore delle armi; e quanto alla bontà del concetto fondamentale non avevamo e non ammettevamo alcun dubbio. Per un pezzo nelle nostre passeggiate e tutte le sere al Caffè Vitali in via Por’ Santa Maria battagliavamo fieramente con gli altri amici intorno alla Diceria. Tra quelli che più la vituperavano c’era un buon diavolo, che voleva passare per intendente di lingue orientali, anzi a dirittura per orientalista; che pubblicava, copiandole di su i codici che non sapeva leggere, scritture del trecento; che facea de’ versi come questi:
D’Alighieri nudrice,
Sua comedia felice-
mente divina a noi pose nel core:
Amammo, e dei mortali
Similmente immortali
Credevamo gl’intenti, e fu utopia.
[67]
Costui, un buon diavolo, come ho detto, che noi, specialmente il Nencioni, prendevamo un po’ in giro, non sapeva nominare la Diceria altrimenti che la Diceriaccia. Ferdinando Martini, che in un giornaletto La Lente pubblicava periodicamente il bollettino della salute del Gargani, la chiamò con più spirito la Su’ Diceria, alludendo alla poca eleganza, diciamo pure alla poca correttezza, del vestiario dell’amico nostro. Tutti gli altri giornali di Firenze, Lo Spettatore, Il Passatempo, La Lanterna di Diogene, L’Avvisatore, Il Buon Gusto, Lo Scaramuccia, L’Eco dei teatri, rovesciarono, con un accordo mirabile, un mucchio di scherni e di contumelie sopra il povero Gargani.
Il Passatempo, che nel suo n. 30 (26 luglio 1856) aveva pubblicato un articolo serio ma durissimo contro l’autore della Diceria, gli fece nel successivo n. 31 (2 agosto) la caricatura.[Vedi le note a pag. 443]
Il Gargani per una malattia avuta da ragazzo aveva perduto i capelli, e portava la parrucca. La figura di lui è ritratta al vivo dal Carducci con queste parole: «pareva una figura etrusca scappata via da un’urna di Volterra o di Chiusi, con la persona tutta ad angoli, ma senza pancia, e con due occhi di fuoco.» Nella caricatura fattagli dal Passatempo non c’è la più lontana somiglianza con lui. Egli è raffigurato, con un gran testone e gli orecchi [68] molto lunghi, seduto allo scrittoio nell’atto di scrivere la risposta ai giornali; intanto che un ragazzetto, il Passatempo, ritto sulla spalliera della poltrona ov’egli siede, gli toglie la parrucca lasciando scoperta la nuca, sulla quale si legge: Di Braccio Bracci e degli altri poeti odiernissimi. Sopra la caricatura è questo titolo: Il Passatempo e un pedante; e sotto, le parole che dice il ragazzo alzando la parrucca: — Vediamo che cos’ha in questo zuccone.... To! sembrava che ci dovesse avere un’altra Divina Commedia e invece....
***
Se l’articolo del Passatempo contro il Gargani era duro nella forma, e sgarbato appunto perchè serio, oggi sarebbe difficile non riconoscere che nella sostanza era in molta parte ragionevole. Ma gli amici pedanti si sentirono solidali, e forti della bontà della loro causa, si misero con ardore all’opera, e nel dicembre di quello stesso anno lanciarono, in risposta agli avversari del Gargani, un volumetto di 160 pagine col titolo: Giunta alla derrata. Il libro era composto di due parti. Parte prima: Ai poeti nostri odiernissimi e lor difensori gli amici pedanti; Parte seconda: Ai giornalisti fiorentini Risposta di G. T. Gargani, comentata dagli amici pedanti. Nella parte prima c’erano un preambolo, tre sonetti caudati in stile fra del Menzini e di Salvator Rosa [69] (1º Alla Musa odiernissima, 2º Ai poeti nostri odiernissimi, 3º Ai filologi fiorentini odiernissimi)[16] e due discorsi, per illustrazione al sonetto secondo, Della moralità e italianità dei poeti nostri odiernissimi; coi quali, a combattere il romanticismo, ci facevamo forti dell’autorità del Botta, del Rosmini, del Gioberti, del Niccolini, del Monti, del Giordani, del Foscolo, del Goethe e del Byron. Autore del preambolo e dei sonetti era il Carducci, ed anche estensore dei due discorsi, la materia dei quali era stata raccolta un po’ da tutti, ma sopra tutti da lui. La risposta del Gargani ai giornalisti era stata comentata dal Targioni e da me. In una delle note erano due sonetti miei a Victor Hugo e al Lamartine, che furono più tardi attribuiti al Carducci. Io poi feci ammenda di quel giovanile peccato studiando seriamente le opere di quei due scrittori contro i quali avevo blaterato senza conoscerli abbastanza.
In fine del discorso primo il Carducci narrava di un giovinetto conosciuto, diceva lui, da alcuno degli amici pedanti, «bella mente in vero e fortissimo cuore; e se allevato fra costumi e studi altri [70] da quelli che il secolo porta, nato ad amare ed operare santamente ciò ch’è bello e generoso.» «Al contrario, proseguiva, letti e studiati quei libri che oggi si leggono e si studiano, cotesto infelice a diciassette anni cominciava un suo dramma con un coro di streghe a questa maniera:
Or che strisciano fra’ lampi
I cavalli di Satano,
E del ciel pe’ negri campi
Mena tresca l’uragano;
Or che l’Alpi accende a festa
La bufera e la tempesta,
E sta dentro a’ nugoloni
La versiera ad ulular;
Tra le folgori e fra’ tuoni
Noi veniamo a cavalcar.
Odi: all’imo del burrone
Ove fondo è più il cammino
Tuona il bronzo del ladrone
E caduto è il peregrino.
Odi: un fulmine rompente
Sovra un capo ch’è innocente.
Odi: i figli desolati
Con la madre a lamentar.
Su la strage de’ creati
Noi veniamo a cavalcar.
Su, da bravo, Farfarello,
Mena l’anche, mena l’anche!
E tu, duce del bordello,
Capitano Malebranche,
A servirci di concenti
Reca tutti i tuoi tormenti.
[71]
O che danze argute e belle!
Che gentile armoneggiar!
O che vaghe damigelle,
Che soave cavalcar!
Ed intanto su le culle
Vengan lemuri cruenti
A succhiar membra fanciulle
In ferali abbracciamenti:
Cacci l’uomo sogghignando
Entro l’uom ferro nefando:
E sien coltrice i trafitti
Spose e vergini a stuprar.
Fra i dolori e fra i delitti
O che vago cavalcar!
»Nel medesimo introduceva un masnadiero a cantare nefandamente così:
Son masnadiero figlio del monte
Come la quercia di quel dirupo:
È la mia patria l’asil del lupo,
È la mia vita strage e tenzon.
Son senz’amore, senza speranza:
Ma son tremendo come la morte:
Il cuore ho duro, l’anima ho forte
Come la pietra di quel burron.
A me che importa se miei non sono
Quei verdi colli che il sol fa lieti?
Ma il vin che stilla da quei vigneti
Entro il mio nappo viene a brillar.
A me che importa se amor mi niega
La bella figlia del castellano?
Quand’ho sicuri pugnale e mano,
Quando al suo sposo la so strappar.
[72]
Quando il mio nome suona a que’ vili
Che traggon vita di pace e d’agi,
Dentro i tuguri, dentro i palagi,
Trema il villano, trema il baron.
Son masnadiero figlio del monte
Come la quercia di quel dirupo:
È la mia patria l’asil del lupo,
È la mia vita strage e tenzon.
»Di cotali cose non abbiam ricordo si scrivessero nel cinquecento, quando i giovani italiani studiavano in Petrarca in Boccaccio e nei latini che pur sono scrittori immorali: al secolo decimonono le scriveva a diciassette anni tale che aveva studiato in altri libri ch’io non vo’ nominare: e un anno dopo moriva disperato del ritrovare nel mondo quelle sensazioni selvagge ch’ei ci voleva trovare a ogni costo.»
Inutile dire che la storia e i versi del giovinetto erano pura invenzione del Carducci. Ho voluto riferirli (poichè la Giunta alla derrata è un libro oramai introvabile) a titolo di semplice curiosità.
***
Sulla fine di ottobre, quando il libro era quasi finito di stampare, il Carducci mi mandò da Santa Maria a Monte, dove era andato a passare una parte delle vacanze in famiglia, e dove io aveva promesso d’andare a trovarlo, un sonetto con la coda, da [73] stampare in grossi caratteri ed affiggersi alle cantonate, per avviso che il libro dei pedanti era uscito. Il sonetto fu poi stampato soltanto nella copertina di dietro del volume, e diceva così:
Voi avete a sapere, o fiorentini,
Che il libro de’ pedanti è uscito fuore:
Lo pubblicammo co’ nostri quattrini
Per Giovanni Campolmi stampatore.
Non vi sapremmo dire il gran rumore
Che ne faranno i nostri cittadini,
E lo schiamazzo il rovello il furore
De’ giornalisti grossi e de’ piccini.
Questo libro contien prima un avviso
O vuoi racconto, o vuoi prefazïone,
Con lettere venute dall’eliso.
Due Sonettesse che son due matrone
Ne vengon dopo, e con pulito viso
Si strascicano dietro un gran codone.
E seguita il trescone
Con un sonetto che ne vien da poi,
Ch’abbiam mandato a certi vostri eroi.
E per questi e per voi
Due discorsi ci son, che a certa gente
Piaceran molto ed a cert’altra niente.
Oh come è prepotente
E fiero in vista e savio a un tempo e matto
Un comento di poi ch’abbiamo fatto,
Per chiudere il contratto,
A du’ parole da Beppe Gargani
Mandate a dire a’ giornali toscani.
[74]
Da buoni italiani,
De’ politici nostri a gran dispetto,
Noi volemmo finir con un sonetto.
E questo vi sia detto,
Che di motti ve n’ha molte maniere,
E che a più d’un si danno le billere.
Il Franzi profumiere
Il Moro ed altri ve lo venderanno:
Rispetto al prezzo s’accomoderanno.
Or ite col buon anno:
E compratelo pur se lo volete;
Ch’io vi prometto che voi riderete.
Con la lettera, che mi portava il sonetto, il Carducci mi mandava anche il principio dell’ode Agli italiani, da lui scritta nel 1853 ed ora rimpastata, e mi parlava de’ suoi studi: «A proposito: molto ho studiato: ho letto quattro volte attentissimamente capitolo per capitolo tre libri del Guicciardini e uno del Machiavelli: tre volte parimente ho letto la Congiura dei Baroni, e preso da tutti estratti di fatti e di parole: ho studiato la filippica seconda, e il primo delle georgiche, e tutto Fedro: e ho riletto Orazio: ho messo insieme e da appunti miei e dalla memoria 256 osservazioni di lingua e di stile (latine e italiane). Il mio fardello filologico si accresce. Quanto studio in campagna, e quanto poco in città! seguitare a studiare come ho studiato in questi giorni (bada, sempre, sempre, sempre) e poi diverrei erudito.»
[75]
Seguiva la trascrizione dell’ode e poi il giudizio: «Non c’è male: la mistura dello stile è latina, ma francamente maneggiata: ed è delle mie poesie quella in cui meno si scorga l’imitazione. Preparami il tuo giudizio: a Firenze la sentirai finita.» La lettera si chiudeva con queste parole: «Son contento e lieto: bellissime giornate, che a me risplendono solamente dalle finestre: ho libri e fogli d’intorno.»
***
Il Carducci moriva di voglia di vedere stampata la Giunta; e sperava ch’io glie la portassi, andando a fargli la visita promessa; ma lo stampatore tardava, ed io andai senza il libro.
Arrivai verso sera, e trovai, venuto ad incontrarmi a piè della salita che conduce al paese, il padre di Giosue. Giosue, non ancora interamente libero delle febbri, che gli s’erano messe addosso poco dopo il suo ritorno in famiglia, era, per consiglio del padre, rimasto a casa. Io feci allora per la prima volta la conoscenza del dottor Michele e della sua famigliuola. Per quanto grande fosse la nostra intimità, Giosue non me ne aveva mai parlato: il poco ch’io ne sapeva, lo aveva appreso dal Nencioni e dal Gargani. Fatti molto alla buona i convenevoli d’uso, il Dottore ed io ci avviammo per la salita: egli parlava, ed io lo stava a sentire. [76] Nel breve tempo che impiegammo per arrivare a casa, egli mi aveva raccontata in brevi e crude parole la storia delle tre o quattro principali famiglie del paese. Per quel che ora posso ricordarmi, non mi fece grandi elogi di nessuna. Mentre passavamo di sotto alle case ove quelle famiglie abitavano, egli, con mia grande meraviglia, parlava ad alta voce, per modo che la gente ch’era lì sulla via poteva benissimo sentire. Avendogli io fatto qualche osservazione di ciò, mi rispose: Oh, non fa niente, lo sanno tutti ciò ch’io penso di loro!
In quel ridente paesello, che Giosue salutava indi a poco coll’affettuoso sonetto «O cara al pensier mio terra gentile,» che ora è il XXI dei Juvenilia, avea trovato, dopo tanto errare, modesta e quieta dimora la famiglia Carducci; quieta quanto consentivano il carattere forte e un po’ autoritario del padre, e i caratteri forti e indipendenti dei due figli maggiori, specialmente di Giosue. La famiglia era amata e stimata in paese, specie dalla gente del popolo; perchè il Dottore, nonostante i suoi modi un po’ bruschi, esercitava l’ufficio suo con amore e conoscenza e la signora Ildegonda, la moglie, era donna di una bontà rara, che si faceva conoscere e apprezzare al primo avvicinarla. Tutti sapevano che nei pericoli, in mezzo ai quali il Dottore si era più volte trovato durante i rivolgimenti degli anni 1848 e 1849, essa avea dato prova di coraggio e di forza d’animo singolari; tutti sapevano [77] ch’essa era stata ed era l’angelo tutelare della casa. Se l’ordine e la pace regnavano in essa, era in gran parte merito di lei.
Qualche volta a tavola le conversazioni degeneravano in dispute, e le dispute in questioni, specie se si parlava di cose letterarie, dove il Dottore aveva le sue idee fatte, che non erano, sappiamo, quelle di Giosue, e Giosue una competenza molto più grande, che gl’impediva, dato il suo carattere, di tollerare ciò che parevagli errore; ma a tempo e luogo interveniva la madre, per la quale Giosue ebbe sempre una grande venerazione, e una parola di lei impediva che la quistione degenerasse in vera e propria zuffa.
Il giorno dopo il mio arrivo, il Dottore mi menò a fare una passeggiata per la campagna, facendomi da Cicerone. Parlammo di molte cose, e naturalmente anche di Giosue, ch’era rimasto a casa, della sua malattia, del suo ingegno, de’ suoi studi, della sua prossima nomina a maestro nel Ginnasio di San Miniato al Tedesco. Si capiva che il padre conosceva il valore del figliuolo, che gli voleva bene, e in cuor suo n’era anche orgoglioso; ma non lo dava affatto a divedere; parlava di lui come d’uno che quasi non gli appartenesse, e manifestò anche l’opinione che avrebbe avuto corta vita. Se era un presentimento, fortunatamente fu falso. Parlammo anche degli altri figliuoli, specialmente del secondo, di Dante, il quale trovavasi un po’ a disagio in quel [78] piccolo luogo, dove non era facile che si facesse, come vivamente desiderava, una posizione.
Due giorni dopo, Giosue era affatto libero della febbre. Nel breve tempo ch’io mi trattenni ancora a Santa Maria a Monte, passammo le intere giornate passeggiando, conversando, leggendo. Leggevamo fino alla sera tardi prima d’andare a letto. Una delle nostre letture serali, o piuttosto notturne, furono i poemi didascalici del Rucellai e dello Spolverini. Quelle letture fatte in compagnia del Carducci erano per me di una utilità e di un piacere indicibili. Fin d’allora egli aveva una conoscenza della nostra letteratura poetica veramente meravigliosa.
***
Ai primi di novembre tornammo a Firenze per dare l’ultima mano e l’ultima spinta alla pubblicazione della Giunta alla derrata; ma ci trovammo dinanzi un ostacolo impensato, che durammo molta fatica a vincere: le sùbite paure del Targioni, che nientemeno voleva sopprimere il libro, per risparmiare, diceva, a sè ed a noi un processo e la prigione. Finalmente, come Dio volle, il libro uscì; ma il Carducci non potè assistere alla pubblicazione e al chiasso che doveva suscitare, perchè, venutagli appunto allora la nomina di maestro a San Miniato, dovè subito recarvisi a cominciare [79] la scuola. Gli mandammo là il libro, ed egli rispondendomi dolevasi che non gli avessi detto niente dell’accoglienza fattagli dai giornali. «E che tacciono questi canterini dalle golette fangose? Che il libro fu forse l’offa tremenda? Oh, oh, oh, direbbe Macbeth. Scrivimi subito, per Iddio Apollo. Non imitar me tristo annoiato infelice.» Mandava tre paoli per il libro, scusandosi di non potere di più perchè diceva: «Ho solamente 77 lire il mese.» Era questo il suo stipendio di insegnante, che ridotto dalle lire codine alle italiane, fa 64,68; cioè poco più di due lire al giorno, la paga di un onesto facchino. In quei primi giorni si trovò male a San Miniato: «Non ho voglia, mi scriveva, di parlarti della mia vita, ch’è trista e goffa assai.» Ma non era il misero stipendio che lo angustiava: era la novità del luogo, l’aver lasciato Firenze, le biblioteche, i banchetti dei librai, gli amici. Tanto è vero che qualche giorno dopo mostravasi più sereno, e scusandosi del non aver risposto ad una lettera del Targioni, mi scriveva: «Gli dirai che mi perdoni: ma in quel tempo che mi scrisse era impossibile mi distornassi dalla mia scuola. Insegno greco: evviva: faccio spiegare Lucrezio ai miei ragazzi: evviva me.»
Io non gli avevo scritto niente dell’accoglienza fatta al nostro libro dai giornali, perchè questi non ne avevano ancora parlato. Ma non tardarono molto; e le accoglienze, come era da aspettarsi, furono [80] tutt’altro che oneste e liete; ci fu però una notevole differenza fra queste e quelle fatte alla Diceria.
Le intemperanze nostre avevano spaventato siffattamente i buoni fiorentini, che i librai ebbero sulle prime paura del nostro libro, e, quasi fosse appestato, non volevano prenderlo a vendere.
Ma quando, superate le prime avversioni, il libro fu conosciuto, molti di quelli stessi che avevano vituperato la Diceria, e seguitavano a non mandarla giù, resero giustizia, pur non approvando tutte le nostre opinioni e la fierezza delle nostre polemiche, alla serietà dei nostri studi e intendimenti: e l’ingegno del Carducci cominciò fin d’allora, nella cerchia ristretta di una parte dei toscani così detti culti, ad essere riconosciuto e rispettato.
***
Per quanto l’autore nominale e occasionale della società degli amici pedanti fosse il Gargani, il vero capo e ispiratore di essa era, si capisce, il Carducci; la cui vita letteraria cominciò, si può dire, fin d’allora, con quelli istinti di avversione ed opposizione ad ogni volgarità e viltà e ciarlataneria, che hanno ispirato e diretto poi sempre l’opera sua di scrittore. Tanto che, arrivato presso alla fine, egli ha potuto affermare con piena sincerità, che i principii da lui seguiti scrivendo, furono sempre gli stessi. «In politica, l’Italia su tutto: in estetica, la poesia classica su [81] tutto: in pratica la schiettezza e la forza su tutto.»[17] Che è quanto dire l’italianità su tutto. Questo era il programma degli amici pedanti: il Carducci che lo avea formulato lui nella Giunta alla derrata, non fece che esplicarlo ed applicarlo in tutte le sue opere come poeta, come prosatore, come insegnante.
Non mette conto parlare di qualche giornalettucciaccio teatrale, scritto da gente peggio che illetterata, il quale seguitò a blaterare contro il Gargani e gli amici pedanti. Chi se ne ricorda più? Ma un di quelli che andava per la maggiore, il Passatempo, seguitò anche lui e peggio degli altri.
C’era la sua ragione. Il Passatempo era un giornaletto settimanale umoristico, con caricature, fabbricato quasi clandestinamente in Palazzo Vecchio, fra i Ministeri dell’istruzione e dell’interno, da Pietro Fanfani ed alcuni accoliti suoi; i quali prima che uscisse la Diceria avean fatto l’occhio dolce ad alcuni di noi, e qualche grazioso invito a collaborare; perchè il Passatempo avea nel suo programma il corretto scrivere italiano, anzi toscano, anzi fiorentino. Ma uscita la Diceria, e mentre si preparava la Giunta, il Fanfani e i suoi compagni capirono dall’atteggiamento nostro che noi eravamo dei rompicolli, il cui contatto poteva essere pericoloso per impiegati fedeli del Governo granducale, e che eravamo tomi da rivedere le buccie, anche nel fatto [82] della lingua, a vocabolaristi e linguisti famosi come il Fanfani. Perciò si schierarono bravamente contro di noi. Il Passatempo pubblicò subito nel suo n. 46 (29 novembre 1856) un feroce articolo contro la Giunta alla derrata, che chiamava un miserabile affastellamento di arroganti contumelie e di bizze impotenti, dichiarando che si teneva onorato delle villanie degli amici pedanti, e che non voleva dar loro il gusto di nessuna risposta; ma viceversa rispondendo con l’articolo stesso. Del che accortosi, terminava così: «Ma adagio adagio darei a queste parole aria di risposta, e così la darei vinta a’ pedanti, dal che Dio mi guardi. La risposta se la daranno da sè medesimi se mai avviene che mettan giudizio, la qual cosa per altro è assai dubbia.»[Vedi le note a pag. 443] Pur troppo i pedanti non misero giudizio: seguitarono ancora a scrivere e combattere con le medesime idee per le medesime idee; e il Passatempo, che non voleva più occuparsi di loro, seguitò a gratificarli de’ suoi vituperii, pigliando di mira in particolar modo il Carducci, specie dopo ch’egli nel luglio dell’anno appresso ebbe pubblicato il volumetto delle sue Rime.
***
Della sua vita a San Miniato il Carducci ha dato da sè uno specimen tale, che non permette ad un [83] suo biografo, chiunque ei sia, di dirne altro. Chi non ha letto in Confessioni e battaglie le Risorse di San Miniato al Tedesco? Se qualcuno non le ricordasse, vada e le rilegga. Io qui mi limiterò a rammentare da quello scritto qualche fatto più notevole, usando, quanto mi sarà possibile, le parole stesse dell’autore.
Insieme col Carducci andarono al Ginnasio di San Miniato gli altri due normalisti raccomandati dal professore Pecchioli al proposto Conti, Pietro Luperini e Ferdinando Cristiani. Pietro, il più anziano dei tre e il più positivo, dice il Carducci, insegnava umanità (terza ginnasiale); Ferdinando grammatica (seconda e terza); il Carducci retorica (quarta e quinta); cioè faceva «tradurre e spiegare a due ragazzi più Virgilio e Orazio, più Tacito e Dante che potessero; e buttava fuor di finestra gl’Inni sacri del Manzoni.»[18]
Appena arrivati, i tre maestri «si accontarono con una brigata di giovinotti, piccoli possidenti e dottori novelli, che passavano tutte le sante giornate a mangiare e bere, a giocare, amare, dir male del prossimo e del governo.»[19] Questi giovinotti andavano spesso a trovare i maestri, che abitavano, tutti insieme e tutta loro, una casetta nuova subito fuori Porta fiorentina, appigionata ad essi da un [84] oste, detto Afrodisio, il quale provvedeva ai maestri anche il mangiare. La casa dei maestri, come il vicinato la chiamava, cominciò presto ad aver «mala voce all’intorno per i molti strepiti che vi si udivano di notte e di giorno, ogni qualvolta l’allegra compagnia la invadesse.»[20]
«Qualche volta, scrive il Carducci, andavamo anche alla méssa, in domo; e una di quelle mésse m’è ancora in memoria per la lieta illustrazione di certi quadri o affreschi, che il capo più ameno della brigata recitava, menandomi in giro per le navate, in istil bergamasco, contraffacendo il parlare d’una venditrice di castagne compatriotta del poeta Bernardino Zendrini, e con un sistema critico di perpetua comparazione tra la figura di san Giuseppe e quella del sotto-prefetto, che, tutto in nero, ascoltava il divino ufficio nella prima panca.
»Hinc mihi prima mali labes. Da cotesta bergamascata e dalle mie smargiasserie di antimanzonianismo mi si levarono intorno i fumacchi, e ben presto mi avvolsero e tinsero tutto, d’una leggenda d’empietà e di feroce misocristismo. Assai prima che l’imperatrice Eugenia avesse a inorridire su i grassi venerdì santi del principe Girolamo Napoleone e dell’accademico Sainte-Beuve, corse per Valdarno una spaventosa voce, che io il venerdì santo del ’57 fossi sceso da San Miniato alla taverna [85] del piano, e all’oste sbigottito avessi fieramente intimato: Portami una costola di quel p.... di Gesù Cristo. È vero che in quell’anno io andavo pensando o andavo dicendo di pensare un inno a Gesù con a motto un verso e mezzo di Dante, Io non so chi tu sie nè per che modo Venuto se’ quaggiù; ma è anche vero che quel venerdì santo io ero a Firenze, e quei mesi studiavo appassionatamente Iacopone da Todi e annunziavo a tutti la sua gran superiorità su ’l Manzoni e lo salutavo Pindaro cristiano, e composi una lauda al Corpo del Signore. Il che tutto non impedì che non mi fosse avviato un processo; e un processo di tal materia a quegli anni in Toscana poteva menar lontani. Per fortuna che del ’57 anche c’era in Toscana, pur all’ombra della cappamagna di santo Stefano, del buon senso parecchio e dell’onestà.»[21]
***
Il Carducci parla poi delle visite che nelle belle domeniche d’aprile, di maggio e di giugno gli andavano a fare da Firenze il Nencioni, il Gargani e il Chiarini, del chiasso e delle bizzarrie che facevano, lui specialmente e il Gargani; d’un suo amoretto, che non durò, dice lui, cinque giorni; e finalmente della proposta di stampare le sue poesie, [86] fattagli un bel giorno dal Cristiani, per potere col guadagno ch’ei ne sperava pagare i loro debiti all’oste e al caffettiere.
«Le poesie, scrive il Carducci, massime allora, io le faceva proprio per me: per me era de’ rarissimi piaceri della mia gioventù gittare a pezzi e brani in furia il mio pensiero o il sentimento nella materia della lingua e nei canali del verso, formarlo in abozzo, e poi prendermelo su di quando in quando, e darvi della lima o della stecca dentro e addosso rabbiosamente. Qualche volta andava tutto in bricioli; tanto meglio. Qualche volta resisteva; e io vi tornavo intorno a sbalzi, come un orsacchio rabbonito, e mi v’indugiavo sopra brontolando, e non mi risolvevo a finire. Finire era per me cessazione di godimento, e, come avevo pur bisogno di godere un poco anch’io, così non finivo mai nulla.»[22]
La risposta del Carducci al Cristiani aspettante, e che pur tacendo parlava, fu un bel no; e il Cristiani se ne andò, scrollando la testa. Ma l’oste e il caffettiere tempestavano coi loro conti; il tipografo, messo su dal Cristiani, offeriva un’edizione economica e trattamento da amico; e così andò a finire che il Carducci cedè, e la stampa delle sue poesie fu deliberata.
Se gli amici nelle belle domeniche d’aprile, di maggio e di giugno andavano a San Miniato a trovare [87] il Carducci, anch’egli, quando avea due o tre giorni di vacanza di seguito, andava a Firenze a trovare gli amici. Il 19 febbraio mi scriveva da Santa Maria a Monte, dove fino dal giovedì grasso era andato a cercare della caccia da portare a Firenze per fare un desinaretto cogli amici: «Sabato il giorno sarò a Firenze con quattro grossi e belli uccelli di palude, dei quali tre moriglioni e un’arzavola da farne un umido stupendo. Voi preparate, se si deve fare il pranzo domenica.» Mentre scriveva era di così cattivo umore, che neppure l’idea del pranzo bastava a rasserenarlo. «La inerzia mia, proseguiva, è grande: la noia della vita è giunta a tal grado che io non posso sopportare più me stesso: io non faccio più nulla: non farò più nulla: tutto è vanità, anche la letteratura e la gloria. Perchè perdere il mio tempo e la mia salute a far commenti e poesie? No, non faccio più nulla e non farò più nulla: e faccio bene.» Era uno di quei momenti di scontentezza da cui il Carducci non di rado era preso, ma che fortunatamente passavano presto: e contribuiva sopra tutto a farli passare lo studio e il lavoro. Venne, si fece il pranzo, che fu lietissimo, e passammo insieme lietamente gli ultimi giorni di carnevale. Tornato a San Miniato, scrisse nel marzo l’ode alla beata Diana Giuntini, e attendeva a correggere e finire le altre poesie che voleva stampare.
Il primo d’aprile, mandandomi il manifesto per la pubblicazione del volumetto mi scriveva: «Jacta [88] est alea! Il manifesto per le mie Rime toscane è stampato: nè posso più ritrarmi. Pensa a persuadere il Targioni che la cosa non è fatta male, avuto riguardo a’ debiti grandi ch’io mi ritrovo. Per l’amor di Dio, non mi fate rimprovero ora perchè altramente troppo pensiero me ne piglierebbe.... Il libro sarà composto di una prefazione in prosa lunga assai, di una prefazione in versi: poi, 1º libro, sonetti: 2º libro, odi: 3º libro, ballate: 4º libro, canti. — Due altri sonetti ho fatto, e finito secondo il costume pagano l’ode alla beata Diana, che è la più di gusto antico fra le mie odi oraziane. Il tutto sentirete a Firenze, chè ora non ho voglia di scrivere più oltre.»
***
Nel maggio lavorò moltissimo a compiere e correggere le poesie da mettere nel volumetto, del quale aveva già cominciato la stampa, e a comporne delle nuove. Prima del 20 aveva finito l’ode Agli Italiani, e aveva scritto, fra altri versi, il principio del Canto alle Muse, che, mi scriveva, «per l’anima d’Omero, sono i migliori versi ch’io abbia mai fatto.» E anche a me quando poi me li mandò manoscritti, parvero bellissimi, e glie ne scrissi lodandoli entusiasticamente. Ho voluto ora rileggere il lungo frammento intitolato Omero, ch’egli accolse poi nelle edizioni successive delle poesie; e (perchè [89] non dirlo?) ho trovato giustificabile e giustificato il mio giudizio entusiastico di quarantacinque anni fa. Quei versi mi paiono ancora belli quanto i più belli del Foscolo; ma si capisce che, se non ci fossero stati prima il Foscolo, il Monti e il Leopardi, il Carducci forse non li avrebbe scritti, certo non li avrebbe scritti a quel modo. Il 26 mi mandava le prove di stampa dei sonetti, che allora erano 28, e furono ridotti a 25; il 6 giugno avea finito l’ode A Febo Apolline, cominciata il 25 novembre 1851 a Firenze, e ripresa soltanto a San Miniato nel dicembre 1856.
Nel luglio ebbe per un momento l’idea di prender parte al concorso allora aperto per la cattedra di eloquenza italiana nell’Università di Torino. «Se vi fossero nomi famosi, mi scriveva, non avrebbero aperto il concorso: io avrei caro di sapere se vi paresse audacia il presentarmi anch’io.» Io non so che cosa gli rispondessi; ma probabilmente l’idea gli passò via subito ed egli non ne fece altro.
Mentre attendeva alla stampa delle poesie, che fu compiuta in poco più di due mesi, dal maggio al luglio (il volume fu pubblicato il 23), era agitato da sentimenti diversissimi, ora di eccessiva depressione, ora di esaltazione non meno eccessiva. L’8 di giugno mi scriveva: «Poco importami vedere il mio nome stampato in cima a una ventina di componimenti, che pochissimi intenderanno, due o tre leggeranno sbadigliando senza intendere, tutti disprezzeranno, [90] e più quelli che meno li avranno intesi! Ahi stoltezza stoltissima tutto, e lo studiare e il credere alla fama e il desiderarla, e più grande stoltezza stoltissima il credere e pretendere di pensare bene soli fra milioni che ridono o compatiscono, e dirlo in faccia a cotesti milioni, e pigliarci il maledetto sdegno. Ragazzaccio impertinente, avrebbon ragione di dirmi gl’italiani, e chi se’ tu che col latte ancor su le labbra pretendi sedere a scranna e insultare noi venticinque milioni? Degna tua punizione il sorriso e lo scappellotto. Sta bene! E io, siccome quegli che fo un gran gridare con picciolette forze, a mo’ della rana e della cicala, dovrei pigliarmi lo scappellotto, e buci. Presunzione da ragazzi: per dire a un secolo intero, tu fai male, altre faccie voglionsi che la mia, altri studi, per Dio! Or sia così, e gl’italiani mi deridano e mi piglino a scappellotti; bene sta: nè io fiaterò. Orgoglio! come se gl’italiani volessero curarsi del librettuccio mio, il quale dalle mani di pochi ragazzi e giovanetti passerà, come dicea fra Gargani, a formare aquiloni a’ fanciulli, e anime a dipanar gomitoli alle signorine.»
***
Con una lettera successiva, annunziandomi che la stampa del libretto era finita, e giurando e spergiurando che, salvo il Mamiani, il Gussalli, il Ferrucci, [91] il Mordani, il Tommaseo e il Thouar (solo tra’ fiorentini), nessun altro dovea averlo in regalo, diceva tra le altre cose: «O belve di trecentomila capi, Giosue Carducci non vi presenterà il libretto suo, perchè gli diciate che è un giovane di buone speranze, se si converte alla buona filosofia. No, bestioni, io sputerò in faccia alla vostra filosofia: e vo’ credere nelle Muse e in Apollo sempre: e quando sarò per morire mi farò leggere Omero: e non sia vero che intorno a me siano preti. Mi farò bruciare sopra un rogo di legna di pino, a cui sottostaranno tutti i miei libri. Sì, sì, viva Apollo Febo lungioprante, Patareo, Delio, Cinzio, e moia chi dice di no.... Per Iddio Apollo, di’ ch’io credo assolutamente nella religione d’Omero, e che io non iscrivo di mitologia per imitazione o perchè sia uno scolaretto, ma perchè credo che vera poesia, hai inteso, vera poesia non è che là.»
All’ultim’ora il Carducci dimise il pensiero delle due prefazioni, una in prosa e l’altra in versi, della divisione delle poesie in quattro libri e d’una piccola introduzione esplicativa dei saggi del Canto alle Muse, che doveva essere indirizzata al maestro suo Michele Ferrucci; e il libretto uscì composto soltanto di venticinque sonetti, di dodici Canti e dei detti Saggi di un Canto alle Muse. Tra i Canti erano comprese due ballate di stile antico e la Lauda spirituale per la processione del Corpus Domini. Una delle ballate, La bellezza ideale, era dedicata [92] al Padre Barsottini, l’altra, Ultimo inganno, a Francesco Donati delle Scuole Pie, la Lauda spirituale a Giulio Cavalocchi; alcuni sonetti e la maggior parte dei Canti erano indirizzati o dedicati ad amici (Chiarini, Tribolati, Nencioni, Targioni, Buonamici, Pazzi, Cristiani, Gargani, Panicucci); i saggi del Canto alle Muse erano dedicati a Michele Ferrucci. Era premessa alle poesie questa dedicatoria: «A voi| Giacomo Leopardi e Pietro Giordani| viventi| queste mie rime| come ad autori e maestri| offerto avrei vergognando| le quali parmi ora superbo| consecrare| alla memoria di voi grandissimi| io piccolissimo.|»
Inutile dire che lo scopo del libro, quello cioè di pagare i debiti, non fu raggiunto. «I debiti, scrive il Carducci, anzi che estinguere, dilagarono,» tanto che dovettero intervenire i babbi e le mamme a pagarli; «e le Rime rimasero esposte ai compatimenti di Francesco Silvio Orlandini, ai disprezzi di Paolo Emiliani Giudici, agl’insulti di Pietro Fanfani.»[23]
Alla fine d’agosto il Carducci abbandonò San Miniato, per andare a passare alcuni giorni in famiglia a Santa Maria a Monte, e di lì si recò nella prima metà di settembre a Firenze.
[93]
Nomina del Carducci a professore nel Ginnasio d’Arezzo, non approvata dal Governo. — Critiche alle Rime del Carducci. — Sonetti satirici del Carducci. — Sonetto del Fanfani contro il Carducci. — Il Momo. — Il trionfo di Farfanicchio e la caricatura degli amici pedanti. — Una lettera del Guerrazzi. — Giudizio del Carducci intorno ai suoi critici. — Il Carducci si stabilisce a Firenze. — Francesco Menicucci. — Riunioni serali degli amici pedanti. — Morte improvvisa di Dante Carducci. — Il Padre Consagrata (Francesco Donati). — Riunioni e letture serali in casa Chiarini. — Il Carducci e Gaspero Barbèra. — I primi volumetti della Collezione Diamante, curati dal Carducci. — Polemica col Passatempo per una poesia di Isidoro Del Lungo. — Morte del padre del Carducci. — Giosue porta la famiglia a Firenze. — Prime speranze della guerra per l’indipendenza. — Gli amici pedanti fondano Il Poliziano. — La canzone A Vittorio Emanuele. — Il Carducci prende moglie. — Riunioni al caffè Galileo. — Silvio Giannini, l’ode Alla croce di Savoia e il Salvagnoli. — Nomina del Carducci al Liceo di Pistoia. — Nascita della figlia Beatrice. — Nuovi volumetti della Collezione Diamante. — Il Carducci a Pistoia. — Louisa Grace-Bartolini. — L’ode Sicilia e la rivoluzione. — «Oh i codici del Poliziano e dei poeti antichi in Riccardiana!» — Il ministro Mamiani offre al Carducci la cattedra di lettere italiane all’Università di Bologna.
Lasciando San Miniato, il Carducci era deciso di non tornarvi, e perciò aveva concorso ad una cattedra nel Ginnasio municipale d’Arezzo. Vinse il concorso, [94] e fu nominato; ma le accuse d’empietà e di liberalismo, che dalle autorità politiche di San Miniato erano giunte al Governo granducale contro il giovane insegnante, furono cagione che la nomina di lui non fosse approvata. Era allora impiegato al Ministero della istruzione Pietro Fanfani, furibondo contro il Carducci e gli amici pedanti, che non gli avevano risparmiate e non gli risparmiavano critiche e canzonature.
Il Fanfani era stato fino allora in Toscana una specie di dittatore nelle cose della lingua; e gli amici pedanti, mettendo in mostra gli errori che, appunto nel fatto della lingua, si trovavano nei suoi libri (la maggior parte dei quali commenti e postille ad opere altrui), erano stati cagione che l’autorità e la fama di lui ne erano rimaste un po’ scosse. E poichè non v’è arme più terribile a ciò del ridicolo, il Carducci s’era divertito e si divertiva a lanciargli contro i suoi sonetti burleschi: avea scritto proprio per lui quello della Giunta alla derrata «Ai filologi fiorentini odiernissimi»; e, venendo nel settembre a Firenze, ne aveva portato con sè un altro composto allora allora a Santa Maria a Monte, intitolato Pietro Fanfani e le postille.
Anche a Firenze seguitò a comporne altri, che sono rimasti inediti, un de’ quali mi rammento che cominciava:
Ser Fanfana, buon giorno! Urla il Ricordo
Che tu gli hai strazïato una edizione;
[95]
Grida Barbèra: Or ve’ filologone
Che con le concordanze è mal d’accordo.
Il sonetto alludeva appunto agli errori che gli amici pedanti avevano trovato in alcuni libri curati dal Fanfani per gli editori Ricordi e Barbèra.
***
La guerra accesa dalla Diceria e dalla Giunta, invece di posare, si era rinfocolata più terribile e più accanita dopo la pubblicazione delle Rime del Carducci, sulle quali i giornali e i giornalisti avversari degli amici pedanti, con a capo il Fanfani, si erano gettati rabbiosamente, facendone uno strazio bestiale.
Bestiale, perchè, pur ammesso che il giudizio dei critici potesse essere in parte traviato dalle bizze personali, le più di quelle critiche dimostravano l’assoluta incapacità nei loro autori d’intendere poesia. E gli amici pedanti, i quali erano in buona fede convinti che nelle Rime ci fosse la rivelazione di un ingegno poetico vero, e che ciò che i critici vituperavano e schernivano fosse appunto la rivelazione di quell’ingegno, non erano disposti ad ammettere che in quelle critiche ci potesse essere niente di ragionevole.
Del Carducci è inutile dire se gli prudevano le mani. Egli aveva specialmente allora una gran voglia [96] di scrivere poesie satiriche, ed era tutto contento quando gli se ne porgeva occasione.
Appunto in quel tempo, fra l’anno 1857 e il 1858, compose la maggior parte dei sonetti burleschi, che sono ora raccolti nel libro V dei Juvenilia, ed altri che, come ho accennato, rimasero inediti. Gli stampati ad eccezione dei primi tre e di quello Sur un canonico che lesse un discorso di pedagogia, si riferiscono tutti alle scaramuccie degli amici pedanti col Fanfani e gli altri scrittori del Passatempo.
Il Fanfani pubblicò le sue critiche alle Rime del Carducci, invece che nel suo giornale, in un altro, La Lanterna di Diogene, adducendo a ragione del suo scrivere lo scandalo suscitato, diceva lui, fra le persone serie da un articoletto laudatorio di esse Rime, nel quale il Carducci era chiamato il miglior poeta italiano dopo il Niccolini e il Mamiani. Quell’articoletto, firmato E. M., era stato scritto da un avvocato Elpidio Micciarelli, amico del Targioni, e pubblicato nella Lente; e pur nella Lente il Carducci rispose ai primi due articoli del Fanfani; il quale rincarò la dose delle impertinenze negli altri.[Vedi le note a pag. 453]
Oltre questi articoli, il Fanfani compose anche un lungo sonetto con la coda parodiando le Rime del Carducci. Poichè il Carducci saettava lui ed i suoi di versi satirici, anche i Passatempisti non vollero essere da meno. Non ricordo o non ritrovo se [97] il sonetto del Fanfani fosse pubblicato; credo di no: noi ne avemmo copia da Giulio Cavaciocchi, che bazzicando il Ministero della istruzione conosceva il Fanfani, e faceva come da gazzettino fra i due partiti belligeranti.
***
Ai tanti giornaletti settimanali, che pullulavano allora in Firenze, l’avvocato Micciarelli ne aggiunse nel gennaio del 1858 un altro, che battezzò col nome di Momo, e che mise a nostra disposizione. Nel n. 12 di questo giornale (26 marzo 1858) furono pubblicati i due sonetti satirici del Carducci, A Messerino e A Bambolone, che sono i LXXVIII e LXXX del libro V dei Juvenilia nella edizione delle Poesie. Ma nel giornale furono stampati con qualche leggera variante e con intitolazione diversa: Bambolone era chiamato Caracalla, e Messerino, Rondellone; e c’era innanzi ai sonetti questa minacciosa rubrica: «Sonetti due, cavati da un Ms. che sembra appartenere al secolo XVI exeunte, e che si trova, a cercarlo, nella Biblioteca di Parigi, dove altri molti ne sono di simiglianti.»
Sotto il nome di Caracalla si nascondeva uno dei consorti del Fanfani, canzonato dal Carducci nell’altro sonetto, Il Burchiello ai linguaioli (LXXVII, lib. V Juvenilia). Rondellone, o Messerino, era Giuseppe Polverini, editore e proprietario del Passatempo, [98] un buon diavolo, mezzo letterato anche lui, che, fregandosi al Fanfani e agli altri scrittori del suo giornale, s’era impolverato di letteratura e aveva scritto e stampato delle prose e dei versi. Il Cavaciocchi ci era venuto a riferire ch’egli andava dicendo di voler pagare dei ragazzi i quali, prendendo a fischi gli amici pedanti tutte le volte che uscivano per le vie, li costringessero a scappare di Firenze; e il Carducci aveva scritto il sonetto.
Quasi in risposta ai due sonetti del Carducci pubblicati nel Momo, il Passatempo nel suo n. 14, anno III (3 aprile 1858), pubblicava un sonetto caudato con questo titolo: «Il trionfo di Farfanicchio arcipoeta, o del Gigante da Cigoli, che abbacchiava i ceci con le pertiche: diceria in versi di un poeta che non è poeta.» Farfanicchio era, si capisce, il Carducci. Il sonetto, come gli altri scritti del Passatempo, non portava firma; ma era stato composto (sapemmo) da Antonio Fantacci, uno degli scrittori più ingegnosi e più culti del giornale, e, a differenza di quello del Fanfani, non mancava di spirito.[Vedi le note a pag. 453]
Lo stesso numero del Passatempo aveva in fine della quarta pagina la caricatura degli amici pedanti, cioè del Carducci, del Targioni e di me. (Il Gargani, da un pezzo fuor di Firenze, non aveva preso parte alle nostre ultime lotte.) In una specie di quadro erano disegnati su in alto i ritratti del [99] Manzoni, del Gioberti, del Grossi, del Tommaseo, e giù in basso gli amici pedanti, che inforcando dei cavallini di legno movevano in guerra contro quei grandi; da un lato il Targioni con in mano una targa, in mezzo il Carducci con in mano un cardo da cardare la lana, dall’altro lato io con una trombettina dal collo lungo e stretto.
Il Momo pubblicò più tardi, nel n. 26 (1º luglio), un articolo di lode sulle Rime del Carducci, togliendolo dalla Rivista contemporanea di Torino; e più tardi ancora, nei nn. 33 e 35 (19 agosto e 2 settembre), riprodusse un articolo, pure in lode delle Rime, composto da Giuseppe Puccianti, e già stampato in un giornaletto pisano, L’Osservatore. In questo giornaletto, compilato dal Puccianti stesso e da altri amici di Pisa, scrivevamo di tratto in tratto anche noi. Il Carducci vi pubblicò l’ode I voti con una mia breve introduzione e l’ode A Diana Trivia.
Gli attacchi del Passatempo contro gli amici pedanti in quell’anno 1858 non si limitarono al sonetto su Farfanicchio e alla caricatura. E prima e dopo, facendo la rassegna del Momo, ce ne diceva di tutti i colori. Ciò, lungi dal turbarci, ci metteva di buon umore, dandoci materia e occasione a proseguire la battaglia.
***
Ma non la pensava come noi il buon Silvio Giannini, che, amico ed estimatore del Carducci, vedeva [100] di mal occhio quelli attacchi feroci contro il giovane poeta. E sperando di farli cessare coll’intervento di un giudice autorevole, scrisse al Guerrazzi domandandogli il suo parere intorno alle Rime. Avuta la risposta, la mandò al Direttore del Passatempo, con preghiera di pubblicarla: e il Passatempo la pubblicò, per mostrare (così diceva un breve cappello premesso alla lettera) «che le cose dette contro il Carducci non furono dettate da animosità verso la sua persona, o da poca stima del suo ingegno, ma dal cruccio di vedere che egli il suo ingegno spendeva in misere dispute ed in servigio di una fanciullesca fazione letteraria che era lo spasso e lo scherno di Firenze.» Quest’ultima era una pretta bugia, poichè il Passatempo sapeva benissimo, e lo aveva detto e lo ripeteva, che il Carducci era lui il capo della fazione (se fazione poteva chiamarsi). La dichiarazione poi di stima al Carducci era tanto poco sincera, che il Passatempo d’allora in poi seguitò a blaterare contro di lui peggio di prima. Ne vedremo fra poco un saggio a proposito dell’ultima e fiera polemica che il Carducci ebbe con esso per una poesia di Isidoro Del Lungo.
Ecco la lettera del Guerrazzi al Giannini, che fu pubblicata nel n. 16, anno III del Passatempo (17 aprile 1858).
«.... Ho scorso le poesie del Carducci. Che posso dirgliene io? Penso che pessimamente adoperarono a suonargli le tabelle dietro: mi maraviglio della [101] insolita inurbanità e me ne affliggo pel mio paese. Ormai della fama di gentilezza più poco gli avanza; voglia pertanto tenerla cara. Di più: il giovane, il quale invece di commettersi alle dissipazioni coltiva gli studii, e non pure si mostra schivo, ma impreca ai vizii, facile e non irrimissibile peccato degli anni, merita conforto, e di molto, massime considerati i tempi. Quanto a lingua e a concetti, vuolsi adoperare carità e ammonimenti fraterni, non ira nè scherno, anco avendo ragione: ma i critici l’hanno? Le più volte no. Infatti, io mi sento poca cosa: non mi state a dire di no: io conosco benissimo quanto peso: nondimeno la Italia condotta alla liquidazione, mancatele le pezze di panno rosato, mette fuori i suoi scampoli, fondi di magazzino, e di questa ragione ciarpe, e ci entro anco io. Eppure, se lo rammenta, signor Silvio? A Livorno mi presero a fischi. Cosicchè; se la natura non mi avesse regalato un’anima di leccio, mi sarei ripiegato come un lombrico, e come lui, rannicchiato sotto terra. Io al Carducci avvertirei: Bada, figliuolo mio, dubito che tu erri in lingua, e in concetti; in lingua, che deve con lungo amore ricavarsi dai Classici, non per rimetterla cruda nei tuoi scritti, bensì per farne impasto il quale sia ben tuo, e fuso al tuo fuoco, e plasticato alla tua maniera: altra cosa è imitare, altra è copiare; anzi, neppure imitare mi garba, e tu copii, copiare è da scimmie; imita il comune degli uomini; l’ingegno forte, piglia e fa suo.
[102]
»Alla servilità della parola dà incitamento la servilità del pensiero. Imperciocchè, che abbachi mai con l’aura greca e con la latina? Io temo forte, che il tuo maestro non t’abbia soffiato sul cervello un’aura di pedanteria, e reso tale come una foglia di platano a mezzo novembre. Che concetti meschini, che pensieri scemi sono eglino questi? Tu non hai ad essere latino, nè greco, come nè anco francese o tedesco, bensì italiano, e dei tuoi tempi; perchè ogni letteratura deve porgere ai futuri testimonianza della età in cui fu. Non sentire come Orazio, non pensare come Pindaro: da te senti e pensa. Che grulleria è cotesta di spregiare quanto ignori? Inghilterra, Germania e (mirabile a dirsi!) la Scandinavia e la Persia possiedono tesori di poesia per splendore d’immagini, per squisitezza di sentimento, tali, appo cui impallidisce quanto conosci di greco, di latino, ed anco, ohimè! di italiano. Tutto guarda, tutto esamina; allargati la mente: la mente umana, meglio del Panteon, deve dar posto a tutti gli Dei. Medita, di nuovo medita; questo viene da volontà: e poi senti; e questo altro ti darà natura; e quando spirano dentro amore ed entusiasmo, nota, e sarai poeta; chè molto di favore ti compartiva il cielo. Di questo mi contento: leggi, prima di poetare da capo, il quarto canto del Fanciullo Aroldo di Byron; e poi ci riparleremo.
»Ecco come avrei ammonito il suo amico Carducci. Ed Ella perchè non lo ha fatto? E se nol [103] fece, e perchè non lo fa? Lo avvisi, lo conforti anche da parte mia, e rassicuri che le ali ei le ha; solo che sappia volare. Ami e veneri il suo maestro Ferrucci, ma cammini da sè.... Genova, 12 aprile 1858.»
***
Nella lettera del Guerrazzi erano, come si vede, molte osservazioni giuste; ed egli ebbe il merito di sentire l’ingegno del giovine poeta anche attraverso le imitazioni dei classici; ma non capì e non poteva capire come quelle stesse imitazioni fossero indizio di un ingegno che in esse e per esse cercava la via di riconoscere ed esplicare la propria originalità. Il povero Michele Ferrucci, sospettato dal Guerrazzi di aver soffiato nel cervello del suo alunno un’aura di pedanteria, era innocentissimo delle imitazioni oraziane del Carducci e della sua idolatria per i classici. Quelle imitazioni poi erano tanto poco effetto di pedanteria, che prepararono le Odi barbare; ciò che intravide il Mamiani.
Dove il Guerrazzi aveva ragione era nel rimproverare al Carducci il disprezzo per le letterature straniere; disprezzo forse più ostentato che vero, del quale il poeta si guarì ben presto da sè, senza però arrivar mai, credo, a persuadersi che la poesia scandinava e persiana fossero superiori alla latina e alla greca.
[104]
Dodici anni più tardi il Carducci, parlando delle sue poesie giovanili, e dichiarando che aveva riconosciuto quel che c’era di vero in alcune delle critiche fattegli, così riassunse e giudicò le critiche stesse:
«Tutti si accordavano nell’accusarmi d’idolatria per l’antichità e per la forma: pur taluno avrebbe usato misericordia all’aristocrazia del mio stile, se gl’inni a Febo Apolline e le odi a Diana Trivia non fossero apparsi in tanto folgorare di bello cristiano veri e propri peccati. I giornali teatrali poi si detter faccenda per insegnarmi la lingua: un maestro di scuola, che aveva dell’autorità in critica sbalordì la gente empiendo mezza una pagina del novero di tutti i classici da me imitati, fra i quali Pindaro, ch’io aveva così imitato com’egli letto: un sopracciò dei modi di lingua, autore di scritti lepidi che egli chiama, non si sa perchè, capricciosi, per certi versi sciolti nei quali ei pretendeva ch’io scimmieggiassi i greci, mi paragonò, parmi, ad Arlecchino: un terzo, molto affocato per la congregazione di San Vincenzio di Paola e scrittore di strofette religiose che dell’evangelio avevano l’umiltà e gli et, si affaticava a persuadermi come l’uomo anche in poesia conviene mostrarsi qual è, nè più nè meno: e io ne sarei andato d’accordo, ove non ci fosse stata di mezzo una difficoltà, ch’ei voleva ch’io mi mostrassi qual era lui: un quarto, critico e storico molto riputato, affermava fra amici che quel libretto [105] accusava il difetto assoluto d’ogni possibile facoltà poetica nell’autore.»[24]
Il critico e storico molto riputato era Paolo Emiliani Giudici; il sopracciò dei modi di lingua era (si capisce) il Fanfani; il maestro di scuola non mi ricordo se l’Orlandini, o il Bianciardi; dell’altro, che oggi nessuno ricorda, è inutile fare il nome.
***
Nei primi giorni del suo arrivo a Firenze il Carducci si alluogò per qualche tempo in alcune stanze a un primo piano di faccia alla casa abitata dalla famiglia Menicucci in via Mazzetta: quelle stanze erano state prese in affitto da uno della famiglia stessa; della quale Giosue era spesso ospite quando si trovava a Firenze.
Francesco Menicucci, un bel tipo di popolano fiorentino, degno d’essere vissuto ai tempi della repubblica, si era sposato in seconde nozze con una Celli sorella della madre del Carducci, ed aveva, tra altri figli del primo letto, una figliuola di nome Elvira dell’età presso a poco di Giosue. Bazzicando questi per casa fin da quando andava alle Scuole Pie, i due giovani si erano innamorati, e, poi, coll’assenso dei parenti d’ambo le parti, fidanzati. Il Menicucci, buono e brav’uomo, se altri mai, aveva nel suo salotto da [106] pranzo, fra i busti in gesso di Dante, del Machiavelli e d’altri grandi italiani, una piccola biblioteca storico-politica, e nella testa un gran guazzabuglio d’avvenimenti e d’uomini dell’antica Roma e di Firenze repubblicana; nomi e avvenimenti che poco o molto entravano sempre in tutti i suoi discorsi politici, e anche non politici. Egli aveva preso viva parte ai moti rivoluzionari del 1848; nei quali la sua gigantesca figura e l’anima bollente e irrequieta gli avevano naturalmente fatto rappresentare la parte di capopopolo. Una volta, mi fu detto, trascinò da sè solo un cannone dalla Fortezza da basso a non so quale altra parte della città; e si trascinava dietro, con la voce tuonante, coi gesti energici e con le grosse parole, il popolo, che a quei tempi era sempre per le strade a fare dimostrazioni. Inutile dire ch’egli aveva per Giosue un’ammirazione senza confini; e i discorsi di lui, ch’egli ascoltava avidamente, andavano ad accrescere il guazzabuglio di parole e d’idee che fermentava nella sua testa.
Gli amici pedanti erano soliti radunarsi la sera in casa dell’uno o dell’altro a leggere, a conversare, a disputare. Una sera si radunarono in casa Menicucci, dove Giosue aveva allora i suoi libri, e dopo una breve discussione si stabilì di leggere Orazio. Il Menicucci, ch’era presente, chiese il permesso di assistere alla lettura, dicendo: Io non so il latino, ma quella bella lingua mi piace molto a [107] sentirla leggere. Andammo nella stanza dove erano i libri, e quando la lettura stava per cominciare egli domandò sottovoce ad uno dei convenuti: Sono le poesie di Orazio Coclite?
Per lui stare a sentire i nostri discorsi era un gran piacere; e noi, che gli volevamo tutti un gran bene per la sua grande bontà, e per l’adorazione ch’egli aveva per il Carducci, sopportavamo volentieri i suoi discorsi anche quando, come spesso accadeva, non riuscivamo a cavarne gran costrutto.
Io che stavo vicinissimo a lui di casa, in via Romana presso la piazzetta di San Felice, lo incontravo spesso, ed egli mi fermava sempre per parlarmi di Giosue. Quando questi ebbe a San Miniato quell’amoretto del quale parla nelle Risorse di San Miniato al Tedesco,[25] una leggera nube turbò momentaneamente le relazioni di lui con la famiglia Menicucci. Durante quel breve tempo io credei che il povero signor Francesco volesse impazzire. Egli veniva a cercarmi quasi tutte le sere, aspettandomi quando io uscivo di casa, e non sapeva parlarmi d’altro: nei suoi discorsi c’entravano sempre, si intende, gli uomini di Plutarco, e qualche sentenza del Machiavelli, che non mi rammentavo di aver mai letta nelle opere del Segretario fiorentino. Io cercavo di acquetarlo e di assicurarlo che tutto si sarebbe accomodato; e ciò gli faceva un gran piacere.
[108]
***
Una mattina dei primi di novembre (1857) mi capita a casa il Targioni, commosso e spaurito. Io era sempre in letto. — Vèstiti subito, mi dice; dobbiamo andare da Giosue a dargli una triste notizia: suo fratello Dante si è ucciso. — Io non avrei dato fede a quelle parole, se la faccia di chi le pronunziava non ne avesse confermata pur troppo la verità. Andammo. Sentendo la nostra voce, Giosue saltò giù dal letto, e mezzo vestito venne ad aprirci: era ilare e lieto, e ci accolse scherzando: ma al nostro turbamento e alle nostre prime parole, si rannuvolò, capì che qualche grave sciagura doveva essere accaduta, e appena uno di noi pronunziò il nome di suo fratello, egli disse: Non mi nascondete la verità, è morto, si è ammazzato.
Andò per alcuni giorni a casa, ove scrisse la canzone Alla memoria di D. C.; e tornato a Firenze prese in affitto, nei primi del 1858, una camera mobiliata in via Romana al secondo piano della casa, dove al primo abitavo io colla mia famiglia.
Tornò triste e accorato, non pure della morte del fratello, ma delle condizioni in cui aveva lasciato la famiglia, specialmente il padre, che affranto dal tragico caso cadde malato e non si riebbe più.
Appunto per ciò bisognava vivere, bisognava cercare nel lavoro l’oblio dei mali, e il modo di affrontare l’avvenire che si avanzava scuro e minaccioso. [109] Ciò sentì istintivamente il Carducci, e riprese la sua vita di lavoro e di studio, con nessun altro diversivo che la compagnia degli amici e i colloqui con la fidanzata.
Passava tutto il suo tempo nelle biblioteche, e in casa a studiare e a scrivere, e dava qualche lezione. Una delle sue passioni più grandi erano i codici e le edizioni rare delle poesie antiche. Veniva fin d’allora preparando i materiali per quella mirabile edizione delle poesie italiane del Poliziano, che potè perciò compiere anche stando a Bologna. Noi ci vedevamo allora tutti i giorni, e le ore del pomeriggio e la sera le passavamo sempre insieme. Quando aveva scritto qualche cosa che voleva farmi sentire, picchiava nel pavimento, ed io che avevo la mia camera sotto la sua, mi affacciavo alla finestra, ed a lui già affacciato, dicevo: Ora vengo. Così sentii a uno a uno, appena composti, la maggior parte dei sonetti satirici contro i nemici degli amici pedanti.
Ho accennato alle nostre radunanze serali, a proposito di quella di casa Menicucci. Queste radunanze si tenevano ordinariamente in casa mia, e furono inaugurate il 17 febbraio 1858, prima sera di quaresima, e prima del simposio dei sapienti, come fu scritto a piè di certi versi burleschi composti in comune quella sera stessa; nella quale, invece del ponce, ch’era la bevanda di rito, si bevve un certo caffè, che doveva essere prelibato, e non fu niente di particolare.
[110]
***
Ma, prima di quel tempo, e dopo, qualche radunanza fu tenuta a San Giovannino nella cella del Padre Francesco Donati, il quale ci preparava colle sue mani dei ponci che rimasero famosi. Il Carducci li rammentava anche qualche anno dopo, andato a Bologna. In una lettera del 7 febbraio 1861 rileggo queste parole, che mi risvegliano molte dolci memorie. «Salutami di grandissimo cuore il gran Padre Consagrata, e digli come io spasimo per lui, ed amerei essere, piuttosto che qui in questo tristo giovedì grasso, nella sua cella a bere quei famosi ponci, come nel felice 1856 e 1857.» Padre Consagrata era il soprannome che il Carducci aveva messo per ischerzo al Donati, facendogli un sonetto, che ora dopo tanti anni mi rifiorisce nella memoria.
O padre Consagrata, io ti vo’ fare
In nova foggia una laudativa.
O Cecco mio da bene, o mio compare,
O padre Consagrata, evviva, evviva,
Evviva chi ti tenne a battezzare,
Chi t’allattava e chi ti rivestiva.
Oh quanti baci ch’io vorrei donare
A quella zana che ti custodiva!
O zana, che per tutta la giornata
Tenevi questo fiorellin d’amore,
Dico il mio Cecco, il padre Consagrata,
Io t’amo, o zana, con tutto il mio cuore,
E vorre’ ti vedere rinserrata
Entro un’urna d’argento a grande onore.
[111]
Al sonetto doveva seguitare una lunga coda, di cui non fu scritta che la prima strofe, che non ricordo interamente.
Il Donati, nato a Serravezza nel 1821, e fattosi scolopio a 24 anni, era stato chiamato nel 1856 a Firenze ad insegnare filosofia e matematiche in San Giovannino. Uomo di larga cultura, non solo letteraria, ma anche scientifica, coltivava, oltre gli studi matematici, quelli di scienze naturali; ma la sua passione più grande in quelli anni era la lirica toscana dei primi secoli. Studioso della bella lingua e dei canti popolari della sua Versilia, nei quali trovava tanta analogia con la lingua e la poesia toscana del trecento, scriveva sonetti, ballate e canzoni, ma sopra tutto ballate all’uso antico, con qualche contemperamento di moderno e di popolare. Ne scrisse molte, che rimasero tutte inedite, ad eccezione di due o tre d’argomento sacro, una delle quali sull’annunciazione della Madonna, stampata, parmi, a pochi esemplari. Alludendo a questo suo amore per la poesia antica, il Carducci, nella lettera con la quale m’incaricava di salutarlo, soggiungeva: «Digli che se egli, purista ferocissimo, mi tien sempre il broncio, a cagione dei decasillabi e dell’edizione del Rossetti (della quale però ho le mie buone ragioni), gli preparo un volumetto di — Rime di M. Cino e degli altri poeti del secolo XIV — raccolte da moltissimi libretti, e confrontate su molti e varii e preziosi libri stampati, [112] e scelte con tal gusto, che beato lui quando le vedrà.»
A mostrare l’agilità dell’ingegno e la larghezza di cultura del Donati, basterà ch’io dica ch’egli scriveva anche di filologia italiana con sicurezza di dottrina ed acume di critica, che pubblicò un Saggio di un glossario etimologico di voci proprie della Versilia, un Discorso Della poesia popolare scritta, e con un suo libretto molto singolare e ingegnoso propose una nuova maniera d’interpretare le pitture ne’ vasi fittili antichi.[Vedi le note a pag. 453] Anche lui, come il Gargani, come il Cavaciocchi, come il Nencioni, il Targioni ed altri amici e conoscenti nostri di quel tempo, non può leggere queste pagine, che io per tale rispetto scrivo con un grande senso di rammarico.
***
Oltre il Carducci, convenivano alle nostre radunanze del 1858 il Nencioni, il Cavaciocchi e il Targioni: il Gargani era allora a Volterra precettore in una casa privata. Leggevamo di preferenza l’Ariosto, il Berni, i canti carnescialeschi ed altre poesie antiche; ma nelle sere che la compagnia era al completo, oltre che leggere, si scherzava e si faceva del chiasso, un gran chiasso: s’improvvisavano, a un verso per uno, sonetti con la coda ed altre poesie [113] satiriche dirette sempre contro qualcuno dei letterati fiorentini, che avevamo già sferzati nella Giunta alla derrata, e che ora si sfogavano a dir male delle poesie del Carducci. In una delle sere di febbraio scrivemmo, ad imitazione dei canti carnescialeschi, un Canto di Lanzi che vanno a distruggere San Miniato, facendo così poeticamente le vendette dell’amico ch’era dovuto scappar di là perdendo il suo misero impiego. Quando eravamo il Carducci ed io soli, si studiava più sul serio, con piacere non meno grande: ho sempre viva nella memoria la sodisfazione ch’io provava traducendo con lui Omero.
In mezzo a questi svaghi, agli studi e alle polemiche letterarie, il Carducci fece la conoscenza di Gaspero Barbèra, al quale fino dai primi d’ottobre del 1857 aveva proposto una edizione di tutte le opere italiane di M. Angelo Poliziano. Il Barbèra aveva fondato da poco, in compagnia d’altri, una casa editrice, e cercava chi potesse lavorargli per la parte letteraria. Cosicchè fu felice di trovare nel giovane capo degli amici pedanti il collaboratore di cui aveva bisogno e che subito riconobbe prezioso. Dopo qualche primo esperimento, non molto fortunato, il nuovo editore aveva, per consiglio di un libraio torinese, iniziato, con la ristampa dei quattro poeti in formato e caratteri minuscoli, la sua Collezione Diamante, che fu accolta con grandissimo favore.
[114]
L’accoglienza favorevole lo incoraggiò ad aggiungere ai quattro poeti una giudiziosa scelta di scrittori classici italiani d’ogni età; ed offrì al Carducci di curargli la correzione filologica e tipografica del testo, annotando dove occorresse e facendo le prefazioni, mediante il compenso di cento lire toscane per ogni volumetto. Fu una fortuna per il Carducci e per il Barbèra. Il Carducci ebbe modo di indirizzare ad un fine determinato e proseguire i suoi studi letterari, ritraendone un lucro, benchè piccolo, a lui prezioso; il Barbèra fece lauti guadagni, che diedero stabilità alla sua casa, e gli permisero di allargare la sua industria con vantaggio della cultura. Due volumetti pubblicò in quell’anno il Carducci, le Satire e poesie minori di Vittorio Alfieri, e la Secchia rapita, iniziando con le due prefazioni che vi mise innanzi quel nuovo metodo di critica letteraria, storico ed estetico ad un tempo, del quale doveva indi a poco assurgere maestro a tutti, e maestro sommo.
***
Mentre stava scrivendo la prefazione alla Secchia rapita, ebbe quella feroce polemica col Passatempo, che già accennai, per una poesia di Isidoro Del Lungo intitolata il Trionfo della Croce. Non starò a riferire ciò che in questo proposito scrive il Del Lungo in una lettera a me, pubblicata nel [115] fascicolo di maggio 1901 della Rivista d’Italia,[26] al quale rimando i lettori. Dirò soltanto che l’autore anonimo degli articoli del Passatempo rispondeva agli argomenti del Carducci chiamandolo Iddiastro degli amici pedanti, e ridicolo Golia, minacciandogli i Paralipomeni della Nanea, dicendogli che stenterelleggiava, accennando alla sua audacissima dappocaggine, al suo orgoglio smisurato, alla sua vergognosa arroganza, tacciandolo di malafede, di sfoggiata slealtà, di abietti principii, trattandolo di malnato, di mentitore impudente, e conchiudendo che voleva far maciulla di lui. Certo il Carducci non aveva fatto delle carezze allo scrittore del Passatempo; gli avea dimostrato ch’e’ s’era messo a far lezione su materie delle quali non sapeva neppure gli elementi, e aveva detto che questo era un po’ da ciarlatano; gli avea squadernati sul viso gli spropositi suoi badiali e perciò lo aveva chiamato uomo di dura cervice; aveva accennato al mistero onde il Passatempo amava circondarsi e alle maniere da esso usate con certi galantuomini, e gli avea dato dell’animale anfibio e del villanzone tarchiato. Queste, diceva il Carducci, non sono ingiurie nè impertinenze; [116] perchè, secondo la definizione della Crusca, l’ingiuria è una offesa volontaria contro il dovere, e l’impertinenza un detto o fatto fuor di quel ch’appartiene al luogo al tempo e alle persone. Ma ciò su cui il Carducci insisteva, ciò che lo disgustava e indignava era la viltà dell’anonimo. Alla osservazione del Passatempo, che nel nostro paese era accordato il diritto di non firmare gli scritti, rispondeva che a ciò ripugnano il buonsenso e l’onore; ripugna il buonsenso, il quale ci dice che la legge non può volere che ogni vigliacco si faccia riparo dell’anonimo ad oltraggiare un galantuomo che firma; ripugna l’onore, perchè quando tu mascherato offendi altrui, e l’offeso t’invita a smascherarti, sei in dovere di farlo; e se nol fai, è segno che non puoi mostrare la faccia tua fra i galantuomini.
Il Carducci esponeva le cose che io ho accennate in un articolo pubblicato nel Momo del 1º luglio. S’intende che l’oltraggiatore, invitato a smascherarsi, fece orecchie di mercante. È questa la storia di tutti i vigliacchi, la cui progenie dura ancora vegeta e prospera nel nostro felice paese. Se non che oggi in certi casi all’anonimo si sostituisce la intervista, cioè una vigliaccheria in due, perchè l’uno dice, l’altro sconfessa, e qualche cosa della calunnia si spera che intanto rimanga. Alcuni chiamano ciò abilità politica: a me è sembrata sempre falsità bella e buona.
[117]
***
Una lettera del 15 agosto chiamò il Carducci a casa, al letto del padre suo moribondo. Ebbe la lettera nelle prime ore del pomeriggio: partì subito, ma lo trovò già morto. La notte di quel giorno stesso mi scrisse: «Era già spirato alle ore sei e mezzo. Che la sua malattia fosse mortale egli lo sapeva: e me l’avea detto l’anno passato quando ne fu colto la prima volta, e me l’aveva accennato lievissimamente in una lettera sua (l’ultima che mi facesse scrivere) del mese passato: e lo sapevo anch’io; ma così presto non credevo.» La lettera proseguiva descrivendo lo stato dell’infermo negli ultimi giorni, e si chiudeva così: «Pover uomo, si sentiva da un anno a questa parte disciogliere e mancare a poco a poco: lo sentiva e lo sapeva che dovea morire: ed è morto tanto quietamente, tanto securamente. Ed io non l’ho visto prima di morire, ed egli non ha visto me; e gli occhi suoi si sono chiusi desiderando i figliuoli lontani, ed è morto pensando che li lasciava soli e dispersi nel mondo, e che forse la sua povera vedova può mancare anche di pane, e che forse andremo tutti mendicando: e non aveva ancora cinquant’anni. Non è potuto sopravvivere al suo figliuolo.» Un poscritto aggiungeva: «Ti prego di dire a tutti i miei parenti che non venga nessuno: voglio esser solo: già tornerò prestissimo a Firenze ad accomodare le mie cose.»
[118]
Il padre del Carducci morendo lasciò al figliuolo per tutta eredità dieci paoli, come scrisse egli da sè rispondendo a chi lo accusava di non essere nel 1859 partito per la guerra della indipendenza.[27] Non è dunque a meravigliare ch’egli nel primo momento della disgrazia fosse assalito da tristi e scoraggianti pensieri; deve piuttosto far meraviglia ch’egli trovasse poi in sè il coraggio e la forza di affrontare serenamente, in quelle disgraziate condizioni, la lotta per la esistenza; tanto maggior meraviglia, quanto l’alterezza dell’animo suo lo fece allora e sempre aborrente dal domandare. Anche di questi giorni, pensando con compiacenza al tempo della nostra gioventù, mi scriveva: «Oh i nostri begli anni tanto presenti alla mia memoria! Allora non si pensava di farsi avanti e di farsi un posto. Si pensava a fare, a scrivere; e la fortuna, se venne, venne inaspettata; e noi non la sollecitammo davvero.»
Tornato a Firenze, vi trasportò indi a poco la famiglia, prendendo in affitto poche stanze in una casa in Borg’Ognissanti, a un piano molto in su, anzi a una soffitta; e seguitò a studiare e a lavorare con la medesima passione, con la medesima alacrità, non dico maggiore, perchè era impossibile.
[119]
***
«Il nostro patriottismo, scrissi altrove parlando del Carducci e degli amici suoi giovani, si rifugiava nella letteratura. Dante, il Petrarca, l’Alfieri, il Foscolo, il Leopardi erano i nostri Santi Padri. Nei loro scritti adoravamo, nel loro nome invocavamo la grande patria futura, un’Italia forte e gloriosa che avesse dell’antica le virtù senza i vizi.»[28] Ma anche seguivamo intenti con l’animo qualunque indizio di più o meno lontana speranza di liberazione della patria ci portassero gli avvenimenti politici, e gli scritti dei liberali italiani, esuli per grandissima parte in Piemonte; in quel Piemonte al quale, dopo la disgraziata fine dei moti degli anni 1848 e 49, erano volti gli occhi di quanti anelavano ad una riscossa. Negli ultimi anni del 1858 la guerra per la indipendenza d’Italia era il nostro discorso di tutti i giorni, ma in mezzo ai discorsi patriottici non dimenticavamo la letteratura: ci venne proprio allora il pensiero di smettere le polemiche letterarie nei giornaletti in foglio volante, e fondare un periodico di studi seri, tutto nostro. Il disegno ne fu ventilato fra il Carducci, il Targioni e me: si stabilì che il periodico sarebbe mensile ed avrebbe nome il Poliziano. Ci rivolgemmo per aiuto e consiglio [120] a quelli fra i letterati italiani, che sapevamo più favorevoli alle nostre idee; al Mamiani, fra gli altri, al Ranalli, al Gussalli, al Centofanti, all’Ambrosoli. Avemmo da tutti incoraggiamenti e conforti; e dall’Ambrosoli una lettera piena di savi avvertimenti e consigli, che pubblicammo nel primo fascicolo del giornale, il quale fece la sua comparsa nel mondo letterario il gennaio del 1859. Promisero e diedero la loro collaborazione il Gussalli, Raffaello Fornaciari, Francesco Donati (che vi pubblicò il suo Saggio di un glossario etimologico della Versilia), Giovanni Procacci, Giuseppe Puccianti e gli altri amici di Pisa, Pelosini, Tribolati e Bonamici. Lo scritto più notevole di tutto il giornale fu il Discorso d’introduzione del Carducci, Di un migliore avviamento delle lettere italiane moderne al loro proprio fine, stampato nei due primi fascicoli.
Oltre che per il Poliziano, il Carducci seguitava a lavorare per conto suo e a preparare altri volumetti per la Collezione Diamante del Barbèra. Ma gli avvenimenti politici incalzavano. Dopo le famose parole pronunciate da Vittorio Emanuele il gennaio 1859 nel Parlamento di Torino, inaugurando la nuova legislatura, fu chiaro a tutti che da un momento all’altro sarebbe scoppiata la guerra con l’Austria, la sospirata guerra dell’indipendenza. Per non essere allora col Piemonte e con Vittorio Emanuele sarebbe bisognato non avere nelle vene stilla di sangue italiano. E al Carducci venne subito il [121] pensiero della Canzone a Vittorio Emanuele. Cominciò a scriverla subito e ne parlava ogni giorno con noi e ce ne leggeva le strofe a mano a mano che le aveva composte. Tra il marzo e i primi d’aprile la finì; e gli amici, che ne erano tutti entusiasti, ne fecero a gara delle copie manoscritte, che presto si sparsero per la città e fuori. Io ne feci e mandai una al Gussalli, col quale ci scrivevamo per ragguagliarci a vicenda delle novità politiche. Egli scrivendomi il 19 aprile mi informava delle condizioni della Lombardia, dove l’Austria radunava un esercito formidabile; e ringraziandomi della poesia del Carducci, diceva: «l’ode mi riesce bella tutta; alcune strofe bellissime: degna assolutamente che l’autore l’accarezzi coll’estrema diligenza. Quando la pubblicherà? dove?»
Le preoccupazioni politiche ci avean fatto fino dai primi d’aprile venire l’idea di sospendere la pubblicazione del Poliziano: ma i nostri impegni coll’editore, e quelli dell’editore cogli abbonati ci costrinsero a seguitare, nostro malgrado. Il fascicolo di aprile uscì con molto ritardo; di che noi ci scusammo con un avviso agli abbonati, nel quale era detto: «nei momenti supremi in che il popolo più civile d’Italia dovea dichiararsi se avesse o no ad essere italiano, chi avrebbe potuto scrivere di filosofia, o chi avrebbe voluto leggere scritture di filologia?» e promettevamo che avremmo seguitato regolarmente le nostre pubblicazioni.
[122]
Era intanto avvenuta la pacifica rivoluzione toscana del 27 aprile 1859; il Granduca se n’era andato, accompagnato a porta San Gallo dal popolo, che salutò la sua partenza come l’aurora della liberazione della patria. Un solo pensiero occupava oramai le menti e i cuori di tutti, il pensiero delle sorti della guerra. Ferdinando Cristiani era accorso, prima del 27 aprile, ad arruolarsi nell’esercito piemontese. Poco appresso partì per la guerra anche il Gargani, benchè gracile di costituzione e di salute malferma. Noi mandammo fuori ancora altri due fascicoli del Poliziano, quelli del maggio e del giugno, che pure uscirono in ritardo; e poi deliberammo di sospendere le pubblicazioni. Le paure e le incertezze succedute, per l’improvvisa pace di Villafranca, alle grandi speranze cui si erano aperti gli animi per le vittorie di Palestro, di Magenta, di San Martino; e il pensiero che, se gl’Italiani non sapevano profittare della occasione presente per unirsi in nazione, una occasione simile non sarebbe forse tornata mai più, ci rendevano impossibile la regolare occupazione del giornale, che nessuno del resto avrebbe avuto voglia di leggere. Il Carducci nei momenti d’entusiasmo per le vittorie delle armi italiane aveva scritto dei sonetti per la guerra dell’indipendenza, tre dei quali furono pubblicati nel fascicolo d’aprile, e cinque nel fascicolo di maggio. Il 4 di maggio aveva pubblicato pei tipi del Barbèra la Canzone a Vittorio Emanuele, già stampatagli [123] nascostamente da altri con la data di Torino; e nel fascicolo di giugno, ultimo del Poliziano, pubblicò l’Annessione, il cui titolo fu poi cambiato in quello di Plebiscito. Poco appresso compose l’ode Alla Croce di Savoia, che pubblicò nell’ottobre pei tipi di Mariano Cellini.
Frattanto aveva preso moglie.
Il Carducci amò sempre collegare i lieti avvenimenti suoi di famiglia a qualche grande fatto della patria. Gli parve perciò che il primo fiorire delle speranze per la guerra della indipendenza fosse il momento più opportuno per isciogliere la promessa antica da lui fatta alla giovine figliuola del Menicucci; e il 7 marzo furono celebrate con molta semplicità le nozze, alle quali assistemmo come testimoni il Targioni ed io. Usciti di chiesa accompagnammo la sposa a casa, e poi sposo e testimoni andammo a fare una passeggiata alle Cascine.
La condizione di uomo ammogliato non mutò niente nelle abitudini del Carducci. Condusse per allora la moglie nell’umile casa di Borgo Ognissanti, di dove, due mesi dopo, si trasferì con la famiglia in una casa egualmente umile, ma meno incomoda, di Via dell’Albero, e seguitò la sua vita di lavoro e di studio. Usciva soltanto per andare nelle biblioteche, per dare qualche lezione e per passare qualche ora in compagnia degli amici. La sera, dopo la nostra solita passeggiata, ci riunivamo in un caffè, [124] il Caffè Galileo, posto sull’angolo fra Via de’ Cerretani e Via Rondinelli. Non erano più le riunioni ristrette ed intime del 1858 in casa mia. La società era cresciuta di parecchi altri amici, ed anche solo conoscenti. Ricordo, oltre il Prezzolini, Luigi Billi, Fortunato Pagani, Emilio Puccioni, Olinto Barsanti e l’editore Gaspero Barbèra. Si conversava e discuteva molto animatamente di un po’ di tutto, ma sopra tutto di letteratura e di politica.
***
Non rammento se ai nostri ritrovi al caffè venisse anche Silvio Giannini; ma lo incontravamo spesso. Egli s’era messo in testa due cose: far mettere in musica e cantare l’ode Alla Croce di Savoia, e menare il Carducci dal Salvagnoli; e vi riuscì. Il Salvagnoli era Ministro del culto, ma, come il più letterato fra i membri del governo liberale toscano, si occupava anche delle cose della istruzione, alle quali era preposto il Ridolfi; perciò il buon Giannini voleva fargli conoscere di persona il Carducci.
L’ode fu messa in musica dal Romani e cantata alla Pergola dalla signora Piccolomini; e il Carducci dovè durare gran fatica per liberarsi dalle improntitudini dell’amico, che voleva di forza ch’ei si mostrasse al pubblico tra le ballerine e le coriste. Ma liberarsi dalla visita al Salvagnoli non potè.
[125]
Andarono: il Salvagnoli li accolse molto cortesemente; domandò al Carducci che cosa faceva, perchè non chiedeva un posto nell’insegnamento; e accortosi dalle risposte di lui che non aveva nessuna voglia di domandare, disse: Ci penserò io. Indi a poco fu offerta al Carducci una cattedra al ginnasio d’Arezzo, ch’egli, per le nuove condizioni sue di famiglia, non potè accettare: non molto dopo, sulla fine di dicembre, gli venne la nomina alla cattedra di lingua greca nel liceo di Pistoia, che accettò.[29]
In quello stesso mese di dicembre, il giorno 12, gli era nata, di sette mesi, la prima figliuola, la Bice. Il lieto avvenimento fu festeggiato la sera fra pochi intimi. C’era, ricordo, il buon Silvio Giannini, che in quella occasione scrisse e fece stampare uno stornello, sfuggitomi dalla memoria e di fra le carte.
Nell’anno 1859 il Carducci pubblicò altri tre volumetti nella Collezione Diamante del Barbèra; Del Principe e delle Lettere dell’Alfieri, nel febbraio; Le poesie di Lorenzo de’ Medici, nell’aprile; e verso la fine dell’anno Le poesie di Giuseppe Giusti. Le distrazioni e le preoccupazioni della politica non gli avevano impedito di lavorare. «La prefazione alle Satire dell’Alfieri, scrive il Mazzoni, si era chiusa con le lodi a lui che bandiva primo l’impresa fatale a questa nuova generazione d’Italia, che più infelice e [126] più debole dell’antica, pur doveva propugnarla fino a tre volte in meno di cinquant’anni; la prefazione alle Prose di lui fremeva tutta amore di libertà dalle prime parole alle ultime; che parlando del conte astigiano e del suo tribunato rinnovatore, squillavano non so se come minacciosi segnali d’assalto o come lieta fanfara della vittoria imminente.»[30] Nella prefazione invece alle poesie del Magnifico il Carducci non mise, sono sue parole, nè una scintilla dell’ardore che avvampava tutto e tutti. «Intesi, dice egli, a scagionare quanto potevo il Magnifico, e, contro le idee allora dominanti, a gittare i semi delle idee mie intorno alla significazione e al valore del Quattrocento e del Rinascimento, idee che poi svolsi in rime e prose audaci anche troppo.»[31] Quel discorso mostra come il giovine scrittore avesse fin d’allora vivo il senso della verità storica, così vivo ch’ei non seppe sagrificarlo mai a nessun altro, per quanto nobile, sentimento. Mentire al vero gli sarebbe parsa un’offesa alla patria. La prefazione alle poesie del Giusti fu, come dice il Mazzoni, «pur con le mancanze e le inesattezze allora inevitabili, la prima vera biografia e la critica prima del satirico toscano.»[32]
[127]
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Fra i 7 e gli 8 gennaio del 1860 il Carducci si trasferì con la famiglia a Pistoia, dove lo chiamava il suo nuovo ufficio. La legge che istituiva in Toscana i Licei uscì soltanto il 10 marzo. Uscita la legge, l’insegnamento del greco gli fu mutato in quello dell’italiano e del latino, e il greco fu dato a Raffaello Fornaciari. Oramai l’anno scolastico essendo più che a metà, e non potendosi modificare a quel punto i programmi d’insegnamento e gli esami, il Carducci, d’accordo col Direttore della Scuola, stabilì che per quello scorcio d’anno avrebbe fatto soltanto delle lezioni cattedratiche. Il 3 maggio (giovedì) mi scriveva: «Le mie lezioni incomincio sabato, anzi leggo la mia introduzione; la quale è troppo dotta per i dotti pistoiesi; ma è scritta male, per ciò solo sarà forse lodata.» E il 16 maggio aggiungeva: «Lessi la mia introduzione; già ho fatto quattro lezioni, con facilità e chiacchiera che mai ai miei dì m’avrei sognato d’averne cotanta.» E lamentavasi, scherzando, che non gli fossero pagati gli stipendi. «Quel che più monta, affedidio, di riscuotere il denaro delle nuove paghe e’ non si parla: ma io ho commesso a un cuoiaio o vaiaio che tu vogli più sacca e di pelle di lionfante, e ho ordinato le carra a ciò: tanta sarà la somma degli arretrati, quando verrà il cenno ch’e’ ci sien pagati: [128] e forse ciò non vedrò de’ miei, ma il vedranno i miei figli, et nati natorum et qui nascentur ab illis.»
A Pistoia fece conoscenza con la Louisa Grace Bartolini, in casa della quale convenivano Giovanni Procacci, il Fornaciari e qualche altro professore del Liceo, i pochi cioè che in città si occupassero di lettere. Ci capitavamo anche il Gargani ed io e qualche altro amico di Firenze, quando s’andava a Pistoia a trovare il Carducci; ciò che per lui era sempre una festa.
Non ho bisogno di dire chi fosse la Louisa Grace, dopo ciò che di lei scrisse il Carducci nel discorso premesso alle Rime e Prose di lei, e ristampato nei Primi Saggi.[33] Mi basterà riferire qui le poche parole ch’egli nelle edizioni ultime delle Poesie pose in nota all’ode indirizzata all’egregia donna e composta in quel primo anno ch’e’ la conobbe. Dice la nota: «La Louisa Grace, nata in Bristol nel 1818, morì in Pistoia nel 1865. Quelli che solo abbian visto di lei le versioni dei canti di T. B. Macaulay e E. W. Longfellow e le Rime e Prose pubblicate dopo la sua morte dal marito Francesco Bartolini (Tipografia dei Successori Le Monnier, 1869 e 1870) non potrebbero ancora farsi un’idea giusta del suo ingegno, della dottrina in più lingue e letterature e dell’ancor più grande gentilezza e generosità dell’animo suo.»[34]
[129]
Il Carducci aveva cominciate appena le sue lezioni a Pistoia quando si sparse la notizia della spedizione di Garibaldi in Sicilia. Se, dopo la trista pace di Villafranca, gli animi degli italiani si erano a poco a poco risollevati per la unione della Toscana, delle Romagne e dell’Emilia alle antiche provincie, rimaneva ancora un gran problema da sciogliere, anzi due: Roma e Napoli; cioè il modo di riunire al nuovo regno d’Italia quella più che metà di esso che ne rimaneva ancora disgiunta. Qual cosa più atta a colpire le menti, a destare l’ammirazione e l’entusiasmo, che l’eroica impresa dei Mille? Il Carducci si sentì romper dal cuore le strofe vibranti e suonanti dell’ode Sicilia e la Rivoluzione; e appena finito di scriverla, venne a Firenze a farla sentire agli amici. Eravamo in pochi, non più di cinque o sei, radunatici a ciò in casa di Luigi Billi; e tutti applaudimmo freneticamente. L’odio pei decasillabi manzoniani era, come per incanto, scomparso dagli animi degli amici pedanti. La poesia ci rapiva, perchè in quel momento rispondeva al sentimento da cui tutti eravamo compresi. Non mi ricordo se fra i presenti alla lettura ci fosse il Padre Donati: ad ogni modo sono questi dell’ode Sicilia e la Rivoluzione i decasillabi pei quali il Carducci mi scriveva nel 1861 che il buon Padre Consagrata gli teneva il broncio.
[130]
***
Nel gennaio del 1860 era stato nominato Ministro dell’istruzione a Torino Terenzio Mamiani. Fin dalle Rime di San Miniato e dai primi scritti di prosa del Carducci egli avea indovinato (come più di vent’anni dopo ebbe a scrivere) il genio profondo ed originale sortito da natura al giovane toscano. Diventato Ministro, pensò subito a lui, e il 4 di marzo gli scrisse: «La fortuna togliemi per il presente di poterle offerire una cattedra di eloquenza italiana in qualche Università, come porterebbe il suo merito»: e soggiungeva che gli sarebbe obbligato se intanto, come avviamento a salire più alto fra poco tempo, fosse disposto ad accettare una cattedra di liceo a Torino o a Milano. «Ad ogni modo, proseguiva, s’Ella non è contenta della presente sua sorte, ed io rimango consigliere della Corona, mi sforzerò di mostrarle la stima e l’amore in che la tengo.»
Il Carducci rispose il 21 ringraziando con viva effusione: non credere che per gl’interessi domestici gli sarebbe utile il trasferimento in Piemonte o in Lombardia, dove il vivere era più caro che non in Toscana; tanto più che l’officio suo a Pistoia era remunerato di tale stipendio, che può, diceva, bastare a chi si contenti del poco. «Ma quando, proseguiva, l’E. V. mi reputi idoneo a professare eloquenza [131] o letteratura italiana in alcuna Università del regno, e gli si offra il destro di collocarmivi; io son disposto di accettare, sia nelle vecchie o nelle nuove provincie, con tutta la volontà e con gratitudine eterna.»
Il destro di collocare il Carducci in una Università non tardò a presentarsi al Mamiani; ma il Carducci non ci pensava più. Egli stava abbastanza volentieri a Pistoia, perchè vicina a Firenze: ma oh quanto avrebbe preferito Firenze stessa! Io lo sapeva, e il desiderio suo era anche il mio. Perciò ai primi d’agosto lo avvisai ch’era vacante al liceo fiorentino la cattedra di greco, e che io, allora impiegato al Ministero della istruzione, avevo già fatto pratiche per lui, e lo consigliavo di rivolgersi al Mamiani, perchè raccomandasse la cosa al Ricasoli, capo del governo toscano. Egli mi rispondeva il 10: «Avrei carissimo di tornare a Firenze, per più ragioni», e ne numerava quattro; la terza era: «per tornare a fare miei lunghi colloqui colle edizioni antiche e coi codici riccardiani e magliabechiani», e la quarta «per fare il giro ai barroccini di sotto gli Uffizi, e comprare gli amatissimi libri vecchi a poche crazie, o vuoi centesimi.» E soggiungeva: «A proposito: ma che farò io bene di scrivere a Mamiani? incomodarlo per sì piccola cosa?» La lettera terminava: «Oh i codici, i codici del Poliziano e dei poeti antichi in Riccardiana! Io li veggo: io li veggo: io li rivoglio.»
[132]
Scrisse al Mamiani, e il Mamiani gli rispose il 18 agosto, offrendogli la cattedra di eloquenza nell’Università di Bologna, e dicendogli: «Mi scusi del ricusare che fo di scrivere al Ricasoli per la cattedra in un liceo fiorentino.»[Vedi le lettere del Mamiani nelle note a pag. 492]
[133]
Il Carducci a Bologna. — Il Carducci ed Emilio Teza. — La toga a mezzo. — La prolusione e le prime lezioni del Carducci all’Università. — Altri lavori. — Canzone in morte di Pietro Thouar. — Il Gargani promesso sposo. — Morte del Gargani. — Lezioni su Dante, Petrarca e Boccaccio. — L’ode Nei primi giorni del 1862. — Evoluzione del Carducci da monarchico a repubblicano. — Periodo d’incubazione poetica. — Nuovi volumetti della Collezione Diamante. — L’ode Dopo Aspromonte. — L’Inno A Satana e la pubblicazione delle Poesie italiane del Poliziano. — Lezioni all’Università dall’anno 1862-63 in poi. — La Rivista italiana e l’Ateneo italiano. — La Festa di Calandrino e un sonetto inedito del Carducci. — Custoza e Lissa. — L’ode Agli amici della Val Tiberina. — Mentana. — L’epodo per Odoardo Corazzini. — La sospensione del Carducci. — Pubblicazione delle poesie Levia Gravia. — Il primo periodo dei Giambi ed Epodi. — Le poesie nella edizione Barbèra.
Ai primi di novembre il Carducci faceva i preparativi per il trasferimento a Bologna, preparativi noiosi per tutti, noiosissimi per lui, che non ebbe mai attitudine e pazienza a simili faccende. Intanto veniva pensando alla prolusione, alla quale aveva scelto per soggetto: «Delle diverse età storiche della letteratura italiana», ovvero «Introduzione alla Storia letteraria d’Italia»; e si arrabbiava dello [134] stile, l’infame, l’iniquo, il traditore stile, diceva lui; molto diverso in ciò da certi scrittori odiernissimi, ai quali ogni profluvio di parole che scoppia loro dalla penna è lo stile nel quale essi si ammirano.
Il 6 di novembre mi comparve inaspettato in casa, portandomi il volumetto delle Satire di Salvator Rosa (nella Collezione Diamante) da lui annotate e fornite d’una prefazione, ch’egli chiama «la più elegante, academicamente parlando, delle sue prose», ed annunziandomi che tra qualche giorno partiva per Bologna; partiva solo; la famiglia sarebbe andata più tardi, quando egli avesse trovato casa. Partì difatti la mattina del 10; e la sera, arrivando, trovò ad aspettarlo all’ufficio della diligenza Emilio Teza, che, nominato anche lui professore in quella Università dal Mamiani, lo aveva preceduto di qualche giorno. Il Teza lo accompagnò quella sera stessa e la mattina dipoi a vedere la città, che gli parve dovesse piacergli ed essere consentanea ai suoi gusti. In quei primi giorni desinavano insieme, e passavano insieme di belle ore; e insieme risero molto alla solenne apertura degli studi, «dove, fra la calca dei canuti professori con toga stola e pileo erano per giovinezza e giubba e guanti bianchi spettabili» loro due. Il 23 mi scriveva: «Son dietro a ricopiare la prolusione; che rimpastata di diversi elementi è riescita pure non male (eccetto che per la dicitura), essendo una introduzione non tutta volgare alla storia letteraria d’Italia, e un programma [135] degl’intendimenti che i classici veri portano nello studio di quella. Ma son determinato di non darla a stampare; perchè troppo v’è del discorso polizianesco (il discorso d’introduzione al giornale Il Poliziano), e perchè deve rientrare in un lavoretto che medito col titolo di Pensieri per introduzione alla storia delle lettere italiane; il quale però per gli amici non sarà nulla di nuovo.» Questo lavoretto diventò poi a poco a poco i cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale.
Il Carducci e il Teza, che avevano riso de’ vecchi professori in toga, dovettero poi comprarsela anche loro, e se la comprarono a mezzo: «la toga coll’ermellino col bàtolo e colla coda e il berrettone quadro lungo con le frange intorno e una gran nappa in cima», che è cosa, mi scriveva il Carducci, «da non potersi descrivere: pel berrettone imagina la porta San Nicolò col suo torracchione in cima, e avrai un quidsimile.»
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La sera del 3 di dicembre gli arrivò la famiglia, con la quale si accomodò provvisoriamente alla meglio in una casa presso San Salvatore; di dove nel maggio dell’anno dipoi (il maggio a Bologna è il tempo degli sgomberi) andò ad abitare in Broccaindosso, una delle strade più umili della città. Quivi rimase fino al 1876. Nel 1876 si trasferì in Via Mazzini [136] ad un ultimo piano del palazzo Rizzoli, proprio sotto il tetto; ed ivi stette per ben quattordici anni fino al 1890, nel quale anno tornò sulle mura Mazzini, nel quartiere di un villino, che abita ancora.[35]
Ormai i più grossi pensieri erano passati, ed egli si trovava quasi in ordine per cominciare le lezioni.
Aveva preso per argomento alle lezioni, che volea cominciare il 15, la letteratura in Italia avanti Dante, e mentre andava preparandosi mi scriveva: «Io sono dietro ai pesanti studi di erudizione: i quali costringendomi a cercare tanti libri scritti male e molti francesi, e molti d’ignobile modernità, finiranno con lo spegnere in me quel pocolino di gusto che avevo preso, e col cancellarmi quel pocolino di lingua che avanti i ventitrè anni avevo imparato.» Queste paure, interamente vane, mostrano però come, anche in mezzo agli studi d’erudizione, il sentimento dell’arte non lo abbandonasse mai.
Il 22 gennaio 1861 aveva fatto già cinque lezioni, che a lui naturalmente parevano poche. E mi scriveva: «Gran calca alla prolusione: molta gente alla prima lezione, specialmente giovani, che mi piaceva: ora da ultimo quasi nessuno, perchè la lezione di diritto commerciale messa su ultimamente mi toglie tutti i giovani: uditori di fuora ne vengono [137] pochi, chè non se la dicono gran fatto cogli studi: tanto che stamane, che mi toccava, non ho fatto lezione, perchè gli ascoltanti eran solamente tre.... Parlo delle origini della letteratura italiana. E parendo a me che facciano cosa molto irragionevole quegli storici e critici che ci danno a un tratto la lingua e la letteratura come fatta, che ci dicono finita di subito l’antichità col 476 in cui cadde l’impero, ho trattato nelle prime quattro lezioni delle ragioni che erano già negli ultimi tempi della letteratura latina per l’esistenza di una nuova letteratura.» La lettera seguitava esponendo il contenuto e lo spirito di queste prime lezioni, e le pazienti e faticose ricerche che aveva dovuto fare per raccogliere, quasi tutto da sè, il materiale. «Nella seconda parte del corso, ripigliava la lettera, andando dalla caduta alla restaurazione dell’impero, da Odoacre a Carlo Magno, andrò penosamente cercando tutti i testimonii che m’affermano la conservazione dell’arte e del pensiero romano in Italia, e ordinandoli e cavandone altre deduzioni. Poi, da Carlo Magno al sorgere dei comuni andrò studiando la formazion della lingua (storicamente) e le origini della rima: dal sorgere dei comuni alla morte di Federigo II studierò i monumenti della letteratura. Due lezioni preparerò che non saranno volgari, Omero e Virgilio nel medio evo.»
Mentre lavorava così per il corso all’Università veniva terminando il volumetto delle Poesie di Gabriele Rossetti [138] per la Collezione Diamante del Barbèra, che uscì in quello stesso anno, scriveva un saggio sullo Scalvini, pensava ad una biografia del Leopardi per la Galleria contemporanea dello Stefani, e mandava innanzi di tutta forza il grave lavoro della edizione delle Poesie italiane del Poliziano. Aveva bisogno di lavorar molto e di guadagnare, per rimettersi delle gravi spese che gli era costato il trasferimento. E lo cruciava il pensiero che questi lavori gl’impedivano di attendere alla poesia ora che gli pareva che forse in quella avrebbe potuto fare qualcosa.
«Del Poliziano, diceva la lettera, ho già mandato a stampare la Giostra e parte del comento, sul quale seguito a lavorare di gran lena; e benchè abbia ristretto il disegno, che a principio era cosa di erudito secentista, grave per me, noiosa e inutile agli altri, ne son contento. La vita del Leopardi non ho anche incominciata: ho quasi finito il saggio su lo Scalvini, in cui vi sono parecchie cose acerbe, ma dette freddamente, contro la letteratura odierna. Del resto annaspo di molto: vedremo se poi saprò tesser nulla. Studio e leggo sempre sempre sempre: non ho fatto conoscenza con nessuno, non vo da nessuno. Non vo più neppure al caffè, nè piglio più ponce: sto sempre solo o col Teza. Scrivo quasi tutto il giorno; oltre lo scrivere leggo di latino e studio di greco; in due settimane mi sono ingollato la Elettra di Sofocle, e sei libri di Virgilio, [139] ho corretto il testo delle Stanze, e scritto il comento a cinquantasei. Tu vedi che lavoro. Alla poesia non so quando tornerò, ma vorrei fare una canzone sul monumento a Giacomo Leopardi, finir l’ode alla libertà, fare un canto in terzine su Roma, un’ode La plebe. Ma ho gran paura che non mi riesca più far versi. Perchè l’idea in mente l’ho troppo grande; e fargli come gli ho fatti fino ad ora non sarei contento.... Vedi, amico mio, vedi se questa è superbia smisurata. Ma forse, più che superbia, è amore di quest’arte degli Dei, contemplando la quale viverò e morirò, già che acquistarne il magistero non posso.»
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Nel febbraio stava già preparando, come accennai, il volumetto delle Rime di Cino e d’altri del secolo XIV, e si raccomandava agli amici di Firenze per aver notizie e riscontri sui codici. Il 4 di giugno, tornando, richiamatovi da me, sull’argomento della poesia, mi scriveva: «Di me che ho a dirti? che mulino sempre poesie in testa, e non scrivo mai un verso: per verissimo timore anzi disperazione che il fatto non risponda all’idea mia. Pur un giorno qualche cosa scoppierà: e o sarà un fiasco orribile, e allora addio alla poesia, o sarà qualche cosa.... Se in quest’anno mi riesce comporre o finire l’ode alla libertà, l’ode sulla plebe, un canto [140] di versi sciolti su i Martiri ec., la canzone per un monumento a Giacomo Leopardi, una (la chiamo così per ora, non sapendo esprimermi altramente) marsigliese italiana per le future battaglie, e una canzone su la Poesia; stampo allora un libretto di poesie fra vecchie e nuove, con le quali chiudo il periodo giovanile. E dopo penso a scriver poemi. Poemi? Sì signore, poemi filosofici: Prometeo ec. ec.» Quanto alle lezioni diceva: «Le mie lezioni finiscono giovedì, se pur son cominciate mai veramente. E vedi! una delle poche consolazioni che oramai potessi avere, sarebbe far lezione di letteratura come intendo io a un uditorio come vorrei io, cioè vivente! perchè in verità sento che per questo ci sarei fatto.» Questo uditorio vivente, che allora gli mancava, ebbe, come vedremo, il merito di crearselo, nel giro di pochi anni, da sè.
La marsigliese italiana ch’egli andava meditando dice chiaro come, anche in mezzo ai gravi studi d’erudizione per preparare i corsi universitari, il suo primo pensiero fosse sempre la patria. La miracolosa impresa di Garibaldi, che, liberato in pochi mesi dal Borbone la Sicilia e il regno di Napoli, presentava l’8 novembre 1860 a Vittorio Emanuele i plebisciti di quelle provincie, aveva aperto alle più grandi speranze gli animi di tutti coloro che affrettavano col desiderio la compiuta liberazione d’Italia. Era possibile lasciare ancora Venezia in balía degli stranieri, Roma nel dominio dei preti? Licenziando i [141] suoi volontari, Garibaldi non avea forse detto loro di tenersi pronti per le future battaglie? Il 18 febbraio 1861 si era aperto a Torino il primo Parlamento italiano, il 14 marzo Vittorio Emanuele era stato proclamato Re d’Italia; e pochi giorni dopo un voto del Parlamento proclamava Roma capitale del nuovo regno. Si doveva forse supporre che quel voto fosse un voto puramente platonico? E chi poteva non desiderare che l’acquisto di Venezia e Roma fosse l’opera del valore italiano?
Per allora le poesie che il Carducci andava mulinando non gli vennero fatte. Forse gli altri studi a cui per dovere attendeva non glie ne lasciarono l’agio; forse mancò la opportuna disposizione della mente; forse il pensiero non era al tutto maturo. Nel giugno la morte di Pietro Thouar e l’affetto grande ch’egli aveva a quell’uomo veramente egregio gli suggerirono una canzone, in cui egli volle cercare il semplice e il tenue, che si conveniva al soggetto, ma al quale la natura sua era poco portata; e la canzone riuscì, pur nell’affetto, un po’ fredda. Nel luglio scrisse due sonetti, A Giovanni Procacci (pubblicato nella prima edizione dei Levia Gravia, con le sole iniziali di lui nell’Indice[36]), ed Omero, e ne cominciò un terzo pure su Omero; fra il novembre e il dicembre compose sei strofe della Canzone [142] In morte di G. B. Niccolini, che doveva seguitare coi grandi nomi del concetto romano, poi la caduta della Chiesa cattolica e il trionfo di Roma Italiana. Il Niccolini non era che un pretesto. Stampando per la prima volta quel frammento di canzone nella seconda edizione dei Levia Gravia, l’autore soppresse la prima strofe e metà dell’ultima.
L’idea di pubblicare in quell’anno 1861 un volumetto di poesie tra vecchie e nuove, nell’agosto era già tramontata, per la buona ragione che le poesie nuove non erano state composte. Invece gli era venuta l’idea di rimandare la stampa delle poesie a un altro anno, e pubblicare prima un volumetto di prose. «Tanto per ispigrirmi, diceva; perchè veggo bene che, se non faccio animo e rompo il ghiaccio, non farò mai nulla.» Le prose dovevano essere: Un sommario (filosofico) della storia letteraria d’Italia; i Discorsi d’introduzione al giornale Il Poliziano molto accresciuti, e parecchi saggi di biografia e critica storica e letteraria (Poliziano, Medici, Berni, Casa, Tassoni, Rosa, Chiabrera, Testi, Menzini, Metastasio), alcuni fatti, altri da fare.
Ma anche di questo disegno per allora e per un pezzo non ne fece niente: e fu bene. Seguitò a lavorare e a studiare; e nel lavoro e nello studio il suo forte ingegno venne sempre maturandosi e affinandosi, e accumulando materiali preziosi sì per le lezioni sì per le opere che doveva scrivere più tardi.
[143]
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Agli ultimi di luglio il Gargani, allora professore al liceo di Faenza, andò a Bologna a trovare il Carducci, e a’ primi di agosto partirono insieme per Firenze, dove nel settembre li raggiunsi anch’io da Torino. Passammo insieme lietissimi giorni. Il Gargani era raggiante di gioia, perchè promessosi sposo di una giovine, sorella d’un amico comune: e noi eravamo tutti contenti del vederlo così felice. Ma, tornati nell’ottobre ciascuno alla propria dimora, la mattina del 24 ricevei una straziante lettera del Gargani, il quale mi annunziava che la sua donna lo aveva abbandonato, ch’egli era corso immediatamente a Bologna, a casa del Carducci, e che questi partiva quella sera stessa per Firenze a chiedere ragione per lui. Il Carducci andò e tornò e non potè che consigliare l’amico a darsi pace. Lo rivide ai primi di dicembre in Bologna, poi nel febbraio del 1862 a Faenza, e gli parve di trovarlo consolato. Se non che il 19 del mese stesso una lettera da Faenza gli annunziava che il Gargani era malato gravemente: corse subito e passò quasi intere due settimane al letto dell’amico, ragguagliandomi quasi giorno per giorno degli alti e bassi della malattia, la quale lasciava per allora poca speranza. La speranza venne alla metà del mese di marzo; e il Carducci tornò a Bologna, ove seguitò a ricevere [144] per alcuni giorni notizie consolanti. La mattina del 29 un dispaccio lo avvisò di un improvviso peggioramento: tornò a Faenza e trovò l’amico in agonia, che non potè riconoscerlo. Mi scrisse subito: la lettera terminava: «Ecco un’altra pagina, e delle più belle, della storia della vita finita.» La memoria del Gargani durò sempre viva nell’animo del Carducci. Scrisse allora un breve ricordo dell’amico, che fu pubblicato in un giornale fiorentino, Le Veglie letterarie; fece di lui menzione con questi versi nella poesia che chiudeva i Levia Gravia nella prima edizione e li apriva nell’ultima:
O ad ogni bene accesa
Anima schiva, e tu lenta languisti
Dall’acre ver consunta e non ferita:
Tua gentilezza intesa
Al reo mondo non fu, che la vestisti
Di sorriso e di sdegno; e sei partita:
ne parlò a lungo nel capitolo III delle Risorse di San Miniato al Tedesco, pubblicate la prima volta nella seconda serie di Confessioni e Battaglie (Roma, Sommaruga, 1883). Diceva cominciando: «G. T. Gargani morì d’amore e d’idealismo in Faenza il 29 marzo 1861», e finiva: «Domani è il giorno dei morti. O amico, che giaci muto e freddo nella fossa di Romagna, a te certo non spiace che io rinnovelli ancora per un poco la memoria delle nostre estati fiorentine.»
[145]
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Nel secondo anno (1861-62) ebbe regolarmente inscritti alle sue lezioni sei scolari, e trattò in esse del Petrarca, cominciando dal narrarne la vita e i tempi. «Per ora, anzi per molti anni, mi scriveva il 22 dicembre 1861, non voglio nelle mie lezioni uscir mai da Dante, Petrarca e Boccaccio: poi, studiati bene i gran fondamenti e le colonne, passeremo agli architravi e alle parti del tempio.» Oltre gli scolari, aveva anche degli uditori; e fino dai primi di quel secondo anno cominciò a vedere l’effetto miracoloso che la sua parola faceva in essi: parecchie volte alla fine di un sonetto o di una stanza del poeta da lui illustrata, gli uditori uscivano spontaneamente in un fremito d’assenso e di piacere. «Questo deriverà, diceva, dal grande affetto di che mi riscaldo leggendolo e sviscerandolo: ma più certo dalla bellezza sovrana di quei versi, che, più li studio, più mi paiono divini. Alle bestie che ragliano su Messer Francesco canonico strame e mazzate.»
Io debbo farmi forza per non lasciare più spesso la parola al Carducci quando parlo delle sue lezioni. Nelle lunghe lettere ch’egli mi scriveva in quegli anni versava tutto sè stesso, tutta l’esuberanza d’idee che gli studi ostinati e profondi facevano sbocciare dall’ingegno caldo e fremente; e niente meglio di quelle lettere potrebbe spiegare [146] l’influenza grande che l’insegnamento suo ebbe d’allora in poi sulla gioventù che accorreva alla sua scuola. Facendo lezione, egli iniziava i suoi scolari alla intelligenza delle sue poesie e delle opere con le quali doveva poi illustrare tutta la letteratura italiana. In lui il professore, l’erudito, l’artista, il poeta erano una cosa sola, erano cioè quattro faccie diverse della stessa persona, ciascuna delle quali completava le altre.
Checchè egli mi scrivesse, il pensiero della poesia non lo abbandonava mai; e la poesia che più spesso e più forte allora lo tentava era la politica. L’8 gennaio 1862, lamentandosi del mio silenzio, mi scriveva: «Vediamo se, mandandoti un’ode di 32 strofe, rispondi»; e mi mandava l’ode Nè primi giorni del 1862, che aveva intenzione di pubblicare subito. Il momento sarebbe stato opportuno; ma sulla fine del mese stesso aveva mutato pensiero; e abbandonata anche l’idea di pubblicare in quell’anno una raccolta di scritti in prosa, pensava invece di fare nell’estate o nell’autunno «una edizioncina di Rime (io rimatore, a dispetto di tutti i menestrelli che stampano POESIE, oggi che neppur Domeneddio saprebbe più creare (ποιειν), LIRICHE oggi che lira vuol dire svanzica o franco, CANTI oggi che non cantano se non che i merli e gl’istrioni, serbo il titolo di Rime).» Aveva in animo di ristampare alcune di quelle del volumetto sanminiatese, ed aggiungerne delle nuove, tutte politiche.
[147]
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Sappiamo da lui stesso che in quei primi anni bolognesi il Carducci non praticava nessuno, nemmeno dei suoi colleghi dell’Università, ad eccezione del Teza; onde la evoluzione delle sue idee politiche, che appunto allora stava facendosi, si fece unicamente per opera degli avvenimenti pubblici e delle riflessioni e dei ragionamenti che questi gli suggerivano. Nel 1859 egli aveva, come tutti gl’italiani che volevano la liberazione dagli stranieri e l’unità della patria, accettato la monarchia di Vittorio Emanuele, anzi presa per essa una caldana, che, com’egli medesimo disse, non potè durare, perchè logicamente la monarchia costituzionale è un’assurdità, praticamente una immoralità; e perchè Governo e Parlamento fecero e fanno di tutto perchè gli animi retti ed onesti prendano in aborrimento quella forma ibrida di governo. Ma fino ai primi del 1862 egli non si era staccato del tutto dalla monarchia: n’è prova questa strofe della poesia che allora mi mandò. Il poeta, rivolto alla Libertà, le dice:
Pianta le insegne italiche
Di Roma tua sui mal vietati spaldi;
Guida all’Isonzo e all’Adige
Il tuo fedel Vittorio e Garibaldi.
La poesia fu però stampata soltanto nel 1871 e ridotta da 32 a 23 strofe, fra le quali manca questa [148] che ho riferito: essa ricomparve nella edizione definitiva dei Levia Gravia, ove le strofe crebbero fino a 28, ma ricomparve mutata così:
Pianta le insegne italiche
Di Roma tua su i mal vietati spaldi,
Guida tonando a l’Adige
La secura virtù di Garibaldi.
Il perchè della mutazione è facile a capire: dopo l’8 gennaio, giorno nel quale fu compiuta e mandata a me la poesia, il poeta aveva a poco a poco perduta la fede nella monarchia come atta a compiere l’unità della patria: e quando la pubblicò si era apertamente staccato da essa.
Non era passato ancora un mese dall’8 gennaio, e il Carducci mi scriveva: «Udisti, frate, le dimostrazioni toscane sobillate dal Ministero, che movono al grido di Viva il papa? Ah vergognosa Italia ricasoliana! Ah sozza e laida e brutta plebaglia rinfantocciata diplomaticamente! Viva il papa nel 1862! Dopo Alfieri, Giordani e Leopardi, Viva il papa! Viva il papa non re. Ma anzi come papa, come prete è sempre più detestabile.... Io credo che i popoli non debbano mentir mai: grideranno Viva il papa per un fine che non sarà ch’e’ viva: ma cotesto grido in bocca de’ figliuoli e dei nepoti delle migliaia di vittime fatte dal grande assassino cattolico è osceno.... E credi tu che s’andrà a Roma? Le son baie. A Roma non si va che con la rivoluzione.»
[149]
Si aggiunga a ciò la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, il modo indegno col quale il Governo e il Parlamento avevano trattato Garibaldi ed i suoi dopo la gloriosa guerra che aveva riunito all’Italia le provincie meridionali; si aggiungano finalmente le repressioni armate a Sarnico ed Aspromonte delle spedizioni garibaldine tendenti a liberare Venezia e Roma; e si intenderà facilmente come al Carducci ciò che nel Re e nel Governo era prudenza politica, per paura di compromettere le conquiste già fatte, sembrasse tradimento della patria.
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Egli mulinava sempre poesie: era questo un vero periodo d’incubazione: i pensieri e belli e grandi gli affluivano in copia alla mente; ma non si sentiva sicuro del modo di esternarli, e si proponeva di mettersi tutto, per istudio di stile, su Omero e Virgilio, su Dante e l’Ariosto. Il 16 maggio mi scriveva: «penso e immagino e fantastico e invento sempre, stancandomi proprio solo nei pensieri: onde se, aggiuntavi la vita romita e il non potere sfogarmi con nessuno e lo studio in cose faticose, non impazzisco, è gran meraviglia della mia costituzione.» Oltre quelle accennatemi precedentemente, aveva immaginato tre nuove poesie liriche: Alla Grecia, Gli Slavi, La Polonia; poi un Epodo satirico, a ecloga, L’Arcadia nuova, per isfogarsi contro [150] i nuovi Arcadi politici e letterari; poi una serie di canti, con intenzione più larga e universale, contro la società com’è costituita ora; poi una serie d’Idilli storici; finalmente un dramma, per rappresentare la prima rivoluzione democratica di Firenze, Giano della Bella. «Tutte queste poesie, mi diceva, eccetto il dramma, che non ho maturato bene, le ho fatte tutte, le ho divise nelle loro strofe ec. Quel che manca è la potenza di esprimerle.» Alla stampa di un volume di scritti in prosa per ora non pensava più; cioè non pensava più al primo disegno, perchè già ne avea in mente un altro. Il Barbèra stava per cominciare la stampa dei poemi del Monti, ai quali egli voleva premettere un Saggio su l’ingegno e l’animo del mio buono, diceva, e coglione Vincenzo. Scritto questo discorso e fatta l’edizione, cui allora pensava, del Berchet, si proponeva di comporre un libro in prosa (nel quale avrebbe raccolto, rinsanguandole, parecchie delle prefazioni e dei discorsi già fatti) con questo titolo: La rivoluzione e la poesia in Italia dal 1764 al 1848; e me ne spiegava a parte a parte il disegno. La sua mente era, come si vede, in continua ebullizione.
Ai primi di luglio venne, come aveva promesso, a trovarmi a Torino; andai a prenderlo alla stazione, ed egli discese dal treno tenendo sulle braccia alcuni volumi della prima edizione dei Misérables di Victor Hugo, che avea portati con sè per seguitarne e compierne la lettura durante il viaggio e nei [151] giorni che sarebbesi trattenuto a casa mia. Il capo degli amici pedanti, che leggeva e rileggeva, per istudio di stile, Omero e Virgilio, Dante e l’Ariosto, non viveva fuori del mondo, non si chiudeva tutto nello studio degli antichi e nelle ricerche d’erudizione; la sua mente e il suo cuore erano aperti a tutte le voci della vita, a tutte le manifestazioni dell’ingegno umano, da qualunque parte venissero; e di lì a qualche anno si vide quale influenza avessero sopra di lui le opere di Victor Hugo.
Tornato a Bologna si recò nel settembre a Firenze per attendere al lavoro del Poliziano. Era addolorato e indignato per il tristo episodio d’Aspromonte, dove il governo italiano aveva dato prova anche una volta d’insipienza e di viltà; e a Firenze, in Riccardiana, con innanzi il codice del suo poeta, e a lato le bozze di stampa, cominciò l’ode Dopo Aspromonte, dove sono le terribili strofe contro Napoleone III, che nella prima edizione delle Poesie (Barbèra, 1871) furono omesse, e la finì la sera in una camera che aveva in affitto. Mandandomela il 12 ottobre, avvertiva: «Bada, e’ fu scritta in poche ore. Dunque chiedo perdono di parecchie strofette e di molte frasi ineguali, per non dir peggio. Ma lirica e’ mi par che ve ne sia.» Le correzioni che poi vi fece pubblicandola non furono molte nè gravi.
Nel febbraio del 1863 compose e pubblicò in un giornale di Firenze La gioventù (anno III, n. 3) la poesia Il Carnevale, che allora chiamò Idillio: ma [152] non era finita, e il poeta vi aveva scritto in fine: Il seguito a quest’altr’anno. Il seguito venne invece cinque anni più tardi, nel 1868: e allora la poesia fu ripubblicata intera in un giornale di Bologna L’amico del popolo, che ne fece anche cento estratti. La parte aggiunta fu l’ultima, Voce di sotterra.
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Ai 21 di marzo dello stesso anno 1863 nacque al Carducci la seconda figliuola, cui mise nome Laura. Me ne dava notizia pochi giorni dopo, scusandosi dell’avere per quella ed altre ragioni tardato a scrivermi, e del non mandarmi ancora un articolo che io aspettavo da lui per la Rivista italiana.[37]
In quei primi anni della dimora del Carducci a Bologna ci scrivevamo lunghe e frequenti lettere, ragguagliandoci dei nostri studi, dei libri che comperavamo, di quelli che andavamo leggendo. Con la lettera, che mi portava la notizia della nascita della Lauretta, l’amico mi parlava di alcuni scritti del Giordani, che aveva letto o riletto in quei giorni. «Che meraviglia di stupenda scrittura quella del Peccato impossibile! Ben poche pagine di Voltaire [153] son degne di starle a fronte: ma solo di lui. E che grande e splendido e terribile nemico di tutti i vili nemici del genere umano era quel Giordani: il solo veramente libero degli scrittori italiani moderni. E come scrittura, e come pensiero, e come opera, io vado pazzo di quel Peccato. Oh quanto avrei pagato che tutti i vescovi e arcivescovi avesser dato noia al terribile piacentino, e che egli avesse fatto a tutti una scrittura come è questa e quella al Sanvitali!» Alcuni giorni dopo, per sollevarsi dai faticosi studi di erudizione, rileggeva il Cavalca. «Non parmi vero di sdraiarmi, leggendo, per rimedio alle tante offe di stile pedantesco o accademico o gotico che mi tocca ingoiare, qualche bella pagina di prosa (rileggo il Cavalca, di cui ho acquistato tutte le opere, e che mi è sempre più mirabile, o, per dir meglio, miracoloso: parmi il Canova della prosa. Rileggi, ti prego, la Vita di Sant’Antonio e quella di Sant’Apollonio, e stupisci a tanta potenza di stile di quel povero stolto fratacchione).»
Ai primi d’ottobre andò a Firenze per dare l’ultima mano alla edizione delle poesie italiane del Poliziano, e finire il discorso d’introduzione. Il 15 mi scriveva: «Oggi è stampato l’ultimo foglietto di conchiusione del Poliziano; e domani a sera saran pubblicate le prime copie.» Con la medesima lettera mi mandava l’Inno a Satana, composto in quei giorni, o meglio nella notte di uno di quei giorni, per leggerlo il giorno di poi in un pranzo [154] d’amici a Monte Asinario, al quale assistevano, fra gli altri, Luigi Billi e Alessandro D’Ancona. Mandandomelo, mi faceva le stesse avvertenze che per l’ode Dopo Aspromonte: «È inutile ch’io segni al tuo giudizio le molte strofe tirate giù alla meglio per finire, nelle quali è il concetto dilavato, ma non la forma. Bisogna tornarci su, su questa poesia, e con molta attenzione. Ma nonostante mi pare che pel concetto e pel movimento lirico io possa contentarmene. Dopo letto, ricorda che è lavoro di una notte.» Anche le correzioni fatte poi all’inno non furono molte nè sostanziali.
A me parve subito allora, e pare anche oggi, che l’ode Dopo Aspromonte e l’Inno a Satana segnassero un progresso notevole nell’arte poetica dell’autore, non solo quanto al modo di concepire, ma anche quanto alla forma, appunto perchè l’autore nella foga della ispirazione non si era troppo preoccupato di essa. Questa preoccupazione venne dopo, e non fu male: oramai le poesie erano quello che dovevano essere: e chi poteva dire leggendole che il poeta, per comporle, avesse studiato in Omero e Virgilio, in Dante e nell’Ariosto? Qualche lieve preoccupazione della forma si sente invece nel Carnevale, che tuttavia per il concetto e per una maggior libertà e sicurezza di esecuzione in confronto alle poesie degli anni innanzi, è degna di stare accanto alle odi Dopo Aspromonte e Satana e prenunzia con esse il poeta dei Giambi ed Epodi.
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Dopo le poesie politiche del 1860 il Carducci era stato quasi tre anni senza pubblicare versi; e quando pubblicò il Carnevale, poi se ne pentì. Ma abbiamo visto come in quei tre anni egli, pur non scrivendone che di rado, immaginasse continuamente poesie: e (cosa singolare) fra le poche che scrisse non c’era propriamente nessuna di quelle che aveva pensate. In quei tre anni il suo tempo fu quasi tutto occupato negli studi di erudizione, di critica e di filologia per le lezioni e per il Poliziano: se non che in mezzo a tali studi le concezioni poetiche fiorivano come nel loro terreno naturale. Ciò potrà parer singolare a quelli che ancora credono che il poeta debba essere un ignorante, ma non parrà a coloro che invece sanno che la dottrina e la critica vere sono non solo due grandi aiuti, ma due grandi fonti di ispirazione poetica all’uomo di genio.
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Nelle lezioni dell’anno accademico 1862-63 e dei seguenti il Carducci seguitò ad occuparsi, come già mi aveva annunziato, del Petrarca e di Dante, ai quali poi aggiunse il Boccaccio. Il pensiero suo fin dal principio fu di studiare a fondo, per una serie di anni, la storia del gran triumvirato letterario italiano, cioè la storia dell’arte e del pensiero in Italia nel grande e glorioso trecento, come diceva [156] lui; e questo studio lo fece come non era stato fatto mai, come non poteva esser fatto da altri che da lui. Il 13 gennaio 1863 mi scriveva: «Ora sono occupato tutto tutto nel duecento e trecento della letteratura italiana; tutto tutto; e non mi rimane ora libera.... Mentre metto insieme gran materia per un corso di lezioni dal 1183 al 1268, che comincierò venerdì, seguito l’illustrazioni delle cose migliori del Petrarca in confronto a Dante. Caro Beppe, non so quanto pagherei tu fossi a sentire alcuna mia lezione d’illustrazioni sulle canzoni del Petrarca: credi che le faccio con amore indicibile, e con una diligenza così sottile, che non trovo da rimproverarmi per ora. Sono intorno alle tre canzoni su gli occhi: e sono sempre più innamorato del mio gran Petrarca, il quale nel fatto dello stile mi riesce perfetto.»
La pubblicazione del Poliziano, avvenuta, come abbiam visto, il 16 ottobre 1863, fece chiasso anche a Firenze. Vi fu chi lo chiamò lavoro spaventoso: fra i pochi intelligenti produsse, come doveva, un senso di meraviglia. A parte il discorso, importante per la dottrina, per la bontà e novità dei giudizi, era la prima volta che il testo di uno scrittore italiano usciva in Italia emendato secondo i dettami della moderna critica dei testi: e le difficoltà che l’autore aveva dovuto superare non erano poche nè piccole. E l’autore era sopra tutto un poeta; e a Firenze passava per un poeta scapigliato.
[157]
È veramente incredibile quanto il Carducci lavorasse in quelli anni. Nel 1862, oltre tutti gli altri lavori e studi di cui ho parlato, pubblicò non meno di tre volumetti della Collezione Diamante; le Poesie di Cino da Pistoia e d’altri del secolo XIV, ch’era venuto preparando, come già dissi, fino dall’anno innanzi, i Canti e Poemi di Vincenzo Monti (due volumi), pei quali non ebbe il tempo o l’opportunità di scrivere il saggio che aveva divisato. Mentre stava ultimando il Poliziano, preparò, pure per la Collezione Diamante, la traduzione del poema di Lucrezio fatta dal Marchetti, nella quale, contro la sua aspettazione, ebbe da fare moltissimo, e che pubblicò nel 1864. Nel maggio era al sesto libro, e mi scriveva: «Mi confermo sempre più per l’esperienza nell’opinione che in Italia non v’è un testo di classico condotto, non dico bene, ma passabilmente da capo a fondo.»
Contemporaneamente attendeva a due altri lavori gravi e ponderosi, una raccolta dei Canti carnascialeschi per un editore di Milano, ed una di Ballate per la Collezione di antiche scritture italiane inedite o rare fatta dal Nistri di Pisa sotto la direzione di Alessandro D’Ancona. A proposito dei quali mi scriveva: «Ho finito di mettere insieme il primo volume dei Carnascialeschi, e sono a metà del secondo: forse la parte più difficile è passata. Preparo il secondo volume delle Ballate per il D’Ancona; il secondo che sarà il primo stampato e conterrà: [158] 1º Tutte le Ballate del Medici, riviste su i codici ec. (alcune inedite; molte stampate ma senza nome); 2º Tutte le Ballate del Poliziano; 3º Tutte le Ballate del Giambullari, una del Pulci, e qualche altra di qualcuno dei più famosi contemporanei del Medici. Il primo dee contenere quelle del Sacchetti e degli altri trecentisti della seconda metà e dei primi quattrocentisti: il terzo quelle del Giustiniani e di altri non toscani: il quarto le anonime; molta roba inedita e rarissima.»
Lavorava, lavorava, ma non aveva fretta di stampare. I disegni di pubblicazioni di lavori originali, sia di verso, sia di prosa, si succedevano, si modificavano, e poi restavano lettera morta; cioè no, restavano materia viva, che aveva bisogno di essere meglio maturata e lavorata, prima di diventare opera degna, secondo l’autore, di vedere la luce. Nei tre anni dopo il 1860 e nei quattro che seguirono fino al 1868, il Carducci non pubblicò oltre i quattro già indicati, che due altri volumetti della Collezione Diamante, il Lucrezio del Marchetti nel 1864, e le tragedie del Monti nel 1865; poi un volumetto di poesie di Matteo Frescobaldi nel 1866 (Pistoia) e tre sole poesie originali, l’Inno a Satana, Il Carnevale, e l’ode Agli amici della Val Tiberina, della quale parlerò più avanti.
L’Inno a Satana fu stampato, in piccolissimo numero d’esemplari fuori di commercio, nel novembre del 1865 a Pistoia, con in fronte il nome [159] di Enotrio Romano, che il Carducci prese allora per la prima volta. E lo conservò fino alle prime Odi barbare, ma aggiungendovi dal 1871 in poi il suo nome vero, messo or l’uno or l’altro dei due fra parentesi.
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Oltre i lavori dei quali ho fatto parola, collaborò negli anni dal 1863 al 1865 alla Rivista italiana, come già accennai, e nel 1866 all’Ateneo italiano che a quella successe, mandando all’una e all’altro articoli, quasi tutti d’erudizione e di critica, alcuni dei quali (i più brevi) sono raccolti nella prima serie di Ceneri e faville.
La Rivista fu fondata nel 1860 a Torino dal ministro Mamiani, o coll’assenso e l’aiuto di lui; e s’intitolò da prima Effemeride della pubblica istruzione. Ne ebbe la direzione Luigi Ferri, allora Segretario particolare, o, come oggi dicono, Capo di gabinetto del Ministro. Quando al Mamiani successe il De Sanctis, e questi prese per suo segretario Cesare Donati, la direzione della Effemeride passò a lui; che, dopo qualche tempo, quando il titolo del giornale era già mutato in quello di Rivista italiana con le effemeridi della pubblica istruzione, mi pregò di scriverci ed aiutarlo nella compilazione. A poco a poco, non saprei dir come, la Rivista rimase interamente nelle mie braccia; ed io, quando [160] nel 1865, col trasferimento della capitale, dovei tornare a Firenze, la trasformai nell’Ateneo italiano, che cominciò le sue pubblicazioni nel gennaio del 1866 e le terminò col finire dell’anno. Erano fra i collaboratori della Rivista, e poi dell’Ateneo oltre il Carducci, il Teza, il Comparetti, il D’Ancona, ed altri; uno dei più operosi Pietro Risi, allora professore al Liceo d’Alessandria, uomo di vivo ingegno e di molta dottrina.
Nel gennaio del 1865, rispondendo, con lettera del 14, ad alcune proposte mie di articoli per la Rivista, il Carducci mi scriveva: «Le condizioni che mi proponi mi tornano: ma l’impedimento è nelle moltissime brighe che mi si sono addensate intorno quest’anno. Figurati che fra le altre mi han fatto consiglier di reggenza: non si sa che cosa abbia a consigliare. Figurati che mi hanno appioppato la supplenza di lettere italiane al Liceo; o meglio me la sono appioppata da me, lasciandomi vincere alle strettissime istanze. E poi mi bisogna finir presto lo scritto intorno le rime di Dante,[38] per cui mi sono impegnato col Cellini. E poi ho da rivedere stampe del Monti e del Rucellai. E poi ho le lezioni. Vedi se potrei, esser di più caricato. Nonostante ho messo mano a un articolone in forma [161] di lettera a te, intitolato: Appunti su la poesia popolare italiana del secolo XIII; e vedrò di finirtelo presto.» L’articolo, o meglio gli articoli vennero soltanto verso la fine di febbraio e furono pubblicati nei fascicoli della Rivista del 6 e 13 marzo, con questo titolo: Della lirica popolare italiana del secolo XIII e XIV e di alcuni suoi monumenti editi o trovati ultimamente (da lettera a G. Chiarini).[Per gli altri scritti pubblicati dal Carducci nella Rivista, vedi le note a pag. 497]
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Circa la supplenza del Carducci al Liceo, ha narrato recentemente un curioso aneddoto il commendatore Alberto Dall’Olio, ch’era a quel tempo studente liceale, e fu testimone e parte del fatto.[39] Il professore di lettere italiane del Liceo, già nominato, tardando a venire, ed avendo fatto mala prova due altri supplenti, fu pregato il Carducci. Egli allora a Bologna era noto in un cerchio abbastanza ristretto di studiosi e di persone colte: i giovani del Liceo forse non ne avevano sentito mai parlare; ad ogni modo non lo conoscevano. L’ultimo professore ch’essi avevano avuto era Leopoldo Marenco; la cui bella ed elegante figura, tra di militare e di trovatore, scrive il Dall’Olio, avevamo ancora [162] dinanzi agli occhi: «e ci risonava ancor negli orecchi l’accento inspirato col quale egli ci leggeva, anzi ci declamava i versi.»
Lascio narrare interamente all’antico scolare, che fu poi sindaco di Bologna, l’ingresso del Carducci nella scuola, e quello che poi avvenne. «Vedemmo avanzarsi impettito tra le due file di panche, in aria tra spavalda e spaurita, un omino con una gran zazzera e una barbetta nera arruffata. Vestiva un soprabito piuttosto corto, scrupolosamente abbottonato, e teneva in mano.... un gibus.
»Salì sulla cattedra, e per prima cosa schiacciò nervosamente con un bel colpo il suo gibus: non c’era nulla di straordinario, ma noi cominciammo a guardarci l’un l’altro, e qualche sorriso corse sommessamente per l’aula; egli se n’accorse e si rannuvolò. Fatto sta che, quando prese a parlare, la sua voce era così incerta e la parola gli usciva così a stento dal labbro, che la nostra ilarità, per poco repressa, non potè più essere trattenuta. «Cet âge est sans pitié»; è proprio così: e più il professore intaccava, e più noi ridevamo. Fu dapprima un lieve susurro: poi crebbe, si innalzò, rumoreggiò in uno strepito incomposto e sgarbato.
»Che in questo modo le cose non potessero andare innanzi era manifesto; ma lo scioglimento fu rapido e brusco. Il timoroso professore ad un tratto si fece ardito: si levò, raccolse le cartelle de’ suoi appunti: con un energico pugno rialzò il malaugurato [163] gibus, se lo piantò in capo e mormorando rotte invettive uscì impetuosamente dall’aula.»
Gli scolari capirono d’averla fatta grossa. Entrò intanto il Preside, che meravigliato e indignato disse loro chi era l’uomo al quale avevano fatto quella villana accoglienza (sarebbe stato meglio l’avesse detto prima): ed essi mortificati chiesero come potevano rimediare. Fu stabilito di eleggere subito una commissione, della quale il Dall’Olio, come il più giovane, doveva essere l’oratore, che, guidata dal Preside, si recò nella sala dei professori, dove il Carducci era ancora. «Al vederlo tutto accigliato e fiero, dice il Dall’Olio, io fui vinto dalla soggezione, e balbettai a mala pena qualche parola; ma il Preside parlò per noi, e il Carducci, burbero benefico se mai ve ne furono, intese ciò che non gli avevamo saputo dire, e ci perdonò di gran cuore, assicurandoci che presto avrebbe ripreso le sue lezioni.»
I giovani aspettarono con grande impazienza la ripresa delle lezioni, che furono poche, perchè presto arrivò il nuovo titolare: «ma quale traccia incancellabile, scrive il Dall’Olio, non lasciarono esse nell’animo nostro, e quanta ammirazione non ne ritraemmo per quell’omino, che da principio avevamo così male accolto!»
[164]
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Nelle vacanze autunnali del 1865 il Carducci venne a Firenze, dove io ero già tornato da alcuni mesi con la famiglia. Avevo presa in affitto una villetta sul Mugnone alle falde di Fiesole, che fu, finchè io vi restai, il ritrovo de’ pochi amici rimasti dopo il 1859 a Firenze, e di quelli che, come il Carducci, di tratto in tratto vi capitavano: c’erano Francesco Donati e Giulio Cavaciocchi. Ai vecchi se ne aggiunse uno nuovo, Pietro Risi, che ho già nominato, col quale io era da qualche tempo in relazione amichevole per la collaborazione di lui alla Rivista. Appena arrivato a Firenze, ai primi di Settembre, legò subito stretta amicizia col Carducci, col Donati e con me. Di carattere gioviale, franco ed aperto, amante del lieto conversare, ch’ei sapeva tenere sempre desto, e trovandosi all’unisono col Carducci e con me nelle opinioni letterarie filosofiche e politiche, egli fu l’anima dei nostri amichevoli ritrovi in quei dolci mesi di settembre e d’ottobre. Oh le belle passeggiate a Fiesole, in quelle domeniche piene di sole, parlando di libri vecchi e nuovi, di edizioni rare, del nuovo giornale l’Ateneo che stavamo per fondare, discutendo di erudizione, di poesia, di politica, dicendo male dei romantici, dei moderati, del governo, inventando la società di Calandrino!
Io che avevo pochissimi libri, in confronto dei molti che aveva il Carducci, provavo un gran piacere [165] a regalargliene di tratto in tratto qualcuno che sapevo a lui caro. Egli pur essendo, in fatto di libri, il più ricco di tutti gli amici suoi letterati, ricco nella quantità e nella qualità, tutte le volte che andava a trovare qualcuno di loro, la prima domanda che faceva presentandosi era: Che libro mi regali oggi? E tutti sentivano il dovere di fargli il regalo di un libro. Una di quelle domeniche (me ne ricordo come fosse ieri), la domenica del 2 ottobre, in cui si festeggiava per la prima volta Calandrino, mentre facevamo la salita che dal Ponte alla Badia va a San Domenico, dissi a un tratto al Carducci: Sai? ti voglio regalare il Virgilio del Didot.[40] Il Carducci fece un salto e in segno di gioia gittò in aria il cappello, che andò a cascare di là dalla siepe in un campo. Durammo non poca fatica a raccoglierlo; poi ripigliammo, facendo i più matti discorsi, il cammino per Fiesole, mentre a casa si stavano facendo i preparativi per la festa. Al ritorno s’andò a cercare l’elitropia per il Mugnone, ed empiteci le tasche di sassi neri, che battezzammo per elitropia, se ne mise da per tutto, ma specialmente nei piatti dei commensali: e mentre si aspettava l’ora del desinare, si scrisse, collaborandovi tutti, il decreto che istituiva la società e la festa di Calandrino. Il decreto fu scritto parte [166] dal Carducci, parte dal Risi: la parte più notevole e significativa di esso sono i considerando, nei quali era detto: esser debito di ogni nazione rendere onoranza a quelli uomini che più conferirono a fermarne la indole; Calandrino essere veramente quel che dicesi il tipo della stoltezza italiana, la quale pareva avere raggiunto a quei giorni l’ultimo termine della sua perfezione; mentre la nazione fu troppo larga di facili onoranze ad uomini di gran lunga men degni, lui essere stato sempre e al tutto dimenticato.... Perciò s’instituiva una società nel nome di lui, ed una festa annuale da celebrare in suo onore nel mese di ottobre nei luoghi fatti solenni dalla memoria dell’uom semplice e di nuovi costumi.[Vedi le note a pag. 498] La parte principale, anzi sostanziale, della festa, era un banchetto, al quale ciascuno dei convitati dovea leggere o dire parole in prosa o in rima a gloria dell’eroe. Il Risi lesse un polimetro, il Donati una ballata, io una novella, il Carducci questo sonetto:
Buon dì e buon anno dea Domineddio
A questo branco di brave persone.
Doh, non traete i sassi: i’ son ben io,
Bench’io non ho gonnella e capperone
Calandrin sono: e vengo con disio
Giù dal Canto alla macina in Mugnone:
E non vo’ per la pietra; ma giulío
Ho la ribeba in mano e le canzone.
[167]
Quanto vo’ bene a chi m’aprì l’avello!
Ch’or veggo rifiorir la mia casata,
E Buffalmacco e Bruno e Maso e Nello.
Deh dov’è monna Tessa mia dolciata
E ’l porco mio e ’l prete? I’ vo vedello
E salutar tutta la mia brigata.
Or non è diretata
La stirpe mia; or pe’ nostri confini
Son ventidue milioni i Calandrini
Attesi tutti e chini
L’elitropia a cercar dell’unità,
La libertà con la prosperità:
E pur va e pur va
Unguanno e l’altro, che sudati e lassi
S’han per le rene e ne’ garetti i sassi.
Più tristi ch’e’ tre assi
Son oggi i Buffalmacchi: e monna Tessa
Con la voce in falsetto di badessa
A ministrar s’è messa.
Or non son io che di mogliema impregno:
Più savio Calandrino ha il vostro regno.
Venga, ben venga il degno
Baron di Broglio che col vin v’ammalia:
Egli impregnò dell’unità d’Italia,
E figlia sempre, e a balia
Alloga tuttavia tanti figliuoli,
Che di Marradi avanzano i fagiuoli.
Nè manca chi v’imboli
Il porco e a voi con le pallotte apprenda
Che voi ’l rubaste e vogline l’ammenda.
[168]
Or sì ch’è reverenda
La mia gesta, e al favor tutto s’inchina
Di così fatta gente calandrina.
O prole mia divina,
Regno mio bello e popolo felice,
Io Calandrin, non Dante, com’uom dice,
Or fatevi con Dio,
Brigatella discreta, e state sodi
Alla bombanza; ch’io men vo a Bengodi.
***
Il Carducci alla fine d’ottobre tornò a Bologna, e il Risi indi a poco andò a Siena, dove era stato trasferito come professore di Liceo. Tornato a Bologna, il Carducci si mise tutto negli studi. Come dai grandi materiali danteschi raccolti per le lezioni degli anni innanzi aveva tratto fuori nel 1865 il discorso su le Rime di Dante, così nell’anno di poi mise insieme di su i materiali stessi i tre discorsi Della varia fortuna di Dante, che videro la luce nella Nuova Antologia dell’ottobre 1866 e marzo e maggio 1867.
Negli studi cercava una diversione agli incresciosi pensieri delle vicende politiche. Aspromonte gli aveva lasciato nell’animo una grande amarezza; [169] la convenzione del settembre 1864 e il trasferimento della capitale a Firenze erano sembrati a lui, come a molti, una tacita rinunzia a Roma. Ebbe un barlume di speranza nella primavera del 1866, quando l’alleanza con la Prussia e la guerra offrivano all’Italia l’occasione di affermarsi e compiere la sua unità: invece avemmo Custoza e Lissa, e l’umiliante regalo di Venezia, in premio dell’avere arrestato Garibaldi alle porte di Trento. Una dura fatalità pareva incombere sull’Italia. Il giugno 1867 il Carducci mi scriveva: «Pur troppo le cose vanno male e di che modo! Vorrei raccogliermi solamente negli studi e non pensar più a nulla, ma l’animo non me lo permette. Mi sfogo di quando in quando a far sonetti.» Ne aveva pubblicati tre nella Rivista Bolognese, un quarto, Al Petrarca, me lo mandava due giorni dopo manoscritto insieme all’ode Per la rivoluzione di Grecia.
A queste poesie tenne dietro l’ode Agli amici della Val Tiberina.
Nell’agosto del 1867 il Carducci, accettando l’invito della famiglia Corazzini, andò a passare qualche giorno alla Pieve San Stefano, col proposito di visitare le sorgenti del Tevere. Nella vita sana e patriarcale della campagna, in mezzo a gente di cuore e alla buona, egli si sentiva rifatto, e ritrovava il suo buon umore. Il 15 agosto, invitandomi a raggiungerlo, mi scrisse una lettera piena d’allegria e di facezie, a cominciare dalla data: «giorno [170] dell’Assunzione di Maria Vergine [treno diretto per il Paradiso].» Ma il pensiero degli avvenimenti politici non lo abbandonava neppur là. C’era tra i fratelli Corazzini quell’Odoardo che pochi mesi dopo morì delle ferite ricevute a Mentana. Naturale che in quei lieti ragionari si parlasse del desiderio e del bisogno di vendicare la patria delle umiliazioni patite. Da quei discorsi e dalla visita alle sorgenti del sacro fiume nacque la poesia Agli amici della Pieve, che è veramente il primo epodo, ed è una specie di fanfara, annunziante la spedizione di Garibaldi su Roma.
Ahimè, se il governo, che aveva organizzato le sconfitte di Custoza e di Lissa, era caduto sotto la generale riprovazione, quello che gli successe era pure il governo che aveva dato all’Italia Aspromonte.
E le preparò Mentana.
Tornato a Bologna tutto pieno dell’entusiasmo che gli aveva dettato l’ode, la quale fu subito stampata a Pistoia (Società tipografica pistoiese, Carducci, Bongiovanni e C., XXV agosto MDCCCLXVII), il Carducci si mise all’opera con gli altri membri di un comitato dell’Associazione democratica per promuovere ed aiutare la spedizione garibaldina nell’Agro Romano.
Inutile dire di che sdegno e dolore fu preso quando, dopo l’annunzio dell’assassinio dei fratelli Cairoli a Villagloria e della vittoria di Garibaldi a Monterotondo, seppe sbaragliati i garibaldini a Mentana dagli chassepots francesi, Garibaldi arrestato [171] e tradotto nella fortezza del Varignano. Chi poteva non coprirsi la faccia per la vergogna di chiamarsi italiano? Più che il dolore, sfogò la feroce ira sua nelle terribili strofe Meminisse horret, scritte nei primi giorni di novembre a Firenze. Indi a poco ebbe a Bologna la notizia della morte di Odoardo Corazzini, e gli ruppe dal cuore il famoso epodo, che commosse tutti e che ai pochi intelligenti di poesia, ai quali la politica non annebbiava l’intelletto, parve una cosa veramente nuova e meravigliosa.
L’epodo fu pubblicato nel giornale democratico di Bologna L’Amico del Popolo del 19 e 20 gennaio 1868, e fattane subito una edizione a parte in opuscoletto (Bologna, Tipografia degli Agrofili italiani). Fu ristampato a Pistoia, riprodotto intero dal giornale La Riforma, e in parte da un giornale di Palermo.
Una lettera del Carducci del 30 marzo 1869 mi diceva: «Eccoti una ballata di Goethe, tradotta il sabato santo nello stesso metro e nello stesso numero di versi».
Da qualche tempo s’era dato sul serio allo studio della lingua tedesca, cominciato un po’ alla stracca col Teza fino dal 1862, e poi lasciato andare. Ora lo aveva ripreso con l’aiuto d’un maestro, e con grande passione, tanto che presto era riuscito a padroneggiare i poeti più difficili; il Klopstock, il Goethe, lo Schiller, l’Uhland, l’Hölderlin, il Platen, il Heine; i quali tutti, ma non tutti, s’intende, [172] nello stesso grado, egli ammirava e prediligeva. Da alcuni di essi, specie dallo Schiller, tradusse molto, per suo esercizio, in prosa letterale; poi dal Heine e da qualche altro venne in vario tempo traducendo in versi alcune liriche, con felicità straordinaria.
***
Nel novembre 1867 un decreto governativo trasferiva il Carducci dalla cattedra d’italiano dell’Università bolognese a quella di latino dell’Università di Napoli. Il Carducci non accettò il trasferimento, e il Ministro dovè revocarlo.[42] Qualche mese appresso un altro decreto lo sospendeva dall’insegnamento e dallo stipendio e lo deferiva al Consiglio Superiore sotto l’accusa di sentimenti ed atti demagogici e sovversivi, fra i quali la firma di un indirizzo al Mazzini ove si facevano voti per un nuovo e migliore ordine di cose.
Imperava allora il Menabrea, che aveva mandato i soldati italiani a far da comparsa alla tragedia di Mentana, e che aveva colleghi nel Ministero il Gualterio, il Cantelli, ed il Broglio all’istruzione.
Il Carducci, per quanto disgustato, non si commosse affatto della sospensione: mandò la sua difesa al Consiglio Superiore, ben sapendo che le [173] sue ragioni non avrebbero contato niente.[43] Il 21 maggio 1868 mi scriveva: «Io, amico mio, sto bene: lavoro al mio comento sul Petrarca: riveggo le stampe d’un libretto di Poeti erotici del secolo XVIII per il Barbèra; gli preparo un altro libretto di poeti lirici dello stesso secolo; scrivo una vita del Savioli erudita e critica per la Deputazione di Storia patria; correggo per la lingua un informe manoscritto d’un generale; fo lezione di storia a tre ufficiali. Rade volte in vita mia son vissuto così quieto e sereno: aggiungi che mi riman tempo per leggere; e leggo assai di Giovenale e delle Georgiche. Vivo quieto e sereno; se bene qualche fiato dell’umana viltà che mi giunge si provi a volermi commovere.»
Proprio in questo tempo aveva finito di correggere le ultime bozze delle poesie Levia Gravia, che furono pubblicate il 1º di giugno dalla Tipografia Niccolai e Quarteroni di Pistoia. Era la prima raccolta di poesie che mandava fuori dopo il volumetto sanminiatese del 1857; ed era molto diversa da tutte quelle che negli anni innanzi aveva avuto in animo di fare. Comprendeva, in quattro libri, cinquanta sonetti e ventiquattro fra odi e canzoni; la [174] metà circa riprodotte dal volumetto di San Miniato, l’altra metà nuove; nessuna d’argomento politico.
Il libro di cui furono stampati soltanto trecento esemplari, a spese dell’autore, ebbe pochissima diffusione: si può dire che fuori di qualche amico e di qualche raro intelligente e amatore d’arte, ben pochi ne compresero il valore.
Il Carducci aveva escluso deliberatamente dal suo volume tutte le poesie politiche; ma gli avvenimenti pubblici erano stati e seguitavano ad essere così gravi e dolorosi, che l’imagine loro assediava e agitava continua l’animo del poeta. Era una specie di ossessione che essi esercitavano sullo spirito di lui. Dopo Mentana, per tacer d’altro, l’uccisione di Monti e Tognetti, e più tardi l’entrata a Roma, che doveva essere un fatto glorioso, e fu una nuova vergogna. Come tacere, come non protestare contro la viltà degli uomini che rappresentavano l’Italia ufficiale? Quasi strappato a forza agli studi d’erudizione e di critica nei quali cercava la pace, il poeta pigliava per un istante la penna e scriveva: nel novembre del 1868 l’epodo per Monti e Tognetti, che fu subito pubblicato nel n. 339 del giornale La Riforma, e riprodotto in opuscolo (dalla Tipografia Niccolai e Quarteroni di Pistoia), da vendersi a favore delle famiglie dei decapitati; fra il 1868 e il ’69 i tre sonetti Ehu pudor!; nel gennaio del 1870 l’epodo In morte di Giovanni Cairoli, che fu pure pubblicato nella Riforma (n. 45, 14 febbraio 1870); e nel [175] giugno, calmatosi un po’, quello Per le nozze di Cesare Parenzo, nel quale al rabbioso impeto archilocheo degli altri epodi succedevano più miti armonie.
***
All’epodo per Monti e Tognetti, che il Carducci mi aveva mandato manoscritto, io aveva fatto alcune osservazioni, alle quali egli rispose cercando persuadermi che avevo torto; nonostante conchiudeva: «Piglia tutto ciò per una esplicazione di teorica, non per una difesa: vedi se ragionandovi sopra, ti puoi accostare a me; o, altramente, significa pure le tue idee di nuovo e quelle che ti possono sopravvenire. Perchè avrei caro che tu persuadessi me; allora in un altro epodo (oramai sono il poeta degli epodi) mi atterrei alla tua teorica.» Io avevo biasimata come non rispondente al vero, nella prima parte dell’epodo, la rappresentazione del pontefice, che cinicamente si frega le mani pensando alla scure che taglierà le teste dei due condannati, e ci scherza sopra con un linguaggio sarcastico che mi parve ributtante. Le risposte del Carducci lì per lì mi persuasero, ma confesso che non riuscirono a farmi piacere interamente quella parte della poesia.
Era questo il primo periodo dei Giambi ed Epodi, e terminava con esso il decimo anno della dimora del Carducci a Bologna. In quei dieci anni l’ingegno suo si era completamente svolto e affermato: [176] non gli restava che perfezionarsi e ascendere securamente al sommo dell’arte.
Intanto il Barbèra, il quale voleva bene al Carducci e sentiva la potenza dell’ingegno di lui, ma era ben lontano dal parteciparne le opinioni, e sapeva come editore fare gli affari suoi, gli offrì di stampare in un volume tutte le sue poesie, comprese le ultime; ed il Carducci accettò, e dentro l’anno approntò il volume, che uscì nel febbraio 1871; diviso in tre parti: Decennali (1860-1870), Levia Gravia (1857-1870), Juvenilia (1850-1857). I Decennali comprendevano tutte le poesie d’argomento politico, a cominciare dall’ode Sicilia e la Rivoluzione, escluse le precedenti, che l’editore voleva e l’autore non volle ristampare; i Levia Gravia e Juvenilia riproducevano, con qualche cosa di più, e una diversa partizione, il volume pistoiese del 1868.
Nello stesso anno 1870 io proposi al Carducci di stampare dal Vigo un volume di studi letterari: sulle prime disse di no, e offrì invece di fare una raccolta di rime antiche (Le caccie del secolo XIV), per le quali aveva già pronto molto materiale, e la Vita Nuova di Dante con tutte le rime che appartengono alla serie di essa, e con illustrazioni scelte di altri, italiani e stranieri, e sue nuove. Alla mia insistenza che l’una cosa non escludeva l’altra, si arrese, ma di mala voglia, e il 23 dicembre mi scriveva: «L’anno venturo volevo consacrarlo intero al mio Petrarca e al mio Dante: perchè frastornarmene? [177] Sono annoiato e infastidito del ristampare le mie poesie: perchè ricondannarmi, povero asino, a portarmi dietro il concime e il letame della mia propria stalla rivedendo le bruttissime prose? Lasciami svoltolarmi nella grande erba verde del Petrarca, lasciami andar lento lento, asino filosofo e critico, nella gran selva di Dante. Che importa a me di tutto il mondo vivo? Voglio dimenticarlo.... Molto meglio di tutto sarebbe che il Vigo si stesse contento per ora a far le Caccie. Oh il bellissimo librettino che vogliam fare!... Altra cosa che mi arride è la Vita Nuova con tutti i suoi commenti e le poesie che si riferiscono a cotesto ciclo della Vita di Dante, e forse anche in un altro volumetto le poesie della Scuola di parte bianca, Cavalcanti, Cino, Frescobaldi, ec. Sentirai la storia della Vita Nuova e del pensiero interiore di Dante, sentirai e dirai, bravo! Ci lavoro ora all’Università: scrivo ora tutto il commento. Scriverò le lezioni. Un altr’anno faremo un bel volume.» Tuttavia consentì a stampare un volume di prose sue, a condizione che il Vigo non avesse fretta, e gli lasciasse agio a finire e correggere alcuni scritti che dovevano entrare nel volume. Nell’agosto dell’anno venturo venne per una quindicina di giorni a Livorno, e fu conclusa definitivamente la pubblicazione del volume degli Studi letterari, che tardò ancora tre anni a venir fuori.
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Morte della madre e del figlio Dante. — «Sono io l’ortolano delle monache?» — Le Nuove Poesie. — Critiche dello Zendrini e del Guerzoni, e risposte del Carducci in Critica e Arte. — La libreria Zanichelli. — Seconda edizione delle Nuove Poesie. — Discorso sulle poesie latine dell’Ariosto. — Primi tentativi d’imitazione dei metri antichi greci e latini. — Studi letterari editi dal Vigo. — Bozzetti critici e discorsi letterari, idem. — Saggio di un testo e commento delle Rime del Petrarca. — Prime Odi barbare. — Altre poesie in rima. — Candidatura alla Deputazione del Collegio di Lugo. — Nomina, ed esclusione per il sorteggio. — Giudizio del Carducci sul Parlamento. — Visita a Francesco Donati a Serravezza. — I Postuma di Olindo Guerrini. — Accoglienza dei critici italiani alle Odi barbare. — Il Carducci a Perugia e il Canto dell’amore. — L’ode Alla Regina d’Italia. — Eterno femminino regale. — L’ode per Eugenio Napoleone.
La vita del Carducci a Bologna nei primi dieci anni corse fin quasi all’ultimo serena e tranquilla, se non quanto la turbarono gli avvenimenti politici. Dopo il primo anno, benchè seguitasse a fare vita molto ritirata, cominciò a stringere relazione con qualche altro collega della Università, oltre il Teza. Si compiacque molto della grande benevolenza che gli mostrò fra i primi l’archeologo Francesco Rocchi, decano della facoltà di filologia, già [179] discepolo di Bartolomeo Borghesi ed amico di Vincenzo Monti; e fece presto la conoscenza di G. Battista Gandino, di Pietro Ellero e di Enrico Panzacchi. Qualche anno più tardi prese dimestichezza coi professori Giuseppe Ceneri, Quirico Filopanti, Costanzo Giani e Pietro Piazza, verso i quali, oltre la stima personale, lo attirava la conformità delle opinioni politiche. Il Ceneri e il Piazza ebbero nel 1868 comune con lui l’onore della sospensione dalla cattedra: il Filopanti, quando l’8 dicembre 1869 il giornale democratico di Bologna, Il Popolo, ristampò l’Inno a Satana, condannò, con una lettera al Carducci, pubblicata il giorno dipoi nel giornale stesso, quella poesia chiamandola un’orgia intellettuale. Da qui le Polemiche sataniche, cioè la risposta del Carducci al Filopanti nel numero 10 dicembre del Popolo, e la risposta Al critico del Diritto nei numeri 27 e 28 dicembre dello stesso giornale.
Ma l’anno 1870 fu triste al Carducci. Tre anni innanzi, il 21 giugno 1867, la sua casa era stata rallegrata dalla nascita di un figlio maschio, al quale fu compare il Teza, che oltre il nome di Dante, scelto dal padre, gl’impose quelli di Bruto e di Augusto. Il fanciullo cresceva vegeto, robusto, intelligente, che pareva per l’età sua un miracolo. «Ed era, scrivevami il padre, buono e forte e amoroso, come pochi. E diceva — Salute, o Satana, o ribellione — con tutta la sua gran voce, picchiando la sua manina su la tavola o il piede in terra.»
[180]
In quel triste anno morì ai primi di febbraio la madre del poeta; e il 9 di novembre gli morì quell’amore di bambino, intorno al quale egli aveva avviticchiate tutte le sue gioie, tutte le sue speranze, tutto il suo avvenire.
Io conobbi, come ho già detto, la madre del Carducci nei primi anni della mia amicizia con lui, e sapevo la vita di sagrifizio e di abnegazione che essa aveva condotta; avevo visto cogli occhi miei propri com’ella fosse una di quelle donne rare che sotto modeste apparenze nascondono un’anima eroica. E provai gran piacere quando qualche anno appresso, nella mia prima visita al Carducci a Bologna, la rividi; rividi quella faccia, non bella, ma espressiva di una gran forza d’animo e di una grande bontà, la rividi illuminata da una luce di contentezza, che pareva aver cancellato ogni traccia dei passati dolori. Come godeva essa quando il figliuol suo accarezzandola con gli occhi, che raramente sorridevano, le diceva scherzando: «Mamma, sei contenta d’avere un figliuolo bravo come me?»
Il piccolo salotto da pranzo, dove noi tre eravamo seduti, era molto umilmente arredato; il muro imbiancato di calce, senza un cencio di tappezzeria o uno sgorbio di pittura; poche sedie impagliate, una tavola e un armadio di legno grezzo, ecco tutto. Ma oh come, ora, ripensandoci, mi pare che quell’umile salotto fosse bello, grande e pieno di gloria! E come mi paiono al confronto brutte e meschine le [181] stanze con tanta pretensione d’arte addobbate dai nuovi minuscoli ammiratori del grande Leonardo!
Il dolore del Carducci per la morte della madre fu grande: pure se ne diede pace, cercando un conforto nella religione delle ricordanze. La mancanza dei genitori è dolorosa, ma si riesce a farsene una ragione guardando ai figliuoli che ci crescono intorno. La morte dei figliuoli pare invece un fatto contro natura e non si sa darsene pace. «Pare, a sentire certuni, mi scriveva il Carducci, che la morte di un bambinetto di tre anni debba essere una miseria comportabile. Non è mica vero: vanno via tre pezzi della vita.» Cercava dimenticarsi negli studi, ma il suo pensiero era sempre lì. Poco più di un mese dopo, scrivendomi lungamente dei suoi lavori, mi mandava tre sonetti fatti allora, fra i quali quello che comincia:
O tu che dormi là su la fiorita
Collina tosca, ec.
e diceva: «Ahi, ahi, il mio pensiero torna pur sempre lì; e sempre più mi sento desolato.» Venne l’estate ed egli scriveva:
L’albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da’ bei vermigli fior,
[182]
Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l’inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Nè il sol più ti rallegra
Nè ti risveglia amor.
Due anni dopo, il 1º marzo 1872, nacque al Carducci l’ultima figliuola, cui egli mise nome Libertà, ma che in casa fu poi chiamata da tutti, dal padre stesso, la Tittì.
Intanto il Barbèra aveva pubblicato il volume delle Poesie; il quale, benchè contenesse nei Decennali gli epodi pel Corazzini, per Monti e Tognetti e pel Cairoli, l’ode Dopo Aspromonte e l’Inno a Satana, cioè una serie di poesie interamente nuove, forti e coraggiose, non ebbe quello che veramente si dice un gran successo; e forse non l’ebbe appunto per ciò. Il volume era, non può negarsi, composto di elementi molto diversi; ed uno che lo leggesse per la prima volta, poteva trovarsi un po’ sbalestrato. Quale salto dall’inno a Febo Apolline all’epodo per Monti e Tognetti, dall’ode alla Beata Giuntini all’epodo pel Cairoli! Ma doveva necessariamente [183] esser così. L’autore aveva voluto presentarsi al pubblico tutto intero; ed aveva anche avvertito: «Nei Juvenilia sono lo scudiero dei classici; nei Levia Gravia faccio la mia vigilia d’armi; nei Decennali, dopo i primi colpi di lancia un po’ incerti e consuetudinari, corro le avventure a tutto mio rischio e pericolo.» Chi poi non fosse stato impedito da preconcetti o d’arte o politici, poteva ben trovare anche nei Juvenilia i germi dei Decennali. Ma quella specie d’incertezza o di contrarietà con la quale alcuni, specialmente in Toscana, accolsero il volume delle poesie doveva durar poco.
***
Può parer singolare che le maggiori contrarietà alle poesie del Carducci venissero appunto dai toscani; e più singolare ancora, ma invece è naturalissimo, che cotesti toscani, che parlavano di lui a denti stretti, ricorressero poi a lui tutte le volte che saltava loro in testa di pubblicare un giornale, una strenna o che altro di simile. Ciò lo seccava maledettamente, e lo faceva dare in escandescenze. In generale non rispondeva: ad uno più insistente rispose una volta così: «Caro C.... — Il mio silenzio voleva dire: 1º che in generale non amo scrivere per istrenne o per simili gentilezze, le quali mi rassomigliano troppo alle Rime scelte degli Arcadi [184] o alle Rime oneste del Mazzoleni (salvo la eleganza e dottrina, che a queste ultime in ispecie non manca). In quante strenne hai tu visto il mio nome? 2º che in particolare non intendo affatto affatto di scrivere in strenne toscane o per società toscane in Toscana. Come? I signori toscani non hanno per me che maldicenza od oblio, e poi quando salta loro in testa una libidinuzza accademica di strenne o di altre sì fatte insalatuzze, vengono a seccar me! Sono io l’ortolano delle monache? 3º che io non potevo personalmente accettare la forma del tuo invito: — Ho il piacere d’invitarti a collaborare ec. ove tanti illustri ec. ec. Eviterai ogni argomento ec. ec. — Caro C., padrone di dire al tuo ortolano: Ohe, Cecco, fammi un’insalatina così e così, ma bada non ci mettere cicerbita nè pozzolana. — Hai voluto spiegazione del silenzio. E io te l’ho data. Spero che avrai capito. I miei rispetti ai signori e alle signore che sono con te della brigata, ec. ec.»
Questo modo di trattare non era il più adattato a farsi della réclame, a procurarsi degli amici laudatori e devoti; ma allora non era per anco venuta la stagione dei superuomini, nè si conoscevano certe raffinatezze della ciarlataneria, con le quali oggi si predispongono abilmente gli applausi del pubblico. Il Carducci poi provava un gusto matto ad andare contro la corrente, quando (s’intende) gli pareva d’aver ragione.
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Nei due anni che successero alla pubblicazione delle Poesie (edizione Barbèra), insistendo nelle qualità degli epodi che più avevano urtato il gusto del pubblico, ne aveva composti de’ nuovi più ardenti di bile e più arditi, e aveva composto parecchie altre poesie, varie d’argomento e di stile, le quali rivelavano com’egli, arrivato oramai alla maturità dell’ingegno, e liberatosi d’ogni incertezza e scioltosi d’ogni legame, si sentiva padrone al tutto dell’arte sua. Fra le poesie composte in quei due anni c’erano traduzioni di liriche dal Goethe, dal Platen, dal Heine negli stessi metri originali; c’erano le Primavere elleniche e i giambi A certi censori e Ad un heiniano, Versaglia e l’Idillio Maremmano, Io triumphe, e Sui campi di Marengo, la poesia Classicismo e romanticismo e il Canto delL’Italia che va in Campidoglio, l’ode per l’Anniversario della repubblica francese e il sonetto Il bove.
Le Primavere elleniche erano state pubblicate nel 1872 dal Barbèra in un fascicoletto a pochi esemplari non venale, e quasi contemporaneamente in un giornaletto letterario Il Mare, fatto dal Targioni e da me a Livorno; il quale pubblicò anche nel primo numero (7 luglio 1872) la poesia Ad un heiniano e nei successivi alcune delle liriche tradotte dal tedesco. Il Canto dell’Italia che va in Campidoglio e qualche altra poesia d’argomento politico furono pubblicate in giornali politici e fecero un po’ di scandalo.
[186]
Tutte queste poesie con parecchie altre il Carducci, alla fine del 1872, le diede a stampare al tipografo Galeati d’Imola, mancato pochi giorni fa alla stima di quanti lo conobbero e all’arte tipografica che coltivò con eleganza, il quale le pubblicò nel settembre dell’anno successivo col titolo di Nuove Poesie. Il volume, di 130 pagine, conteneva in tutto 44 componimenti ed in appendice il Prologo ai Levia Gravia, che il Barbèra non aveva creduto di pubblicare per certe allusioni a Pietro Fanfani.
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Le Nuove Poesie, pur eccitando in Italia, com’era naturale, molti risentimenti, fecero grande impressione e si imposero. La satira non aveva risparmiato i nomi propri di uomini politici e letterati illustri, ai quali si capisce che non poteva far piacere l’esser messi alla berlina. Il primo movimento fu di dispetto. Ma, anche lagnandosi della poca cortesia del poeta, i più riconobbero il valore dell’opera sua. L’edizione fu in breve esaurita. Tutti si occuparono del libro, anche fuori d’Italia. L’editore della Revue des Deux-Mondes lo mandò a chiedere al Galeati; il Turgenieff ne chiese al marchese Arconati di Parigi, l’Arconati all’autore. Carlo Hillebrand ne scrisse nel supplemento all’Allgemeine Zeitung del 1º novembre 1873, Adolfo [187] Pichler nell’Abendpost di Vienna del 10 giugno 1874 e Carlo von Thaler in un’appendice delle Neue Freie Presse di Vienna del 12 marzo 1875; tutti tre riconoscendo la straordinaria potenza ed originalità del poeta italiano. Il critico invece della Revue des Deux-Mondes non comprese affatto nè il poeta nè la sua poesia; onde il von Thaler scrisse giustamente di lui: «Manca al signor Étienne ogni facoltà di concepire la vulcanica natura del Carducci, e l’impeto di quella polemica che butta indietro d’un colpo il liscio accademico francese.»
I critici italiani, quasi tutti intinti di politica moderata, pur inchinandosi al forte ingegno del poeta, non poterono nascondere il loro malumore; alcuni dissero una quantità di sciocchezze; più di tutti lo Zendrini e il Guerzoni, scusabile il primo, perchè era stato molto maltrattato dal Carducci, meno scusabile l’altro, perchè, nominato di recente professore d’Università in grazia dei suoi meriti patriottici, volle soltanto darsi l’aria di grande maestro in critica, menando sciabolate per diritto e per traverso sopra le Nuove Poesie; con grande ammirazione e sodisfazione dei giornali moderati del tempo. Il Guerzoni pubblicò la sua critica nelle appendici della Gazzetta Ufficiale del 12 settembre 1873; lo Zendrini attaccò il Carducci in alcuni articoli della Nuova Antologia (dicembre 1874, gennaio e febbraio 1875). Il Carducci, sollevandosi da una piccola polemica personale ad una grande questione [188] d’arte e d’onestà letteraria, scrisse, in risposta a loro, la mirabile prosa Critica e Arte, che fu poi stampata intera nel volume Bozzetti critici e Discorsi letterari edito dal Vigo nel 1876. Ma sette capitoletti, quelli concernenti il Guerzoni, furono pubblicati nella Voce del Popolo di Bologna del febbraio 1874.
La prima edizione delle Nuove Poesie non solo fu, come è detto, presto esaurita, ma fece anche esaurire l’edizione delle Poesie fatta dal Barbèra, il quale mise subito mano ad una seconda, che uscì nel 1874; ne fece una terza nel 1878 e una quarta nel 1880; tutte ripetizioni della prima, salvo un diverso ordinamento delle poesie, e l’aggiunta nelle ultime due della biografia del poeta scritta da Adolfo Borgognoni. Il Barbèra avrebbe voluto nella ristampa delle Poesie comprendere anche le Nuove, ma non potè, perchè l’autore si era già impegnato per esse con lo Zanichelli.
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La libreria Zanichelli era in Bologna il ritrovo di tutti gli studiosi. Naturalmente il Carducci, non per trovarvi gente (di che non aveva gran voglia, come sappiamo), ma per avervi notizia delle novità librarie e comprar libri, vi capitava spesso; e la schietta cortesia del signor Nicola e dei figli fu cagione che ben presto entrò con essi in grande intimità. [189] E come il vecchio Zanichelli faceva anche l’editore, e aveva voglia di allargare in questa parte la sua industria, non tardò a nascergli il desiderio di pubblicare qualche libro del suo nuovo avventore. Il centenario dell’Ariosto che, con un anno di ritardo, doveva celebrarsi nel maggio del 1875 a Ferrara, fu l’occasione favorevole ai disegni dell’editore libraio; e si trovarono d’accordo che il Carducci gli avrebbe preparato uno studio sulle poesie latine dell’Ariosto. Intanto che egli attendeva a questo lavoro, si presentò l’opportunità di fare una seconda edizione delle Nuove Poesie. Lo Zanichelli non se la lasciò scappare; il Carducci aderì di buon grado; e così nell’aprile del 1875 uscì pei tipi del libraio bolognese la seconda edizione delle Nuove Poesie, che si avvantaggiava sulla prima per tre piccoli componimenti nuovi, e che recava innanzi tradotti gli articoli di Carlo Hillebrand, Adolfo Pichler e Carlo von Thaler. A questa seconda edizione ne successe una terza nel 1879, in formato elzeviriano, eguale nel resto alla precedente, salvochè n’era stato tolto il Prologo ai Levia Gravia, ed aveva innanzi una prefazione di Enrico Panzacchi, il quale dava del Carducci poeta il più compiuto ed equanime giudizio che fino allora fosse stato pubblicato.
La seconda edizione delle Nuove Poesie fu il primo libro del Carducci pubblicato dallo Zanichelli. Nel maggio del 1875 pubblicò la prima edizione, in [190] pochi esemplari, del volume sulle poesie latine dell’Ariosto, e ne mandò fuori una seconda l’anno appresso. D’allora in poi lo Zanichelli divenne l’editore diremo così ufficiale delle poesie del Carducci.
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Tener dietro minutamente in tutte le sue parti all’operosità letteraria del nostro, è cosa non dirò difficile, ma quasi impossibile, anche per me, specie d’ora innanzi. Le lezioni all’Università, gli studi critici, le polemiche, le opere d’erudizione, le poesie, si contendevano le ore e i minuti di lui, il quale passava nello stesso giorno dalle une alle altre con una mirabile agilità ed instancabilità. Si preparava alle lezioni, correggeva la materia e le stampe dei suoi volumi di prosa, scriveva articoli per la Nuova Antologia e per altri giornali, attendeva alle nuove edizioni delle sue poesie, dove aggiungeva, mutava, correggeva, non mai contento di sè; scriveva relazioni per la Deputazione di Storia patria, dava sferzate terribili ai suoi critici, componeva poesie nuove.
Non aveva, si può dire, finito di pubblicare le Nuove Poesie e già mulinava le Odi barbare. Il 16 dicembre 1873, inviandomi l’ode Su l’Adda mi scriveva: «Ti mando una nuova poesia: nuova in tutto, anche nel metro, che è antico e senza rima. Leggila, falla leggere a Ottaviano (il Targioni) e rimandamela.» Glie la rimandai con le nostre osservazioni, [191] che trovò giuste; e rispondendomi il 1º gennaio 1874 soggiungeva: «Voglio farne altre delle odi in metri consimili e in quel genere: sentirai, sentirai. Ho voglia anche di fare delle elegie in esametri e pentametri, come Goethe. Non so perchè quel che egli fece col duro e restio tedesco non possa farsi col flessibile italiano.» Con la stessa lettera mi diceva: «Io leggo nelle ore di riposo, a questi giorni, i colloqui di Goethe con Eckermann e le Elegie romane, e queste letture mi fan ritornare con tutta l’anima e la persuasione alla grande poesia greca. In fondo, confessiamolo, fu la più gran poesia della terra: Omero, Pindaro, Sofocle, Aristofane, Teocrito, sono gli ultimi confini del bello di primo getto, giovenile, florido, sereno. Dopo viene il riflesso, il contorto, il vecchio. Noi abbiamo dei frissonnements d’inverno, e crediamo che sieno i brividi della ispirazione.» Ai primi di luglio dello stesso anno, mentre stava scrivendo il discorso sul Petrarca, che lesse il 18 del mese stesso in Arquà, tornava a parlarmi delle poesie in metro antico, così: «Tento i metri antichi, greci e latini. Son cose che devon parer molto brutte. Lo faccio a posta per i fanfullisti e i guerzoniani. Ho fatto l’alcaica pura con versi che non rimano e non tornano. Farò l’esametro e il pentametro. E mi divertirò. Tutta questa letteratura che esiste ora è abietta. Tutta questa società è tal cosa che non merita ci occupiamo di lei. Ritorniamo dunque all’arte pura, ai [192] greci e ai latini. Come son ridicoli nanerottoli cotesti realisti italiani!» Ai primi d’agosto venne a Livorno, e mi fece sentire le prime strofe dell’ode alcaica intitolata Ideale, che fu la prima da lui composta in quel metro.
Intanto aveva finito il volume degli Studi letterari, che fu pubblicato dal Vigo ai primi di quell’anno 1874, e conteneva i cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale, e gli scritti Delle rime di Dante, Della varia fortuna di Dante, e Musica e poesia nel secolo XVI; ed aveva subito messo mano all’altro volume dei Bozzetti critici e discorsi letterari, e al Saggio di un testo e commento nuovo delle Rime del Petrarca. Il lavoro sul Petrarca, intorno al quale aveva speso tante fatiche, era stato da lui cominciato alcuni anni prima per il Barbèra; ma siccome procedeva alla stracca, e dal ’70 in poi era stato interrotto, egli sulla fine del 1873 si sciolse dall’impegno, e limitando il lavoro ad un Saggio, lo diede a stampare al Vigo.
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Il volume dei Bozzetti critici e il Saggio del Petrarca, pubblicati nel 1876, diedero insieme col volume degli Studi letterari la misura intera del valore del Carducci come storico della letteratura, come erudito, come critico, come prosatore, come polemista. Degli Studi letterari la Revue critique [193] diede un giudizio molto giusto; disse che di tutti i libri scritti sulla antica letteratura italiana ce n’era pochi che fossero al tempo stesso così attraenti e così solidi; e a proposito Del Saggio del Petrarca scrisse queste parole, che si possono applicare anche agli Studi letterari: «Il Carducci sa essere il più esatto degli eruditi, il più minuzioso dei critici, e al tempo stesso un pensatore originale e uno scrittore ardito.»
Nel volume dei Bozzetti critici erano, fra altri scritti di minore importanza, ma tutti notevoli come esempi di prosa nuova, viva, efficace, le Polemiche sataniche, gli scritti sul Secondo centenario del Muratori e su Alcuni critici del Manzoni, Critica e Arte, e il discorso Del rinnovamento letterario in Italia, ch’era stato letto dall’autore per la inaugurazione degli studi nella Università il 16 novembre 1874.
Nei primi dieci anni del suo insegnamento il Carducci si era occupato quasi esclusivamente della parte antica della letteratura italiana, cioè delle origini, e del grande periodo classico. Quelli anni d’insegnamento si rispecchiano nel volume degli Studi letterari. Dopo il 1873 incominciò a fare più larga parte nelle sue lezioni alla letteratura moderna. Nei primi del 1874 fece per quattro giorni di seguito lezione sul Cinque Maggio, raffrontandolo coll’ode di Victor Hugo su Napoleone II; e il citato discorso d’inaugurazione all’Università del 16 novembre dell’anno stesso fu una mirabile introduzione agli studi di letteratura moderna, che appunto allora cominciò [194] a trattare più di proposito con un corso sulle poesie del Parini.
La scolaresca, che, passati i primi anni, era venuta sempre lentamente crescendo, dopo la pubblicazione delle Nuove Poesie crebbe d’un tratto in modo straordinario, essendosi aggiunti ai veri e propri studenti i così detti uditori; ciò che al professore dava fastidio; nè egli lo nascondeva. Narra un suo scolare, ora divenutogli collega, che al cominciare dei corsi annuali, fra le altre sue avvertenze soleva esserci questa: «Che gli studenti non filologi e non studenti si compiacessero di non affollargli la scuola, perchè egli non era una prima donna o un tenore nè pensava a dilettare i curiosi. Il qual desiderio (prosegue il narratore), quantunque ripetuto e rincalzato spesso, non trovava esaudimento. Molti, troppi venivano: e in fondo, se anche taluni eran mossi da mera curiosità, rare volte curiosità fu più scusabile.»[44]
È giusto; ma è anche scusabile il Carducci se qualche volta gli scappò la pazienza. Non ci fu tra quelli uditori chi lo accusò pubblicamente di avere nelle sue lezioni infamato il Parini? Si ebbe perciò una lezione, che non so quanto gli profittasse, ma che probabilmente non dovè fargli molto piacere.
[195]
Mentre attendeva nella scuola alla illustrazione delle poesie del Parini, raccogliendo preziosi materiali pe’ suoi lavori critici intorno a questo poeta, non dimenticava il Carducci le Odi barbare. Nell’aprile del 1875 scrisse l’ode Fantasia, il cui primo titolo era Rimembranze antiche, nell’agosto dell’anno stesso Ruit hora, nel marzo del 1876 In una chiesa gotica, nel luglio la prima parte dell’ode Alle fonti del Clitumno, che finì e pubblicò nell’ottobre in un giornale bolognese La Vedetta (n. 3, 21 ottobre 1876). L’ode Nella Piazza di San Petronio (che da prima aveva un altro titolo, Natura, Arte, Storia), fu composta nel febbraio 1877; e fra il ’76 e la prima metà del ’77 tutte le altre che con quelle già indicate formarono il primo volume.
Ma questa nuova forma di poesia era ben lungi dall’avere assorbito interamente il poeta. Negli anni dal 1874 al 1877 compose le prime venti strofe della poesia Davanti San Guido, cominciò e condusse molto innanzi la Sacra di Enrico V e la romanza storica in ottonari Faida di Comune; cominciò pure la prima parte della Canzone di Legnano, che finì poi nel 1879; scrisse l’ode Alla Rima, i primi cinque capitoli dell’Intermezzo, ed altro. Ciò tutto dimostrava come il poeta delle Odi barbare non solo non avesse fatto divorzio, come alcuni parvero dubitare, dalla rima, ma avesse anzi seguitato a cercare anche fuori dei metri classici nuove forme alle sue concezioni. Faida di Comune, la Canzone di Legnano [196] e l’Intermezzo non solo proseguono trionfalmente l’opera dell’autore delle Nuove poesie, ma portano in essa alcune note interamente nuove. La maggior parte di queste poesie furono compiute e pubblicate più tardi. Le Odi barbare videro la luce, come è noto, nel luglio 1877.
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Poco prima il poeta aveva corso un grave rischio, il rischio di entrare nel Parlamento italiano. Anzi i voti dei cittadini di Lugo ce lo avevano mandato; ma la fortuna questa volta gli fu propizia: mentre si faceva il sorteggio dei professori, ella, cavatasi la benda, adocchiò il nome di lui e lo trasse fuori, risparmiandogli di perdere il tempo e guastarsi il sangue in quella bolgia, dove per trovarsi ad agio bisogna essere almeno un po’ ciò che lui non è punto; un po’ intriganti, un po’ ipocriti, un po’ ciarlatani. Anche una certa dose d’ignoranza e di cretinismo non guasta: ma ciò che giova soprattutto e non avere convinzioni facendo mostra d’averne, e deporre sulla soglia ogni avanzo di rispetti umani e di scrupoli.
Per un momento il Carducci ebbe l’illusione ch’essere una particella della rappresentanza nazionale fosse pure onorevole cosa, e per la quale si potesse rendersi utile alla patria: onde alla lettera del Direttore del giornale Il Lavoro di Lugo, che [197] offrivagli a nome delle sezioni riunite di quel collegio politico la candidatura alla Deputazione, rispose, dopo averci pensato un pezzo, il 19 ottobre 1876, così:
«Non le nascondo che pendei lungamente incerto (e quindi anche la tardata risposta) fra l’accettare o no l’onorifica offerta. Me ne sconsigliavano il pensiero di dovere intermettere, anche per poco, quelli studi che furono e sono l’occupazione e il conforto della mia vita, e più ancora la conoscenza, che io ho prima di ogni altro e pienissima, della mia scarsezza e inesperienza dinanzi all’alto officio. Ma per contro ripensai, o, meglio, qualche amico mi fece ripensare: che, dopo aver sostenuto, come io feci sempre, l’utilità e il dovere per la parte democratica di entrare nelle elezioni e nella rappresentanza nazionale, ritrarmi ora io personalmente dal pericolo della prova, sarebbe un disertare dinanzi alla battaglia, dopo aver gridato agli altri avanti avanti....
»E però accetto. Accetto non foss’altro pel rischio della battaglia.»[45]
Il 19 novembre, dopo avvenuta l’elezione, il Carducci, in un banchetto offertogli dagli elettori, fece il suo discorso, diremo così, politico, dichiarandosi poeta e repubblicano e sostenendo che la poesia, come la intendeva e faceva lui, non è tal colpa per [198] cui un uomo abbia a soffrire la diminuzione civile. Quel discorso, splendido di concetti e di forma, e in alcuni punti veramente eloquente, è oggi stampato nel volume quarto delle opere, col titolo Per la poesia e per la libertà, e mostra chiaramente che il Carducci non era un uomo politico possibile nella Camera d’allora, nè, tanto meno, d’ora.
Del resto egli stesso era così poco desideroso d’andare a esercitare il suo ufficio di deputato a Montecitorio, che il 31 gennaio 1877, alla vigilia del sorteggio dei professori, mi scriveva: «Non sono andato a Roma ancora, nè v’anderò se non dopo il sorteggio, se questo mi tornerà favorevole. Se no, sono rassegnatissimo a starmene. Mi trovo molto bene solo. Mi faccio sempre più orso. Viva Atta Troll.» E conchiudeva un suo sfogo contro la politica parlamentare con queste parole: «Il vero non esiste. Il bello si è rifugiato all’inferno e l’onesto in galera.» Un poeta e idealista quale il Carducci come poteva trovarsi bene in un’accolta di uomini, che, salvo qualche eccezione personale, è la negazione della sincerità e dell’estetica? Egli, che aveva fatto allora allora proposito di abbandonare la poesia dei giambi ed epodi, per tornare all’arte pura e serena, egli a Montecitorio sarebbe diventato idrofobo.
Meglio dunque che ne rimanesse fuori. E rimastone fuori, non gli mancarono le occasioni di esporre la sua opinione sul Parlamento e sui governi che [199] ne furono via via la degna espressione. Quindici anni dopo, nel novembre del 1883, scriveva: «Certo che, a giudicarlo (il Parlamento) dal valor suo concettuale, da ciò che ammira come eloquenza, da ciò che gusta come spirito, da ciò che crede politica fina, e più dalle prede di voti che il Ministero esercita su quel suo cabotaggio di piccolo corso, ci sarebbe da disperare: ma in fondo è un collegio di buoni ragazzi, che vogliono, come i loro mandanti, più figurare e divertirsi che lavorare: onde venti giorni di discorsi e di emendamenti, e ordini del giorno a tonnellate, e dieci leggi votate in dieci minuti: folla agli scandali, deserto ai bilanci: fanno forca, burlando il maestro. Oh fate forca, fate forca allegramente, onorevoli: già di tanta eloquenza non una parola echeggerà nell’avvenire.» E conchiudeva: «Ho paura che, se con sì fatta gente non si fondano le repubbliche, nemmeno si afforzino le monarchie: ho paura che intanto abbiamo quel che ci meritiamo, Machiavelli Depretis e Tacito Chauvet: ho paura che avremo nell’avvenire anche di peggio.»[46]
La profezia pur troppo si avverò.
***
Nel giugno del 1877 il Carducci era a Massa, mandatovi dal Ministero ad ispezionare quel liceo; [200] e là scrisse nel giorno 13 la nota apposta alle Odi barbare, per ispiegare la ragione del titolo e della novità metrica da lui tentata. Il 14 mi scrisse una cartolina, invitandomi ad andare a raggiungerlo per recarci insieme la domenica prossima, 17, a Serravezza, a vedere l’amico Francesco Donati, ch’era là da qualche tempo ammalato. Io non avevo più notizie di lui da qualche anno. L’ultima sua lettera a me credo fosse del febbraio 1871 da Urbino, dov’egli era insegnante di lettere italiane nel liceo fino dal 1866. Arrivai a Massa il sabato sera; andai col Carducci, non mi ricordo perchè, a far visita al Prefetto; e la mattina dipoi di buon’ora partimmo con una carrozzella alla volta di Serravezza.
Il tempo era bellissimo. Uno splendido sole di giugno empiva di luce, di movimento, di vita la lussureggiante vegetazione della campagna, fresca e odorata dei vapori notturni discioltisi allora allora al raggio del sole. Io vedevo per la prima volta quei luoghi, dei quali aveva tante volte sentito celebrare la bellezza dal Carducci e dal Donati; e il Carducci, a cui la vista di essi rinfrescava le dolci memorie e le impressioni della fanciullezza, mi aiutava con le sue parole a meglio sentirne l’incanto. Giunti in vicinanza del paese lasciammo la vettura a piè d’una salita, affinchè il cavallo si riposasse, e proseguimmo a piedi il resto della via. Trovata, dopo qualche domanda alle prime persone che incontrammo, la casa dell’amico, ci facemmo annunziare. Egli era fuori, [201] non so se nell’orto, o presso qualche conoscente: accorse subito, e rimase molto meravigliato e giubilante della nostra visita, ch’era ben lontano dall’aspettarsi.
Ma oh quale dolorosa impressione provammo alla sua vista! E forse non riuscimmo a nasconderla interamente; poichè egli, dopo le prime espansioni di gioia e di affetto, si rannuvolò un poco e disse tristamente: — Vedete come è ridotto il vostro Cecco! Vi ringrazio, amici, che siete venuti a darmi l’ultimo addio. —
Veramente non c’era più in lui nemmen l’ombra dell’uomo di un tempo. Quella faccia, nella sua alfieriana austerità, luminosa e serena, era divenuta fredda e smorta; la fronte ampia, solcata d’infinite rughe, pareva come rattratta; gli occhi, privi della loro vivezza e mobilità, erano come velati d’una nube di tedio; le guance scarne e infossate. E la barba da parecchi giorni non rasa, e i capelli incolti, e le vesti trasandate davano al povero amico nostro l’aspetto di un uomo che, sentendo d’avere un piè sulla fossa, avesse detto a sè stesso: a farmi la toilette per l’altro mondo non ci ho da pensare io.
Egli voleva pure offrirci qualche cosa, e non avendo niente lì sotto mano, s’inquietava di non potere. Noi gli dicemmo che non avevamo bisogno di niente, ch’eravamo venuti soltanto per vederlo e far due chiacchiere con lui, che non potevamo trattenerci se non pochi istanti: avevamo il legno che ci [202] aspettava giù in fondo alla scesa, e dovevamo ripartire subito. Tentammo contradire alle sue insistenti affermazioni che non lo avremmo più riveduto, e ci provammo più volte a fargli coraggio, pur sentendo la vanità delle nostre pietose menzogne.
Quella visita fu uno strazio: ci era penoso il rimanere, più penoso l’andarcene. Qual contrasto fra quella vita che si spegneva e la natura intorno esuberante di vigore, di calore, di luce! Come triste il pensiero che davvero non ci saremmo più riveduti! Finalmente ci facemmo un animo risoluto, abbracciammo l’amico, e quasi a forza, poichè egli pareva non potersi staccare da noi, ci allontanammo. Aveva voluto accompagnarci per un pezzetto di strada, benchè il camminare lo affaticasse, e noi lo avessimo pregato di rimanere; poi fermatosi su un rialto di dove si scorgeva buon tratto della strada che dovevamo fare, seguitò a salutarci con la mano e con la voce fin che ci vide e credè che noi potessimo udire le sue parole. Le ultime che ci giunsero all’orecchio furono: — Addio per sempre. —
E fu vero: non passò un mese, ch’era morto. Il Carducci ed io volevamo fare qualche memoria di lui; ma la mancanza di notizie della sua vita ed altre difficoltà furono cagione che il nostro proposito rimase per allora senza effetto. Certe cose, anzi molte cose, se non si fanno subito, non si fanno più. La vita è così: gli avvenimenti si incalzano, e il domani getta nel dimenticatoio molti propositi dell’ieri. [203] Non dispiace, son certo, al Carducci che io, ad ammenda della nostra dimenticanza d’allora, abbia fatto qui ricordo dell’amico nostro.
E di altri dovrò farne.
Se per ciò queste mie note biografiche somiglieranno qua e là un necrologio, che colpa ne ho io? Colpa sarebbe se dinanzi ai nomi dei cari amici che ci precederono nel gran viaggio alla città dell’ignoto, io non mi soffermassi per mandar loro almeno un saluto.
Salutiamo dunque anche il buon uomo Francesco Menicucci, che appunto in quel tempo mancò ai vivi. Il 24 maggio, mentre il Carducci stava per venire in Toscana a visitare i licei di Pisa e di Massa, la moglie di lui partiva per Firenze a rivedere l’ultima volta suo padre, ch’era in fine.
***
Tornato a Bologna il Carducci consegnò allo Zanichelli la nota su le Odi barbare, e queste furono subito finite di stampare e messe in vendita.
Pochi giorni innanzi, l’editore stesso aveva pubblicato le poesie di Olindo Guerrini, dal titolo Postuma di Lorenzo Stecchetti, iniziando con questo volume e con le Odi barbare la sua biblioteca elzeviriana, che nei primi anni levò grande rumore, e fece girare la testa a molta gente. Il vedere stampati i propri versi, o le prose, ma specialmente i versi, [204] in quelli eleganti volumetti civettuoli, faceva credere a molti ch’e’ dovessero, come a loro anche agli altri, parere più belli.
La moda passò, come, o presto o tardi, passano tutte, e dei libri durarono quelli che avevano ragione di durare. Ma è pur sempre vero che, indipendentemente dal merito, habent sua fata libelli; o, meglio, che alii habent, alii merentur famam; con questo però che delle fame superiori al merito in generale pensa il tempo a fare giustizia. Nei tre anni dal 1878 al 1880 furono fatte tre edizioni delle Odi barbare e sette dei Postuma di Olindo Guerrini.
Veramente lavoro d’arte nel libretto del Guerrini ce n’era, e c’erano dei versi molto felici e molto girati bene, come diceva il Carducci; ma c’era anche molta imitazione, e della roba scadente e volgare. Ciò che fece la fortuna, veramente straordinaria, del libro, fu, oltre la materia appartenente per tre quarti al genere voluttuario, la grande facilità della verseggiatura, la naturalezza e semplicità della lingua e dello stile. Non un verso duro, non una rima stiracchiata, non una parola, non una frase, che non fosse a tutti chiarissima. Chi leggeva capiva e si divertiva; e gli pareva che se avesse avuto voglia di fare dei versi, li avrebbe voluti fare a quel modo. Ma certo anche il genere entrò per buona parte nella fortuna del libro. Erano gli anni in cui le porcherie dei romanzi dello Zola, non dirò erano perdonate all’autore in grazia dell’arte sua, ma [205] acquistavano ad essa ammiratori e lettori. «Oggi in Italia, diceva un amico mio, parlando delle poesie del Guerrini, per i crevés ci vuole quel genere, come negli ultimi del regno di Luigi Filippo e del secondo Impero: non vogliamo più sapere delle grandi idee, delle grandi questioni, dei grandi amori del bello e del vero, della grande arte: dateci della porcheria, dice la gioventù scettica che vien su, dice la gente di mezza età affarista e vigliacca, dicono i vecchi corrotti, e la canea dei critici e dei giornalisti e dei professori e dei ciarlatani, dateci della porcheria, qui siamo tutti d’accordo, qui non v’è più partito.»
Il volume, delle Odi barbare venuto fuori quando d’ogni parte e su tutti i giornali suonavano le lodi della felice facilità delle poesie del Guerrini, non poteva naturalmente incontrare il gusto del pubblico. Se nei primi tre o quattro giorni se ne venderono mille copie, ciò si deve al fatto che la fama del poeta posava oramai sopra basi granitiche; un libro suo nuovo bisognava comprarlo: ma alla grande maggioranza, che gustava i versi dei Postuma scorrenti come un giulebbe, quelli delle Odi barbare doveano di necessità parere duri, sversati, sgarbati. Il Trezza ne scrisse un articolo di lode, ragionato bene, nel Diritto; e un altro pure lodativo, ma leggiero, il Barrili nel Caffaro. Ma di lì a poco, apriti cielo: scoppiò da tutte le cateratte del giornalismo italiano un diluvio di censure contro l’opera del grande, [206] del potente, del poderoso poeta, che questa volta, poveretto, aveva perduto la bussola. Le critiche erano un ammasso di bestialità, ma erano spontanee, sincere; erano uno sfogo irresistibile di gente che non poteva trattenere più il peso delle idee che le gravava l’intestino cerebrale, e doveva pure liberarsene, per non scoppiare.
Passato il diluvio, e spazzatene le lordure nelle fogne, tornò a splendere il sereno del buon senso; le bellezze delle Odi barbare furono più generalmente comprese; e lo stesso Guerrini, uomo d’ingegno vero, e fine e versatile, cominciò a farne anche lui.
L’anno dopo mise fuori un nuovo volume di versi, Nova Polemica, migliore del primo, ma che non ebbe così grande e intero successo come quello, per molte ragioni che qui sarebbe fuor di luogo cercare.
Le Odi barbare ebbero anche il merito di suscitare importanti questioni d’arte e di metrica, che non furono inutili al progresso degli studi.
***
Nel luglio e nell’ottobre del 1877 il Carducci andò a Perugia commissario per gli esami di licenza liceale. «Qui il paese è veramente bello, mi scriveva il 26 di luglio, tale che fa intendere la Scuola umbra: che linee d’orizzonte, che digradare vaporoso di monti in lontananza! Fui ad Assisi: è una [207] gran bella cosa, paese, città e santuario, per chi intende la natura e l’arte, nei loro accordi con la storia, con la fantasia, con gli affetti degli uomini. Sono tentato di fare due o tre poesie su Assisi e san Francesco.» Peccato che non facesse altro che il bel sonetto Santa Maria degli angeli. Invece nell’ottobre «passeggiando per la piazza Vittorio Emanuele, ov’era una volta la Fortezza Paolina, e onde si vede oggi un panorama dell’Umbria, che, fra le vedute non di mare, è certamente una delle più belle d’Italia», cominciò il Canto dell’amore, che finì e pubblicò nel gennaio dell’anno appresso pei tipi Zanichelli. Poi nel novembre 1878 la visita dei Reali a Bologna gli ispirò l’ode alcaica Alla Regina d’Italia, che fu pubblicata l’anno stesso dagli stessi editori.
L’ode Alla Regina suscitò le ire dei democratici repubblicani, i quali oramai consideravano il Carducci come il poeta del loro partito. Ma diciamo subito che ne provarono un senso come di sorpresa alcuni degli amici stessi del poeta: il Nencioni fra gli altri e chi scrive queste pagine; non per l’ode in sè, nella quale niente è di dinastico, ma per il fatto che l’autore della Consulta araldica e di Versaglia avesse scritto un’ode Alla Regina. Il Nencioni, che non partecipò mai le ammirazioni del Carducci per Robespierre e Saint-Just, appena letta l’ode mi scrisse: «Che ti pare dell’ode alla Regina del Carducci? A me ha fatto una curiosa impressione [208] un’ode alla Regina scritta da Enotrio Romano.» E mi lodava alcune parti dell’ode che più gli piacevano. Io non nascosi al Carducci la mia impressione, ch’era su per giù quella stessa del Nencioni; e il Carducci mi rispose spiegandomi come la cosa era andata. «Anzi tutto, mi scrisse, l’ode me la ispirò Lodi. Per far dispetto al Fanfulla e a’ monarchici rabbiosi, perchè non fa un’ode alla Regina? Tanto lei ha rifiutato la croce di Savoia, e nessuno ha un appicco a dire, che voglia ringrazionirsi. Si può esser gentili senza essere apostati.» Soggiungeva, aver saputo fino dal giugno innanzi come la Regina ammirasse le sue poesie, e specialmente le odi barbare, come avesse espresso il desiderio di vederlo quando andava a Bologna, come avesse voluto ch’egli fosse proposto per la croce del merito; soggiungeva avergli essa parlato con molta cortesia delle sue poesie. «Tu intendi, proseguiva, che dopo tutto quello che di me e delle mie poesie e delle odi barbare avevano detto e scritto i consorti, quelle lodi e quelle attenzioni mi piacquero. Imparate un po’, canaglia, a essere almeno educati: chè in quanto a capir qualche cosa è tempo perduto. E credo che la Regina abbia veramente capito delle odi barbare più assai che molti poeti e critici italiani. Ella è figlia d’una donna sassone, ed è stata avvezza a leggere la poesia tedesca. Se sapessero i poeti delle barcarole e i critici delle mandolinate che io scrivo che un mezzo per capire le mie odi [209] barbare è conoscere la poesia tedesca! Ma tu m’intendi. I giornali clericali dicono: Dopo Passanante, Carducci: il Carducci ha fatto l’attentato su la Regina; e se la pigliano con la Regina che lodò le odi barbare. Arcangelo Ghisleri nella Rivista Repubblicana scrive un mucchio d’insolenze e d’ignorantaggini e scipitaggini. La Perseveranza scrive che al suon delle odi alcaiche si vuol far l’evoluzione dalla monarchia alla repubblica. Aurelio Saffi — lo riscontrai, dopo due mesi, la prima volta, il giorno che si vendeva l’ode, — mi disse: — Prima di tutto, mi rallegro di cuore per la bellissima ode. Voi avete dato una nobilissima prova della squisitezza e gentilezza dell’animo italiano. Altro che ode barbara! — Dopo tutto ciò io sono contento di me.»
Il Ghisleri aveva nel suo articolo mandato il Carducci a scuola di dignità dal Foscolo, scrivendo, fra le altre, queste parole: «Che direbbe lo sdegnoso cantore delle Grazie nel vederle oggi buttate in pascolo alla folla come un instrumentum regni?» E il Carducci scriveva a me: «Ugo Foscolo non si contentò di fare de’ versi berenicei su la Viceregina, ma stiaffò tanto d’Aiace sul viso a quel povero Beauharnais che anche titolava di vigliacchi gl’Italiani, e mandò i suoi versi a Milano perchè fossero veduti e approvati.»
Le ragioni addotte dal Carducci escludevano il più lontano sospetto di cortigianeria dalla composizione dell’ode, e chi lo conosceva non poteva avere [210] avuto neppur l’ombra di tale sospetto; ma sopra tutte le altre ragioni dell’averla composta stava, secondo me, questa, ch’egli accenna in fine della lettera ad Achille Bizzoni del 19 gennaio 1879: «La Regina è una bella e gentilissima signora, che parla molto bene, che veste stupendamente: ora non sarà mai detto che un poeta greco e girondino passi innanzi alla grazia e alla bellezza senza salutare.»[47] Insomma ciò che vinse il poeta fu l’Eterno femminino. Il suggerimento del Lodi non avrebbe trovato l’animo di lui così disposto ad accoglierlo, s’egli non avesse avuta già piena la mente della visione della Regina nel breve passaggio di lei per Bologna. Scritta l’ode, sentì più tardi il bisogno di spiegarne l’origine, e scrisse la bella prosa Eterno femminino regale, pubblicata nella Cronaca bizantina del 1º gennaio 1882. Ma il fatto è che, pur seguitando a credersi e proclamarsi repubblicano, il poeta con quell’ode e con quella prosa muoveva i primi passi verso il suo ritorno alla monarchia.
***
Oramai i metri barbari erano entrati nel patrimonio artistico del poeta; ed egli, pur allargandone le forme e perfezionandole, da qui innanzi seguiterà a poetare ora in questi, ora negli antichi metri rimati, secondo che gli uni o gli altri gli parrà si accordino [211] meglio alla forma organica con la quale i sentimenti e i pensieri poetici gli si andranno determinando nella mente.
La seconda edizione delle Odi barbare fu pubblicata nel 1878, con innanzi il mio discorso su I critici italiani e la metrica di esse odi; la terza nel 1880 con la giunta di una Bibliografia di alcune opere del Carducci.
Quando questa uscì, egli aveva già composto altre quattro delle più belle fra le nuove Odi barbare: tutte quattro nel 1879: Saluto italico nel gennaio, Pel Chiarone nell’aprile, Per la morte di Napoleone Eugenio nel giugno, Fuori alla Certosa di Bologna nell’agosto. Le prime strofe dell’ode per Napoleone, ch’è e rimarrà non solo una delle più belle fra le odi barbare, ma una delle più belle liriche del Parnaso italiano, le scrisse fra un esame e l’altro all’Università, letta ch’ebbe nei giornali la notizia della morte del giovane principe. Uscito, andò alla libreria Zanichelli, chiese una carta d’Aiaccio, la considerò un istante, si fece prestare un giornale illustrato ove era una figura della casa ove nacque Bonaparte, e tornato a casa, fra la sera e la mattina seguente finì l’ode. Ne aveva cominciate anche altre; fra le quali fino dall’8 luglio 1878 Miramar, che rimase incompiuta fino al settembre 1889. Tanto questa che Saluto italico gli furono ispirate dalla visita ch’egli fece a Trieste appunto nel luglio 1878.
[212]
L’ode Saluto italico. — Visita a Trieste. — Scritti per Guglielmo Oberdan. — Il Fanfulla della Domenica. — Il Carducci a Roma. — Il Carducci e il Prati. — Enrico Nencioni. — Il Bothwell del Swinburne e il libraio Goodban. — Angiolino Sommaruga. — I saloni gialli del Capitan Fracassa e la corte letteraria alla Cronaca bizantina. — Il Carducci e la Cronaca bizantina. — La Domenica letteraria. — La Domenica del Fracassa. — Arresto del Sommaruga. — Opinione di Gandolin sul Sommaruga in America. — Il Carducci al Consiglio superiore dell’istruzione. — Vita del Carducci a Bologna dopo il 1870. — Le serate da Rovinazzi e da Cillario. — Il pasto del mago. — I dodici sonetti Ça ira. — Le critiche ai sonetti. — Il Ça ira in prosa.
Oh al bel mar di Trieste, a i poggi, a gli animi
volate col nuovo anno, antichi versi italici:
ne’ rai del sol che San Petronio imporpora
volate di San Giusto sopra i romani ruderi!
Salutate nel golfo Giustinopoli,
gemma de l’Istria, e il verde porto e il leon di Muggia;
salutate il divin riso de l’Adria
fin dove Pola i templi ostenta a Roma e a Cesare!
Poi presso l’urna ove ancor tra’ due popoli
Winckelmann guarda, araldo de l’arti e de la gloria,
in faccia a lo stranier, che armato accampasi
su ’l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!
[213]
L’ode Saluto italico, cui appartengono questi versi, composta, come fu detto, nel gennaio del 1879, fu pubblicata la prima volta nel n. 4 (21 aprile 1879) della Giovine Trieste, giornale irredentista rivoluzionario, che si stampava a Roma, con la falsa data di Trieste, e si diffondeva nelle terre irredente. L’autore tentò in quell’ode un nuovo metro barbaro, in risposta a Paulo Fambri, che col nome di Molosso aveva fatto nel Fanfulla una critica molto spropositata della metrica delle Odi barbare. L’ode comincia:
Molosso ringhia, o antichi versi italici,
ch’io co ’l batter del dito seguo o richiamo i numeri
vostri dispersi, come api che al rauco
suon del percosso rame ronzando si raccolgono.
Ma voi volate dal mio cuor, com’aquile
giovinette dal nido alpestre ai primi zefiri: ecc.
Il Carducci rispose sempre così alle critiche irragionevoli. Ma questo, che riguarda soltanto la parte formale della poesia, era il meno; l’importante era la sostanza di essa, era il sentimento e lo spirito che glie l’avevano dettata; e l’importanza maggiore della forma stava in ciò, che, a portare il saluto della patria alle antiche terre italiche ancora divise da lei, il poeta non aveva trovato messi più degni degli antichi versi italici.
[214]
***
Il Carducci era, ed è certo ancora in cuor suo, un irredentista; nè può se non deplorare che la parola irredentismo sia oramai quasi cancellata dal vocabolario e dai cuori degli italiani. Gli scritti su Oberdan, ch’egli ha raccolti e ristampati nel dodicesimo volume delle Opere pubblicato nell’anno scorso, sono una fiera rampogna del poeta all’Italia. Non mai come ora fu vero il verso tante volte rimproveratogli: «la nostra patria è vile.» E pure, diciassette anni fa egli sperava ben altro.
E ben altro pensava quando nel luglio del 1878 andò, come dicemmo, a visitare Trieste.
Il suo nome, il suo patriotismo, le sue poesie erano ben note agli italiani delle provincie irredente; onde egli ricevè là un’accoglienza entusiastica.
Il giornale L’Indipendente annunziava l’8 luglio il suo arrivo con queste parole: «Abbiamo da ieri fra noi l’illustre poeta Giosue Carducci, il quale, trovandosi a Venezia per ragione di studi, volle visitare anche la nostra città.» E due giorni dopo rendeva conto del banchetto col quale gl’italiani di Trieste celebrarono il lieto avvenimento.
«Ieri dopo pranzo, nella sala del Monte Verde, un’eletta di cittadini raccoglievasi a geniale banchetto, per festeggiare, auspice la Società di Minerva, Enotrio Romano.
[215]
»Erano là rappresentate tutte le classi della cittadinanza; il nostro piccolo ma laborioso mondo artistico, le migliori notabilità del fôro e della stampa, e le rappresentanze delle più cospicue associazioni liberali.
»Intorno a quel desco Enotrio Romano raccolse numerosi e cordiali saluti: — il saluto della giovine letteratura, ardente di nobile volere nel cammino segnato dai grandi, — il saluto della classe lavoratrice, in cui le febbri dell’avvenire si rattemprano fra il sudato fervore delle officine; — il saluto di quella Tergeste che lavora e spera, colla fiducia ch’è degli onesti e colla perseveranza ch’è dei forti.
»Enotrio Romano udì incrociarsi intorno a lui l’evviva cordiale alle patrie associazioni e al nome venerando di chi ne propugnò i diritti; — udì, intorno a lui, la parola di quella concordia, ch’è il vincolo più robusto e più bello tra le classi della nostra cittadinanza.
»E Giosue Carducci rispose con profonda commozione, con sentito affetto; — rispose parole che non possono uscire che dall’anima di un grande, che sente, che ama e che comprende.»
Alla sera due imbarcazioni di canottieri attendevano al molo San Carlo il poeta, per condurlo, in compagnia di alcuni dei partecipanti al banchetto, a fare una passeggiata in mare; la mattina di poi una ristretta brigata d’amici lo accompagnò a visitare la vicina Capodistria, dove si rinnovarono le [216] cordiali accoglienze. Aveva deciso di partire la sera, ma, cedendo alle vive insistenze degli amici, rimise la partenza alla mattina dipoi. Quando partì, la stazione era affollata di cittadini d’ogni classe, recatisi a stringergli la mano. Egli era commosso. Le sue ultime parole nel congedarsi da loro, furono: A rivederci presto!
***
I sentimenti e i pensieri che la visita a Trieste suscitò e lasciò vivi e incancellabili nel cuore e nella mente del Carducci sono adombrati nell’ode Saluto italico; ma proruppero poi veementi e feroci quattro anni appresso quando Guglielmo Oberdan, glorioso ma inutile martire, salì il patibolo. Victor Hugo e Francesco Carrara avevano chiesto all’Imperatore la grazia del condannato. Victor Hugo gli aveva detto: Siate grande; il Carrara: Siate magnanimo. Il Carducci scrisse:
«No, perdoni il grande poeta: no, Guglielmo Oberdan non è un condannato.
»Egli è un confessore e un martire della religione della patria.»
················
«Egli andò, non per uccidere, io credo, per essere ucciso.
»E oggi in questa oscurazione d’Italia, c’è un punto ancora della sacra penisola che risplende come un faro: ed è la tua austriaca prigione, o fratello!
[217]
»Tutte le memorie, tutte le glorie, tutti i sacrifizii, tutti i martirii, tutte le aspirazioni, tutte le fedi, sonosi raccolte là, nella oscurità fredda, intorno al tuo capo condannato, per consolarti, o figliuolo, o figliuolo d’Italia!
»Oh poesia d’una volta! Chi potesse pigliare il tuo cuore e darne a mangiare a tutti i tapini della patria, sì che il loro animo crescesse e qualche cosa di degno alla fine facessero! — Oh poesia d’una volta! Chi potesse, consolandoti anzi morte con la visione del futuro, farti segno di rivendicazione, e trarre intorno la imagine tua, e batterla su i cuori, gridando: Svegliatevi, o dormenti nel fango, il gallo rosso ha cantato
»No, l’Imperatore non grazierà. No — perdoni il grande poeta — l’Imperatore d’Austria, non che fare cosa grande, non farà mai cosa giusta. La giovine vita di Guglielmo Oberdan sarà rotta sulla forca: e allora, anche una volta,... sia maledetto l’Imperatore!...
»A giorni migliori — e verranno, e la bandiera d’Italia sarà piantata su ’l grande arsenale e su i colli di San Giusto, — a giorni migliori, l’apoteosi.
»Ora, silenzio.»[48]
Così scriveva il Carducci il 19 dicembre 1882 nel Don Chisciotte di Bologna.
[218]
E il giorno di poi:
«Guglielmo Oberdan fu fucilato o impiccato questa mattina alle ore 9 in Trieste.
»È austriacamente naturale.
»L’Imperatore si affrettò a rispondere così al poeta francese, che lo sperava grande; al professore italiano, che lo invocava magnanimo.
»È austriacamente più che naturale.»[49]
Due giorni dopo:
«Italiani, facciamo un monumento a Guglielmo Oberdan!
»Ma no, monumento. La lingua academica di questa età gonfia e vuota mi ha tradito.
»Volevo dire: Segniamo sur una pietra, che resti, la nostra obligazione con Guglielmo Oberdan.
»Guglielmo Oberdan ci getta la sua vita, e ci dice: Eccovi il pegno. L’Istria è dell’Italia.
»Rispondiamo: Guglielmo Oberdan, noi accettiamo. Alla vita e alla morte.
»Riprendemmo Roma al papa, riprenderemo Trieste all’Imperatore.
»A questo Imperatore degli impiccati.»[50]
Nell’ira sua il Carducci sperava che il volontario martirio del giovine triestino non sarebbe stato inutile. E il 27 luglio del 1885, ad un telegramma dell’Indipendente, che portavagli in Carnia, dov’egli [219] era a villeggiare, i saluti e gli auguri dei Triestini pel suo genetliaco, rispondeva così: «Cari signori, Vi ringrazio. In mezzo secolo che ho vissuto vidi gran cose. Me ne sa male pe’ miei nemici; ma spero di campare almeno altri sedici anni; e conto di vedere ancora cose bellissime; vederle e farne parte; non maestro, ma compagno e fratello anziano della nobile gioventù che ama la patria. Ora e sempre vostro Giosue Carducci.» Ecco perchè io dissi che diciassette anni fa sperava ben altro. I sedici anni sono passati; ma la sola cosa, certo non bellissima, ch’egli ha potuto vedere è stata la conferma per altri dodici anni della triplice alleanza.
Il poeta stava rivedendo le bozze dei suoi scritti su Oberdan, raccolti nel vol. XII delle Opere, e il Ministero Zanardelli firmava la nuova e più lunga rinunzia alla rivendicazione di Trento e Trieste.
Abbandoniamo il malinconico argomento e torniamo a parlare di poesia.
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Il 24 agosto dell’anno 1879 il Carducci mi scriveva: «Ora ho il pensiero a finire Sirmione e potendo l’Aurora; poi delle odi barbare ne ho in mente anche parecchie; e se saprò temperare e fondere bene le imagini e i concetti con la forma regolare e chiara, spero che qualche cosa di buono verrà fuori.» Nell’anno seguente aveva, non pure finito l’Aurora, ma [220] composte altre quattro nuove odi barbare: La Madre (gruppo di Adriano Cecioni) nell’aprile, Una sera di San Pietro e Sogno d’estate nel luglio, e l’ode A Giuseppe Garibaldi nel novembre.
Nel luglio dello stesso anno 1879 Ferdinando Martini fondò il Fanfulla della Domenica. «Cosa bella mortal passa e non dura», disse il poeta; e si sapeva anche prima. Non è quindi a meravigliare se il bel Fanfulla della Domenica del Martini durò poco più di due anni e mezzo: ma finchè durò fu un piacere. Ogni buon italiano, più o meno amante di letteratura, più o meno desideroso di istruirsi e di procurarsi con poca spesa uno svago intellettuale, poteva ogni domenica che Dio metteva in terra, svegliandosi alla mattina e uscendo di casa, comperarsi con la tenue moneta di due soldi quattro grandi pagine, e talora, con quattro soldi, otto pagine di scritti, ove era distillato il meglio di ciò che producevano settimanalmente i migliori letterati d’Italia. L’ingegno facile elegante simpatico del Martini aveva saputo raccogliere intorno a sè e disciplinare l’opera dei più valenti scrittori del tempo, dando al giornale un’impronta di serietà e di agilità che contentava i gusti più difficili. Il Martini naturalmente cercò il Carducci, e il Carducci fu uno dei più assidui scrittori del Fanfulla della Domenica. Le odi barbare Alla Certosa di Bologna, Pe ’l Chiarone, La madre, Sogno d’estate, Una sera di San Pietro, All’aurora, ed altre sei poesie, fra le quali quella Pel processo Fadda, [221] videro per la prima volta la luce nel giornale del Martini; e parecchie prose, le polemiche col De Zerbi su Tibullo, due scritti sull’Ariosto, quello sul Littré, ed altri.
Il Fanfulla della Domenica mi conduce a dire qualche parola degli altri giornali letterarii sbocciati a Roma intorno a quel tempo, delle relazioni che ebbe con essi, con uno specialmente di essi, il Carducci, e delle gite di lui a Roma.
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Mario Menghini errò affermando che il Carducci visitò Roma la prima volta nell’estate del 1872.[51] Forse, per una facile confusione di ricordi, scambiò il 1872 col 1874. Ma quella del 1874 fu una visita per modo di dire, poichè, non potendo trattenersi che poche ore, il Carducci vide soltanto il Pantheon, il Colosseo e le Terme di Caracalla. Così mi disse egli stesso; ed aggiunse: «San Pietro lo lasciai al Papa.» La vista di quei monumenti, per quanto fugace, dovè certo fargli grande impressione; ma l’impressione non si tradusse per allora in fantasmi poetici bisognosi di fissarsi immediatamente nella strofe e nel verso.
Rivide poi la città tre anni dopo, nel marzo del 1877; e quella fu la vera prima sua visita a Roma. [222] Egli la vide allora a suo agio, in compagnia di un amico, che la conosceva a palmo a palmo, Domenico Gnoli; e la vista gli suscitò tale un tumulto di sentimenti e d’idee, che tornato a Bologna scrisse nell’aprile le due odi barbare, Nell’annuale della fondazione di Roma, e Dinanzi alle Terme di Caracalla.
Salve Dea Roma! Chinato a i ruderi
del Fôro, io seguo con dolci lacrime
e adoro i tuoi santi vestigi,
patria, diva, santa genitrice.
Visitando i gloriosi avanzi della città immortale, in compagnia dell’amico, vedeva in ogni sasso in ogni rudere rivivere dinanzi agli occhi suoi un pezzo della storia di quel gran popolo che gli aveva acceso nella fantasia, fin da ragazzo, quelli che rimasero poi sempre i più alti ideali della sua vita.
Molti poeti, specialmente stranieri, hanno sentito la poesia di Roma antica; nessuno, credo, l’ha sentita ed espressa così profondamente, così altamente come il Carducci, perchè nessuno ebbe alto come lui il concetto della città fatale, nessuno ebbe, come lui, pieno il cuore e la mente della grandezza e della gloria di lei, nessuno credè, come lui, che, tornata ad essere la capitale d’Italia, ella dovesse colla sola virtù del suo nome e delle sue memorie fare assurgere la patria alla dignità dei suoi antichi destini.
[223]
Nei giorni di quella prima visita del Carducci a Roma, trovandosi egli una sera al Caffè del Parlamento, in compagnia dell’amico Gnoli, questi gli disse, accennando un signore piuttosto vecchio, che seduto ad un tavolino dirimpetto consumava una quantità di cerini per accendere un sigaro, che gli rimaneva sempre spento fra le labbra: — Non conoscete quel signore là? — No. — È il Prati: volete che vi presenti? — Volentieri: l’ho veduto alcuni anni sono a Firenze; ma ora non lo avrei riconosciuto. — I due amici si alzarono, e avvicinatisi al tavolino dinanzi al quale il vecchio bardo sedeva, lo Gnoli fece la presentazione. — Davvero, questi è il professor Carducci? fece il Prati, rallegrandosi tutto: oh come sono contento di conoscervi! bravo, bravo! sedetevi qui accanto a me; — e come il Carducci si fu seduto, aggiunse: — Ma sapete che voi avete composto alcune poesie sotto le quali io metterei volentieri il mio nome? — Con queste parole il vecchio bardo credè di aver fatto al Carducci il più grande elogio possibile; e il Carducci con una modestia sincera, che oggi non è più di moda, si tenne onorato di quelle parole, e ringraziò con effusione.
Dopo il 1877 il Carducci tornò a Roma ogni anno, spesso più d’una volta, datagliene occasione dalle adunanze della Giunta per la licenza liceale e del Collegio degli esaminatori, di cui faceva parte. Due volte ci venimmo insieme; e mi ricordo che [224] fra le cose che volle sempre vedere e rivedere erano le Terme di Caracalla e il Gianicolo. «Se io abitassi a Roma, mi diceva una mattina mentre salivamo il colle famoso, vorrei trovarmi una casa quassù, per contemplare la posizione fatale della divina città.»
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Nel 1880 venne a stabilirsi a Roma Enrico Nencioni; nel 1881 ci venne Angiolo Sommaruga; il più vecchio amico del Carducci, e il nuovo editore delle opere sue. Vennero entrambi a cercarvi lavoro.
Quando dopo il 1860 gli amici pedanti si dispersero, condotti ciascuno dai casi della vita in una città diversa, il Nencioni aveva già lasciato Firenze, per cominciare la sua via crucis di precettore privato in case patrizie; la quale via crucis durò, con qualche breve interruzione, e qualche vano tentativo di uscirne, più di venti anni.
Non so se per effetto di essa, o anche un po’ per la natura sua, egli, che aveva cominciato giovanissimo a scrivere, e a venti anni aveva già pubblicato dei versi, in quel lungo periodo che abbraccia tutta la sua giovinezza e la virilità non scrisse e non pubblicò quasi niente. I soli scritti da lui pubblicati sono, credo, l’articolo su Roberto Browning nella Nuova Antologia del luglio 1867, e alcune appendici letterarie nel giornale politico L’Italia Nuova [225] fondato nel 1870 da G. Barbèra e diretto dal Bargoni; giornale ch’ebbe pochi mesi di vita.
Il povero Nencioni, che aveva fondato grandi speranze sopra di esso, le vide sul più bello sfumare; e per un cumulo di circostanze, alle quali non fu estranea una certa sua irresolutezza, non gli fu possibile trovare un posto nelle scuole o in qualche ufficio pubblico in quelli anni dal 1860 al 1880, nei quali tanta gente che valeva meno di lui seppe mettersi a posto.
Se la condizione di precettore privato gli creava molti legami, gli lasciava tuttavia assai tempo da leggere e studiare per conto suo, e gli forniva mezzi da comprar libri. Ed egli (questa era la sua grande felicità) ne comprava e leggeva continuamente. Era un lettore appassionato, instancabile, un vero divoratore di libri. Ed era un po’, come il Carducci e come me, bibliofilo e bibliomane. Un libro nuovo di Victor Hugo, del Browning, del Swinburne, lo teneva incatenato per ore ed ore, facendogli dimenticare ogni altra occupazione. E l’aspettazione di un libro nuovo era per lui una febbre.
Ne citerò un esempio. Egli aveva nel maggio del 1874 ordinato al libraio Goodban di Firenze due copie del Bothwell del Swinburne, una per sè, una per me. Il 13 giugno mi scrive: «Caro Chiarini; Apri l’orecchio al mio annunzio, e odi, e inorridisci! Ieri sera entrai così en flânant da Goodban. Vedo là sul banco un bellissimo e grossissimo volume [226] legato in tela celeste. Attratto da una corrente magnetica, lo prendo, e leggo: Swinburne’s Bothwell. — Ma dunque c’è già il Bothwell! Ha questa copia sola? — Oh, è una settimana che questa era venuta per la posta per M.r Russell; ma non l’ha voluta perchè c’è una pagina rotta. — Dove? — Guardi qua. — Infatti, non una, ma due pagine son lacerate, e manca il pezzo stampato. — O che ne fa di questo volume? — Lo rimando all’editore: ho già scritto. — Costa? — Lire 24, e il 20 per cento di commissione. — Me lo dia per 20, e lo prendo io così com’è — Non posso — Perchè? — Perchè l’editore deve sapere, vedere, avere una lezione ec. ec. — Scappai, per non offrirgli 24, 30, 40 lire, quel che voleva.... Il cane Goodban mi dette parola che al più tardi il 30 giugno avremo le due nostre copie commesse. Io sognerò di questo libro finchè non l’ho.»
In quei venti e più anni è facile immaginare quanto il Nencioni lesse di libri italiani, francesi, inglesi e tedeschi. Della lingua e letteratura francese ed inglese divenne in breve assolutamente padrone. La letteratura tedesca la conosceva fino da giovane nelle traduzioni italiane e francesi; poi studiò anche la lingua, tanto da poter leggere e gustare nell’originale il Heine ed altri poeti meno difficili. Come e perchè in questo lungo periodo di tempo, nel quale venne accumulando tanto materiale di cognizioni sulle letterature moderne, quasi sconosciute in Italia, gli mancasse l’occasione o la voglia, o l’una e [227] l’altra insieme, di scrivere e pubblicare, io, come già accennai, non saprei dire esattamente. Forse gli bastava la felicità di poter leggere e studiare per sè, e comunicare la felicità sua con qualche amico.
Ma finalmente nel 1880, a quarantatrè anni, finita l’educazione dell’ultimo suo alunno, il Principe di Caramanico, un giovane che fa onore al maestro, bisognò prendere una risoluzione; ed egli la prese, ed eroica: si ammogliò il 27 ottobre a Firenze, e ai primi di novembre mise casa a Roma, deliberato di vivere del suo lavoro di scrittore, che cominciava, si può dire, allora. Chi lo spinse alla risoluzione eroica fu il Martini, offrendogli una larga collaborazione nel Fanfulla della Domenica. Il Martini aveva conosciuto il Nencioni fino dalla primissima gioventù (da ragazzi erano stati a scuola insieme), gli era sempre rimasto amico, ed apprezzando giustamente l’ingegno e la cultura di lui, aveva subito capito che sarebbe stato un collaboratore prezioso pel suo giornale; nè s’ingannò. Il Nencioni fu uno degli scrittori più assidui del Fanfulla della Domenica; scrisse poi anche in altri giornali e nella Nuova Antologia; e i suoi scritti piacquero molto, e lo fecero ben presto conoscere.
Prese casa in Via Goito; si sentiva beato di stare a Roma, dove vedeva quasi ogni giorno il Martini, e, tutte le volte che vi capitava, il Carducci; e dove fece in breve molte conoscenze, quelle del D’Annunzio e del Sommaruga, fra le altre.
[228]
***
Chi era e che cosa voleva a Roma Angelo Sommaruga? Lasciamolo dire a Gandolin, che lo conobbe bene, e che era in grado di giudicarlo. «Correva, scrive Gandolin, il fortunato e singolare periodo dell’Abruzzo nell’arte: Michetti, Barbella, Tosti, D’Annunzio; la pittura, la scultura, la musica, la poesia. Quest’Abruzzo aveva allora il suo cenacolo naturale in quella brutta e simpatica sala del Capitan Fracassa, che al pubblico era nota, o piuttosto ignota, sotto questa pomposa denominazione: i saloni gialli.» Quei saloni gialli, che poi erano una sala soltanto, di pochi metri quadrati, «raccoglievano spesso le più note celebrità contemporanee.... Giovanni Prati, Pietro Cossa, Paolo Ferrari, Giosue Carducci, Olindo Guerrini, Enrico Panzacchi, Francesco De Renzis, Ferdinando Martini, Anton Giulio Barrili, Aurelio Costanzo, Mario Rapisardi, Leone Fortis, Matilde Serao, Gerolamo Rovetta, Gabriele D’Annunzio.... e una schiera infinita d’artisti, dal Barabino al Ximenes, dal Gayarre al Maurel.... tutti sono passati per i saloni gialli.
»Certo furono gl’invidiati saloni gialli che consigliarono il Sommaruga a istituire qualche cosa di analogo. Una mattina, mentre stavo, solo, a quella scrivania che rappresentava l’autorità del Direttore, e che poi era di tutti, vidi entrare, lungo, spettrale, [229] con quel sorriso strano che metteva in mostra i denti superiori assai sporgenti, Angelo Sommaruga, che, con l’ombrello in mano e il cappello in testa, si buttò a sedere sopra una poltroncina molto bassa; occupando così, con la gettata delle gambe, e la proiezione dei piedoni enormi, quasi tre quarti dell’uffizio. Egli cominciò a parlarmi, con quel suo gergo italo-meneghino, di un certo suo progetto di fondare una casa editrice, con la base di un gran giornale letterario, e a proporre delle combinazioni — scambio d’articoli, premi agli associati, réclame comune, e via dicendo — col Capitan Fracassa.
»Quel progetto del quale mi parlava assai vagamente era invece maturo. Il Sommaruga si impadronì dell’Abruzzo, e prese in affitto, al cantone di Via Due Macelli, quel mezzanino che doveva diventare la famosa redazione della Cronaca bizantina. L’Abruzzo popolò di distici e di pupazzi le pareti: il Tosti andò a canticchiarvi sul pianoforte le sue canzoncine montanare, e finalmente il Sommaruga potè vantarsi di avere i suoi saloni gialli, giocondati dalla presenza giunonica di Adele Mai, la stupenda mima che doveva essere (perdono, o signora!) la Vittoria Colonna di quella corte letteraria.»[52]
Non so se i saloni gialli della Bizantina surrogassero in tutto e per tutto quelli del Capitan [230] Fracassa; so che nella Corte letteraria giocondata dalla presenza giunonica della Mai, primeggiavano il D’Annunzio, lo Scarfoglio, Giulio Salvadori, Cesario Testa (Papiliunculus); e so che quando trovavasi a Roma, vi era assiduo il Carducci, il quale aveva fatto soltanto qualche rara apparizione al Capitan Fracassa. Quando egli capitava alla Bizantina, tutti gli Dei minori della Corte sommarughiana gli si stringevano intorno rendendogli omaggio come a sovrano.
Anche il Nencioni bazzicò, credo, gli uffici della Cronaca bizantina; ma, come il Carducci, non vide nulla, non capì nulla del lavorio tenebroso che là si faceva dalla gente che voleva riuscire a qualunque costo, con qualunque mezzo.
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Il Sommaruga, prima di venire a Roma a tentare l’attuazione dei suoi progetti, aveva stimato opportuno assicurarsi la cooperazione del Carducci. Era per questo effetto andato a Bologna, e presentatosi al poeta, gli aveva parlato della fondazione della Cronaca bizantina e chiestogli per essa articoli e poesie con profferta di larghi compensi. Il Carducci, sempre disposto ad aiutare l’operosità coraggiosa e le ardite iniziative, aveva accettato l’offerta e promessa l’opera sua.
[231]
Indi a poco l’editore e il poeta rivedutisi a Roma confermarono il patto stretto a Bologna. E il 15 giugno del 1881 uscì il primo fascicolo della Cronaca bizantina, portante per motto nella testata due versi del Carducci (Impronta Italia domandava Roma — Bisanzio essi le han dato), ed avente inquadrata nella prima pagina l’ode barbara, Ragioni metriche. Il giornale era di gran formato, a quattro colonne, in rosso e in nero, con grandi fregi e molta pretensione di eleganza tipografica. Aveva fra i collaboratori, oltre gli Dei della Corte sommarughiana, il Guerrini, il Panzacchi, il Cesareo, il Pascarella, il Fontana, il Mantovani, il Pascoli, il Guarnerio, il Nencioni, il Mazzoni, il Fleres ed altri.
Il Carducci diede alla Bizantina nei primi diciotto mesi (giugno 1881-dicembre 1882) non meno di dodici poesie e quindici scritti in prosa; nei due anni successivi (1883-84) cinque poesie e sei articoli; e diede all’impresa editoriale i tre volumi di Confessioni e Battaglie, un volume di Conversazioni critiche, e gli opuscoli Eterno femminino regale, e Ça ira (i famosi sonetti, ch’ebbero dal Sommaruga non meno di sei edizioni).
In capo a due o tre anni la Cronaca bizantina aveva raggiunto una tiratura di dodicimila copie; così almeno dicevano gli annunzi sommarughiani; e il Sommaruga aveva inondato il mercato librario di una quantità di libri di sua edizione, alcuni dei quali avevano avuto una fortuna straordinaria. Tutto [232] dunque pareva procedere a vele gonfie. Ma chi troppo tira, la corda si strappa.
Cinque mesi prima che il Sommaruga lanciasse la Cronaca bizantina il Martini aveva abbandonato il Fanfulla della Domenica, e fondato la Domenica letteraria, portando con sè il meglio dei suoi vecchi collaboratori, alcuno dei quali, fra gli altri il Nencioni, pur seguendolo rimase anche al Fanfulla. Questo fu il segnale della dispersione delle forze, e il principio della fine dei giornali domenicali. Nell’agosto del 1883 il Martini lasciò anche la Domenica letteraria, la quale, passata nelle mani del Sommaruga, andò a poco a poco perdendo terreno, benchè il Carducci vi seguitasse a scrivere per tutto il 1883, e le desse anche un paio di articoli nell’84.
Quando io nel novembre 1884 venni a stabilirmi a Roma, il Sommaruga offrì a me, per mezzo del Carducci, la direzione di quel giornale con un largo compenso; ma io rifiutai. Accettai invece di dirigere la Domenica del Fracassa, che i proprietari del Fracassa quotidiano avevano stabilito di fondare, per far concorrenza agli altri giornali domenicali. Ma perchè la concorrenza avesse probabilità di riuscire vittoriosa, ci volevano quattrini; e questi non c’erano.
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Intanto il Sommaruga «per l’avidità di un guadagno momentaneo, scrive Gandolin, e la smania [233] morbosa di réclame, si lasciò prendere in quell’ingranaggio di odio e di scandali che furono le Forche caudine dello Sbarbaro; e fu quello il segnale della decadenza, sebbene avesse tentato di puntellare le sue imprese mediante un giornale quotidiano, organizzato con una certa serietà d’intenti e di propositi, Il Nabab.»[53]
Passarono pochi mesi, e la Cronaca bizantina (n. 5, 1º marzo 1885) annunziò qualmente Angelo Sommaruga «dopo aver passato in gaia comitiva l’ultima notte di carnevale al veglione del Costanzi divertendosi.... non pria adagiato fra le morbide coltri, odorate di soavi ciprigne fragranze, si vedesse apparire innanzi, col mandato di arrestarlo, un esercito d’alti e bassi agenti di polizia.» Soggiungeva la Cronaca che l’accusa sotto la quale il Sommaruga veniva arrestato era di tentativo di ricatti; ma i lettori stessero pur tranquilli, che Angiolino sarebbe uscito ben presto dalla durissima prova deterso da ogni macchia. Invece, finito il processo, il Sommaruga, per quanto deterso, stimò prudente di andare a prendere una boccata d’aria in America.
«Quando egli lasciò l’Italia, scrive Gandolin, non pochi dissero: — Vedrete che laggiù lavorerà sul serio, e farà fortuna. Dopo tutto è un gran lavoratore, e avrà potuto adesso convincersi che il [234] più fruttifero dei lavori è sempre il lavoro onesto.» Ma Gandolin, che non era di questa opinione, soggiunge: «Che!... il pero farà sempre delle pere: e non succederà mai che un fico faccia delle albicocche. — Andato in America, Angiolino fece il Sommaruga.»[54]
Inutile dire che il Carducci nella sua grande e ingenua bontà, non sospettò mai che la Cronaca bizantina «servisse di coperchio, come dice Gandolin, ai non delicati maneggi del Sommaruga»; inutile dire che disapprovò altamente e francamente il Sommaruga dell’avere accettato la compagnia dello Sbarbaro per la pubblicazione delle Forche caudine; e che fu ben lontano dall’approvare tutta la letteratura di che l’Abruzzo forte e gentile infiorò la Cronaca bizantina e le altre pubblicazioni sommarughiane. Ma, anche condannando il Sommaruga là dove non poteva scusarlo, il Carducci non gli fu mai giudice molto severo.
La Domenica letteraria passò dal Sommaruga alla Tribuna e andò sempre di male in peggio.
La Domenica del Fracassa visse poco più d’un anno, dal 28 dicembre 1884 al 14 febbraio 1886; ma la sua vita breve non fu affatto ingloriosa. Cominciò pubblicando nel primo numero la magnifica ode del Carducci Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley; e finchè visse, fu l’unico giornale domenicale al quale [235] il Carducci desse suoi scritti. Le diede altre otto poesie, cioè tutte quelle che compose nel 1885, e sette scritti di prosa.
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Nel 1881, con decreto regio del 12 maggio, il Carducci fu nominato membro del Consiglio superiore della istruzione. Il Baccelli, allora Ministro, aveva riformato il Consiglio, anche per ciò che concerne le nomine dei Consiglieri; le quali, per effetto della riforma, si facevano per una metà dalle Facoltà universitarie, per l’altra metà dal Ministro. I nominati duravano in carica cinque anni, e non potevano essere rieletti se non dopo un anno d’interruzione.
È notevole come nè questa prima volta, nè le altre successive nelle quali il Carducci entrò nel Consiglio, non vi entrò mai per elezione delle Facoltà, ma sempre per nomina del Ministro. E quelli che lo videro all’opera attestano com’egli fosse diligente e scrupoloso nel disbrigo degli affari che gli erano affidati.
L’ufficio di consigliere gli diede occasione di recarsi anche più spesso a Roma. E a Roma passava quasi tutto il giorno a lavorare al Ministero della istruzione o nelle biblioteche: la sera poi andava a godersi un po’ di riposo e di svago nei saloni gialli del Sommaruga.
[236]
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Questa, di prendersi un po’ di svago la sera, era, già lo sappiamo, un’antica abitudine del Carducci. Questa abitudine e le altre che aveva da Firenze e Pistoia portate a Bologna, non erano mutate, o di poco, dopo il 1870, quando, come accennai, aveva fatto qualche relazione più stretta con alcuni dei colleghi. La sua vita era rimasta suppergiù la medesima, ed era questa:
La mattina, appena alzato, prendeva una tazza di caffè, che si faceva portare in camera; indi passava nel suo studio a lavorare. A mezzogiorno si sdigiunava con una tazza di cioccolata o due uova, e riprendeva subito il lavoro; il quale durava fino verso le 2 nei giorni che aveva lezione, e fino alle 5 o le 6 negli altri giorni. Nei giorni di lezione stava chiuso nello studio più rigorosamente del solito, per prepararsi, e non voleva essere disturbato per nessuna ragione. Un po’ prima delle 2 usciva di casa per andare all’Università, dove la lezione durava sempre più d’un’ora. Ciò fino a tutto il 1875. Dopo, avendo nel dicembre di quell’anno (con decreto ministeriale de’ 19) avuto l’incarico dell’insegnamento della Storia comparata delle letterature neolatine, la lezione diventò di due ore; fece cioè due lezioni di seguito, una di letteratura italiana e una di Storia delle neolatine.
[237]
Uscendo dall’Università per andare a casa, o alla libreria Zanichelli, dove di solito capitava tutti i giorni, era spesso accompagnato da alcuni scolari, pei quali la lezione seguitava, strada facendo, finchè lasciavano il professore.
Verso le sei andava a pranzo; ed era tutto lieto quando ci aveva qualche amico, al quale fare assaggiare una delle sue bottiglie prelibate. Ne aveva la cantina ben fornita, e se ne compiaceva. Dopo quello dei libri, era l’unico lusso che si permettesse, e che non gli costava gran che, perchè durò degli anni a farsi da sè il vino in casa, e molte di quelle bottiglie gli erano regalate. Dopo pranzo, verso le 8, usciva a prendere il caffè e una boccata d’aria. Fra il 1876 e il 1880 soleva andare al Caffè de’ Grigioni, dove per lo più incontrava Ugo Brilli e Severino Ferrari, due degli scolari suoi ai quali era più affezionato, e che gli erano affezionatissimi; tal volta, ma raramente, qualche collega. Preso il caffè e fatte due chiacchiere, usciva di nuovo a passeggiare; e la passeggiata aveva sempre per mèta ultima la bottiglieria Rovinazzi, o Cillario, o qualche piccola osteria fuori di porta.
Qui, bevendo, i convenuti facevano spesso un po’ di lettura; per lo più si leggeva un classico italiano, talora anche latino; e si parlava d’arte e di letteratura; raramente di politica. La politica turbava quasi sempre la serenità del Carducci, e finiva col farlo inquietare. A queste riunioni, che solevano [238] durare un paio d’ore e più, capitavano spesso altri amici e conoscenti: ricordo alcuni di quelli che ci ho veduti io stesso quando ero a Bologna: l’avvocato Antonio Resta, l’avvocato Barbanti, Luigi Lodi, Gino Rocchi. Qualche sera che il professore, come lo chiamavano, era più di buon umore del solito, divertivasi a scherzare satireggiando contro i letterati più o meno famosi che non gli andavano a genio, o che gli avevano dato qualche fastidio; e gli altri, specialmente il Brilli e il Ferrari, gli tenevano bordone.
***
Il Ferrari aveva dato al Brilli il soprannome di Mago, celebrando le gesta di lui in un poema, che non finiva mai, e che credo non sia stato nè sarà mai finito. D’allora in poi il Carducci chiamò sempre il Brilli col nome di Mago, o Maghetto; e questo nome dava spesso occasione ai suoi scherzi.
Una sera d’ottobre del 1879 la solita piccola comitiva trovavasi alla solita ora alla bottiglieria Rovinazzi; e il Brilli, o avesse appetito, o non gli piacesse risciacquarsi lo stomaco col solo vino, chiese qualche cosa da mangiare, e gli portarono dei biscottini. Il Carducci, ridendo e ammirando l’appetito del Brilli, chiese un pezzo di carta e una penna e scrisse:
[239]
IL PASTO DEL MAGO.
Il mago ha vinto. Del.... la pancia
Ei diguazzando ha trapassato già,
Poi disdegnoso gitta via la lancia,
Si tura il naso, e brontola — Puah! —
Datemi — ei grida — a consolarmi il cuore,
Datemi un piatto almen di confortini,
Da immollarsi nel vin dal bel colore —
Confortini, vogl’io, non biscottini.
È biscottini un barbaresco nome
Che ai tempi degli eroi non risonò.
Ecco, il gran sole io piglio per le chiome,
Per farmi lume al mio gnomo lo do. —
E si pone alla mensa. Il sole brilla
A lui dinanzi come un lumicino.
Il gnomo a lui del bel vin rosso sprilla,
Gli porta la Rotonda per tondino.
Ei mangia mangia mangia i confortini,
Ei mangia mangia, e mai sazio non par:
Confortini non son, son gli Appennini:
Vino non è ch’ei beve, è un rosso mar.
È il rosso mar del sangue dei cialtroni
Giganti ch’ei trafisse ed abbattè.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . .
E beve beve beve, e sempre ha sete;
Ei beve beve, e dice: Ancora un po’;
Sento del caldo. Pigliam due comete;
Un ventaglio pel fresco ne farò.
[240]
E mangia e mangia. Non son biscottini,
Non gli Appennini sono; elle son ossa,
Ossa de’ suoi nemici filistini,
A cui crudele egli invidiò la fossa.
E le fe’ triturare e macinare,
Ed impastare e cuocere le fe’
A fuoco lento. S’odono gridare
Sotto i suoi denti, e dicono: mercè!
(Scritto dinanzi al pasto del Mago nella bottiglieria Rovinazzi alle ore 8¾ del 21 ottobre 1879 — dell’èra della servitù — dal povero rapsodo Giosue Carducci.)
Dopo questi scherzi innocenti il Carducci, accompagnato dagli amici, tornava a casa allegro e contento: giunto al portone del palazzo Rizzoli, dove allora abitava, si faceva dare dei cerini, se non ne aveva, e non ne aveva quasi mai; apriva e, facendosi lume da sè, saliva le lunghe scale, finchè arrivato al suo quartiere, dove tutti a quell’ora dormivano, accendeva la candela che trovava al solito posto nella stanza d’ingresso, e se ne andava in camera, dove, messosi in letto, aspettava il sonno leggendo qualche pezzo dei classici suoi preferiti.
***
E la mattina di poi ricominciava la solita vita.
Le poesie pubblicate dal Carducci nei giornali domenicali e nella Cronaca bizantina non furono le sole da lui composte in quel periodo di tempo, di [241] circa sei anni, dal 1879 al 1885. Oltre le odi barbare Per Eugenio Napoleone e A Garibaldi, pubblicate dallo Zanichelli nello stesso anno 1880 in cui furono composte, oltre l’ode barbara per le nozze della figlia Beatrice, pubblicata in alcune copie distinte del volume La Poesia barbara nei secoli XVe XVI offerte agli amici (Bologna, Zanichelli 1881), e l’ode A Vittore Hugo (Bologna, Zanichelli 1881); pure di quell’anno compose, nell’aprile Campo di Roncisvalle, e tradusse nel giugno l’ode di Platen su la lirica: poi nel maggio del 1883 mandò fuori, editi dal Sommaruga, i dodici sonetti intitolati Ça ira; e nel luglio del 1884, essendo a Genova, pensò sul luogo e pochi giorni dopo compose a Courmayeur l’ode barbara Scoglio di Quarto, che per allora rimase inedita. Ne aveva pensate e voleva comporne altre tre, e voleva finirne altre ancora cominciate da un pezzo, fra le quali Miramar, cominciata, come sappiamo, fino dal luglio 1878.
Ai sonetti Ça ira toccò un po’ la sorte delle prime Odi barbare, che cioè la critica si sbizzarrì sopra di essi con un ammasso di stupidaggini. Nè fra i critici mancarono uomini autorevoli: basti citare il Bonghi ed un M. T., nel quale il Carducci sospettò nascondersi il senatore Tabarrini; ma poi seppe essere un conservatore cattolico a lui affatto ignoto. Ciò che fece perdere le staffe ai critici fu la preoccupazione politica. Mentre il Carducci non aveva avuto che un intendimento artistico, quello [242] cioè di tentare col vecchio sonetto una rappresentazione rapida e breve di avvenimenti storici, senza mistura di elementi personali, ed aveva scelto come materia a ciò adatta i più terribili episodi di quel tragico momento della rivoluzione francese che fu il 1792, i critici vollero in quella rappresentazione puramente oggettiva vedere espressi i sentimenti di lui poeta e lo accusarono perciò di aver fatto della lirica partigiana, complice dei ciechi furori della plebe e dei sofismi dei demagoghi, lirica e retorica repubblicana; e tanto la preoccupazione politica li acciecò, che l’un d’essi attribuì al poeta le parole da lui messe in bocca al feroce parrucchiere che fece osceno strazio del corpo della principessa di Lamballe.
Passata la piena degli spropositi, tutti poi riconobbero che il Carducci coi dodici sonetti tentò e vinse una prova non meno ardua di quella tentata con le Odi barbare. Non che nei sonetti non fosse qua e là qualche durezza e qualche scorcio un po’ ardito; ma anche in queste durezze e in questi scorci stava la efficacia della rappresentazione.
Le critiche irragionevoli ebbero poi la virtù di ispirare al Carducci una delle sue prose più belle, la prosa del Ça ira. La scrisse a Bologna nell’agosto dello stesso anno 1883 in cui aveva composto i sonetti, e me la lesse nel settembre alla Maulina, in campagna di Lucca. Mi ricordo ancora l’impressione singolare di quella lettura, alla quale assisteva il buon Carlo Bevilacqua, genero del Carducci, morto [243] poi così immaturamente nel 1898, e qualche altro, che non ricordo bene. Stavamo davanti a una piccola finestra che dava sui campi. Benchè settembre, faceva ancora assai caldo nella campagna lucchese; e l’aria che per la finestra aperta penetrava nella stanza, benchè temperata dalla verde frescura degli alberi di fuori, era pur sempre l’aria d’estate. Ma tutti attenti alla lettura, che fin dalle prime pagine ci aveva afferrati e ci teneva incatenati, non sentivamo il caldo. La finezza e la serena superiorità della critica, che poneva e risolveva le quistioni storiche estetiche con la sicurezza di chi ha subito veduto gli errori e il lato debole degli avversari; il tuono, ora serio, ora scherzevole, ora sarcastico della discussione; le descrizioni e le digressioni, vive, fresche, umoristiche, onde quella era intramezzata e rallegrata, e la voce calda e animata del Carducci che dava risalto e rilievo ai chiaroscuri di quei periodi limpidi, scintillanti, trascinanti, ci fecero passare le due ore che durò la lettura, senza che quasi ce ne avvedessimo. Quando rilessi poi stampata quella magnifica prosa, mi fece anche maggiore impressione, poichè l’autore vi aveva aggiunto alcuni dei pezzi più belli, come la chiusa e la digressione su la campagna toscana del Valdarno.
I critici, per quanto mi ricordo, stettero zitti come olio.
[244]
Matrimonio della figlia Beatrice. — Il Carducci alla Maulina. — «La gatta non istà del suo meglio». — Gita a Volterra. — Il banchetto alla società democratica e il banchetto al Collegio degli Scolopii. — Visita a San Gimignano dalle belle torri. — «Sommaruga vuole la mia pelle, e non me la paga.» — Edizioni definitive delle poesie, Juvenilia, Levia Gravia, Giambi ed Epodi nella collezione elzeviriana Zanichelli. — Confessioni e Battaglie nella edizione Sommaruga. — Nuove Odi barbare. — Posto d’Ispettore Generale degli studi classici. — L’ode Scoglio di Quarto. — Disturbo nervoso. — Peregrinazione maremmana. — Debolezze e vertigini. — Il Carducci in Carnia. — Candidatura alla deputazione nel Collegio di Pisa. — Davanti a San Guido ed altre poesie. — Pubblicazione delle Rime nuove. — La cattedra dantesca a Roma. — Dante e l’Italia ufficiale. — Rifiuto della cattedra dantesca. — Discorso su Dante all’Università di Roma. — Discorsi su Jaufrè Rudel e su Lo studio di Bologna. — Il Carducci a Madesimo nell’agosto 1888. — Dichiarazione nel Resto del Carlino.
Nella fine del capitolo precedente ho parlato della Maulina e di Carlo Bevilacqua; e un po’ avanti accennai all’ode del Carducci per le nozze della figlia Beatrice. Torniamo un po’ addietro, e ricolleghiamo con quelli accenni le fila del nostro discorso.
Beatrice, la figlia maggiore del Carducci, andò sposa il 20 settembre 1880 a Carlo Bevilacqua, appartenente [245] ad una famiglia di agricoltori lucchesi, che aveva suoi possedimenti alla Maulina, dove dimorava, coltivando da sè le sue terre. Uno de’ figli maggiori faceva il notaio a Lucca. Carlo, laureatosi in matematiche a Pisa, aveva preso la via dell’insegnamento, ed era professore nei licei governativi. In uno di questi aveva avuto preside Ferdinando Cristiani, che gli fu occasione e mezzo a conoscere la famiglia Carducci. Da qui il matrimonio suo con la Bice. Professore nel 1880 al Liceo d’Arezzo, fu nell’ottobre del 1881 trasferito a Livorno nel Liceo presieduto da me.
Nell’agosto di quell’anno 1881 il Carducci andò alla Maulina a fare la conoscenza della famiglia del genero; e là si trovò così bene, che vi tornò poi nel settembre del 1882 e del 1883 a passare una parte delle vacanze autunnali. Il 9 agosto del 1881, invitandomi ad andare a trovarlo, mi scriveva: «Qui gente buona, semplice, laboriosa: mi pare che mi rifarei fra questi vecchi onesti e diritti e faticanti, fra questi giovani robusti e modesti lavoratori, fra queste donne buone e schiette e che parlano così bene, fra questi bambini che all’occorrenza vanno scalzi. Quanto pagherei a essere un di loro e a non essere io! Io, se il mio infame nonno non avesse sciupato tutto scioccamente, poteva essere così: un piccolo possidente e buon lavoratore de’ suoi campi, e non uno che, per esempio, se la pigliasse con Mario Rapisardi. Ah!»
[246]
Quella sana vita campagnuola che invidiava lo metteva spesso di buon umore, cosa che gli avveniva di rado in città. Il 29, incaricandomi di alcune imbasciate per sua moglie, che insieme con la figlia Lauretta era da alcuni giorni ospite in casa mia a Livorno, mi scriveva: «Qui stiamo tutti bene.... Carlo oziando e studiando algebra, il signor Giuseppe (il padre) facendo nottata ai malati ed essendo un po’ malato il giorno lui, gli altri lavorando più di me, che metto insieme lettere del Guerrazzi e scrivo lettere mie. E tutti salutiamo te e i tuoi, e l’Elvira e la Lauretta, a cui mandiamo dicendo tante cose. Veramente la gatta (attenta l’Elvira) non manda a dir nulla e non istà del suo meglio. Da che non c’è più l’Elvira, ella seguitava allegramente a montar su i letti, su le tavole imbandite, a metter le zampe e il muso nei piatti. Ieri assaltò la tavola ch’eravamo a pranzo: prima avanzò lentamente una zampina, e con quel viso di scimunita guardava come se non fosse affar suo; poi mosse anche l’altra zampina; poi un salto, e fu in tavola; e prese un mezzo pollo arrosto; e via, via. La Bice e la signora Carmelinda (la madre di Carlo) si misero a urlare, io a ridere; Carlo le corse dietro con la bacchetta di faggio, le diè un gran colpo sulla testa; e la gattina giù. Ahimè non ruberà più altro nè dormirà più i suoi sonni sul letto dell’Elvira. In vano si provava a salire sul letto della Bice. Ora andrà a dormire per sempre là dove i gatti leggiadri [247] e ladri riposano dalle smorfie ingannevoli e dalle ruberie agili e dimenticano le bastonate e i calci umani e le fami lunghe sofferte e i topi e i passerotti e i pulcini male desiderati e studiosamente insidiati. Di’ all’Elvira che non pensi tanto a questa gatta moriente, se non già morta, e mi mandi a dire a che ora sarà a Lucca venerdì o quando verrà.» Un poscritto aggiungeva: «La gatta, in quello che scrivo, è migliorata e si spera salvarla.»
***
L’anno dopo (1882) il Carducci, prima d’andare alla Maulina, venne, verso la fine di luglio, a Livorno, a vedere la figliuola ed il genero. Io dovevo ai primi d’agosto recarmi a Volterra per una Commissione d’esami, di cui facevano parte il Bevilacqua e Guido Mazzoni: proposi al Carducci di unirsi a noi, ed egli, che non aveva mai visto Volterra, accettò di buon grado. Partimmo il 2 agosto. Il Carducci durante il viaggio ci raccontò che a Volterra suo padre, prima imprigionato, poi relegato là, come sappiamo, pei moti del 1831, aveva conosciuto la fanciulla che poi sposò.
Ci allogammo tutti insieme in una locanda; e nelle ore che noi della Commissione avevamo libere s’andava insieme col Carducci a visitare le cose più notevoli della città. Il Palazzo comunale, il Duomo, [248] il Battistero, il Museo etrusco e la Biblioteca furono le cose delle quali egli si interessò maggiormente. Nella Biblioteca col suo fiuto felice scavò un antico manoscritto di poesie del secolo XIV, che si trattenne a studiare mentre noi facevamo gli esami. Comprò opuscoli di poesia popolare dal famigerato tipografo Sborgi; fece ricerca, accompagnato da noi, della casa dove aveva da ragazza abitato sua madre, e vide le finestre dell’appartamento già occupato dall’orologiaio Celli padre di lei. Riscontrammo insieme nella chiesa parrocchiale l’atto di matrimonio del padre del Carducci, e si vide che le nozze non erano state celebrate a Volterra, ma a Val di Castello, dove la sposa era stata accompagnata da un suo fratello. L’atto di Volterra era soltanto la dichiarazione delle nozze avvenute.
Oltre il Museo, dove il Carducci si trattenne a lungo, visitammo le tombe sotterranee etrusche, che gli fecero una grande impressione, tanto che disse voleva scriverci un’ode. La visita al Penitenziario, dalla quale non potemmo liberarci, lo turbò e lo lasciò di cattivo umore.
Per quanto desiderassimo di starcene da noi, non potemmo liberarci da due banchetti, l’un dei quali faceva singolare contrapposto all’altro. La Società democratica, della quale era Presidente il deputato radicale conte Nicolò Maffei, e i Padri Scolopii, presso i quali avevamo dato gli esami, vollero aver l’onore di sedere a mensa col poeta di Satana.
[249]
Al banchetto democratico il deputato Maffei fece, come di rito, un brindisi al Carducci, del quale toccò, per iscancìo, qualche spruzzo anche a me ed al Mazzoni. Il Carducci, ch’era stato chiamato dal Maffei il poeta della ribellione, rispose poche ma buone parole, che al Mazzoni, il quale ne serbò ricordo, pare fossero nel giornale locale, che le riferì, colorite un po’ diversamente. Le parole, secondo il ricordo del Mazzoni, furono, per ciò che concerne l’appellativo dato al poeta, queste: «M’han qui chiamato il poeta della ribellione: ebbene, io devo dire che oggi alla democrazia sono state aperte tutte le vie legali e scientifiche; e ribelle sarebbe chi da qui innanzi tentasse opporsi al suo logico e necessario progresso.»
Il banchetto agli Scolopii fu più in famiglia e perciò più giocondo. Dove entra la politica c’è sempre qualche cosa che impedisce la libera espressione dei sentimenti e dei pensieri. Quei Padri, fra i quali c’era pure della brava gente, erano tutti lieti d’avere fra loro un uomo famoso, ch’era pure uscito dalle loro scuole, e del quale alcuno fra essi era in grado di apprezzare l’ingegno più dei soci della Democratica.
Ripartimmo da Volterra la mattina del 9, col proposito già fatto di andare a vedere, nel ritorno, San Gimignano, San Gimignano dalle belle torri, che nessuno di noi conosceva.
Eran venuti, a piedi, da Livorno a Volterra, per farci una improvvisata, un figliuolo mio con un [250] amico, stato compagno del Mazzoni al liceo. Il Mazzoni con questo amico vollero fare a piedi il viaggio da Volterra a San Gimignano, per desiderio che avevano di vedere certe miniere che si trovavano a mezza strada; perciò partirono prima: il Carducci, il Bevilacqua ed io con mio figlio partimmo più tardi in carrozza; e ci ritrovammo poi tutti quasi contemporaneamente a San Gimignano.
San Gimignano sbalordì d’ammirazione il Carducci con le sue torri, il carattere medioevale, gli affreschi del Ghirlandaio; vi ritrovò un certo Ducci canonico, stato con lui alla Scuola Normale di Pisa, e si fecero assai festa. Veduto tutto quello che c’era da vedere, la sera, tutti in carrozza, s’andò a Poggibonsi, e di lì in treno a Livorno; di dove poi il Carducci partì col genero e con la figliuola per la Maulina.
***
Alla Maulina il Carducci, nel 1881, s’era, fra le altre cose, occupato della pubblicazione delle lettere del Guerrazzi, il cui primo volume era uscito nel 1880 pei tipi del Vigo, e il secondo uscì poi in quello stesso anno 1882.
Le altre occupazioni alle quali attendeva nei sei anni della sua collaborazione ai giornali domenicali e alla Cronaca bizantina, erano molte, erano tante, che a volte si sentiva stanco, e si meravigliava [251] lui stesso di resistere a così gran lavoro. Il 13 dicembre del 1883 mi scriveva: «In questo mese, amico mio, ho lavorato tanto, che, se non sono ammattito, è un miracolo. Sommaruga vuol la mia pelle, e non me la paga.» A parte le lezioni all’Università, che furono sempre la sua principale occupazione e alle quali anche allora dedicava il miglior suo tempo; a parte le gite a Roma per le adunanze del Consiglio Superiore; a parte le altre faccende, fra le quali non indifferente il segretariato della Deputazione di storia patria, che teneva fin dal 1865; a parte tutto ciò, e le nuove poesie e prose che mandava ai giornali, veniva preparando per lo Zanichelli le edizioni definitive delle varie raccolte delle sue poesie in tanti volumetti elzeviriani; raccoglieva e pubblicava, pure in un volume elzeviriano, nel marzo del 1882, le Nuove Odi barbare, con innanzi tradotta l’ode del Platen La Lirica; e metteva in ordine quattro volumi di prosa per il Sommaruga. Il volumetto elzeviriano dei Juvenilia fu pubblicato nell’aprile 1880, quello dei Levia Gravia nel settembre 1881, quello dei Giambi ed Epodi nell’ottobre 1882. In ciascun volume la raccolta delle poesie era stata riordinata a rappresentare più esattamente e compiutamente un determinato periodo dell’arte del poeta. I Juvenilia, che nella prima edizione Barbèra erano 38 componimenti divisi in tre libri, e nella seconda 43, divisi in quattro libri, nella edizione Zanichelli furono quasi raddoppiati [252] di numero e divisi in sei libri; essendo state aggiunte nei due libri nuovi le rime politiche giovanili e le satiriche in gran parte inedite. I Levia Gravia, che nelle edizioni Barbèra comprendevano prima 44, poi 43 poesie, divise in quattro libri, furono invece nella edizione definitiva ridotti a tre libri e di non poco diminuiti, avendone l’autore tolto tutte le poesie composte avanti il 1861 e dopo il 1867. I Giambi ed Epodi raccolsero riordinate e corrette tutte le poesie d’argomento civile e politico composte dal 1867 al 1872, così quelle dei Decennali dell’edizione Barbèra come le pubblicate nelle Nuove Poesie della edizione imolese del Galeati. Per ciascuno dei tre volumi l’autore scrisse una prefazione, ch’era come un pezzo delle sue Memorie; e appunto col titolo Dalle mie memorie alcuni frammenti della prefazione ai Levia Gravia e di quella ai Giambi ed Epodi furono, come abbiam visto, pubblicati nel Fanfulla della Domenica e nella Cronaca bizantina: la prefazione ai Juvenilia fu anche stampata nella Lega della Democrazia di Roma del 19 aprile 1880, quando il volume stava per essere messo in vendita.
***
Gli scritti di prosa che il Carducci ordinò per il Sommaruga furono le tre serie di Confessioni e Battaglie e un volume di Conversazioni critiche. La prima serie fu pubblicata nel marzo del 1882, la [253] seconda ai primi del 1883, la terza e le Conversazioni critiche nel 1884.
I tre volumi Confessioni e Battaglie (il titolo felicemente trovato compariva allora per la prima volta) comprendevano tutti gli scritti di critica polemica e d’argomento più o meno personale che il Carducci era venuto scrivendo da poco innanzi il 1870 fino al 1883, non esclusi quelli già pubblicati nel volume dei Bozzetti critici (ediz. Vigo), cioè il Secondo Centenario del Muratori, Polemiche sataniche, Due manzoniani e Critica e Arte. A questi si aggiungevano la prefazione alle Poesie nella edizione Barbèra, le prefazioni ai Juvenilia, ai Levia Gravia e ai Giambi ed Epodi, il discorso politico agli elettori di Lugo, le polemiche col Rizzi e coll’Alberti (Novissima polemica), quelle col De Zerbi (Tibulliana) e col Rapisardi (Rapisardiana), gli scritti Eterno femminino regale, Risorse di San Miniato al Tedesco, Ça ira, ed altri minori, ma non meno importanti a delineare intera la figura dell’uomo e dello scrittore, e dare compiuta la misura della sua forza e della sua agilità come schermidore.
Qualcuno paragonò questi scritti a risuonanti e sfavillanti squadroni di cavalleria che dove passano sbaragliano tutto ciò che si para loro dinanzi; e il paragone è giusto. Non si dice con questo che lo scrittore qualche volta non passi il segno; anzi si afferma esplicitamente che lo passa più d’una volta; ma lo spettacolo di quella balda fierezza, di quella [254] risolutezza, rapisce e incanta. Ciò che fa la gran forza di questi scritti polemici è, come già dissi parlando di Critica e Arte, che l’autore dalle questioni personali si solleva sempre ad alte questioni di letteratura. In un breve e mirabile scritto della prima serie, pubblicato la prima volta in un giornaletto di Bologna, il Preludio, in risposta ad un signor A. F. che nel Giornale della Provincia di Vicenza aveva fatto al poeta, a proposito dell’Ode per la morte di Eugenio Napoleone, molti complimenti e detto qualche insolenza, il Carducci dice: «i lettori, spero, mi renderanno questa giustizia, che io non combatto mai per dimostrare che io sono bello, buono, bravo; combatto per un’alta, severa e morale idea che ho dell’arte e della critica, contro quelli che dell’arte e della critica non hanno la stessa idea. E poi c’è chi dice che io non sono idealista.» Parlai già del Ça ira in prosa, che fra gli scritti polemici del Carducci è certamente uno dei più belli; ma tutti in generale sono splendida conferma di quella vecchia sentenza, che uno scrittore non è mai tanto eloquente come quando parla di sè. E il Carducci parla di sè non come un letterato che calcola gli effetti delle sue parole, ma come un uomo che parla, che parla semplicemente ex abundantia cordis. Ciò che il Giorgini disse della poesia del Carducci, si può a più forte ragione dire della sua prosa. È noto che egli non licenzia alla stampa mezza pagina che non abbia prima meditata; ma [255] tanta è la spontaneità e la naturalezza, tanto il brio di alcuni dei suoi scritti polemici, specialmente dei più brevi, che paiono improvvisati. Io non conosco nella nostra letteratura un’altra raccolta di scritti che sia per tale rispetto paragonabile a questa.
Nel volume delle Conversazioni critiche il Carducci raccolse, con emendazioni ed aggiunte, dodici scritti, due dei quali pubblicati nella Nazione di Firenze fino dal 1861 e ’62 (Per il Classicismo e il Rinascimento; Il Buco nel Muro di F. D. Guerrazzi); gli altri pubblicati in altri giornali od altrove, dal 1867 al 1883: fra questi, cinque sul Parini lirico ed uno sulla adolescenza e gioventù poetica del Foscolo.
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Le Nuove Odi barbare, pubblicate, come ho detto, nel marzo del 1882, erano venti, comprese La Lirica, tradotta dal Platen, e due odicine tradotte dal Klopstock. Splendide tutte le originali; sopra tutte All’Aurora, Sirmione, Saluto italico. Alla Certosa di Bologna, A Giuseppe Garibaldi; assolutamente perfette, oltre l’ode per Napoleone Eugenio, Sogno d’Estate e Per le nozze di mia figlia.
Messe fuori le edizioni definitive delle poesie Juvenilia, Levia Gravia, Giambi ed Epodi, il Carducci pensò fino dal febbraio 1885 a riunire e pubblicare in un volume le poesie in rima, non comprese in [256] quelle tre raccolte, cioè quanto restava delle Nuove Poesie, toltine i Giambi ed Epodi, e tutte le poesie in rima composte o finite dopo il 1872. Sperava di pubblicare questo nuovo volume, col titolo di Rime nuove, nel luglio di quello stesso anno; ma invece non potè fino al giugno del 1887; troppe erano le poesie da finire che voleva mettere nel volume, troppe le altre cose che aveva da fare. Attendeva alla stampa di un nuovo volume di prose pel Sommaruga, Vite e Ritratti, che rimase interrotto per la rovina del troppo intraprendente editore; scriveva un saggio sull’Inno della Risurrezione di Alessandro Manzoni e di San Paolino d’Aquileia, che fu pubblicato nell’Archivio storico per Trieste, l’Istria e il Trentino; componeva e pubblicava nella Nuova Antologia il ritratto della contessa Serego-Alighieri Gozzadini, che fu poi messo come prefazione alla Vita della egregia signora;[55] curava la scelta e pubblicazione degli scritti di Alberto Mario; rivedeva e correggeva insieme con Ugo Brilli il libro delle Letture italiane per le scuole ginnasiali; scriveva per la Domenica del Fracassa i Colloqui manzoniani in risposta ad alcune critiche dello Zumbini. E appunto in questo tempo gli ronzavano per la testa delle poesie nuove che si doleva gli mancasse il tempo di scrivere.
[257]
***
Nell’aprile del 1884 Ferdinando Martini, andato Segretario Generale al Ministero della istruzione, ebbe l’idea di creare un Ispettore Generale degli studi classici, e ne parlò al Carducci per sentire se sarebbe stato disposto ad accettare quell’ufficio. Il Carducci me ne scrisse chiedendomi il parer mio, e dicendomi che per più ragioni, a suo avviso molto forti, dubitava di accettare. Io non so che gli rispondessi, ma certo lo dovei sconsigliare, poichè egli riscrivendomi qualche giorno dopo mi diceva: «Trovo giuste le tue considerazioni circa l’offerta fattami. Del resto la vita di Roma non mi attrae: è troppo invadente: non c’è da liberarsi da certi contatti che io non amo: non mi lascerebbero neanche la libertà della solitudine o del ritiro, che in Bologna ho secura.»
Certo il Carducci sarebbe stato un ottimo Ispettore degli studi classici, e l’opera sua, se avesse potuto spiegarsi libera e piena nel Ministero della istruzione, avrebbe potuto recare non poco giovamento alle nostre scuole; ma probabilmente il Martini parlò della sua idea col Ministro, ch’era allora il Coppino, e pensarono che togliere il Carducci all’insegnamento superiore e ai suoi studi sarebbe stato un danno per nessuna guisa riparabile; o forse bastò il rifiuto del Carducci a fare che l’idea non avesse seguito.
[258]
Il Martini era ed è uno dei pochi uomini politici aventi conoscenze esatte e idee sane intorno ai bisogni della istruzione. Se allora dimise il pensiero di un Ispettore degli studi classici, non modificò le sue convinzioni circa la necessità di un simile ufficio nel Ministero; e tornato dopo otto anni alla Minerva in qualità di Ministro, istituì l’Ispettorato Generale. Peccato che un uomo di così fine penetrazione come lui, il quale doveva pur conoscere i suoi polli, cioè i suoi possibili successori, non pensasse che fra questi ce ne poteva essere uno che in fatto d’Ispettorato fosse nichilista.
***
Cominciando da quell’anno 1884, il Carducci andò a passare i mesi dell’estate sulle Alpi. Il 27 luglio mandandomi da Courmayeur l’ode Scoglio di Quarto, mi scriveva: «Come ricordo del mio anniversario, ti mando quest’ode, pensata, o, meglio, sentita a Genova, su ’l luogo, scritta qui tra boschi d’abeti su la Dora. Non mai come in questi giorni ho intesi i versi d’Orazio:
.... quae Tibur aquae fertile praefluunt,
Et spissae nemorum comae,
Fingent aeolio carmine nobilem.
Ma la mia solitudine è grandiosa più di quella d’Orazio, l’Alpi e la Dora.» Soggiungeva che sarebbe rimasto [259] a Courmayeur fino alla fine d’agosto; che aveva intenzione di comporre tre altre odi; che ai primi di settembre sarebbe tornato a Bologna, dove si dovevano fare le nozze della sua seconda figliuola, la Lauretta.
Le nozze ebbero luogo invece tre anni più tardi, il 20 settembre 1887, e la Lauretta con lo sposo rimase poi sempre in Bologna, vicino ai genitori.
Nell’ottobre ci rivedemmo a Roma, dove io era stato trasferito come Preside di Liceo, e dove egli veniva di frequente, come ho già detto, per le adunanze del Consiglio Superiore e per altri incarichi ufficiali.
In trenta anni da che ci conoscevamo non avevo memoria che il Carducci fosse stato mai seriamente ammalato. La sua fibra forte e resistente non si era mai risentita delle soverchie fatiche mentali; ma nel 1885 un leggero disturbo lo avvertì della necessità di moderare il lavoro intellettuale e interromperlo col riposo e con gli esercizi del corpo. Nel marzo, una mattina, mentre stava, secondo il solito, lavorando nel suo studio, fu preso a un tratto da un intorpidimento del braccio destro, che lo impressionò tristamente. Fu cosa passeggera; ma che gli lasciò per qualche giorno un po’ di debolezza in tutta la persona, specialmente al braccio. Io lo andai a vedere quasi subito, e lo trovai non solo rimesso della lieve indisposizione, ma di buon umore e tranquillo, che stava scrivendo una poesia; mi [260] pare la sestina Una notte di Maggio, pubblicata poi nella Domenica del Fracassa il 17 dello stesso mese. Si recò pochi giorni dopo a Livorno a fare la Pasqua con la figliuola; e di lì venne a Roma, che stava apparentemente bene. Passando per la maremma sotto Castagneto pensò, e tornato a Bologna scrisse il sonetto «Dolce paese onde portai conforme» pubblicato nella Domenica del Fracassa del 3 maggio. La visita di quei luoghi dov’ei passò la sua fanciullezza gli destava sempre molti ricordi e il desiderio di rivederli. Non c’era più stato da sei anni.
La prima volta che ci tornò, nell’aprile del 1879, era stato un avvenimento. Si capisce; n’era partito ragazzo di tredici o quattordici anni, vi tornava uomo fatto e poeta famoso. «Che cosa accadesse in quel giorno a Castagneto, scrive un castagnetano e testimone oculare, Averardo Borsi, io non saprei ridire efficacemente. Su per la salita che dalla stazione della ferrovia conduce al paese, il Carducci — pur tacendo il suo nome — aveva interrogato lungamente il postino, chiedendogli notizie degli amici d’infanzia, dei luoghi, dei progressi agricoli, delle condizioni del paese; e il postino rispondendogli guardava lo strano personaggio e faceva mille supposizioni sull’esser suo.
················
»Scese in mezzo al paese, tra una folla di sfaccendati, che ammiravano la sua tuba dal pelo un po’ arruffato, e andò a cercare mio padre. Mezz’ora [261] dopo era circondato da un gruppo di amici, che lo festeggiavano con quella semplicità schietta che è virtù del popolo maremmano. Alla sera, mentre pranzava in casa mia, venne la banda, e con la banda tutto il paese plaudente acclamante.»[56]
Quella volta il Carducci si trattenne poco a Castagneto; ma promise di tornarvi; e ripassando di lì in via ferrata nell’aprile del 1885 dovè rammentarsi la promessa, perchè arrivato a Bologna scrisse al Borsi: «Conto di fare una peregrinazione maremmana, cominciando da Castiglioncello e terminando a Campiglia e San Vincenzo. Voglio proprio rivedere uno ad uno i luoghi della mia prima età. E condurrò meco un giovane romagnolo, che sarà mio genero.[57] Conto per un banchetto a Donoratico.» Nel maggio andò. «E il banchetto ci fu, scrive il Borsi, gaio, rumoroso, circonfuso di calore e di luce, lì all’ombra della fiera torre, in un bosco fresco di lecciuoli e di giovani querce, fra le quali al suono dell’Inno di Garibaldi, proclamammo la candidatura politica del Carducci.»[58]
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Dopo i pochi giorni di riposo nel marzo, e salvo le brevi gite a Livorno e a Castagneto, il Carducci [262] era tornato al lavoro, come prima. E non fu bene: ma chi avrebbe saputo o potuto imporgli un lungo e assoluto riposo intellettuale?
A me, che gli chiedevo notizie della sua salute, rispondeva il 24 giugno da Bologna: «Bene non sto: ho tali debolezze e vertigini e mancamenti di quando in quando che non mi piacciono. I medici dicono essere esaurimento nervoso, e vogliono ch’io vada in montagna. Il primo di luglio andrò a Desenzano per gli esami; e poi a Oropa, o nella Carnia, a Pian d’Arta.» E il 29: «Domani parto per Desenzano, dove starò fino al 13 o al 14, e poi andrò a Piano d’Arta, sopra Tolmezzo, nella Carnia. Finiti gli esami, faresti bene a toglier su il tuo sacco e venirtene anche tu. Ivi monti e valli e foreste di abeti ed acque fredde e carne ottima e vin di Conegliano, e trote, il tutto a sei lire il giorno. Non si spende poi nulla per quella gran cosa, di essere lontani dagl’imbecilli e dai birbanti.» Alla metà di luglio partì da Desenzano per Arta, «dove, scriveva, se mi troverò bene, starò tutto l’agosto, facendo il meno possibile; cioè rivedendo soltanto le stampe delle Letture e il Mazzini della signora Mario, e leggendo probabilmente Sofocle. Mi pare di non aver più nulla nella testa. Bisogna che mi rifaccia.» E arrivato a Piano d’Arta, mi scrisse il 21: «Sono qui da domenica, e mi pare di starci bene, non ostante che anche quassù abbia trovato dei poeti e delle donne ammiratrici. Io conto di rileggere Sofocle, e guardare [263] un po’ la storia di Carnia e la poesia popolare friulana: senza far nulla non potrei stare; e il chiacchierare con la gente mi farebbe venire l’estenuamento nervoso, anche se non l’avessi.»
Frutto della sua dimora a Piano d’Arta furono le due poesie In Carnia e Comune rustico.
Tornò a Bologna che si sentiva rifatto; e poi che la gita del maggio a Castagneto aveva rinfiammato gli amori suoi per la Maremma, deliberò di tornarci nell’ottobre, come aveva promesso, e persuase me a tenergli compagnia. Arrivammo là il 18, egli da Livorno, io da Roma: la mattina dipoi ci raggiunse, pure da Livorno, Leopoldo Barboni, il quale dieci anni più tardi descrisse quella nostra scampagnata in un grazioso libretto, Col Carducci a Segalari.[59]
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Ed ecco il Carducci un’altra volta in pericolo d’entrare a Montecitorio. Sappiamo bene ch’ei ne aveva poca voglia, e che non gli era dispiaciuto punto di esserne la prima volta stato messo fuori dalla fortuna; e che dopo avea ricusato più volte le candidature offertegli. Ma ora chi glie la offriva erano i suoi maremmani, quel popolo a cui lo legavano tante memorie care, e glie la offrivano perchè andasse a combattere quel governo di Agostino Depretis, [264] ch’ei giudicava esiziale alla patria. Con tutto ciò stette lungamente in dubbio dell’accettare, e non si risolvè se non quando un nobile amico e un gran cittadino, Agostino Bertani, con l’ultima lettera ch’egli scrisse poche ore innanzi la morte, lo sollecitò che accettasse. «Obbedisco (scrisse allora nella lettera Al Comitato democratico elettorale del Collegio di Pisa pubblicata nel Resto del Carlino di Bologna del 9 maggio 1886) alla voce che mi viene d’oltre la tomba, obbedisco alla voce che mi suona di riva al mio mare. E obbedisco alla voce, che mi comanda dentro, del dovere. Però che io credo che questa non più amministrazione giustamente costituzionale ma governo ostinatamente personale danneggi e perverta l’Italia: sì che se il mio nome può dare pur un minimo colpo al minimo dei puntelli di cotesta oppressione barocca, vada pure il mio nome.» E il 19 maggio fece il suo discorso agli elettori nel Teatro Nuovo di Pisa, discorso di aperta e fiera opposizione al Ministero Depretis; ma nella elezione gli avversari moderati ebbero il di sopra; e così anche questa volta il Carducci fu salvo dal pericolo che la politica militante traendolo a sè lo distraesse dagli studi. E fosse egli o non fosse entrato alla Camera, la politica avrebbe seguitato, come seguitò, il suo poco patriottico e meno morale tran tran. Nel 1883 egli avea scritto: De malo in peius, venite adoremus. Il peggio non potea non venire: che cosa verrà dopo il peggio che dura da tanto tempo vattel’a pesca.
[265]
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Nell’estate del 1886 il Carducci tornò sulle Alpi; il 28 luglio era a Caprile, dove contava di trattenersi e si trattenne tutto agosto. Il 21 mi scriveva: «Io qua sono tra le vere Alpi: torrenti alpini veri, al cui strepito mi addormento leggendo il Riccardo III e la Morte di Cesare dello Shakespeare. Grandi, cioè strette e dirupate vie alpine; ma ombreggiate di selve di abeti e larici, alla cui ombra studio le Georgiche. Monti veramente stupendi: moli dolomitiche, che paiono architetture di Titani che vogliano imitare a modo loro Michelangelo e il Brunellesco: la Civetta, il Pelmo, la Marmolade: l’uno più bello dell’altra: la Civetta, che io vedo, anzi che io ho, dinanzi alla mia finestra, bellissima. Sento e penso molte cose; ma non ho voglia di far versi, perchè oramai mi accorgo che la forma è inferiore al concetto, e quello che imagino e sento immeschinisce prendendo a costringerlo nelle parole o diventa falso. Riveggo con molta attenzione le Letture, secondo volume nuovamente annotato, e le stampe delle Rime nuove. Ho cercato di rifare alcuni versi.... altre poesie ho finite.»
Nell’ottobre tornò a Castagneto. Se gli amici maremmani si dolsero della sua candidatura non riuscita, egli cercò persuaderli che ciò era stato per lui un bene economico e morale, e che non perciò [266] era meno grato a loro della prova di amicizia che gli avevano data.
Tra le poesie finite a Caprile, o poco prima, o poco dopo, c’era quella intitolata Davanti San Guido, rimasta interrotta fino dal 1874: probabilmente ritrovò l’ispirazione per finirla nelle recenti sue visite a Castagneto.
La selvaggia campagna maremmana ha lasciato una forte impronta nelle poesie del Carducci. La terza parte dell’Avanti avanti, ch’è la più bella e la sola veramente originale, il Chiarone, l’Idillio maremmano, Rimembranze di scuola, Sogno d’estate ed altre fanno rivivere dinanzi alla fantasia del lettore la storia antica, i vari aspetti della Maremma dai più orridi ai più sereni e ridenti, e le forti impressioni che ne ebbe il poeta; ma la poesia che più compiutamente rispecchia i suoi ricordi giovanili è certamente Davanti San Guido.
Le altre poesie finite a Caprile erano probabilmente Faida di Comune, La Sacra di Enrico V, l’Intermezzo e il Congedo; le quali apparvero per la prima volta intere nella prima edizione delle Rime nuove, finita di stampare dallo Zanichelli il 20 giugno 1887. Con le Rime nuove restava compiuta e ordinata in quattro volumi (oltre i due delle Odi barbare) la raccolta di tutte le poesie del Carducci: 1º vol. Juvenilia, 2º Levia Gravia, 3º Giambi ed Epodi, 4º Rime nuove; nei primi due i tentativi e la preparazione, negli altri e nelle Odi barbare l’opera [267] originale del poeta, che ora si presentava al pubblico nella sua interezza.
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Il volume delle Rime nuove si apriva con l’ode Alla Rima e si chiudeva con il Congedo, di cui furono pubblicate le prime tre strofe nella Cronaca bizantina del 16 dicembre 1882, col titolo Che cosa non è il poeta. Le poesie, 97 in tutte, erano divise, senza la prima e l’ultima, in otto libri: nel terz’ultimo il Ça ira, nel penultimo traduzioni, o rifacimenti, dal tedesco, dallo spagnuolo, dal francese antico; nell’ultimo l’Intermezzo, diviso in dieci capitoli.
Il poeta nella Prefazione ai Giambi ed Epodi (1882) aveva detto: «Queste rime non vanno oltre il 1872; e di comporne ancora di simili non mi sento più in vena»; ma anche tre anni dopo, nel giugno del 1885, scriveva:
Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
E di tempeste, o grande, a te non cede:
L’anima mia rugge ne’ flutti, e a tondo
Suoi brevi lidi e il piccol cielo fiede.
E mandandomi il sonetto, in fine del quale era la data 186.... mi scriveva: «Ci ho messo un po’ di data per dare ad intendere a me medesimo, che oramai la ragione illumina e vince in me le torbide collere e che non è più il tempo delle procelle.» [268] Ma inutilmente cercava egli di farsi questa illusione. Nell’anima sua c’era e rimaneva sempre un fondo di scontentezza e d’irrequietudine, che ogni tanto aveva bisogno di sfogo: e allora lo scrittore doveva pigliarsela con qualche cosa o con qualcheduno, magari con sè medesimo e con le sue idee; e guai allora a chi o a che gli capitava sotto! Non scrisse più, è vero, poesie politiche: le sue bizze e le collere, alle quali cercò sempre cagioni degne, le sfogò in prosa (nelle Confessioni e Battaglie delle quali abbiamo già parlato), e nell’Intermezzo, il quale fu collocato in fondo alle Rime nuove, quasi un fuor d’opera. Il poeta stesso dovè sentire che con le Rime nuove legava poco; e perciò nella edizione ultima delle Poesie gli assegnò un posto a sè, il suo vero posto fra i Giambi ed Epodi e le Rime nuove.
Quei critici dilettanti di cronologia, che, come il mio amico Mestica, sudano molte camicie per disfare l’ordinamento ideologico nel quale un grande poeta dispose i suoi versi, siano avvisati che renderebbero un cattivo servizio al Carducci e farebbero addirittura contro la volontà sua ristampando le sue poesie in un ordine diverso da quello nel quale egli le ha volute. Della cronologia ne ha tenuto conto da sè quanto gli è parso. Così fecero il Leopardi ed il Foscolo: i quali, se tornassero al mondo, non sarebbero, credo, niente grati al Mestica del riordinamento da lui fatto delle loro poesie.
[269]
Una cosa è da notare a proposito di tre poesie comprese nel penultimo libro di Rime nuove, che sono Il Passo di Roncisvalle, pubblicata la prima volta nella Nuova Antologia (maggio 1881) e riprodotta in una strenna livornese L’Estate (agosto 1882), Gherardo e Gaietta pubblicata nel Fanfulla della Domenica (3 aprile 1881) e La lavandaia di San Giovanni, pubblicata la prima volta nel primo numero della Rassegna settimanale del Sonnino (6 gennaio 1878),[60] poi nella Cronaca bizantina del 1º giugno 1882. In queste tre poesie, la prima delle quali, meglio che traduzione, è una ricomposizione epica di su diverse redazioni di romanze spagnuole e portoghesi, la seconda è traduzione dal francese antico, e la terza dallo spagnuolo, il poeta diede saggio di una nuova barbarie metrica, e discorse di essa le ragioni in una breve introduzione alla seconda di coteste poesie. In essa dice: «Fra un’ode barbara e l’altra, io mi provo anche a tradurre delle romanze antiche francesi e spagnuole e dei canti popolari tedeschi.»
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«Certe traduzioni dal francese antico e dal tedesco le faccio in metri che rispondano più esatto si possa agli originali. Alle assonanze non ho ancora avuto il coraggio di spingermi; ma farò il possibile di arrivarci presto. Tutto per procurare un piacere ai miei cari montoni d’Arcadia: sono tanto graziose quelle bestioline, specialmente quando diventano idrofobe.»
Alle assonanze si spinse più presto ch’egli stesso forse non pensava quando scrisse queste parole; poichè il 12 dello stesso mese di aprile, in cui uscì nel Fanfulla della Domenica la romanza tradotta dal francese antico, mi mandò una parte, e il giorno di poi il resto, della romanza spagnuola Il Passo di Roncisvalle, ch’è appunto ad assonanze.
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Con legge del 3 luglio 1887 fu istituita dal Parlamento italiano una cattedra dantesca nella Università di Roma. Non mai istituzione fu, a giudicarne dai resultati, più inutile, a giudicarne dagli intendimenti, più sbagliata di questa.
Quanto alla inutilità, basti il fatto che, dopo quindici anni che fu istituita, la cattedra dantesca ancora non c’è. Come? Perchè? — Forse in quindici anni il Governo non è stato capace a trovare fra i letterati italiani uno degno di occuparla? Eppure non c’è stata mai come in questi anni tanta abbondanza [271] di lettori ed interpreti della Divina Commedia. Anche, diciamolo, perchè è la verità; gli studi sul nostro sommo poeta hanno oggi fra noi molti e degni cultori. Come dunque? — Ma i savi governanti avevano istituita la cattedra dantesca per darla al Carducci, e il Carducci non la volle. — Già, è vero: i savi governanti volevano dare la cattedra al Carducci, perchè ignoravano ciò che il Carducci aveva scritto su Dante: il che dimostra quanto umile fosse la loro cultura.
Il povero Alighieri ebbe sempre poca fortuna coi politicanti dell’Italia nuova: tutte le volte ch’essi vollero occuparsi di lui, non ne imbroccarono una. Istituirono nel 1860 una cattedra dantesca nell’Istituto Superiore di Firenze, per darla al buon Padre Giuliani, e il meglio che poterono fare, quando egli morì, fu di lasciarla vacante; celebrarono nel 1865 il centenario dantesco, e mai non furono dette e fatte tante sciocchezze quante allora nel nome di Dante; istituirono la cattedra dantesca a Roma, e (ciò che ancora è il meno peggio) la cattedra dantesca, come abbiamo detto, non c’è; pensano ad inalzare un monumento a Dante in Roma, e ci pensano dopo più di trent’anni che l’Italia è a Roma, ci pensano dopo che l’Imperatore di Germania ha voluto, e forse perchè ha voluto, che a Roma sorgesse una statua di Goethe, ci pensano presentando un disegno di legge alla Camera nè più nè meno che se si trattasse di mettere un nuovo balzello. L’Italia ufficiale [272] è stata sempre di una volgarità desolante, incapace di un pensiero alto, di un sentimento generoso, di un forte entusiasmo; ed anche, diciamo la dura parola, molto ignorante.
La cattedra dantesca fiorentina, finchè durò, fu una innocente Accademia destinata a far passare qualche ora della settimana alle signore che non sapevano come ammazzare il tempo. Tra le visite alle amiche per fare un po’ di maldicenza, e un giro per via Tornabuoni e via Calzaioli per dare un’occhiata alle ultime novità delle vetrine e mangiare da Giacosa due pasticcini, mezz’ora di chiacchiere del Padre Giuliani era una benedizione. Si arrivava all’ora del déjeuner senza avvedersene.
Ma il senno del nostro Parlamento volle alla cattedra dantesca romana dare un significato e uno scopo politico, volle farne la bandiera e lo scudo della unità d’Italia, una specie di baluardo contro l’invadente clericalismo, una specie di pulpito, in permanenza, tuonante contro le dottrine della Chiesa cattolica e del Vaticano. E per questa specie di predicazione si scelgono come testo le opere dell’Alighieri che fu profondamente cattolico, si va a prendere come espositore il Carducci che conosce bene il suo Dante, che volle sempre essere un professore di lettere, non un predicatore.
Combattere il clericalismo! Niente di più meritorio per un Parlamento e per un Governo veramente italiani: e mille modi c’erano e ci sono di [273] combatterlo efficacemente con delle buone leggi, con una savia amministrazione, e innanzi tutto coll’avere per guida nei propri atti la rettitudine e la sincerità, non la menzogna e l’ipocrisia, che sono le arti dei clericali. Ma credere di combattere il clericalismo stipendiando un professore più o meno coscienzioso, il quale nel nome di Dante vada espettorando due o tre volte la settimana, in un’aula della Sapienza, delle declamazioni anticattoliche per eccitare la gioventù a mangiarsi un prete a colazione e a desinare un gesuita, è non solo una sciocca illusione, ma una mancanza di rispetto a Dante e una offesa al professore onesto cui per avventura si offrisse quello stipendio.
Per tutte queste ragioni il Carducci rifiutò la cattedra. E sia perchè tutti quelli che l’avevano proposta e glie l’avevano offerta, avevano inteso di fargli onore, sia perchè amici suoi rispettabili e degni desideravano che l’accettasse, egli espresse il suo rifiuto in termini molto cortesi, con una lettera ad Adriano Lemmi, che fu pubblicata nella Gazzetta dell’Emilia del 23 settembre 1887, e che ora può leggersi a pag. 347 del dodicesimo volume delle Opere. E poichè la cattedra era stata creata per lui, e per fare un po’ di bum bum, nessun ministro di buon senso (e ce ne furono) ebbe poi il coraggio di correggere l’errore della istituzione, o sopprimendo la cattedra, o affidandone magari l’insegnamento a qualche valoroso dantista (e ce ne sono [274] anche fra i giovani), il quale illustrasse filologicamente, criticamente, storicamente le opere dell’Alighieri. No, si voleva un nome famoso e il bum bum. Per i rappresentanti dell’Italia ufficiale ciò che importa sono le parole, non le cose. Mettere il poeta di Satana a commentare Dante, contro il Vaticano. Ecco la gran trovata.
Dopo tutto ciò, il Governo nella relazione che precede il disegno di legge per il monumento a Dante ha il coraggio di citare come un grande atto dell’Italia nuova la istituzione della cattedra dantesca a Roma. Nessuna meraviglia se di qui a quindici anni un’altra relazione per un altro disegno del genere, citerà a gloria dell’Italia ufficiale la legge del monumento a Dante, che (speriamo) non si farà.
Dante ha il suo busto al Pincio, e basta: che ragione c’è d’innalzarlo all’onore d’un monumento in Roma, mettendolo alla pari di Marco Minghetti e di Quintino Sella?
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Torniamo alla cattedra dantesca e al Carducci. Quella che ho detto fu la ragione principale della sua rinunzia; ma ne ebbe anche altre. Io pure, per il desiderio di averlo vicino, lo avevo consigliato di accettare, dicendogli: «Quando avrai accettato, farai lezione di che e come ti parrà.» Egli a dì 8 ottobre mi rispose: «Le ragioni che addussi (nella lettera [275] al Lemmi) erano per me validissime. Ma poi altre ne ho d’ordine privato. Sono stanco, stanco, stanco, di fare il professore; che non è poi un mestiere per cui abbia avuto mai vocazione. Ricominciarlo a Roma, ora che son quasi vecchio e del tutto disilluso, mi avrebbe fiaccato e reso più triste e scontento d’avere accettato. Preferisco il pensiero solitario e gli studi laboriosi in biblioteca e nel mio gabinetto alla comunicazione col pubblico, che insomma non amo. E sono più selvatico e ombroso ora che non fossi da giovine. Avvezzo come sono alla cattedra di Bologna, non posso contenere un’irritazione nervosa, quando ci vado. Figurati quello mi sarebbe avvenuto a Roma. Sarei morto arrabbiato prima del tempo. È inutile: quando devo andare a presentarmi a un uditorio che non sia di giovani a me conosciuti, mi pare che vengano a sentirmi come una prima donna, o a vedermi come un ballerino, e mi vien voglia di trattarli come, a mio parere, si meritano. Un po’ è paura, un po’ è superbia.»
Il buon Coppino, allora ministro, tanto per dissimulare il fiasco della istituzione della cattedra dantesca, pensò di sostituirvi un corso di letture, e pregò il Carducci di cominciarle lui. Il Carducci per cortesia annuì, e fece la prima l’8 gennaio 1888. Le letture non ebbero poi gran seguito, ma quella fu un avvenimento letterario di grande importanza, al quale il Ministero dell’istruzione, l’Università [276] romana, e in genere il così detto mondo ufficiale, rimasero quasi interamente estranei.
Il Carducci lesse il discorso L’opera di Dante, nel quale riaffermando il suo concetto circa le idee politiche dell’Alighieri, lo chiarì meglio, e quasi direi lo completò con queste parole: «Non è il caso di cercare nelle massime monarchiche dell’Alighieri un principio all’unificazione d’Italia, se non in quanto questa fosse compresa nell’unità del Cristianesimo. L’amor patrio e l’idea nazionale fiammeggiano nel sentimento che il poeta ebbe profondissimo delle glorie e delle miserie d’Italia, nel sentimento dell’Impero come istituzione romana, come diritto italico.»
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«Il libro di Monarchia è l’ultima scolastica espressione del classicismo politico medioevale; e cercarvi ciò che oggi dicesi lo stato pagano e lo stato ateo sarebbe fare un’ingiuria all’Alighieri secondo le sue idee. Ma gloriamoci — e non è poco — altamente, sinceramente e securamente gloriamoci, che Dante è il maestro nostro ed il padre nella conservazione della tradizion romana del rinnovamento d’Italia, ch’egli fu il testimone e il giudice nei secoli, il più puro e tremendo giudice e testimone, del malgoverno della gente di chiesa e della necessità morale di averlo abbattuto.»[61]
[277]
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Due altri importanti discorsi fece in quello stesso anno (1888) il Carducci; il dì 8 aprile la lettura su Jaufrè Rudel in Roma alla Palombella, il 12 giugno la orazione su Lo studio di Bologna, celebrandosi l’ottavo centenario di quella Università. Fu una festa mondiale e nazionale al tempo stesso; mondiale perchè festa della cultura alla quale partecipò tutto il mondo civile, nazionale perchè Bologna in quel giorno, dopo 29 anni che vide cacciata l’ultima volta e per sempre la signoria straniera, inaugurò il monumento a Vittorio Emanuele, al fondatore con Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi della nazione italiana.
La parola del Carducci suonò alta e degna della solenne occasione.
«La gloriosa Superga, disse egli terminando, presso la tomba del re de’ Sabaudi più doloroso aspetta invano il re più grande non pur de’ Sabaudi ma dell’età nostra, il re che fu invocato e coronato liberamente dal popolo italiano. Poi che Vittorio ebbe recato l’aquila sua su ’l colle fatale ove Romolo cercò gli auspicii alla fondazione dell’urbe, Roma, avvolgendo del suo divino amplesso nella morte il re delle Alpi, lo depose, nel tempio di tutti gli dèi della patria, re d’Italia e di Roma. Nessuna o pietà o empietà d’uomini ritoglierà più dal Panteon [278] Vittorio: nessuna o malignità o violenza di cose abbatterà più in Roma la bandiera che dall’onta dei patiboli salì alla luce del Campidoglio. Voi, Sire, fedele assertore di otto secoli di storia italiana, Voi, interprete augusto e mantenitore sovrano del vóto di tutto il popolo vostro, Voi, con parola che suona alta nel cospetto del mondo, o Re, le diceste: Roma, conquista intangibile. Sì, o Re, conquista intangibile del popolo italiano, per sè e per la libertà di tutti.»
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Nell’agosto il Carducci tornò sulle Alpi: andò a Madesimo, di dove il 25 mi scriveva: «Io qua su faccio poco: cioè, faccio di grandi bagni e di grandi passeggiate. Figurati che la mattina faccio la immersione in una gran vasca, temperatura 6 gradi: circa le 4 pom. la doccia. E così a forza di azione e reazione mi passo gran parte del giorno. Azione e reazione che faccio sempre camminando. Poesie ne ho pensate, ma non scritte: da prima, perchè faceva un gran freddo: nubi, acqua, vento, neve: poi, perchè vado a zonzo...... Nelle ore d’intervallo o passeggiando leggo Orazio, e cerco di rimandare a mente le odi che avevo dimenticato. Leggo, per istudio, le odi di Klopstock: e sono riuscito a dominare un poco quel difficil tedesco. Venendo a Bologna, cerca di leggere attentamente [279] la prima ode Klopst. Der Lehrling der Griechen, dove ho difficoltà e dubbi.»
Io era solito andare quasi tutti gli anni nel settembre a Bologna a passare alcuni giorni in compagnia del Carducci. Ci trovavo quasi sempre qualcuno dei più antichi ed affezionati scolari suoi, Ugo Brilli, Severino Ferrari, Tommaso Casini, che il Carducci invitava spesso a desinare, e coi quali andavamo di tanto in tanto a fare qualche passeggiata in campagna, e passavamo la sera alla bottiglieria Cillario, od altrove, conversando molto animatamente. In quell’anno il Carducci tornando da Madesimo aveva promesso di passare da Sondrio, per vedere il vecchio amico Prezzolini ivi prefetto; io dovevo aspettarlo a Bergamo per proseguire insieme per Bologna; ma non potei muovermi, e ci rivedemmo a Roma agli ultimi di settembre, dove egli dovè recarsi anche nei mesi successivi per le adunanze della Giunta del Consiglio Superiore.
Il 15 dicembre fece pubblicare nel giornale il Resto del Carlino di Bologna questa dichiarazione:
«Per molte ragioni, inutili a esporre, sono dispiacente di esser costretto a dichiarare anche una volta in pubblico, che io non posso tenere carteggio letterario o didattico o politico di nessuna guisa, all’infuori dei doveri d’ufficio e d’amicizia intima; per ciò solo, che, se anche mi abbondasse la facilità di scrivere e la facoltà di pagare un segretario, mi mancherebbe a ogni modo l’ozio e il tempo [280] di leggere: di che devo pregare i gentilissimi signori scriventi a me di avermi per necessariamente scusato.
»Dello scrivere poi per la stampa, o del tenere discorsi, ho il diritto, non avendo io mai usato di lavorare a commissione, di dire che io scrivo e parlo quando mi pare e piace, e nessuna cosa o circostanza o persona può persuadermi ad avere, per compiacenza, delle idee, quando non ne ho e non voglio averne.»
Il Carducci sperava con ciò di liberarsi dalla noia di dover tutti i giorni aprire e scorrere, almeno in fretta, una quantità di lettere inutili e sciocche, alcune delle quali lo facevano talvolta andare in bestia: ma la speranza fu vana. È il destino degli uomini famosi: destino che pei degnamente famosi è una disperazione; per quelli altri, i quali come i cantanti e le ballerine corrono i teatri in cerca di applausi, può essere che sia una beatitudine.
[281]
Il Carducci primo eletto al Consiglio comunale di Bologna. — Edizione delle opere complete. — Le Terze Odi barbare. — Raccolta e riordinamento di tutte le odi barbare in un solo volume. — Nomina a Senatore. — Una cena finita male. — Caduta del primo Ministero Crispi. — Vita del Carducci a Roma. — La trattoria in Via dei Sabini. — Il Castello di Costantino. — In casa di Adriano Lemmi. — «Scusi, lei non capisce niente.» — Evoluzione politica del Carducci spiegata da lui stesso. — Dimostrazione degli studenti radicali contro il Carducci. — Fischi all’Università. — «È inutile che gridiate abbasso: la natura mi ha messo in alto.» — Ripresa delle lezioni.
Il 30 gennaio 1889 il Carducci mandò fuori il primo volume della raccolta delle Opere; il 3 febbraio fece una nuova lettura in Roma alla Palombella sul tema «La poesia e l’Italia nella quarta crociata»; il 10 marzo pubblicò un secondo e il 15 giugno un terzo volume delle Opere; il 2 settembre fece sposa l’ultima delle sue figliuole, la Libertà; il 31 ottobre pubblicò le Terze Odi barbare; e il 10 novembre nelle elezioni comunali riuscì il primo eletto con 7965 voti su 10128.
Era entrato nel Consiglio il 25 luglio 1869, e vi fu sempre rieletto; ma la straordinaria votazione [282] del 1889 fu una specie di plebiscito, col quale la città di Bologna volle attestare all’illustre uomo la sua riconoscenza per avere resistito ai lusinghieri inviti che da qualche tempo con tanta insistenza lo chiamavano a Roma. Egli aveva fin d’allora, anzi da un pezzo, nel cuore quello che doveva dire pubblicamente alcuni anni più tardi, in occasione del suo primo giubileo di magistero, ai sindaci di Bologna e di Pietrasanta; le ragioni cioè di sentimento e di affetto, per le quali Bologna gli era divenuta una seconda patria, dalla quale sentiva oramai di non potersi staccare; ragioni che quasi scherzando aveva adombrate nella sua lettera al Lemmi con queste parole: «Se ho da fare ancora il professore, sento di non poter farlo utilmente che a patto di poter salutare, ogni volta che vado alla scuola e ne esco, la torre degli Asinelli.»
Già qualche anno prima del 1889 il Carducci era andato pensando a raccogliere e ordinare in una edizione uniforme e completa gli sparsi suoi scritti. Nel 1884, pubblicando le Conversazioni critiche, il Sommaruga aveva annunziato come in corso di stampa le seguenti opere: 1ª I trovatori alla corte di Monferrato, 2ª Vite e Ritratti, 3ª La Canzone di Legnano, 4ª Scatti e Schizzi; e come in preparazione queste altre: 1ª Studi letterari, 2ª Discorsi letterari, 3ª Novelle, 4ª I Ciompi. Di corrispondente alla realtà in questi annunzi non c’era altro che la stampa di alcuni pochi fogli di quel volume Vite e Ritratti [283] che, come dissi, rimase interrotto per il processo e la conseguente disparizione del Sommaruga.
Ma, fuori che per le Novelle e i Ciompi, per le altre opere il Carducci aveva già pronta molta materia. Scomparso il Sommaruga, gli Zanichelli, i cui rapporti col poeta erano venuti facendosi sempre più intimi, anche dopo la morte del padre loro, avvenuta improvvisamente il 7 giugno 1884, gli proposero di far essi la raccolta completa de’ suoi scritti; ed egli accettò. Trovandosi in Roma, mi parlò più volte di quella raccolta, ed una tra le altre buttò giù un primo abbozzo di disegno della raccolta stessa in venti volumi. Nell’abbozzo c’è una lacuna: dal volume IX si passa al XII; non so se per una svista, o per altra ragione; ma poichè quell’abbozzo, che ritrovo fra le mie carte, è cosa molto diversa dalla raccolta ora in corso di stampa, credo non dispiacerà ai lettori conoscerlo. Eccolo:
I. Trovadori alla corte di Monferrato.
II. Studi di filologia e letteratura medievale. — Delle antiche rime ne’ memoriali di Bologna. — Rimatori del secolo XIV. — Leggenda de’ sette savi, ec.
III. Studi letterari. — I. L’amore e la poesia nel secolo XIII. — Bernardo di Ventadorn. — Guittone d’Arezzo. — Guido Guinicelli. — Guido Cavalcanti. — Delle Rime di Dante.
IV. Studi letterari. — II. Della varia fortuna di Dante. — Canzoni storiche del Petrarca. — Musica e Poesia nel sec. XIV. — Lorenzo de’ Medici e Angelo Poliziano.
V. Ludovico Ariosto.
[284]
VI. Discorsi letterari. — Virgilio. — Dante. — F. Petrarca. — G. Boccaccio. — Dello svolgimento della letteratura nazionale. — Del rinnovamento letterario in Italia, ec.
VII. Vite e Ritratti. — I...... A. Tassoni. — S. Rosa. — A. Marchetti. — ec. ec.
VIII. Vite e Ritratti. — II. P. Metastasio. — C. I. Frugoni. — Poeti erotici e lirici del sec. XVIII. — Vittorio Alfieri prosatore.
IX. Vite e Ritratti. — III. G. Giusti. — G. Rossetti. — G. Mameli. — G. Prati. — G. Regaldi. — Louisa Grace. — Contessa Gozzadini, ec.
XII. Giuseppe Parini.
XIII. Bozzetti di letterature straniere.
XIV. Conversazioni critiche.
XV e XVI. Confessioni e Battaglie.
XVII. Schizzi e Scatti.
XVIII. Juvenilia. — Levia Gravia.
XIX. Giambi ed Epodi. — [Rime nuove].
XX. Odi barbare.
Al n. XIX mancano nell’autografo, evidentemente per una svista, le Rime nuove, che io perciò mi sono permesso di aggiungere.
Varie considerazioni si possono fare intorno a questo elenco: prima di tutte, che quando l’autore lo compilò aveva in animo di compiere alcuni lavori o farne dei nuovi, dei quali gli è mancato il tempo o l’opportunità; seconda, che la disposizione organica da dare ai suoi scritti è per lui lavoro di molta importanza, il quale perciò va soggetto a molte mutazioni, prima di esser compiuto. Questo [285] così per le prose come per le poesie; ciascuna serie delle quali corrisponde a uno speciale ordine di studi, di pensieri, di fatti nei diversi periodi della vita dello scrittore. Naturalmente alcune mutazioni avvenute nella disposizione delle prose dipendono dal fatto che all’autore accadde di comporre alcuni lavori ai quali da prima non aveva pensato.
Il volume, annunziato nell’elenco come il primo della serie, ed annunziato pure come il primo di quelli in corso di stampa dal Sommaruga fino dal 1884, non è ancora uscito; anzi non è neppure annunziato come di prossima pubblicazione nella edizione delle Opere fatta dallo Zanichelli, della quale sono stati pubblicati fino ad oggi ben tredici volumi. Ma dopo i tre primi, pubblicati nel 1889, l’edizione andò rallentando; nei nove anni che seguirono furono pubblicati soltanto sette volumi; e dopo la pubblicazione del volume X nel gennaio 1898 vi fu una sosta di quattro anni, ora fortunatamente cessata.
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Dei dieci volumi pubblicati nei nove anni dal 1889 al 1898 otto comprendono le prose e due le poesie. I volumi delle prose sono: I. Discorsi letterari e storici, II. Primi saggi, III. Bozzetti e scherme, IV. Confessioni e Battaglie, V e VII. Ceneri e faville (serie 1ª e serie 2ª), VIII. Studi letterari, X. Studi [286] saggi e Discorsi. I volumi delle poesie sono: VI. Juvenilia e Levia Gravia, IX. Giambi ed Epodi e Rime nuove.
Nella distribuzione degli scritti in questa raccolta completa delle opere l’autore ha tenuto conto al tempo stesso della materia e della forma. I volumi I, II e VIII (salvo nel I i due discorsi Lo studio di Bologna e Per la morte di Garibaldi e le Relazioni di Storia patria) sono tutti formati di studi letterari, con questa distinzione, che il primo comprende gli studi in forma di discorsi, il secondo quelli in forma di saggi critici, l’ottavo i veri e propri studi letterari in forma di dissertazioni. Tre di questi, insieme coi cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale, che ora sono nel I volume, componevano gli Studi letterari pubblicati dal Vigo nel 1874 e ripubblicati nel 1880. Il volume X, che comprende scritti vari anche di forma, ma per la maggior parte letterari, può considerarsi come una appendice ai tre volumi degli studi di letteratura italiana. Nel volume I ai cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale sono aggiunti i discorsi Pel monumento a Virgilio, L’opera di Dante, Alla tomba del Petrarca, Ai parentali del Boccacci, e Del rinnovamento letterario in Italia, che ne formano il complemento e la illustrazione, contribuendo a fare di esso il volume letterariamente più importante e più originale di tutta la raccolta delle prose.
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Come il volume degli Studi letterari del Vigo conteneva il primo nocciolo, per così dire, degli scritti letterari del Carducci raccolti nei volumi dei quali abbiamo parlato, così il volume dei Bozzetti critici e discorsi letterari, pubblicato dallo stesso Vigo nel 1876, conteneva il primo nocciolo degli scritti di critica e polemica, che, con l’aggiunta dei più importanti e nuovi dai tre volumi di Confessioni e Battaglie del Sommaruga, formarono i volumi III e IV delle opere complete, Bozzetti e scherme e Confessioni e Battaglie. Nei Bozzetti e scherme furono accolti cinque scritti dal volume del Vigo, su La Dora del Regaldi, su La vida es sueño del Calderon, Goffredo Mameli, Il secondo centenario del Muratori e Di certi giudizi intorno al Manzoni; gli ultimi due dei quali erano stati riprodotti nelle Confessioni e Battaglie, edizione Sommaruga. Due soli scritti del volume del Vigo, Polemiche sataniche e Critica e arte, riprodotti pure nel volume del Sommaruga, trovarono posto nel IV delle Opere. Ad essi furono aggiunti undici scritti dalla raccolta sommarughiana di Confessioni e Battaglie, quelli ai quali più propriamente si conveniva questo titolo; e così con altri tre nuovi, Ricordo d’infanzia, la prefazione al Libro delle prefazioni,[62] e il Discorso agli [288] elettori di Pisa, questo volume IV raccolse tutti gli scritti nei quali l’autore parla di sè, della sua vita e dell’arte sua, dagli anni primi al 1886, e combatte pei suoi ideali di scrittore e di cittadino.
I volumi V e VII, Ceneri e faville, raccolgono gli scritti minori di argomento vario, letterari, politici e semipolitici, sparsi dall’autore in giornali, ed opuscoli, ma sopra tutto in giornali, e perciò difficilissimi a trovare. Il volume V contiene la prima serie di tali scritti dal 1859 al 1870; il VII la seconda dal 1871 al 1876. Naturalmente queste, che l’autore chiama misere bricciche, non hanno letterariamente l’importanza degli scritti maggiori raccolti negli altri volumi; ma sono anch’esse nobili e preziose testimonianze dell’animo e dell’ingegno dell’autore, e perciò tutt’altro che inutili alla piena conoscenza dell’uomo e dello scrittore.
I due volumi delle poesie, VI e IX, pubblicati, uno nel maggio 1891, l’altro nel maggio 1894, comprendono tutte le poesie in rima già raccolte nei quattro volumi della collezione elzeviriana, Juvenilia, Levia Gravia, Giambi ed Epodi, Rime nuove (edizioni definitive), non senza qualche aggiunta e mutazione di posto a qualche componimento.
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Le Odi barbare seguitarono e seguitano ancora a rimaner fuori dalla raccolta delle Opere. Dopo le Nuove pubblicate nel 1882, egli era venuto componendone altre, di alcune delle quali abbiam fatto cenno: Su Monte Mario e Alessandria pubblicate nella Domenica letteraria del 1882, A Gino Rocchi nella Cronaca bizantina del 1883, Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley nella Domenica del Fracassa del 1884; Scoglio di Quarto mandata a me nel luglio del 1884 da Courmayeur con l’annunzio che stava scrivendone altre due (le quali erano Courmayeur e Il liuto e la lira). Oltre queste, altre ne aveva cominciate, fra le quali Miramar, di cui compose, come già dissi, le prime sei strofe nel luglio del 1878, e che fu compiuta soltanto nel settembre 1880, poco innanzi alla pubblicazione del terzo volumetto delle Odi barbare, finito di stampare il 31 ottobre del detto anno.
Le odi comprese in questo terzo volume erano venti, e tutte dello stesso valore delle prime e delle seconde. Qualcuno accennò scioccamente a crepuscolo e decadenza del poeta. L’accenno dimostrava soltanto che chi lo faceva aveva ammirato le prime e le seconde Odi barbare senza avere conscienza vera del loro valore poetico. Se qualche cosa era da notare nelle ultime, era solo una maggiore perfezione [290] della forma: l’ispirazione, la fantasia, il sentimento erano alla medesima altezza. Certamente l’ode per Napoleone Eugenio era e rimarrà sempre una delle più belle, ma Miramar, Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley e Scoglio di Quarto sono degnissime di starle accanto. Già, secondo me, parlando delle Odi barbare, non si dice bene a dire, queste son più belle di quelle altre; sono, specialmente le terze, tutte egualmente belle; il loro piacere più o meno potendo dipendere dall’argomento, dalla disposizione d’animo di chi legge e da tante altre circostanze. A voler giudicare equamente le terze Odi barbare in confronto delle prime e delle seconde, bisogna leggerle nel volume del luglio 1893, ove le odi dei tre periodi sono tutte insieme raccolte e diversamente ordinate in due libri. Da questo ordinamento, ch’era (si direbbe) nella testa dell’autore fin da quando egli le veniva sparsamente componendo, tutte le odi acquistano maggior valore e un più largo significato, illustrandosi l’una l’altra e formando un tutto armonico di una bellezza e di una potenza di pensiero e di fantasia meravigliose. Per esempio, quella piccola, ma stupenda, ode di quattro strofe, intitolata Colli toscani, giustamente ammirata dal Tomaselli,[63] quanto non acquista messa, come ora si trova, dopo Sogno d’estate [291] e innanzi l’altra Per le nozze di mia figlia! Nelle cinquantadue odi, quante sono tutte insieme, vive un intero mondo poetico, che dalle evocazioni storiche grandiose e fatali, dai ricordi commoventi e fecondi di meditazioni, dalle glorie e dagli eroismi antichi e nuovi della patria, alle rivendicazioni della giustizia, alle considerazioni filosofiche sulla vita e sul mondo, ai sentimenti e agli affetti della famiglia, santificati in una divina comprensione della natura, raccoglie quanto di più nobile ed alto può innalzare e infiammare un cuore umano. Che cosa sono di fronte a questo piccolo volume di poco più di 160 pagine i molti volumi di vaniloqui poetici, dove vampeggia qua e là una imagine, talora veramente bella, talora stramba e bislacca, in mezzo ad una affaticante virtuosità di parole, che gl’imbecilli chiamano linguaggio degli Dei?
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Nel luglio del 1890 il Carducci pubblicò l’ode barbara intitolata Piemonte, che i monarchici esaltarono molto (forse più del giusto), e che i repubblicani con goffa barbarie chiamarono «una riabilitazione di Carlo Alberto a base di Garibaldi»: nel 4 dicembre dello stesso anno fu nominato Senatore.
Alla sua assunzione alla Camera vitalizia il Governo, impersonato allora nell’on. Crispi, il quale, andava lieto e superbo della stima e dell’affetto che [292] gli dimostrava il Carducci, aveva pensato fino dall’anno innanzi, ma la nomina dovè essere rimandata, perchè il Carducci non aveva ancora quei tanti anni di accademico che sono richiesti per essere tenuto degno di entrare nell’alto consesso.
Di lì a due mesi, quando nessuno se l’aspettava, il Ministero Crispi cadde.
Era ne’ primi giorni di febbraio del 1891. Un antico scolaro del Carducci, il dottore Innocenzo Dall’Osso, che, consapevole della misera condizione fatta dall’Italia agli insegnanti, aveva preferito alla professione di professore quella di negoziante di tortellini, trovandosi di passaggio a Roma, si incontrò con Ugo Brilli suo antico compagno d’Università ed allora professore al Liceo Mamiani di Roma. Naturalmente parlarono del loro antico maestro, che appunto di quei giorni trovavasi in Roma; il Dall’Osso espresse il desiderio di vederlo; e il Brilli, accontatosi con Edoardo Alvisi, allora bibliotecario della Casanatense, e con altri amici comuni, propose, ciò che fu subito accettato da tutti, di fare una cena, alla quale sarebbero invitati il Carducci, il Dall’Osso e pochi altri.
La cena (nella quale, si intende, dovevano primeggiare i tortellini) fu fissata per le ore 6 alla trattoria La torretta di Borghese, in piazza Borghese, dove era cameriere un giovinotto di Bologna soprannominato Barzilai, entusiasta del Carducci. Eravamo fra gli invitati Luigi Lodi ed io. Quella sera, se non [293] isbaglio, pioveva, una di quelle pioggie fini, insistenti, noiose, che a Roma, quando cominciano, pare non vogliano finir mai. Io arrivai in compagnia del Brilli e dell’Alvisi. Il Carducci c’era già. Mi presentò il suo ex-scolaro: gli altri, già arrivati, li conoscevo. In breve la comitiva fu quasi al completo: mancava soltanto il Lodi. Mentre si aspettava che i camerieri annunziassero pronta la cena, una conversazione animata empiva di lieto romore la stanza. Il Carducci era di bonissimo umore, e faceva con me sue facete e malinconiche considerazioni intorno alla fortunata condizione del suo scolaro negoziante di tortellini in confronto di tanti altri che trascinavano miseramente la vita in qualche città delle isole, insegnando latino e greco a ragazzi che non avevano nessuna voglia d’impararlo. All’annunzio che i tortellini erano in tavola, ci precipitammo tutti nella sala da pranzo; e il lieto romore andò sempre crescendo mentre ciascuno cercava il suo posto.
Cominciarono a sfilare le portate dei tortellini, cucinati in tutte le guise; cominciarono e non finivano; come non finivano le lodi dei commensali a così squisite minestre. Il pranzo procedeva allegramente, e lo sfilare dei vassoi di tortellini era finito, quando a un tratto comparve il Lodi, il cui posto accanto a me era rimasto vuoto. Entrò dicendo che veniva dalla Camera con una strabiliante notizia: — Il Ministero Crispi stava cadendo: forse era già caduto: egli Lodi aveva lasciato la Camera in votazione: [294] l’appello nominale aveva già superato la metà dei presenti, e il Ministero si trovava in minoranza: nel qual caso, osservò il Lodi, l’esperienza insegna che i più di quelli che restano voteranno contro: avrebbero votato in favore se non avessero avuto la sicurezza che il Ministero era spacciato. —
Naturalmente il Lodi, che allora scriveva in un giornale di opposizione, era tutto sodisfatto; però, sapendo quanto il Carducci fosse affezionato al Crispi e quanta ammirazione avesse per lui, cercò di contenersi. Nè risparmiò titoli poco onorevoli a quelli onorevoli che, avendo fino allora sostenuto il Ministero, ora che lo vedevano in procinto di cadere gli si erano voltati contro. Ma la sodisfazione che gli si leggeva nel viso traspirava, starei per dire, dai pori stessi delle sue parole, se anche di biasimo ai vincitori. E qualche motto di disapprovazione per il Crispi gli uscì pure di bocca.
Alle prime parole del Lodi il Carducci rannuvolatosi gridò: — Non è possibile. — Quando poi dal seguito del racconto capì che la cosa era vera, ruggì: — Vigliacchi; è l’unico uomo di stato che possa governare l’Italia, e tenerne alto il nome: vigliacchi. — E ruotando gli occhi fiammanti d’ira, e fissandoli di tratto in tratto sul Lodi, pareva volesse stritolarlo, annientarlo col solo sguardo. Qualcuno, non mi ricordo chi, si provò a gittare qualche parola che temperasse l’effetto prodotto nell’animo del Carducci dall’improvvisa notizia; io, che lo conosco [295] bene, mi tacqui sapendo che qualunque parola poteva affrettare lo scoppio della burrasca, invece di scongiurarlo; e, ad ogni nuova osservazione o risposta del Lodi, m’aspettavo di vedere il Carducci balzare in piedi ed avventarglisi contro. Dovette accorgersi anche il Lodi che non era prudente seguitare la conversazione su quell’argomento, e, non mi ricordo se col pretesto di tornare alla Camera, o con altro, levatosi da tavola se ne andò.
L’allegria, rotta a quel modo, non fu più possibile rannodarla. Il Carducci rimase cupo e muto per tutto il resto della serata. E la tempesta sconvolse non soltanto la nostra piccola comitiva, ma tutto lo stabilimento. Il padrone, che aveva sperato di farsi con la nostra cena un po’ di réclame, ne rimase più sconcertato di tutti: faceva di tratto in tratto capolino alla porta e guardava il Carducci; ma vedendolo sempre più nero e adirato, tornava indietro e respingeva con bel garbo gli avventori che dalle altre sale si affollavano verso la nostra, per desiderio di vedere il poeta. Il povero Barzilai, che aveva fatto del suo meglio per adornare la sala e la tavola, ed aveva perfino trovato dei fiori freschi, rari in quella stagione, rimase tutto dolente che nessuno li avesse apprezzati.
La cena finì in mezzo ad un silenzio di tomba: quando uscimmo (pioveva sempre) avevamo l’aria di gente che torna da un funerale. S’andò al Caffè Morteo in Via Nazionale: nè fu possibile per istrada [296] calmare il Carducci, il quale andava brontolando fra sè e sè e mettendo di quando in quando a mezza voce qualche esclamazione. Pareva che avesse perduto fino la conoscenza delle persone, perchè più d’una volta si fermò per istrada domandando al Brilli: — Ma chi è colui là? — Ed era uno dei nostri commensali.
La sera dopo, il Dall’Osso invitò ad una cena più ristretta alcuni dei medesimi amici, per far sentire loro i suoi tortellini. Il Carducci era più calmo, ma non aveva ritrovato il buonumore che gli è abituale in simili occasioni: pareva impensierito, triste, come se fosse sotto il peso di una grave sciagura.
L’ammirazione e l’affetto del Carducci per il Crispi erano d’antica data: si collegavano e si confondevano con la storia del risorgimento d’Italia. Ora poi le testimonianze di stima e di amicizia che ne aveva ricevute nei tre anni e mezzo circa ch’egli era stato al potere, lo avevano maggiormente stretto a lui. E dopo ch’egli fu caduto, non si lasciò sfuggire occasioni, anzi andò cercandole con ogni studio, per dimostrargli sempre maggiormente la sua devota affezione. Forse non pensò neppure che ciò avrebbe potuto procurargli qualche fastidio per parte di quei radicali, che già da un pezzo (dall’ode alla Regina in poi) lo accusavano disertore ed apostata del loro partito; o se ci pensò, si sentì forte e sicuro nella coscienza di adempiere ciò che stimava un dovere.
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Dopo la nomina a Senatore, il Carducci venne anche più spesso a Roma. Della sua vita romana in questo ultimo periodo scrisse con reverente affetto Mario Menghini. «A Roma (il Carducci) cambia notevolmente di abitudini (le abitudini sue a Bologna sono già note ai lettori). Si alza verso le otto se è d’inverno, verso le sette se d’estate.... ed esce per andare al Senato, da quando è senatore. Gli anni avanti era solito rintanarsi nella Biblioteca Casanatense, dove il fedele Alvisi (bibliotecario) teneva a sua disposizione una stanzetta per studiare. Anche in Senato il luogo prediletto dal Carducci è pur sempre la biblioteca. Colà, curvo sul tavolino, legge, prende appunti, corregge prove di stampa, scrive lettere: insomma è sempre alle sue occupazioni preferite.... Ma il cannone di mezzogiorno lo toglie dai suoi studi; egli vuole andare a mangiare e attende con impazienza il nostro giungere. Perchè posso dire che a Roma il Carducci ha sempre appetito, un appetito formidabile; ed ama la cucina casalinga, e, non meno del Chianti, il vino dei Castelli romani.»[64]
Finchè rimasero a Roma, il Brilli e l’Alvisi furono i due che col Menghini andavano abitualmente [298] a prendere il Carducci alla Casanatense o al Senato per condurlo ed essergli compagni a colazione. Nella trattoria giungevano poi, se non c’erano già, altri compagni; spesso Cesare Pascarella, Vittorio Fiorini, Policarpo Petrocchi (ora morto improvvisamente e immaturamente); più di rado, perchè non sempre libero, Francesco Torraca. Io ci andavo quando potevo. Qualche impronto riusciva talvolta ad intrudersi, con fastidio di tutti, nella piccola brigata. Ciò bastava a mettere di malo umore il Carducci; il quale a tavola, in buona e ristretta compagnia, è sempre allegro ed espansivo; ma appunto perciò bisogna che la compagnia sia piccola e d’intimi.
Le trattorie preferite dal Carducci erano in generale di quelle dove si mangia alla buona e si spende poco. Negli ultimi anni «il ritrovo abituale, scrive il Menghini, era una piccola trattoria in via dei Sabini.... che aveva il pregio di preparare dei desinari salubri a poco prezzo. L’onesto proprietario era orgoglioso di servire il Senatore (così chiamava sempre il Carducci): e credo che nessuno sia stato più intelligente di lui nel soddisfare i gusti, modestissimi del resto, del nobile avventore. La tavola era sempre coperta di biancheria di bucato, e sempre adornata di fiori.
»Il convegno però delle grandi occasioni, quando il Carducci poteva godere più di due ore di libertà, era il Castello di Costantino, la famosa trattoria che [299] sta a cavaliere del gran monte plebeo; luogo veramente incantevole, che ha di fronte il Palatino e ai tre lati le Terme di Caracalla e Monte Mario. La tavola allora era più numerosa, i discorsi più vari e meno intimi.»[65]
La sera il Carducci soleva mangiare in casa, presso la famiglia d’uno dei due o tre amici dei quali accettava in Roma l’ospitalità. Quando era da me, le sere ch’eravamo soli si divertiva, dopo pranzo, a giuocare a briscolone col più piccolo dei miei figliuoli, rallegrandosi molto e facendo le più sonore risate quando gli accadeva di vincere.
Non gli mancavano inviti a pranzo fuori, ch’egli soleva accettare se di persone a lui simpatiche. Fra i più graditi erano quelli di Adriano Lemmi, dal quale passavamo (io gli era sempre compagno) delle serate piacevolissime. C’era sempre un’eletta di brave persone, serie senza musoneria, fra le quali e durante il pranzo e dopo si intavolavano animate discussioni, di storia, di arte, di politica.
Io aveva conosciuto il Lemmi fino dal 1885 poco dopo la mia venuta a Roma. Lo trovavo quasi tutte le sere alla Birreria Morteo in Via Nazionale in un piccolo crocchio di amici, coi quali passava volentieri qualche ora conversando. Gli ero stato presentato da un professore del mio liceo, Florestano Tano; ed egli, sapendomi amico del Carducci, amicissimo [300] suo, m’aveva fatto la più cordiale accoglienza. Nei primi tempi il crocchio alla birreria era ristrettissimo: ne facevano parte, oltre il Tano, Luigi Castellazzo, l’autore del Tito Vezio ed ex-condannato dell’Austria, Ettore Socci non ancora onorevole, e, quando era in Roma, il Carducci. Veniva qualche volta, ma di rado, Ulisse Bacci; vennero più tardi, ma anch’essi saltuariamente, Felice Cavallotti e il conte Luigi Ferrari, ucciso poi così miseramente a Rimini. Forse dimentico qualcun altro.
Il Lemmi, che conosceva gli uomini politici più autorevoli, tanto quelli ch’erano al potere, quanto quelli che c’erano stati o aspiravano ad andarci, era sempre fornito di notizie, e dirigeva e presiedeva, per così dire, le nostre conversazioni. Le quali, aggirandosi generalmente sui fatti del giorno, si capisce ch’erano spesso vive e romorose.
Data la qualità e notorietà delle persone, era naturale che quelle conversazioni eccitassero la curiosità dei frequentanti la birreria. Onde accadde che dai tavolini vicini al nostro qualcuno prestasse attenzione ai nostri discorsi, e che qualcuno anche, non invitato, ci mettesse bocca. Ciò, se non poteva piacere a nessuno di noi, a lungo andare dispiacque molto al Lemmi; il quale dopo qualche tempo cessò di venire alla birreria, invitando alcuni dei più intimi a prendere il ponce o la birra in casa sua. E di tanto in tanto, quando il Carducci era a Roma, ci invitava anche a desinare.
[301]
Rammento fra quelli che avemmo più spesso commensali il generale Sani, il dottore Achille Ballori, l’onorevole Filippo Mariotti, Ulisse Bacci. Vennero qualche volta anche l’onorevole Fortis, il conte Luigi Ferrari, la signora Jessie White Mario, Guido Mazzoni.
In casa Lemmi non c’erà pericolo che la conversazione languisse. Chi pensava a tenerla desta era il signor Adriano, come alcuni di noi lo chiamavamo. Con i suoi settant’anni e più egli aveva una vivacità e una freschezza di spirito più che giovanili. La sua vita fortunosa, la sua amicizia con gli uomini che prepararono il risorgimento nazionale, dei quali egli fu anche il compagno d’azione e il cassiere, fornivano alla sua memoria una quantità inesauribile di fatti e di aneddoti ch’egli non si stancava di raccontare. Nelle discussioni sopra qualunque argomento egli aveva sempre le idee sue personali, che non erano quasi mai quelle degli altri, che spesso anzi erano opposte a quelle degli altri; e le sosteneva con una tenacia non di toscano, ma di ligure, e con una energia e vivezza di linguaggio veramente mirabili. Quando il suo oppositore era un dei più giovani, ad esempio il Bacci, di cui aveva molta stima ed al quale era molto affezionato, l’intercalare col quale cominciava, interrompendolo, la sua risposta, era questo: — Scusi, lei non capisce niente. — Ma nessuno s’impermaliva o si lasciava sgomentare; e le repliche fioccavano vive, magari [302] pungenti. Quando poi per l’ora tarda i convitati si disponevano a partire, lasciando interrotta l’ultima discussione, rimaneva in tutti il desiderio di riprenderla al più presto, non per conchiudere, ma per rimanere ciascuno, s’intende, con la propria opinione.
Il Lemmi, amico del Crispi fin da quando giovani cospiravano insieme, gli era sempre rimasto fedele, e si trovava perfettamente d’accordo col Carducci nell’apprezzare l’opera di lui come uomo di Stato e capo del governo. Aveva perciò veduto anch’egli con dispiacere la crisi del febbraio 1891, e giudicava anch’egli molto severamente la condotta della Camera in quella occasione.
Indipendentemente dalle qualità personali che facevano caro il Lemmi al Carducci, questa conformità d’idee rispetto al Crispi stringeva sempre più i legami della loro stima ed affezione reciproca. E, com’è naturale, si trovavano d’accordo nel sentirsi tanto più legati al Crispi ora ch’egli era in disgrazia.
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Fin da quando il Carducci pubblicò l’ode a Margherita di Savoia, i monarchici andavano vantando che il poeta della repubblica era stato guadagnato alla monarchia dalla graziosa Regina. Fin d’allora i repubblicani lo accusarono, come abbiam visto, di aver disertato la parte loro.
[303]
Il Carducci aveva anche, come pure abbiam visto, fatte nel 1888 e 1889 due conferenze alla Palombella in presenza della Regina, la seconda delle quali (La Poesia e l’Italia nella quarta crociata) terminava con un grazioso saluto a Sua Maestà; ed aveva nelle Terze Odi barbare, pubblicato una nuova ode alla Regina, Il liuto e la lira.
In tutto ciò niente di strano; e niente di strano nel fatto che il poeta nel marzo del 1891 invitasse il Crispi a fare da padrino a la bandiera che le signore di Bologna avevano ricamata per il Circolo monarchico universitario; niente di strano, dico, dopo ch’egli aveva confessato francamente in quali circostanze e per quali ragioni fosse avvenuta quella che poi chiamarono la sua evoluzione.
La quale più tardi spiegò anche più chiaro con queste parole: «Io, di educazione e di costumi repubblicano (all’antica), per un continuo svolgimento di comparazione storica e politica, mi sentii riattratto e convertito ingenuamente e sinceramente alla monarchia, con sola la quale credo ormai fermamente possa l’Italia mantenersi unita e forte: oltre di che mi professo affezionatamente devoto alla grande civiltà e umanità di Umberto I.»[66]
Il Crispi, non poeta, ma semplicemente uomo politico, si era anche lui di repubblicano convertito a monarchico dicendo: «La monarchia ci unisce, la [304] repubblica ci dividerebbe», e nessuno ci aveva trovato a ridire, benchè in fondo a quel mutamento stesse la nobile ambizione di salire al governo, mentre in fondo all’evoluzione del Carducci non c’era nessuna ambizione e nessun vantaggio di nessun genere.
Tenuto poi conto della grande stima che il Carducci faceva del Crispi, come cittadino e come uomo di Stato, può anche essere che nella sua evoluzione avesse pure influenza l’esempio di lui. La ragione del poeta e dell’uomo di Stato era in fin dei conti la medesima.
Dunque niente a ridire, per le persone ragionevoli e spregiudicate, sul mutamento dell’uno come su quello dell’altro.
Ma è naturale che i repubblicani condannassero severamente, brutalmente, il Carducci; per questa ragione sopra tutte, che la perdita di lui era pel partito una gran perdita. Morti Garibaldi e Mazzini, morti Mario e il Cattaneo, divenuti ministri della monarchia il Cairoli ed il Crispi, non rimaneva se non che il poeta della democrazia e della repubblica passasse anche lui armi e bagaglio al partito monarchico.
I moderati toscani avevano rimproverato al Carducci di avere rinnegato la Canzone a Vittorio Emanuele e la Croce di Savoia per inneggiare alla repubblica; ma per la gioventù romagnola il Carducci era soltanto il poeta di Satana e dei Decennali, il [305] poeta di Monti e Tognetti e del Cairoli, della Commissione araldica e di Versaglia.
La gioventù romagnola fra il 1870 e il 1875 era quasi tutta repubblicana; è quindi naturale ch’essa facesse del Carducci il poeta suo prediletto. Però nei decennio dal 1875 al 1885 molti di quei giovani, avviatisi a diventare uomini maturi, avevano per lo svolgersi degli avvenimenti politici rimesso molto del loro ardore repubblicano; ed erano quindi in grado di meglio intendere e di giudicare più serenamente l’opera del Carducci poeta e cittadino. La gioventù nuova non era invece in questo caso: al partito repubblicano era venuto a poco a poco ad aggiungersi il socialista; ed a Bologna ambedue riguardavano naturalmente con odio e con disprezzo il circolo monarchico universitario.
I giovani, si sa, portano l’ardore della gioventù nella professione delle loro idee; essi sono, e debbono sempre essere, perchè giovani, eccessivi in tutto. Di ciò meno che altri può meravigliarsi il Carducci. Essi naturalmente non accettarono la giustificazione che il poeta diede dell’avere scritta l’ode Alla Regina: se avessero saputa la storia, probabilmente avrebbero pensato che Barnave pagò con la testa l’aver sentito pietà di Maria Antonietta quando l’accompagnò nel triste ritorno a Parigi.
Altri tempi ed altri avvenimenti, coi quali non è dato istituire confronti. Sta bene. Ma insomma l’autore dei Giambi ed Epodi aveva, dopo le odi e le lodi [306] alla Regina, celebrato Carlo Alberto, ed aveva accettato la nomina a senatore: e quasi ciò non bastasse, si apprestava a fare da padrino, in luogo del Crispi, alla bandiera del Circolo monarchico universitario.
Questo per gli studenti repubblicani e socialisti fu il colmo. E la sera del 10 marzo 1891, dopo una conferenza commemorativa del diciannovesimo anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, un centinaio di giovani, fra i quali parecchi studenti, si recò alla casa del Carducci sulle Mura Mazzini, per fargli una dimostrazione ostile. La turba dei dimostranti prendendo da Via San Stefano per Via del Piombo, fu, come accade, ingrossata dai soliti curiosi, tanto che quando giunse dinanzi alla casa del poeta era di circa trecento. Il Carducci non era in casa. I dimostranti si sfogarono gridando abbasso e fischiando e poi se ne andarono.
Il giorno di poi essendosi sparsa la voce che gli studenti monarchici volevano fare una controdimostrazione in favore del Carducci quando egli recavasi all’Università a far lezione, gli studenti radicali, in numero di circa cinquecento, si radunarono verso le ore due nell’Università, e non appena il professore comparve incominciarono a fischiare e gridare abbasso. Egli, come se ciò non lo riguardasse, si fece largo tra i fischianti, ed entrò nell’aula per fare la sua lezione. Dietro di lui entrarono in massa i dimostranti; egli, apparentemente calmo, sali la cattedra avendo intorno alcuni studenti [307] e studentesse di filologia, ed accingevasi a fare lezione, quando ricominciarono le grida di abbasso ed i fischi. Impedito di far lezione dal baccano che andava sempre crescendo, egli, acceso un sigaro, si mise a fumare, non senza prima aver risposto a quelli che gridavano: «È inutile che gridiate abbasso, la natura mi ha messo in alto; dovreste piuttosto gridare a morte.» E poichè ai fischi e agli abbasso si aggiunsero le grida di cretino, vigliacco, buffone, ed altre più gravi ed atroci ingiurie, egli montò ritto in piedi sur una tavola che era dinanzi alla cattedra, per meglio esporsi ai fischi e per ricevere in pieno petto gli oltraggi. Ciò irritò maggiormente i dimostranti, i quali divenuti tanti energumeni si ruinarono contro la tavola, fracassarono le lampade, mandarono in pezzi più assi de la cattedra, e rintuzzarono il professore con gli studenti e le studentesse che gli s’erano stretti intorno, tra la cattedra e il muro, tanto che la respirazione diveniva ogni momento più difficile e la stretta era non senza pena e pericolo.[67] Una signorina svenne e fu salvata per la finestra, un’altra n’ebbe intormentito un braccio, un’altra ci rimise il mantello. Erano sopravvenuti durante il tumulto i professori Pelliccioni e Ciaccio, l’economo dell’Università cav. Damiani e Olindo Guerrini, ma non erano riusciti a calmare quei furibondi, nè a persuaderli a sgombrare [308] l’aula, poichè il Carducci aveva dichiarato ch’egli era in casa sua e non sarebbe uscito se non l’ultimo di tutti. Sopravvenne in fine il professore Albertoni, il quale, come socialistoide, fu accolto da una ovazione dei dimostranti; ma neppure egli riuscì a persuaderli a sgombrare. Se ne andarono quando vollero, cioè quando capirono che tanto il professore non se ne andava, ed erano forse stanchi di quella, come il Carducci la chiamò, prolungata esercitazione nelle imitazioni animalesche.[68]
Usciti i dimostranti, uscì anche il Carducci insieme coll’economo Damiani. Fu fatto salire in una vettura e accompagnato a casa. Gli studenti e una parte dei dimostranti, che aspettavano fuori, seguirono la carrozza, quelli acclamando il professore, questi seguitando a oltraggiarlo. Fu detto che uno dei dimostranti, aggrappatosi alla carrozza tentò di colpirlo; ma il poeta con un telegramma da Genova alla Gazzetta dell’Emilia affermò che nessuno aveva portato la mano sopra di lui. Il Resto del Carlino però disse che nel suo interrogatorio il Carducci non aveva escluso di essere stato minacciato e percosso, ma aveva soggiunto che ciò sarebbe avvenuto in seguito a sua provocazione.
La mattina del 13 gli studenti monarchici prepararono in piazza Vittorio Emanuele una dimostrazione in onore del professore. Naturalmente i [309] radicali, saputolo, si riunirono anch’essi per controdimostrare; e gli uni applaudendo e gli altri fischiando, per i Portici del Pavaglione e via Farini, si spinsero fino in via del Piombo, alla casa del Carducci, dove giunti si azzuffarono, si strapparono una bandiera e ne ruppero l’asta. Il Carducci, ch’era a Genova, vide il Verdi, andato a cercarlo, e di tutto gli parlò fuor che del successo in Bologna; tanto poco ci aveva il pensiero.
***
Il fatto della prima dimostrazione (le altre non furono che una conseguenza naturale di quella) fu deplorevole, ma i precedenti da me narrati lo spiegano. Il ministro Villari, parlandone alla Camera disse: «Quando assistiamo a fatti come quelli di Bologna, dove impunemente si insulta l’uomo, il cittadino, il maestro, mi sembra vedere dei figli che insultano il loro padre.» Nobili parole che furono una giusta condanna del fatto indegno.
Gli studenti radicali in un foglietto stampato si giustificavano dicendo: «Il poeta e il letterato tutti ammiriamo. Noi abbiamo fischiato il disertore di una bandiera.» Dal loro punto di vista essi avevano in apparenza ragione; ma avevano torto nella sostanza. Per ammirare il poeta e il letterato bisognava comprenderlo; ed essi non lo comprendevano: essi vedevano nel Carducci il poeta del loro partito; [310] ed il Carducci era ben altro; era un poeta superiore a tutti i partiti.
Gli studenti radicali di Bologna commettevano lo stesso errore nel quale erano caduti i monarchici moderati, che dopo il 1860 accusavano di defezione l’autore della Canzone A Vittorio Emanuele e della Croce di Savoia. La ragione dell’errore l’accennava il Carducci stesso con queste parole dirette al ministro Villari: «Il Ministero della pubblica Istruzione volle fare in piccol tempo troppe scuole e troppi professori in un paese che non poteva nè dare tanto, nè portare tanto.»[69] Insomma la ragione era l’ignoranza. Con ciò non intendo negare che parte, e principalissima parte, nel fatto, avesse la passione politica, la quale è sempre bestiale; ma credo che, se gli studenti radicali avessero veramente (cioè comprendendolo) ammirato il poeta, non avrebbero fischiato in lui ciò ch’egli non era e non fu mai, il disertore di una bandiera. La sua bandiera, ch’egli non disertò mai, fu sempre una sola, la bandiera della nazione, la bandiera italiana.
Che dopo l’ode alla Regina i suoi ideali politici non erano affatto mutati basterebbero a dimostrarlo, se non lo dimostrasse tutta la vita e tutta l’opera sua, le odi A Giuseppe Garibaldi e Scoglio di Quarto e i sonetti Ça ira. Mentre i repubblicani lo accusavano di avere rinnegato i suoi antichi ideali, i [311] monarchici lo accusavano d’inneggiare ai sinistri e sanguinari apostoli della Rivoluzione francese.
Nei giorni dei tumulti e in quelli che seguitarono il Carducci non perdè mai la sua calma e la sua serenità di spirito. Attendeva ai suoi studi come se niente fosse avvenuto: si occupava allora del Goldoni, intorno al quale aveva in animo di comporre una corona di sonetti. Furono scritti in quel tempo i quattro che poi pubblicò per le nozze della figlia di Ferdinando Martini. Nè si preoccupava affatto del ricominciare le lezioni: e quando una quindicina di giorni dopo le ricominciò, tutto procedè tranquillamente. Uno dei suoi antichi scolari, che assisteva alla prima lezione, mi diceva: «Nessuno avrebbe potuto immaginare quel giorno che circa un mezzo mese prima dentro quell’aula si era venuti alle vie di fatto ed era mancato poco che non si fosse versato del sangue.»
[312]
Il Carducci al Senato. — Studi e lezioni sul Parini. — La Bicocca di S. Giacomo, La guerra, Il Cadore. — Lezioni all’Università su l’Alfieri e le tragedie di soggetto romano e italiano. — Ultimo Ministero Crispi. — Polemiche crispine. — Onoranze al Carducci per il giubileo del suo magistero. — Il Nencioni scrittore. — La paroletta misteriosa di un lucherino. — Malattia e morte del Nencioni. — Il Carducci presidente della Commissione per gli scritti inediti del Leopardi. — Studi leopardiani. — Morte di Carlo Bevilacqua. — Rime e Ritmi. — Due degli ultimi sonetti. — Il Carducci a Madesimo nel luglio del 1899. — La prefazione ai Rerum Italicarum Scriptores del Muratori. — Nuovo disturbo nervoso. — L’edizione delle poesie complete in un volume. — I volumi XI, XII e XIII delle Opere. — Lavori riserbati dal poeta agli ultimi anni della sua vita. — La biblioteca del Carducci.
I doveri d’insegnante e il bisogno di non trascurare i suoi studi e lavori letterari non consentirono al Carducci di prendere viva parte ai lavori del Senato. Nel 1892, essendo Ministro della istruzione il Martini, prese una volta la parola per difendere da non giuste accuse le nostre scuole secondarie, ed in particolar modo gli insegnanti di esse; a proposito dei quali disse: «Possano quei degni insegnanti che da tanti anni lavorano come martiri [313] e sono pagati come.... non oso esprimere il termine del paragone.... che sono ballottati irrisoriamente di promessa in promessa, di riforma in riforma, e per giunta tenuti in sì mediocre concetto dai più; possano una buona volta veder rialzate le loro sorti, possano sentirsi tenuti dalla nazione nel concetto che meritano. Se ciò non avverrà, e presto, sarà incagliato pure quel progresso che certo oggi è nelle scuole; verrà a raffreddarsi la fiducia che molti, io avanti tutti, ora hanno in un fulgido avvenire della scuola e della coltura italiana. Perchè, in fine, pretendere che giovani, uscendo dopo tante spese dall’Università a vent’anni, debbano essere pronti a spendere con entusiasmo la migliore età in divulgare fra gente svogliata le letterature di Omero di Virgilio di Dante, a insegnare la storia universale, compresa la geografia, e tutta la filosofia, e tutta la matematica, e tutta la fisica, e, di più, tutto che piaccia aggiungere a un ministro di buona volontà; e ciò con la speranza di arrivare quando che sia ad avere cinque lire al giorno; onorevoli colleghi, questa è una pretesa che si fonderebbe su una iniquità sociale.»[70]
Dopo queste ed altre sante parole in difesa della coltura classica, approvate calorosamente dall’alto consesso, e rimaste poi, come accade, senza nessun effetto, il Carducci per un pezzo non si fece più vivo. [314] I soli discorsi di qualche importanza che disse più tardi in Senato furono, se non erro, quello dell’aprile 1897 per Candia, e quello del marzo 1899 per la convenzione universitaria di Bologna, stampati nel volume XI delle Opere.
Le frequenti gite a Roma non impedirono al Carducci di attendere con l’usato zelo alla sua scuola. Ma nel 1893, cominciando a sentirsi un po’ stanco, chiese ed ottenne per aiuto quel suo antico e valoroso discepolo, che già conosciamo, Severino Ferrari, degno e per l’affetto al maestro, e per la larga cultura, e per l’ingegno vivo, di proseguirne l’opera e gli intendimenti.
Nei quaranta anni di magistero universitario il Carducci tornò più volte, com’è naturale, su gli stessi argomenti; ma non rifece mai una sola volta i medesimi corsi. L’argomento era lo stesso, ma il corso era interamente nuovo, era cioè il risultato di studi e ricerche nuove, che compivano quelle del corso o dei corsi precedenti. Fino dal 1874-75 egli aveva fatto un corso sulle poesie del Parini; aveva poi negli anni 1881-82-83 scritto alcuni articoli sul Parini pel Fanfulla della Domenica, per la Domenica letteraria e per la Nuova Antologia, che raccolse con emendazioni ed aggiunte sotto il titolo Pariniana nel volume delle Conversazioni critiche (Sommaruga, 1884). Nel febbraio del 1886 fece alcune lezioni sul Parini, il Boileau, il Pope; e nel 1888 un corso compiuto e larghissimo sul poema Il Giorno: [315] onde trasse in gran parte la materia per altri scritti sul poeta lombardo; fra i quali capitalissimo il libro Storia del «Giorno» di Giuseppe Parini edito dallo Zanichelli nel 1892.
Se con questo libro egli aveva esaurito i suoi studi sul poema pariniano e detto intorno ad esso l’ultima sua parola, era ben lontano dall’aver compiuto le sue ricerche e formulati i suoi giudizi intorno a tutta la poesia pariniana. Tornò perciò ad essa con un corso di lezioni sulle odi nell’anno scolastico 1890-91; e poichè l’intero anno non gli bastò a compiere il corso come lo intendeva lui, lo ha ripreso e terminato nell’anno scolastico 1901-902.
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Nonostante il lavoro della scuola, le molte occupazioni officiali e le molte distrazioni per le frequenti sue gite a Roma, gli ultimi dieci anni del secolo passato non furono letterariamente poco operosi nella vita del Carducci; nè la sua vena poetica accennò a stanchezza o languore.
Il 22 agosto 1891 il re Umberto passò in rivista le truppe italiane presso la Bicocca di San Giacomo, e il Carducci, pigliando occasione da questo fatto, scrisse e pubblicò nel settembre l’ode che prende nome da quel luogo rimasto celebre nella storia politica e militare del Piemonte per gli avvenimenti [316] dei quali fu teatro. Due mesi più tardi, al tempo del famoso congresso per la pace, scrisse un’altra ode, La guerra, che fece un po’ di scandalo fra i radicali, i quali lo accusarono di avere adulterato il pensiero di Carlo Cattaneo, perch’egli aveva messo come epigrafe ai suoi versi le proprie parole con le quali esso Cattaneo attesta la necessità storica della guerra. Un’altra accusa non meno strana fu fatta a quell’ode, d’essere cioè una poesia dinastica; il qual fatto dimostra semplicemente che, quando nel giudicare di un’opera d’arte c’entra la passione politica, il buonsenso se ne va a spasso.
Nell’estate del 1892 il Carducci andò a Pieve di Cadore; di lì ad Auronzo, e da Auronzo a Misurina, dove si trattenne circa due settimane solo. In Cadore trovò conoscenti ed amici, che gli furono compagni e guida a visitare quei luoghi che vedeva per la prima volta. Volle, com’egli usa sempre, essere informato di tutto; si procurò delle buone guide, lesse una storia del Cadore; e la statua del Tiziano, ch’è nella Piazza di Pieve, e una piccola lapide lì presso rammentante l’eroismo di Pietro Calvi, gl’ispirarono insieme agli altri ricordi e al grandioso e al pittoresco dei luoghi, una delle più belle odi da lui composte in questi ultimi anni; l’ode intitolata Cadore. La scrisse nei giorni della breve dimora a Misurina, e la pubblicò nel settembre, tornato a Bologna. A Pieve di Cadore pubblicò egualmente nel [317] 1892, a spese di quel Municipio, le Antiche laudi cadorine con una prefazione datata del 15 agosto.
Nel luglio del 1893 andò a villeggiare a Castiglione de’ Pepoli in Provincia di Bologna; di lì venne a Roma pei lavori del Senato; e terminati questi, andò per alcuni giorni sulle Alpi. Nell’ottobre fu in Mugello, a Pilarciano presso Vicchio, ospite dell’amico Luigi Billi; poi, fatta una corsa a Roma, tornò a Bologna. Quivi riprese i suoi studi, facendo all’Università un corso su Vittorio Alfieri e le tragedie di soggetto romano e italiano (l’anno innanzi aveva fatto un corso sul teatro latino nei secoli XIV e XV), e scrivendo i Saggi sul Torrismondo e su l’Aminta del Tasso, che furono pubblicati, prima nella Nuova Antologia del gennaio, del luglio e dell’agosto 1894, e poi nel terzo volume delle Opere minori del Tasso curate dal Solerti. Il 27 dicembre mi scriveva: «Io sto bene, anche perchè studio assai e assai tranquillamente.»
Dopo quell’anno nell’estate tornò sempre sulle Alpi; nel 1894 a Madesimo; nel 1895 a Courmayeur, dove scrisse le due brevi poesie L’Ostessa di Gaby e l’Esequie della guida; e nei quattro anni successivi a Madesimo.
Di poesie, dopo il Cadore, non scrisse, o almeno non pubblicò altro fino al 1895. Nel gennaio del 1895 pubblicò l’ode Alla figlia di Francesco Crispi (nel giorno delle sue nozze), che dal livore politico fu fatta segno, non solo a sciocche e maligne critiche, [318] ma a ignobili scherzi da parte di giornalisti, che pur professavano, o almeno avevano professato fino allora, la più alta ammirazione e il più gran rispetto al poeta.
***
È noto in qual modo cadesse nel novembre del 1893 il Ministero Giolitti; e come, incaricato della formazione del nuovo gabinetto l’onorevole Zanardelli, egli lo avesse composto; nè altro mancasse al suo, come dicono, insediamento che l’approvazione del Re. Già i nuovi Ministri ricevevano i telegrammi di congratulazione de’ loro innumerevoli amici, che in questa occasione diventavano anche più innumerevoli; già quelli che gustavano per la prima volta la voluttà dell’alto ufficio avevano ordinata al sarto la montura, o uniforme che s’abbia a dire; già dai piccoli impiegati dei Ministeri (i quali in generale, salvo quelli dei gabinetti, si rallegrano di ogni cambiamento di ministri) si aspettava con impazienza la presentazione delle nuove Eccellenze; quando, che è, che non è?, corre la voce che il ministero zanardelliano era stato un aborto, e che il Re aveva dato incarico della formazione di un altro gabinetto all’onorevole Crispi.
Il Crispi lo formò e tale che prometteva di essere forte e duraturo.
La infelice prova fatta dal gabinetto Rudinì prima, da quello Giolitti poi, il fiasco dell’onorevole Zanardelli, [319] e la conosciuta energia e tenacia dell’onorevole Crispi, che pareva il solo uomo capace di dominare la situazione difficile e pericolosa, in che il Ministero Giolitti aveva lasciato il paese, davano tutte le apparenze della forza al nuovo gabinetto; ma erano anche in sostanza i germi della sua debolezza. Tanto che, se potè durare due anni e qualche mese, potè perchè il suo capo si impose quasi alla Camera e la tenne gran tempo chiusa; ma durò in mezzo all’imperversare di una tempesta, che pareva doverlo sommergere ad ogni istante.
Tutte le furie dell’ira erano rivolte in ispecial modo contro il Presidente del Consiglio. Non c’è esempio, credo, nella storia parlamentare di una opposizione tutta fatta di diatribe e di contumelie, in gran parte personali, come quella che imperversò sul capo dell’onorevole Crispi negli anni 1894 e 1895.
È noto il triste episodio del plico Giolitti, di cui si valsero pei loro fini quelli stessi fra gli oppositori che mostravano disgusto per l’atto del deputato di Dronero; è nota la ferocia degli attacchi coi quali l’onorevole Cavallotti perseguitò in tutti gli atti della vita il suo antico compagno di fede. Quanto alla stampa di opposizione, i complimenti di che essa onorava tutti i giorni il Presidente del Consiglio si possono compendiare in queste parole di Guglielmo Ferrero: Crispi fu il peggior ribaldo che abbia governato l’Italia in questo secolo, e il suo Ministero il più disonesto, scellerato e pazzesco governo che si [320] sia visto, questi ultimi cinquant’anni, nell’Europa civile.
Inutile dire come di ciò fosse addolorato e disgustato il Carducci; il quale non potè lasciar passare senza qualche parola di protesta le gravi ingiurie che piovevano sul capo dell’illustre suo amico. Il 31 dicembre 1894 gli mandò questa lettera di saluto pel nuovo anno: «Caro grande amico, — Nulla oggimai Vi manca di ciò che per lo più è toccato ai sommi cittadini nella storia dei popoli; nè dopo salva la patria, l’ingratitudine di quelli che Vi invocavano; nè, dopo il colpo dell’assassino, l’aggressione di quelli che voi amaste e beneficaste. La procella selvaggia nè anche risparmiò il giovine capo della figlia presso le nozze. Serena e calma, in mezzo e sopra questo osceno infuriare di malvagità faziose e ambiziose, la vostra forza. Salute e rispetto. G. C.»
E quando pochi giorni dopo, il 10 gennaio 1895, la figlia del Crispi fu sposa, il Carducci pubblicò l’ode nuziale cui ho già accennato, nella quale sono questi versi:
innalza, o bella figlia,
Innalza al padre in faccia
Gli occhi sereni e le stellanti ciglia.
Ei nel dolce monile
De le tue braccia al bianco capo intorno
Scordi il momento vile
E de la patria il tenebroso giorno.
[321]
Ne l’amoroso e pio folgoreggiare
De gli occhi in lui levati
L’ampio riso rivegga ei del suo mare
Ne’ dì pieni di fati
Quando novello Procida,
E più vero e migliore, innanzi e indietro
Arava ei l’onda sicula:
Silenzio intorno, a lui sul capo il tetro
De le borbonie scuri
Balenar ne i crepuscoli fiammanti;
In cuore i dì futuri,
Garibaldi e l’Italia: avanti, avanti!
L’accecamento dei nemici del Crispi arrivò a negare la parte ch’egli aveva avuta, principalissima e determinante, nella insurrezione siciliana e nella spedizione dei Mille, e ad accusare il Carducci di avere con quei versi fatto ingiuria, egli, pure studioso severo della storia, alla verità. A ciò il Carducci non potè tenersi, e rispose nella Gazzetta dell’Emilia del 21 e 25 gennaio e del 1º febbraio 1895, dando ai detrattori del Crispi una severa lezione di storia e di onestà, che terminava con queste parole: «Deh quanto mi fate compassione, o ragazzi vecchi! Ma la colpa non è vostra. Può darsi che voi sappiate le genealogie dei Faraoni o che siate simbolisti. Ciò sta bene a buoni bizantini.»
Tutti i brevi scritti del Carducci che si riferiscono al Crispi e al secondo suo Ministero, sono raccolti nel dodicesimo volume delle Opere pubblicato nel 1902.
[322]
***
Colla fine dell’anno accademico 1894-95 avendo il Carducci compito trentacinque anni del suo insegnamento universitario, i colleghi e la città intera deliberarono di celebrare con solenni onoranze il giubileo del suo magistero. Il pensiero di ciò era sorto qualche anno prima, fin da quando il Carducci nel 1887 ricusando la cattedra dantesca nella Università di Roma, aveva dato la maggior prova che per lui si potesse del suo affetto a Bologna. Si sarebbe voluto fare il giubileo nel 1890, dopo i trent’anni di magistero. Ma il bisogno e il desiderio che le feste riuscissero veramente grandi e solenni, portò la necessità di ritardarle. Non si trattava delle solite onoranze ad un professore illustre di un illustre Ateneo; Bologna volle e seppe mostrare ch’ella sentiva tutta la grandezza dell’uomo, del cittadino, del maestro che si voleva onorare, maestro non di una scuola, non di una provincia, ma dell’Italia; volle mostrare che si sentiva orgogliosa di avere nutrito e cresciuto nel suo seno il poeta della nazione risorta. Si costituì un Comitato dei più autorevoli cittadini, presieduto dal Sindaco di Bologna, il quale preparasse degnamente le feste pei primi dell’anno 1896.
La gran festa ebbe luogo il 6 febbraio alle ore 2 pom. nella sala maggiore dell’Archiginnasio, sede dell’antico studio di Bologna. La città tutta era presente [323] nelle sue rappresentanze più degne. Con quella solenne dimostrazione essa volle confermare in faccia al mondo quello che già si sapeva, che cioè il tumulto indegno del marzo 1891 fu l’opera di pochi dissennati, alla quale la città era perfettamente estranea. Erano accorsi intorno al maestro alcuni de’ suoi più diletti scolari, il Pascoli, il Mazzoni, il Ferrari, il Casini, e altri ancora.
Il Sindaco, dopo un discorso degno veramente dell’alta occasione, consegnò al Carducci il decreto con cui egli era nominato cittadino onorario di Bologna, e la medaglia d’oro per lui coniata, a commemorazione della festa. Dopo di che parlarono brevemente il Preside della facoltà di lettere, Francesco Bertolini; il professore di lettere latine, G. B. Gandino, e il Sindaco di Pietrasanta, venuto a presentare al festeggiato una pergamena con gli omaggi e gli augurii de’ suoi concittadini. Per ultimo il senatore conte Pier Desiderio Pasolini, con un nobile atto, non compreso nel programma della festa, offrì con acconce parole al poeta un ramoscello colto da un alloro che cresce vicino alla tomba di Dante in Ravenna.
A tutti rispose il Carducci ringraziando con un breve discorso nel quale versò tutto l’animo suo grande e buono; discorso che è ristampato nel vol. XII delle Opere, e che dovrebbero rileggere e meditare tutti i giovani che si sentono nati a fare qualche cosa nel mondo.
[324]
A questa, che fu la solennità principale, altre due se n’aggiunsero. La Regia Società di Storia Patria, di cui il Carducci è presidente, volle fargli una speciale dimostrazione di onore, offrendogli in una pubblica tornata accademica, tenuta il 13 febbraio, una pergamena miniata, a testimonianza della gratitudine per gl’insigni servigi da lui resi per oltre sei lustri all’Istituto. E gli studenti della facoltà di lettere, prima che cominciassero le feste ufficiali, ebbero il pensiero affettuoso di offrire al maestro un albo contenente i ritratti di quanti gli erano stati discepoli dall’anno 1860 in poi; e glie lo offersero il 24 gennaio.
Il Carducci rispose loro: «Grazie, il pensiero è gentilissimo. È di farmi rivivere nei miei giovani anni, dei quali certo la miglior parte è quella che passai stando coi giovani.... Della parte della mia vita spesa con voi certo non ho da pentirmi, non ho da farmi rimprovero, se non qualche volta di troppa passione, ma non mai di cosa che fosse contro la purità della vostra mente e del vostro cuore. Da me non troppe cose certo avrete imparato, ma io ho voluto ispirar me e innalzar voi sempre a questo concetto: di anteporre sempre nella vita, spogliando i vecchi abiti di una società guasta, l’essere al parere, il dovere al piacere; di mirare alto nell’arte, dico, anzi alla semplicità che all’artifizio, anzi alla grazia che alla maniera, anzi alla forza che alla pompa, anzi alla verità ed alla giustizia [325] che alla gloria. Questo vi ho sempre ispirato e di questo non sento mancarmi la ferma coscienza.»[71]
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Dopo le onoranze del giubileo, un grave dolore percosse in quell’anno medesimo l’animo del Carducci; la morte del suo vecchio amico Enrico Nencioni, avvenuta il 25 agosto 1896 all’Ardenza presso Livorno. E quando quattro anni più tardi, nella primavera del 1900, ammiratori ed amici del morto si apprestavano ad inaugurarne la tomba nel Cimitero di San Felice a Ema, il Carducci inviò questo telegramma: «In memoria di Enrico Nencioni manda sincere e dolenti parole chi sin dall’anno 1849 gli fu amico fedele, e ne ammirò l’ingegno e il naturale poetico; ed ebbe poi dalla sua letteratura molteplici e preziosi documenti.» Fino dal 1871 nella prefazione alle sue poesie (edizione Barbèra) aveva scritto di lui: «Sentirei d’essere ingrato se non ricordassi almeno a me stesso quanto io debbo al fraterno ingegno di Enrico Nencioni, che mi fu sin dai primi anni aiutatore, coll’ardor suo e coll’esempio, al culto di ciò che è bello in ogni forma.»
Questa benefica influenza della consuetudine col Nencioni la provarono più o meno tutti gli amici suoi che si occuparono di lettere. E debbono in [326] parte averla provata quei molti che lo conoscono soltanto per aver letto i molti scritti che negli ultimi quindici anni della sua vita pubblicò in giornali e riviste. Il Nencioni è uno scrittore estremamente, come oggi dicono, suggestivo.
Leggendo qualche suo articolo o nella Nuova Antologia, o nel Fanfulla della Domenica, o nella Domenica letteraria, o in qualche altro giornale, a me pareva di sentirlo discorrere come quando andavamo insieme a passeggiare per ore ed ore alle Cascine o in Boboli, due delle sue passeggiate favorite; o mi pareva di leggere una sua lettera, una di quelle lettere nelle quali versava dall’animo pieno le vive impressioni delle sue svariate letture.
Dissi già com’egli cominciasse la professione di scrittore dopo i quarant’anni. Da ciò, credo, deriva quello che è il principale difetto de’ suoi scritti, qualcosa cioè di non bene consistente e, direi quasi, non completo; e da ciò quella grande qualità che compensa largamente il difetto; una freschezza quasi giovanile di impressioni rese con molta sincerità ed ingenuità. Il Nencioni, più che un vero e proprio scrittore, è quello che i Francesi chiamano causeur; un causeur pieno di brio, di spirito, di coltura, coltura facile, leggera, e tuttavia ammirabile; un causeur che non vi secca mai, che state sempre volentieri a sentire, anche quando, come qualche volta gli accade, si ripete, o ripete ciò che innanzi han detto il Sainte-Beuve o altri stranieri.
[327]
I tre anni (dal 1880 al 1883) che egli passò a Roma nel modesto quartierino di Via Goito furono, credo, dei suoi più felici. Ed oh quanto gli dispiacque di lasciare quel quartierino, di lasciare Roma! Nè avrebbe certo pensato a cambiare, se non erano le paurose necessità del futuro; e non ci pensò senza dolore. Ma a quella età, con la natura sua semplice e ingenua, e con la nessuna abilità d’intrigare, e di farsi della réclame, come poteva egli sperare di procacciarsi co’ suoi scritti una posizione sicura per il resto della vita?
Fortunatamente l’amicizia di Ferdinando Martini gli venne in aiuto, ottenendogli nel 1883 dal Ministro Baccelli un posto d’insegnante nell’Istituto magistrale femminile di Firenze. A Firenze ebbe poi un’altra cattedra all’Istituto della SS. Annunziata. Si trattava in ambedue le scuole di insegnare letteratura a delle giovinette, ed era ciò a che il Nencioni si sentiva chiamato; si trattava di avere, come si dice, assicurato il tozzo per la vecchiaia; cioè assicurato sicut in quantum, perchè s’egli avesse dovuto lasciare l’insegnamento prima d’aver diritto a pensione, avrebbe probabilmente dovuto morire d’inanizione, come il nostro buon amico Telemaco Signorini pittore, o andare a finire in uno spedale.
Ma la fortuna (questa volta non sotto la forma di un deputato influente, ma sotto quella di un semplice lucherino) gli risparmiò l’una e l’altra cosa. [328] Un giorno mentre passeggiava pel Colle di San Miniato col suo giovine amico Ettore Zoccoli, un lucherino guizzando a volo quasi gli sfiorò i capelli lasciando nell’aria una paroletta misteriosa. Quella paroletta, dice lo Zoccoli, parve un segno di elezione. «Dieci mesi dopo Enrico Nencioni era morto.»[72]
Io amo molto gli uccelli, che sono, come il Leopardi dice, le più liete creature del mondo; ma confesso all’egregio Zoccoli che quel lucherino lo avrei mandato volentieri a farsi benedire; perchè in somma quel segno di elezione si tradusse in una penosa malattia, che fece soffrire orribilmente l’amico nostro e lo condusse alla tomba all’età di cinquantanove anni, quando egli sognava di fare chi sa quante altre passeggiate per il Viale dei Colli, di scrivere chi sa quanti altri articoli di letteratura inglese, di comprare e leggere chi sa quanti altri libri, di conversare chi sa quante altre volte col suo amico Zoccoli e con me!
Il 13 luglio 1895 mi scrisse: «Da sette mesi son malato di nevralgia di petto. Ho molto sofferto. Ho creduto di non ti riveder più — e ho pensato spesso a te con l’antico affetto, e un intenso desiderio di riabbracciarti. Ora sto assai meglio. Scendo in giardino, cammino, mangio con buon appetito — e la terribile insonnia è scemata: ma non son guarito: [329] e i disturbi nervosi ogni tanto si riaffacciano a tormentarmi. Già il Carducci, che mi ha visto più volte, ti avrà detto tutto.» Pur troppo; e sapevo da lui che la malattia era irrimediabile.
Da che il Nencioni era tornato a Firenze, io andavo spesso a trovarlo, e passavamo insieme delle mezze giornate piacevolmente. Ma dopo ch’egli fu attaccato dalla terribile malattia, le mie visite a lui doventarono per me un tormento. Egli conservava intera la sua vivacità di spirito, credeva che il suo male presto sarebbe passato, parlava di mille disegni che voleva colorire; ed io doveva secondare i suoi discorsi e fingere di partecipare le sue illusioni. Nell’ottobre del 1895 lo andai a trovare in compagnia d’altri amici in una villetta al Poggio Imperiale. Mi fece una gran festa: s’illudeva di star meglio e d’essere in via di guarigione. Poco dopo tornato a Firenze, mi scrisse: «Vo sempre migliorando — tanto che ho potuto riprendere le lezioni ai due Istituti. Ma non posso dirmi ancora guarito. Ho sempre qualche leggero accesso, e i dolori nevralgici alle braccia e alle mani, che a giorni mi tormentano molto.... Quanto fui felice di rivederti! e quanto mi dolse di vederti solo per pochi minuti, e in compagnia di altri.... Avrei bisogno di star con te una settimana intera, tante son le cose di ogni genere che avrei da dirti e da domandarti.»
Il miglioramento fu pur troppo più apparente che sostanziale, e di breve durata. Quando lo rividi alcuni [330] mesi dopo nella sua casa di Via Maggio, era ridotto in così tristi condizioni che appena poteva parlare, ed era niente più che l’ombra del Nencioni di una volta. Lo lasciai con un triste presentimento; e non lo rividi più. Nè il Carducci nè io non potemmo avere la dolorosa sodisfazione di dare all’amico l’ultimo addio e di accompagnarlo alla tomba!
***
Nel marzo del 1897 fu pubblicato, per cura di alcuni amici del Nencioni, un primo volume di scritti di lui, Saggi critici di letteratura inglese (Firenze, Successori Le Monnier), al quale doveva fare la prefazione il Carducci; ma, quale si fosse la ragion vera (probabilmente gli mancò il tempo), se ne cavò allora con poche parole, promettendo la prefazione pel secondo volume. «Non voglio preoccupare il luogo qui in questo primo volume: mi parrebbe quasi villano, e certo men pietoso, parlare prima dell’amico: rileggendo di lui mi voglio mantenere l’illusione che quella voce soave dalle colorite e forti inflessioni, come io la ho ancora negli orecchi, ancora si conquisti e assoggetti l’attenzione. Lasciamolo prima parlare lui, il caro morto. Io verrò poi.»
Se non che nel 1898 gli stessi amici, senza niente dirne al Carducci, mandarono fuori il secondo volume, Saggi critici di letteratura italiana (Firenze, [331] Successori Le Monnier), con uno scritto del D’Annunzio di due anni innanzi.
Il Carducci in quell’anno era stato nominato presidente della Commissione per la pubblicazione dei manoscritti del Leopardi appartenuti al Ranieri. Dall’esame di essi prese occasione a tornare sopra i suoi studi su la poesia leopardiana; e nei primi dell’anno diede alla Rivista d’Italia (fascicoli del 15 febbraio e del 15 marzo) due articoli su Le tre canzoni patriotiche di G. Leopardi. Il 29 giugno, celebrandosi a Recanati il centenario della nascita del Leopardi, pubblicò un notevole studio su tutta la poesia del Recanatese: Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi. Allo studio aggiunse, emendati e accresciuti, gli articoli su Le tre canzoni patriotiche. Ed allo scoprimento del busto del poeta nella grande aula del palazzo comunale di Recanati pronunziò in nome del Ministro della pubblica istruzione, che lo aveva incaricato di rappresentarlo, il breve ispirato discorso che leggesi nel volume XI delle Opere.
In occasione delle feste leopardiane fu anche dato in luce il primo volume degli scritti inediti con una prefazione di esso Carducci; il quale, a compimento de’ suoi studi leopardiani, avea nell’anno stesso delle feste fatto all’Università un corso di lezioni su Giacomo Leopardi.
In mezzo a questi lavori lo colse improvvisamente nel dicembre del 1898 un altro grave dolore, [332] la morte del genero suo Carlo Bevilacqua, il quale in ancor florida età gli lasciava vedova con cinque figli la sua Bice.[73] Corse a Livorno a prendere la figliuola e i nipoti, li portò a Bologna, e li collocò vicino a sè, provvedendo come potè meglio alla sistemazione della piccola famiglia, sì che non le mancasse nè il sostentamento nè la educazione.
***
Sulla fine del medesimo anno 1898 raccolse in un volumetto elzeviriano, sotto il titolo Rime e Ritmi, tutte le poesie da lui scritte dopo le Rime nuove e le Terze Odi barbare. Il volume fu finito di stampare il 15 dicembre, ma comparve in pubblico con la data dell’anno dipoi. Oltre le poesie da me accennate, ne comprendeva altre poche, composte fra [333] il 1896 e il 1898, durante la dimora del poeta nelle Alpi, alcune delle quali furono pubblicate nella Nuova Antologia del 16 novembre 1898 sotto il titolo Idilli alpini. Sono da aggiungere a queste l’ode Alla città di Ferrara, composta nell’aprile del 1895 per il centenario del Tasso, le terzine Pel monumento a Dante in Trento, composte nel settembre del 1896, l’ode La chiesa di Polenta, pubblicata nel luglio del 1897, e l’ode Alle Valchirie per la morte dell’imperatrice d’Austria, composta nel settembre del 1898 e pubblicata nella Rivista d’Italia del 15 ottobre successivo. Le terzine pel monumento a Dante attestano che i sentimenti del poeta verso le provincie irredente erano ancora quei medesimi che gli dettarono nel gennaio del 1879 Saluto italico e negli anni dal 1882 al 1886 gli scritti su Guglielmo Oberdan; le odi A Ferrara e La chiesa di Polenta sono le ultime due grandi odi storiche composte dal Carducci, degne di chiudere la gloriosa serie delle Odi barbare.
Il volume Rime e Ritmi è dedicato ad una signorina con questi versi:
O piccola Maria,
Di versi a te che importa?
Esce la poesia,
O piccola Maria,
Quando malinconia
Batte del cor la porta.
O piccola Maria,
Di versi a te che importa?
[334]
e si chiude malinconicamente con questo congedo:
Fior tricolore,
Tramontano le stelle in mezzo al mare
E si spengono i canti entro il mio core.
Scrivendo questi versi il poeta era certamente sotto il peso di un triste presentimento; e pure egli aveva composto allora allora due sonetti freschissimi d’ispirazione giovanile:
IN RIVA AL LYS.
A S. F.
A piè del monte la cui neve è rosa
In sul mattino candido e vermiglio,
Lucida, fresca, lieve, armonïosa
Traversa un’acqua ed ha nome dal giglio.
Io qui leggo, Ferrari, e la famosa
Riva d’Arno ripenso e il tuo consiglio;
E di por via la piccioletta prosa
E altamente cantar partito piglio.
Ma il Lys m’avvisa — Al nulla si confonde
Questo mio canto, e non se ne rammarca;
Pur di tanto maggior vena s’effonde. —
Ond’io, la fronte di superbia scarca,
Torno al mio cuore; e a’ monti a l’aure a l’onde
Ridico la canzon del tuo Petrarca.
[335]
SANT’ABBONDIO.
Nitido il cielo come in adamante
D’un lume del di là trasfuso fosse,
Scintillan le nevate alpi in sembiante
D’anime umane da l’amor percosse.
Sale da i casolari il fumo ondante
Bianco e turchino fra le piante mosse
Da lieve aura: il Madesimo cascante
Passa fra gli smeraldi. In vesti rosse
Traggono le alpigiane, Abbondio Santo,
A la tua festa: ed è mite e giocondo
Di lor, del fiume e degli abeti il canto.
Laggiù che ride de la valle in fondo?
Pace, mio cuor; pace, mio cuore. Oh tanto
Breve è la vita ed è sì bello il mondo!
Questi due sonetti, composti nell’agosto e nel settembre 1898, sgorgano dalla medesima vena limpida e piena, dalla quale balzarono negli anni dal 1870 al 1880 i più bei sonetti delle Rime nuove; ambedue sono pervasi da un senso intimo di malinconia che s’insinua quasi non visto in mezzo alla descrizione delle incantevoli scene alpine che il poeta ha dinanzi. Col primo si ammonisce di por da banda i suoi versi, troppo povera cosa di fronte alla grande poesia della natura, la quale pure va a perdersi nel nulla; col secondo si rimprovera i tumulti dello spirito che gl’impedirono di godere quanto avrebbe potuto [336] le gioie del mondo. Il poeta sente che gli anni incalzano; che bisogna dire addio a molte belle e buone cose; che gli amici, i parenti, se ne sono andati, se ne vanno; che il verno si avvicina; e pure quanta freschezza nelle parole e nei suoni che esprimono quei suoi sentimenti! Perchè dunque il poeta non dovrà seguitare a scrivere ancora dei versi?
Ahimè, non seguitò. Dopo quel volume la voce del poeta, insino ad oggi, non si è più fatta udire.
***
Egli, come già dissi, tornò a Madesimo anche nel luglio del 1899. Vi andò qualche giorno dopo di lui un suo scolare, Alfredo Panzini; che, pregato da me, scrisse pel fascicolo di maggio della Rivista d’Italia del 1901, dedicato al Carducci, una breve notizia della vita del maestro suo in quei luoghi. Non dispiacerà ai lettori che io ne riferisca qui qualche brano:
«Il Carducci in quell’anno, e credo anche prima, abitava a Villa Adele e faceva i suoi pasti alla tavola comune nell’Albergo della Cascata; modesto albergo di montagna, dovè c’è pulizia, buona cucina e nulla più. Unica distinzione al poeta, il posto di capo tavola: al suo giungere un saluto amichevole è sempre dato ed è reso: soltanto il giorno del suo anniversario (cade il 27 di luglio), qualche applauso e qualche altra modesta onoranza.
[337]
»L’anno che vi stetti io, oltre all’applauso, ci furono due righe semplicissime firmate da tutti gli ospiti della Cascata, e un gran bel mazzo di fiori di giardino.....
»Il buon Ciocca (il padrone dell’albergo) aveva anche preparato la galanteria di un bel dolce, e noi si era ormai giunti a quello, e il Carducci non veniva. Del resto nessuna meraviglia; a Madesimo pochi furono i giorni che lo vidi arrivare insieme agli altri commensali.....
»Arrivò in fine; scoppiò l’applauso; egli vide i bei fiori, la lettera e ci ringraziò, ma non fece alcun discorso.....
»Il Carducci fece in fine sturare alcune bottiglie di eccellente vino di Valtellina augurando salute a tutta la compagnia: noti e ignoti bevvero.
»Anche questo è costume abituale in quel dì, almeno così mi dissero i frequentatori di Madesimo.
»Il Carducci arriva tardi sì a colazione che a pranzo, semplicemente perchè lavora.... Nel tempo che ci rimasi io, lavorava più di otto ore al giorno. Non dico che facesse bene, ma era così.
»La mattina si sottopone lietamente alla doccia gelida, poi viene la passeggiata, poi al tavolo....
»Al pomeriggio la cosa si ripete con la semplice inversione che, prima viene il lavoro, poi qualche volta una seconda doccia, poi la reazione passeggiando.
················
[338]
»A Madesimo, dopo colazione, si attardava un poco insieme agli altri ospiti presso il limitare dell’albergo.
»Non ho visto al Carducci fumare che il modesto sigaro toscano, e soltanto dopo il pasto e non mai fra il giorno. Se lo prepara a suo modo, cioè non tagliandolo a metà, ma mozzandolo più che spuntandolo dall’un lato e dall’altro; poi più che accenderlo lo brucia per un buon pezzo, ed aggradisce molto se altri gli si presta.
»Seduto presso l’uscio, il Carducci tenta di fumare; la gente intanto va, viene, si siede lì presso, lo saluta, gli rivolge la parola, se vuole: egli risponde a tutti.....
»Ma è inutile: il sigaro toscano, a dispetto di tutte le cure, non vuol andare, non va. Il Carducci ha tollerato abbastanza: fa un piccolo atto d’impazienza e getta il maligno fumaiuolo lungi da sè.
················
»L’ottimo Ciocca (che è corso apposta sino a Chiavenna per veder modo di accontentare il Carducci) accorre col mazzo dei toscani ed offre la scelta, imprecando alla Regìa con termini che il rispetto pel suo illustre amico non sa frenare.
»Qualche ospite offre altri sigari: egli ringrazia e ricusa.
················
»Non lo si rivede che sul vespero.»
Quel lavoro continuato di più che otto ore al giorno, specie dopo il disturbo che il Carducci aveva [339] avuto nel 1885, e dopo i fenomeni d’esaurimento nervoso provati più volte alcuni anni di poi, fu certo una imprudenza. Alcuni dicono anche che, quando si fa la cura dei bagni freddi, l’attendere a lavori mentali faticosi e prolungati è pericoloso. Ma egli non lo sapeva, non ci pensava. Probabilmente credeva che gli effetti di quella cura pronti e immediati gli rinforzassero la fibra lì per lì tanto da permettergli di lavorare a suo agio. E aveva portato con sè un carico di lavoro assai grave, tanto grave, che a momenti se ne sentiva come oppresso. Il 26 agosto mi scriveva: «Caro amico, quanto ho da fare anche quassù! Figurati una prefazione alla ristampa dei Rerum Italicarum Scriptores del Muratori.» Oltre questo lavoro, aveva, credo, in animo di compiere lo studio su gli Scritti di Alberto Mario, scelti e curati da lui, che doveva uscire in fronte al secondo volume, già pronto da tempo. Il primo era stato pubblicato fino dal 1884.
Tornò a Bologna ai primi di settembre con la prefazione al Muratori quasi finita (mancava l’ultimo capitolo, che scrisse più tardi): ma lo studio sul Mario, la prima parte del quale era stata pubblicata nella Nuova Antologia fino dal 1897, non era andato innanzi. E la illustre vedova di Alberto, a cui tardava veder pubblicato quel secondo volume, chiese al Carducci facoltà di pubblicarlo con la sola parte del proemio già fatta, e nel 1901 lo mandò fuori.
[340]
***
A quelli che videro il Carducci dopo il ritorno da Madesimo egli parve un po’ affranto e di umore non lieto: evidentemente non stava bene: la cura climatica, paralizzata ne’ suoi effetti dall’eccessivo lavoro, non aveva prodotto il benefizio degli anni innanzi. La mattina del 25 settembre, a Bologna, appena alzatosi da letto e fatto il solito bagno, ebbe un nuovo disturbo nervoso, pel quale rimase impedito specialmente nel braccio e nella mano destra. Fu messo a letto e curato; e il male apparve subito non grave. Appena potè moversi, andò in campagna ad Ozano dal suo collega professor Gandino, indi a Firenze dal dottore Luigi Billi; e le cure della scienza e dell’amicizia gli alleviarono il male. Il 20 ottobre mi scriveva facendo alcune proposte circa il modo di provvedere al suo insegnamento (io era allora nel Ministero alla Direzione della istruzione superiore); e la lettera finiva: «Intendi me’ ch’io non ragiono, perchè sono tardo a pensare, e scrivo colla mano d’altri. Per me andrebbe benissimo se potessi riacquistare in breve l’uso della mano. E ti dico che spero di arrivare a fare qualche lezione.»
D’allora in poi andò sempre lentamente migliorando, e potè riprendere i suoi lavori e fare, anche, come sperava, qualche lezione; ma (ciò che più lo ha turbato e lo turba) non potè riacquistare pieno [341] e spedito l’uso della mano destra, onde è obbligato a dettare, o a scrivere lentamente col lapis.
Nell’estate del 1901, tornando a Madesimo, si era proposto, dissero alcuni, di riprendere e finire la Canzone di Legnano; ma, quale si fosse la ragione, il proposito, se veramente lo fece, rimase senza effetto. Nè ha scritto altre poesie. Ha scritto invece delle prose, ed ha atteso e attende con molta alacrità a proseguire e compiere l’edizione delle Opere.
Delle Poesie lo Zanichelli mandò fuori nel dicembre del 1901 una edizione di tremila copie, in un solo volume di oltre mille pagine; la quale fu una festa per molta gente; per tutti gli uomini del tempo nostro che giunti alla vecchiaia serbano ancora vivi gli affetti e gli entusiasmi della loro giovinezza, e per tutti quelli che, giovani nel decennio dal 1870 al 1880, sentirono in pieno l’influenza del poeta dei Giambi ed Epodi, delle Rime nuove e delle Odi barbare. La nuova gioventù, fatta eccezione di pochi, non credo che gusti davvero le poesie del Carducci, benchè il poeta ad essa prediletto ed i suoi seguaci, quando leggono in pubblico i loro versi, non dimentichino di propiziarsi l’uditorio con un inno di gloria al grande maestro.
L’edizione delle Poesie fu esaurita in pochi giorni, tanto che lo Zanichelli dovè subito metter mano ad un’altra di cinquemila copie.
Il volume delle Poesie, quanto al contenuto, riproduce esattamente i due volumi (VI e IX) delle [342] Opere, nell’ordine stesso, cioè Juvenilia, Levia Gravia, Inno A Satana, Giambi ed Epodi, Intermezzo, Rime nuove; poi le Odi barbare (ultima edizione in un volume), il volumetto Rime e Ritmi, ed in fine la prima parte della Canzone di Legnano, che non era stata mai compresa in nessuna delle tante raccolte parziali delle Poesie. Ciò nella prima edizione. La seconda ha in più due sonetti, che erano stati dimenticati nella prima e nella edizione delle Opere, un’Appendice di cinque brevi componimenti, che il poeta non aveva creduto o non si era ricordato di comprendere in nessuna delle precedenti raccolte, e quattro facsimili.
Delle Opere sono usciti, nel febbraio del 1902 il vol. XI, contenente la serie terza ed ultima di Ceneri e Faville, nel giugno dello stesso anno il vol. XII, contenente la serie seconda di Confessioni e Battaglie, e nel gennaio di quest’anno 1903 il vol. XIII, contenente la prima parte degli Studi su Giuseppe Parini sotto il titolo Il Parini minore.
La serie terza di Ceneri e Faville comprende gli scritti minori del Carducci dal 1877 al 1901, raccolti col medesimo metodo e coi medesimi intendimenti degli scritti delle due prime serie; e sono, come essi, testimonianze importanti dell’ingegno, dell’animo e dell’operosità dell’autore; tanto più importanti, quanto si riferiscono all’ultimo periodo della sua vita. Ci sono i brevi discorsi detti al Senato, fra i quali coraggioso e nobilissimo quello per [343] Candia; i discorsi Per il decennale dalla morte di Mazzini, Per lo scoprimento del busto di Giacomo Leopardi a Recanati; lo scritto per la morte di Vittore Hugo, che il Carducci scrisse a mia richiesta per la Domenica del Fracassa; e mandandomelo mi scriveva: «Eccoti quello che ho scritto singhiozzando a tratti come un bambino.» Ci sono le relazioni per le prove d’italiano su la licenza liceale, per la gara tra i licenziati d’onore dai licei, su i programmi e le istruzioni per l’insegnamento dell’italiano nelle scuole classiche; alcune relazioni alla Deputazione di storia patria; alcune recensioni; e un’altra quantità di piccoli scritti d’occasione, che tutti hanno la loro importanza per chi voglia conoscere a fondo l’uomo e lo scrittore.
Ma importanza molto maggiore hanno gli scritti della seconda serie di Confessioni e Battaglie; la maggior parte dei quali illustrano e spiegano i sentimenti politici dell’autore e la condotta di lui come cittadino negli ultimi trent’anni dopo il 1870.
Nella prima serie l’autore raccolse, come sappiamo, quasi tutti gli scritti maggiori dei tre volumi sommarughiani, quelli più specialmente ai quali meglio conveniva il titolo di Confessioni e Battaglie; e ne lasciò fuori alcuni pochi di minor mole; coi quali appunto comincia la seconda serie. Gli scritti di questa, quasi tutti brevissimi (pochi superano le cinque o sei pagine, due soli le venti), sono riuniti sotto varie rubriche, secondo la materia che trattano. [344] Le rubriche sono ventitrè: fra le più importanti quelle che raccolgono gli scritti per Garibaldi, per Alberto Mario, per Guglielmo Oberdan, per Francesco Crispi, per le accapigliature del Carducci coi socialisti, per le dimostrazioni degli studenti radicali contro il Carducci, e per le onoranze del giubileo. Se ne togli gli scritti riuniti sotto la prima rubrica Schermaglie di letteratura, che sono i pochi rimasti fuori dalla raccolta sommarughiana, tutti gli altri non erano stati mai stampati in nessun volume, e la maggior parte di essi, disseminata e dispersa in foglietti e giornali politici e letterari, era oramai impossibile a trovare. Ugo Pesci in un articolo, pubblicato nel Giornale d’Italia del 10 giugno 1902, ha rilevato egregiamente l’importanza di questo secondo volume di Confessioni e Battaglie; dal quale s’impara, egli scrive, «che il Carducci ha sempre considerato le cose politiche con serena obiettività ed imparzialità; che quantunque non gli sia mai stata conferita da alcun partito la laurea d’uomo politico, si trovano facilmente ne’ suoi scritti giudizi e sentenze di un vero statista; e che la pretesa sua incoerenza politica in realtà non esiste, anche quando può lasciarla supporre un qualche scatto del gran cuore del poeta.»
Il vol. XIII, Il Parini minore, ha poco di nuovo; ma tutti gli scritti compresi in esso e già pubblicati sono stati, come il Carducci usa sempre, riveduti e corretti per questa edizione. Aprono il volume [345] due scritti, che videro la luce nella Nuova Antologia, Il Parini principiante (Fasc. 1º gennaio 1886), L’Accademia dei Trasformati e G. Parini (Fasc. 16 aprile e 1º maggio 1891), lavoro quest’ultimo rimasto incompiuto; seguono i cinque scritti, che sotto il titolo Pariniana furono già raccolti nel volume Conversazioni critiche; poi quattro scritti sui sonetti del Parini, il primo dei quali fu pubblicato nel giornale Natura ed Arte del 15 dicembre 1894, il secondo e il terzo nella Nuova Antologia del 16 settembre e del 16 dicembre 1900; il quarto ed ultimo è inedito. Chiude il volume un Saggio di bibliografia pariniana.
Gli ultimi tre scritti di questo volume non sono i soli pubblicati dal Carducci dopo che fu colpito dalla malattia.
Nel 1899, prima ch’egli andasse a Madesimo, era uscito nel fascicolo 16 maggio della Nuova Antologia, col titolo Tragedia falsa e uomo vero, lo studio sulla Ecerinide di Albertino Mussato da lui composto per la edizione che di quella tragedia curava, pei tipi Zanichelli, Luigi Padrin. Il volume della Ecerinide, con lo studio del Carducci, fu poi finito di stampare nel novembre e pubblicato con in fronte la data del 1900.
Una delle prime cose delle quali il Carducci si occupò appena in grado di rimettersi al lavoro, fu il compimento della prefazione ai Rerum Italicarum Scriptores, della quale lasciò pubblicare due saggi [346] (nella Nuova Antologia del 1º maggio e nella Rivista d’Italia del 15 maggio 1900), e che indi a poco uscì intera nel primo fascicolo della importante pubblicazione. Nello stesso anno 1900 attese in collaborazione con Severino Ferrari, alla pubblicazione, pei tipi Zanichelli, delle Rime di Bartolomeo Del Bene per le nozze Albicini-Binelli.
Gli ultimi due lavori del Carducci sono l’importante studio Dello svolgimento dell’Ode in Italia, pubblicato nei fascicoli 1º e 16 gennaio 1902 della Nuova Antologia, e il saggio di traduzione e commento delle Odi di Orazio (i primi tre Epodi) pubblicato nel fascicolo del 16 dicembre di quell’anno nello stesso periodico. L’autore delle Odi barbare volle, in arte, mantenersi fedele fino all’ultimo ai suoi primi amori.
***
Accennai nel capitolo V ad una raccolta di Canti carnascialeschi alla quale il Carducci stava lavorando nel 1864 per un editore di Milano, e ad una di Ballate per la Collezione di antiche scritture italiane inedite o rare incominciata intorno a quel tempo dall’editore Nistri di Pisa. Quelle due raccolte facevano parte di un grande lavoro sulla poesia semipopolare dei primi secoli, che il Carducci aveva vagheggiato fino dagli anni più giovani, pel quale aveva messo insieme molti materiali anche prima d’andare a Bologna, [347] e del quale seguitò ad occuparsi poi sempre con grande amore pure dopo il 1864. Ma non ne pubblicò che due brevi saggi: nel 1871 le Cantilene e ballate, strambotti e madrigali nei secoli XIII e XIV (Pisa, Nistri), e nel 1896 le Cacce in rima dei secoli XIV e XV (Bologna, Zanichelli).
Avendo io chiesto al Carducci qualche notizia intorno a quel suo lavoro, che sapevo quanto gli stava a cuore e quante fatiche gli era costato, egli mi rispose il 25 aprile 1902 così: «Ahimè! Tu mi inviti a dire quel che ho più desiderato, quello su cui ho più lavorato e quello che speravo dover essere l’ultimo lavoro da compiere nella mia vecchiaia. I Canti carnascialeschi editi e inediti sono tutti pronti con le varianti per la stampa. Speravo finire la mia carriera poetica come Uhland, dando una edizione critica delle Canzoni a ballo semipopolari del ’300 e ’400, e ne ho invero preparato una gran massa. Ho quasi finito i Sirventesi italiani, curiosissima e rara raccolta.
»Se io, invece di attendere alla stampa delle opere mie, avessi energia ed attività per lavorare sulla poesia semipopolare dei primi tre secoli (sirventesi, ballate, madrigali, canti carnascialeschi, ec.) e vi potessi lavorare con i criteri della filologia critica e non coi metodi pedanteschi di oggi, i miei voti sarebbero compiuti.
»Altro dei miei indirizzi letterarii avrei vagheggiato nel Rinascimento. Le opere latine e italiane [348] di Francesco Maria Molza so come andrebbero fatte, e ho messo insieme moltissime carte inedite pescate per le biblioteche anche di Roma: ma non ne potrò condurre a fine nulla. Eccoti quel che ti posso dire fin qui.»
È da augurare non solo che queste fatiche del Carducci non vadano perdute, ciò di che non v’ha oramai più nessun pericolo, ma che le cure ch’egli deve alla stampa delle opere sue e le condizioni di salute gli lascino tempo e modo di compiere con l’aiuto (che certo non gli mancherebbe) di qualche suo valoroso discepolo, quel lavoro col quale egli si proponeva di chiudere la sua carriera poetica.
Con tale augurio mi è caro affrettarmi al fine di queste memorie, nelle quali tutto potrà mancare fuorchè l’affetto per l’amico e l’amore della verità che non può scompagnarsi da quello, quando è sincero.
***
Nel 1901, essendo compiuto il quarantesimo anno dell’insegnamento del Carducci, gli studenti pensarono di dargli qualche segno di onoranza. Era un pensiero affettuoso, facilmente spiegabile e commendevole dopo il malore che aveva colpito il loro maestro.
Questi, avutone sentore, si affrettò a pubblicare nella Gazzetta dell’Emilia del 17 marzo la seguente dichiarazione:
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«Che gli studenti pensino di ricordare i quaranta anni dell’insegnamento da me impartito in questo studio, l’ho caro; anche per il modo del ricordo non rumoroso. Se non che giornali e lettere e fin poesie vengono a minacciarmi di quel che oggi dicesi giubileo. Giubileo, secondo un sacro scrittore, significa anno di quiete perfetta; nel quale la Chiesa promette remissione delle colpe a chi compia certi atti di penitenza. Ora sono io in istato di far penitenza? Ne dubito. Di più fra l’un giubileo e l’altro devono intercedere, secondo la legge mosaica, cinquanta anni: ridotti dalla legge cristiana a venticinque. Ma per me sono appunto cinque anni che fu celebrato un giubileo. Ripeterlo a così breve termine eccederebbe ogni facilità d’indulgenza. Veramente e brevemente: ringrazio di cuore, ma mi trovo in tal disposizione di spirito e di corpo che ogni menomo romore, reale o metaforico, ne turba la quiete; senza la quale non potrebbe essere giubileo.»
Inutile. Oramai che la parola giubileo era stata buttata là, la gente che s’era messo in testa di farlo lo volle fare. Non credo che la quiete del Carducci ne rimanesse turbata; poichè tutto si ridusse a un discorso letto da Giuseppe Picciola nella sala del Liceo Musicale di Bologna il 13 maggio, sotto gli auspicii degli studenti dell’Università, e a qualche telegramma che in quei giorni fu inviato al poeta. Egli rispose cortesemente ai telegrammi di S. M. la [350] Regina madre e del Presidente del Consiglio; ma del giubileo, fatto contro la sua volontà, non si mostrò niente sodisfatto.
Invece ebbe l’anno dipoi una grande sodisfazione per l’atto generoso e gentile di S. M. la Regina madre, che, acquistando la biblioteca di lui, della quale gli lasciò l’uso, ne assicurò la conservazione.
Quarantacinque anni fa in un accesso di classico furore egli sognava di farsi dopo morte bruciare sopra un rogo di legna di pino insieme a tutti i suoi libri. Oggi gli sorriderà, credo, un pensiero migliore: il pensiero che, passato questo vento di follia presuntuosa, che trascina la gioventù odierna a cercare gl’ideali dell’arte e della vita al di là del buonsenso e del bene, le giovani generazioni avvenire cercheranno, curiose e riverenti, i libri ov’egli studiò, le carte ove depose il frutto de’ suoi studi, per iscoprirvi il segreto di quella grande arte che non sa scompagnare dal culto della bellezza il culto della virtù e della patria.
[351]
Carattere dell’uomo. — Condizioni dello spirito pubblico in Toscana dopo il 1849. — Precoce spirito d’opposizione. — Il Carducci e i primi fatti del risorgimento italiano. — L’Aleardi e lo Zanella poeti della nuova Italia. — Il poeta dei Giambi ed Epodi, esaltato dai repubblicani, maltrattato dai monarchici. — Nuove Poesie. — La critica del Guerzoni nella Gazzetta ufficiale. — La gioventù italiana si volge al Carducci. — L’Aleardi riconosce d’avere sbagliato strada. — Classicismo del Prati e del Dall’Ongaro. — Le Università italiane nella prima metà del secolo. — Il metodo storico negli studi letterari. — Le Odi barbare e la critica dei giornali. — Scrittori messi in satira dal Carducci. — Il De Amicis e il Giacosa. — Poca simpatia per il poeta delle Odi barbare, ed impreparazione del pubblico a gustarle. — Reazione. — Edizioni elzeviriane dello Zanichelli. — La poesia verista e il Grido del Rizzi. — Novissima Polemica. — Idee del Carducci intorno alla poesia amorosa. — Il Manzoni e il Leopardi. — Vittorio Emanuele, Garibaldi e Cavour. — La cultura letteraria in Italia dopo la conquista di Roma. — L’Italia si accorge finalmente di possedere un poeta vero. — Gli scolari del Carducci. — Giovanni Pascoli e Giovanni Marradi. — Severino Ferrari e Guido Mazzoni. — Ugo Brilli. — Il Carducci non rappresenta, come scrittore, il suo tempo. — Passione del Carducci per la storia. — Il mondo ideale del poeta.
Ricordano i lettori le parole dette dal Carducci ai suoi scolari nel primo giubileo? «Io ho voluto ispirar me e innalzar voi sempre a questo concetto: [352] di anteporre sempre nella vita, spogliando i vecchi abiti di una società guasta, l’essere al parere, il dovere al piacere; di mirare alto nell’arte, dico, anzi alla semplicità che all’artifizio, anzi alla grazia che alla maniera, anzi alla forza che alla pompa, anzi alla verità ed alla giustizia che alla gloria.»
E pure egli l’amava la gloria.
Ahi, da’ prim’anni, o gloria, nascosi del mio cuore
Ne’ superbi silenzi il tuo superbo amore.
Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
Mi sfolgorâr da’ gelidi marmi nel petto un raggio,
Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
E i lampi de’ bianchi omeri sotto le chiome d’òr.
E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
Io ’l diedi per un impeto lacrimoso d’affanni,
Per un amplesso aereo in faccia a l’avvenir.
Ma quel concetto, che gli fu guida nell’opera sua d’insegnante, gli fu anche guida fin da’ primi anni nelle azioni e negli scritti, nella vita e nell’arte. E non glie lo aveva insegnato nessuno; gli era fiorito spontaneamente nell’animo per effetto delle facoltà largitegli da natura, e svoltesi liberamente nella vita libera della campagna, fra gente del popolo non guasta dalle ipocrisie della città. Quando egli a quattordici anni andò a Firenze ed entrò nelle Scuole Pie, il suo carattere era, si può dire, formato; cioè gli elementi costitutivi di esso aveano avuto modo di esplicarsi e di prendere consistenza: [353] e questi elementi erano un forte sentimento di sè che lo faceva insofferente di ogni freno, una esuberanza di vitalità che gli faceva aborrire le mortificanti dottrine del cattolicesimo, una invincibile sincerità, un odio feroce di ogni oppressione, un bisogno istintivo di combattere, un desiderio sfrenato di sapere, l’orgoglio di discendere da un popolo che fu grande e glorioso, la vergogna d’essere un Italiano moderno.
La trista fine dei moti del 1848 gli aveva lasciato l’animo pieno d’ira e di amarezza, la quale trovò pascolo e si rafforzò nella lettura degli scritti del Leopardi, che contribuirono a fare di lui un pessimista; intendiamoci, non un pessimista rassegnato, che stima inutile combattere, un pessimista ribelle e rivoluzionario, che, non potendo altro, gitta la sua voce fra le genti a rampognarle e svergognarle. Ciò che lo innamorò sopratutto del Leopardi fu il sentirsi simile a lui nella ammirazione sconfinata per gli antichi greci e romani, per la sincerità e la forza della vita e dell’arte loro.
***
Tale essendo, il Carducci si trovò fin da scolare in opposizione col tempo suo; cioè, anche prima. Fin da ragazzo, pur ammirando I Promessi Sposi, che lesse cinque volte, fu classico ed antimanzoniano per opposizione al manzonianismo del padre suo; e [354] sotto la disciplina del maestro Barsottini, religioso e romantico, si rafforzò nel classicismo e nella irreligiosità. Sappiamo che cosa pensasse de’ suoi maestri all’Università di Pisa e alla Scuola Normale. «La lingua in cui scrissero Dante, Machiavelli, Leopardi, diceva egli, fa paura a questi vili oppressori e castratori degli ingegni giovanili.»
Que’ maestri riflettevano in generale le condizioni della cultura dell’arte e dello spirito pubblico in Toscana; delle quali erano indice tre periodici fiorentini, lo Spettatore, il Piovano Arlotto e l’Archivio storico. Lo Spettatore, diretto da Celestino Bianchi, rappresentava la letteratura manzoniana e romantica, con intendimenti liberali prudentemente dissimulati; il Piovano Arlotto era il corifeo della letteratura toscaneggiante, che ama lo scherzo e la burla, sotto il cui velo piacevasi trattare talora per allegoria qualche quistione politica, in modo da non compromettersi; l’Archivio storico, con idee più larghe e maggior serietà di cultura, intendeva a mantener vivo l’amore agli studi della storia nostra e il sentimento della italianità.
Quelli fra i letterati toscani, che nel 1848 avean fatto onestamente professione di liberalismo, dopo il ritorno del Granduca tenevano chiusi gelosamente in petto i loro sentimenti; e si occupavano di letteratura, di erudizione, di lingua, col proposito manifesto di giovare alla diffusione della cultura, e, alcuni specialmente, coll’occulto di propugnare e [355] diffondere, con molta moderazione e circospezione, le idee liberali. A questo duplice scopo mirava anche la Biblioteca nazionale Le Monnier, sia col procurare nuove e più corrette edizioni dei classici nostri illustrati e annotati, sia col ristampare le opere di scrittori italiani moderni ispirate a sentimenti patriottici. I letterati toscani davano di preferenza l’opera loro all’Archivio storico, all’Accademia della Crusca e alla illustrazione dei classici. Bene inteso che non tutti lavoravano con gli stessi sentimenti e intendimenti. Ce n’era di quelli il cui pensiero non andava più in là del dizionario e della grammatica.
L’Accademia dei Georgofili era poi, come chi dicesse, la rocca entro la quale si tenevano chiusi i caporioni del liberalismo moderato toscano, che si trovarono poi così solennemente canzonati dell’aver fatta, in odio al Guerrazzi, la restaurazione. I più notevoli fra quelli uomini erano il Lambruschini, il Salvagnoli, il Ridolfi, Cesare Guasti, Gaetano Milanesi, l’avvocato Galeotti, Marco Tabarrini, Tommaso Corsi, Celestino Bianchi; tutti, quale con maggiore, quale con minore ingegno, quale con animo più o meno disposto a novità politiche, brava ed onesta gente, ma quasi tutti (eccettuati forse due o tre) della scuola cattolica-manzoniana, che faceva capo a Gino Capponi. Giovan Battista Niccolini, fieramente avverso alle loro idee, se ne stava in disparte solitario e sdegnoso. Qualcuno anche si era adattato oramai al governo del Granduca, [356] e in fondo in fondo non desiderava novità, o che se novità in senso liberale avessero a farsi, si facessero col Granduca. Altri poi, di cui non importa fare i nomi, venuti su magari nel 1849 col ministero democratico del Guerrazzi, erano reazionari feroci o paurosi.
***
Cresciuto in questo ambiente e sotto maestri, che coll’esempio e con la parola predicavano il rispetto alle autorità costituite, la religiosità, la prudenza, il Carducci, alla Scuola Normale di Pisa, della quale era direttore, come sappiamo, il canonico Sbragia, ex-liberale del 1848 e manzoniano, parodiava gl’inni sacri, scrivendo delle strofe come queste:
Viva pur Sandro Manzoni!
Quanto è mai che s’arrabatta
Co’ filosofi nebbioni
E gli storici a ciabatta!
Acqua santa a piena mano,
Tutto il secolo è cristiano.
. . . . . . . . . . . . . .
Che volete? Il Cristianesimo
È un romanzo che fa chiasso.
Ci scordammo del battesimo,
Ma cantiamo col compasso
Come un’aria di Lucia
Paternostro e avemmaria.
I versi non son belli: tutt’altro; ma mostrano nel giovine lo spirito e il carattere dell’uomo, mostrano [357] come poco questo carattere si piegasse agli insegnamenti che contrastavano con le sue tendenze. E a ventidue anni, un anno dopo ch’era uscito dalla Scuola Normale, pubblicava un volumetto di versi, tutti riboccanti di classicismo e di paganesimo, e rampognanti la viltà dell’Italia moderna.
Un sonetto al Metastasio si chiudeva col noto verso:
Il secoletto vil che cristianeggia
Un altro, Ai sepolcri dei grandi Italiani in Santa Croce, terminava così:
.... in questi avelli or vive,
Qui solo, e in van, la patria nostra antiqua:
Ai quali io siedo e fremo, a le mal vive
Genti imprecando, de l’etade iniqua
Dispregiator, ch’altro non posso, eterno.
In un’ode Agli Italiani il poeta gridava:
O di cuor peregrina e di favella
E di vesti e di vizi, o in odio ai Numi
E a gli avi ed a la patria, or che presumi,
Stirpe rubella?
Sgombra di te la sacra terra: o in fondo
Giaci da secolar morbo disfatta;
E i vanti posa o la superbia matta
Favola al mondo.
[358]
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Che se il fato n’è avverso, e se a te giovi
L’oblio perenne e i gravi pesi e l’onte;
Rompan su d’oltre mare e d’oltre monte
Barbari novi,
Frughin de gli avi ne le tombe sante
Con le spade ne’ figli insanguinate,
E calpestin le sacre al vento date
Ossa di Dante.
La forza e l’audacia di questi e d’altri simili versi eccitavano l’ammirazione e l’entusiasmo dei pochi amici del poeta; ma rispondevano così poco al sentimento pubblico d’allora, che anche uomini, i quali si credevano e a modo loro erano liberali, furon tratti a biasimare altamente il volumetto carducciano, e non ebbero niente da opporre a chi dichiarò che l’autore si mostrava destituito d’ogni facoltà poetica.
***
Il 1859 mutò per poco la posizione del Carducci rispetto al pubblico.
Da qualunque parte fosse venuta l’iniziativa della liberazione d’Italia, chiunque se ne fosse fatto l’autore, avrebbe avuto l’incoraggiamento e le lodi del giovane poeta; il quale, non appena balenò la possibilità della guerra del Piemonte all’Austria, compose la canzone A Vittorio Emanuele; e così dopo la pacifica rivoluzione toscana del 27 aprile si trovò [359] d’accordo con la maggioranza dei suoi concittadini, che volevano l’unione al Piemonte, e cantò la Croce di Savoia e l’Annessione. Queste poesie fecero dimenticare il libretto di due anni innanzi, e il Carducci parve divenuto il poeta dell’opinione pubblica liberale in Toscana.
Ma l’accordo durò poco. Dopo Villafranca venne la spedizione dei Mille, e il poeta, che aveva in cima dei pensieri il compimento della unità nazionale, si fece naturalmente garibaldino. Gli avvenimenti successivi, la paurosa politica dei liberali moderati e la loro soggezione a Napoleone III, che aveva rotta sul principio l’impresa della liberazione d’Italia, che ne avversava in mille maniere il compimento, che manteneva i soldati francesi a Roma, raffermarono ogni giorno più il distacco del Carducci dalla maggioranza monarchica. Da che la monarchia si chiariva incapace di compiere, almeno per allora, l’opera del risorgimento nazionale, le idee del poeta si trovarono naturalmente d’accordo con quelle dei partiti avanzati (in parte avversi alla monarchia) che non ammettevano indugio.
Egli era allora a Bologna, ed essendo in quella disposizione d’animo ed avendo quelle idee, s’era venuto a poco a poco avvicinando agli uomini che quelle idee medesime professavano, ai giornalisti che le sostenevano. È naturale che in quell’ambiente, come oggi si dice, egli si trovasse a suo agio; come è naturale che quell’ambiente esercitasse [360] qualche influenza nell’animo di lui. Superfluo avvertire che una gran parte della gioventù romagnola, che per ragione di studi o d’altro affluiva a Bologna, e già cominciava ad ammirare il poeta, era repubblicana. Ad acuire l’opposizione del Carducci alla politica del governo si aggiunsero i dolorosi fatti della guerra del 1866, la politica spiegatamente reazionaria di esso governo, e le piccole persecuzioni alle quali il poeta fu fatto segno dal Ministero.
Nel 1868 fu pubblicato il volume dei Levia Gravia, una raccolta di poesie, dove, fra lo sdegno per le ingiustizie sociali, domina una nota di sconforto e di sfiducia, una nota quasi direi leopardiana. Ma in mezzo a quello sconforto, e in mezzo agli studi d’erudizione e di filologia di quello che può chiamarsi un periodo di raccoglimento del poeta, scoppiarono pure dall’animo di lui l’ode Dopo Aspromonte e l’Inno a Satana, e indi a poco i primi Epodi, di cui l’ode e l’inno furono come l’avanguardia.
L’Inno a Satana, composto nel 1863 e pubblicato nel 1865, non fu veramente conosciuto che dopo la ristampa fattane nel 1869 dal direttore del giornale democratico Il Popolo di Bologna, E. Bordoni, in occasione che si apriva a Roma il concilio ecumenico. Quella poesia e i primi Epodi ebbero, com’è naturale, l’approvazione e le lodi dei repubblicani, e in genere dei giornali e degli uomini d’opposizione, [361] più, s’intende, per ragioni politiche e di partito, che come opera d’arte e come manifestazione di un alto ingegno poetico. Le persone così dette serie, i liberali moderati, gli uomini d’ordine, dissero: Questo non è un poeta, è un energumeno.
***
Il suo poeta, anzi i suoi poeti, l’Italia liberale li aveva già: a parte il Prati, famoso da un pezzo, aveva l’Aleardi, sorto poco prima del 1860 a gareggiare con lui, e venuto subito in gran fama per la dolcezza e malinconia dei suoi Canti, ristampati dal Barbèra nel 1864; aveva lo Zanella, il cui nome quasi sconosciuto prima del 1867 fuori del Veneto, si diffuse ben presto per tutta Italia dopo l’edizione delle sue poesie fatta pur dal Barbèra nel 1868.
La capitale era allora a Firenze; e un po’ dello spirito cattolico guelfo movente dal palazzo Capponi avvolgeva il governo e la maggioranza da esso rappresentata. Le poesie dello Zanella, nelle quali la religione, la scienza e l’amor di patria si davano la mano, poesie semplici ed eleganti, se talora un po’ accademiche, rispecchiavano, anche meglio di quelle del Prati e dell’Aleardi, il sentimento della maggioranza legale del paese. La poesia del Carducci stonava orribilmente, e doveva parer degna del piombo che ferì Garibaldi ad Aspromonte, o [362] almeno almeno delle manette che strinsero i polsi degli arrestati di villa Ruffi.
Il poeta da giovane aveva detto che la sua musa era cresciuta colle tenui miche d’Orazio; ora, alla distanza di pochi anni, i suoi concittadini lo chiamavano il poeta della barricata e delle Grazie petroliere. E pure egli non aveva fatto che crescere, crescere coi medesimi sentimenti, con le medesime aspirazioni che gli fervevano in cuore fin dalla prima giovinezza.
Ad alcuni dei pochi amici, che avevano ammirato le sue poesie giovanili, parve anche, dopo i due Epodi per Corazzini e per Monti e Tognetti, che il suo gusto letterario cominciasse a corrompersi. — Perchè? — Perchè nella meditazione e negli studi di quel periodo di raccoglimento l’orizzonte delle sue idee si era venuto allargando, il suo ingegno si era svolto e rafforzato; e lo scudiero dei classici aveva sentito il bisogno di liberarsi da ogni soggezione e di correre, come disse egli stesso, le avventure a tutto suo rischio e pericolo. Naturalmente ciò ch’egli in quel periodo aveva letto di poeti stranieri moderni conferiva alla liberazione e alla educazione delle sue facoltà poetiche; e i segni ne apparivano nelle ultime poesie.
Quando nel 1868 uscì il volume dei Levia Gravia, la pubblicazione di esso passò quasi inosservata. I buoni moderati erano tutti intenti a gustare il loro Zanella, uscito appunto in quel medesimo [363] anno, e in quel medesimo anno proclamato dalla Nuova Antologia il nuovo poeta d’Italia.
Non che qualcuno non avesse sentito e detto qual poeta vero e forte annunziavano i due Epodi pel Corazzini e per Monti e Tognetti: ma pochi porsero orecchio a quelle voci. Fra codesti pochi fu l’editore Gaspero Barbèra; il quale, diremo meglio, aveva forse già sentito da sè la potenza dell’ingegno del Carducci anche come poeta. E pur sapendo quali avversioni incontrassero nel pubblico, specialmente toscano, i suoi versi, gli chiese di farne una edizione. Egli sapeva anche che, nonostante quelle avversioni, l’ingegno dell’uomo cominciava ad essere riconosciuto, e capì che, data quella forza di mente e quella tempra di carattere, il poeta avrebbe finito coll’imporsi. Intanto il Carducci che, per le sue opinioni politiche, aveva, come sappiamo, avuto dal governo parecchi fastidi ed una sospensione, seguitò per la sua via senza scomporsi, seguitò a scrivere, quando l’occasione lo stimolava e l’animo dettava dentro, versi sempre più ardenti e più arditi: e il Barbèra ai primi del 1871 pubblicò, raccolte in un volume, tutte le poesie composte da lui fino allora, non escluso l’Inno a Satana e i versi nuovi. L’editore voleva comprendere nel volume anche la canzone A Vittorio Emanuele e le altre poesie politiche anteriori al 1860; ma l’autore non volle: «Quei versi, disse, li ristamperei, se fossimo in repubblica: ora nol fo, per più ragioni degne.» Fra queste [364] c’era, credo io, bench’egli nol dicesse, il proposito di rimanere tutto intero nella opposizione, e come tale presentarsi nel suo libro. Del quale affermava, a rischio (son sue parole) di passare per bugiardo o per superbo; «Io ne’ miei versi come disperava di piacere ai più, così non me lo sono proposto per fine.»
***
E i più non si curarono dei suoi versi, che furono esaltati dai meno, dai radicali e dai repubblicani, specialmente di Romagna. Qualcuno dei più ne andava dicendo il maggior male possibile nei crocchi letterari di qualche grande città; diceva che il Carducci non aveva nè affetto nè fantasia nè forma, che era freddo, che scriveva poesia per forza, che a far poesia come quella tutti eran capaci.
— Ah sì? pensò il Carducci, a cui queste maldicenze erano riferite da alcune signore; ah sì? sentirete se son freddo, se i miei versi son fatti per forza, se tutti li sanno fare! — E nel 1873 pubblicò le Nuove Poesie, dove, in mezzo ad una grande varietà ed originalità di componimenti poetici, erano i nuovi e più terribili giambi ed epodi, che ad alcuni di quei critici e ad alcuni dei letterati e degli uomini politici più in vista dovettero sapere di forte agrume. Non fa meraviglia se il Bonghi, uomo che in letteratura teneva, nella opinione dei più, un posto eminente, dichiarava: «In realtà, chi legge [365] il Carducci?... io me ne stanco e non mi vergogno di confessarlo.»
Che lui se ne stancasse è naturale, perchè, a parte la diversità profonda delle opinioni, nei giambi c’era qualche zampata anche per lui; ma che la gente non lo leggesse, era un’illusione o un pio desiderio del dotto uomo.
La prima edizione delle poesie del Barbèra (di sole mille copie) in due anni non si era esaurita, mentre delle poesie dell’Aleardi dal 1864 al 1873 ne erano state fatte quattro edizioni per un numero complessivo di 6500 copie, e di quelle dello Zanella dal 1868 al 1873 due edizioni di 1500 copie ciascuna. Ma pubblicate appena le Nuove Poesie, a quella prima edizione ne successe subito una seconda; e poi una terza e una quarta, intanto che delle Nuove Poesie si faceva una ristampa dallo Zanichelli.
Che cosa era avvenuto?
Errerebbe chi credesse che le Nuove Poesie avessero portata al Carducci la popolarità, cui egli non aspirò e che non ebbe mai.
Fra la gente timorata di Dio ed ossequente al Re s’era formata una specie di leggenda intorno al nome del poeta di Satana, che faceva di lui qualche cosa di pauroso e di terribile. I letterati, che avevan ricevuto da lui qualche cenciata, si contentavano di dire che era un maleducato e un villano; quelli che non lo conoscevano se lo figuravano una specie di belva feroce; le donne e i ragazzi avevan [366] paura di lui come del peccato e del diavolo, salvo qualcuna che, avendo già qualche pratica col peccato e col diavolo, moriva di voglia di conoscere come il poeta di Satana era fatto.
È probabile che quella leggenda di terribilità facesse nascere in alcuni il desiderio di conoscere le Nuove Poesie, delle quali, appena pubblicate, ci fu subito chi si affrettò a dir male; ma, più che probabile, è certo (quali si fossero le ragioni) che le Nuove Poesie, senza neppur l’ombra d’un po’ di réclame editoriale o giornalistica, furono subito lette in Italia e fuori; e tutte le persone cólte e spregiudicate, ch’erano in grado d’intenderle e di gustarle, tutte senza distinzione di partito, ne rimasero colpite come d’un fatto nuovo e singolare nella letteratura e nell’arte, non italiana, ma europea, come della rivelazione intera e compiuta di quel vero poeta, che i due Epodi avevano solamente annunziato. Gli stranieri, in particolar modo tre tedeschi, furono i primi a riconoscere il fatto e segnalarlo all’attenzione generale.
C’era di che.
Pubblicando, soli due anni avanti, le poesie della edizione Barbèra, il Carducci aveva detto: «Mossi, e me ne onoro, dall’Alfieri, dal Parini, dal Monti, dal Foscolo, dal Leopardi; per essi e con essi risalii agli antichi, m’intrattenni con Dante e col Petrarca, ad essi, pur nelle scorse per le letterature straniere, ebbi l’occhio sempre.»
[367]
La derivazione dai classici si sentiva nei Juvenilia e nei Levia Gravia, come si scorgeva nei Decennali qualche segno delle scorse per le letterature straniere.
Ma nelle Nuove Poesie il poeta era lui, proprio lui, con una fisonomia spiccata e caratteristica, che non si poteva confondere nè rassomigliare con quella di nessun altri. E quanti aspetti varii e nuovi e tutti originali in quella fisonomia! Che mirabile contrasto di suoni, di colori, di atteggiamenti in quel volumetto di liriche!
Il fatto, riconosciuto solennemente, come ho detto, da tutte le persone cólte e spregiudicate, non si poteva oramai contestare. E non osò contestarlo nemmeno la critica dei giornali moderati, nemmeno quella della Gazzetta ufficiale del regno, ma vi girarono attorno con molte restrizioni, con molte sciocchezze, con molte malignità, tentando di scemarne l’importanza. — Il Carducci, sì, è un gran poeta, diceva il critico della Gazzetta ufficiale; e soggiungeva: peccato che sia un uomo bilioso, scervellato e selvatico! che si lasci dominare dal suo sciagurato temperamento, dall’orgoglio, dall’atrabile, e nel parossismo cronico del suo sdegno, nel tumulto anarchico de’ suoi errori, gitti all’aria urli di furore e gridi di rabbia felina! — Questa critica, che si chiamava da sè cortese ed onesta, che pretendeva scendere dall’alto forte di verità ed ispirata d’amore, e invitava il poeta ad accoglierla come un’amica, fu [368] portata in trionfo dai giornalini, dai giornaletti e dai giornaloni moderati, con grande sodisfazione del grosso pubblico, che non capiva e non poteva capire il poeta.
Il Carducci pensò: dagli amici mi guardi Iddio; e questo pensiero diventò, con grande sodisfazione degli ammiratori delle Nuove Poesie, una delle sue prose polemiche più magistrali, Critica e Arte, che ridusse al silenzio gli avversari. Ma ridurre al silenzio non vuol dir persuadere. In generale la critica e la polemica più persuasive non persuadono se non coloro che non hanno bisogno di essere persuasi.
***
Intanto la gioventù, non solamente di Bologna e delle Romagne, dove il Carducci era, più che altrove, conosciuto ed amato, ma anche delle altre parti d’Italia, aveva cominciato a leggere le sue poesie ed entusiasmarsene. Le vicende della patria, ch’era in sul comporsi a nazione, avevano ancora, trent’anni fa, virtù di commuovere gli animi dei giovani. E come i giovani, quando non sono guasti dalla educazione, o per natura scettici ed egoisti, si sentono naturalmente attratti verso tutto ciò che agli occhi loro è nuovo, grande e generoso, si volsero con ammirazione al poeta dei Giambi ed Epodi. Non ho bisogno di nominare quelli che a Bologna erano scolari suoi, i quali sono una legione, [369] che oggi onora gli studi e le scuole, primo fra tutti per ingegno e dottrina Giovanni Pascoli; del quale mi fu raccontato che una sera al Caffè dei cacciatori fosse fatto leggere al Carducci, che allora lo conosceva appena, un sonetto; e che egli dicesse: — Sarei contento d’averlo composto io. —
Fuori di Bologna uno dei primi a sentirsi preso dalla poesia del Carducci fu Giovanni Marradi, che negli anni intorno al 1870 era studente al Liceo di Livorno, e faceva fin d’allora dei versi, anzi ne aveva già stampati. Io ne mandai alcuni manoscritti, nel gennaio del 1871, al Carducci, il quale mi rispose: «Ho letto le poesie dell’alunno del tuo Liceo. Intanto c’è del colorito temperato animosamente, e c’è dell’onda di verso; e ci è attitudine e pieghevolezza; e mostra di amare nei moderni quel che han meglio. Vorrei più sobrietà e più nerbo. Ma ci è stoffa. Studiare, studiare, studiare: meditare, meditare, meditare: amare e odiare fortemente: e poi riuscirà. Ma non si perda in quel limbo d’arte e d’idee che è la società odierna, specialmente in Toscana. Sono eternamente sospesi fra il bene e il male, fra la verità e la convenzione: è un eterno compromesso in istile e in concetti. E ne vengon fuori i Dall’Ongaro e gli Zanella (2ª edizione).» Con quella seconda edizione il Carducci intendeva dello Zanella poeta politico negli ultimi due anni, e del Dall’Ongaro che si era messo a fare il classicheggiante.
[370]
***
Qualche anno più tardi, il Carducci cantava, per le nozze di sua figlia:
L’umide
pupille fise al vel fuggente,
la mia Camena tace e ripensa.
Ripensa i giorni quando tu parvola
coglievi fiori sotto le acacie,
ed ella reggendoti a mano
fantasmi e forme spïava in cielo.
Ripensa i giorni quando a la morbida
tua chioma intorno rogge strisciavano
le strofe contro a gli oligarchi
librate e al vulgo vile d’Italia.
E tu crescevi pensosa vergine,
quand’ella prese d’assalto intrepida
i clivi dell’arte e piantovvi
la sua bandiera garibaldina.
Non c’è nessun vanto in queste strofe: esse contengono la storia esatta della poesia del Carducci. La quale volle e seppe compiere una rivoluzione; rivoluzione contro i sentimenti, le idee e le forme che dominavano la vita e l’arte nel tempo suo, la vita e l’arte di una società languida e molle, senza forti convinzioni, eternamente sospesa, come egli diceva, fra il bene e il male, fra la verità e la convenzione. E la rivoluzione tanto fu compiuta, che quando la musa del Carducci stava piantando sui clivi dell’arte [371] la sua bandiera garibaldina, il buon Aleardi, una sera, rispondendo a certuni che gli lodavano alcuni versi suoi, uscì a dire: «Non lodate, non lodate. Di tutta questa roba non resterà nulla di qui a vent’anni. Ho sbagliato. La strada è un’altra; e c’è già chi l’ha vista, e se non pretende di percorrerla troppo in furia, arriverà sicuro alla meta e otterrà fama vera e durevole. È un gran dolore, cari miei, quello d’aver lavorato tanti anni e dover poi confessare a sè stesso di non aver fatto nulla che valga.»[74]
Se la fama dell’Aleardi cominciò a declinare a mano a mano che si facevano strada le poesie del Carducci, giustizia vuol che si dica che le previsioni del poeta circa la completa oscurazione del suo nome furono più pessimiste del vero; poichè dei suoi Canti dal 1873 in poi furono fatte altre quattro edizioni, l’ultima delle quali è del 1899. E l’editore, ch’è uomo pratico di queste cose, ritiene che altre se ne faranno. C’è dunque ancora in Italia chi legge ed ammira l’Aleardi: ciò che non può dirsi, almeno allo stesso grado, dello Zanella, le cui poesie, dopo le due prime edizioni del Barbèra ed una dei Successori Le Monnier, non sono state più ristampate.
Fa singolare riscontro alla rivoluzione compiuta dalla poesia del Carducci il fatto che due corifei del [372] romanticismo, il Prati e il Dall’Ongaro, al quale già accennai, vicini a chiudere la loro carriera poetica si volsero al classicismo. Il Prati quando, al tempo della capitale a Firenze, il ministro Broglio faceva predicare il verbo della lingua popolare e manzoniana, si mise a comporre versi latini, tradusse un libro dell’Eneide, e pubblicò l’Armando, nella seconda parte del quale è il Canto d’Igea; un canto che, a giudizio del Carducci stesso, è «ciò che di più sanamente classico ha prodotto la poesia del tempo nostro in Italia.»[75]
***
Insieme con la rivoluzione della poesia, il Carducci ne fece un’altra; quella degli studi di critica e storia letteraria, nella quale ebbe compagno l’amico suo Alessandro D’Ancona.
Nella prima metà del secolo passato le così dette cattedre di eloquenza delle nostre Università erano state palestra di esercitazioni retoriche ed accademiche, di maggiore o minor valore, secondo il maggiore o minore ingegno degli oratori; ma gli uomini come Ugo Foscolo vi capitavano di rado e non vi duravano a lungo; e Francesco De Sanctis, che in tempo a noi più vicino, senza troppo approfondire i particolari, ebbe una felice intuizione generale dei [373] fatti storici della letteratura, e sopra quella fondò la sua critica nuova e geniale, è una gloriosa eccezione.
Il Carducci, anche prima di salire la cattedra dell’Ateneo bolognese, aveva indovinato da sè il metodo vero degli studi di storia e critica letteraria, cioè il metodo delle ricerche diligenti e pazienti dei fatti, sui quali fondare poi il ragionamento critico ed estetico. Cotesto metodo egli aveva cominciato già ad applicarlo nei Saggi da lui premessi ai volumetti della Collezione Diamante del Barbèra. E naturalmente, quando si trattò di insegnare la storia della letteratura all’Università, sentì il bisogno di cominciare dalle origini, appunto perchè meno conosciute e più oscure, e perchè senza di esse è impossibile rendersi ragione degli svolgimenti successivi.
Lo stesso fece il D’Ancona, nominato, quasi contemporaneamente al Carducci, professore di lettere all’Università di Pisa. La cosa era così nuova, che produsse un po’ di scandalo fra i letterati della dotta Alfea. — Ma questa non è letteratura italiana, questa è archeologia — dicevano i buoni Pisani, che ricordavano le chiacchiere sconclusionate del Rosini, e la lettura degli Ammaestramenti del Ranalli, fatta da Michele Ferrucci dalla cattedra d’eloquenza dell’Ateneo pisano. Certamente il Carducci non aveva imparato da loro.
È noto come il metodo storico abbia interamente rinnovato fra noi gli studi letterari; come è noto [374] che nella scuola del Carducci non ci fu mai pericolo ch’esso ingenerasse freddezza e aridità. Oltre i suoi scolari, fanno di ciò testimonianza i suoi libri di prosa; i quali possono dividersi in due grandi categorie, libri di storia e critica letteraria, libri di critica d’arte e polemica. I primi sono un riflesso del suo insegnamento, e mostrano com’egli, armato d’una erudizione larga, minuta e precisa, sapesse coll’ingegno vivo, acuto, luminoso, penetrare più addentro negli argomenti che prendeva a trattare e scoprirne aspetti nuovi rimasti fino allora ignorati. I secondi sono un compimento dei primi, e un commento e una illustrazione continua dell’arte sua.
Il merito del Carducci erudito e scrittore di prosa fu riconosciuto più presto e più generalmente che quello di lui poeta, perchè a quel riconoscimento non contrastavano, o contrastavano meno, le opinioni politiche, la mancanza di gusto e le vecchie abitudini e i pregiudizi di scuola. E, diciamo anche, l’incoltura e la presunzione della critica spicciola dei giornali. I letterati serii, che si scandalizzarono alle audacie di pensiero dell’Inno a Satana, ammiravano l’erudizione e la critica di cui il poeta aveva dato saggio con la edizione delle poesie italiane del Poliziano; gli uomini e i giornali politici, che non potevano mandar giù le satire acerbe dei Giambi ed Epodi e si provavano a gittare qualche frizzo contro qualche stranezza o durezza delle Nuove Poesie, pur ammettendo il valore poetico non comune [375] del libro, si sentivano in dovere di lodare senza restrizione gli Studi letterari pubblicati dal Vigo.
Ma quando qualche anno dopo uscirono le Odi barbare, apriti cielo. Non c’è esempio nella nostra letteratura di un diluvio di spropositi come quello che piovve allora sul capo del poeta. La critica dei giornali non aveva dato mai prima, e credo non desse mai dopo, uno spettacolo così stupefacente di ignoranza e di miseria intellettuale. Un critico che andava per la maggiore, e che ammanniva periodicamente ai lettori e alle lettrici della Illustrazione italiana sue lezioni di buon gusto e di estetica, disse che le Odi barbare erano una stonatura, una musica barbarica, una decalcomania; un altro, brava e cólta persona, disse che non erano state scritte sul serio, che il poeta aveva voluto prendersi burla del pubblico; un terzo, scienziato e giornalista, scrittore di drammi e di cose militari, pubblicò, come dissi in principio del cap. VII, un articolo pieno d’errori, per dare una lezione di metrica al Carducci. Questa critica, indipendentemente dalla parte che poteva avere in essa qualche dispetto personale, rappresentava la opinione vera e il grado di cultura della maggioranza del paese di fronte alla poesia delle Odi barbare.
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Ho parlato di dispetti personali. Era naturale, era umano che molti avessero dei risentimenti contro [376] il poeta, perchè molti erano stati fatti segno ai suoi strali, alle sue punture, ai suoi scherzi. Il Carducci, fino da giovane, fu uomo di passione, d’impeti, di scatti; ebbe letterariamente antipatie molto pronunziate, nè sempre giustificate. Di alcune lo riconobbe egli stesso e con nobile franchezza lo confessò; perchè nelle sue antipatie non c’era niente di personale. Quando nello scrivere un di quei nomi gli capitava sotto la penna, bisognava ch’ei lo bollasse.
Paulo Fambri, che i lettori già sanno essere lo scienziato e giornalista che volle dare al Carducci una lezione di metrica, fu chiamato da lui il grosso Voltaire de le lagune; e perchè era in fondo un brav’uomo, le punture ricevute dal poeta non gl’impedirono di riconoscerne il valore. Lo stesso di altri. Il Bonghi fu, come ho detto, tartassato dal Carducci, e più d’una volta; e più d’una volta criticò egli il Carducci, nè molto felicemente; ma poi finì col riconoscere, non senza molte restrizioni, com’era suo costume, i meriti di lui. Il Bonghi, anche quando lodava, aveva sempre l’aria di dire: Voi avete fatto una bella cosa, ma io l’avrei fatta diversamente, cioè meglio.
Uno dei più maltrattati dal Carducci in verso ed in prosa fu lo Zendrini, che non si ristette dal criticare il Carducci fin che potè, ch’era un di quelli che dicevano male delle sue poesie nei crocchi delle signore (ciò ch’era naturale, dato il modo suo d’intendere [377] e concepire la poesia e l’arte, affatto opposto a quello del Carducci); ma quando egli fu morto, il Carducci, dovendo parlare di lui, e volendolo fare «con quella coscenziosa e meditata libertà e schiettezza, della quale, diceva, gl’italiani han troppo bisogno,»[76] rese, senza niente disdirsi, piena giustizia al suo ingegno e alla sua dottrina, si dolse ch’ei fosse mancato all’arte, quando forse stava per rinnovellarsi, e concluse, a proposito di lui e di altri morti di fresco: «Magari fossero vivi! Combatteremmo ancora.
»L’uom s’affronti con l’uom: pugna è la vita.»
Due che, pure punzecchiati dal Carducci, non dissero mai una parola contro di lui, sono il De Amicis e il Giacosa; ma non si può pretendere che tutti abbiano la loro virtù; la quale è forse il miglior modo di rispondere agli assalti della critica e della satira, quando si crede di non meritarli o si sente che sono eccessivi. Ebbero essi medesimi la prova di ciò quando più tardi videro il Carducci rendere giustizia ai meriti loro.
Domenico Gnoli narrò nella Nuova Antologia del 15 marzo 1880 questo aneddoto, la cui verità gli era stata confermata dal Carducci stesso: «In una linea di strada ferrata presso Modena viaggiavano [378] insieme alcuni uffiziali, e, discorrendo degli scritti del De Amicis, ne dicevano male a torto e a ragione. Un signore, che stava in un angolo leggendo, a poco a poco fu tratto anche lui nella conversazione, e prese a difendere il De Amicis. — È inutile, rispondeva un uffiziale, io sto col Carducci: Edmondo da i languori, il capitan cortese. Ma il Carducci, ripigliava il signore, ha detto così in una satira, che non va presa alla lettera; e poi se lo ha chiamato da i languori, non ha detto già che gli manchino altre buone qualità. E ricordò le pagine della caccia del toro nella Spagna e altre belle descrizioni. — Ma avendo detto nella discussione che il Carducci non era infallibile, parve agli altri ch’egli parlasse del poeta con poco rispetto, e la questione si faceva più viva. Intanto giunsero alla stazione: gli uffiziali nello scendere dettero al signore le loro carte da visita, e il signore rese la sua. Chi era? Il Carducci mi perdoni l’indiscrezione: era proprio lui.»[77]
Qualche cosa, se non di simile, di analogo, avvenne tra il Carducci e il Giacosa. Questa volta chi narra è il Carducci stesso. Egli aveva pubblicamente e ripetutamente dichiarato che non voleva, non sapeva e non poteva fare scritti, sia di prosa, sia di verso, nè conferenze o altro, a richiesta altrui: pure cedè ad un invito del Giacosa, che lo pregava di una conferenza a Torino per l’Esposizione, con offerta [379] di compenso. «Prima di tutto, scrisse il Carducci, il Giacosa è il Giacosa, cioè un uomo di cuore e d’ingegno, del quale come scrittore, quand’era nella prima sua maniera, io aveva detto troppo male, e non mi parea vero di manifestarmegli grato del non aver egli badato a cotesto per mostrarmi la sua affezione.»[78] Poi aggiunse altre ragioni che qui non importano.
Ma non si può pretendere, come ho detto, che tutti abbiano la longanimità del De Amicis e del Giacosa; benchè certo sarebbe bene.
Lunga è la lista degli uomini pubblici, dei letterati, dei giornalisti, più o meno violentemente attaccati dal Carducci, o fatti segno alle sue punture satiriche, per effetto delle sue convinzioni politiche, artistiche, letterarie. Oltre quelli che ho già nominati, a chi conosce le opere del poeta vengon subito in mente i nomi del Lanza, del Sella, del Gualterio, del Cialdini, del Persano, del Mancini, del Villari, di Nicomede Bianchi, del Fanfani, del Rapisardi, del De Zerbi, d’Yorick, dell’Alberti, del Rizzi: e chi sa quanti altri ora mi sfuggono!
È naturale che la maggior parte delle persone attaccate dal poeta, fra le quali non poche di valore indiscusso e indiscutibile, non avessero per lui gran simpatia, sia pure che ne riconoscessero l’ingegno. Questo dovette esser pure un grande coefficiente [380] della cattiva accoglienza ch’ebbero al loro primo apparire le Odi barbare.
Il favore col quale appunto in quel tempo erano accolti i libri del De Amicis era dovuto, è vero, in gran parte, anzi in massima parte, alla materia e alla forma, che rendevano quei libri accessibili e adatti alla intelligenza, al gusto e alla cultura della maggioranza dei lettori e delle lettrici italiane; ma è fuori di dubbio che una parte di quel favore deve attribuirsi anche alla simpatia del pubblico che lo scrittore aveva saputo guadagnarsi co’ suoi Bozzetti militari.
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Con tutto ciò, fatta la debita parte alla poca simpatia che godeva il poeta, rimane fermo che la ragione principale della non buona accoglienza incontrata dalle Odi barbare sta, come dissi, nella impreparazione del pubblico anche cólto a gustarle ed intenderle. Aveva perfettamente ragione il Carducci quando, a proposito dell’ode alla Regina, mi scriveva che un mezzo per capire le odi barbare era conoscere la poesia tedesca.
Solo che i lettori italiani avessero potuto leggere nell’originale, non dirò le odi del Klopstock e del Platen, ma le Elegie romane e l’Arminio e Dorotea del Goethe, i metri delle Odi barbare non avrebbero fatta loro quella strana e sgradevole impressione, [381] che fu la cagion prima che impedì a molti di capire. E non si creda che cotesti molti fossero tutti gente incólta: c’era perfino qualche professore di lettere meritamente stimato, e veramente dotto.
Le poesie del Carducci in generale, e le Odi barbare in particolare, vogliono essere lette con molta attenzione nel silenzio tranquillo del proprio studio; vogliono, dirò di più, essere meditate e studiate, come tutta la poesia densa di pensiero e nutrita di dottrina: senza di ciò è impresa disperata il comprenderle. E allora accade che, dopo una prima lettura superficiale, si butta via disgustati il libro, dicendo: Ma che cosa annaspa costui? Chi lo capisce è bravo.
La reazione contro il primo giudizio della ignoranza e della fretta non tardò però molto. Quelli che non avevan capito alla prima, sentendo che c’era chi aveva capito, rilessero, studiarono e cominciarono a capire anche loro; e non andò molto che le Odi barbare furono proclamate la più alta poesia del Carducci. Alle prime seguirono poi le seconde e le terze, che confermarono, amplificandolo, il giudizio definitivo. Cosa poi singolare: le prime odi barbare, se si deve giudicare dal numero di edizioni che hanno avuto, sono state lette anche più delle seconde e delle terze, essendo di quelle stato messo in circolazione un numero maggiore di copie; ben sedicimila, prima delle ottomila copie delle Poesie complete.
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Se si considera che l’Italia è un paese che legge poco e non compra libri; e che le poesie del Carducci non furono, come oggi si usa, declamate nelle sale e nei teatri, per accattar loro favore, nè la loro nascita fu mai annunziata telegraficamente come un grande avvenimento; che insomma mancò ad esse quella sapiente réclame che oggi i poeti sanno fare alla merce loro, bisogna pure riconoscere ch’esse dovettero avere in sè una gran virtù per vincere tutte le resistenze, per farsi leggere ed ammirare.
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Intorno a quel tempo, negli anni cioè poco prima e poco dopo il 1880, ci fu in Italia una specie di risveglio poetico. Erano gli anni della prima fioritura delle edizioni elzeviriane dello Zanichelli in Bologna, e del primo fortunato periodo del Fanfulla della Domenica in Roma. Il primo volumetto elzeviriano pubblicato dallo Zanichelli fu il Canzoniere di Lorenzo Stecchetti, Postuma; al quale, con pochi giorni di distanza, tennero dietro le prime Odi barbare del Carducci. Accennai nel capitolo VI le ragioni del successo veramente sbalorditoio dei Postuma: basti dire che in meno di tre anni ne furono fatte sette edizioni, ed oggi siamo alla ventiduesima. Dopo i Postuma e le Odi barbare vennero le poesie del Panzacchi, il Polychordon di Vittorio Salmini, le Nuove Liriche di Naborre Campanini, i Nuovi Versi [383] di Vittorio Betteloni, le Canzoni moderne di Giovanni Marradi (Labronio), i Miei Canti di Corrado Ricci, le Poesie di Enrico Nencioni, le Nuove Poesie del Fontana, i Versi del Tarchetti, e un’altra quantità di poesie d’altra gente più o meno nota. Naturalmente questa efflorescenza non era tutta di fiori aulenti d’un modo; e non tutta la produzione poetica italiana si limitava ad essa; ma il più e il meglio certamente era lì. Un po’ per ragione dell’editore, un po’ perchè cotesto movimento letterario si era creato intorno al Carducci, si parlò molto impropriamente di Scuola bolognese. Inutile dire che il Canzoniere dello Stecchetti diede la stura a una quantità di poesie più o meno pornografiche, che i loro autori chiamarono veriste, tanto che verismo parve per un momento diventato sinonimo di pornografia.
Ci fu della buona gente che si scandalizzò e gridò contro questo verismo. E, facendo un po’ di confusione, misero in un mazzo col Guerrini il Carducci, considerandoli tutti due come i capi della Scuola bolognese, cioè verista, o pornografica.
Il grido venne da Milano; in forma di pochi sonetti satirici molto mediocri, preceduti da una breve prosa arguta e frizzante; opera gli uni e l’altra di Giovanni Rizzi, un buono e brav’uomo, molto manzoniano e molto attaccato alle sue idee morali e religiose. Al Grido milanese fece eco da Firenze un misero libretto del commediografo Luigi Alberti, buon uomo anche lui, ma quanto commediografo [384] poco felice, altrettanto scrittore infelicissimo di prosa e di versi.[79] Rispose il Guerrini con un primo opuscolo di versi, Polemica; poi con un libretto di versi e prosa, Nova Polemica; finalmente il Carducci con lo scritto Novissima Polemica pubblicato nel giornale Il Preludio di Bologna (10 novembre 1879). Prese ultimo la parola il Rizzi con una nuova edizione del suo Grido,[80] accresciuto di una Appendice, mista pure di prosa e di versi; ma la vittoria restò letterariamente agli accusati; e il povero Alberti, investito da una scrosciante pioggia di ridicolo, rovesciatagli addosso dalla penna del Carducci, rimase, credo, intontito.
Il Carducci durò poca fatica a rispondere vittoriosamente quanto a sè, perchè l’accusa fattagli era ingiusta; il suo sano e forte paganesimo non avendo niente di comune col verismo pornografico dello Stecchetti. Quanto a questo, non seppe difenderlo meglio che allegando la sua discendenza legittima da Alfredo Di Musset, e mostrando che anche della brava gente, come il Tasso, il Corneille, il Parini e il Giusti, avevano a tempo loro composto dei versi licenziosi ed equivoci. Ma ciò non era una giustificazione. Nella sostanza i difensori della morale rimasero, per ciò che riguardava lo Stecchetti, dalla [385] parte della ragione. Lo riconobbe in certo modo il Carducci stesso quando scriveva: «Anche a me, se ci bado, questa mostra in versi, che dura da qualche mese, di tante alcove in disordine non piace punto, perchè in somma è poco pulita, e riesce, come tutte le mostre, cordialmente noiosa. Desidero poi che il Guerrini s’allarghi fuor del genere voluttuario, come ha già mostrato di volere e saper fare.»
Dieci anni più tardi il Carducci esprimeva così le sue idee intorno alla poesia amorosa, idee alle quali rimase sempre fedele nei versi che scrisse. «Quanto all’amore, io credo, che la poesia recente sia tornata ad abusarne, e sono ben lungi dal concedere importanza e valore di arte a quegli sfoghi di erotismo e a quelle civetterie dell’io mughetto che i rimatori odierni si concedono. Lasciamo stare, per amor di Dio, Saffo; e non gridiam miracolo a tutte le inezie e porcherie di Catullo, e confessiamo che nei Lieder di Heine abbondano i madrigaletti: dei parnassiani francesi non mette conto discorrere. Insomma della poesia d’amore ammetto soltanto quella che la impressione singolare, fenomenale, individuale trasmuta nella rappresentazione universale, storica, umana: quasi quasi sto per dire che nella poesia d’amore io amo l’allegoria. Che un verseggiatore pensi di una Teresa o d’una Carolina così e così, ch’egli desideri di farle o le faccia questo e questo, e ch’ella faccia a lui questo e quest’altro; è cosa che può importar molto per quel momento a lui, che probabilmente [386] importerà poco a lei e che non importa nulla a me. Ne faccia pur memoria il caro verseggiatore nel suo carnet e ne componga versi per albi o per ventagli o per ventarole o per musica; ma le confessioni da nessuno richieste e solo a’ collegiali curiose d’un vanesio o peggio non sono poesia: ci mancherebbe altro!»[81]
La questione della pornografia in versi fu ripresa nei giornali domenicali del 1883 dal Panzacchi, dal Nencioni e da me, in contradizione con Luigi Lodi, a proposito di alcune poesie del D’Annunzio. Noi in fondo sostenevamo allora, contro il Lodi, le medesime idee ch’ebbe ad esporre più tardi il Carducci col pezzo di prosa che ho riferito.[82]
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Chi scriverà la storia della letteratura italiana nella seconda metà del secolo passato, giunto al tempo di cui parliamo dovrà rilevare alcuni fatti abbastanza consolanti; a parte quel risveglio poetico, che, se ne togli il Carducci, ha poca o nessuna importanza, e che col Carducci era cominciato assai prima. Tutta la poesia vera della seconda metà del [387] secolo è nelle opere di lui, le quali, come altri osservò, sono talora poesia se anche scritte in prosa.
La prima metà del secolo ebbe due ingegni di prim’ordine, pensatori, prosatori, poeti, il Manzoni e il Leopardi; i quali, rappresentando fortunatamente due scuole diverse, anzi opposte (che cioè si credevano e volevano essere opposte, mentre miravano allo stesso fine), la scuola romantica e la classica, furono cagione che in processo di tempo queste si giovassero reciprocamente, correggendo ciascuna le deficienze e gli eccessi dell’altra. Intorno a quei due grandi, il grande agitatore genovese, sognante l’unità d’Italia, quando essa non poteva essere più che un sogno, e una larga schiera di scrittori (filosofi, romanzieri, poeti) che le opere loro dirizzarono al fine glorioso della liberazione della patria, mantenendo vivo nei petti degl’Italiani l’odio ai principi e agli stranieri che la tenevano divisa ed oppressa.
Nei primi venti anni della seconda metà del secolo la politica fece, com’era giusto, tacere la letteratura; e l’Italia ebbe, invece di grandi scrittori, tre uomini d’azione, un re, un guerriero, un diplomatico, che, aiutando gli eventi, seppero compiere quella gloriosa opera della liberazione della patria, e trasformare in realtà il sogno di Giuseppe Mazzini. Dinanzi alle ombre di Vittorio Emanuele, di Garibaldi, di Cavour, le ombre dei grandi scrittori della prima metà del secolo piegano riverenti la fronte.
[388]
Ma dopo che nel 1870 l’Italia ebbe conquistata la sua capitale, si vide che quei venti anni di silenzio non erano stati infruttuosi per la letteratura. Un nuovo soffio di vita intellettuale era passato sopra la giovane nazione; i migliori ingegni si erano venuti aprendo e maturando al sole della libertà; il movimento degli studi presso gli altri popoli aveva stimolato alla emulazione gl’Italiani; l’amore alle discipline storiche, già in onore fra noi, si era ravvivato, allargato, e rafforzato nella ricerca paziente dei documenti e dei fatti; nelle discipline filologiche era penetrato il rigore scientifico, nelle letterarie il metodo storico, saviamente contemperato all’estetico, già signoreggiante in alcune regioni d’Italia per opera di Francesco De Sanctis; le correnti delle due scuole, romantica e classica, si erano frattanto venute lentamente fondendo, e gl’ingegni meglio aperti alla verità avevano riconosciuto e preso quello che c’era di buono nell’una dottrina e nell’altra.
Le Facoltà filologiche dei nostri Atenei, cresciute dopo il 1860 di numero e andate via via rinsanguandosi di nuove forze, contavano insegnanti che con le opere loro e col nome tenevano alta nel mondo la riputazione degli studi italiani. Anche fuori delle Università le lettere avevano quasi in ogni ramo rappresentanti e cultori, più o meno famosi, ma tutti notevoli e degni, che nei giornali domenicali, nelle riviste e nei libri, illustravano la [389] storia letteraria e civile, disputavano d’arte, di critica, scrivevano novelle e racconti; notevole sopra tutti per la sua operosità e versatilità, veramente meravigliose, e pel suo sapere enciclopedico, non sempre sicuro, Ruggero Bonghi, che traduceva e illustrava Platone, scriveva la storia di Roma, fondava e dirigeva la Cultura, dava articoli a tutti i giornali, e dissertava di politica, di archeologia, di storia, di filosofia, di estetica, di filologia, di linguistica, e di non so quante altre cose nella Nuova Antologia.
Aggiungasi che dalle Scuole universitarie di Bologna, di Pisa, di Firenze, di Napoli, usciva una schiera di giovani, nutriti di studi seri, pieni d’ingegno e d’ardore, che promettevano di proseguire onorevolmente nell’insegnamento e nei libri l’opera dei loro maestri.
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Tali erano le condizioni della cultura letteraria in Italia poco dopo il 1880, intorno cioè al tempo in cui il valore del Carducci cominciò ad essere generalmente riconosciuto. L’Italia si era finalmente accorta di possedere un poeta vero; i più illustri contemporanei, anche quelli che fino a poco tempo addietro lo avevano guardato un po’ di traverso, non sdegnavano di avvicinarsegli e di rendergli onore; e la gioventù italiana, che già da alcuni anni lo [390] ammirava, sentiva crescere ogni giorno il suo entusiasmo per lui.
Accennai già a questo fatto ed agli scolari del Carducci in Bologna dopo il 1870. Dissi pure che intorno al 1880 ci fu una specie di risveglio poetico, a proposito del quale si parlò molto impropriamente di Scuola bolognese.
Tutto ciò ha bisogno di qualche spiegazione.
Se in un certo senso può dirsi che il Carducci ebbe una scuola, ciò deve intendersi unicamente della influenza che gli scritti suoi, così di poesia come di prosa, esercitarono sopra la gioventù del suo tempo; ma come questa gioventù non fu soltanto quella della Università di Bologna, sì della Italia intera, così la scuola, se mai, deve chiamarsi italiana, non bolognese. Parlare di scuola poetica bolognese, perchè lo Zanichelli pubblicò quasi contemporaneamente nella sua collezione elzeviriana le Odi barbare del Carducci, le poesie del Panzacchi, del Guerrini e di qualche altro, e perchè il Carducci prese parte insieme col Guerrini alla polemica contro il Rizzi e l’Alberti, è un non senso. Le poesie del Panzacchi non avevano nessun punto di contatto con quelle del Carducci, e non ne risentirono alcuna influenza; quelle del Guerrini anche meno. Che nel volume Nova Polemica ci fossero alcuni componimenti in metri barbari, non vuol dir niente: la sostanza e gli spiriti delle nuove poesie del Guerrini erano rimasti gli stessi, o di poco modificati, e [391] perciò molto diversi dalle poesie del Carducci. Anche non vuol dir niente che il Panzacchi e il Guerrini, come tutti gli altri scrittori di versi di quel tempo, chiamassero il Carducci maestro. Si può dare ad uno il nome di maestro, e non essergli scolari.
Gli scolari veri del Carducci erano la nuova generazione che allora veniva su, nel pieno fiore della giovinezza, e non solamente in Bologna. Per quei giovani la pubblicazione di ogni nuova poesia di lui era un avvenimento. Bisogna essere stati in mezzo a loro, e rammentarsi l’impazienza con la quale attendevano ogni numero del Fanfulla della Domenica che doveva recare una nuova ode barbara; bisogna rammentarsi l’interesse e l’entusiasmo con cui la leggevano e le discussioni calorose, animate, interminabili che vi facevano sopra.
Io nominai due degli scolari dei Carducci, uno, scolare vero a Bologna, il Pascoli, l’altro, scolare da lontano, il Marradi; autori ambedue di poesie che sono lette e piacciono. Le Myricæ del Pascoli hanno avuto in pochi anni sei edizioni; le Poesie che il Marradi scelse dalle varie raccolte da lui pubblicate dal 1879 in poi e riunì l’anno passato in un volume edito dal Barbèra, sono già alla terza edizione.
Il Marradi è (come il Carducci lo chiama) «poeta mero: impossibile a lui mortificare l’ingegno nella vil prosa, sì della critica e della filologia, sì del bozzetto [392] e della novella.»[83] Le poesie del Pascoli invece (non poche, e tutte attestanti, attraverso l’ispirazione forte e sincera, un lavorio d’arte, che a volte può parere eccessivo) non sono che una piccola parte dell’opera sua letteraria. Il Pascoli, oltre che poeta, è prosatore, critico, erudito, filologo, commentatore, interprete, traduttore. Anzi, a considerare l’insieme del suo lavoro, si direbbe ch’egli è poeta a tempo perso, nelle ore d’ozio (ben poche) che gli concede la sua instancabile operosità. Scrive poesie latine; traduce metricamente da Omero ed Esiodo, da poemi e romanze in francese antico; passa da questi allo Shelley, al Tennyson, a Victor Hugo; torna dal francese e inglese moderno al greco di Platone e al latino di Livio; dai commenti a Vergilio ed Orazio passa all’Inferno di Dante; e scrive intorno alla Commedia opere di lunga lena, per le quali si potrebbe credere ch’egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro che studiare il poema divino.
Gli scolari del Carducci sono un numero infinito (quando dico scolari intendo tutti quelli che nella loro educazione letteraria sentirono l’influsso di lui): ebbene, fra cotesti moltissimi sono ben pochi quelli che si volsero alla poesia: non passano, credo, in tutti, la mezza dozzina; o la passano di poco. Perch’egli davvero non incitò nessuno a comporre versi; e a quei ragazzi, che, dopo la fortuna dello [393] Stecchetti, si misero a scrivere poesie veriste, quando ebbero la infelice ispirazione di rivolgersi a lui, diede tali lezioni, che dovettero rammentarle per un pezzo e perdere per un pezzo la voglia di disturbare le Muse. Ad una di quelle lezioni, pubblicata nel Preludio di Bologna del 9 novembre 1881, lasciandola ristampare l’anno dopo, annotava: «I ragazzi che fanno gli omettini e i cattivelli e saputelli, che bestemmiano, che fumano, che seccano la gente grande mettendosi fra’ piedi, io gli ho a noia, e, fedele all’educazione antica, li piglio a scapaccioni.»
Ma per le poesie di due scolari suoi veri, Severino Ferrari e Guido Mazzoni, ebbe parole di lode e consigli amorevoli. Il Ferrari fece un anno solo di studi a Bologna e gli altri all’Istituto superiore di Firenze, dove lo attiravano le biblioteche; il Mazzoni, presa la laurea in lettere a Pisa, andò a fare un anno di perfezionamento a Bologna, e l’impressione che riportò della Scuola del Carducci ebbe un’influenza grande nella sua vita di scrittore e d’insegnante. Anche per lui e pel Ferrari la poesia è quasi un di più; gli studi che più strettamente si attengono al loro insegnamento assorbendo la maggior parte della loro operosità; e il Mazzoni spendendo tutto sè stesso per la scuola, anzi per le due scuole alle quali attende. E l’uno e l’altro san poi trovare il tempo di accrescere il patrimonio letterario della nazione con pubblicazioni importanti.
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Come il Ferrari si unì al maestro per compiere il commento alle Rime del Petrarca, di cui il Carducci aveva dato fuori un saggio fino dal 1876, così un altro dei suoi scolari, Ugo Brilli, collaborò con lui alla compilazione delle Letture italiane per le scuole ginnasiali; perchè in tutta l’opera sua di scrittore e di insegnante il Carducci si inspirò sempre a quel concetto che riferii con le sue stesse parole in principio di questo capitolo; e niente gli parve conferir meglio all’attuazione di esso quanto il rafforzare e migliorare nelle scuole secondarie lo studio dei classici e tener desto e operante nei giovani il culto della patria. Perciò non gli parve ingloriosa fatica apparecchiare libri di lettura per i ginnasi; perciò accettò di dirigere una biblioteca scolastica di scrittori italiani, alla quale collaborarono amici e scolari suoi; perciò attese con amore negli ultimi anni ad una scelta di Letture del risorgimento italiano, alla quale attribuiva maggiore importanza, e della quale si compiaceva molto più che delle altre sue opere. Nè senza grande amarezza constatò che al nobile pensiero suo male rispondeva il pensiero del pubblico italiano.
Egli aveva pubblicato la prima serie delle Letture del risorgimento nel 1896: l’anno appresso, pubblicando la seconda, vi premetteva, fra le altre, queste parole: «Alcuno, forse benevolo, si compianse, come d’un segno dello scadimento dei tempi e dell’oscuramento degl’ingegni, di questo attendere d’un [395] poeta a scelte di storia. Grazie. Troppi versi ho io fatto, e troppo poco ne sono contento: vorrei avere adoperato meglio il mio tempo, e tutta la gloriola, se pur gloriola v’ha, del mettere insieme sillabe e rime abbandono volentieri per le ore di sollevamento morale e di umano perfezionamento che procura ai bennati la rivelazione d’un’anima grande, la narrazione d’un fatto sublime, l’esposizione di pensieri superiori al senso e all’immediatezza utile e pratica. Niente è sì esteticamente bello come la devozione e il sacrifizio d’un uomo alla libertà, alla patria, a un’idea; niun dramma parve a me sì commovente come il delirio di Camillo Cavour moribondo, niuna epopea sì vera e splendente come le battaglie di Calatafimi e Palermo, niuna lirica sì alta come il supplizio di Giuseppe Andreoli, di Tito Speri, di Pier Fortunato Calvi.»
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Il decennio fra il 1880 e il 1890 fu, come sappiamo, uno dei periodi più fecondi e felici della opera letteraria del Carducci; nel 1882 pubblicò le Nuove Odi Barbare, nel 1883 i sonetti Ça ira, nel 1883 e ’84 le tre serie di Confessioni e Battaglie e le Conversazioni critiche (edizione Sommaruga), nel 1884 lo scritto Dell’Inno La Risurrezione di Alessandro Manzoni e di San Paolino d’Aquileia e il discorso Per [396] un monumento a Virgilio in Pietole, nel 1887 le Rime nuove, nel 1888 i tre discorsi su L’opera di Dante, su Jaufré Rudel, su Lo Studio bolognese, nel 1889 il discorso La poesia e l’Italia nella quarta Crociata e le Terze Odi barbare, nel 1890 l’ode Piemonte. E come d’allora in poi il vigore del suo ingegno e l’operosità sua non accennarono mai a declinare, nè passò anno fin verso la fine del secolo ch’egli non pubblicasse nuovi scritti in poesia ed in prosa attestanti quella operosità e quel vigore, così l’ammirazione per lui andò sempre crescendo.
Pure chi volesse dal favore col quale, specie nell’ultimo ventennio, furono accolte le opere sue argomentare ch’egli come scrittore rappresentasse il tempo suo, s’ingannerebbe, secondo me, grandemente.
Dall’inno Al beato Giovanni della pace alle Rime di San Miniato, dalle poesie per Aspromonte e Mentana alle odi Per la commissione araldica, per Giovanni Cairoli, al Canto dell’Italia che va in Campidoglio, all’ode A proposito del processo Fadda, egli non fa che rampognare e vituperare i suoi cari compatrioti. E se con la poesia li rampogna e li vitupera, non li tratta meglio con la prosa. A parte gli scritti polemici (i quali pur mostrano che le idee dei suoi critici erano agli antipodi con le sue, e che perciò anche fuori della poesia egli non era l’uomo del suo tempo), basta rammentarsi ciò ch’egli scrisse contro i numeri unici, contro le arcadie della carità, contro [397] le conferenze, contro la monumentomania, contro le processioni, le commemorazioni, i banchetti patriottici, letterari, scientifici, tutte cose che rimarranno caratteristiche della età nostra, per persuadersi che sarebbe un controsenso chiamarlo rappresentante di quella età. Io lo direi piuttosto un giudice e censore di essa severo e spietato.
***
Egli fu studioso della storia come pochi. Lo studio della storia fu in lui una passione, che dai primi anni lo accompagnò per tutta la vita. La conoscenza piena, minuta, sicura, che, per effetto di tale studio appassionato e non mai interrotto, venne acquistando degli avvenimenti umani presso tutti i popoli in tutti i tempi, formò il substrato della sua vasta cultura, e si era, direi quasi, immedesimata coi suoi sentimenti e co’ suoi pensieri.
Con la storia e per la storia egli viveva nel passato, viveva in un mondo ideale, popolato di uomini forti, giusti, virtuosi, sinceri; e quando da cotesto mondo gli accadeva di scendere nel mondo reale e trovarsi a contatto con gli uomini del tempo suo, con gli uomini veri, si adirava di trovarli tanto diversi, e sfrenava contro di essi, sotto forma di periodi o di strofe, le freccie avvelenate dell’ira sua.
Si capisce da ciò come la prima accoglienza ai suoi scritti fosse naturalmente di avversione e di [398] repulsione. Ma dopo che la luce di quell’ingegno, sfolgorando in tutta la sua pienezza, apparve splendida e pura alle menti da prima incerte e restie, tutti cominciarono a poco a poco a comprendere che le ire, le bizze e le invettive dello scrittore movevano da un’idea superiore di giustizia e di moralità, e quell’avversione e quella repulsione cominciarono a poco a poco a cedere il luogo all’ammirazione e alla lode.
Se dopo la così detta evoluzione del poeta si levò qualche voce discorde intorno all’opera letteraria di lui, se qualcuno si provò a deprimere, in confronto delle poesie anteriori, le grandi odi storiche composte dal 1890 in poi, e qualcuno ad esaltarle eccessivamente proclamandole superiori alle prime, furono voci procedenti dalla passione e dalla politica, e perciò di nessun valore nel campo dell’arte, voci che il vento di un giorno bastò a disperdere e che oggi più nessuno ricorda.
Oggi che l’opera dello scrittore è compiuta, il consenso unanime della nazione ne riconosce l’alto valore e la consegna alla storia.
[399]
Non par vero che debba esser morto. — La malattia si era arrestata, ma le tracce di essa rimanevano. — Disperazione di non potere scrivere speditamente. — Lucidità della mente e difficoltà di esprimersi. — Severino Ferrari supplente al Carducci. — Lezioni all’Università. — Morte di Severino Ferrari. — Il Carducci in Toscana. — Edizione delle Opere: i vol. XV e XVI. — Saggio su la Canzone di Dante delle tre donne, dedicato a Luisa Zanichelli nelle sue nozze. — Lettera di dedica al padre di lei. — L’ultimo periodo dell’opera letteraria del Carducci. — Il Carducci chiede il riposo dall’insegnamento. — Ricompensa nazionale. — Saluto di commiato degli studenti. — Il volume delle Prose scelte. — Ritorno da Madesimo nel 1905. — Ultima lettera sconsolata. — Il telegramma al Secolo. — Condizioni gravissime del poeta. — Il premio Nobel. — La cerimonia della premiazione a Stocolma e a Bologna. — Il discorso del Barone De Bildt. — Morte del Poeta. — Il dolore di tutto il mondo civile. — Onoranze ufficiali. — Il dolore del popolo bolognese. — I funerali, e il corteo.
Io sperava non mi toccasse aggiungere un ultimo capitolo a queste Memorie, non mi toccasse mettere la parola fine alla vita dell’amico mio.
Scrivo con l’animo ancora turbato dalla notizia, non inattesa, e tuttavia quasi incredibile, che quella [400] nobile vita si è spenta. Certe anime privilegiate, a chi ha avuto la fortuna di vivere per lungo tempo in comunione di pensieri e di sentimenti con esse, parrebbe dovessero essere immuni dalla legge che condanna i viventi tutti a morire.
Si dice: — Morirono Dante, lo Shakespeare, il Goethe, Victor Hugo: perchè non avrebbe dovuto morire il Carducci? — Anche: — La vita in questi ultimi due anni era divenuta a lui un supplizio; e la morte è stata una liberazione. —
È vero: ma quando l’uomo che abbiamo amato e venerato fino ad ieri, oggi ci dicono che è scomparso dal mondo, che domani e per tutti i giorni avvenire non lo vedremo mai più, mai più; questo ci pare un fatto anormale, mostruoso, contrario alle idee di bontà e di giustizia, un fatto che sconvolge l’ordine morale delle cose.
I grandi trapassati, per quanto grandi e degni d’ammirazione e d’amore, sono altra cosa dai granduomini coi quali abbiamo vissuto insieme, che abbiamo amati e ci hanno amato; e confondere gli uni con gli altri non è possibile. Gli uni, quando noi venimmo al mondo, appartenevano già a un altro mondo, al mondo delle ombre; gli altri sono parte del nostro mondo, sono parte di noi stessi; e quando ci vengono tolti, è come se ci venisse strappata una parte dell’anima nostra.
[401]
***
Dopo le cure che si ebbe ad Ozano nella villa del prof. Gandino, e a Firenze in casa del dott. Billi, il Carducci si era alquanto riavuto del disturbo che lo colpì il 25 settembre 1899; e si disponeva a tornare a Bologna a riprendere la sua vita e le sue occupazioni ordinarie. Pareva ristabilito sufficientemente in salute: ma se la malattia si era arrestata, le tracce e i germi di essa rimanevano nel corpo dell’uomo. La macchina era forte; ma i guasti interni, prodotti in essa dal primo colpo, non si potevano interamente eliminare: bisognava contentarsi che non si allargassero.
Il Carducci tornò a Bologna, ma non era più lui; si sentiva come dimezzato. Non camminava più franco; parlava con qualche difficoltà; era tardo a pensare. Ciò che più d’ogni altra cosa lo affliggeva era quel po’ di paralisi al braccio e alla mano destra, che gl’impediva di scrivere correntemente. Egli, che pure aveva una bella e ben formata calligrafia, quando gittava in carta i primi abbozzi delle sue composizioni, o scriveva lettere agli amici, faceva correre la penna su la carta con tale rapidità, che senza molta pratica e molta fatica non si decifrano certi suoi manoscritti. Ora è facile immaginare quanto gli dolesse e lo turbasse il non avere più pronta e obbediente la mano a tradurre speditamente su la carta il suo pensiero. Il 20 ottobre, [402] dandomi sue notizie, mi scriveva, come vedemmo: «Per me andrebbe benissimo se potessi riacquistare in breve l’uso della mano.» Pur troppo non potè; per quanto avesse fatto a Firenze, sotto la direzione della signora Marianna Giarrè-Billi, lunghi esercizi di calligrafia, in grazia dei quali era riuscito a scrivere qualche cosa, ma con istento e fatica.
A Bologna sulla fine del febbraio 1901 volle fare un’altra prova: pregò lo Zanichelli di procurargli alcune penne d’oca, nella speranza che con esse lo scrivere gli sarebbe stato più facile. Lo Zanichelli glie le procurò, e il Carducci appena avutele si ritirò nella stanza attigua alla libreria Zanichelli, sedette alla scrivania, e scrisse con carattere un po’ stentato, ma chiarissimo, questi versi:
Penna d’oca.
Voglio scriver presto come
A’ miei be’ giorni.
Vola come il pensier, mia buona penna.
Non ricordare il tardo augel palustre;
Vola là dove il mio pensier t’accenna,
O bellissima pennato penna illustre,
Vola, vola per Dio, che non t’aggiunga
La tua sorella del lavoro industre.
Purtroppo la prova, per quanto riuscita in apparenza, non ebbe l’effetto desiderato. Tanto è vero, che il 24 dicembre 1901 il Carducci mi scriveva: «Questa maledizione di dover dettare, o non potere [403] scrivere se non lentamente col lapis, mi dispera e toglie energia ed efficacia alle mie lettere, nelle quali io era consueto versarmi intero e franco.»
Ad un uomo, la cui attività stava tutta nel pensiero, e la vita nel bisogno di comunicare altrui il pensiero suo, impedire il libero e spedito funzionamento degli organi che servono alla trasmissione di esso pensiero con la parola scritta o parlata, fu una vera crudeltà.
La sua mente, se anche divenuta più tarda a pensare, era rimasta viva e lucidissima. Onde egli sentiva tanto più acuto il dolore che alla lucidezza della mente non rispondesse più la facilità della espressione. Questo fu durante gli anni della infermità il suo massimo tormento.
Gli stava in mente che avrebbe avuto da dire ancora tante cose alla gioventù che si affollava nella sua scuola, in quella scuola che era stata per tanti anni il suo regno; e sapeva che gli scolari aspettavano, come una grande fortuna, di riudire la sua voce. Il suo primo ripresentarsi ad essi dovette essere per lui una grande sodisfazione; ma la sodisfazione non fu senza un po’ d’inquietudine, poichè non si sentiva padrone sicuro de’ suoi organi vocali. Se quelle prime lezioni furono una festa pei suoi scolari, per lui furono uno sforzo, dopo il quale si trovava affaticato e scontento.
Fino dal 1893, dovendo spesso recarsi a Roma per il Consiglio superiore e per il Senato, il Carducci [404] chiese al Ministero un supplente, affinchè dalle sue assenze non dovesse venir danno all’insegnamento. Il Ministero affidò il delicato ed onorevole incarico alla persona designata dal Carducci stesso, a Severino Ferrari, professore all’Istituto femminile superiore di Firenze. E il buono e bravo Ferrari accettò il grave ufficio, correndo tutte le settimane da Firenze a Bologna, da Bologna a Firenze, per attendere alla cattedra del maestro e alla sua. Ma dopo che il Carducci fu colpito dal male, si capì che il doppio ufficio pel Ferrari era troppo gravoso, e lo si nominò professore ordinario di stilistica all’Università, affinchè potesse fare le lezioni di lettere italiane alle quali non bastava il Carducci.
Nei due anni dal 1899 al 1901 il Carducci potè fare dodici lezioni all’anno; nei successivi ne fece dalle quattro alle cinque per anno. Nelle lezioni dal 1899 al 1903 trattò delle poesie del Leopardi (l’Ultimo canto di Saffo e l’Inno ai patriarchi); dello svolgersi dell’ode dalla prima età della lirica nazionale fino al Parini; del Parini principiante; delle Odi di G. Parini; e della genesi della Divina Commedia nella Vita nuova. Oltre queste lezioni di letteratura italiana, ne fece nel 1898-99 quattro di letteratura provenzale, leggendo e commentando il poemetto: L’infanzia di Gesù. Le ultime quattro lezioni del 1904 ebbero per argomento la Canzone di Dante delle tre donne; sulla quale scrisse poi il saggio che dedicò alla figlia dello Zanichelli per le sue nozze.
[405]
La cattedra di lettere italiane a Bologna fu disgraziata anche nel supplente. Nell’ottobre del 1902 il Ferrari ammalò. Dopo alcuni mesi parve guarito e riprese le lezioni; ma il male ricomparve indi a non molto con maggior gravità, ed egli dovè di nuovo lasciarle. Il 18 gennaio del 1905 fu messo in una casa di salute, e il 24 dicembre dello stesso anno morì.
La malattia e la morte del Ferrari furono pel Carducci un dolore acutissimo, del quale la sua salute dovè naturalmente risentirsi. Mentre il Ferrari era malato in Bologna, il Carducci volle andarlo a trovare, benchè dovesse salire ad un secondo piano, il cui accesso non era molto comodo. Ve lo accompagnò l’avv. Antonio Resta, il quale mi raccontava che l’impresa di quella ascensione fu abbastanza difficile e non senza qualche pericolo.
Per comprendere qual dolore fosse pel Carducci la morte del Ferrari, basta sapere ch’egli lo amava come un figliuolo. Che cosa pensasse dell’ingegno e della poesia di lui, giudicata appena mediocre dalla critica prosuntuosa di un facitore di versi mediocri, lo dicono queste poche righe di lettera: «Severino, caro amico e figlio, i tuoi sonetti mi hanno più di quattro o sei volte toccato fino alle lacrime. Tu hai l’anima buona, e profonda l’intuizione della poesia.»
Quando il 31 gennaio 1901 il Ferrari fece una lettura dantesca in Firenze ad Orsanmichele, il [406] Carducci volle andare a sentirla. Assistevano a quella lettura anche il Mazzoni e mia figlia. Quando, finita la lettura, il pubblico si avviava per uscire, fu da qualcuno notata la presenza del poeta. Un mormorio corse per la sala, gli occhi di tutti si rivolsero verso di lui, e ad un tratto scoppiò come per incanto una immensa ovazione. Il Carducci, che non ebbe mai paura dei fischi e degli oltraggi (come provò nella pazza e feroce dimostrazione degli studenti di Bologna nel 1891), sentì sempre un bisogno istintivo di sottrarsi alle acclamazioni e agli applausi. Sconcertato da quella ovazione, ricorse per aiuto a mia figlia, che gli stava lì presso, la prese a braccio, e raccomandandosi che lo salvasse, scese con lei le scale, e con lei si rifugiò nella chiesa d’Orsanmichele. È uno di quei tratti che dipingono l’uomo; e del Carducci se ne potrebbero raccontare molti di somiglianti.
***
Nei primi anni della malattia il Carducci tornò più volte in Toscana, anche per consiglio dei medici. Tra la fine di settembre e l’ottobre del 1900 fu per circa quindici giorni a Pilarciano presso Vicchio nella villa dell’amico dott. Luigi Billi: vi tornò per circa venti giorni nel settembre e ottobre del 1902. Nello stesso anno era stato a Firenze in casa del Billi nei mesi di marzo e d’aprile.
[407]
A Bologna la maggiore operosità del Carducci si raccolse intorno alla edizione delle sue opere. In quella edizione si trattava non soltanto di raccogliere, ordinare e correggere gli scritti già pubblicati, ma di compierne e rifonderne alcuni, e di aggiungerne dei nuovi. L’edizione si era arrestata nel 1898 al volume decimo: negli anni 1902 e 1903 il Carducci, come dissi nel cap. X, mandò fuori altri tre volumi, l’XI, il XII e il XIII; l’ultimo dei quali contenente la prima parte degli Studi su Giuseppe Parini, sotto il titolo Il Parini minore. Il volume XIV, doveva contenere la seconda parte di tali studi, sotto il titolo Il Parini maggiore. La stampa di esso era avviata e condotta molto innanzi, ma rimase sospesa per alcuni scritti che l’autore non aveva compiuti a suo modo. Uscirono intanto nel 1905 i volumi XV e XVI, portanti l’annunzio che entro l’anno stesso uscirebbe anche il XIV, il quale si attende in questi giorni, postumo.
I due volumi usciti nel 1905 sono fra i più importanti della raccolta. Il XV comprende gli Studi su Lodovico Ariosto e Torquato Tasso; il XVI, intitolato Poesia e Storia, contiene uno scritto su la Canzone di Dante «Tre donne intorno al cor mi son venute», la prefazione ai Rerum italicarum scriptores del Muratori, la prefazione alle Letture del risorgimento italiano, gli scritti per le tre Canzoni patriotiche del Leopardi, e Degli spiriti e delle forme nella poesia del Leopardi, lo studio Dello svolgimento [408] dell’ode in Italia pubblicato, come già fu detto, nei fascicoli 1º e 16 gennaio 1902 della Nuova Antologia, e la prefazione alla raccoltina di poesie intitolata Primavera e fiore della lirica italiana, pubblicata dal Sansoni nel 1903.
Il primo studio del vol. XV è ora intitolato La gioventù di Lodovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara. Nella prima edizione questa operetta, come il Carducci la chiama, aveva per titolo, Delle poesie latine edite ed inedite di L. A.; il qual titolo fu in una ristampa del 1881 modificato così: La gioventù di L. A. e le sue poesie latine. Accogliendo questa operetta nel volume XV delle Opere, l’autore l’ha accresciuta di varii capitoli e in tutti corretta, dove non anche rifusa. Ciò spiega la modificazione ultima del titolo, e dà a tutto il lavoro un’aria di novità e di maggior compitezza. Segue all’operetta lo splendido Saggio su l’Orlando Furioso, pubblicato la prima volta nel 1881 dal Treves come prefazione all’Orlando Furioso illustrato del Doré, e ristampato poi nel volume La vita italiana nel Cinquecento, edito dallo stesso Treves nel 1893. I saggi sul Tasso che chiudono il volume trattano dei Poemi minori, dell’Aminta e del Torrismondo. Il primo e il terzo furono pubblicati nella Nuova Antologia (fascicolo 1º agosto 1891 e 1º gennaio 1894) e nel volume III delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, a cura di A. Solerti (Bologna, Zanichelli, 1895); gli altri su l’Aminta vennero in luce nella Nuova Antologia [409] (fascicoli 1º luglio, 15 agosto e 1º settembre 1894 e 1º gennaio 1895), ed uno di essi, il terzo, anche in fronte al Teatro di Torquato Tasso, a cura di A. Solerti (Bologna, Zanichelli, 1895); e furono poi ristampati tutti con molte e importanti correzioni e giunte nel volume II della Biblioteca critica della letteratura italiana diretta da Francesco Torraca (Firenze, G. C. Sansoni editore, 1896), onde sono stati riprodotti con qualche lieve ritocco.[84]
Lo scritto su la Canzone di Dante, che apre il vol. XVI, è interamente nuovo, e fu, come è detto, pubblicato nel 1904 per le nozze di Luisa Zanichelli, con innanzi questa lettera al padre di lei.
«A Cesare Zanichelli: Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem. Siami lecito, se non è superbo, ridire il voto del pastore virgiliano nell’ultima egloga, qui su ’l principio di questo che è l’ultimo certo de’ miei lavori danteschi: ultimo, perchè, in quel poco di vivere che mi avanza, raccoglierò forse ancora e compiendo ripasserò quei troppi scritti che nella foga degli anni mi lasciai trasportare a buttar giù, ma pensarne e ordirne de’ nuovi non è più di stagione. Sono oggimai quaranta anni, o Cesare, ch’io col discorso delle Rime di Dante posi il piè fermo nel campo dello scrivere italiano; ed ora stanco ne lo ritraggo con questo [410] saggio su la più nobile canzone di Dante: da lui cominciai, con lui finisco. Quanti pensieri, quante speranze, quanti propositi, quanta parte del nostro piccolo mondo, ci si è incalzata sotto gli occhi, ora rapita nell’alto dalle idee, ora sommersa nelle cure in questo non lungo spazio della vita umana che sono quaranta anni. Speranza e pensiero, e ora dolce proposito di vita, a te la figliuola primogenita tua: con la quale mi è caro a ricordare che nacque e crebbe e fiorì in atto la divisata stampa delle così dette opere mie di letteratura. Crescevano i volumi della stampa, crescevano gli anni della Luisa: quelli già esuberanti del rigoglio giovanile accennano ora a posare e declinare; questi di florida maturità si rallegrano e prosperano. E così duri ella e séguiti fiorendo lunga stagione in compagnia dell’uomo degno, dottore Francesco Mazzoni, a cui tu hai commesso la sua gioventù. E a te in lei e da lei sia dato raccogliere i premi della modesta operosa bene spesa tua vita: dalla quale io come ebbi molte prove di amicizia così ti voglio lasciare un segno di gratitudine in queste carte, che dal soggetto almeno tengono un abito gentile, che te le farà, spero, esser care. — Madesimo su lo Spluga, 14 agosto 1904. — Giosue Carducci.»
Questa lettera è un modello di prosa limpida e schietta, la quale attesta che la mente dell’autore, dopo cinque anni ch’egli era stato còlto dal male, si manteneva lucida e viva, come ne’ tempi [411] migliori, e piegavasi agile ad esprimere tutte le delicatezze dell’affetto e del sentimento. Ma è importante anche per altre ragioni; perchè ci fa fede che il grande scrittore, il quale cominciò l’opera sua letteraria con Dante, con Dante volle finire; e perchè è una nobile testimonianza della amicizia che legò lo scrittore all’editore. In tanti anni non sorse mai l’idea dell’interesse a turbare le loro relazioni; la fiducia dell’uno nell’altro fu sempre reciproca e piena. Mentre tutti si accapigliano per il vile denaro, è uno spettacolo consolante questo di un grande scrittore che alla vigilia di congedarsi dal mondo sente il bisogno di lasciare un segno di gratitudine al suo editore per le molte prove di amicizia avute da lui. Se per opera d’altri avvenne poi qualche cosa di diverso, ciò non tocca il Carducci, la cui anima buona è tutta nella sua lettera.
Il saggio su la Canzone delle tre donne e tutti gli altri scritti raccolti con esso nel volume XVI rappresentano nel complesso la parte maggiore dell’opera letteraria del Carducci nell’ultimo periodo della sua vita. Il periodo comincia splendidamente con quella mirabile sintesi della Storia del risorgimento italiano, ch’è la prefazione alle Letture, scritta nel 1895 e pubblicata nel 1896, nella quale c’è dentro tutta la vita e tutta l’anima del poeta; seguono nel 1898 gli scritti su le poesie del Leopardi, che sono quanto di più luminoso sia stato scritto ad illustrare la terribilità tragica della vita e dell’arte [412] del recanatese; succede, nel 1899 e nel 1900, la prefazione al Muratori, monumento singolare di dottrina, e forse l’occasione più prossima della malattia che turbò gli ultimi anni di vita dell’autore; chiudono il periodo gli scritti su lo svolgimento dell’ode in Italia, del 1902, e su la Canzone di Dante, del 1904. A questi è da aggiungere, per ragione di tempo, lo scritto su l’ode di Giuseppe Parini, La caduta, che fu pubblicato nel fascicolo di marzo 1904 della Nuova Antologia, e che farà parte del vol. XIV delle Opere.
Il Carducci dice nella lettera allo Zanichelli che raccoglierà forse ancora nelle Opere, ripassandoli e correggendoli, quei troppi scritti da lui buttati giù nella foga degli anni: ma «pensarne e ordirne di nuovi, aggiunge, non è più di stagione.» Con i due scritti del 1904 egli sentiva che il tempo della sua produzione letteraria era finito.
Quello della creazione poetica era finito anche prima, nel 1898. Egli lo aveva sentito e significato con lo stornello che chiude il volumetto di Rime e ritmi; scrivendo il quale il poeta doveva essere, come dissi, sotto il peso di un triste presentimento. Prima ancora che il male lo colpisse, una visione interna lo aveva avvertito che la poesia non sarebbe andata più a lui.
***
Se gli scritti composti nel 1904 mostrano che l’attività mentale del Carducci resisteva ancora alla [413] infermità del corpo, ciò non vuol dire che nei cinque anni passati l’infermità fosse stata debellata, e nemmeno attenuata. Al contrario. L’attività mentale e la volontà indomabile combattevano una specie di lotta con la infermità. E nella lotta il lavoro del cervello consumava lentissimamente la resistenza delle forze fisiche. Il medico, che vigilava attento le condizioni del malato, dovè accorgersi di ciò, e riuscì a persuaderlo della necessità di liberarsi da una parte del suo lavoro, da quella che più lo preoccupava, cioè le lezioni all’Università. Fu un gran dolore per il Carducci separarsi per sempre dai suoi scolari; ma ne sentì il dovere, e presentò nel dicembre del 1904 al Ministero la domanda di riposo. Era Ministro l’onorevole Orlando, il quale con un disegno di legge, che gli fa onore, propose al Parlamento una pensione annua di Lire 12,000 per il Carducci, quale ricompensa nazionale, come fu data ad Alessandro Manzoni.
Ferdinando Martini, relatore di quel disegno di legge, lo presentò alla Camera con queste parole:
«Onorevoli Colleghi. — Giosue Carducci, cui gli anni e le illustri fatiche affralirono il corpo, se non poterono velare la luce del grande intelletto, abbandona la cattedra, onde per quaranta anni profuse i tesori della dottrina, educò le menti e le coscienze all’austerità degli studi e all’altero amore della patria.
»Il Governo del Re propone che si assegni al Carducci una rendita vitalizia di dodicimila lire e [414] sia così consacrata per opera del Parlamento la riconoscenza del popolo italiano.
»Non osiamo, onorevoli Colleghi, esortarvi a consentire in quella proposta, accolta dagli uffici tutti non pure con favore, ma con plauso: sentiamo che ogni incitamento sarebbe irriverente. La deliberazione del Parlamento assicuri al gran vecchio tranquilli riposi, avvalori l’augurio e la speranza di nuove opere belle; e il glorioso poeta della Italia rigenerata, il forte e fidente vaticinatore de’ suoi alti destini, il benigno invocatore di più liete sorti alle umane genti affaticate ascolti nell’omaggio dell’Assemblea Nazionale la voce ammirata e benedicente delle generazioni lontane. Ferdinando Martini.»
Superfluo dire che la Camera approvò.
Una volta tanto il Parlamento e il Ministero avevano saputo fare cosa degna. Io me ne rallegrai col Carducci; il quale mi rispose: «Chi ce lo avrebbe detto quando nella nostra gioventù eravamo segno alli scherni fiorentineschi? Pure io vorrei tornare a que’ giorni. Eravamo molto più allegri e più confidenti. Io sto così così: ma non posso venire a Roma, come pure desidererei. Ahimè!»
L’omaggio dell’assemblea nazionale, nel quale il Carducci dovè sentire, come ben disse il Martini, la voce ammirata e benedicente delle generazioni lontane, confortò certo il poeta; ma egli sentiva che si andavano spezzando ad uno ad uno i legami onde era attaccato alla vita; e naturalmente preferiva [415] agli omaggi, ch’essa gli recava in questa tarda ora, le battaglie e le tempeste della sua gioventù. Nonostante i suoi crucci e le sue ire, nessuno amò e apprezzò la vita più del Carducci; nessuno ebbe di essa un ideale più alto e più umano. E appunto perchè sentiva la bellezza e la bontà della vita, nessuno aborrì più di lui dal pensiero della morte.
Quando si seppe all’Università che il Carducci si ritirava dall’insegnamento, gli studenti vollero con pensiero affettuoso portargli il loro reverente saluto di commiato. Andarono in commissione alla casa del poeta, il quale, avvisato, li aspettava nel suo studio, e li accolse amorevolmente; li trattenne a lungo; mostrò loro a parte a parte i tesori della sua biblioteca; e quando se ne andarono, li accompagnò fino alle scale, lasciandoli pieni di ammirazione e di entusiasmo.
***
Negli anni della malattia il Carducci aveva fatto a Bologna la sua solita vita. La mattina stava in casa a lavorare, assistito dall’amico che gli faceva da segretario, dottore Alberto Bacchi Della Lega; andava tutti i giorni a passare un’ora alla libreria Zanichelli, dove leggeva i giornali, e vedeva qualche intimo, poi tornava a casa; e dopo il pranzo, se il tempo lo permetteva, usciva di nuovo a fare due passi, accompagnato sempre da qualcuno.
[416]
L’ultimo di questi anni pieno ancora di operosità fu per il Carducci il 1904. Oltre i lavori per le lezioni e per la edizione delle Opere, dei quali ho parlato, attese a mettere insieme, per consiglio del suo editore Zanichelli, una larga scelta delle sue Prose in un volume, da fare riscontro al volume delle Poesie, e la pubblicò con questa breve prefazione.
«La buona riuscita della stampa di tutte le mie poesie in solo un volume incuorò all’editore il pensiero di tentare la medesima prova con gli scritti miei di prosa: sol che questi e per la quantità e per la qualità non si prestavano a esser raccolti tutti in un volume agevole; e bisognò per amore o per forza venire a una scelta. Nel qual bisogno l’animo mio fu di scegliere quelli soltanto che potessero significare qualche cosa nella storia letteraria o politica, mentre più benigno e più largo procedeva il criterio dell’editore. Nella scelta definitiva mi giovò molto il parere e il giudizio del mio amico Alberto Dallolio, il quale anche, bontà sua, si incaricò di condurre in porto tutta l’edizione. E questa, per la esattezza e la diligenza arguta di cui il già Sindaco di Bologna volle dar prova pure in siffatta materia inferiore della letteratura, è riuscita accuratissima. Io, mosso dall’esempio dell’amore che altri metteva nelle cose mie, diedi qualche ritocco alla lingua e fermai al suo posto la disposizione cronologica delle prose. Le quali così [417] vengono ad affrontare nella nuova veste la pazienza del pubblico. — 25 ottobre 1904.»
Il volume delle Prose ebbe non minor fortuna di quello delle Poesie, e giovò insieme con esso a far conoscere più largamente, al di fuori della cerchia dei puri letterati e degli studiosi, l’ingegno e l’opera del Carducci. La sua fama crebbe in questi ultimi anni meravigliosamente, tanto che il nome di lui diventò popolare. Il giudizio della posterità, che riconosce e consacra gl’immortali, cominciò per lui mentre egli era ancora vivo.
***
Dopo il 1901 il Carducci nella estate tornò tutti gli anni a Madesimo, fino al 1905. Ma, mentre negli anni innanzi ci s’era trovato abbastanza bene, nel 1905 vi ebbe dei disturbi, che lo consigliarono a tornare a Bologna prima del tempo stabilito. L’11 agosto era ancora a Madesimo, e mi scrisse di là una lettera, che mi turbò grandemente.
Io gli aveva mandato la mia Vita del Leopardi, non pensando affatto che avesse agio di leggerla, tanto meno di scrivermene. Invece il 12 agosto ricevei una lettera di lui, con la quale mi diceva d’aver letto il libro in due giorni; e soggiungeva: «La seconda parte la lessi in una notte insonne, e finii la mesta lettura la mattina di una bella primavera di maggio;
E la dolcezza ancor dentro mi suona.
[418]
»E voglio tornare a leggerla quando il mio spirito si trovi meglio disposto. Ora tanto del fisico come del morale sono proprio affranto: la macchina è forte e potente, ma la malattia ha ripetuto i colpi e sempre li rinnova. Sarà quel che Dio vuole.
»Auguro a te con tutto il cuore miglior condizione di vita che non sia la mia. Ripenso con dolcissimo desiderio a te ed alla nostra gioventù.
»Credevo d’incontrare il mio fine sereno e senza contrasti; ma, ahimè! la fine è e più vuol essere amara per me e quelli che sono parte migliore di me. Ricordami ai tuoi figli e a tua moglie con moltissimo affetto, e tu ancora ricordati del tuo povero ma fedele amico. Dire che nulla mi manca, che gli amici e i buoni han cercato di circondare d’ogni cura la mia vecchiezza. Ma mi sento mancare il meglio. Ahimè!»
Questa lettera mi parve come l’ultimo addio dell’amico.
***
Tornato a Bologna, e rimessosi alquanto dei disturbi avuti a Madesimo, si ricordò d’un suo lavoro che rimaneva ancora incompiuto, il volume della Antica lirica italiana, cominciato già da parecchi anni per la Ditta Sansoni. Turbato da questo ricordo, scrisse a Guido Mazzoni pregandolo di aiutarlo a finire quel lavoro, e di andare a Bologna per prendere [419] accordi sul modo. Il Mazzoni, che villeggiava a Bardalone nell’Appennino pistoiese, avuta la lettera del Carducci, ch’egli dice straziante, andò il 9 settembre a Bologna; e andarono con lui mia figlia Nella e mio figlio Piero, i quali desideravano rivedere e salutare l’amico nostro, che da qualche anno non vedevano più.
Il Carducci, il quale voleva un gran bene a tutti i miei figliuoli, particolarmente alla Nella, fu molto contento di rivedere lei e Piero, e fece loro grandissima festa. Poi parlò col Mazzoni del lavoro pel quale lo aveva chiamato, e del quale gli aveva già parlato e scritto altre volte. Il Mazzoni, sapendo di che cosa trattavasi, non durò gran fatica a indovinare i pensieri e i desiderii del Carducci, anche a traverso le sue smozzicate parole. In breve si intesero; e il Mazzoni, tornato a Firenze, riprese il lavoro rimasto interrotto, lo compì, scrisse una breve prefazione in nome del Carducci, che la approvò nelle bozze e la firmò come sua; e così il volume potè uscir fuori in tempo che il maestro lo vedesse, e potesse consolarsi di averlo, almeno a quel modo, compiuto. L’Antica lirica italiana (Canzonette, canzoni, sonetti dei secoli XIII-XV) è un volume di 490 pagine in 8º a doppia colonna; Firenze, G. C. Sansoni, 1907.
Quando il Mazzoni e i miei figliuoli congedatisi, dopo una non breve e commovente visita, erano già sulle mosse per andarsene, il Carducci, sentendo [420] che il Mazzoni doveva recarsi a Trieste per alcune conferenze, li richiamò indietro per far vedere loro la medaglia che i Triestini coniarono per lui, e si commosse grandemente ai dolci ricordi che il nome di Trieste gli suscitava. E il Mazzoni, andato a Trieste nell’ottobre, commosse a sua volta i Triestini, portando loro il saluto dell’infermo poeta.
Mio figlio mi scrisse poi da Bardatone, informandomi delle condizioni di salute del Carducci, le quali rimanevano sempre gravi e penose. Non camminava più se non sorretto: il parlare gli si era fatto sempre più difficile, e s’inquietava quando non gli riusciva di esprimersi.
Passati alcuni giorni, il Carducci andò per qualche tempo in campagna a Lizzano, nella villa del conte Pasolini Zanelli; ed ivi parve che migliorasse. Dico parve, perchè nel fatto il male era andato lentissimamente proseguendo nella trista opera sua. Rientrò nel novembre a Bologna.
Si era intanto sparsa nei giornali la novella che intorno a lui si stava organizzando, d’intesa col Cardinale Svampa, una congiura di clericali e clericaleggianti, per preparare il poeta di Satana a rientrare nell’ora suprema in grembo alla chiesa. La novella arrivò fino a lui. Ne fu seccato, indignato: e il 30 novembre mandò al giornale Il Secolo questo telegramma: «Agli scrittori del Secolo. Nè preci di cardinali, nè comizi di popolo. Io sono qual fui nel 1867; e tale aspetto immutato e imperturbato [421] la grande ora. Salute. Giosue Carducci.» Io non so se nella novella ci fosse niente di vero: se c’era, bastò questa dichiarazione del poeta a sfatare la congiura.
Oramai il Carducci non usciva più di casa se non in carrozza, accompagnato dal cameriere, che aveva cura della sua persona e non lo abbandonava mai. Si faceva accompagnare quasi ogni giorno fino alla libreria Zanichelli, ma non scendeva di carrozza. Si tratteneva alcuni istanti dinanzi alla libreria prendendo il caffè, mentre Cesare Zanichelli stava allo sportello, o si sedeva nella carrozza accanto a lui. Nel maggio del 1906 andò in campagna a Barbianello, una collina a pochi passi dalla città, poi tornò a Lizzano, e nell’ottobre a Bologna. Il 9 settembre ebbi queste notizie di lui da Ugo Brilli. «Che le debbo dire del Carducci? La sua presente infelicità mi par grande quanto la sua gloria. Non parla quasi affatto più; non può tracciar più nè meno quella specie di ghirigoro che era la sua firma ultima. Lo depongono di peso dal letto su la poltrona, e su la poltrona lo trasportano a braccio — in due uomini — da luogo a luogo. Di su la poltrona lo mettono ne la carrozza: non può andare che di passo, e poichè camminando scivola un po’ in giù di sul sedile, bisogna la carrozza si fermi, scenda il servitore di cassetta, abbassi il mantice, e di dietro tiri su — di qua e di là per le ascelle — per appoggiarlo allo schienale, il povero paziente. Al [422] quale pare si rattrappiscano e rendano a poco a poco inerti anche le dita.
»In viso è un po’ scarno, ma gli occhi pieni di vita, di anima, di risolutezza. È nervoso! villeggia a Barbianello..... In un quartiere accanto al suo villeggia il dott. Boschi, suo medico curante. Mi diceva il Boschi che venerdì passato gittò in terra non so che piatti, e che ci bisognò la pazienza e autorità sua per abbonirlo.....
»Sono qui da dieci giorni, e l’ho veduto due volte. Potrei andar sempre, ma uno ci si trova un po’ confuso. Non è quasi possibile discorrergli, poichè soffre di non poter rispondere.»
Dopo il ritorno a Bologna nell’ottobre, il Carducci cessò di andare alla libreria Zanichelli. La sua vita oramai era finita. Quel po’ che glie ne restava era uno strazio supremo, contro il quale egli talora si ribellava, dando in escandescenze, come quella che fu calmata a Barbianello dal dott. Boschi.
***
Pare un’ironia del destino che fossero serbate al grande uomo le maggiori sodisfazioni, quando egli non era oramai altro che l’ombra di sè stesso.
L’Accademia di Svezia, nel conferimento dei premi Nobel per l’anno 1906, assegnò quello della letteratura al Carducci. Il 10 dicembre ebbe luogo a Stocolma la solenne cerimonia per la consegna [423] dei premi; alla quale il Carducci non potè per le condizioni della sua salute intervenire. Il premio di lui avrebbe dovuto, secondo le regole di prammatica, esser consegnato al rappresentante diplomatico dell’Italia; ma il Re Oscar, per attestare l’ammirazione sua e della Svezia verso il poeta della Nazione italiana, volle, con gentile e nobilissimo pensiero, incaricare il rappresentante del suo paese in Italia, Barone De Bildt, di recarsi a Bologna a consegnare al Carducci stesso il premio da lui vinto. Così nel giorno medesimo in cui si distribuivano a Stocolma nella grande sala dell’Accademia reale di musica i premi Nobel ai vincitori, una più modesta ma non meno interessante e significativa cerimonia, aveva luogo a Bologna nell’umile e glorioso studio del Carducci, dove il Barone De Bildt consegnava al poeta il suo premio.
Alla cerimonia di Stocolma assistevano il Re Oscar, i principi e le principesse reali con il loro seguito, il corpo diplomatico, i ministri svedesi, la famiglia Nobel, i rappresentanti delle Università e degli Istituti superiori della Svezia.
Alla cerimonia di Bologna assistevano la moglie del poeta, le figlie, i generi, i nipoti e il fratello di lui, il Prefetto, il Pro-Sindaco, il Rettore della Università, l’on. Malvezzi, e pochi amici.
Re Oscar aveva mandato al Barone De Bildt questo telegramma: «Vogliate significare a Giosue Carducci le mie più fervide e sincere congratulazioni [424] in occasione del premio che egli ha così ben meritato.»
L’elogio del Carducci fu letto nella cerimonia di Stocolma dal Segretario perpetuo dell’Accademia svedese, dottore Af Vocsen, il quale esaltò il contenuto ideale della poesia carducciana. Nella cerimonia bolognese il Barone De Bildt lesse in italiano un discorso nobile ed alto, che fu ascoltato dal poeta con grande attenzione.
Dopo avere accennato alla cerimonia di Stocolma e all’incarico da lui avuto, disse: «Nell’eseguire questa a me ben grata missione, non intendo tessere nessun panegirico, ben sapendo che la modestissima mia voce nulla può aggiungere alla vostra gloria, e che presso di voi «i pappagalli lusingatori» non sono stati mai i benvenuti. Vengo semplicemente a dirvi perchè vi abbiamo prescelto e perchè crediamo e sappiamo anco in questo nostro giudizio consenzienti quanti nel mondo civile onorano l’arte e l’ingegno.
»Il testamento di Nobel prescrive che il premio di letteratura debba essere conferito a quello fra gli scrittori moderni che abbia compiuto l’opera la più grande e la più bella in senso idealistico, e tutta l’opera vostra, illustre maestro, è improntata al culto dei più alti ideali che sono sulla terra, gli ideali della patria, della libertà e della giustizia. È l’amor di patria che vi ha ispirato fin dalla vostra prima giovinezza; della patria, come l’ha fatta ricca [425] di bellezze la natura; della patria, come la sognarono e la fecero i forti antenati; della patria, come la conquistarono e la riedificarono i vostri contemporanei con le loro battaglie e vittorie, le loro sofferenze e le lotte, i loro martiri e trionfi. È sempre la patria che domina il vostro pensiero, sia che cantiate le gesta gloriose dei suoi eroi delle antiche repubbliche, sia che vi passi davanti agli occhi il dolce sorriso della prima regina d’Italia.
»E quando la patria è l’Italia, non va disgiunto dall’amor di patria l’amor di libertà. Freme nelle vostre Odi, riempie, portato dai virili accenti della vostra lira, il cuore d’un popolo, passa i monti ed i mari, sorge alla vostra invocazione come genio potente all’invito del mago, ed aleggia sopra il mondo battagliero ed invitto. Questa è opera vostra, della vostra anima così romanamente forte, così italianamente gentile.»
Il discorso segue con un accenno agl’ideali di giustizia e di religione, e conclude dicendo:
«La severità morale delle vostre liriche, la candida purezza nella quale sorge il vostro canto verso le alte cime, tutta l’austera semplicità della vostra vita sono pregi elevatissimi, davanti ai quali c’inchiniamo tutti, a qualunque religione e partito noi apparteniamo, sono doni di Dio che, sotto qualunque forma apparisce, è sempre lo stesso, e da cui imploriamo che continui a scendere sul vostro venerando capo la santa benedizione che si chiama amore.»
[426]
Alla fine del discorso il Carducci parve che volesse rispondere; ma vinto dalla commozione non potè che ripetere: «Grazie, grazie», mentre stringeva lungamente le mani del Barone De Bildt.
***
Due mesi e sei giorni dopo, la mattina del 16 febbraio, il sole si levava pallido e caliginoso sopra la città di Bologna; illuminava di un bianco acciecante la neve che come lenzuolo funereo avvolgeva tutto intorno la casa del poeta; penetrava con un timido raggio per le imposte socchiuse nella stanza ove egli giaceva; ma il poeta, che tanto amò ed esaltò il sole, che forse sperava di salutarlo ancora una e più volte, non vedeva quel raggio. Intanto i giornali volavano recando per le contrade d’Italia le dolorosa novella: Giosue Carducci è morto;[85] e dai petti degl’Italiani si levava un gemito sordo, affannoso; e un’ombra di lutto si distendeva sopra tutta la penisola, ne valicava i confini.
Il lutto non era lutto di una nazione, era lutto di tutto il mondo civile.
Dopo la morte del gran Re, dopo quella di Garibaldi, dopo la morte del Re buono, nessun’altra [427] sciagura nazionale toccò così profondamente il cuore dell’Italia.
La prima impressione fu di stupore; non pareva possibile che quell’uomo, benchè non più giovine, benchè da alcuni anni malato, dovesse morire. Poi sorse in tutti un imperioso bisogno di far sapere al mondo quanto ciascuno aveva amato e ammirato quel nobile capo. Si ebbe paura di dir poco, si ebbe paura che gli altri dicessero di più; e per non rimanere indietro, si abbandonò il freno alle parole. Può essere che qualcuno non serbasse la misura e la compostezza consigliate e raccomandate dalla solennità del caso e dalla grandezza e semplicità dell’uomo che si voleva onorare; ma le piccole vanità, le piccole preziosità, le piccole teatralità andarono perdute in quel grande scoppio di sentimento forte e sincero, che fu il dolore del popolo italiano. Nella imponente dimostrazione di quel dolore quelle piccolezze rimasero senza significato, quasi inavvertite. Chi andò cercando la retorica in alcuni dei discorsi che dilagarono su pei giornali, fece cosa perfettamente inutile; e fece, senza saperlo, un po’ di retorica anche lui. C’è della buona e brava gente, che senza retorica non sa esprimere i suoi sentimenti benchè sinceri.
L’Italia ufficiale volle fare largamente il dover suo. Ci fu una specie di gara fra il Governo e il Parlamento. Il Presidente del Consiglio propose alla Camera l’erezione di un monumento al Carducci in [428] Roma; l’onorevole Rosadi ed altri deputati proposero la tumulazione dei resti mortali del poeta in Santa Croce. Le proposte furono non solo approvate, acclamate. Ci fu dopo il discorso del Presidente del Consiglio un momento di commozione generale, che fece dire a un giornale: «qualcosa della grande anima del poeta sembra aleggiare per l’aula, dalla quale esula così spesso ogni nobile sentimento d’italianità e d’arte.»
Tenuto conto di quella commozione e dei nobile spettacolo che diede di sè l’assemblea, le deliberazioni di essa furono degne di lode. Ma, detto ciò, è lecito ricordare al Governo e al Parlamento che in Santa Croce c’è un altro grande poeta, che aspetta da più di trentacinque anni la sua tomba. Quel poeta si chiama Ugo Foscolo. Al Carducci però fu risparmiato l’onore, e la mortificazione, di essergli vicino. La famiglia di lui e i Bolognesi hanno voluto ch’egli resti a Bologna.
Quanto al monumento in Roma, si può osservare che altri pure degni non lo hanno, e lo hanno altri men degni. Ma per il Carducci c’è questa circostanza speciale: nessuno ha amato e glorificato la nuova Roma quanto lui. Resta che, passati gli entusiasmi, il monumento non vada in dimenticanza, come la tomba del Foscolo.
[429]
***
I funerali furono fatti il 19 febbraio; solenni, imponenti. Tutta l’Italia vi era presente, l’Italia ufficiale, ed il popolo: e dal popolo venne la solennità, l’imponenza. Anche questo fu degno: non furono fatti discorsi.
Del corteo funebre Guido Mazzoni scrisse così:
«Non è stato un corteo funebre; è stato il passare per tutta Bologna di un carro trionfale. Passava lento tra due schiere di popolo; piovevano dalle finestre ramoscelli d’alloro e fiori; il sole accompagnava luminoso quel procedere di stendardi, di bandiere, di corone. E dicono che battendo nella lastra di vetro che nell’alto della cassa lasciava mirare il volto del Poeta, dicono che talora lo facesse raggiare.
»Perchè tanto? perchè tutto il popolo ha seguito col saluto reverente, con le lacrime, col mormorio represso dell’acclamazione, sino alla Certosa, il Poeta?
»Perchè ha sentito in lui il più alto interprete della Patria.
»Difficili sono le poesie del Carducci a intenderle tutte e davvero: ma al popolo basta, più che la profonda intelligenza degli accenni storici e delle frasi belle, il sentimento vivo che balza fuori dall’arte.
[430]
»E tutta l’arte del Carducci grida: — Italia, Italia, Italia! — Lo grida in faccia agli stranieri, lo grida in faccia a noi, lo grida ai posteri nel nome di tutte le glorie del passato, da Dante a Garibaldi.
»Così le onoranze officiali sono state soverchiate dall’irrompente onda dell’ammirazione, o piuttosto dell’amore, del popolo bolognese e romagnolo ed emiliano accorso a fare omaggio al suo, al nostro Poeta.
»Grande è stata in tutti, anche per ciò, la commozione. I gonfaloni, le bandiere, le corone, le autorità, tutto è stato oltrepassato dal consenso popolare alle onoranze decretate dal Parlamento in nome della nazione.
»Ma più commovente ancora è stato, là nella quieta Certosa, il muto dolore dei più stretti amici e dei parenti. Stendeva la neve un candido manto tutt’intorno; e gli ultimi raggi del sole l’andavano vivificando di tocchi d’oro. Poi imbruniva. Un gran raccoglimento era in noi e intorno a noi.
»Egli aveva cantato quel Cimitero. E aveva espresso il desiderio dei morti quivi composti in pace, con versi immortali:
— Freddo è quaggiù: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda
Su la vita che passa l’eternità d’amore. —
»Il suo voto vibrava più acuto negli animi nostri, là, dove stavamo per lasciare le membra sue; ma non temevamo per lui il freddo della tomba [431] nè la solitudine. Troppi cuori egli ha scaldato della sua fiamma, perchè non gli giunga ora e sempre l’amor loro: troppi animi ha esaltati perchè non gli giunga ora e sempre il loro reverente consenso.
»L’eternità d’amore risplenderà su lui finchè la sua poesia sarà sentita, ammirata, amata; e sarà, finchè la lingua di Dante duri strumento di tutto quanto il pensiero e di tutto quanto il sentimento del popolo nostro, dalle Alpi alla Sicilia.»
[433]
Riferisco il frammento della lettera del Carducci da Pian Castagnaio, che si riferisce alla nomina della Commissione per il colèra.
Per quello che spetta ai nostri studi, de’ quali tu mi scrivi parole gentili, da due settimane gli ho abbandonati; occupato come sono nell’assistere ai malati di colera che abondano pur in questo paese. In mancanza di persone che assistessero, poichè tutti o per poco animo o per inettitudine si ricusarono, io, mio fratello e due giovani senesi prestammo volontaria l’opera nostra ne’ primi casi. Dietro la qual cosa il Municipio ha creduto bene di fare di noi e di tre altri una Commissione gratuita di assistenza, incaricando me della direzione e della compilazione di un regolamento sanitario per altre Commissioni di vigilanza su’ commestibili, nettezza esterna, soccorso agl’indigenti, disinfettazione e inumazione ec. E io, come è dovere di buon cittadino, misi da una parte la vita meditativa per la attiva, la quale, come c’insegna il nostro gran Leopardi, è più degna e più naturale all’uomo che non sia l’altra. E così farò in ogni circostanza in che il bisogno pubblico lo richieda, avendo io dato studio alla vita meditativa appunto perchè l’attiva ci era vietata dalle condizioni del paese nostro infelicissimo.
[434]
Riferisco l’atto di nascita del Carducci, già pubblicato da Giuseppe Picciola nelle note al suo Discorso: Giosue Carducci ec.; Bologna, Zanichelli, 1901.
Certificasi dall’infrascritto Segretario Capo della Sezione Ministeriale dello Stato Civile e Statistica generale, come dal registro delli Atti di Nascita avvenuto (sic) nella Comunità di Pietrasanta nell’anno 1835, e che si conserva nella citata Sezione, apparisce sotto il n. 144 il seguente atto:
«Giosue, Alessandro, Giuseppe Carducci, figlio di Michele e di Ildegonda Celli, l’uno Medico, l’altra Possidente, dimoranti nel popolo di Val di Castello nella Comunità di Pietrasanta, nacque nel dì ventisette Luglio Milleottocentotrentacinque, alle ore undici di sera, e fu battezzato nel dì 29 detto nella Chiesa del nominato popolo. — Compare: Natale Carducci.»
Ed in fede
Dalla Sezione Ministeriale dello Stato Civile e della Statistica generale, li 24 maggio 1853.
Il Segretario Capo della Sezione
Attilio Zuccagni Orlandini.
Nell’Archivio segreto del Buon Governo, filza 5, dal n. 615 al 740-1849 — Delegazione di S. Spirito — Affari informativi — Archivio di Stato di Firenze — trovasi una Lettera del Delegato Palazzeschi al Delegato di S. Spirito in data 29 agosto 1849, con la quale si richiedono informazioni sulla condotta del giovane Giosue Carducci che abita in Via Romana, N. 1843, il quale ha fatto domanda per l’ammissione al Liceo militare Arciduca Ferdinando. [435] Il Delegato di S. Spirito avverte il supplicante di provvedersi del certificato medico di sana costituzione e di presentarsi all’esame di ammissione che avrà luogo il 15 settembre 1849 sulle seguenti materie: Letteratura italiana, Aritmetica ragionata e Geometria piana.
Ecco i certificati degli studi del Carducci alle Scuole Pie, già pubblicati dal Picciola nelle note al suo Discorso sopra citato:
Firenze, 20 maggio 1853.
Per me sottoscritto, maestro di Rettorica nel Collegio delle Scuole Pie di questa città, certificasi che il giovane Giosue Carducci, figlio di Michele, negli anni scolastici 1850-51, frequentò le mie lezioni con molto impegno, studio e profitto singolarissimo, e, dotato di bell’ingegno e ricchissima immaginazione, e colto per molte ed eccellenti cognizioni, si distinse primo tra i migliori e compì con tutta lode il suo corso di Belle Lettere: buono poi per indole, si condusse sempre da giovine cristianamente e civilmente educato. Tanto per la verità; della quale in fede gli rilascio la presente testimonianza, la quale desidero sia di utile raccomandazione a questo buono e bravo Giovine, che fin d’ora ha fatto concepire di sè le migliori speranze.
Geremia Barsottini
delle Scuole Pie M.º P.ª
Confermo quanto sopra, e certifico inoltre come d.º giovine passò in seguito a studiare in d.º Collegio Filosofia, Geometria e Fisica e ne compì il corso con lode e profitto notabilissimo e si condusse in modo irreprensibile. In fede
Paolo Sforzini
Pref.º delle Scuole Pie.
Visto Costantino Paoli
Rettore delle Scuole Pie.
[436]
SCUOLE PIE FIORENTINE.
Noi infrascritti, avendo trovato in regola gli attestati trimestrali rilasciati al giovine Giosue del D.r Michele Carducci di Pietra Santa, dai quali risulta che, durante l’anno accademico 1851-52, è intervenuto alle lezioni di Filosofia Razionale e Morale in questo Collegio di S. Giovanni Evangelista delle Scuole Pie, e nella sua condotta si è diportato in modo irreprensibile;
ed avendo assistito all’esame che il medesimo subì nel dì 23 agosto 1852 sopra le materie studiate, e nel quale venne approvato a pieni voti e pluralità di plauso;
rilasciamo al prefato giovine la presente attestazione di nostra mano firmata.
Firenze, questo dì 24 agosto 1852.
V.º Il Rettore del Collegio, Presidente dell’Esame
Costantino Paoli.
Eugenio Barsanti | Lettori di Scienze nel Collegio delle Scuole Pie Fiorentine, ed esaminatori deputati. |
Filippo Cecchi | |
Celestino Zini |
Il Prefetto delle Scuole Pie Fiorentine
Paolo Sforzini.
Riferendo qui appresso l’intero programma dell’Accademia degli Scolopii del 1854, alla quale il Carducci, che allora era a Celle, mandò a leggere la sua canzone su Dante, non sarà senza qualche interesse dire due parole di un’altra simile Accademia tenuta il 16 marzo 1860, alla quale assistè Niccolò Tommaseo, che ne scrisse nel giornale torinese l’Istitutore in modo onorevole per gli Scolopii. «Che il culto accresciuto alle lettere italiane, scrisse il Tommaseo, non ispenga in queste [437] Scuole l’amore alle latine, n’è prova l’Accademia recitata sere fa; della quale i componimenti, riveduti certamente dal maestro, si fa credibile essere degli allievi, e dalla riuscita felice d’altri alunni, e dal modo stesso ch’egli erano detti, con intelligenza e franchezza, semplicità e sentimento.»
I componimenti letti in questa Accademia del 1860 furono diciotto, e tutti su Dante, tre dei quali in versi latini. Uno dei lettori è oggi decoro delle nostre lettere ed ornamento della Università di Roma, Giacomo Barzellotti: lesse una prosa che aveva per argomento la Divina Commedia paragonata coll’Eneide, e una elegia latina In morte di Dante, della quale il Tommaseo riportò nel suo scritto sei distici, facendovi intorno osservazioni che tornavano a lode del giovane autore. «Non dico, scriveva il Tommaseo, che uno scrittore maturo non possa più condensare il pensiero e l’affetto; dico che questi versi hanno andatura latina non solamente in ciascuna locuzione da sè, ma nel loro congegno, e nell’armonia, e nella vita che anima il tutto; e questo è pregio anco ne’ provetti ormai raro.» Degli altri componimenti diceva: «Tutti versavano intorno a Dante; e altri ve n’era, felici. E la scelta dell’argomento dice lo spirito di queste Scuole, ma il modo come i temi son trattati dice altresì la prudente saviezza che le governa.»
In fine dello scritto, lodando il marchese Ridolfi, allora ministro della istruzione, di avere restituiti alle Scuole Pie quei diritti che avevano di pari con le altre per la promozione degli allievi agli studi superiori, diritti che erano stati tolti loro dal ministro del Granduca, Leonida Landucci, dolevasi di non potere in tutto esaltare quel che [438] il Ridolfi fece, «o piuttosto, dice egli, lasciò fare durante il suo ministero.» — «Non posso, aggiungeva, non mi dolere per la Toscana e per lui, che alla legge degli studi, meditata da Raffaello Lambruschini e da’ suoi colleghi valenti, si sostituisse una cosa che certo non darà legge, e perdessesi questa con tante altre opportunità di porgere al resto d’Italia un nobile esempio.» La cosa sostituita fu la legge toscana 10 marzo 1860, infelicemente copiata dalla legge Casati; la quale tanto ha dato legge, che dopo più di quaranta anni dura ancora quasi soltanto in ciò che ha di peggio.
Ecco il programma dell’Accademia del 1854:
I.
Il Medio Evo. — Prosa preliminare del P. Geremia Barsottini D. S. P., Presidente dell’Accademia.
II.
La Roma antica era caduta. La società aveva bisogno di un urto violento che la scotesse dal suo letargo mortale; aveva bisogno di nuovi elementi che rendessero la vita alle membra di lei quasi morte. I popoli del settentrione nella loro giovenile e selvaggia vigoria compiono il decreto della Provvidenza. L’Italia invasa dai Barbari è un caos di principii vitali, il quale non aspetta che una voce potente ad ordinarsi in creazione bellissima.
I Barbari in Italia. — Ottave — del Sig. Leopoldo Bruscoli, Accademico Risoluto.
III.
Ultimo esempio della dignità romana, ultimo amico di Roma e delle glorie antiche, nuova ed ultima manifestazione dell’idea latina ritemprata nel principio cristiano, ci si mostra.
Boezio nella sua carcere. — Sciolti — del Sig. Pietro Dazzi, Accademico Risoluto.
[439]
IV.
Nelle prime barbariche irruzioni i Papi, che altro non potevano, frenano gli oppressori ponendo loro innanzi la Croce, consolano gli oppressi con la dottrina del Dio della mansuetudine e dei dolori.
San Gregorio Magno. — Prosa — del Sig. Paolo Tincolini, Accademico Risoluto.
V.
A difesa dell’Occidente minacciato dal fanatismo di Maometto, Carlo Magno rinnuova l’Impero romano: s’accorge che la sede dell’Impero dev’essere Roma, a lato della cattedra di Pietro; la forza con la sapienza, la spada col pastorale. A ciò caccia i Longobardi, così mette fine ai dominii barbarici in Italia.
Carlo Magno. — Prosa — del Sig. Guido Siccoli, Accademico Risoluto.
VI e VII.
Il Feudalismo creato da Carlo Magno produce pur qualche bene. Stringe il vincolo di famiglia tanto poco curato dagli antichi, e ravvicina il signore allo schiavo mutato in servo della gleba.
I Castelli del Medio Evo. — Ottave — del Sig. Raffaello Agostini, Accademico Fecondo.
I Servi della gleba. — Canto popolare — del Sig. Alessandro Papini, Accademico Fecondo.
VIII.
Il Feudalismo sempre più ravvicina i Grandi alla Plebe: la Religione di Cristo stabilisce e mette in azione l’eguaglianza avanti a Dio.
Il Tabernacolo del Castello. — Ballata — del Sig. Guido Blanc, Accademico Risoluto.
IX.
Eroe della religione, difensore degli oppressi, primo infrenatore dei corrotti e de’ superbi, apostolo potentissimo [440] della legge di Cristo, la più gran mente del Medio Evo, ci apparisce.
San Gregorio VII. — Prosa — del Sig. Giorgio Mariotti, Segretario dell’Accademia.
X.
Il principio popolare santificato dallo spirito del Vangelo è svolto e favorito dall’umile famiglia di Cristo, dai Monaci. Gli antichi non avevano borghesia, non popolo; aveano cittadini ozianti o militanti e plebe di servi faticante pe’ grandi. I Monaci stringono le società dell’agricoltura e del commercio e convocano le genti intorno alle chiese.
San Benedetto. — Prosa — del Sig. Giovanni Panattoni, Accademico Risoluto.
XI.
Dal principio aristocratico modificato col principio cristiano si forma la Cavalleria, difesa degli oppressi, religione dell’eroismo e dell’amore. E già l’amore non è più una voluttà, ma un affetto santificato nel rispetto alla donna.
La Cavalleria. — Polimetro — del Sig. Guido Puccioni, Accademico Risoluto.
XII.
Il principio religioso si fa ogni giorno più forte. La tomba di Cristo è il sospiro di tutti i fedeli: del vecchio, che vuole su quella santificare la morte; del giovane, che vuole inaugurarvi la vita; del giusto, che va a cercarvi ispirazion di costanza; del peccatore, che vuol trovarvi e conforto e perdono.
Il Pellegrino. — Polimetro — del Sig. Ferdinando Montauto, Accademico Fecondo.
XIII.
Ma la tomba di Cristo è in mano degli infedeli. I pellegrini sono angariati, e i fratelli europei si levano a vendetta e a sgombrare Terra Santa dai Musulmani. Le Crociate collegano Europa ed Asia, diffondendo il commercio e la civiltà.
Le Crociate. — Polimetro — del Sig. Michelangelo Pagni, Accademico Fecondo.
[441]
XIV.
Dalla religione e dall’amore, idee riunite nella Cavalleria, nasce la Poesia trovadorica, che di natura sua è conciliatrice di civiltà e gentilezza nelle anime inferocite tra le guerre ed il sangue.
Il Trovadore. — Cantica — del Sig. Enrico Nencioni, Accademico Risoluto.
XV.
Mentre i Trovadori diffondono nei loro canti il principio eroico del Cristianesimo, a diffondere la nuova morale che sarebbe stata compressa sotto il regno della forza, giova la nuova e ingenua letteratura nata nel popolo, e manifestatasi nelle tradizioni sacre col nome di Leggende.
Maria al castello ospitale. — Leggenda popolare — del Sig. Damiano Damiani, Accademico Fecondo.
XVI.
Dei primi Trovadori arditi e destri in armi, fedeli al loro Sire e alla loro dama, è esempio.
Ser Blondello che libera di prigionia Riccardo Cuor di Leone. — Sirventese — del Sig. Jacopo Mensini, Accademico Fecondo.
XVII.
S’arma un’altra Crociata. La Francia ha bisogno dell’Italia già fiorente di potenza, e chiede aiuti a Venezia. Arrigo Dandolo, Doge ottuagenario, segue i Crociati: armato di tutto punto, fra la strage e gl’incendi, sale primo sulle mura di Bisanzio, e vi pianta la bandiera di San Marco: acclamato re, ricusa la corona de’ Cesari.
Arrigo Dandolo. — Ballata — del Sig. Giuseppe Bambagini, Accademico Fecondo.
XVIII.
I tempi eroici del Medio Evo sono cessati. In Italia il Feudalismo cede luogo ai Comuni. Seguono più forti [442] le lotte tra l’Impero e la Chiesa, fra i Grandi e il Popolo, fra i Ghibellini e i Guelfi. Primo in questa lotta è
Federigo Barbarossa. — Frammento storico — del Sig. Cesare Parrini, Accademico Risoluto.
XIX.
L’Imperatore, costretto a cedere di fronte alla Religione ed al Popolo, si volge a pensieri più miti e ferma co’ Lombardi
La pace di Costanza. — Terzine — del Sig. Enrico Panattoni, Accademico Fecondo.
XX.
Mentre il mondo combatte, e l’Italia è inondata di sangue per le contese tra Popolo e Grandi e per crudeli avarizie, un umile fraticello va di terra in terra gridando: Amore, amore! Ei non vede e non pensa che amore. Per lui tutto è amore, da Dio e dalle opere sue più grandi fino alla colomba dell’aere e al fiore del campo. Per lui tutti gli esseri sono fratelli. Questo umile fraticello è
San Francesco d’Assisi. — Canzone — del Sig. Giovanni Del Corona, Accademico Risoluto.
XXI.
La civiltà sempre più manifestasi in ogni fenomeno della Storia italiana. La donna nobilitata dalla Cavalleria, esaltata dai Trovadori, santificata dalla Religione, divien culto pei popoli d’Italia. I Vespri siciliani ripetono ancora la terribile parola: Guai a chi insulta
La dignità della donna. — Canzone — del Sig. Pirro Pasta, Accademico Fecondo.
XXII.
I fatti accennati fin qui dimostrano quali elementi di vita accoglie in sè il Medio Evo. Non manca che una voce che tuoni su questo caos, come un tempo sul caos antico la voce di Jeova, e crei. Questa possente voce è la voce di
Dante. — Canzone — del Sig. Giosue Carducci, Accademico Risoluto.
[443]
Riferisco, in nota a questo capitolo, la Canzone inedita del Padre Francesco Donati, e gli articoli del giornale Il Passatempo su la Diceria del Gargani e la Giunta alla derrata degli Amici pedanti.
A Enrico Pazzi
quando scolpiva il busto di G. Parini.
Perchè di speme il core
Rifiorisca e s’accenda al bel desio
Di gloria, e l’ozio, che le menti ha dome,
Cessar non dolga, forse alto valore
T’infonde amico fato, o Pazzi mio?
Dei grandi, onde vivrà l’italo nome
Invidïato sempre, irriso mai,
Le divine sembianze
Ecco a morte ritoglie
Tua gentil opra. Arrida il ciel pietoso
Al laudabil pensier, che in te s’accoglie:
E surga schiva di corrotte usanze
E codardo riposo
E oblique voglie omai la gioventude
Sè temprando degli avi alla virtude.
Emula brama spinse
Da basso loco a glorïosa meta
L’Ateniese garzon che a Salamina
Di barbarico sangue il mar dipinse;
E sovente, cred’io, per la segreta
Ombra notturna la Maestà latina
Circa alle sante immagini dei padri
Biancovestita ai figli
Di Quirino discese
Ad infiammar le giovinette menti;
Onde poi sì robusta ala distese,
Fatto maggiore da i maggior perigli,
[444]
Fra i marziali cimenti,
La vittoria seguendo in ogni lido
L’augel che pose in Campidoglio il nido.
E mentre a voi non pesa
Nel dedaleo lavor vita novella,
Alme sdegnose, disperar non lice
Di nostra patria anco giacente e offesa
Da molto sonno ed avvilita ancella:
Poichè spenta non è la fiamma altrice
Del valor primo, e la potente Vesta
Dall’ausonie contrade
Esular non sostenne
Quando l’instabil dea sul Palatino
Rendeva al tergo le fugaci penne.
Ma voi, d’ira succenso e di pietade
Il sembiante divino,
I cor pungete e le menti cadute,
E da vergogna ne verrà salute.
Così dal ciel reddia
Fatta secura la virtù pudica
Agli stuprati lari ove al tuo verso,
Al sì lodato verso alta ironia
Affidasti, o Parini. A te nimica
Volgea l’improba sorte, ed il perverso
Secol crudele a laute mense accolto
A te, pietoso figlio,
Scarso pane niegava
Di che sfamar la tua madre dolente!
Empio! ma te non vide in fra la prava
Turba l’altero capo e ’l franco ciglio
Piegar servilemente;
E privo di rimorsi all’atre porte
Libero e nudo t’accogliea la morte.
Ma non senza la doglia,
Che induce al core la tradita speme;
Ahi più d’ogni altra fieramente insana:
Quando alla patria tua presso alla soglia
Di libertà gli scherni e le catene
Una gente doppiò superba e vana:
Qual buon nocchiero in fortunoso mare
Non s’abbandoni lasso
A paura e sconforto
E della sua virtù non si ricreda.
[445]
Campa la rea procella e giugne a porto;
Così venisti confidente al passo,
Onde non è chi rieda,
Certo che ancor, se miseri e prostrati,
Splendidi foran della patria i fati.
Ma Italia anco si duole
E si dorrà, chè non è lieve il danno,
O santo Petto, della tua partita;
E a noi di tanta madre oscura prole
E di povero cor nel grave affanno
Pur te, pur te, che sì l’onori, addita:
Lacrimosa si va cercando intorno
Col guardo inconsolato
E le marine e il seno;
Ma la costanza tua, ma la tua fede
E la bella innocenza e il desir pieno
Di libertà, di gloria, indegno fato!
La misera non vede:
Non vede quell’amor che d’ira imprenta,
Nè cor che all’ira ed all’amor consenta.
Omai la sacra pianta
Di virtù più non cresce, e fatta inerte
Nel terren più ferace e sotto il cielo,
Che di superbo sole i giorni ammanta,
E fra le mani a tanto culto esperte
Fiori e frutti non mena; orrido gelo
L’umor vitale ne imprigiona e lega.
Chè a guadagno servile
E core, e mente, ed opre
Volge la gente, sì che in altra parte
Intendimento alcun non si discopre.
Cieco desio fa legge, e tiensi a vile
Il sacro ingegno e l’arte:
Perchè Italia ne geme, e piange, e grida,
Veggendo in ogni figlio un parricida.
O patria mia, se volta
Non venga a sera tua fatal giornata
Pria che ricinga il venerabil crine,
Che di mille corone ancor s’affolta,
Quella perchè temuta e invidïata
Andar ti fero le virtù latine,
A questo vivo marmo or ti conforta.
Qui qui verranno a schiera
[446]
I tuoi figlioli, o madre,
E quinci spira peregrino affetto
E altissimo pensier d’opre leggiadre:
Nè fia chi pur sogguati alla severa
Fronte e nel conscio petto
Romper non senta la profonda calma,
Nè surga al fiero tempestar dell’alma.
Spera: vanir non puote
La tua speranza mai se pria disciolto
L’universo non torni al nulla antico:
E lento pur dalle superne ruote
Nei luminosi campi il sol fia volto,
Come aggrada alla sorte, un raggio amico,
Che ti vesta di luce, Italia, aspetta
Dalla ragion dei tempi.
Poichè l’ordine eterno,
Che agli esseri dà vita e moto e posa,
Fòra distrutto, se qui ver discerno,
Ov’eterne ruine, eterni scempi
E ogni diversa cosa
Più che morte non è premesse al fondo
Chi niuno ebbe maggior, pari o secondo.
E tu dall’alte sedi,
Laddove gli immortali han fida stanza,
Se il futuro le soglie a voi non niega,
Spirto gentil, fruttificar già vedi
Questa da lungo dì culta speranza,
Ed oh! pel forte amor che a noi ti lega
Qual fia nostra grandezza? un’altra fiata
L’italo Marte doma
Vedrà la terra? o fòra
Del selvoso Appennino il mar coperto
Ove il giorno s’accende, ove scolora?
Di sapïenza fia l’eterna Roma
Novello tempio aperto?
O seguirem nell’arti eccelse ed alme
Cogliendo sempre orgoglïose palme?
O più nobil arena,
Se l’orme ricalcar non è fatale,
Il ciel n’appresta? A te forse all’amplesso
Accolto già della sottil Camena,
Allor che t’inspirò canto immortale,
Tanta mole di gloria era concesso
[447]
Nell’abisso veder della sua luce.
Oh! quel divin sorriso
Di natura t’aperse
Liberi doni e affetti, e le beate
Gioje schiuse d’amor, poichè t’offerse
Spettacol grato col giocondo viso
La celeste beltate:
E al fiammeggiar di due luci amorose
Rider vedesti le create cose.
Ove d’amor non fiede
L’alta virtù, quinci la vita fugge
E morte incombe e, se d’amor digiuna,
Come putrido stagno immota siede
L’alma nel petto e suo vigor distrugge
Miseramente in infima lacuna.
Amasti, o saggio, e l’amor tuo derise
Sciocco vulgo maligno,
Chè i primi casi in loco
T’ebber condotto ov’egli colpa estima
In sen nutrire l’amoroso foco:
Ma tu le candid’ale, italo cigno,
Spiegasti all’ardua cima,
Ove l’occhio non giugne nonchè ’l vano
E procace clamor di vulgo insano.
Amor, speme e disdegno,
O ben creato spirto, anco ti piaccia
Versarne in cor dagli effigiati marmi,
Sicchè rivolte sien l’opre e l’ingegno
Ove segnasti luminosa traccia
Col dolce suon d’armonïosi carmi
E la vita operosa e intemerata.
E tu, Pazzi, che sai
Coi divini portenti
Dell’arte tua gentil sovra il sentiero
Di gloria richiamar l’itale genti,
Segui l’opre mirande, e sì vedrai
Sul gemino emisfero
Ove bella virtù si onora ed ama
Carca del nome tuo volar la fama.
Modigliana, 15 febbraio 1856.
Franco Donati.
[448]
Di Braccio Bracci e degli altri Poeti odiernissimi.
Diceria di G. T. Gargani. Firenze 1856.
Avevamo fatto proposito per certe ragioni di non fiatare di questo libercolo; ma dacchè tutti i giornali lo han giudicato, purtroppo secondo il merito, duramente, non possiamo più rimanerci in silenzio neppur noi: e però, lasciato il solito tenore del Passatempo, che per le medesime ragioni non conviene qui, diremo poche e non beffarde parole, solamente per dolerci del vedere come il signor Gargani poco più che ventenne presuma tanto di sè e ardisca quello che presume e ardisce in esso opuscolo, il quale è di sorte che fa aperto segno non avere il suo autore nemmen una delle mille parti che si richieggono allo scrittore. E di fatto ordine e disposizione veruna vi si cerca invano, saltandosi continuamente di palo in frasca nel più pazzo modo, e proprio placidis coeunt immitia, serpentes avibus geminantur, tigribus agni: non v’è ombra di giudizio letterario, perchè si trovano messi in un mazzo il Manzoni, il Tommaseo, l’Arcangeli, il Giudici, il Cantù, il Prati, il Guerrazzi, Gino Capponi, il Bracci, il Pieri, il Cempini, il Piave, il Bianciardi, il Bonghi, lo Zauli Sajani, il Lorenzini, ed altri; guazzabuglio irriverente e dissennato: non v’è odore di buono stile o di buona lingua, essendoci stranissimo accozzo di svenevolezze moderne con le più squarquoje frasi del Pataffio e del Burchiello, per forma che qui tu leggi il chiacchillare, il ciaramelle sfacciati, la svergognanza, l’immiata, il traricchissimo, la buassaggine, lo gnaffe, l’alle guagnespole con altre simili a barche; ed accanto accanto il francese A meno che per salvochè, l’abitudine per uso, consuetudine; il troppo sventati per istare per troppo sventati da stare: la sensitività delle passioni, la illiberalità dell’argomento, le celebrità per uomini celebri (errore che non basta il Giusti a scusarlo), a tale scrupolosi da, per tanto scrupolosi che: l’anima tutta zucchero e latte con altre infinite; e con l’aggiunta di veri spropositi di grammatica, come dasse per desse, non ammesso da nessun grammatico, nè usato da verun buono scrittore, e il vuo’ usato per voglio, quando dovea dirsi vo’ dacchè vuo’ è abbreviatura di vuoi: i quali errori e altri simili, se possono comportarsi in altrui, non possono tollerarsi in chi fa il maestro a color che sanno. [449] Oltre a questo si vede nel libretto una contradizione flagrante, perchè dove a pag. 8 si beffa il Gelli per avere con parole da galantuomo biasimato le vergognose guerre de’ letterati, e si fa aperta professione di accattabrighe, come ne dà prova il libro medesimo, a pag. 55 si dice che i più scrittori dell’appendice alle Letture di famiglia (fra’ quali il Gargani intende noverar sè e i suoi amici) hanno la vecchia ubbìa di rispettare le opinioni di tutti. Ma vizio capitalissimo e che vince tutti gli altri presi insieme è questo, che il signor Gargani avendo avuto alle mani un argomento eccellente, quello cioè di difendere gli studj classici, non ha saputo raccapezzare una pagina che si regga in gambe, e il fino oro che trattava lo ha tramutato in vil piombo. Per la qual cosa egli ha fatto opera contraria direttamente al fine propostosi, dacchè non pure non farà essa ricredenti i nemici de’ buoni studj classici, ma darà invece loro materia di dire malignamente: «Se tali studj non conducono chi si affatica in essi come il Gargani, ad altro che a scrivere sì grottescamente come ha fatto egli, ed a sragionare come egli ha sragionato, Dio ci guardi da tali studj.» Coloro poi che gli amano sinceramente, e non disamano il signor Gargani, piangeranno del vederli difesi così a rovescio, e dirò anche vituperati; ed egli non potrà fare che non si volgano a lui e non gli dicano: «Vi par egli codesto il modo di difendere cosa sì bella e santa: vi par egli che stia bene a nessuno, ed a voi massimamente, il parlare con ischerno di uomini che, se hanno dottrine diverse da quelle professate da voi, son pure uomini ricchi di sapere e degni di ogni riverenza, e il mettergli alla pari co’ più vili guastamestieri? Immaginatevi per un poco di trovarvi in luogo dove fossero il Manzoni, il Tommaseo, l’Arcangeli (se potesse rivivere), Gino Capponi, e lo stesso Guerrazzi, avreste voi cuore di mantener loro in faccia le beffarde parole che avete scritte in questo mal libro: ovvero sarebbe tanta la vostra confusione che non che fiatare, non ardireste nemmeno levar gli occhi in faccia loro? Mettetevi le mani al petto, e fate senno per un’altra volta.»
E così gli diciamo noi, non per animosità nè per male che gli vogliamo; ma per desiderio di vedere ch’egli faccia ammenda di questo lavoro con altri lavori più assennati, e più degni della umanità delle lettere.
(Dal giornale Il Passatempo, anno I, n. 30, 26 luglio 1856.)
[450]
Giunta alla derrata: Ai giornalisti fiorentini
risposta di G. T. Gargani commentata dagli Amici pedanti.
Quando uscì fuori la famosa Diceria di G. T. Gargani, che un po’ fece sbellicar dalle risa per le sue scempiaggini, e un po’ fece stomacare tutti gli uomini di senno per il modo irriverente col quale vi si trattavano letterati grandi e di gran fama, tutti i periodici fiorentini misero degnamente in canzonella esso Gargani ed i suoi amici pedanti. Il solo Passatempo (derogando dal suo proposito, che è quel di celiare) trattò con parole gravi, e più amichevoli che altro, lo spiacevole argomento; sperando che que’ pedanti, quasi tutti giovinetti usciti or ora dalle scuole minori, si movessero al biasimo universale degli uomini di senno e di tutta la stampa, ed usassero meglio per un’altra volta l’ingegno che Dio potesse aver conceduto a qualcuno di essi, dopo averlo più maturamente coltivato. Ma la cosa andò altrimenti, perchè i pedanti invece infellonirono; ed ora hanno fatto un altro libro pieno delle più furenti parole contro coloro che biasimarono il primo, ribadendo tutte le pazze cose in quello già dette, e vituperando nel tempo stesso persone dottissime e venerande: un libro, i cui autori si mostrano crassamente ignoranti di ciò che fin qui è stato scritto nella materia che hanno a mano; e, come se fossero d’un altro mondo, armeggiano fanciullescamente di ciò che altri ha nobilmente combattuto: un miserabile affastellamento insomma di arroganti contumelie e di bizze impotenti, che faranno rider saporitamente coloro che conoscono quegli atleti lilliputtini dai quali esse vengono, se non quanto sarà loro amareggiata l’ilarità dal vedere le lettere italiane così vituperosamente trattate, e venute a tali mani. Ora gli altri giornali faranno ciò che lor piace: io Passatempo per parte mia son fermo di non dare a’ pedanti il gusto di veruna risposta. Solo non posso tenermi dal significare il mio dispiacere vedendo giovani di così poca età avere a vile il biasimo universale, ed entrare nell’arringo delle lettere con le armi vituperose de’ facchini e de’ mercatini. Per ciò che spetta a me, io mi tengo onorato delle costoro villanie, quando esse mi sono comuni con uomini che tutto il mondo onora e riverisce. Rispetto alle questioni [451] letterarie che muovono, intendo di avvertirgli che dove essi credono combatter me, combattono dottrine e proposizioni di autori approvati per solenni maestri, e discutono cose mille volte trattate e ormai giudicate: e dove essi combattono il detto di colui cui si credon ferire con le loro parole, si mostrano ignoranti di ciò che egli medesimo ed altri, di lui assai più valenti, hanno già scritto replicando a quelle stesse obiezioni che essi fanno ora come nuove; per modo che il risponder loro sarebbe un ripetere il già detto e ridetto come essi appunto ripetono a uso pappagallo il già detto e ridetto facendo quelle obiezioni. Dirò altresì che le parole dette ad uno di loro da uno de’ miei scrittori circa a’ verbi Dare e Fare non furon sapute riferire; e che se esso le ripetesse, come è pronto a ripeterle, ma a voce, forse, e senza forse, non saprebbero essi che cosa rispondere. E loro domanderò se credono veramente, col difendere il dasse per desse, il vuo’ per voglio, e simili spropositi, di far sì che gli scrittori italiani gli accettino mediante la loro autorità, e che si abbiano a correggere tutte le grammatiche scritte dal Bembo in qua; e domanderò se per mantenere nel verbo dare la radice da, e mandarlo sopra amare diranno io dai per diedi o detti come amai; dammo per demmo come amammo; daò per dette, come amò; darono per diedero come amarono e simili; e se insegneranno che così si abbia a scrivere. Inquanto poi agli esempi che recano, gl’inviterei a mostrarmi i codici antichi e autorevoli che gli dessero come essi gli danno (avvertendogli per altro, circa all’esempio del Malespini, che l’accurata edizione del Fellini ha desse e non dasse, e che desse e non dasse hanno i codici magliabechiani; sicchè essi commettono anche la mancinata di alterare gli esempi); e in qualunque caso gli assennerei che pochi esempi non fanno forza contro l’uso costante di tutti i secoli o di tutti gli scrittori, nè contro le regole di tutti i maestri: senza che, trattandosi di coniugazione di verbi, non dirò la critica, ma il senso comune insegna che gli esempi spicciolati non fanno forza, ma bisogna poter dire il tale autore CLASSICO usa sempre il verbo DARE a quel modo; perchè se uno scrive per esempio mille volte regolarmente desse, e una o due volto dasse, quell’una o due vuol dire o che senza accorgersene l’ha scritte, o che è errore di stampa, o che c’è qualche altra cagione da non valutarsi nulla. E se mi venissero fuori con [452] l’uso del popolo, loro direi che il popolo usa per esempio stiedi, stiedemo, ebbimo e altre simili voci spropositate, le quali potrà venire in mente a qualcuno di difendere per via d’analogia, ma a nessuno, se non pazzo, di scriverle egli o di insegnarle a scrivere altrui. Circa alla voce abitudine, cui essi difendono a quel mo’ a pappacecio con esempio del Botta, potrei insegnar loro che ne dice il Botta stesso in una lettera al Robiola, dove questi gli riprendeva tal voce e altre simili non buone usate da lui, della qual riprensione il Botta stesso si dichiara degno, e condanna per conseguenza e l’abitudine ed altri errori da lui usati. E in ogni caso dovean sapere ciò che della voce abitudine e dell’autorità del Botta che la usa, e dell’Accademia che la registra scrive il Gherardini, della cui autorità essi altrove si fanno forti, e che non è certo uomo sospetto, e lui in qualunque caso riprendere e non me. Ma che vale ragionar con gente che per provare che s’ha a dir dassi argomentano che facendosi l’imperfetto del congiuntivo col cambiamento in ssi dello sti del perfetto dell’indicativo, da dasti vien dassi e non dessi, mostrandosi ignoranti di tutto ciò che sanno i ragazzi delle scuole minori, che dasti cioè è lo stesso idiotismo che dassi, e che dee dirsi desti, così per l’intrinseca ragione del verbo dare, come per insegnamento non del solo Mastrofini da essi citato, ma di tutti i maestri e di tutti gli scrittori da che lingua è lingua.
Ma adagio adagio darei a queste parole aria di risposta, e così la darei vinta a’ pedanti, dal che Dio mi guardi. La risposta se la daranno da sè medesimi se mai avviene che mettan giudizio, la qual cosa per altro è assai dubbia.
(Dal giornale Il Passatempo, anno I, n. 46, 29 novembre 1856.)
[453]
Polemica intorno alle Rime del Carducci.
Aggiungiamo qui, per quelli che ne fossero curiosi, alcuni particolari e qualche documento intorno alla polemica alla quale diede luogo la pubblicazione delle Rime del Carducci; polemica che, come i lettori sanno, si può dire la continuazione di quella degli amici pedanti coi giornali fiorentini del tempo.
Il volumetto delle Rime fu pubblicato agli ultimi di luglio del 1857; e nel giornale umoristico La Lente del 4 agosto usciva un articoletto firmato E. M., il quale era poco più che un annunzio benevolo della pubblicazione. L’E. M. era, come dissi, l’avvocato Elpidio Micciarelli, amico del Targioni ed ammiratore del Carducci, quello stesso che l’anno dopo fondò e mise a disposizione degli amici pedanti il giornale Il Momo. Nell’articolo se la pigliava contro coloro che dicevano il tempo della poesia essere finito, nè ammettevano, s’intende, altra poesia che la romantica; e, affermando che il volumetto delle Rime dimostrava il Carducci essere «poeta per concetto, per sentimento, per forma, grande, delicato, profondo»; conchiudeva: «A coloro ai cui occhi l’opera rettamente usata dell’ingegno e della scienza è cosa santa da non profanarsi con meschini giudizii, ma da rispettarsi come l’arca della gloria nazionale, penso, sarà lecito il dire che dopo quelle di Niccolini e di Mamiani questa è la migliore poesia che ai giorni nostri sia uscita in Italia.»
[454]
Il Fanfani, ch’era pieno di stizza contro il Carducci e gli amici pedanti per ciò che avevano scritto contro di lui nella Giunta alla derrata, pigliando occasione dalle lodi del signore E. M. della Lente, scrisse subito un articolo pieno di veleno e di stupidaggini intorno alle Rime; ma, invece di pubblicarlo nel suo giornale Il Passatempo, lo stampò (senza nome, s’intende) nei numeri 8 e 14 agosto della Lanterna di Diogene.
La Lente del 25 agosto, protestando di voler rimanere estranea alla questione, pubblicò una lettera del signor E. M. al Direttore e una del Carducci al signor E. M., tutt’e due in risposta agli articoli della Lanterna; e questa tre giorni dopo (n. del 28 agosto) rispondeva con un articolo, intitolato: Le bizze di Giosue Carducci. La settimana avanti (n. del 21 agosto), avendo saputo che il Carducci stava preparando le sue risposte, aveva minacciato di chiudere la lizza con una caricatura.
Nella Lente del 1º settembre tornarono in iscena il signor E. M. e il Carducci; questi con una seconda lettera che rispondeva alla parte letteraria della critica della Lanterna, quegli con una breve dichiarazione premessa alla lettera del Carducci, con la quale diceva, non parergli dignitoso continuare polemiche con chi intendeva a modo della Lanterna l’ufficio delle lettere e del giornalismo. «Lascio adunque libero il campo, finiva, a questi detrattori di un giovane della cui stima mi onoro; e ciò fo con animo sereno, sì perchè non li invidio nella ingenerosa opera loro, sì perchè sono intimamente convinto che il giovane poeta, continuando alacremente negli studi, occuperà un bel posto nella odierna nostra letteratura a dispetto de’ suoi avversari.»
[455]
Alla seconda lettera del Carducci il Fanfani rispose con un quarto articolo nella Lanterna del 5 e con un quinto in quella del 12 settembre, intitolato: «Così all’amichevole si rimpedula il cervello al dottor Giosue Carducci.»
Le lettere del Carducci dovevano seguitare, perchè la materia alle risposte gli abbondava; ma nella Lente del 15 settembre comparve questa dichiarazione, che troncò la polemica: «Il signor dottor Giosue Carducci aveva portato a questa Direzione parte della continuazione della sua replica agli articoli della Lanterna, ma con dispiacere noi abbiamo sentito la necessità di doverci astenere dal pubblicarla, inquantochè vi si accennava ad un lungo proseguimento di questa polemica, la quale di natura sua ci pare aliena alla indole del nostro giornale, che è tutto umoristico.»
Intanto che il Fanfani pubblicava nella Lanterna i suoi velenosi articoli contro il Carducci, il giornale Il Passatempo, facendo la commedia, fingeva tener dietro alla polemica con l’aria di chi, disinteressato, vuol giudicare serenamente. E nella rassegna dei giornali chiamava (15 agosto) «nel tutto insieme giusta, ma troppo acerba, anzi feroce» la critica della Lanterna; lodava (22 e 29 agosto) la critica di Napoleone Giotti nello Spettatore, dicendola pacata e giudiziosa, ma non senza mite ironia; e biasimava (29 agosto) il Carducci e il signore E. M. per le loro risposte alla Lanterna, troppo aggressive.
Nel n. del 5 settembre del Passatempo l’articolo della Lanterna, Le bizze di Giosue Carducci, era battezzato per «una risposta vivace ed arguta quanto altra mai», e si esprimeva la speranza che anche il Carducci, seguendo l’esempio della Lanterna, si moderasse nelle repliche. Ma poche righe più giù, parlandosi del secondo articolo del [456] Carducci nella Lente, gli si faceva rimprovero di uscir sempre dai termini della moderazione.
A proposito del quarto articolo del Fanfani nella Lanterna (n. 17, 5 settembre) il Passatempo del 12 settembre scriveva: «Si torna sulla questione del Carducci, al quale il suo critico inesorabile, esclamando Il povero Giosue Carducci vagella, scrive una lettera per dargli una lezione di scherma, di cui dovrebbe, se è tale quale si tiene, far suo pro. Non curi le lische, chè ve ne sono, e prenda la polpa.» E poche righe più giù diceva: «Troppo più che scherzo ci pare la fiera derisione di chi difese nella Lente il Carducci.» Finalmente, parlando della dichiarazione della Lente circa la cessazione della polemica, scriveva: «Lodiamo il proposito del Carducci, e più lo loderemmo se l’avesse fatto prima.»
Non basta: la moderazione, anzi la generosità del Passatempo arrivò fino a prendere le difese del Carducci contro il Direttore di un giornaletto teatrale, che lo aveva chiamato pedante nel midollo dell’ossa, fradicio pedante non poeta, membro della società di mutuo incensamento, pastorello d’Arcadia, martire dello sgobbo, ec. ec. Il Carducci si era contentato di riderne, e di scrivere, per uso degli amici, un sonetto di risposta, che cominciava così, e che, s’intende, non fu mai stampato:
Ora itevene, o Muse, a sbordellare,
E Palla sia che scingavi le zone,
Poi che questa reliquia del bastone
Vuole anch’ei di poetica trattare.
O fogna di sporcizie, o lupanare,
Quand’esci a ragionar con le persone,
Prima alla fronte mettiti un crocione,
Chè non ci venga la gente a pisciare.
[457]
Nel terzo verso si allude ad una solenne bastonatura che il Direttore del giornaletto teatrale aveva ricevuto da un pagliaccio di una compagnia equestre.
Il Passatempo, pigliando la cosa sul serio, rispose così (n. del 21 novembre 1857):
Il signor Carducci non merita una tirata d’orecchi come voi gli fate; l’avreste preso forse per un Garelli, per un Bertini et similia?... Il Carducci è un giovane a parer mio educato a buonissimi studj; sicchè avete commesso villanìa a trattarlo in quel modo lì.... Io non dirò che le poesie del Carducci sieno senza mende, ma da un’altra parte, ditemi, possono mettersi in un mazzo con tante e tante altre che si veggono andare attorno? In un punto del vostro articolo vi lasciate scappare queste po’ po’ di bestemmie: «Pretendere di farci rinculare fino all’epoca di fra Guittone e di Dante da Majano, belare leziosaggini e smancerie come un pastorello d’Arcadia ec.» Vi fa torto il non aver conosciuto che il Carducci con quella sua forma poetica non volea far altro che ricondurre in Italia l’amore dei buoni studi.... io scommetto mille contr’uno che il Carducci infine infine farà qualche cosa meglio di me e di voi e di tanti altri nostri carissimi compagnoni.
Quando il Passatempo scriveva così, doveva certamente supporre che nessuno sapesse quello che tutti sapevano, che cioè lo scrittore degli articoli della Lanterna contro il Carducci era il Fanfani; e doveva anche essersi dimenticato che quelli articoli in fondo in fondo e’ li aveva sempre approvati.
Come saggio della polemica intorno alle Rime del Carducci, riferisco l’articolo del Fanfani nei due primi numeri della Lanterna, e la seconda lettera del Carducci nella Lente.
E faccio seguire ad essi l’articolo che, in forma di recensione, fu pubblicato nel fascicolo del maggio 1858 della Rivista contemporanea di Torino.
[458]
Se i giornalisti fiorentini, seguendo il Fanfani, erano stati unanimi nel vituperare le Rime del Carducci (la Lente, che aveva accolto le prime risposte del Carducci, poi si ritrasse subito, per non rompere il bell’accordo), l’autorevole Rivista torinese (nella quale scrivevano il Guerrazzi, il Vegezzi-Ruscalla, il Nigra, il Maestri, il Gallenga, lo Zini, il Massari, ed altri valentuomini, molti dei quali emigrati in Piemonte per ragioni politiche) non ebbe che lodi per il libretto del giovine poeta; e, ciò che più monta, lodi che mostravano un giudice competente e sereno.
L’articolo non era firmato, ma nella Rassegna bibliografica, della quale faceva parte, c’era un primo articolo firmato Luigi Zini, nel quale, a proposito delle Satire e poesie minori di Vittorio Alfieri pubblicate dal Carducci, si diceva: «Un giovane poeta toscano: al quale nei primi passi l’invidia e la cattiveria delle consorterie hanno gittato subito pietre ed improperii, per inconsueti modi violando le leggi della cortesia toscana, ma che ad uno dei nostri sommi, giudice formidabile e severo, è apparso siccome Achille fanciullo che apprende da Chirone (e il Chirone vuole sia Ugo Foscolo); questo giovin poeta, Giosue Carducci, del quale forse avrò altrove a dir qualche cosa, o in questa o nella prossima rassegna, vi appose una breve ma succosa prefazione, ec.» Queste parole fecero supporre al Targioni e al Micciarelli che la recensione non firmata fosse dello Zini, e ristampandola nel Momo (n. del 1º luglio) l’attribuirono senz’altro a lui. Ciò naturalmente diede fastidio al Passatempo, il quale nel suo n. 27 (3 luglio 1858) accennando a quella recensione vi contrappose la sola parte della lettera del Guerrazzi che criticava il Carducci, e mandò copia del giornale allo Zini. Lo Zini si affrettò [459] a rispondere al Passatempo che la recensione non era sua, e il Passatempo pubblicò la lettera dello Zini nel numero del 10 luglio. Ciò non ostante il Targioni e il Micciarelli seguitarono a credere che la recensione fosse dello Zini, e nel n. 28 del Momo (15 luglio) pubblicarono una curiosa rettificazione, che finiva così: «nonostante la protesta pubblicata dal solerte Passatempo, inclinavamo.... a restare, per lo meno, nella nostra opinione; quando ci è pervenuta quasi sicura notizia che non proprio il signor Luigi Zini, ma un tal Gigi Zoni è l’autore dell’articolo. E questo sia detto in lode del vero, e, anche un poco, del benevolo Gigi Zoni.»
Il Targioni e il Micciarelli avevano preso una solenne cantonata. Non c’era nessuna ragione di supporre non sincera la dichiarazione dello Zini. Ad ogni modo c’era un fatto che tagliava, come si suol dire, la testa al toro. In un articolo, Miscellanei, ch’era sotto altro nome una rassegna bibliografica, pubblicato nel fascicolo di giugno della Rivista contemporanea, lo Zini stesso parlava in modo alquanto diverso delle Rime del Carducci, il cui volumetto, diceva, eragli stato dato da un illustre scrittore, che lo aveva postillato di sua mano. L’illustre scrittore non era, si capisce dalle parole dello Zini, altri che il Guerrazzi. Le parole dello Zini, sotto forma di dialogo, erano queste:
— Insomma che dirai di queste poesie? — insistette l’inquisitore.
— Nulla probabilmente, e domanderò scusa agli autori e all’uditorio. Delle Rime del Carducci aveva quasi sacramento di parlare, e già lo promisi nella passata dispensa, quando, senza che io ne sapessi, altri ne parlò distesamente e con molto miglior garbo di quello che io [460] avrei potuto. Io le aveva qui, e postillate al lapis per mano di tale che può ben sedere pro tribunali.... Già sapete di chi intendo parlare. E poi vedete a chi donava l’autore questo volumetto.
— Lasciami vedere.... Oh! ben credo che gli s’abbia a far riverenza. Ma vediamo le postille. Questi tratti muti probabilmente significheranno che si poteva far meglio.... Oh! Ecco qui una postilla al sonetto a Enrico Nencioni: bei versi ma di poco concetto! Più oltre, a Giuseppe Parini: bei versi e concetto degno e santo! Sonetto al conte Terenzio Mamiani Della Rovere, ve’ la postilla alla prima quartina: non capisco niente, e neanch’io in verità. Qui nel primo canto a Targioni-Tozzetti: ah! c’è un’invocazione del poeta alle muse perchè lo aiutino a cantar di Grecia e del Lazio; leggiamo la postilla: non latino nè greco: codesti spiriti cessarono: canta, o giovine, le cose odierne, e t’invada lo spirito dei tuoi tempi. Il maestro pedante non abbia il vanto di avere spenta in te la sacra fiamma.
— Ah! qui il genio provato dall’esperienza, nel saggio di canto alle muse, dove Omero è raffigurato pari al re de’ numi, seduto nel foro e cinto da una corona di popolo riverente, scintillante il cielo, sorridenti gli Dei, soffia sulle giovanili illusioni del genio anco imberbe: cantava a’ pentolai per una pentola; e udito il canto lo giuntavano poi! Stupenda e a proposito. E qui in fondo? Esercitazioni giovanili; ci si sente il Foscolo; e’ pare Achille che fanciullo apprenda da Chirone!
— Già il dissi nella precedente rassegna. Eh! se le poesie mi venissero così annotate, e da mano così autorevole, ben mi rischierei a intrattenerne i lettori, vincendo la mia natural repugnanza!
L’autore della recensione, fra i vari pezzi delle poesie da lui citati, riportava intero, senza nessuna osservazione, il sonetto Al Mamiani: basterebbe questo a dimostrare ch’e’ non poteva essere lo Zini, il quale dichiarava di non capire la prima quartina di quel sonetto. Chi fosse, sarebbe difficile dire oggi; ma volendo cercarlo fra i collaboratori della Rivista, ci potremmo fermare, con qualche probabilità di coglier nel vero, al nome di Felice [461] Daneo, che nel fascicolo di aprile pubblicò un lungo articolo sulle poesie del Mamiani. Chi sa che il Mamiani, il quale conosceva il Daneo ed aveva già concepito molta stima del giovane Carducci, non gli avesse dato lui a leggere le Rime!
Comunque sia di ciò, una cosa importa notare, che gli amici pedanti non erano soli in Italia a riconoscere l’ingegno dell’amico loro.
Ed ecco ora i documenti.
Critica di Pietro Fanfani alle Rime del Carducci.
«Dopo quelle di Niccolini e di Mamiani questa è la migliore poesia che ai giorni nostri sia uscita in Italia.» E. M. (Lente del dì 4 agosto 1857.)
Quando uscì fuori il Gargani con quella famosa su’ Diceria (badate bene di non legger sudiceria) nella quale si davano frustate senza misericordia a tutti gli odierni poeti, e quando gli amici pedanti applaudirono a quel lavoro del loro collega, e lo difesero poi e lo ampliarono con la non meno famosa Giunta alla derrata, ci immaginammo che quando venisse fuori qualche loro lavoro poetico, avremmo sentito cose di cielo, miracoli di arte e d’ingegno, e da far parere tanti barbagianni poeti grandi e piccini stati sin qui. Pensate poi cosa credemmo dovessero essere queste Rime di Giosue, il quale è l’Achille di quel valoroso esercito degli amici pedanti, e con quanta avidità lo cominciammo a leggere.
Ma appena cominciato ci cascò il pan di mano, e strascinatici in fondo a mala fatica, dovemmo conchiudere che questo libricciuolo non è altro che una Raccolta di poesiucole di più tra le tante che se ne vede uscir fuori a questi giorni.
Imitazione servile e affettata de’ poeti antichi; soverchio abuso di modi e figure di poeti latini e greci volute scodellar pari pari nella poesia italiana; noiosa e continua [462] introduzione di versi interi d’altri poeti; noiosissimo e scolarescamente puerile rinfrancescare di patronimici e di parole composte alla greca; sconfinata presunzione che fa parlar l’autore come se fosse poeta veramente, e poeta già noto, già vecchio, già sommo; il solito rampognare il secolo vile, l’altrui ignavia, le altrui scapestrataggini, cosa disdicevole a un giovine di 21 anno e che non fa professione di anacoreta: oscurità in molte composizioni, e costrutti stortissimi.
Il poeta Giosue ha intitolato delle poesie a tutti gli amici pedanti, credendo buonamente di mandarli alla posterità, ed essi che forse crederanno di andarci per questa via, gliene renderanno merito facendo un articolo per uno su pei vari giornali, in lode del loro immortalatore, e così «dilectus noster nobis et nos illi»; e già l’abbiamo cominciato a vedere nella Lente del 4 agosto. Ha poi intitolato e sonetti e canzoni a uomini grandi viventi per averne grazie e parole benigne. Ma tali argomenti che valgono? Se le poesie son veramente quali le tiene l’autore e gli amici pedanti, cioè tali che niun altro a questi giorni possa volar tant’alto, anche senza tali ammennicoli il nome del Carducci sonerà chiaro tra breve quanto quello del Leopardi, e le cose sue saranno comprate a peso d’oro dagli editori; se poi sono quali le teniamo noi, cioè tali che non escono dal modo comune e mezzano, nè con questi ammennicoli, nè col doppio più, il nome del Carducci non sonerà più chiaro di quello dei Bracci, dei Pieri, dei Pierini, e degli altri mille scrittori di poesie che a questi giorni ci nascono come funghi.
Questo noi crediamo, se non quanto il Carducci sembraci nutrito di migliori studi degli altri poetucoli e crediamo che, formato il giudizio e temperato il bollor giovanile, possa fare qualche cosa di buono. Facciamo intanto vedere alcune delle stranezze di questo giovane poeta.
Pag. 1. — Se il fato assente affettuoso alcun voto mortale. Che vuol dire?
Pag. 2. — Il disio che per donna m’incende ci pare sgarbata maniera per significare l’amore: e non sappiamo che cosa voglia dire che l’altra (larva) traggemi in parte ov’io spiro a’ fantasmi e pur gravami il vero.
Pag. 3. — L’altera giovinetta bella è un verso fatto di zeppe; è un modo mal preso dagli antichi, e affettatissimo il dire che Beltade addimostra una donna per propria angiolella.
[463]
Pag. 4. — Ridicolo è il principio del sonetto O nova angela mia senz’ale al fianco. Non regge il dire forse avverrà ch’io segni le tue vestigie per che io ti segua; perchè le vestigia si segnano da sè, e non le segna chi vien dietro, e ci pone su i piedi. Inintelligibile è poi la terzina seconda, e ridicolo l’ultimo verso L’ale tue d’ôr non mettan fuor la punta.
Pag. 5. — Sa di Burchiello il principio del sonetto con quel Candidi soli e riso di tramonti; è stranissimo quell’espero roseo che sormonta l’alte serene (zeppe) vie dei firmamenti; e più strana che mai quella luna che su i sentier tacenti (quali sentieri sono?) rende imago (ma imago di che?) entro laghetti e fonti (ma nelle fonti che imagine può restarci, essendo l’acqua in continuo moto?). E nell’ultimo verso quel caro petto della donna mia non può sonar proprio altro, posto a quel modo, che mammelle. O poeta Giosue, adagio a ma’ passi! Sono un grave sproposito quelle acque cadenti giù per li verdi tramiti de’ monti, perchè ne’ tramiti non ci corre l’acqua ma ci camminano gli uomini, non essendo altro il tramite che una via stretta; e poi perchè i tramiti dei monti non son verdi, cioè coperti d’erba, non essendo i monti generalmente erbosi, ed erbosi non essendo mai i tramiti, come quelli che sono scalpitati dagli uomini.
Pag. 8. — Son cosa veramente comica quelle itale usanze che debbono i lor colori al pennello di Goldoni, e quel dire che egli mostrò a quanti frutti e fiori sorga un ingegno latino in suolo rubello.
Pag. 16. — Strano è il dire che l’alma della sua donna ridea e trasparia ne’ suoi occhi come ride in serena onda una stella. Prima perchè senza dire che la stella è riflessa nell’onda, pare che il luogo proprio delle stelle sia l’onda: poi perchè l’epiteto di sereno mal si addice a onda, e finalmente perchè l’onda, non essendo puramente acqua, ma il moto dell’acqua o l’acqua in moto, non si può dire che vi si vedano riflesse le stelle che solo possono vedersi in acqua limpida e ferma.
Pag. 17. — Non sappiamo che uscita sia quella del Sonetto XVII dove si dice, parlando a un cavallo, l’uomo quando disse te bruta ignobil salma (non è più vero che il cavallo è un bruto) mente a sè adulando; ed è ridicolissimo il giurarlo per il cavallo medesimo (Per te lo giuro). E quella piaga che stride sanguinosa (pag. 18) non è una perla?
[464]
E il bianco seno di Corinna che sorgeale sotto le corde auree gementi (il verso bisognava finirlo) nel Sonetto XXI (pag. 21) non è un’altra perla?
E l’ingegno altero, integro, eretto (pag. 22) che roba è? e non sono zeppe?
E dire il gener vostro per i vostri discendenti (pag. 24) non è pazzia?
Pag. 27, 28, 29. — Vorrebbe dirci il poeta unico dopo il Mamiani e il Niccolini che roba è l’aer livida che stride divisa dai moschetti? E quell’incestare (usato altre volte) per contaminare o simile che verbaccio è egli? O non lo sa quel che è incesto? come si fa dunque a trasportarlo a tal significato? e poi incestare val mettere nelle ceste, e va fuggita questa anfibologia. E quella sposa ingenua che agogna gaudii notturni, ci par che sappia proprio poco d’ingenua! Quella prora aspro lavoro di liverpoolica mano è cosa veramente da matti: indovinate che è la mano sonora liverpoolica? sono gli artefici di Liverpool, e chiamasi sonora la lor mano perchè lavorando adoprano martelli, seghe o altro, e fanno del romore. Che vi pare? ben trovato eh? E l’Euro che scavalca gl’ispidi flutti, non è una perla? L’Euro agita il mare o solleva i flutti, ma scavalcarli non sappiam che voglia dire, perchè scavalcare vale buttar giù da cavallo. E perle sono pure la mente che calca rischi e terrori; e quello sfidar co’ baci. Quel tale poi che stanco alle prove (a che prove?) depone sopra niveo petto (e batti col petto; il poeta Giosue, a quel che pare, va matto del petto), la fronte carca di glorie non vale un tesoro?
Pag. 33 e seg. — Il Canto a Dante è una brutta contraffazione del centone famoso del Giusti; oscuro spesso, ed è vero il giudizio che ne dà l’autore medesimo, cioè che dà più fumo che luce; se non che noi vediamo il fumo solo. Ci si ammirano i fratelli duellanti a uccidersi: le civili fiamme udite su civili mura; il marito che ruina in armi erompendo dagli amplessi: le bionde e canute chiome addensate in gran sangue; questa ombra (il Petrarca disse questa morte, ombra non istà) che à nome vita ed è sì bassa e questo che vuol dire? la rea Meloria che sorge nel medio evo dal mar toscano; l’equoreo seno incestato (al solito) di sangue; la forza e la ferrata necessità che si premono a tergo di Prometeo; le foreste aurite, e simili altre garbatezze.
[465]
Pag. 52 e seg. — Quella lent’ombra nordica (specie di ombrantroff) che preme i laureti d’Arno, è da Beco sudicio; e il lituo retico che freme dove nascea Marone è da matto; prima perchè lituo presso di noi non è altro che bacchetta degli auguri o da pastori; e poi perchè se s’ha da intendere per strumento da fiato (il che non concediamo, benchè lo facesse Orazio in latino), non si può dire che freme; essendo strumento di suono dolce, lo suoni chi vuole.
Pag. 63 e seg. — Ci sarebbe da notare le ultime strida che premon la vita non si sa di chi, in quella sestina contraffatta su le antiche, tutta smancerie e lascivie amorose, ma pur dedicata a un frate. Le umide pupille oblique immote (a pag. 66) che dolci fiammeggiano (se sono umide come fiammeggiano?, e poi se sono immote e oblique vuol dir che chi le aveva era guercia); le quieti torbide interrotte da sogni atri; la schiva dea (Diana) che scinge a Endimione notturna Venere!!! (a pag. 67). Il petto immansueto che durò gl’imperii d’amore e la religion di Delo che più non mugge dagli aditi (a pag. 68).
Pag. 73 e seg. — Nella lauda spirituale si comincia a dire alla umana gente che tolga via le porte, ma essa per toglierle via aspetterà di sapere di che porte si tratta. Si dice alle fanciulle che diano la ROSA, a piena mano (La rosa? ohe!) e che diano il mirto in suo cammino, con la bianchezza del fior gelsomino. Si dice che dal volto del Redentore fugge la morte, e poco dopo si dice che l’ombra di morte stiè nera intorno a lui, e che il padre suo non volse la fronte al suo chiamare; e un’altra volta si dice che diasi palma e alloro a piena mano sovra il sentier del nostro pellicano: ed un’altra volta ancora si dice alle fanciulle che diano con umil fede il fior delle contrade. C’è poi una reggia che si estolle d’artificio mira; la morte che vive e altre gentilezze simili.
Pag. 77 e seg. — Potremmo farvi vedere una genía bugiarda che irrompe nel vietato falsa e codarda per mostrarvi con che garbo il poeta Giosue trasporti in italiano i modi di Orazio; la dormita inerzia che dalle cune prime opprime noi volenti, genti mal vive. Potremmo domandare a voi che cosa mai facevano gli antichi quando immoti prostravano a morte libera devoti Marte straniero. Potremmo chiamarvi ad ammirare i campi che suonano sotto il gran cavallo; il prepotente canto, il docil guizzo de’ seguaci moti, ed altre [466] tante belle cose, ma siamo stanchi, e se mai le serberemo ad altra volta.
Non possiamo tacere peraltro di que’ saggi di un canto alle Muse. Qui il poeta Giosue si è dato a scimmiottare a rotta di collo il fare de’ Greci e del Leopardi, ma il fa così sguaiatamente che c’è tornato in mente, leggendo questo lavoro, Stenterello quando si trova diventato Re, e vuol provarsi a procedere alla reale, e lo fa con quel garbo che tutti sanno. Senza che vi si ammirano le solite gioie, come il propagar la vita con vitto ferino: le vite che gemono chine sull’opera del pane crescente!!! la procella che scoscende divina; i monti esercitati dal piè degli immortali; le ombre de’ numi; il vulgo addensato su gli omeri (gobbo?), le vesti ondeanti ec. ec....
Si conchiude che questa raccolta di Rime vale poco più delle tante e tante uscite fuori a questi giorni, se non che è maggiore la presunzione dell’autore, il quale per questo mi par che possa paragonarsi a un passerotto di nido che si pretende d’essere un’aquila. Questo basti per ora a mostrare di che forza sia un poeta che si è avuto l’impudenza di porre per terzo con Niccolini e Mamiani e di chiamarlo unico: se occorrerà mostreremo altrettante e più magagne, e analizzeremo qualche suo componimento.
(Dalla Lanterna di Diogene, anno II,
nn. 13 e 14; 8 e 14 agosto 1857.)
Risposta del Carducci alla Lanterna di Diogene,
in forma di lettera al signor E. M.
Onorevol signor E. M.,
E tenendovi la parola[86] vengo alla parte buffa del mio intrattenimento; nella quale, per mostrarmi da vero buon amico pedante, anzi l’Achille degli amici pedanti, io vi darò lo spettacolo di questo Tersite de’ critici che salta e guaisce sotto i colpi della clava erculea di noi pedanti, la logica e l’autorità: «Sallo Iddio che sa tutte le cose, dirò col Lasca (lett. al gobbo da Pisa), quanto mal volentieri [467] entri seco nell’arringo critico a contrastare; non già ch’io creda di poter perdere, ma perch’io spero non acquistare, vincendolo, onore e pregio alcuno.» Ma sì fiera cosa è la presunzione di cotestui, e con tant’aria e’ si allaccia la giornea e con tal muffa va per la maggiore e sputa tondo e sentenzia, che a sanarlo di questa sua malattia di credersi tale da poter dare i cavalli altrui e chiarirlo della ignoranza sua smisurata e favolosa e’ parmi di fare opera di misericordia. Or dunque accorrete, o signori e signore, allo spettacolo, dove udirete Tersite che la trincia da critico, ed abburatta cotali spropositi che mai sentiste i più nuovi. Ma.... date operam et cum silentio animadvortite ut pernoscatis.... Ecco Tersite in iscena. E monta in cattedra, e badatosi a destra e a sinistra, si spurga, si soffia, e con voce di pedagogo mi vien domandando:
— Poeta Giosue — Se il fato assente affettuoso alcun voto mortale — che vuol dire?
— Maestro Tersite — Forse avverrà se il ciel benigno ascolta Affettuoso alcun prego mortale (Tasso, Gerus.) — che vuol dire? — I Pisani non l’assentiro (la domanda degli ambasciatori fiorentini, Giov. Villani) — che vuol dire? Vedete! alla scuola d’umanità il Tasso, e specialmente il suo canto dell’Erminia, s’imparava a memoria: che non tornate per lo vostro meglio a umanità?
— Sfacciato e linguacciuto ragazzo! Ma IL disio che per donna m’incende ci pare sgarbata maniera per significare l’amore.
— Davvero? Come delicato il maestro Tersite! Ma cupido e cupiditas chiamò Ovidio la passione d’amore, e IGNIS Virgilio, e ardor Seneca: e in proposito di amori i verbi calere ardere urere s’incontrano a ogni piè mosso ne’ poeti latini. E a Giuseppe Franck, medico filosofo, pareva che l’intenso desiderio d’ottenere un individuo d’altro sesso costituisse l’amore nel grado suo di passione (Patol. med., Malat. del sist. nerv., cap. XXI). Vero è che voi m’arieggiate il platonico, e questa carnalità latina e medicale non vi farà. In questo caso, vi parleranno in lor volgare quei cavallereschi poeti del nostro medio evo: — Amore è un disio che vien dal core Per l’abbondanza del gran piacimento (il notaro da Lentino).... Desidèro di voler, nato per piacer del core — e — Piacer di forma dato per natura (Inc. aut. del sec. XIII). — e il metafisico [468] Dante — Beltade appare in saggia donna pui Che piace agli occhi, sicchè dentro ’l core Nasce un disio della cosa piacente. — Ma, e dove lascio il moralista Castiglione, il quale diceva che, secondo che dagli antichi savi è diffinito, Amor non è altro che un certo DESIDERIO DI FRUIR LA BELLEZZA (Corteg., lib. IV, § 51). Che parvene egli, mastro Tersite? se volete altro, sappiatecel dire; e anco diteci dove stia proprio il mal garbo della nostra perifrasi.
— Bene, bene. Ma non sappiamo cosa voglia dire che l’altra (larva) traggemi in parte ov’io spiro a’ fantasmi — e pur gravami il vero.
— Non sapete? guardate mo’! E che è che non sapete? forse che in parte o in quella parte vale in luogo o in quel luogo? Ma anco i ragazzi vi recitano a mente — Levommi il mio pensiero in PARTE ov’era — Colei.... e il Tasso nelle rime scriveva — portar le mie preghiere in PARTE dove — Vi sia chi le raccoglia. — Ovvero non sapete che l’IN PARTE usasi ancora metaforicamente a significare certe contrade metafisiche del pensiero? E il Petrarca cantava — In quella parte dove amor mi sprona — Conven ch’io volga le dogliose rime: — e il beato Giovanni delle Celle scriveva — Io sono in PARTE che altro non posso se non pregare Iddio. — O è lo spiro che vi dà noia? Ma il Foscolo cantò — Anch’io Pingo e SPIRO a’ fantasmi. Nè intendete ancora? Di grazia: andate e leggete qualche cosa delle operette morali del Leopardi, con alcuna pagina pur del Foscolo; e il concetto allora vi apparirà lucidissimo.
— Diavolo! o che a me col mio titolo di chiarissimo e con quel tòcco di nomea che mi rimpasto non mi abbia a riuscir d’impappinare questo ragazzo? proviamolo in un altro tasto. — Poeta Giosue, L’ALTERA GIOVINETTA BELLA è un verso fatto di zeppe, l’alte serene vie de’ firmamenti sono zeppe, e l’ingegno altero integro eretto che roba è? e non sono zeppe?
— Affè di tutti i pagani che hanno fatto tanto scandalo, la teorica delle zeppe è la parte culminante della vostra critica, caro il mio chiarissimo. Or udite verso fatto di zeppe da Dino Frescobaldi: — questa pietosa giovinetta bella: — udite zeppe che metteva Francesco Petrarca — la mia fiorita e verde etade — Dolce cantare oneste donne e belle — Oimè il leggiadro portamento altero: udite zeppe di Torquato Tasso nelle rime: — fece le fiamme placide e tranquille — Quando sprezzata grande e chiara fama — Come al [469] partir d’oscura notte ombrosa — Che non t’ascondi omai sola e romita. — Udite zeppe, ch’il crederebbe, pur di Vittorio Alfieri e pur nelle rime: — Sole d’un mesto velo tenebroso — io ti vedo coprir — E quel suo di lei sola umile altero — atto. E i versi fin qui citati sono, e non c’è che dire, sono anco nella disposizione delle parole fratelli maggiori del verso mio Questa è l’altiera giovinetta bella.
— Va tutto bene, ma io dico l’ingegno altero integro eretto.
— Ma io dico a voi, se nel Petrarca leggiamo i passi tardi e lenti con il vecchierel canuto e bianco; e lieti e contenti nel Tasso, e nella prosa del Casa le chiome canute e bianche «de’ quali modi (scrive l’illustre Fornaciari) chi mostra maravigliarsi, mostra non esser punto domestico dei classici, i quali e per seguire il comun parlare, e per esprimere più efficacemente una cosa pongono talvolta due voci di simile significazione piuttosto che una», come potete voi chiamare zeppa l’aggruppar mio di due o tre epiteti a diversamente e più efficacemente qualificare un soggetto?
— Ma l’esempio de’ classici....
— Mancano eglino gli esempi dei classici che abbiano accompagnato un nome di tre e più epiteti? Udite Francesco Petrarca: Vaghe pupille angeliche beatrici — Della mia vita. Misero mondo instabile e protervo — La dispietata mia ventura — Noiosa, inesorabile, superba — Quel vago dolce caro onesto sguardo. — Udite Torquato Tasso: Vaghe, leggiadre, amorosette e pronte serve di lei — O santa, o pura, immacolata fede. — Udite Vittorio Alfieri: O leggiadro soave e in terra solo — Viso — O bei leggiadri angelici costumi. — E Giacomo Leopardi: Nel petto — Nell’imo petto grave salda immota — Come colonna adamantina siede.... — E Niccolò Tommaseo, in prosa, nel proemio al suo Dante del 1854: E avventò rigido, intero, diretto, quasi saetta quel verso variissimo. — E questo è proprio il caso del mio ingegno altero, integro, eretto, non vi pare, maestro Tersite?
— Questo però non potrete negare, che è affettatissimo il dire che beltade addimostra una donna per propria angiolella.
— Eppure a me pareva, e parrà anco ad altri, che la mia sia imagine più modesta che non queste due: Beltade e Cortesia sua dea la chiama (Dante da Maiano) — E la Beltade per sua dea la mostra (G. Cavalcanti): io più umanamente avea detto: per propria angiolella, e angiolella è vocabolo risuscitato dal Mamiani.
[470]
— In ogni modo è sempre affettato, come ridicolo è il principio del sonetto: O nova angiola mia senz’ala al fianco.
— Ridicolo? e perchè? Noi leggiamo in Petrarca: Questa fenice della aurata piuma — e: Nuova angeletta sopra l’ale accorta, — come in Giusto de’ Conti: Quest’angeletta mia dall’ali d’oro — e nelle rime di Torquato Tasso: Nuova angeletta dall’eterne piume: — e non ci paiono, e non parranno al maestro Tersite ridicoli principî di componimento! Tanto meno, se s’avesse a fare con uomini di buona fede, dovrebbe parer ridicolo il verso mio; il quale contiene un pensiero naturalmente più vero che non quello del Petrarca, e del De’ Conti e del Tasso. Infatti cotesti poeti parlano di donne che sono fenici con penne o angiolette con ali d’oro, mentre io mi contento di dire presso a poco così: — O tu che di bellezza e costumi sei simile agli angioli, ma angiola non sei.
— Oh, m’avete fradicio con cotesta vostra logica, poeta Giosue! E io che m’immaginava che un poeta e un poeta ragazzo non sapesse po’ poi andar tanto per la sottile! Ma voi foste a scuola i sofisti. Sibbene cotestoro non vi insegnarono a dir le cose per modo che le s’intendano, difatto inintelligibile è la terzina seconda di cotesto vostro Sonetto IV. E asserisco questo senza neppur riferire la terzina, tanto dell’asserir mio son sicuro.
— Ma sapete, mastro Tersite mio, quel che dicea Vincenzio Monti a certi suoi critici, i quali a petto a voi eran tanti Aristotili per asini e tristi che e’ fossero? «Prima di giudicare, diceva Vincenzio Monti, siamo tenuti ad intendere: nè io ho mai saputo che della ignoranza di chi legge debba accusarsi chi scrive.» Ecco la mia terzina, e giudichi il pubblico se voi asseriste vero: io dico alla fanciulla che amando lei mi purificherò,
«Se di tanto mi degna il primo amante
Che, mentre io tenga del mortale incarco,
L’ale tue d’ôr non mettan fuor la punta.»
Terzina inintelligibile certo a cui della filosofia platonica ignori sino al linguaggio, a cui non sappia che sieno l’eleganze toscane, a cui Dio abbia negato le facoltà del ragionamento. Di fatto, chi conosca pur il linguaggio della filosofia platonica intende che il «primo amante» è Dio, chiamato dall’Alighieri il «primo amore», e si ricorda [471] che il Tasso cantava alla Pietà: Scaldi gli alati amori — di novo e dolce foco e ’l primo Amante, e che il Costanzo presso il poeta filosofo Terenzio Mamiani dicea dell’amore: amore è cetra — Che d’alme corde ed infinite e sante — Leva eterna melode al primo Amante. E chi sappia d’eleganze toscane intende che mentre io tenga del mortale incarco vale: mentre io viva unito al corpo, ricordandosi del dantesco — per l’incarco — Della carne d’Adamo onde si veste — e ricordandosi pure che il del usano spesso i poeti nostri a significare come una parte d’un oggetto: Infondi in me di quel divino ardore (Guittone); E’ non par che tu sentissi mai di bene alcun (Cino); Mentre mia luce del mortale Avrà (Giusto de’ Conti). E chi s’intende di logica, vede subito che essendosi detto nel primo verso Questa angeletta mia senz’ala al fianco, nell’ultimo si viene a desiderare che le ale d’angelo non appariscano alla giovinetta, cioè che ella non passi a vita angelica, cioè che la poveretta non muoia. Intendete ora, mastro Tersite?
— Ben be’: queste le son sofisticherie, le quali non per tanto non impediscono che cotesto ultimo verso L’ale tue d’ôr non mettan fuor la punta, sia ridicolo, poeta Giosue.
— Tersite, questa volta tu se’ reo d’irriverenza a Terenzio Mamiani della Rovere; il quale scrisse: Oimè che la diadema èlle apparita — Oimè che l’ale han messo fuor la punta. — Giù in ginocchio, Tersite, e la corda al collo! come usavano i rei del medio evo quando chiedean perdonanza.
(Dal giornale La Lente, anno II, n. 35, 1º settembre 1857.)
Recensione della Rivista contemporanea
(Vol. XIII, anno VI, Fasc. del maggio 1858.)
Rime di Giosue Carducci. (San Miniato, Tip. Ristori, anno 1857.)
Da quelle care e sacre convalli ove la poesia d’Italia mise il primo vagito, e dove vivono e perenni si tramandano colle tele e coi marmi, e più ancora con la favella le memorie di sì grande infelice, si leva oggi il canto di ventenne poeta. — È preludio di gloria novella, e fra le codardie di un secolo audace e frale, testimonianza di vita, [472] di speranza e d’amore. — Per esso il cielo natio non si coverse di boreali caligini: ma sordo ai clamori d’un volgo insano, tenne fede all’eredità del patrio senno, e senza rossore bevve all’immacolate sorgive della sapienza. — Così si rannodano in bella guisa entro i suoi carmi e le antiche memorie ed i fremiti della presente generazione, chè altrimenti la poesia anzichè ministra di conforti diverrebbe sterile e fatua fiammella che dileguasi senz’altro pel cielo. Quel mite popolo della Toscana serba ancora gl’influssi del genio pelasgico e armonizza in sommo grado la gentilezza jonia alla maestà delle genti doriche; ad esso prescrissero i cieli di custodire il palladio della favella, che in tanta ruina d’umani casi è pur largo compenso. — E ai vati poi sempre animati da un soffio fatidico fu dato destare le genti mal vive, agitando, come l’angelo sospirato dal paralitico, queste acque stagnanti. La malaugurata semenza dei miseri poeti è feconda in Italia; chè a pochi fu concesso discendere nei penetrali dell’anima, e a pochissimi destare i sopiti pensieri per levarli all’altezza di Dio. Corrono insensati la facil china dell’universale costume, e giovani, schivi d’ogni fatica, levano a cielo ciò che non intendono, predicando il concetto al di sopra della forma; e benchè quello a questa sovrasti, la favella ed il numero sono, a dir così, l’istrumento in cui l’idea si travasa; e se quello non è al tutto accomodato a riceverla e modularla, l’istessa idea può scemare di forza e sformarsi. — A Giosue Carducci non bastarono le nude forme, ma crebbero in lui inspiratrici di carmi due muse immortali, l’Amore e la Patria, s’intrecciarono insieme, conquistarono il giovinetto suo cuore, lasciando integra e robusta la fede degli avi suoi. — Nè i molli vagiti o i disperati lamenti approdarono a lui che, levato in più alta sfera, s’ispira ai canti di quel Grande che, provando breve e ristretta la cerchia di questo pianeta, non si disse pago sinchè non ebbe descritto a fondo l’intero universo. — A questo audace ingegno che riflette con Michelangelo la giovinezza della nazione, tien dietro il giovinetto vate, che nutrito alla divina scuola sente il soffio di Dante e la dolcezza di quel mesto poeta
Che Amore nudo in Grecia e nudo in Roma
D’un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere Celeste,
[473]
Il libriccino che ti si raccomanda, o lettore, di sole 90 facciate, esce umile e schietto, schivo d’ogni orpello e liscio straniero, dai tipi Ristori in San Miniato. Gli splendono in fronte due nomi fra i più augusti del secolo, cioè quello dell’infelice Giordani, e dell’infelicissimo Leopardi. Ti si schierano poi innanzi 25 sonetti: ma non ti turbare, chè non sentono già il leppo della lucerna, nè la fiacca cascaggine de’ Petrarchisti, ma piuttosto un’aura foscoliana e il reciso verso d’Alfieri. La brevità della forma non lo costringe, non lo impaccia, come avviene ai mediocri, ma franco il pensiero discorre con meravigliosa serenità, limpido e puro, e con quell’unità di concetto che è tutta propria di siffatto genere di poetare. Due larve, anzi due furie, dice il poeta, fanno strazio di lui, l’amore della sua donna e quello ancor più fiero della sua patria; e benchè il disinganno lo vinca a quando a quando, pure sotto sì dura sferza non vengono meno, e l’uno e l’altro combattono a gara. — Nell’intitolarne uno a Pietro Metastasio, ei trova modo di rimbeccare il secolo sì proclive a mescolare il linguaggio dell’Evangelo al novellare dei trivi. L’anima del poeta si sdegna che la scena divenga scuola di vizii, poichè com’ei dice:
Scuola or la scena è d’ogni cosa ria,
Dove scherza il delitto e dove ardito
L’adulterio in gentil vista passeggia.
E a questi esempi il suo nome nodrito
Vuole, e te mastro di virtude obblia
Il secoletto vil che cristianeggia.
E bellissimi e degni d’esser qui ricordati sono quelli al Parini, al Niccolini e al Monti, che si dipartono dalla schiera volgare, come l’autore dai molli esempi e dai tristi. Questo a Terenzio Mamiani trascrivo intero:
Come basti virtù, perchè suprema
Ira e furor d’ingegni, e pellegrino
Regno più in fondo il nome italo prema,
A contrastare il fato in cor latino,
Ben mostri or tu, che, mentre ignuda e scema
D’ogni loda e bel pregio a reo cammino
Torce la gente, in su l’etade estrema
Sofo e vate d’Italia e cittadino
[474]
Vero pur sorgi, come a ’l secol bello
Quando a ’l valor natio spazio era dato
D’addimostrarsi in generosi esempi.
O d’antiqua virtude ultimo ostello
Petto roman, tu solo in contra il fato
Dura, e di te nostro difetto adempi.
E se volgiamo alla poesia gentile, come trovarne di più soave e al tempo stesso più calda d’affetto, più semplice e bella nel suo natio candore?
A questi dì pur io ti vidi. Uscia
A pena il fior di tua stagion novella;
E la persona pargoletta e bella
Era tutta d’amore un’armonia.
Vereconda sul labbro ti fioria
L’ingenua grazia e la gentil favella:
Come ride in serena onda una stella,
Ridea l’alma negli occhi e trasparia.
Tal io ti vidi. Or con disio supremo
Te per questo nefando aere smarrita
Pur cerco e invoco: e sol mi sento, e tremo;
Chè spento è al tutto ogni buon lume, e vita
Già m’abbandona, e son quasi all’estremo.
Luce degli anni miei, dove se’ gita?
Tale è la semplicità dell’affetto profondamente sentito, che non osi penetrare l’arcano di quell’anima afflitta, e pur ti attristi con lui. E quel fazzoletto che ispirò sì leggiadri versi e quella tomba d’amico ne’ verdi anni rapito alla speranza e all’affetto, e persino il sonetto che celebra il cavallo vincitore degli angli puledri sente a un tempo e le fragranze dei giardini d’Atene, e lo squillo de’ giochi elei. Ma qui s’apre più larga vena d’armonia ne’ canti, poichè il pensiero in più largo gira, e le forze del giovanile ingegno si rilevano nella loro maestà. Non è un fuor d’opera quella invocazione a Giacomo Leopardi, che parrebbe quasi redivivo nei forti e pensati carmi dell’ausonio Carducci; e questo non è plagio di penna venduta o dolce inganno d’amichevole affetto, ma spontaneo [475] grido di fratelli lontani che salutano in lui una gloria novella ed un vate degno della sua patria, conscio de’ suoi dolori. A cui fu largito intelletto di bellezze poetiche e che non fu guasto dall’alito delle nordiche muse, questi canti sembreranno un prezioso gioiello, e forse più che un preludio un nobile esempio alla schiera de’ giovani studiosi. Alcuno arriccierà il naso all’uso frequente degli Dei della favola, che raffreddano per così dire il pensiero trasportandolo nella regione de’ sogni; noi crediamo scusarlo col confronto d’altre inarrivabili bellezze e coll’esempio de’ più venerati maestri. E se a me non fosse conteso di penetrare nel segreto di tante bellezze che l’arte asconde ai profani, forse le piccole mende di voci antiquate e di quasi oscurità nel periodo di leggieri scomparirebbero. Dirò come ognuna di queste canzoni senta il greco pennello, e come la bellezza vi si diffonde più grata vedendo che l’arte ministra del colorito vi appresta le forme senza imprigionarne e tormentarne il pensiero. E mentre a danno del pensiero stesso la forma è presso i moderni o negletta o straniera, per esso invece, come avviene dei sommi, il pensiero signoreggia sempre senza danno di quella. Si provò anzi, per quella simpatia de’ Latini e dei Greci che in lui è grandissima, a rinnovare, come il Gargallo e il Labindo, e costringere in saffici e asclepiadei idee nostrane e casalinghe. Lascio ad altri il pronunziare se raggiunse la meta, e se difatto convengano a’ nostri pensieri le forme del Lazio, poichè a me sembra una mostra d’ingegno anzichè un ritmo ben acconcio alla armonia della favella nostra. Spezzato ad ogni tratto e quasi sminuzzato, la maestà di questa lingua se ne offende, come quella di Bernardo Davanzati nella traduzione di Tacito. Nè qui mi allungo per non ritardarne l’assaggio. Prescelgo fra tutte quella canzone che intitola — Dante — dalla quale vorrei estrarre sol qualche brano, ma lo faccio a malincuore, perocchè degna d’esser copiata le mille volte, sebbene, com’ei confessa, fosse questo il primo cimento, la prima nota della sua lira:
Ma questa umile aiola
Ove si piange e s’odia,
E questo eterno inganno, e questa vana
Ombra ch’à nome vita ed è sì bassa
T’era in dispetto. Poi che il sacro verso
[476]
A tutto l’universo
Descrisse fondo e ’l buon sofo gentile
Te mise dentro a le secrete cose,
Veder volesti come l’angiol vede
Colà dove non è di nebbia velo,
Amar volesti come s’ama in cielo.
Su per le vie d’amore
Quest’umil creatura
Risospingendo innanzi al creatore,
Quetar volesti in quell’eterno vero
Che il grand’amor ti dette e ’l gran pensiero.
Cesse Virgilio in faccia
A tanta luce: e tu, deserto e solo
Spirito uman, per entro il gran disio
Sommerso vaneggiavi, e dubitando
Duolo e disdegno avei di te sì forte
E tanto amaro che nulla è più morte.
Tu disperavi: quando
Su l’angeliche penne
Al tuo dolor sovvenne
Quella ch’è amore e visïone e luce
Fra l’intelletto e ’l vero:
Nomarla a me lingua mortal non lice:
Tu la dicesti, amando, Beatrice.
Così di sfera in sfera
Tutto era melodia quello che udivi,
Tutto quel che vedevi ardore e luce,
E tutti quanti erano amore i sensi,
E lo spirto ed il verso un’armonia
Simile a quella che là su s’india.
Deh, qual parveti allora
Quest’umil patria, e qual de le partite
Città la lite, ahi come quella eterna
Che sempre trista fa la valle inferna....
E qui tralascio perocchè mi converrebbe trascriverla intera, anzi trascrivere l’intero volume, che merita altri elogi e più nobile encomiatore. Mirabile è pure la gentile ballata che rammenta le schiette e semplici rime de’ primitivi poeti toscani, del Cavalcanti, del Frescobaldi, che, lungamente e con grande amore studiati, derivarono nelle sue rime quella purezza inarrivabile che vi intraluce. Poi nel canto degli Italiani così esclama:
[477]
O di cuor peregrina e di favella
E di vesti e di vizii o in odio a’ numi
E agli avi ed a la patria, or che presumi,
Stirpe rubella?
Sgombra di te la sacra terra: o in fondo
Giaci da secolar morbo disfatta;
E i vanti posa, e la superbia matta,
Favola a ’l mondo.
Chè non per cifre e teoremi acuti
D’economista la civile arride
Felicitate, nè la via divide
De’ vizii arguti:
Nè di vigore un secol guasto allieta
Sillogismo di tumida sofia,
Non clamor di tribuni, e non follia
D’ebro poeta.
Quando virtude con fuggenti piume[87]
Sprezza la terra e chiede altro sentiero,
L’ardor del buono e lo splendor del vero
Rado s’alluma.
Inerte il cuor gli spirti suoi più belli
Ammorza, e stagna torbida la mente:
Speme si vela, e disdegnosamente
Guarda gli avelli.
Vinci l’errore; e a’ veri lumi tuoi
Mira, o dispersa italica famiglia:
Levati, e nuova il buon cammin ripiglia
De’ vecchi eroi.
Così il poeta ripiglia veramente il cammino de’ buoni, e uscendo solingo dalla turba, mira a quell’uniche stelle della Virtù e della Fede, le sole che fanno capaci i popoli di rifarsi come la fenice, perchè, come disse un arguto scrittore, quando la servitù entra per la porta di settentrione in una città, è segno evidente che la virtù è già uscita per la porta di mezzogiorno. Ed è quindi gran lode per lui che, mentre tutto declina a pravo costume, [478] sappia durare co’ pochi nell’operosa virtù e nella carità della patria saldo fra gli ozi codardi e la pressura dei forti e lo scherno dei vili, vincendo ogni prova nella fede d’un tempo migliore.
Il Momo, riproducendo questo articolo nel suo n. 26 (anno I, 1º luglio 1858), vi premetteva un cappello, nel quale, fra le altre cose era detto:
È notabile che come ora è stato primo a parlare con lode delle Rime del Carducci un giornale torinese, fu pure un giornale torinese (la Rivista enciclopedica italiana) che primo, e solo, lodò il Carducci degli Studi di filologia e lingua latina da lui stampati nell’Appendice alle Letture di famiglia. I quali Studi perchè qua in Toscana passarono, come al solito ogni buona cosa, inosservati; ci piace ripetere qui le parole di quel giornale, molto onorevoli al Carducci, che sono nella dispensa dell’ottobre 1855:
«Non possiamo a meno che lodare di bel nuovo il pregiato lavoro del signor Carducci sulla lingua e letteratura latina, il quale non si restringe solamente ad una interpretazione del testo delle Georgiche, ma spazia altresì pei campi della storia e della linguistica, e procede per via di confronti letterari tra gli autori greci e latini a svelarci i tempi di Virgilio ed i più reconditi pensieri di lui. Onde noi non abbiamo difficoltà nell’affermare che il signor Carducci farà opera che potrà stare a paro di quella dell’Heine e di altre di dottissimi critici che hanno illustrato i nostri classici antichi. Continui pertanto il Carducci nel lodevole divisamento, che sarà per riportarne utile e vanto a sè medesimo e alla patria nostra.»
Due sonetti satirici contro il Carducci.
Riferiamo anche, come documenti delle guerre letterarie del Fanfani e del Passatempo contro il Carducci e gli Amici pedanti, i due sonetti citati a pag. 96 e 98. Il primo, del Fanfani, è inedito; l’altro, del Fantacci, fu, come dissi, pubblicato nel Passatempo.
[479]
O Giosuè poeta, chiaro lume
Di Fiorenza e d’Italia, il tuo Fanfani
Vorria baciarti quelle santi mani
Che dettarono il nobile volume.
Ma d’Apollo incremento, sulle piume
Di gloria t’ergi, e a noi miseri, insani,
Facendo bocchi, in Pindo ti rimani
Tutto cambiato dall’uman costume.
Proteggitore almen resta indigete
De’ tuoi pedanti alle tue voglie pronti,
E sazia lor la poetica sete.
Spira i fantasmi spesso, e se da’ monti
Sorge la luna, dille che in sua quiete
Imago renda entro laghetti e fonti,
E con loro si acconti;
Che se a te l’ali han messo fuor la punta,
Almeno lei non sia da lor disgiunta.
Se poi nella sua giunta
Desio per donna incende i tuoi clienti,
Fa’ che dal luogo ove tu ti contenti,
Tra soavi concenti
Scenda un’altiera giovinetta bella
Che di beltate sia propria angiolella.
E non bastando quella,
Venga insieme con lei la verginetta
Che pur lamenta in quella ballatetta.
Venga, venga, l’aspetta
Il gener tuo negli omeri addensato;
Gli è ciò nei voti; ma se gli è negato,
Irrompe nel vietato,
E l’aer livida, a man di quei suggetti,
Strider potria divisa da’ moschetti;
I domestici tetti
D’ampia clade incestarvi e in sè rubelli
Duellare ad uccidersi i fratelli.
Pietade in te favelli,
I tuoi fantasmi lucidi invia loro,
E ad essi fiorirà l’età dell’oro.
Di vil patria a disdoro
Ricorda che balzò con franco volo
Di Flora il tempio, al mondo unico e solo,
Sull’attonito suolo:
[480]
Rinfaccia a’ vili le rigide torri
Che di lusso vestironsi; soccorri
Deh per pietà soccorri
All’arte putta, straccia il culto osceno,
E al desio del raro in questo ameno
Italico terreno
Accendi i cuor disfatti, e sii tu guida
A lei cui premon già l’ultime strida.
Non odi come grida?
È la tua patria che da te conforto
Dopo Dio spera, e che l’adduca in porto,
Saggio nocchiero e accorto.
Candidi soli e riso di tramonti
Pur rivedrà, alte terrà le fronti,
Se in suo servigio pronti,
Tu suo duce, tu figlio suo diletto,
Tu ingegno divo altero integro eretto.
Nemmen ti sia in dispetto
Volger pietoso uno sguardo a colui
Che ripassa sì bene i versi tui
E fe’ stringerti in hui
Per duol la bocca, chè nol fe’ per male,
Ma per metterti in zucca un po’ di sale.
Se la scusa gli vale,
Si scusa a te: tu dunque gli perdona,
Ad esso il bacio d’amicizia dona,
Ed ei che non minchiona,
Ei della gloria in la magione eterna
Ti farà scorta con la sua Lanterna.
Il Trionfo di Farfanicchio arcipoeta, o del Gigante da Cigoli che abbacchiava i ceci con le pertiche. — Diceria in versi d’un poeta che non è poeta.
Faccian festa per oggi i Fiorentini
Ed escan per le piazze a processione;
Su per i tetti montin le persone,
S’aggrappino agli arpioni i birichini.
Di festoni, d’arazzi e di setini
S’adorni ogni finestra, ogni balcone;
E suonin pur senza discrezïone
Campane, campanacci e campanini.
[481]
Largo al re de’ pedanti; in sua fidanza
Ecco ch’ei se ne vien, gonfiando in via
Sì che pare in persona la burbanza.
Se nol vedete non è colpa mia
Chè più di quattro spanne non avanza
Sebben si creda somigliar Golia.
Ciascuno, in cortesia,
Gli faccia di berretta, quando passa,
E stiasi per rispetto a testa bassa,
Ch’egli è quel tal che abbassa
La gloria de’ poeti laureati
E sconfonde e flagella i letterati
Viventi e trapassati.
Il sol suo nome al povero Manzoni
Fa per paura venire i bordoni
E la fa ne’ calzoni.
Se volge un’occhiataccia al Tommaseo
Lo fa proprio restar come un babbeo
E diventa un pigmeo.
Nulla dirò del Grossi e del Cantù
Che omai di questi non si fiata più
Da che lor boia ei fu.
E sua mercè vedrem ch’anco il Guerrazzi
Presto sarà, come interviene ai pazzi,
Ludibrio de’ ragazzi.
Basta ch’ei levi la tremenda voce,
Si fa ciascuno il segno della croce
E via fugge veloce,
Sì forte te lo acchiappa la paura
D’aver da lui qualche bastonatura
Anzi pur la tortura!
Quando ha la penna in man, Gesummaria!
Gli par la lancia aver dell’Argalia;
Sì che ognun scappa via,
Perchè con quell’arnese onnipotente
Tutto rompe e sbaraglia come niente.
Di grazia, o buona gente,
Fatevi avanti e squadratelo bene
Da capo a’ piedi e poi da petto a rene;
Eccolo ch’ei ne viene,
Guardate se non par quel da Gubbiano
«Che estinse il Gallo e seppellì il Germano.»
Corpo di Tamerlano!
[482]
Egli è da suoi pedanti circondato
Torvo ha lo sguardo e il crine rabbuffato:
Ha un calzon rovesciato,
Un cappellaccio sulle ventitrè,
Ed un vestito che chiede mercè;
Ohïmè! Ohïmè!
S’egli ti mette addosso l’occhio torto
Tu puo’ far conto d’esser bell’e morto,
Ed ogni priego è corto.
Ve’ se non par ch’e’ dica: «Olà perdio!
Non abbiate paura, son qua io
»Per far pagare il fio....
Qualvolta alcuno osasse d’aprir bocca
Entro in valigia.... e allor bazza a chi tocca,
»La mia saetta scocca;
Se mi monta la bizza di far carne
A chi voglio prometterne, a chi darne,
»Tagliarne ed affettarne....»
(Metaforicamente, ci s’intende).
Or dite un po’, con lui chi ci contende?
Tante cose stupende
Gli stanno così fitte nel cervello
Come le acciughe dentro un caratello;
Ci ha tutto il buono e il bello,
Sì vasta e peregrina erudizione,
Che ne restan di sasso le persone;
Ci ha Omero, Cicerone,
Aristotele, Seneca e Longino,
Virgilio, Quintiliano e il Venosino;
Tutto il greco e il latino,
Il succo dei più celebri scrittori
Filosofi, poeti e prosatori.
Che odori! che sapori!
Ci ha insomma d’ogni cosa un precipizio;
Però, se debbo dirla, ho grave indizio
Che ci manchi il «Giudizio»;
Il qual dicono (oh caso singolare!)
Che per quanto si sia dato da fare
Non c’è potuto entrare.
Del resto poi tutto vi sta a dovere
E la bottega par d’un rigattiere,
Dove ognun può vedere
[483]
La roba vecchia insieme con la nuova.
Armi, cenci, orinal, granate e uova.
In quel cervel si trova
Anco la polla della presunzione,
Dell’arroganza e dell’indiscrezione.
Son pur d’opinïone
Che ci abbia il seme dell’impertinenza,
Della spavalderia, dell’insolenza.
Cattedra d’eloquenza
Avrà, cred’io, e allievi ne verranno
Che come i can mastini abbaieranno,
Ringhieran, morderanno.
Che il ciel ne scampi i poveri cristiani
Da sì fatta rettorica da cani!
Perder vorrei le mani
Se a dargli, come dicon, dello spago
Non doventa col tempo antropofàgo,
O, dirò meglio, un drago,
Che sarà poi (se pur non piglio errore)
Del regno delle lettere il terrore.
Facciasi dunque onore
Al nostro Farfanicchio arcipoeta
Più chiaro ancora del maggior pianeta;
E come a propria meta
Trionfalmente ne venga portato
Nel bel mezzo di piazza del mercato
E quivi, coronato,
Facciangli intorno i beceri gran festa,
E d’urli e fischi in mezzo a una tempesta
Cantino le sue gesta
Col ritornel, che assai gli piacerà,
Del Nani, Nani, Nani, qua qua qua,
Che tanto ben ci sta;
E a così lieti, becereschi canti
Rispondan Nani Nani anco i pedanti.
Io poi mi farò avanti
E dirò a Farfanicchio in sul mostaccio:
«Bada! ci ho in corpo un altro sonettaccio;
»E s’io non te lo faccio
Con una coda più lunga di questa
Mozzo mi sia.... volevo dir la testa.»
[484]
Articolo del Carducci sul Trionfo della Croce.
Riportiamo finalmente dal n. 23 del Momo (anno I, 10 giugno 1858) l’articolo del Carducci sul Trionfo della Croce del Del Lungo, che diede occasione all’ultima polemica del Carducci stesso col Passatempo.
Il «Trionfo della Croce» dì Isidoro Del Lungo.
È una canzone di metro toscano; fatta da un giovinetto di diciassette anni. Delle idee svolte liricamente questo è il nesso. — St. I e II. Dopo la redenzione, a Dio che preparava una civiltà nuova agli uomini rigenerati dalla nuova fede, piacque di porre il principio e la sede di questa fede e civiltà nella terra d’Italia; non sì però (st. III) che la religione di Cristo non diffondesse la sua luce pur sul resto del mondo e non si facesse ispiratrice di pensieri forti e atti magnanimi a tutte le genti. Da questo cominciamento convenientissimo a poeta italiano e ben legato col resto dalla opportuna transizione della st. III, passa il giovinetto scrittore a mostrare (nelle st. IV e V) la diversità filosofica delle due credenze, etnica e cristiana; accennando il prevalere di quest’ultima per la speranza che divinamente infonde nelle anime combattute dalla trista verità della vita (st. V) e per la forte volontà che mette nei suoi credenti (st. VI, primi 7 versi). — Ma la religione di Cristo è anche oppugnatrice della prepotenza e confortatrice a forti fatti: in prova di che si ricordano le crociate (st. VI, ultimi 4 versi, e st. VII). — Quindi, come ispirati dal pensiero medesimo, che armò le crociate alla diffusione della fede, si rammentano l’italiano cantore di esse (st. VIII), l’italiano navigatore che primo piantò la croce su le terre scoperte dall’ardir suo (st. IX): e si chiude la canzone colla diffusione trionfale della religione cristiana nel nuovo mondo (st. X). E il Tasso e il Colombo, confortato e rianimato il primo nei dolori ineffabili dai sentimenti religiosi, armato il secondo di meravigliosa fortezza cristiana contro le avversità, a me paiono convenientemente introdotti, ad esempio del doppio effetto [485] che il poeta nella st. VI e VII ha detto esercitare la religione cristiana su le anime credenti.
Tutto ciò è versificato in X stanze di bella poesia, dove i concetti e le imagini sono non diffusi (come si suole da giovani e in questi tempi) ma acconciamente raccolti e quasi condensati con arte severa che mostra nel giovinetto assai potenza di stile: e il verso è armoniosamente variato negli accenti e nelle pose, e con regolarità non servile intrecciato e interrotto: e lo stile è temperato ne’ classici latini con accorta mistura di alcuna soavità toscana, come specialmente insegnarono fare Foscolo e Leopardi. Non sì però che alcun che d’eterogeneo non ci si senta talvolta, e che tu non urti in qualche forma antilogica: il che è da perdonare all’età acerbissima. Accenno quel che a me pare difetto. St. I.... redenta dal peccato antico Tornò libera e sciolta Agli amplessi di Dio l’umana polve: l’umana polve no, pare a me; l’anima umana: nè della polve potrai dire che sia redenta cioè ricomperata dal peccato, e nè meno che ella divenga libera e sciolta; che anzi ella importa sempre servitù e cattività alle anime degli uomini. — St. II.... Esulta De’ tuoi martiri il frale entro la tomba. Frale si dirà del corpo finchè retto dalla vita può esser franto; quando è nella tomba è già franto; dunque non può esser più frale, sibbene spoglia. Nè frale (da frango) sta bene con esulta (da ex-sultare): anche le parole prese di per sè hanno una cotal logica; che gli scrittori primitivi (per così dire) intuiscono, i secondarii devono studiare nelle etimologie, nelle analogie, nelle derivazioni e nelle mutazioni stesse del significato elementare. — St. II. E all’orgoglio mortal di nuovo insulta L’aquila del Tarpeo fatta colomba. Le metamorfosi lasciamole a Ovidio: a me questa imagine non va, perchè non sorge dal vero. Di più, tanto è che si parla d’aquile romane o di colombe cristiane che ormai le son frasi d’Arcadia anche queste. — Nella st. IV si dice: Per te del mortal velo il greve incarco Con pronta ala s’inalzi Spregiando il fango vile a miglior parte. Pare a me che dare ali e volo a un greve incarco, non sia bello: più questo greve incarco del mortal velo, che è il corpo, deve, spregiando il fango vile, cioè la materia e ciò che a la materia aderisce, inalzarsi a parte migliore. Ora cotesto inalzarsi pur con il corpo non avvenne mai, ch’io creda, se non a que’ buoni servi di Dio che poterono godere le estasi beate: nè il giovinetto [486] autore certo vorrà che tutti i cristiani debbano riuscire cotanto estatici. — Nella st. VII havvi certa ira di Numi un po’ troppo pagana, dove si parla di crociate: come pure nella IX, dopo aver domandato se la prova del mortale viaggio è più dura a’ generosi per decreto celeste, segue a dire il poeta: o con superba Voglia saetta il fato Più altamente le più alte teste: il qual fato qui è proprio il fato pagano di Omero e di Eschilo, e contrasta troppo manifestamente col decreto celeste che è tutto cristiano. — Nella st. VIII dicesi: Poi ch’a’ flutti del tuo mare si sposi L’armonia di Torquato. Che vuol dire un’armonia la quale promette sè (sposare da spondeo sponsum) ai flutti? La maniera latina, maritare l’armonia ai versi, ai numeri, alle corde, sebbene arditissima la intendo (armonia vale congiungimento e connessione di più in uno): lo sposarsi dell’armonia ai flutti, no: ed è, o a me pare, maniera non vera, che mal si accorda con altri modi belli e potenti di questa poesia; senza però ch’io creda col Passatempo «pazzamente romantiche» le altre imagini a cui questa frase si collega. Al qual Passatempo non saprei compatire la maraviglia, che significata da tre punti ammirativi egli mostra a questi versi.... Oh non al pio Cantor doveano OSTELLO Esser le sale dei potenti e gli auri...; se non ripensando a quella sentenza del Metastasio: la meraviglia dell’ignoranza è figlia. S’io avessi a trattar con persone che niente niente sapessero di grammatica, potrei dir loro che la locuzione le sale de’ potenti e gli auri viene a dir le aurate sale de’ potenti: e ciò per una certa figura che si chiama endiadis, per la quale Virgilio disse Pateris libamus et auro e Lucano con modo similissimo a quello del signor Del Lungo Non auro tectisve modus. Ma perchè di grammatica non sa niente certo chi scrive cæteribusque, e chi scrive cæteribusque è il Passatempo, comecchè e’ faccia il rigattiere di critica e se l’allacci e vada per la maggiore tra’ giornali di Firenze, io voglio ch’egli mi perdoni questa digressioncella sull’endiadis che lui non tocca. Tornando al signor Del Lungo, direi che nella canzone di lui sarebbero da notare lo scadere degli ultimi quattro versi in certe stanze, e la soverchia predilezione ch’egli mostra d’avere per gli infiniti aggruppati al modo latino; se non fosse ormai il tempo di riportare certi luoghi della canzone che a noi paiono di bellezza franca e sicura, perchè i leggitori ne giudichino di per sè.
[487]
Parla della Fede stabilita in Italia come in sua propria sede:
E te, candida dea, giova il sorriso
De l’italico sole,
E dal tirreno mar sorger la luna
E cader d’Appennino
Le grandi ombre notturne; onde le stole,
I labari di Cristo, la fortuna
De le chiavi celesti al tiberino
Lito commetti. . . . . . . . .
Confronta le due credenze:
Tempo fu già che di graditi errori
A l’intelletto un velo
Fecero i sensi; onde i bugiardi Dei,
Cura amabil de’ vati,
Tenner l’Olimpo, e la quadriga in cielo
Febo guidò: ne’ graziosi e bei
Fantasmi il viver nostro e ne’ dorati
Sogni fuggia; nè il vuoto
Delle cose mortai, nè ’l desir folle,
E le vane speranze e il fine ignoto,
Timido del dolor, ricercar volle.
Tu che del vero inesorato ai danni
In arcana alleanza
Le gioie unisci onde beltà s’india,
Ch’al dolore e a la morte
Insegni la preghiera e la speranza,
O Santa Fe’, la stolta codardia
Vinci. . . . . . . . . . .
Parla delle Crociate:
Vedrai raccolte per lo immenso piano
Sotto i vessilli tuoi
Cento ondeggiare e cento aste di guerra,
E converso in acciaro
Il pastoral degl’infulati eroi,
E riversarse una nell’altra terra
A far parere il gran possesso amaro.
[488]
Ahi quanta ira di Numi
A l’Orïente! e gemer per la muta
Notte di moribondi! e quale a’ fiumi
Di barbarico sangue onda cresciuta.
Parla del Colombo e dell’America convertita al Cristianesimo:
Forse è la prova del mortal viaggio
Per decreto celeste
Più dura ai generosi? o con superba
Voglia saetta il fato
Più altamente le più alte teste?
O Ligure nocchier, non da l’acerba
Fortuna a te fu schermo il disfidato
Furor de l’oceano,
E superar degli uomini la guerra
E de le cose, e con ardita mano
Fra ’l cielo e’ flutti ricercar la terra.
Ma su la prora fortunosa i santi
Vessilli ergea la Fede,
Ed era stella per cotanto mare.
Oh del culto verace
Lume novello! ecco da l’erma sede
Inusitate preci, e sorger are
E stringer patti ed annunziar la pace.
Queste cose erano state pensate e in parte scritte prima che il Passatempo tanto rabbiosamente latrasse contro lo scrittor giovinetto. Il quale latrato però non mi spaventa così ch’io non voglia dire il parer mio al signor Del Lungo: Giovini che a diciassette anni ritrovino e dispongano così bellamente la materia poetica, e le imagini contemperino ai sentimenti, e alle une e agli altri lo stile, e questo con tanta accorta parsimonia condensino, pare a me che per lo più sieno rari: massime oggi. Ho veduto altra vostra canzone; nella quale più sparpagliate le imagini, più rumoroso il sentimento, più misto e incerto lo stile: da quella a questa è un progresso. Non sì però che nella fusione meccanica del vostro stile non si scorgano come a righe ed a strati i metalli diversi (nè tutti buoni) dei quali lo componete. Or su: via alcuno di cotesti metalli: [489] del resto fate sì che la fusione vi riesca compatta ed unita: chè, volendo, potrete. Come io credo non vi facessero esaltar su voi stesso gli encomi dell’Arte, così spero che il maledire del Passatempo a voi giovinetto non vi farà nel giudizio vostro rimpicciolir di soverchio. E come io m’indovino che voi pur imberbe potreste insegnare a molti in materia di stile (a me primo); così vi prego quello che ho creduto dire sul fatto vostro a non tenerlo in conto di ammaestramento. No, no, di grazia, che io non voglio fare il maestro a persona. Sì piuttosto accettatelo, se vi piace, come parere di tale che non vi conosce pur di vista, e che veduta la vostra canzone volle dirvi quello che in essa gli aggrada e quello che no: e forse vede male. Al Passatempo parecchie cose direi, se non me ne distornasse il ripensare la dura cervice di cotesto quid simile d’animale anfibio. Mi starò contento a dimandargli questo: Parrebbevi giusto, signor Passatempo, che un villanzone tarchiato, il quale altro non sa che sarchiare le orticacce e le malve, pigliasse a pugni e pedate un ragazzino perla sola ragione che quel ragazzino coltiva perbenino un suo giardinetto? certo direte che no. Anche: con che faccia osate voi sotto la sicurtà dell’anonimo svillaneggiare N. F. Pelosini, il quale vilmente provocato risponde a un anonimo insultatore, ed è pur tanto gentile che non istrappa la maschera dal viso a costui; quando voi nè pur nominato in bene nè in male buttate una manata d’impertinenze a un D. A. B.; il quale, poniamo che nelle lodi eccedesse, poniamo che certi pensieri caricasse un po’ troppo, pur non disse tutto affatto affatto malissimo? O chi siete voi che ad una persona, la quale prende sopra di sè la responsabilità di quello che dice e si firma, togliete il diritto della difesa; e per voi fate un diritto dell’aggressione anonima?
In una nota al volume delle Poesie (Bologna, Zanichelli, 1902), pag. 259, il Carducci dice che il sonetto Sur un canonico che lesse un discorso di pedagogia, fu stampato [490] la prima volta nel giornale Il Momo di Firenze con innanzi una letterina, ch’egli riporta nella nota stessa. La memoria ingannò il poeta. Letterina e sonetto dovevano essere veramente pubblicati nel Momo, ma (non ricordo per quale ragione) non furono: furono invece stampati soltanto il 18 agosto 1872 nel giornale Il Mare di Livorno (n. 13). Il discorso di pedagogia che diede occasione al sonetto, fu letto dal canonico Enrico Bindi in una radunanza dell’Ateneo tenuta al Palazzo Riccardi a Firenze.
Pubblicai nelle Note al Cap. III la canzone inedita del Donati per il busto del Parini scolpito da Enrico Pazzi. Era mio intendimento di dare qui una notizia compiuta degli scritti di lui editi e inediti, in verso e in prosa: ma essendomi stato impossibile raccogliere altri documenti oltre i pochi che conservo fra le mie carte, debbo limitare a questi la notizia, che, non saprei dire di quanto, ma sarà certo incompiuta.
Il Saggio di un Glossario etimologico della Versilia fu pubblicato nei fascicoli 3º e 4º del Poliziano (Firenze, Cellini, 1859); il Discorso Della poesia popolare scritta nei numeri 13 e 14, anno I, delle Veglie letterarie (Firenze, Tipografia Spiombi, 1862); il libretto Della maniera d’interpetrare le pitture nei vasi fittili antichi fu pubblicato in Firenze dalla Tipografia Calasanziana nel 1861, e ne fece una recensione il Carducci nel giornale [491] La Nazione di Firenze, la quale è ristampata nel vol. V delle Opere a pag. 29 e seg.
Oltre questi lavori, io posseggo copia dei seguenti scritti a stampa del Donati:
Alla Vergine del Soccorso, Versi; Firenze, coi tipi Calasanziani, 1855 (sono una Canzone e una Ballata, L’Orfanella);
Notizie storiche della Madonna del Soccorso e della sua cappella; Massa, pei Frediani tipografi ducali, 1858;
Alla Madonna del Soccorso, Canzone e Stanze (dieci ottave), in un libretto di poesie pubblicato a Massa per la incoronazione di essa Madonna a Serravezza nel 1858;
Sonetto per la commemorazione di Gesù morto, dedicato ai venerabili confratelli della Misericordia in Serravezza; Firenze, Tipografia Calasanziana, 1861;
In lode di Cosimo Mariani, parole del suo confratello Francesco Donati D. S. P.; Siena, Tipografia dei Sordo-muti, 1864.
Nel 1865 il Donati collaborò alla Rivista italiana, e nel 1866 all’Ateneo, diretti da me, mandando all’una e all’altro articoli, note e recensioni di filologia italiana.
Io conservo di lui manoscritte una diecina di poesie, quasi tutte inedite, la maggior parte ballate. Credo che il Carducci alludesse anche al Donati, quando a proposito di una ballata di Guido Mazzoni, scrisse: «La vecchia ballata endecasillaba di Franco Sacchetti e d’Angelo Poliziano la rinnovò con garbo un po’ arcaico Terenzio Mamiani; la mantrugiò con diversa gaglioffaggine certa buona gente (c’ero anch’io) fra il ’50 e il ’60 o giù di lì.» Allora tanto il Carducci quanto il Donati, nella loro ammirazione per la ingenua semplicità e grazia degli antichi rimatori toscani, credevano possibile rinnovare, imitando, quelle forme, senza pensare che l’imitazione è artifizio, [492] e che l’artifizio è precisamente l’opposto della semplicità e della grazia.
Chiarissimo Signore,
Torino, li 4 di marzo 1860.
La fortuna togliemi per il presente di poterle offerire una cattedra d’eloquenza italiana in qualche Università, come porterebbe il suo merito; poichè in Torino è occupata, in Milano leggerà l’insigne letterato Aleardo Aleardi, in Genova non si pensa per ora di riaprirla, e debbe cessare a Pavia. Di Bologna non so, e quando facciasi l’annessione e quivi sia vacante quella cattedra, volentieri ci vedrei salire il mio signor Carducci, posto che la gradisse. Intanto io non voglio tacere che nel prossimo ordinamento de’ nostri licei, se Ella accettasse d’insegnare rettorica qui in Torino o in Milano, io me le crederei obbligato e ciò le sarebbe ottimo avviamento a salire più alto fra poco tempo. Consideri con agio la mia proposta e sappia che i nuovi licei debbono essere condotti a molto maggior dignità di prima e secondo la nuova legge anche gli emolumenti sono aumentati non poco. — Ad ogni modo, s’Ella non è contenta della presente sua sorte, ed io rimango Consigliere della Corona, mi sforzerò di mostrarle la stima e l’amore in che la tengo.
La prego di non intermettere i suoi studj e nudra la giovine mente di forte e profondo sapere con la storia, la filosofia, la meditazione e qualche scienza positiva.
[493]
Scusi ad un vecchio la mezza temerità di farmi consigliere non domandato e forse non opportuno. Mi voglia bene.
Suo devotissimo
Terenzio Mamiani.
Illustre e venerato Signore,
Pistoia, 21 marzo 1860.
Mal potrei significarle a parole gli affetti che in me suscitò l’ultima lettera di che Ella volle onorarmi: tengo miglior partito il tacere, sicuro che lo spirito gentile di Terenzio Mamiani, che di tanta generosità è capace, intenda meglio che qualunque profusione di parole, il mio silenzio.
Maturata la generosa proposizione dell’E. V., credo che a me, il quale devo provvedere al sostentamento d’una famiglia, non sarebbe per gl’interessi domestici utilissimo il trasferirmi in Piemonte o in Lombardia, dov’è più caro il vivere che non nella nostra Toscana: tanto più che l’officio affidatomi dal Governo provinciale è, secondo l’ultima legge, remunerato di tale stipendio che può bastare a chi si contenti del poco. Ma quando l’E. V. mi reputi idoneo a professare eloquenza o letteratura italiana in alcuna Università del Regno, e le si offra il destro di collocarmivi; io son disposto di accettare, sia nelle vecchie o nelle nuove provincie, con tutta la volontà e con gratitudine eterna, tanto di me proprio quanto della mia famiglia, verso l’uomo illustre che oramai riguardo come mio benefattore.
Accetti, illustre signor conte, i miei vivissimi ringraziamenti a’ suoi saggi consigli, de’ quali faccio tesoro, e l’espressione della mia venerazione e, se me lo permette, dell’amor mio: e dove, così piccolo come sono, potessi servirla, mi tenga per cosa tutta sua.
Ossequiosissimo e obbligatissimo
Giosue Carducci.
[494]
Illustre e venerato Signore,
Pistoia, 11 agosto 1860.
Le condizioni della mia famiglia non mi permisero, quel che io pur desideravo, accettare l’onorevole offerta che la S. V. si compiacque farmi nel marzo decorso. Ora mi si presenta occasione, in che il valido patrocinio di Lei può volgere in meglio le mie sorti: ed io, tutto fidente nella benevolenza da Lei tanto benignamente dimostratami, non mi risto dall’invocarlo.
Vaca nel Liceo di Firenze, per morte del prof. titolare di corto avvenuta, l’insegnamento della lingua e letteratura greca: a me, e per gli studi e per gli interessi miei, sarebbe utile tornarmene in quella città, dove anche ho congiunti ed amici, e dallo attendere a curare alcune edizioni ricevo aiuti a sostener la famiglia; dove in fine ho tutto che fa cara la vita e in che può meno inutilmente spendere la gioventù chi non potè darla fra le armi alla patria. Per che ho fatto dimanda al Direttore della Istruzione pubblica, che voglia trasferirmi a quell’insegnamento: nè sarebbe gran promozione, fra lo stipendio che ricevo ora e quello che è annesso alla cattedra vacante correndo divario di sole 200 lire italiane. Quando Ella volesse scrivere in mio favore al Governatore generale della Toscana o al Direttore dell’Istruzione pubblica, o tenere altro modo che più le paresse opportuno, son certo che quei signori inchinerebbero facilmente all’autorità di Lei e seconderebbero i suoi consigli, e in me ne crescerebbe, se fosse possibile, gratitudine ed amore al conte Mamiani.
Anche, veda e perdoni la confidenza originata in me dalla sua cortesia, anche oso raccomandarle un amico mio, giovine di ottimi studi, Giulio Cavaciocchi. Questi, impiegato nel Ministero della Guerra, domanderebbe esser trasferito al Ministero della Istruzione pubblica, in officio consimile a quel che tiene ora: e credo in verità che i suoi studii e la educazione e l’indole lo facciano più acconcio ad essere impiegato nel Ministero della Istruzione che non in quello della Guerra. Egli avrà fatto o farà pratiche a ciò, o in Torino dove dee in breve trasferirsi, o in Firenze. Quando la S. V. Ill. ma volesse adoperarsi [495] a pro di lui, e consolerebbe me del sapere adempiti i voti dell’amico, e l’amico mio si reputerebbe a ventura il poter esser grato a un uomo il quale da lungo tempo egli venera.
Dalla cortesia della S. V. spero perdono alla mia soverchia confidenza, e godo nel confermarmi novamente con affettuosa riverenza
suo obbl.mo e dev.mo
Giosue Carducci.
Mio caro Signore,
Torino, li 18 agosto 1860.
Il Prati, per ragioni al tutto speciali, rinunzia la cattedra di eloquenza italiana nella Università di Bologna. Io mi terrei fortunato ed anche un poco superbo se Ella, caro signore, mi concedesse di nominarla a quel posto. Bologna, certo, non è Firenze, ma è grande città che portò molto meritamente il titolo di dotta; e il popolo suo, affabile e cordialissimo, a Lei, ne sia sicuro, farebbe festa più assai che al Prati. Oltre l’emolumento di 3000 franchi, avrebbe in corto tempo altri 1000 come dottore di collegio; e ivi promulgata la legge sarda, Ella parteciperebbe alle iscrizioni e alle propine. Da ultimo, Le prometto che cessata la mezza autonomia toscana e cambiata in un largo sistema di libertà per tutti comune, se la Università di Firenze verrà dichiarata governativa, mi darò cura di restituirla alla sua diletta città. Mi dica dunque un bel sì, e mi scusi del ricusare che fo di scrivere al Ricasoli per la cattedra di un liceo fiorentino.
Mi creda
suo devotissimo
Terenzio Mamiani.
Illustre Signore ed Amico,
14 novembre 1882.
Tardi vi giungono i miei ringraziamenti caldi e sinceri del cortesissimo dono delle vostre Odi. Ma volli leggerle prima e altamente ammirarle. Sono dette barbare per vera ed aperta antifrasi, perchè nessuna cosa più classica [496] venne prodotta nel nostro tempo. E quale arte, uso e maniera latina può in Italia avere del barbaro? Felicissimo voi che sapete arricchire la lingua volgare di mille bellissime forme dell’idioma del Lazio, tanto che la figliuola sembra tramutata affatto nella sua madre; nè so quale altra favella neo-latina avrebbe potuto vincere la prova.
Il Tolomei nel cinquecento e la sua dotta Accademia entrati nella medesima impresa vostra, caddero sotto la soma sproporzionata alle loro spalle. Oggi, invece, l’Italia intera vi applaude e gode e si compiace del notevole incremento che avete recato alle nostre lettere. La qual differenza fra i due tentativi mi torna facile a spiegare, visto che allora vi si arrischiarono grammatici e retori dove occorreva un poeta vero ed ardito quale voi siete. Ed uno dei mirabili effetti che ne sono provenuti sembrami quello di avere ringiovanito innumerevoli forme ed immagini che diventavano stracche e tediose ne’ nostri verseggiatori.
Una sola cura vorrei che pigliaste in qualche nuova edizione delle Odi, e cioè che accennaste con quali norme e con che sentimento avete condotto la nuovissima prosodia, e sotto quale legge piacevi di ordinare i nostri dattili e i nostri spondei contemperati agli accenti ed al numero delle sillabe. Certo l’analogia col latino non basta e convien supplire con qualche ragion fonetica accettabile a tutti e la quale divenga patrimonio comune e fermo della nazione.
Da capo vi ringrazio del prezioso dono e mi sento superbo d’essere stato fra i primi a indovinare il genio profondo ed originale sortitovi da natura.
Vostro
Terenzio Mamiani.
[497]
Do qui una nota degli scritti pubblicati dal Carducci nella Rivista italiana di scienze, lettere ed arti con le Effemeridi della pubblica istruzione, e nell’Ateneo italiano; ma non son sicuro che sia esatta, perchè nella copia dell’Ateneo che ho potuto far esaminare mancano tre fascicoli.
Rivista italiana.
Quattro articoli sulla Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal sec. XIII al XIX; Bologna presso Gaetano Romagnoli; 1861-63. Sono pubblicati tutti nell’anno IV; il primo nel n. 132 (30 marzo 1863), il secondo nel n. 136 (27 aprile 1863), il terzo nel n. 147 (13 luglio 1863), il quarto nel n. 148 (20 luglio 1863).
[Questi articoli furono ristampati in uno dei volumetti della Scelta di curiosità letterarie; ma lo scritto rimase ivi incompleto, come era nella Rivista, dove in fine dell’ultimo è stampato: continua.]
Rettificazione a una notizia pubblicata dal prof. A. De Gubernatis; anno IV, n. 196 (25 giugno 1864).
[La notizia riguardava una proposta di E. Teza a proposito di dialetti.]
Della lirica popolare italiana del sec. XIII e XIV e di alcuni suoi monumenti editi o trovati ultimamente (da lettera a G. Chiarini); anno VI, nn. 232 e 233 (6 marzo e 13 marzo 1865).
Recensione del libro: Niccolini, Monti, Giordani, Lettere inedite con note di Pietro Bigazzi, Firenze, Barbèra, 1865; anno VI, n. 246 (2 ottobre 1865).
Una collezione scolastica ad maiorem Dei gloriam anno VI, n. 247 (9 ottobre 1865).
Dei principii informatori dell’antica letteratura italiana: Avvertenza; anno VI, n. 248 (16 ottobre 1865).
Due Verbali di due sedute della R. Società di Storia patria di Bologna; anno VI, n. 249 (23 ottobre 1865).
[498]
Tre Sonetti:
«Io ’l vidi. Su l’avello iscoverchiato....»
«Ella ove incurva il ciel più alto l’arco....»
«Disse e movea.... Come ne’ turbin torti....» anno VI, n. 250 (30 ottobre 1865).
Nello stesso numero altri due Verbali come sopra.
Ateneo italiano.
Recensione dell’opuscolo: Quando Claudia Frullani si univa con fede di sposa a Vincenzio Mazzoni: sonetti IV di Emilio Frullani; Firenze, novembre 1865, Tipografia Le Monnier; n. 7, gennaio 1866.
Poesie fiorentine storiche del 1494; n. 14, gennaio 1866.
Articolo intitolato: Letteratura Dantesca, in cui si parla di: Sunto di tre letture pubbliche in preparazione della festa del Centenario di Dante, fatte da Stefano Bissolati per incarico del Municipio di Cremona; Cremona, Ronzi e Signori, 1865; Per il sesto centenario di Dante, Ricordo al popolo, Firenze, Bettini, 1865; n. 21, gennaio 1866.
Articolo Letteratura Dantesca, in cui si parla di: Vita di Dante Alighieri, scritta da Francesco Gregoretti; Venezia, Naratovich, 1864; Rapporto della Commissione istituita dalla Società senese di Storia patria municipale per la ricerca di tutto che in Siena si riferisce a Dante Alighieri e alla Divina Commedia; Siena, Moschini, 1865; Opere Dantesche appartenenti alla Biblioteca Franchetti in Firenze, pubblicate in occasione del sesto centenario di Dante; Firenze, Tipografia Capponi, 1865; n. 4, febbraio 1866.
Una poesia storica del sec. XVII; n. 11, febbraio 1866.
A titolo di curiosità, riferisco il decreto che istituiva la Società di Calandrino.
Considerando esser debito d’ogni nazione rendere onoranza a quelli uomini che più conferirono a fermarne la indole;
Item; che Nozzo di Perino altramente chiamato Calandrino dipintor da Fiorenza sia veramente quel che dicesi [499] il tipo della stoltezza italiana, la quale pare avere aggiunto oggigiorno l’ultimo termine della sua perfezione;
Item; che, mentre la nazione fu troppo larga di facili onoranze a uomini di gran lunga men degni che Calandrino non fosse, questi fu al tutto e sempre dimenticato;
I sottoscritti, convenuti da ogni parte d’Italia, preso da sè, come già altri fece, il mandato del popolo italiano, hanno decretato e decretano:
I. È instituita una società intitolata da Calandrino e una festa annovale a commemorazione di lui da celebrare nel mese di Ottobre nei luoghi fatti solenni dalla memoria dell’uom semplice e di nuovi costumi.
II. La festa sarà tenuta con un simposio a cui si darà cominciamento con un piatto di lasagne, e si mangeranno oche, paperi e salciccie, il tutto affogando in un fiumicel di vernaccia.
III. Tutti i convitati si prepareranno al simposio udendo con gran compunzione la lettura di alcuna delle novelle in cui Messer Giovanni Boccaccio celebrò le azioni del gran cittadino.
IV. Nella sala del simposio dovrà essere un qualunque segno a ricordar Calandrino.
V. Ognuno dei convitati dovrà o leggere o dire parole o in rima o in prosa a gloria dell’eroe.
VI. In tutta la giornata è vietato ai componenti il convito dire o fare cose savie.
VII. I soci che fossero assenti da Firenze saranno per coscienza obbligati a partecipare in ispirito alla festa, mangiando divotamente vuoi lasagne, vuoi paperi, vuoi oche, vuoi salciccie, e soprattutto astenendosi dal dire e fare cose savie.
VIII. Ogni socio si adoprerà perchè cresca quanto più è possibile il numero degli adepti, e il nome di Calandrino viepiù sempre si augusti.
Dato al Ponto alla Badia in riva al Mugnone questo dì due Ottobre
dell’anno 1863 e 517 dalla composizione del Decameron.
[501]
Proemio | Pag. 1 |
Capitolo I (1835-1854) | 5 |
Ricordo d’infanzia: «Via, via, brutto te.» — La famiglia Carducci e il padre del poeta. — I primi anni e i primi studi a Bolgheri e a Castagneto. — La famiglia Carducci a Firenze e Giosue alle Scuole Pie. — Giosue a retorica dal Padre Barsottini — Il Carducci e il Nencioni. — Passione di Giosue pei libri. — Il primo passo. — Il Carducci a Celle. — Primi sonetti satirici. — Accademia dei Risoluti e Fecondi. — Canzone del Carducci su Dante letta all’Accademia. | |
Capitolo II (1853-1856) | 31 |
Il Carducci alla Scuola Normale Superiore di Pisa. — Pratiche religiose. — Burle dei compagni. — Riunioni al caffè dell’Ebe. — Il ponce nel guardaroba. — «Viva Giove! abbasso il successore!» — Il Poverello d’Assisi e i Fioretti di san Francesco. — Il mercato dei maialini. — Allocuzione ai maialini fratelli in Gesù. — La toilette per prepararsi a studiare Tito Livio. — Una lezione di letteratura italiana presa dal Nisard. — Prepotente bisogno di studiare. — Rigori disciplinari e beghineria. — Il beato Giovanni della Pace. — Lettera del Carducci sulla Scuola Normale. — Umor nero. — La cerimonia della laurea. — Gli esami di magistero. — Epopea sul padre Arno Dio etrusco dalla glauca capelliera. — Pratiche e raccomandazioni per la nomina del Carducci a maestro di retorica nel Ginnasio di San Miniato. | |
Capitolo III (1856-1857) | 57 |
Gli amici di Firenze. — L’ode alcaica A Giulio. — Prime prove letterarie nell’Appendice alle Letture di famiglia. — Fiori e spine di Braccio Bracci. — La Diceria di G. T. Gargani. — Scandalo sollevato dalla Diceria. — Gli amici pedanti e la Giunta alla derrata. — Giovinetto romantico inventato dal Carducci. — Il Carducci in famiglia a Santa Maria a Monte. — Mia visita al Carducci a Santa Maria. — Il Carducci va maestro di retorica a San Miniato al Tedesco. — Il Passatempo e gli amici pedanti. — La casa dei maestri. — Alla méssa in domo. — Processo per accusa d’empietà. — Il Cristiani propone al Carducci di stampare le sue poesie. — «Jacta est alea.» — Pubblicazione delle Rime. — «Viva Apollo Febo lungi-oprante, Patareo, Delio, Cinzio, e moia chi dice di no.» — Il Carducci lascia San Miniato. | |
[502] | |
Capitolo IV (1858-1860) | 93 |
Nomina del Carducci a professore nel Ginnasio d’Arezzo, non approvata dal Governo. — Critiche alle Rime del Carducci. — Sonetti satirici del Carducci. — Sonetto del Fanfani contro il Carducci. — Il Momo. — Il trionfo di Farfanicchio e la caricatura degli amici pedanti. — Una lettera del Guerrazzi. — Giudizio del Carducci intorno ai suoi critici. — Il Carducci si stabilisce a Firenze. — Francesco Menicucci. — Riunioni serali degli amici pedanti. — Morte improvvisa di Dante Carducci. — Il Padre Consagrata (Francesco Donati). — Riunioni e letture serali in casa Chiarini. — Il Carducci e Gaspero Barbèra. — I primi volumetti della Collezione Diamante, curati dal Carducci. — Polemica col Passatempo per una poesia di Isidoro Del Lungo. — Morte del padre del Carducci. — Giosue porta la famiglia a Firenze. — Prime speranze della guerra per l’indipendenza. — Gli amici pedanti fondano Il Poliziano. — La canzone A Vittorio Emanuele. — Il Carducci prende moglie. — Riunioni al caffè Galileo. — Silvio Giannini, l’ode Alla croce di Savoia e il Salvagnoli. — Nomina del Carducci al Liceo di Pistoia. — Nascita della figlia Beatrice. — Nuovi volumetti della Collezione Diamante. — Il Carducci a Pistoia. — Louisa Grace-Bartolini. — L’ode Sicilia e la rivoluzione. — «Oh i codici del Poliziano e dei poeti antichi in Riccardiana!» — Il ministro Mamiani offre al Carducci la cattedra di lettere italiane all’Università di Bologna. | |
Capitolo V (1860-1871) | 133 |
Il Carducci a Bologna. — Il Carducci ed Emilio Teza. — La toga a mezzo. — La prolusione e le prime lezioni del Carducci all’Università. — Altri lavori. — Canzone in morte di Pietro Thouar. — Il Gargani promesso sposo. — Morte del Gargani. — Lezioni su Dante, Petrarca e Boccaccio. — L’ode Nei primi giorni del 1862. — Evoluzione del Carducci da monarchico a repubblicano. — Periodo d’incubazione poetica. — Nuovi volumetti della Collezione Diamante. — L’ode Dopo Aspromonte. — L’Inno A Satana e la pubblicazione delle Poesie italiane del Poliziano. — Lezioni all’Università dall’anno 1862-63 in poi. — La Rivista italiana e l’Ateneo italiano. — La Festa di Calandrino e un sonetto inedito del Carducci. — Custoza e Lissa. — L’ode Agli amici della Val Tiberina. — Mentana. — L’epodo per Odoardo Corazzini. — La sospensione del Carducci. — Pubblicazione delle poesie Levia Gravia. — Il primo periodo dei Giambi ed Epodi. — Le poesie nella edizione Barbèra. | |
[503] | |
Capitolo VI (1870-1878) | 178 |
Morte della madre e del figlio Dante. — «Sono io l’ortolano delle monache?» — Le Nuove Poesie. — Critiche dello Zendrini e del Guerzoni, e risposte del Carducci in Critica e Arte. — La libreria Zanichelli. — Seconda edizione delle Nuove Poesie. — Discorso sulle poesie latine dell’Ariosto. — Primi tentativi d’imitazione dei metri antichi greci e latini. — Studi letterari editi dal Vigo. — Bozzetti critici e discorsi letterari, idem. — Saggio di un testo e commento delle Rime del Petrarca. — Prime Odi barbare. — Altre poesie in rima. — Candidatura alla Deputazione del Collegio di Lugo. — Nomina, ed esclusione per il sorteggio. — Giudizio del Carducci sul Parlamento. — Visita a Francesco Donati a Serravezza. — I Postuma di Olindo Guerrini. — Accoglienza dei critici italiani alle Odi barbare. — Il Carducci a Perugia e il Canto dell’amore. — L’ode Alla Regina d’Italia. — Eterno femminino regale. — L’ode per Eugenio Napoleone. | |
Capitolo VII (1878-1883) | 212 |
L’ode Saluto italico. — Visita a Trieste. — Scritti per Guglielmo Oberdan. — Il Fanfulla della Domenica. — Il Carducci a Roma. — Il Carducci e il Prati. — Enrico Nencioni. — Il Bothwell del Swinburne e il libraio Goodban. — Angiolino Sommaruga. — I saloni gialli del Capitan Fracassa e la corte letteraria alla Cronaca bizantina. — Il Carducci e la Cronaca bizantina. — La Domenica letteraria. — La Domenica del Fracassa. — Arresto del Sommaruga. — Opinione di Gandolin sul Sommaruga in America. — Il Carducci al Consiglio superiore dell’istruzione. — Vita del Carducci a Bologna dopo il 1870. — Le serate da Rovinazzi e da Cillario. — Il pasto del mago. — I dodici sonetti Ça ira. — Le critiche ai sonetti. — Il Ça ira in prosa. | |
[504] | |
Capitolo VIII (1881-1888) | 244 |
Matrimonio della figlia Beatrice. — Il Carducci alla Maulina. — «La gatta non istà del suo meglio.» — Gita a Volterra. — Il banchetto alla società democratica e il banchetto al Collegio degli Scolopii. — Visita a San Gimignano dalle belle torri. — «Sommaruga vuole la mia pelle, e non me la paga.» — Edizioni definitive delle poesie, Juvenilia, Levia Gravia, Giambi ed Epodi nella collezione elzeviriana Zanichelli. — Confessioni e Battaglie nella edizione Sommaruga. — Nuove Odi barbare. — Posto d’Ispettore Generale degli studi classici. — L’ode Scoglio di Quarto. — Disturbo nervoso. — Peregrinazione maremmana. — Debolezze e vertigini. — Il Carducci in Carnia. — Candidatura alla deputazione nel Collegio di Pisa. — Davanti a San Guido ed altre poesie. — Pubblicazione delle Rime nuove. — La cattedra dantesca a Roma. — Dante e l’Italia ufficiale. — Rifiuto della cattedra dantesca. — Discorso su Dante all’Università di Roma. — Discorsi su Jaufrè Rudel e su Lo studio di Bologna. — Il Carducci a Madesimo nell’agosto 1888. — Dichiarazione nel Resto del Carlino. | |
Capitolo IX (1889-1891) | 281 |
Il Carducci primo eletto al Consiglio comunale di Bologna. — Edizione delle opere complete. — Le Terze Odi barbare. — Raccolta e riordinamento di tutte le odi barbare in un solo volume. — Nomina a Senatore. — Una cena finita male. — Caduta del primo Ministero Crispi. — Vita del Carducci a Roma. — La trattoria in Via dei Sabini. — Il Castello di Costantino. — In casa di Adriano Lemmi. — «Scusi, lei non capisce niente.» — Evoluzione politica del Carducci spiegata da lui stesso. — Dimostrazione degli studenti radicali contro il Carducci. — Fischi all’Università. — «È inutile che gridiate abbasso: la natura mi ha messo in alto.» — Ripresa delle lezioni. | |
[505] | |
Capitolo X (1892-1902) | 312 |
Il Carducci al Senato. — Studi e lezioni sul Parini. — La Bicocca di S. Giacomo, La guerra, Il Cadore. — Lezioni all’Università su l’Alfieri e le tragedie di soggetto romano e italiano. — Ultimo Ministero Crispi. — Polemiche crispine. — Onoranze al Carducci per il giubileo del suo magistero. — Il Nencioni scrittore. — La paroletta misteriosa di un lucherino. — Malattia e morte del Nencioni. — Il Carducci presidente della Commissione per gli scritti inediti del Leopardi. — Studi leopardiani. — Morte di Carlo Bevilacqua. — Rime e Ritmi. — Due degli ultimi sonetti. — Il Carducci a Madesimo nel luglio del 1899. — La prefazione ai Rerum Italicarum Scriptores del Muratori. — Nuovo disturbo nervoso. — L’edizione delle poesie complete in un volume. — I volumi XI, XII e XIII delle Opere. — Lavori riserbati dal poeta agli ultimi anni della sua vita. — La biblioteca del Carducci. | |
Capitolo XI. — Giosuè Carducci e il suo tempo | 351 |
Carattere dell’uomo. — Condizioni dello spirito pubblico in Toscana dopo il 1849. — Precoce spirito d’opposizione. — Il Carducci e i primi fatti del risorgimento italiano. — L’Aleardi e lo Zanella poeti della nuova Italia. — Il poeta dei Giambi ed Epodi, esaltato dai repubblicani, maltrattato dai monarchici. — Nuove Poesie. — La critica del Guerzoni nella Gazzetta ufficiale. — La gioventù italiana si volge al Carducci. — L’Aleardi riconosce d’avere sbagliato strada. — Classicismo del Prati e del Dall’Ongaro. — Le Università italiane nella prima metà del secolo. — Il metodo storico negli studi letterari. — Le Odi barbare e la critica dei giornali. — Scrittori messi in satira dal Carducci. — Il De Amicis e il Giacosa. — Poca simpatia per il poeta delle Odi barbare, ed impreparazione del pubblico a gustarlo. — Reazione. — Edizioni elzeviriane dello Zanichelli. — La poesia verista e il Grido del Rizzi. — Novissima Polemica. — Idee del Carducci intorno alla poesia amorosa. — Il Manzoni e il Leopardi. — Vittorio Emanuele, Garibaldi e Cavour. — La cultura letteraria in Italia dopo la conquista di Roma. — L’Italia si accorge finalmente di possedere un poeta vero. — Gli scolari del Carducci. — Giovanni Pascoli e Giovanni Marradi. — Severino Ferrari e Guido Mazzoni. — Ugo Brilli. — Il Carducci non rappresenta, come scrittore, il suo tempo. — Passione del Carducci per la storia — Il mondo ideale del poeta. | |
[506] | |
Capitolo XII. — Appendice (1903-1907) | 399 |
Note al Proemio e al Capitolo I | 433 |
Note al Capitolo III | 443 |
Note al Capitolo IV | 453 |
Note al Capitolo V | 497 |
1. Carducci, Opere. Bologna, Zanichelli, vol. IV, pag. 3 e seg.
2. Carducci, Opere. Bologna, Zanichelli, vol. III, pag. 143 e seg.
3. Borgognoni, Biografia del Carducci premessa alla terza edizione delle Poesie di lui. Firenze, Barbèra, 1878, pag. X.
4. Borgognoni, op. cit., pag. XIV.
5. Il Padre Pistelli le raccolse veramente per uso di Guido Biagi; il quale volle gentilmente comunicarmele; di che gli son grato.
6. Consule Planco, Lettera a Ferdinando Martini, pubblicata nella Domenica letteraria del 30 aprile 1882, come saggio del volume Il primo passo stampato a cura di quel giornale.
7. Borgognoni, op. cit., pag. XVII.
8. Carducci, Opere, vol. IV, pag. 7 e seg.
9. Borgognoni, op. cit., pag. XVIII.
10. Era il soprannome stato messo al Carducci alla Scuola Normale, «causa, dice egli stesso, un raddoppiamento spostato nella coniugazione del verbo πίνειν.» Vedi Carducci, Opere, vol. IV, pag. 19.
11. Ferdinando Cristiani, Il Carducci alla Scuola Normale, nella Rivista d’Italia, anno IV, fasc. V (maggio 1901), pag. 44 e seg.
12. Cristiani, Scritto citato, opera citata, pag. 46.
13. Cristiani, Scritto cit., op. cit., pag. 48 e 49.
14. Cristiani, Scritto cit., op. cit., pag. 49.
15. Vedi lo scritto di Guido Mazzoni, Giosue Carducci e Gaspero Barbèra, nel citato fascicolo della Rivista d’Italia, pag. 59.
16. Questi tre sonetti sono ristampati nel libro V dei Juvenilia sotto i n. LXXIII, LXXIV, LXXV, con poche modificazioni il 1º e il 3º, mutato assai, e scorciato d’un terzo nella coda, il 2º. Anche l’ordine loro è cambiato: viene primo quello Ai poeti odiernissimi, col semplice titolo Ancora ai poeti; secondo quello Ai filologi, col titolo A scusa d’un francesismo scappato nel precedente sonetto; terzo quello Alla musa odiernissima, il cui titolo è rimasto immutato.
17. Carducci, Opere, vol. V, pag. IV.
18. Carducci, Opere, vol. IV. pag. 19.
19. Ivi, pag. 20.
20. Carducci, Opere, vol. IV, pag. 20, 21.
21. Carducci, Opere, vol. cit., pag. 21, 22.
22. Carducci, Opere, vol. cit., pag. 35.
23. Carducci, Opere, vol. IV, pag. 36, 37.
24. Carducci, Opere, vol. IV, pag. 52, 53
25. Vedi Opere, vol. IV, pag. 29 e seg.
26. Vedi la lettera a pag. 51 e seg. del citato fascicolo della Rivista. L’autore anonimo degli articoli del Passatempo era, come poi sapemmo, e come il Del Lungo scrive nella sua lettera a me, Corrado Gargiolli, che in seguito cercò con grande insistenza l’amicizia di lui. Vedi nelle note a questo capitolo l’articolo del Carducci sulla poesia del Del Lungo.
27. Vedi Carducci, Opere, vol. IV, pag. 76 e seg.
28. Chiarini, Giosue Carducci, Impressioni e ricordi. Bologna, Zanichelli, 1901, pag. 303.
29. Vedi Carducci, Opere, vol. IV, pag. 72 e seg.
30. Rivista d’Italia, fascicolo del maggio 1901, pag. 62.
31. Carducci, Opere, vol. IV, pag. 44.
32. Rivista d’Italia, loc. cit.
33. Carducci, Opere, vol. II, pag. 441 a 484.
34. Poesie di Giosue Carducci. Bologna, Zanichelli, 1901, pag. 370.
35. Chi fosse curioso di maggiori particolari sulle case abitate dal Carducci a Bologna, li troverà nell’articolo di Ugo Pesci, Il Carducci intimo, nella Rivista popolare illustrata, Il secolo XX (n. VI, novembre 1902).
36. Nelle edizioni definitive delle Poesie fu messo nei Juvenilia.
37. Era la Rivista italiana di scienze, lettere ed arti, con le effemeridi della pubblica istruzione, che si pubblicava a fascicoli settimanali di 16 pagine in Torino, e della quale parlerò più avanti.
38. Doveva essere, e fu, pubblicato nel volume Dante e il suo secolo, messo insieme da Gaetano Ghivizzani e stampato dal Cellini in occasione del centenario dantesco.
39. Nel n. 33, anno III, del Giornale d’Italia (2 febbraio 1903).
40. Era la graziosa edizione di Virgilio, col comento latino ad imitazione di quelli del Bond, pubblicata da qualche anno, poco dopo quella dell’Orazio.
41. Si allude ad Alfonso La Marmora, allora Presidente del Consiglio.
42. Vedi due lettere del Carducci a Gaspero Barbèra nelle Memorie di un Editore, pagg. 569 e 572.
43. Vedi la difesa mandata dal Carducci al Consiglio Superiore, nel vol. V delle Opere a pag. 56 e seg., la quale fu contemporaneamente stampata nel giornale L’Amico del Popolo di Bologna del 7 aprile 1868. Vedi anche la prefazione ai Giambi ed Epodi nel vol. IV delle Opere.
44. Giuseppe Albini, Il Carducci nella scuola, in Rivista d’Italia, fascicolo del maggio 1901, pag. 91
45. Dal giornale di Bologna La Vedetta, anno I, n. 2 (20 ottobre 1876).
46. Carducci, Opere, vol. IV, pag. 464 e seg.
47. Carducci, Opere, vol. IV, pag. 357.
48. Carducci, Opere, vol. XII, png. 235, 238 e 239.
49. Carducci, Opere, vol. cit., pag. 242.
50. Ivi, pag. 243.
51. Mario Menghini, Il Carducci a Roma, nel fascicolo del maggio 1901 della Rivista d’Italia, pag. 126.
52. La Nuova Rassegna, anno I, n. 3 (5 febbraio 1893).
53. La Nuova Rassegna, num. cit.
54. La Nuova Rassegna, num. cit.
55. Maria Teresa Di Serego-Alighieri Gozzadini, con prefazione di Giosue Carducci. Bologna, Zanichelli, 1884.
56. Averardo Borsi, Il Carducci in Maremma; nella Rivista d’Italia, fascicolo del maggio 1901, pag. 33, 34.
57. Giulio Gnaccarini, che fu poi sposo della Lauretta.
58. Borsi, scritto cit., pag. 36, 37.
59. Livorno, Tipografia Giusti, 1895.
60. Insieme con la romanza spagnuola, La lavandaia di San Giovanni, il Carducci pubblicò in quel primo numero della Rassegna settimanale la ballata danese Sir Òluf (La figlia del re degli elfi), raccogliendole tutte due sotto il titolo Da mezzogiorno a settentrione. La stessa Rassegna pubblicò poi, i primi cinque capitoli dell’Intermezzo nel n. 5 (3 febbraio 1878), la prima parte della Canzone di Legnano nel n. 65 (30 marzo 1879), e le due odi barbare Ave e Nevicata nei nn. 120 (18 aprile 1880) e 170 (3 aprile 1881).
61. Carducci, Opere, vol. I, pag. 224, 225.
62. Il Libro delle prefazioni, stampato nel 1888 dall’editore Lapi di Città di Castello, fu fatto pubblicare, col consenso dell’autore, dagli scrittori del giornale Il Capitan Fracassa, che lo diedero in premio ai loro associati. Contiene, oltre la prefazione, i seguenti scritti: 1º Cino da Pistoia ed altri rimatori del secolo XIV, 2º Lorenzo de’ Medici, 3º Alessandro Tassoni, 4º Vita di Salvator Rosa, 5º Della poesia melica italiana e di alcuni poeti erotici del secolo XVIII, 6º La lirica classica nella seconda metà del secolo XVIII.
63. Le Terze Odi barbare di Giosue Carducci: articolo di Angelo Tomaselli nella Rassegna emiliana, anno II, fasc. V.
64. Mario Menghini, Il Carducci a Roma; in Rivista d’Italia fascicolo di maggio 1901, pag. 130, 131.
65. Menghini, scritto cit., pag. 133.
66. Carducci, Opere, vol. XII, pag. 440.
67. Vedi Carducci, Opere, vol. XII, pag. 568.
68. Carducci, Opere, vol. XII, pag. 569.
69. Carducci, Opere, vol. XII, pag. 570.
70. Carducci, Opere, vol. XI, pag. 369.
71. Carducci, Opere, vol. XII, pag. 572 e seg.
72. Vedi il giornale Il Marzocco, anno V, n. 19 (13 maggio 1900).
73. Ugo Pesci, generalmente bene informato delle cose riguardanti il Carducci, in un diligente e interessante articolo, Il Carducci intimo, pubblicato nel Secolo XX (n. VI, novembre 1902) scrive a proposito della morte del Bevilacqua: «Una mattina nella primavera del ’99 la morte lo colse all’improvviso, su la cattedra, mentre faceva lezione; ed i suoi due figli più grandi, ancora adolescenti, ascoltavano in una sala vicina la lezione d’un altro maestro!» Ciò non è esatto. Carlo Bevilacqua morì la mattina del 2 dicembre 1898 nel suo letto, per malattia quasi improvvisa (dissero una colica epatica) che gli si era manifestata con grande violenza due giorni innanzi. Nel giorno 30 novembre aveva fatto regolarmente le sue lezioni e preso parte attivissima ad una adunanza del Collegio degli insegnanti, senza accusare nessun disturbo. La notte gli prese il male; nel giorno di poi migliorò; la mattina seguente ebbe un improvviso peggioramento, e morì. Era nato a San Quirico di Moriano presso Lucca il 6 aprile 1849.
74. Vedi il libro di Giulio Padovani, A vespro. Bologna, Zanichelli, 1901, pag. 109.
75. Carducci, Opere, vol. III, pag. 271.
76. Carducci, Opere, vol. III, pag. 280.
77. Nuova Antologia, vol. XX (seconda serie), pag. 374.
78. Carducci, Opere, vol. XII, pag. 161.
79. Polemica novissima, per Luigi Alberti. In Firenze, pei tipi dell’Arte della Stampa, 1878.
80. Giovanni Rizzi, Un grido; quarta edizione con Appendice. Milano, Brigola, 1879.
81. Carducci, Opere, vol. XI, pag. 295.
82. Quelli scritti polemici furono poi raccolti in un libretto, intitolato: Alla ricerca della verecondia. Roma, Sommaruga, 1884.
83. Carducci, Opere, vol. III, pag. 436.
84. Ciò che è detto qui dei Saggi su l’Aminta serva di correzione e compimento a ciò che dei Saggi stessi è detto a pag. 317 di questo volume.
85. Il Carducci morì il 16 febbraio allo ore 1,28. Aveva avuto un attacco d’influenza l’8 febbraio, del quale il 12 pareva guarito, tanto che espresse il desiderio di alzarsi; ma il 14 tornò la febbre con bronchite e pneumonite, che tolsero subito ogni speranza di guarigione.
86. Data nella prima lettera, con la quale il Carducci parlava della malignità del suo critico.
87. Così sta questo verso nella prima edizione delle Rime (San Miniato, 1857); e così fu riprodotto in tutte le altre fino all’ultima delle Poesie complete in un volume. È singolare che l’autore non si accorgesse che la rima non è esatta, o che, se se ne accorse, credesse bene di non correggere.
88. Debbo le prime due di queste lettere alla cortesia del professore Adriano Augusto Michieli, che le copiò per me dalla Marciana di Venezia, ove conservansi con altre carte del Carducci. La terza fu stampata nel Giornale d’Italia 30 marzo 1907 a cura del signor G. Emilio Curàtulo. Le altre due le pubblicai io stesso nel fascicolo del maggio 1901 della Rivista d’Italia.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.