Title: Le donne dei Cesari
Author: Guglielmo Ferrero
Release date: March 23, 2024 [eBook #73236]
Language: Italian
Original publication: Milano: Athena
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)
GUGLIELMO FERRERO
LE DONNE
DEI CESARI
EDIZIONI ATHENA
1925
MILANO — Via Vigentina, 7-9
PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di riproduzione e di traduzioni sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda.
Copyright by G. Ferrero 1925
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Arti Grafiche G. MONFRINI — Milano — Via Vigentina, 33
[iv]
La storia antica è una storia mascolina, in cui solo rare figure di donne appariscono. C’è però un’eccezione: il secolo, che corre tra la morte di Cesare e la morte di Nerone; nel quale tra i grandi della terra che ressero nelle loro mani i destini dell’impero romano si contano anche alcune donne.
Questa apparizione insolita di donne in una storia tanto mascolina ha fatto perdere un po’ la testa alla storiografia antica, la quale in loro presenza si è buttata a inventare favole con maggior sbrigliatezza del solito. Tacito, Svetonio e Dione Cassio ci hanno raccontato non la storia di quei tempi, ma un romanzo a tinte forti, che fu per lungo tempo, e giustamente, una miniera per drammaturghi e coreografi; ed ora è sfruttato con eguale fortuna dai maestri della [v] nuova arte che si dice muta. Ma per quanto da molti secoli materia greggia per tutte le arti, questo romanzo è grossolano, inverosimile, incoerente. La verità è molto più romanzesca e tragica, che la leggenda raccontata dagli scrittori antichi.
Ho riassunto qui, in un racconto succinto e rapido, i risultati delle ricerche fatte da me per rintracciare questa verità, senza indugiarmi in discussioni critiche. Il lettore, che si fida, arriverà alla meta — la verità — più speditamente e per una via quasi diritta. Il lettore, che non si fida, e che chiede sospettosamente allo storico moderno le malleverie da cui dispensa graziosamente gli storici antichi, farà il difficile se non l’incredulo. Come gli garba e poco male; perchè tanto, lui, alla meta non arriverà mai. Le menti ottuse dal filosofume o dal criticume moderno — due malattie diverse ma egualmente pericolose — non possono più intuire e sentire la verità di una storia; perchè non posseggono più il senso della verità storica; e quando questo senso è spento, nessuna argomentazione lo può supplire.
Intenda dunque questo piccolo libro chi può. Esso porta una testimonianza nuova di una verità semplice, alla quale i nostri tempi recalcitrano, appunto perchè ne avrebbero [vi] bisogno. Oggi non c’è villano rifatto della politica e degli affari, che non creda di possedere il genio innato del comando e la potenza creatrice dell’ordine; l’autorità sembra essere diventata l’Eldorado dei rivoluzionari di professione; e la disciplina è l’alibi grossolano della più scatenata prepotenza. Questo libro dimostra invece che il fondare un principio nuovo di autorità è un’impresa erculea, in cui neppur una classe antica al comando e piena di gloria riesce, se non ha il coraggio e l’abnegazione di sacrificarsi totalmente. Quando il potere è una cosa seria, chi lo esercita ne è la prima vittima; quando chi lo esercita lo sfrutta e lo gode, il potere allora è un’impostura.
La regola non falla mai. E questa storia delle donne dei Cesari è della regola una delle prove più tragiche.
G. F.
Firenze, 1 marzo 1925.
[3]
«Molte cose, reputate illecite e sconvenienti presso i Greci», scrive Cornelio Nepote, «sono permesse dal nostro costume. C’è forse un Romano, il quale si vergogni di condurre la moglie ad un convito fuori di casa? La padrona di casa non apparisce in tutte le famiglie, nelle stanze anteriori, dove sono ammessi gli estranei? In Grecia, no. La donna non accetta inviti fuori del parentado, e sta ritirata nella parte interna della casa, quella che è detta il Gineceo, dove solo gli stretti congiunti hanno adito».
Questo passo, uno dei più importanti della mediocre operetta, che tormenta ancor oggi le prime scuole di latino, è uno spiraglio, [4] attraverso il quale noi possiamo guardar nell’interno della casa greca e della casa romana; e vedere in che differivano. Roma fu, tra le società antiche, quella in cui, nelle alte classi almeno, la donna godè maggior libertà e autonomia, e più si eguagliò all’uomo, come una compagna incaricata di uffici diversi, invece di essergli sottoposta, come una schiava, destinata al suo piacere e al suo vantaggio. La dottrina, sino a trent’anni fa molto in voga, che i popoli guerrieri incatenano la donna alla casa, è smentita dalla storia di Roma. Se anche nella storia di Roma ci fu un tempo, in cui la donna era un’eterna pupilla, sottomessa all’autorità dell’uomo dalla culla al sepolcro, del marito se non del padre, del tutore se non del padre o del marito, quanto antico e remoto è questo tempo! Allorchè Roma era il maggiore stato del mondo mediterraneo (e massime nell’ultimo secolo della repubblica), la donna, salve poche e piccole limitazioni, più di forma che di sostanza, ha già ottenuto l’indipendenza giuridica e patrimoniale, premessa necessaria dell’eguaglianza morale e sociale. Per quel che concerne il matrimonio, gli sposi possono scegliere tra due regimi giuridici molto diversi: il matrimonio con manus, che è forma più antica e in cui [5] tutti i beni della moglie trapassano in proprietà del marito, onde la donna non può possedere nulla; il matrimonio senza manus, più recente, che attribuisce al marito la proprietà della dote soltanto lasciando alla donna tutti gli altri beni che possiede o che può acquistare. Siccome si sa che, ad eccezione di qualche caso e per ragioni particolari, in tutte le famiglie dell’aristocrazia e per comune consenso, i matrimoni si facevano, nell’ultimo secolo della repubblica, senza manus, le donne maritate avevano nelle classi ricche dei beni propri che potevano amministrare come volevano, senza renderne conto a nessuno. Nella stessa epoca conquistarono questo diritto, per la via obliqua di finzioni giuridiche, anche le donne non maritate, le quali avrebbero dovuto rimanere, secondo le antiche leggi, tutta la vita sottoposte a un tutore, o scelto dal padre nel suo testamento o indicato dalla legge, se il padre non lo sceglieva. Per liberare anche queste donne si inventò da prima il tutor optivus, permettendo al padre che invece di nominare per testamento il tutore della figlia, la lasciasse libera di scegliersi essa il tutore, di scegliersi un solo tutore generale, ovvero più tutori secondo gli affari; e anche di mutare il tutore quante volte volesse. Per [6] dare il mezzo poi alla donna di mutare a piacere il tutore legittimo, se il padre non nominava il tutore nel testamento, si inventò il tutor cessicius, ossia si permise di cedere la tutela legittima. Ma se tutte le restrizioni imposte alla libertà della donna non maritata dall’istituto della tutela venivano meno, una restrizione continuava a sussistere: la donna non maritata non poteva far testamento. E anche a questo si provvide, sia con matrimoni fittizî, sia inventando il tutor fiduciarius. La donna, senza conchiudere matrimonio, si assoggettava mediante la coëmptio alla manus di una persona di sua fiducia, con il patto che il coëmptionator l’avrebbe emancipata.
Insomma, nel matrimonio e fuori, alla fine della repubblica, non c’erano quasi più disuguaglianze giuridiche, tra l’uomo e la donna, quindi neppure disuguaglianze morali e sociali. I Romani non pensarono mai che tra il mundus muliebris e il sesso maschile occorresse scavar dei fossati, elevare dei muri, segnare dei termini insuperabili, visibili o invisibili. Non vollero mai, per esempio, separare le donne dagli uomini con il profondo fossato dell’ignoranza. Per molto tempo le dame dell’aristocrazia romana furono poco istruite; ma perchè gli [7] uomini anch’essi diffidavano in quel tempo dei libri, che non fossero i libri dei conti. Quando la letteratura, la scienza, la filosofia ellenica furono ammesse nelle grandi famiglie romane, come ospiti desiderati e graditi, nè la prepotenza, nè l’egoismo, nè i pregiudizi degli uomini cercarono di contendere alle donne la gioia, il conforto o il lume, che da questi studi potevano scaturire. Oltre alla danza ed al canto, che erano studi comuni alle donne, noi sappiamo che negli ultimi due secoli della repubblica molte signore dell’aristocrazia romana ebbero familiarità con il greco, maneggiarono poeti e storici, si infarinarono persino — che Dio le perdoni — di filosofia, leggendo libri o avendo commercio con famosi filosofi dell’Oriente. Nella casa la donna era signora, a fianco e a pari del marito; il passo di Cornelio Nepote ci prova che non era segregata, come la donna greca, ma riceveva e praticava gli amici del marito, accompagnava costui alle feste ed ai banchetti nelle case amiche, sebbene nei banchetti non potesse come l’uomo sdraiarsi, ma dovesse per maggior verecondia sedere; infine non era, come la donna greca, prigioniera tra le mura domestiche. Poteva uscire liberamente, raccomandandosi però che uscisse più che poteva [8] in lettiga; non fu mai esclusa dai teatri, sebbene il governo romano, per lungo tempo, si sforzasse di frenare la passione degli spettacoli; potè frequentare i luoghi pubblici e rivolgersi direttamente ai magistrati... Di non poche radunanze e dimostrazioni, fatte dalle più ricche signore di Roma, tutte insieme, nel Foro o in altri luoghi pubblici, per ottenere dai magistrati leggi od altri provvedimenti ci è pervenuta memoria: basti ricordare la famosa dimostrazione di cui parla Livio (34 1 sg.), nell’anno 195 a. C. per ottenere l’abolizione della legge Oppia contro il lusso. Che più? Abbiamo motivo di ritenere che già sotto la repubblica ci fosse a Roma una specie di Club femminile, il così detto conventus matronarum, che raccoglieva le dame delle famiglie più illustri della città. Ed è certo che più volte il governo, nel pericolo, si rivolse ufficialmente alle grandi dame di Roma, perchè aiutassero la Repubblica, raccogliendo oro e argento o impetrando con solenni cerimonie religiose il favore degli Dei...
Si intende quindi, che in tutti i tempi ci siano state a Roma, nelle famiglie aristocratiche, delle donne, che amavano con passione la politica. La fortuna delle grandi famiglie [9] romane, la loro gloria, la loro potenza, la loro ricchezza, dipendeva dalle vicende della politica e della guerra; i capi di queste famiglie erano tutti senatori, magistrati, diplomatici, guerrieri: più la moglie era intelligente, colta e affezionata, meno poteva estranearsi alle vicende della pace e della guerra, a cui la fortuna della famiglia, e non di rado anche la vita del marito, erano legate!
«Ma la famiglia contemporanea è dunque — domanderà a questo punto il lettore — la copia fedele della famiglia antica? Siamo noi ritornati, per un lungo cammino, là dove erano giunti quei nostri lontani antenati?».
No. Se la famiglia moderna e la famiglia romana si rassomigliano per certi rispetti, differiscono per altri, ed assai. Se il romano concedeva alla donna l’indipendenza giuridica e patrimoniale, se non le impediva di studiare e non le mercanteggiava quella libertà senza cui un essere umano non può vivere anche per sè, non riconobbe però [10] mai, come più o meno apertamente lo riconosce la civiltà moderna, che il fine e la ragione del matrimonio sia la felicità personale dei due coniugi, o una loro personale elevazione morale nella concordia dei caratteri e delle aspirazioni. Lo scopo del matrimonio era, per dir così, esterno ad esso. Immune da fervori mistici come refrattaria a tutte le suggestioni dello spirito filosofico, almeno nell’azione; ambiziosa solamente di ingrandire e rafforzare lo Stato di cui era padrona, l’aristocrazia romana non considerò mai la famiglia e il matrimonio, come non considerò mai la religione e il diritto, se non come organi dello Stato e strumenti di dominazione; mezzi per accrescere la potenza delle grandi famiglie, per cementare, imparentandole, le grandi stirpi di Roma, già strette dall’interesse politico. Per questa ragione, se il Romano concesse tanta libertà e riconobbe tanti diritti alla donna, non pensò mai che in una grande famiglia la donna potesse rivendicare il diritto di scegliersi il marito, e questo diritto limitò anche al giovane, almeno al suo primo matrimonio. La scelta spettava ai padri, i quali di solito fidanzavano i loro figli ancora fanciulli. Due famiglie amiche, i cui capi si ritrovavano insieme a deliberare nel Senato [11] o ad arringare nel Foro o a parteggiare nei comizi, e i cui ragazzi si mescolavano allegramente nei consueti sollazzi dell’età, pensavano un giorno che quel ragazzo e quella bambina, sposandosi di lì a dieci o dodici anni, avrebbero potuto stringere ancor più la loro amicizia? Ecco i due fanciulli erano fidanzati, ed allevati nell’idea che un giorno, il più presto possibile, sarebbero marito e moglie. Le nozze si celebravano, pronuba la Ragione di Stato. E questa Ragione di Stato, mediatrice di matrimoni, che tra i suoi strumenti annoverava anche le faci nuziali, pareva a tutti una savia provvidenza pubblica; a nessuno veniva in mente che essa facesse brutale violenza alla libertà, al sentimento, al cuore dell’uomo e della donna, quando provvedeva saviamente a far che lo Stato fosse ben governato, distruggendo con questi maritaggi i semi della discordia, che così facilmente attecchiscono nelle aristocrazie e a poco a poco la sgretolano come quelle piante che, non seminate da nessuna mano, crescono sui vecchi muri.
Questa è la ragione per cui di tutti i grandi personaggi romani si conosce quante mogli ebbero, e di quale famiglia. Il matrimonio [12] di un senatore romano era un atto pubblico, e un atto importante; perchè un giovane, o anche un uomo maturo, imparentandosi con certe famiglie, veniva, per dir così, a sposare anche le loro responsabilità e i loro interessi politici. Ciò fu più vero che mai nell’ultimo secolo della repubblica, dai Gracchi in poi, quando l’aristocrazia romana, per le ragioni che ho esposte in «Grandezza e Decadenza di Roma», si scisse in due fazioni nemiche, di cui una cercò di muovere contro l’altra gli interessi, le ambizioni, le cupidigie delle classi medie e del popolo. I due partiti cercano di rinforzarsi con i matrimonî; e questi seguono le vicende della lotta politica, che insanguina Roma. La storia di Giulio Cesare e dei suoi matrimoni ci somministra di ciò una prova curiosissima. La ragione prima per cui Giulio Cesare fu l’erede e il continuatore dei Gracchi, il capo della fazione che dai Gracchi deduceva le sue origini prime e i suoi titoli, non deve cercarsi nè nelle sue ambizioni, nè nel suo temperamento e tanto meno nelle sue opinioni; ma nella sua parentela con Mario. Una sua zia aveva sposato Caio Mario, il modesto pubblicano fallito [13] che, buttatosi nella politica, era diventato il primo generale del suo tempo, era stato eletto console sei volte, aveva vinto Giugurta, sterminato i Cimbri e i Teutoni. L’homo novus divenuto celebre e ricco, aveva cercato di nobilitarsi con un matrimonio in cospetto all’antica aristocrazia orgogliosa dei suoi antenati; e aveva trovato una sposa in una nobilissima, ma impoverita e decaduta famiglia patrizia. Ma scoppiata la rivoluzione, messosi Mario a capo della fazione che derivava dai Gracchi, vinta questa da Silla, la fazione della vecchia aristocrazia, che aveva vinto con Silla, non perdonò ai Giulii di essersi imbastarditi con quel suo acerbo nemico, li sospettò, guardò bieco e perseguitò tutti; tra gli altri anche il giovane Cesare, il quale era irresponsabile dei fatti e delle gesta dello zio, perchè era ancora un ragazzo, quando la guerra tra Silla e Mario infuriava.
Così si spiega che la prima moglie di Cesare, Cossuzia, fosse la figlia di un cavaliere e pubblicano. Per una famiglia di così antica nobiltà, e patrizia per giunta, questo matrimonio era poco meno che una degradazione; ma verso l’80 a. C. in pieno furore [14] della fazione sillana vittoriosa, quale famiglia senatoria avrebbe dato una sua donna al nipote di Mario? Senonchè morta Cossuzia, pochi anni dopo le nozze, Cesare fece un secondo matrimonio, molto diverso dal primo, poichè sposò addirittura una nipote di Silla, Pompea, imparentandosi con le famiglie, che erano come il cuore della fazione sillana. Che cosa era accaduto, e come mai il nipote di Mario, scampato per miracolo alla spada di Silla, poteva sposarne la nipote nel 68? In quegli anni, a poco a poco, la città sconvolta da tante discordie si era tranquillata; e obliati i più sanguinosi ricordi delle guerre civili, ricominciava ad ammirare in Mario la spada e lo scudo invincibili di Roma, l’eroe che aveva prostrato i Cimbri ed i Teutoni! Essere il nipote di Mario ridiventava un titolo di gloria, da nota di infamia, che per tanti anni era stata. Ma anche quella bonaccia durò poco, chè le due fazioni, dopo breve tregua, ripresero a guerreggiare. E alla prima occasione Cesare ripudia Pompea, per sposare Calpurnia, la figlia di Lucio Calpurnio Pisone, console nel 58, senatore influentissimo nella sua fazione.
[15]
Come Cesare tutti i personaggi del suo tempo, si ammogliano, fanno divorzio, si riammogliano secondo tira il vento sul Foro, nei comizi, in Senato. Quando la ragione politica manca, c’è la ragione pecuniaria. La donna poteva aiutare una carriera politica sia amministrando bene la casa del marito, sia contribuendo alle spese con la dote o con il suo patrimonio. Il canto, la danza, il greco, la poesia, la filosofia, la politica non dispensavano la donna romana d’alto lignaggio dal dovere di conoscere tutte le arti della buona massaia, e massime il filare e il tessere. Lanam fecit. Siccome i numerosi armenti posseduti dall’aristocrazia potevano somministrare ad ogni famiglia la lana necessaria per vestirla tutta, padroni e servidorame schiavo, se la materfamilias era esperta nelle arti di Aracne e sapeva far lavorare in casa una piccola officina di schiave filatrici e tessitrici, impedendo i furti e i pigri abbandoni, poteva provvedere a tutta la famiglia il vestito senza l’ingente spesa necessaria ad acquistare le stoffe dal mercante; risparmio notevole in tempi in cui la moneta era così rara, e tutte le famiglie cercavano di spenderne meno che potevano. [16] La materfamilias aveva dunque, in ogni casa, un compito che oggi diremmo industriale, poichè vestiva tutta la famiglia; e secondo compiva questo ufficio, poteva giovare o nuocere all’interesse comune.
Di maggior momento ancora la dote e i beni parafernali. Non solo pareva ai romani savio e lodevole accorgimento che un membro della nobiltà cercasse in moglie una donna ricca, affinchè il suo patrimonio gli servisse per la sua carriera politica; ma reputava non ci fosse onore più grande e più invidiabile fortuna per una donna ricca, che di essere sposata per questo scopo da un uomo eminente. Si chiedeva solo la rispettabilità della donna; ed anche su questo punto, pare che, in certi tempi, si chiudesse qualche volta un occhio, almeno se è vero che Silla aveva rifatto la fortuna della famiglia con l’eredità di una greca, la quale proprio non aveva guadagnato l’ingente fortuna che gli lasciò con il biblico sudore della fronte. Ma potrebbe anche essere una malignità di nemici. Ad ogni modo, quale fosse in questa materia l’opinione delle persone dabbene, Cicerone e la sua vita ce lo dimostrano.
Nato in una famiglia di cavalieri di Arpino, [17] molto rispettabile ed istruita, ma non molto ricca, Cicerone potè fare quello che fece, perchè aveva sposato Terenzia, che se non ricchissima, era più ricca di lui, e che lo aiutò, con il suo, a vivere a Roma e a farsi strada. Dopo una lunga convivenza abbastanza felice, per quanto si può giudicare, Cicerone e Terenzia, già vecchi, vennero in discordia, e fecero divorzio nel 46 a. C., non si sa bene per quali ragioni; pare perchè Terenzia si rifiutò, durante le guerre civili, di assistere Cicerone con il suo denaro, quanto egli voleva; ossia perchè in quel cimento, non volle arrischiare tutto il patrimonio sulla pericolante fortuna politica del marito. Ma il divorzio ridusse Cicerone, obbligato a render la dote, in gravi strettezze, e allora come ne uscì? Con un altro matrimonio, sposando a 63 anni Publibia, una ricchissima giovinetta diciassettenne, di cui era, si aggiunga, tutore, e il cui patrimonio doveva sistemare di nuovo il dissestato patrimonio del grande oratore!
[18]
Il matrimonio romano era dunque un barbaro commercio della carne muliebre, fatta da una Ragione di Stato spietata e crudele? Sarebbe errore credere che i Romani non sentissero i più teneri e dolci affetti del cuore umano. Le lettere di Cicerone basterebbero a provarci quanto teneramente anche i Romani sapessero amare la moglie ed i figli. Senonchè degli affetti personali più teneri e più dolci, che la letteratura, la musica, la religione, la filosofia, il costume hanno nei nostri tempi accarezzati, lusingati, divinizzati come le supreme ragioni del vivere, i Romani diffidavano, come troppo facilmente fossero pericolosi alla prosperità e al bene dello Stato. Vorremmo noi dunque denunciarli per barbari? Non dimentichiamo la diversità dei tempi, che è tanto grande. La fiducia di cui gli uomini moderni sono larghi all’amore, alla sua chiaroveggenza finale, alla sua potenza benigna sulle [19] cose del mondo; il diritto, figlio di questa fiducia, di scegliersi, per viverci insieme, la persona dell’altro sesso verso cui ciascuno di noi è sospinto da una attrazione personale più forte, sono fiori germogliati in cima all’albero dell’individualismo moderno. La facilità senza numero di cui godiamo oggi, per il lavoro, la coltura, le fortune accumulate di secolo in secolo, ci permettono di allentare la severa disciplina a cui tempi e popoli, costretti a menare vita più pura, dovettero sottoporsi. Sebbene a noi il costume sembri duro e barbaro pur è certo che quasi tutti i grandi popoli del passato e il maggior numero dei popoli contemporanei che vivono fuori della civiltà nostra, hanno concepito e praticato il matrimonio non come un diritto del sentimento, ma come un dovere della ragione, per compire il quale i giovani devono rimettersi alla saggezza dei vecchi e questi avere di mira non la soddisfazione di una passione, di solito tanto più fugace quanto più ardente, ma un calcolato equilibrio di qualità, di attitudini, di mezzi.
I principî che regolavano il matrimonio romano, possono dunque sembrare a noi contrari alla natura umana, ma sono invece i principî a cui hanno ricorso tutti i popoli che non vollero affidare alla passione, mobile [20] come il mare, il compito di fondare le famiglie, in tempi in cui la famiglia era un organo del consorzio sociale ben più importante che oggi non sia, perchè assommava in sè molti compiti — educazione, industria, governo — oggi divisi tra altri istituti. Senonchè neppure la ragione è perfetta: anch’essa ha le sue debolezze, come la passione: e quella Ragion di Stato pronuba, a cui le donne dovevano sacrificare così gli appetiti del senso come gli slanci del cuore, era anch’essa piena di pericoli e di inconvenienti, che conviene conoscere, se si vuol capire la tragica storia delle donne dei Cesari. Il primo inconveniente era la precocità dei matrimoni, poichè tra i 18 e i 20 anni i maschi, tra i 13 e i 15 le femmine erano quasi sempre sposati. L’inconveniente è insito nella natura stessa dei matrimoni combinati dai genitori per autorità; perchè troppo difficile sarebbe imporre ai figli la volontà dei vecchi, in cosa in cui le passioni così facilmente si accendono, se si aspettasse l’età in cui le passioni sono più ardenti e la volontà già abbastanza vigorosa. Appena usciti di fanciullezza, l’uomo e la donna sono più docili. Ma quanti pericoli in questi [21] matrimoni precoci, in una società in cui la donna maritata acquistava una libertà considerevole, poteva praticare gli uomini, frequentare i teatri e i ritrovi pubblici, affrontare tutte le tentazioni, le seduzioni e le illusioni della vita!
Altro e non meno grave inconveniente era la facilità dei divorzi. Il matrimonio essendo per la nobiltà romana un matrimonio politico, i Romani non potevano ammettere che fosse indissolubile, e riserbarono all’uomo il diritto di scioglierlo a piacere, anche quando la moglie fosse innocente di qualsiasi rimprovero, solo perchè quel matrimonio non conveniva più ai suoi interessi politici, e con mezzi spicciativi, senza formalità; una semplice lettera! Nè basta ancora: temendo che nei giovani l’amore potesse più che la ragione, la legge accordava al padre il diritto di intimare il divorzio alla nuora, in luogo e nome del figlio; cosicchè il padre poteva fare e disfare i matrimoni dei figli suoi, come più credeva utile o conveniente, oltrepassando, senza guardarla, la loro volontà. La donna, quindi, se nella casa era eguale all’uomo e oggetto di un alto rispetto, non era però mai sicura dell’avvenire; [22] nè l’affetto del marito, nè la virtù, nè la ricchezza, nè il lustro del nome l’assicuravano che essa finirebbe i suoi giorni nella casa in cui era entrata giovinetta e sposa novella, poichè da un giorno all’altro, la fatale politica poteva, non dirò scacciarla, ma invitarla gentilmente ad uscire dalla casa dove erano nati i suoi figli. Una lettera bastava a rompere un matrimonio! Cosicchè massime nella età di Cesare che fu instabile quanto mai, non si contavano più le signore dell’aristocrazia che avevano mutato tre o quattro mariti, e non per leggerezza o capriccio, ma perchè i loro padri, i loro fratelli, qualche volta perfino i loro figli le avevano a certi momenti pregate, supplicate o costrette a contrarre certi matrimoni, che dovevano servire alle loro mire di parte!
Ma è facile intendere come questa precarietà scoraggiasse le virtù, che sono il fondamento della famiglia, incoraggiasse invece la leggerezza, la dissipazione, l’infedeltà. Cosicchè la libertà concessa dai Romani alla donna doveva essere molto più pericolosa, che non sia oggi la libertà, pur maggiore, di cui godono le donne della nostra civiltà, perchè essa non aveva i freni e i contrappesi [23] che la libertà ha nel nostro mondo; la libera scelta, l’età più matura dei matrimoni, l’indissolubilità del matrimonio o le molte e diverse condizioni poste al divorzio. Era insomma nella famiglia romana una contradizione, che bisogna ben capire, se si vuole intendere la storia delle grandi signore dell’età imperiale. Roma voleva che la donna fosse nel matrimonio il docile strumento degli interessi della famiglia e dello Stato; ma non voleva poi sottometterla al dispotismo del costume, della legge e della volontà dell’uomo, come hanno fatto tutti gli altri Stati, che esigettero dalla donna una abnegazione totale; accordò invece alla donna, se non tutta, molta parte di quella libertà, che hanno potuto con poco pericolo concedere le civiltà, in cui la donna vive non soltanto per la famiglia, per lo Stato, per la specie, ma un po’ anche per sè... Roma insomma non volle trattare la donna come la trattava il mondo greco ed asiatico, ma non per questo rinunziò ad esigere da lei la stessa totale abnegazione per il bene pubblico, l’oblio intero delle sue aspirazioni e delle sue passioni a pro dell’interesse comune.
Questa contradizione ci spiega quel profondo, tenace, secolare puritanismo dell’alta società romana, che è la chiave di tutta [24] la storia della repubblica, senza il quale non si capisce nulla. Il puritanismo doveva appunto conciliare quella contradizione. Come il mondo orientale, segregandola nella casa e nell’ignoranza, spaventandola con minaccie e castighi, così Roma cercò di imporre l’abnegazione inculcandole con l’educazione, con la religione e con l’opinione, l’idea che la donna doveva essere pia, casta, fedele, semplice, dedita al marito e ai figli; che il lusso, la prodigalità, la dissolutezza erano orribili vizî, la cui infamia degradava irreparabilmente quel che di meglio e più puro è nella donna. Che cosa è il puritanismo, se non l’orrore invincibile di certi vizi e piaceri che non possono essere perseguitati con troppe severe sanzioni penali, educato con uno sforzo perseverante di suggestione? In Roma era il freno e il contrappeso della libertà della donna, che doveva impedire gli abusi più facili di questa libertà, e particolarmente la prodigalità e la dissolutezza.
Il puritanismo romano era dunque una cosa seria, grave e terribile; così grave e terribile, che potè essere come la scena storica, su cui si svolse l’atroce tragedia che dovremo raccontare. Era una prima ed aspra medicina di un male, che ha travagliato tutte le civiltà: l’insolubile difficoltà della donna [25] e della sua libertà. Difficoltà più grave, più difficile, più complessa che non credano i femministi, uomini e donne, oggi pullulanti dalla anarchia morale e dalla immensa prosperità materiale dei tempi moderni. Difficoltà, che sta precipuamente in questo: che se è opera crudele, difficile, iniqua, privar la donna di libertà, sottoporla ad un regime tirannico per costringerla a vivere per la specie e non per sè, la donna poi, quando le si lasci la libertà di vivere per sè sola, di soddisfare le sue passioni, facilmente ne abusa più che l’uomo e con maggior danno universale dell’uomo dimentica i suoi doveri verso la specie. E ne abusa più facilmente per due ragioni: perchè essa ha un potere sull’uomo molto maggiore che l’uomo non abbia su lei: e perchè nelle classi ricche è più libera da molte responsabilità che legano e quindi frenano l’uomo. Per quanto grande sia la libertà di cui gode l’uomo, e grande il suo egoismo, l’uomo è sempre costretto, in una certa misura, a frenare i suoi istinti egoistici, dalla necessità di conservare, ingrandire, difendere contro i rivali i beni, il rango, la potenza, il nome, la gloria. La donna invece, se è liberata dai [26] doveri familiari, se ottiene licenza di vivere per il suo piacere e per la sua bellezza, se l’opinione che le vieta sotto pena di infamia la dissolutezza, si indebolisce, e la dissolutezza invece che infamia le procura gloria, ricchezze, omaggi; quale freno potrà trattenere in lei gli appetiti ciechi e le crudeltà dell’egoismo che sono latenti in ogni anima umana?
Questa è la ragione per cui la donna, come nei tempi di forte disciplina è la più tenace tra le forze coesive di una nazione, è invece, nei tempi di anarchia e di disordine, la più attiva forza dissolvitrice con il lusso rovinoso, la dissolutezza, la sterilità voluta. Trovare un equilibrio tra la naturale aspirazione alla libertà che non è altro poi che il bisogno della felicità personale, vivo e profondo nel cuore della donna come nel cuore degli uomini, e la suprema necessità di una disciplina senza la quale la specie, lo Stato, le famiglie pericolano quando non periscono addirittura, è uno dei maggiori impegni di tutte le epoche e di tutte le civiltà. Anche questo impegno, nella esaltazione della ricchezza e della potenza, è considerato dallo spirito moderno con la frivolezza [27] e il dilettantismo che guasta e confonde oggi tutti i grandi problemi dell’estetica, della filosofia, della politica, della morale. Noi viviamo in mezzo a quelli, che si potrebbero chiamare i Saturnali della storia del mondo, nel cui clamore non sentiamo più il tragico della vita. Questa breve storia delle donne dei Cesari risusciterà sotto gli occhi dei moderni una di quelle tragedie, in mezzo alle cui oscure minaccie i nostri antenati vivevano, temperando in quelle i loro animi.
[31]
Nell’anno 38 a. C. il più giovane dei triumviri reipublicae costituendae, il collega di Marco Antonio e di Marco Emilio Lepido nella dittatura militare costituita dopo la morte di Cesare, Caio Giulio Cesare Ottaviano, chiedeva d’urgenza al collegio dei pontefici, che era la suprema autorità religiosa della repubblica, se una donna incinta potesse divorziare e risposarsi prima dello sgravo. Il collegio dei pontefici rispose che non poteva se la concezione era ancora dubbia; se invece sicura, non esserci impedimento. Dopo di che, in pochi giorni, il giovane triunviro — aveva allora 25 anni — ripudiava Scribonia, e sposava Livia, una [32] giovane signora di 19 anni, la quale si trovava appunto in quelle condizioni intorno a cui la sapienza dei pontefici era stata interrogata e che per sposarlo aveva fatto divorzio da Tiberio Claudio Nerone. Sebbene i grandi di Roma fossero spicciativi in queste faccende, i due divorzi e il nuovo matrimonio furono fatti anche più presto del solito: Tiberio Claudio Nerone non soltanto cedè graziosamente la giovane e bellissima moglie, ma le assegnò pure, per il nuovo matrimonio, una dote, come fosse il padre, e assistè al festino nuziale; Livia passò subito nella casa del nuovo marito, dove tre mesi dopo diede alla luce un figlio, che fu chiamato Druso Claudio Nerone e che Ottaviano fece portare nella casa del primo marito, come cosa che non gli apparteneva.
Somiglianti costumi saprebbero per noi di promiscuità e di lenocinio. Invece a Roma nessuno si sarebbe stupito di quei divorzi e di quelle nozze, perchè tutti erano avvezzi a veder fatti e disfatti in quel modo i matrimoni dei grandi personaggi, se non fosse stata quella straordinaria fretta, per cui non si volle o non si potè aspettare che Livia avesse dato alla luce il figlio del primo marito e fu necessario scomodare il collegio dei pontefici per ottenere un consentimento piuttosto [33] sofistico. Per qual ragione queste nozze furono celebrate a precipizio e, a quel che sembra, di comune accordo tra tutti? Perchè tutti, non Livia o Ottaviano soltanto, ma anche Tiberio Claudio Nerone, sembrano così impazienti che ogni cosa sia presto conchiusa? La leggenda, quasi in ogni suo punto ostile, che da venti secoli perseguita la famiglia di Augusto ha descritto questo matrimonio come una prepotenza, e poco meno che un ratto del dissoluto e perverso triunviro. Storici meno malevoli tra i quali chi scrive, nella sua Grandezza e Decadenza di Roma, supposero in questa fretta una esplosione d’amore per la bellissima Livia, che aveva travolto il giovane triunviro.
Ma una riflessione più lunga mi ha persuaso, che di questo famoso matrimonio c’è un’altra spiegazione, meno poetica forse ma più romana. Chi erano Livia e Ottaviano, l’uno rispetto all’altro, in quegli anni procellosi, in cui la gloriosa repubblica rantolava a terra semi strozzata dalla dittatura militare, che l’aveva rovesciata e agguantata alla gola? Livia non era soltanto una bellissima donna, come attestano i suoi ritratti, ma apparteneva a due delle più antiche e illustri famiglie della nobiltà romana, perchè suo padre, Marco Livio Druso Claudiano [34] proscritto dai triunviri nel 43 e uccisosi dopo a Filippi, era nientemeno che un Claudio adottato da un Livio Druso. Discendente di Appio Cieco, il famoso censore e il personaggio storico forse più illustre della antica repubblica; nato in una famiglia in cui il nonno, il bisnonno, il trisnonno erano stati consoli, e un numero non minore di consoli e di censori vantavano i rami collaterali, e una sorella di suo nonno era stata moglie di Tiberio Gracco, e una cugina di suo padre aveva sposato Lucullo, il conquistatore dell’Asia, era entrato per adozione nella famiglia dei Livi Drusi, che contava otto consolati, due censure, tre trionfi, una dittatura. Apparteneva insomma per nascita e per adozione a due di quelle antiche famiglie aristocratiche, che il popolo non aveva cessato mai di venerare, anche in mezzo alle più tremende rivoluzioni, come semidivine e alla cui storia si intrecciava la storia tutta della repubblica. Nè meno nobile era il primo sposo di Livia, che con tanta premura l’aveva ceduta, perchè discendeva da un altro figlio di Appio Cieco. Livia era dunque una incarnazione muliebre della grande aristocrazia romana, della sua gloria e delle sue tradizioni.
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Chi era invece Ottaviano? Un nobiluccio di fresca data. Suo nonno era un ricco usuraio di Velletri; e primo nella famiglia il padre, con le ricchezze dell’usuraio, era riuscito a insinuarsi clandestinamente nella nobiltà romana, sposando una sorella di Cesare, entrando nel senato, diventando pretore; ma era morto, ancora giovane. Ottaviano era dunque il discendente, diremo oggi, di ricchi borghesi nobilitati di recente; e per quanto, adottandolo nel testamento, Cesare gli avesse dato un antico nome patrizio, le sue modeste origini e il mestiere del nonno erano noti a tutti, in Roma. In uno stato in cui, pur dopo tante rivoluzioni, la nobiltà dell’antico lignaggio era ancora venerata dal popolo come il titolo più legittimo e meno controverso del potere, questa oscurità delle origini era un pericolo, massime per un dittatore che era un mediocre generale, che non aveva compiuto nessuna impresa di guerra gloriosa, e che non poteva vantare sino ad allora se non imbrogli, perfidie, violenze e rapine di guerre civili.
Considerando queste diversità noi possiamo spiegare come il futuro Augusto fosse così impaziente di sposare Livia nel 38 a. C. senza supporre che l’amore ne avesse fatta un’altra delle sue. I tempi erano procellosi; [36] il giovane triunviro, che un capriccio inesplicabile della fortuna aveva fatto a 20 anni partecipe di una dittatura rivoluzionaria, era il più debole dei tre colleghi; per l’età, per la poca esperienza, per il nessun prestigio e infine per la oscurità delle origini. Antonio, che aveva fatte tante guerre, con Cesare e solo, che apparteneva ad una famiglia di antica e autentica nobiltà, che era molto più ammirato ed amato dai soldati, era molto più potente di lui. Sposando Livia, Ottaviano entrava, sia pur di sbieco e come un mezzo intruso nella vecchia aristocrazia, alla quale soltanto il popolo riconosceva per davvero il diritto di esercitare le somme cariche della repubblica; e quindi legittimava un po’ il suo straordinario potere, proprio come l’antico ufficiale corso, fatto imperatore di Francia, aveva cercato di legittimare la sua fortuna, sposando la figlia di un vero imperatore. E poichè una signora, che apparteneva a una di queste grandi famiglie, era disposta a sposarlo, non conveniva por tempo in mezzo: i tempi e la fortuna potevano mutare...
Ma se questi motivi possono avere indotto il futuro Augusto ad affrettare le nozze, [37] come e per quali ragioni acconsentì Livia, in tempi tanto procellosi, quando la fortuna del futuro Augusto era ancora così incerta? Un passo di Velleio (2, 94) farebbe credere che chi immaginò e combinò questo matrimonio fu proprio... il primo marito di Livia. Velleio fu un amico, un confidente, quello che oggi si direbbe un ufficiale d’ordinanza di Tiberio. Egli può dunque aver appreso questo segreto di famiglia da Tiberio, il quale doveva aver saputo dalla madre come il famoso matrimonio era stato fatto. Perciò la testimonianza di Velleio è quanto mai autorevole. Poichè i grandi di Roma non solo non rifuggivano, ma credevano proprio dovere servirsi delle donne, nelle forme legali del matrimonio, per governare lo Stato, non è punto inverosimile che Tiberio Claudio Nerone, considerando che ormai la rivoluzione aveva vinto, pensasse che l’antica nobiltà doveva riconciliarsi con essa, e combinasse questo matrimonio per preparare la riconciliazione. Non più giovane, stanco, esautorato e disilluso dalle guerre civili, malaticcio (morì poco dopo), Nerone, che aveva conosciuto chi era Livia, pensò forse che una donna così bella e così [38] intelligente non avrebbe servito a nulla nella sua casa, mentre sposa al più giovane, al più debole, al più influenzabile dei triunviri... Se Velleio è nel vero, Tiberio Claudio Nerone fu l’ignoto politico, che seppe usare a tempo un piccolo espediente fecondo di grandi effetti. Con Livia, che entrava nella casa di Ottaviano, la antica nobiltà romana gettava al collo del più giovane tra i capi della rivoluzione una delle catene più dolci e leggere di peso, più difficili da rompere o da scuotere: le braccia di una donna bella e intelligente.
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E Livia non fallì alle speranze dei suoi, poichè per più di mezzo secolo fu nella casa del suo nuovo marito il genio discreto e sempre vigile dell’antica Roma. Era difficile immaginare un più perfetto modello della donna di grande lignaggio quale i Romani la vagheggiavano da tanti secoli; che sapesse meglio comporre, nella mirabile armonia di una lunga esistenza, la contradizione tra la libertà concessa al suo sesso e l’abnegazione impostagli come un dovere. Equilibrata, serena, virtuosa, essa si acconciò senza difficoltà a tutti i sacrifici, che il rango e i tempi le imposero. Lasciò senza fare difficoltà il primo marito, sposò Ottaviano cinque anni dopo le proscrizioni, quando era ancora rosso del sangue dei suoi; rinunciò, sposandolo, ai due figli, a quello che le era già nato, il futuro imperatore Tiberio, e a quello che nacque dopo il matrimonio; li riprese con eguale serenità e li educò con la più materna premura, quando di lì a qualche anno [40] Tiberio Claudio Nerone morì nominando Augusto tutore. Del secondo marito, che la ragione di Stato le aveva imposto, fu compagna fedelissima. La leggenda la imputò di venefici assurdi, di ambizioni fantastiche e di intrighi romanzeschi; ma neppure la leggenda pur così astiosa, osò mai accusarla di infedeltà e di dissolutezza. Non fu turbata, alterata o guasta dall’immenso potere, dall’immensa gloria, dall’immensa ricchezza del marito: nel palazzo di Augusto, ornato di perpetui lauri trionfali, a cui guardava tutto l’immenso impero dall’Eufrate al Reno; dove gli uomini più eminenti del Senato, in piccoli conciliaboli, trattavano i più grandi interessi del mondo, conservò le belle tradizioni di semplicità e di attività, che aveva imparate fanciulletta, nella casa paterna, splendente di gloria, ma non di ricchezze. Noi sappiamo — ce lo racconta Svetonio — che la casa costruita da Augusto sul Palatino, e in cui Livia passò la maggior parte della sua vita, era piccola e poco fastosa. Non un solo pezzo di marmo, nè mosaici preziosi; mobili così semplici, che nel secondo secolo dell’era volgare si mostravano ancora al pubblico, come curiosità; nessun lusso e sfarzo nei pranzi, a cui spesso Livia e Augusto invitavano i personaggi cospicui [41] di Roma, i magistrati della ricostituita repubblica, i capi delle grandi famiglie: solo nelle solenni occasioni si servivano sei portate, di solito tre solamente. Augusto per quarant’anni dormì sempre nella stessa stanza; e non portò mai che toghe tessute da Livia: si intende non proprio e non soltanto dalle mani di Livia, che pure ogni tanto non sdegnava di sedersi al telaio, ma dalle sue schiave e liberte. Ligia alle tradizioni dell’aristocrazia, Livia dirigeva anche le officine di tessitura della sua casa; pensava di contribuire anche essa alla prosperità e alla grandezza dell’Impero, misurando con cura la lana alle schiave, sorvegliandole che non la rubassero o la sciupassero, comparendo ogni tanto in mezzo ad esse, mentre lavoravano.
Semplicità, fedeltà, laboriosità, dedizione intera della propria persona alla famiglia ed ai suoi interessi: queste virtù muliebri, coltivate per tradizione nelle grandi famiglie, rivissero tutte, tra la ammirazione dei contemporanei, in Livia. Ma con queste virtù rivisse anche l’interessamento per la politica, il desiderio e l’orgoglio di partecipare alle vicende e alle opere del marito, comuni a tutte le donne di qualche merito nelle grandi famiglie. Nessuno si meravigliò mai a [42] Roma che Augusto ricorresse spesso a Livia per consiglio e non prendesse mai nessuna deliberazione grave, senza averla consultata; che essa attendesse nel tempo stesso a vestir suo marito e l’aiutasse a governare l’impero. Così avevano fatto tutte le matrone della nobiltà, sollecite della loro buona fama e della prosperità della loro famiglia. Livia anzi doveva tanto più inflessibilmente irrigidirsi nei sacri doveri della tradizione perchè i tempi non potevano non apparire minacciosamente pericolanti ad una donna allevata all’antica in una antica famiglia. Se le guerre civili avevano decimata l’aristocrazia di Roma, la pace ne minacciava gli avanzi con una nuova e più insidiosa rovina. Quando Livia toccava i quarant’anni, verso il 18 a. C. già la generazione nuova, quella che non aveva visto le guerre civili, perchè appena nata o ancora bambina quando queste finivano, entrava nella vita, avida di lusso, di dissipazione, di godimenti, di libertà e di tutte quelle novità che sotto sotto minavano la repubblica aristocratica, ricostituita con tanti sudori. Le donne ricominciavano a ribellarsi ai matrimoni per ragione di Stato; il celibato si diffondeva isterilendo le stirpi più celebri; troppi vizi e disordini erano tollerati nelle famiglie più illustri; [43] l’aristocrazia così semplice e austera, nel buon tempo antico, si buttava al lusso, a mano a mano che l’Egitto conquistato conquistava Roma e che le antiche arti del lusso, fiorenti ad Alessandria sotto i Tolomei, si trapiantavano a Roma, sperando di ritrovare tra i nuovi dominatori i clienti perduti con la caduta del regno d’Egitto. Le donne si invaghivano delle nuove fogge orientali, chiedevano ai mariti stoffe di gran lusso e gioielli, prendevano in uggia l’antico emblema della donna, il telaio. Tra i giovani delle grandi famiglie troppi voltavano le spalle alla milizia, alle magistrature, alla giurisprudenza, ossia a tutti gli oneri e gli onori che erano stati l’ambito e duro privilegio della nobiltà, e chi preferiva la filosofia, chi soltanto occuparsi dei propri beni, chi vivere negli ozî voluttuosi di Roma e di Baia: onde il laticlavio era troppo spesso rifiutato e schivato da chi doveva fregiarsene; quasi tutti gli anni per le cariche più numerose, come la questura, c’eran più posti che candidati; e non era cosa facile neppure trovare nell’aristocrazia tutti gli ufficiali superiori, di cui le legioni avevano bisogno.
L’aristocrazia romana, la gloriosa aristocrazia [44] scampata alle proscrizioni e a Filippi, moriva di un lento e voluttuoso suicidio. Bisognava salvarla da se medesima. Livia fu certamente tra i consiglieri e gli inspiratori della restaurazione aristocratica, a cui Augusto fu spinto dalla vecchia nobiltà per compiere la restaurazione della repubblica fatta dieci anni prima, verso l’anno 18 a. C. quando propose le famose leggi sociali, che volevano appunto ricostituire la famiglia aristocratica. La lex de maritandis ordinibus si sforzava con minaccie e promesse di costringere tutti i membri dell’aristocrazia a sposarsi e a prolificare, combattendo il celibato e la sterilità. La lex de adulteriis proclamava la legge marziale e il terrore nel disordinato regno dell’amore, minacciando alla sposa infedele e al suo complice l’esilio a vita e una confisca parziale delle sostanze, obbligando il marito a denunciare la rea ai tribunali, obbligando il padre a portar l’accusa, se il marito non voleva o non poteva, autorizzando qualunque cittadino a farsi accusatore, se il padre e il marito non compivano il loro dovere. La lex sumptuaria si sforzava di moderare il lusso delle famiglie ricche e particolarmente il lusso muliebre, proscrivendo i gioielli, [45] le feste, le vesti, gli schiavi e le costruzioni di lusso. Queste leggi volevano insomma rifare il mondo muliebre dell’aristocrazia romana a imagine e somiglianza di Livia; tanto è vero che nelle lunghe discussioni di cui furono oggetto in Senato, Augusto fece una volta un lungo discorso, in cui citò Livia come il modello a cui tutte le signore dovevano sforzarsi di rassomigliare in Roma; e a conferma aprì alla curiosità pubblica le porte della casa: raccontò come Livia viveva, quali amicizie coltivava, che sollazzi e svaghi si permetteva, e perfino come si vestiva e con quale spesa... E nessuno giudicò indegno della grandezza della repubblica che il suo capo mettesse in piazza, come un affare di Stato, quelli che oggi si chiamerebbero «i conti della sarta» della propria moglie.
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Livia, dunque, verso il 18 a. C. raffigurava agli occhi dei Romani la perfezione muliebre, quale la tradizione secolare la venerava: quella perfezione, che fortunatamente scampata alle guerre civili era stata finalmente ricollocata là dove tutti potevano vederla, ammirarla e imitarla: nella più potente famiglia dell’impero! Esempio vivente delle virtù che il popolo romano maggiormente ammirava, sposa amata e consigliera ascoltatissima del capo dello Stato, circondata dalla venerazione che la potenza, la virtù, la nobiltà dei natali, la dignitosa bellezza del volto e del corpo attiravano verso lei da ogni parte, allietata da due figli, Tiberio e Druso, che intelligenti, seri, operosi, studiosi, promettevano di essere romanamente degni del nome che portavano, Livia avrebbe dovuto vivere come un esempio di felicità, nell’universale e meritata ammirazione.
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Ma le difficoltà nacquero nella sua stessa famiglia. Augusto aveva avuto da Scribonia una figlia: Giulia, che nel 18 a. C. aveva 21 anni, e che di fronte a Livia era il presente in procinto di ribellarsi al passato, la generazione nuova, allevata nella pace, più vogliosa di godere i privilegi del rango che disposta a sopportare il carico degli obblighi e dei sacrifici, con cui le generazioni precedenti avevano bilanciato i privilegi. Bella e intelligente, amava non solo gli studi, la letteratura e le arti, ma anche il lusso e lo sfarzo, più che non consentissero lo spirito e la lettera della lex sumptuaria, fatta approvare dal padre; era tutta fuoco, ambizione, slancio, passione, quanto Livia era saggezza, prudenza, riserbo. Augusto, che governava la sua famiglia al modo antico, l’aveva maritata giovanissima, come giovanissimi aveva maritato i due figli di Livia, e tutti e tre più che aveva potuto in famiglia, badando a consolidare gli interessi politici della famiglia stessa, dando a Tiberio Agrippina figlia di Agrippa, il suo grande amico e il più fedele collaboratore, a Druso Antonia, la figlia minore di Antonio e di sua sorella Ottavia; a Giulia Marcello, suo nipote, [48] figlio pure di sua sorella Ottavia e del suo primo marito... Ma mentre i due primi matrimoni erano riusciti e le due coppie vivevano amandosi e felici, non così fu del matrimonio di Giulia e di Marcello. Presto nacquero dissapori e rancori. Per quali ragioni non sappiamo: pare che, sobillato da Giulia, Marcello assumesse un tono troppo superbo e insolente, che non si addiceva neppure al nipote di Augusto; e che questo contegno offendesse Agrippa, che era il primo personaggio dell’impero dopo Augusto. Pare che Giulia insomma non fosse contenta, al modo antico, di incoraggiare e consigliare il marito nelle sue ambizioni legittime, ma che avesse già delle ambizioni proprie e quali! Che suo marito fosse il secondo personaggio dello Stato dopo Augusto; per venir essa subito dopo, se non esser messa addirittura a pari di Livia! Queste ambizioni, le sorde discordie che in poco tempo nacquero nella famiglia, spaventarono tanto Augusto, che quando Marcello, nell’anno 23, giovanissimo ancora, morì, esitò a lungo prima di rimaritare la giovane vedova. Per un momento pensò perfino di sposarla ad un cavaliere, ossia una persona di secondaria importanza, quanto al potere e [49] allo Stato, con il manifesto proposito di soffocare le sue troppo ardenti ambizioni, mettendola nella impossibilità di soddisfarle: poi si risolvè all’espediente opposto, di quietare quelle ambizioni soddisfacendole; e diede Giulia, nel 21 a. C., ad Agrippa, che era stato la causa dei dissapori precedenti. Agrippa era più vecchio di lei di 24 anni, poteva esser suo padre, ma era davvero il secondo personaggio dell’impero per gloria, ricchezza e potenza; e ben presto nel 18 a. C. egli diventerebbe collega di Augusto nella presidenza della repubblica, suo pari quindi in ogni cosa.
Così Giulia fu, a 21 anni, la seconda donna dell’impero dopo Livia, forse la prima accanto a lei; e potè non solo soddisfare la sua ambizione, ma sfogare l’ardore modernizzante delle nuove generazioni, diventando a poco a poco l’antitesi di Livia e del suo quasi monumentale arcaismo. Se Livia portava, come Augusto, vesti di lana tessute in casa, Giulia adorava le vesti di seta, che gli industri mercanti orientali vendevano a caro prezzo, ma che gli arcaizzanti in toga e in stola odiavano come una rovina per il costo e come una indecenza, per il risalto che davano alle forme. Quanto Livia era parsimoniosa, [50] essa era prodiga. Se Livia non si mostrava in teatro se non circondata da uomini attempati e gravi, Giulia compariva sempre in pubblico con un codazzo di giovani eleganti. Se Livia badava a star sempre al suo posto e a dar l’esempio del riserbo e della modestia, Giulia, non ostante la legge che vietava alle mogli di accompagnare i governatori nelle provincie, riuscì a partire con Agrippa, quando nell’anno 16 egli fece il grande viaggio di Oriente; e dappertutto comparve al suo fianco, nei ricevimenti, alle corti, nelle città, e prima delle donne latine fu in Oriente divinizzata. Pafo le eresse delle statue chiamandola «divina»; Mitilene la chiamò Nuova Afrodite, Efeso Afrodite Genitrice... Ardite novità, in uno Stato di tradizioni così potenti; ma che pure avrebbero potuto non essere soverchiamente pericolose se Giulia non avesse commesso una imprudenza più grave assai. Agrippa era quasi vecchio; era uomo semplice, rude, di origine oscura, che badava più alle faccende pubbliche che alla giovane moglie, sposata in omaggio alla Ragione di Stato. Tra i giovani che facevan parte del circolo di Giulia parecchi erano belli, eleganti, piacevoli: tra questi un Sempronio Gracco, discendente dai famosi tribuni. Par [51] che Giulia, ancor vivo Agrippa, facesse con costui uno di quegli sfregi alla nuziale Ragione di Stato in voga a Roma, che la lex de adulteriis puniva con terribili pene.
Che sin da questo tempo tra Giulia e Livia non corresse buon sangue è verosimile in sè, e parecchi indizi, rimasti nella tradizione e nella storia, lo provano. Noi sappiamo pure che intorno alle due donne incominciavano già a raccogliersi come due partiti: uno che si potrebbe chiamare il partito dei Claudî e della nobiltà arcaizzante, l’altro il partito dei Giulî e della nobiltà modernizzante. Tuttavia Augusto, bilanciandosi tra le due donne e i due partiti, riuscì a conservare un certo equilibrio sinchè Agrippa visse. Così, allorchè volle mettersi in regola con la lex de maritandi ordinibus, che prescriveva a tutti i buoni cittadini, solleciti del bene pubblico di aver tre figli, adottò i due primi figli che Giulia aveva avuti da Agrippa: Lucio e Caio. Fu un grande trionfo per Giulia. Ma nel 12 a. C. la morte di Agrippa precipitò le cose che a stento si reggevano in bilico...
Di nuovo Giulia era vedova; e la lex de maritandis ordinibus le ingiungeva di rimaritarsi. Augusto, al modo antico, le cercò un marito, consultando solamente la dura [52] Ragion di Stato: Tiberio, il figlio maggiore di Livia. Tiberio era fratellastro di Giulia ed era maritato con una donna che teneramente amava: ma non a queste considerazioni poteva indugiare un senatore romano. Il matrimonio di Giulia e di Tiberio poteva e doveva spegnere la discordia incipiente tra i Giulii ed i Claudi, tra Giulia e Livia, tra la giovane e la vecchia nobiltà; Augusto ordinò quindi a Tiberio di ripudiare la giovane, bella e virtuosa Agrippina e di sposare Giulia. Il dovere era duro (si racconta che incontrata, dopo il divorzio, in una casa, Agrippina, Tiberio scoppiasse in pianto, e che Augusto ordinasse ai due antichi sposi di non vedersi mai più): ma anche Tiberio era uomo di antiche idee e sapeva che un nobile romano doveva sacrificare all’interesse pubblico i suoi affetti domestici... Giulia invece celebrò le nozze allegramente. Poichè Tiberio, dopo la morte di Agrippa, del fratello Druso, era la speranza e il secondo personaggio della repubblica, essa non decadeva dal secondo al terzo matrimonio. E Tiberio era anche un bellissimo uomo, come i marmi attestano; il che pare non spiacesse a Giulia, che nel marito non considerava solo la Ragion di Stato.
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Il matrimonio fu salutato da liete speranze. Giulia pareva amare Tiberio, e Tiberio faceva il possibile per essere un buon marito. L’attesa di un figlio rinforzò le speranze. Ma per poco tempo, pur troppo! Tiberio era il figlio di Livia, un Claudio autentico, un tradizionalista di macigno, un aristocratico rigido e sdegnoso, un soldato duro con gli altri come con sè. Voleva che l’aristocrazia fosse l’esempio del popolo, a cui doveva comandare: esempio di pietà religiosa, di semplicità dei costumi, di parsimonia, di puro spirito familiare, di obbedienza alle leggi. Il lusso e la prodigalità non avevano più fiero nemico; un grande lignaggio che profondesse i beni in gioielli, in vesti, in gozzoviglie gli pareva tradire la patria; nessuno esigeva con maggior vigore che le grandi leggi dell’anno 18 — la legge suntuaria, sul matrimonio, sull’adulterio — fossero applicate con inesorabile fermezza. Giulia amava il lusso, le feste, le allegre compagnie, i giovani eleganti, la vita facile e amena.
Dopochè anche le speranze del figlio furono deluse (morì poco dopo la nascita) la discordia scoppiò. È un fatto certo che Tiberio non tardò a sapere che Sempronio Gracco, approfittando della discordia, era [54] riuscito a riavvicinarsi a Giulia, a farsi ascoltare, e a riprendere la antica relazione con lei; e un nuovo intollerabile tormento si aggiunse al rimpianto della pura, dolce, diletta Agrippina. Secondo la lex de adulteriis egli sarebbe stato obbligato a denunciare al pretore e a far castigare la moglie colpevole; ed egli era stato colui che aveva rampognato più aspramente le disobbedienze alla terribile legge... Ora che sua moglie l’aveva violata e avrebbe, come tante altre donne, dovuto subirla, era venuto il momento di dare quell’esempio di fermezza implacabile, che tante volte aveva reclamata dagli altri! Ma Giulia era la figlia di Augusto... Poteva provocare, senza il consenso di Augusto, un tale scandalo nella casa del primo magistrato della repubblica? Infamare e cacciare in esilio la figlia? Augusto, pur desiderando che fosse più prudente e più seria, amava e proteggeva la figlia; e non voleva pericolosi scandali. E Giulia osava quel che osava, sapendosi invulnerabile.
Costretto a far le viste di non sapere, Tiberio non volle più vivere con Giulia nello stesso appartamento nè aver altro di comune, con lei, fuorchè il necessario a salvare le apparenze: ma non potè ripudiarla e tanto meno denunciarla. Ma peggio fu, quando [55] i rancori politici incominciarono a sfruttare la discordia. Tiberio aveva molti nemici, massime nei giovani suoi coetanei: parte perchè la sua rapida fortuna aveva offeso non poche invidie; parte perchè il suo arcaismo autoritario inquietava molti egoismi. Troppi, anche nella nobiltà, desideravano un governo facile, che lasciasse goder senza fatica dei privilegi e non fosse troppo severo nell’imporre i doveri! A sua volta l’ambiziosissima Giulia, non potendo più sperare di primeggiare accanto a Tiberio, cercò un compenso alle deluse ambizioni tra i suoi nemici; e raccolse intorno a sè un partito, il quale si sforzò in tutti i modi di scalzare e rovesciare Tiberio, contrapponendogli Caio Cesare, il figlio di Giulia e di Agrippa, che Augusto aveva adottato e che amava assai. Sebbene Caio Cesare avesse, nel 6 a. C., appena 16 anni, incominciò in quell’anno a Roma un lavorìo, un maneggio, un sussurro per farlo già sin d’allora, mediante speciale privilegio del senato, nominar console per l’anno 754 di Roma, in cui Caio avrebbe raggiunto i venti anni. Con questa mossa il partito di Giulia e dei nemici di Tiberio cercava di attirar l’attenzione popolare [56] sul giovane, per preparare un nuovo collaboratore di Augusto, che fosse rivale o almeno concorrente di Tiberio, per accaparrarsi l’avvenire nella persona di lui.
Ma la mossa era troppo ardita, perchè un console fanciullo era uno sfregio alla costituzione e alla tradizione romana: e forse sarebbe stata funesta a chi l’aveva imaginata, se proprio Tiberio non si fosse incaricato di farla riuscire con un errore. Tiberio si oppose a questa legge, e volle che Augusto si opponesse. Augusto, infatti, da principio si oppose... Ma poi, sia che Giulia sapesse convincerlo, sia che davvero nel senato un forte partito volesse Caio console in anticipazione per odio a Tiberio, alla fine cedè, cercando di placare Tiberio con dei compensi. Ma Tiberio non era uomo da accettare dei compensi, e sdegnato chiese il permesso di ritirarsi a Rodi, abbandonando tutte le cariche pubbliche che esercitava. Egli sperava certo di farsi desiderare, poichè davvero Roma aveva bisogno di lui. Ma si ingannò. Non solo Augusto andò in collera con Tiberio, ma questa sua secessione fu biasimata severamente dall’opinione pubblica, come una rappresaglia sullo Stato di una offesa [57] privata. Lui assente, tutti i nemici presero coraggio e divennero leoni: gli onori a Caio Cesare furono approvati tra l’universale entusiasmo; il partito di Giulia stravinse, primeggiò nel favore di Augusto, nei conciliaboli del senato e nei capricci della popolarità, mentre Tiberio era costretto a logorarsi, a Rodi, nell’ozio triste di un uomo d’azione, che a poco a poco si sente dimenticato.
Era però rimasta a Roma Livia.
[61]
Abbandonato dall’opinione pubblica, inviso alla maggioranza del senato, in rotta con Augusto, Tiberio si trovò ben presto a Rodi nella disperata stretta di chi, con una mossa falsa, ha fatto il gioco dei suoi nemici e non sa come riparare all’errore. Uscire di Roma era stato facile; il difficile era rientrarci. E forse la sua fortuna sarebbe tramontata per sempre, ed egli non sarebbe più diventato imperatore, se nell’universale abbandono due donne non gli fossero rimaste fedeli: la madre Livia, e la cognata Antonia, la vedova del fratello Druso, morto giovane, quando più vive erano le speranze che Roma riponeva in lui.
Antonia era una figlia della sorella di Augusto, Ottavia, e di Marco Antonio, il famoso triunviro di Cleopatra; e fu certo la [62] più gentile e dolce tra tutte le figure di donne che compaiono nella tragica e lugubre storia della famiglia dei Cesari. Bella, virtuosa, seria, modesta, equilibrata, portava nella famiglia uno spirito di concordia, una serenità, un senno che, pur troppo, non sempre avevano ragione delle violente passioni e dei rissosi interessi degli altri. Druso e Antonia erano stati per i Romani, sinchè Druso visse, il modello delle coppie fedeli e amorose, cosicchè il loro tenero affetto era passato quasi in proverbio; ma quel che in questa coppia aveva più profondamente commosso a Roma la moltitudine, così incline ad ammirare i discendenti delle grandi famiglie, era la bellezza, la virtù, la dolcezza, la modestia e la riserva di lei. Morto Druso, Antonia non volle rimaritarsi più, sebbene la lex de maritandis ordinibus ne facesse obbligo anche a lei; «giovane e bellissima — scrive Valerio Massimo — si ridusse a vivere in compagnia di Livia, e il medesimo letto vide morire il giovane marito e invecchiare la sposa in una austera vedovanza»; Augusto e il popolo furono così inteneriti da questa suprema prova di fedeltà alla memoria dell’indimenticabile marito, che per comune consenso dell’opinione pubblica, essa fu dispensata dall’obbligo di [63] rimaritarsi; e Augusto stesso, pur così rigoroso nell’imporre l’osservanza della lex de maritandis ordinibus alla sua famiglia, fu questa volta disarmato. Per la prima volta la Ragion di Stato, mezzana e pronuba di prostituzioni legali, rispettò l’anima e il corpo di una donna pura, esentandola dalle promiscuità politiche, obbligatorie per tutte le altre donne della sua famiglia e della sua casta.
Tra una sua villa di Bauli, dove passava la maggior parte dell’anno e Roma, la bella vedova badava ad allevare i suoi tre figli — Germanico, Livilla, Claudio — vivendo appartata dalle cose politiche, nella intimità di Livia, da essa venerata, dopo la morte di Ottavia, come la madre; e cercando di infondere uno spirito di concordia nella lacerata famiglia.
Antonia era molto amica di Tiberio, il quale a sua volta ricambiava di viva simpatia e di un profondo rispetto la bella e virtuosa cognata. Che Antonia, la quale era legatissima a Livia, abbia parteggiato per Tiberio, è certo per molti indizî. Ma della lotta che si impegnò in quegli anni fra nemici ed amici di Tiberio, non Antonia, creatura dolce e mite, ma Livia, più forte, più autorevole, più energica, fu l’anima.
[64]
Le cose peggiorarono rapidamente: l’opinione pubblica diventava sempre più ostile a Tiberio e più favorevole a Giulia e al suo figlio; ben presto si vollero dare al fratello minore di Caio Lucio, gli stessi onori già assegnati a Caio; gli interessi si allearono agli odi e ai rancori contro Tiberio, perchè non appena Tiberio era partito, il Senato aveva aumentato le spese delle frumentazioni per il popolo, e quelle per i pubblici giuochi. Quanti approfittavano di queste spese avevano ormai interesse a impedire che Tiberio, famoso per la sua avversione a tutte le spese inutili, tornasse. Non si badò ai mezzi pur di rovinare Tiberio; tutte le arti e tutte le calunnie furono lecite, perfino l’accusa di ordire delle congiure contro Augusto. Fronteggiare insieme i rancori e le inclinazioni di Augusto, l’opinione pubblica, la maggioranza del Senato, gl’interessi coalizzati, Giulia e i suoi amici, era impresa ardua, anche per una donna così abile e forte come Livia. Quattro anni passarono, l’uno più nero ed infausto dell’altro per Tiberio ed i suoi. Al partito di Giulia crescevano di continuo le forze.
Alla fine il partito di Tiberio si decise ad una audacia disperata: colpire il partito avversario con uno scandalo nella persona [65] stessa di Giulia. La lex Iulia de adulteriis, fatta da Augusto nell’anno 18, e che dava licenza a qualunque cittadino di accusare la sposa infedele davanti ai tribunali, quando il marito o il padre non l’accusassero, si applicava a tutti i cittadini romani, dunque anche la figlia di Augusto, alla vedova di Agrippa, alla madre di Caio e di Lucio Cesare, le due giovani speranze della repubblica. Giulia aveva sino ad allora violato la lex Iulia; e non aveva subito la pena, che aveva colpito tante altre donne dell’aristocrazia, solo perchè nessuno aveva osato provocar questo scandalo nella prima famiglia dell’impero. Il partito di Tiberio, protetto e guidato da Livia, l’osò alla fine. È impossibile dire quale fu la parte di Livia in questa tragedia: certo è che essa o qualche altro personaggio influente riuscì a procurarsi le prove della colpa di Giulia, e le portò ad Augusto, minacciando, se egli non compiva il suo dovere, di portarle al pretore e di fare un processo. Augusto aveva voluto con la lex Julia che se il marito, come era allora il caso di Tiberio, non poteva accusare la donna infedele, il padre doveva farne le veci; ed Augusto dovette subir la sua terribile legge, per evitare scandali e guai peggiori. Esiliò Giulia nella piccola isoletta di [66] Pantelleria; e a 37 anni, la giovane, avvenente, piacevole, voluttuosa signora, che aveva brillato a Roma tanti anni, dovette sparire per sempre dalla metropoli, ridursi a vivere in una isoletta selvaggia. La sua vita era troncata per sempre dall’odio implacabile di un partito nemico, dalla crudeltà inesorabile di una legge, fatta dal padre.
Dopo l’esilio di Giulia, la fortuna di Tiberio e di Livia, per quattro anni languente, risorge. Ma non così rapidamente, come Livia e Tiberio forse avevano sperato. Giulia conservò, anche nella disgrazia, numerose amicizie e una grande popolarità; per molto tempo il popolo di Roma dimostrò a suo favore; molti sollecitavano il suo perdono da Augusto: prova evidente che le orribili infamie raccontate sul suo conto erano esagerazioni di nemici. Giulia aveva violata la lex Iulia, questo è sicuro: ma se aveva commesso un fallo, non era un mostro, come i suoi nemici dicevano: era una bella signora, come molte ce ne furono, ce ne sono e ce ne saranno, provvista di vizi e di virtù umane. E difatti il suo partito, riavutosi dallo scandalo, riprese la guerra; e fermo nel pensiero di far perdonare Giulia, tentò quanto potè per impedire a Tiberio di tornare a Roma e riprender parte alla vita politica, [67] sapendo che se il marito rimetteva il piede in Roma, Giulia non ci ritornerebbe più. Uno solo poteva rientrare in Roma: o Tiberio o Giulia. E la mischia dei due partiti riarse intorno ad Augusto, più furiosa che mai.
Caio e Lucio Cesare, i due giovani figli di Giulia, prediletti di Augusto, furono i portavoce dei nemici di Tiberio presso Augusto, il contrappeso dell’influenza di Livia. Nessuna arte fu negletta per seminare tale odio e diffidenza tra i due giovani e Tiberio, che non potessero mai ritrovarsi insieme nel governo e la presenza degli uni escludesse l’altro. Un nuovo aiuto i nemici di Tiberio trovarono in una figlia di Giulia e di Agrippa — Giulia minore, come la storia l’ha chiamata, — che Augusto amava non meno di Caio e di Lucio. Sposata a L. Emilio Paolo, al discendente di una delle più grandi famiglie di Roma, Giulia divenne presto, in Roma, al posto della madre, l’Antilivia; raccogliendosi dattorno, come la madre, una corte di giovani eleganti, di scrittori, di poeti — Ovidio faceva parte del suo circolo — la quale bilanciasse la consorteria dei vecchi senatori (parrucconi, diremmo noi) che facevano circolo intorno a Livia. Non indugiò molto neppure ad abusare [68] della benevolenza del nonno come ne aveva abusato la madre; sfoggiando, all’ombra della sua protezione, un lusso che i nemici del vecchio puritanismo romano ammiravano appunto perchè vietato dalle leggi; costruendo una magnifica villa, che era una sfida alla legge suntuaria; e — se si vuol credere alla tradizione — violando anche quella lex de adulteriis, che era stata così fatale alla madre.
Cosicchè, anche dopo la caduta di Giulia, i suoi tre figli — Caio, Lucio, Giulia — erano abbastanza potenti, e per la debolezza di Augusto, e per il favore pubblico, e per gli appoggi in Senato, da contrastare il terreno al partito di Livia. A mala pena, dopo infiniti stenti e quattro anni di intrighi, nell’anno 2 dopo C., Livia riuscì ad ottenere che Tiberio potesse ritornare a Roma; ma a condizione che s’occupasse solo dell’educazione del figlio e dei suoi affari privati, ogni faccenda pubblica esclusa. Augusto era vecchio e non bastava più all’impero; l’esercito era arrugginito, le finanze dissestate, le frontiere mal sicure; in Gallia, in Pannonia, in Germania la rivolta serpeggiava; Tiberio solo, che era il primo generale e uno dei migliori amministratori del suo tempo, che poteva mettere a disposizione [69] della repubblica il pieno vigore della sua virilità matura, era in grado di fare ciò, che Lucio e Caio non sapevano. Ma inutilmente: Augusto non cedeva alle istanze di Livia: I Giulî erano padroni dello Stato e ne tenevano lontani i Claudî.
Tiberio sarebbe forse stato bandito per sempre dal potere, se il caso non l’avesse aiutato, togliendo di mezzo Caio e Lucio Cesare. Poco dopo il ritorno di Tiberio, il 20 agosto dell’anno 2 d. C. Lucio Cesare moriva a Marsiglia, spento da breve malattia; e venti mesi dopo, nel febbraio dell’anno 4, moriva pure Caio, in Licia, in seguito ad una ferita ricevuta in una scaramuccia. Queste due morti furono così premature, così vicine l’una all’altra e così opportune per Tiberio, che la posterità si è rifiutata di considerarle come uno dei tanti accidenti che possono capitare a tutti gli umani; e ha sospettato in quelle la mano criminosa di Livia! Senonchè chi conosce un po’ il mondo e gli uomini, sa che è più facile immaginare e sospettare che compiere questi avvelenamenti romanzeschi. Pur lasciando in disparte ogni considerazione sul carattere di Livia, — e molte se ne potrebbero fare — è difficile immaginare come essa avrebbe osato e potuto avvelenare i due giovani a tanta distanza [70] da Roma, in Asia l’uno e in Gallia l’altro, per mezzo di molti complici, in tempi in cui, divisa come era la famiglia di Augusto da tanti odi, ogni suo membro era sospettato, spiato, appostato da un partito nemico; e in cui l’esempio di Giulia provava che la parentela con Augusto non era schermo sufficiente contro i rigori della legge e la collera dell’opinione pubblica. È poi cosa notissima che il popolo inclina sempre a sospettare un delitto ogni qual volta un uomo noto e potente muore prematuramente. Senza risalire alla leggenda del Conte Rosso avvelenato dalla madre, ricorderemo che trent’anni fa era tradizione, a Torino, che Cavour fosse stato avvelenato dalla mano di un’amante, chi diceva per ordine di Napoleone III, chi dei gesuiti, solo perchè la sua vita fu repentinamente troncata (da una nefrite, credo) a 52 anni, proprio quando l’Italia sentiva di averne maggior bisogno! Questa ecatombe di giovinetti e di giovani nella famiglia di Augusto sembra la persecuzione di un’oscura fatalità e può riuscir sospetta: ma appunto perchè le morti premature furono così numerose, non si possono spiegare se non con il logoramento della stirpe bacata nel midollo. Tutte le famiglie, invecchiando nel potere e nella ricchezza, si [71] spengono: onde nessuna aristocrazia potè durare se non rinnovandosi, e quelle che si sono chiuse in sè, sono perite.
Nessuna seria ragione ci autorizza ad attribuire a una donna, che fu venerata come un modello dagli uomini migliori della sua età, un così orrendo delitto; e le favole che ne raccontò il popolino, avverso a Livia perchè fedele a Giulia, e che gli storici delle età seguenti raccolsero, valgono quanto le dicerie del popolino torinese sul veleno propinato a Cavour. La morte di Caio e di Lucio Cesare fu però una grande fortuna per Tiberio, perchè impose il suo ritorno al potere. L’impero era nei guai dappertutto; la Germania era mezza in rivolta; l’esercito aveva bisogno di un capo; pure Augusto, vecchio e irresoluto, esitava ancora, temendo l’avversione che covava e in senato e nel popolo contro il troppo autoritario Tiberio. Alla fine, d’accordo con Livia, la parte più seria, più autorevole, più antica della nobiltà senatoria, capeggiata da un nipote di Pompeo, Gneo Cornelio Cinna, gli impose di richiamare Tiberio, minacciando, pare, di ricorrere a qualche espediente violento, su cui noi non abbiamo sicure notizie. Certo è che si fece paura al vecchio Augusto, vincendo così con una paura maggiore la paura [72] di cui gli era cagione la impopolarità di Tiberio; e il 26 giugno dell’anno 4 dell’êra volgare Augusto adottava Tiberio come figlio, gli faceva dare la potestà tribunizia per dieci anni, prendendolo a collega. Tiberio, a sua volta, per volontà di Augusto, adottava come figlio Germanico, il figlio maggiore di Druso e di Antonia, la sua fedele amica: un giovane intelligente, attivo, e da cui tutti speravano molto.
Ritornato al potere Tiberio provvide, di accordo con Augusto, a riordinare l’esercito e lo Stato; e a placare, con atti di clemenza e nuovi matrimoni, le furiose discordie che negli ultimi anni avevano diviso o turbato la famiglia dei Giuli e dei Claudi. L’esilio di Giulia fu addolcito; Germanico sposò Agrippina, un’altra figlia di Giulia e di Agrippa, una sorella di Giulia minore, vedova di Caio Cesare; Livilla, sorella di Germanico e figlia di Antonia, fu data al figlio di Tiberio, a Druso, un giovane coetaneo di Germanico e che non ostante certi difetti, l’irascibilità e l’inclinazione ai piaceri, mostrava alcune qualità di uomo di Stato: fermezza, mente solida, attività. Si voleva sempre con questi matrimoni far della famiglia di Augusto, del ramo giulio e del ramo claudio che la componevano intrecciati, un [73] corpo solo, formidabile, unito, così da poter essere il fondamento su cui poserebbe la repubblica, ossia il governo di tutto l’impero. Ma se il proposito era savio, i fermenti di discordia e la infelicità dei tempi potevano più che i buoni propositi. Troppo si era aspettato a richiamar Tiberio al potere; il disordine, dopo dieci anni di governo senile, era troppo grande; i provvedimenti imaginati da Tiberio per riassettare le finanze dell’impero, irritarono le classi ricche dell’Italia; nel 6 dopo C. scoppiò la grande rivolta della Pannonia. Che spavento fu quello! Parve di tornare ai tempi dei Cimbri e dei Teutoni. In un istante di follia collettiva si temè perfino che la penisola potesse essere invasa e Roma assediata dai barbari! Tiberio accorse rapido, e domò l’insurrezione, non affrontandola in campo aperto, ma stancandola: metodo sicuro e savio, con le milizie di cui disponeva! Ma a Roma, passato lo spavento, il protrarsi della guerra irritò, e divenne per molti un pretesto per sfogar l’odio antico contro Tiberio, il quale fu accusato di aver paura, di non sapere il suo mestiere, di tirare in lungo la guerra per ambizione! Il partito avverso a Tiberio risollevò la testa, tentando perfino di aizzargli contro Germanico, che giovane, ambizioso, [74] temerario, avrebbe preferito una guerra rapida; e certo si sarebbe creato già sin da allora un partito di Germanico ed uno di Tiberio, se Augusto, questa volta, non avesse da Roma sostenuto Tiberio. Ma le difficoltà e le incertezze erano grandi; e rinascevano di continuo.
In mezzo a queste lotte e a queste paure un nuovo scandalo scoppiò nella famiglia di Augusto: Giulia minore, come la madre, si lasciò cogliere in fallo dalla lex Iulia de adulteriis e dovè prendere anch’essa la via dell’esilio! Come e per opera di chi lo scandalo scoppiasse, noi non sappiamo: sappiamo invece che Augusto amava molto la nipote; onde è da credere che in quell’agitato e torbido momento, mentre tanti odi si appuntavano contro la sua famiglia e la sua casa, tanti sforzi si facevano per rovesciare di nuovo Tiberio, che pure aveva salvato l’impero, Augusto dovè una seconda volta subire la sua legge; e non osò contendere al partito puritano, alla minoranza arcaizzante dei senatori, agli amici di Tiberio, questa seconda vittima della sua famiglia. Certo è che si fece quanto si potè per limitare lo scandalo; e che dell’esilio della seconda Giulia appena qualche sommaria notizia sarebbe giunta sino a noi, se tra i complici [75] che furono esiliati con lei non ci fosse stato anche Ovidio, che doveva empire venti secoli dei suoi lamenti e farli giungere sino alle orecchie dei più tardi nipoti.
L’esilio di Ovidio è uno dei misteri che più tormentarono la curiosità dei secoli, come la maschera di ferro. Ovidio stesso l’ha acuita con la prudenza, non parlando mai chiaramente delle accuse a cui soggiacque, facendo ad esse soltanto delle vaghe allusioni, che si riassumono in due parole: carmen et error. Onde i posteri si domandano da venti secoli quale fu questo error che mandò l’elegante poeta a morire tra i barbari Geti, sulle sponde del Danubio; e naturalmente senza venirne a capo. Se però non è possibile precisare quale fu l’error che costò così caro ad Ovidio, è possibile invece rendersi ragione di quel che fu questo singolare e famoso episodio della storia di Roma, a cui Ovidio deve in parte la sua immortalità. Ovidio non fu vittima, come troppo si è ripetuto, di un capriccio del dispotismo; e quindi non può essere paragonato ad uno dei tanti scrittori russi, che l’amministrazione deportava in Siberia per odio e per paura, senza una ragione precisa, sotto gli czar. Il suo caso, in una certa misura, potrebbe piuttosto paragonarsi al processo di Oscar Wilde, [76] sebbene l’accusa a cui i due poeti soggiacquero fosse diversa. L’error di Ovidio fu certamente di aver violata qualche disposizione della Lex Iulia de adulteriis, che, noi lo sappiamo, era molto minuta e specificava come casi di complicità molti atti e fatti, che anche agli occhi dei più rigoristi moderni, sembrerebbero biasimevoli, sì, ma non degni di così terribili pene. È verosimile che Ovidio incappasse in una di queste disposizioni; ma il suo error, grave o leggera che fosse, più che la ragione vera della condanna, fu il pretesto: il pretesto per sfogare su di lui un vecchio rancore, che aveva ragioni più profonde. Il tradizionale puritanismo romano volle mandare in esilio il poeta delle signore frivole, eleganti, leggere; l’autore dei poemi erotici, che con la penna ed i versi aveva aiutato i tempi a mutare l’antica austera materfamilias in una dispendiosa amica degli uomini e dei sollazzi; il poeta, che si era fatto ammirare, sopratutto dalle donne, lusingandone le inclinazioni più pericolose. Il puritanismo odiava i nuovi indirizzi della vita sociale, e quindi anche la poesia di Ovidio, precipuamente per i loro funesti effetti sulle donne, le quali, come vedemmo, nelle famiglie aristocratiche, non erano punto mantenute nell’ignoranza, [77] e quindi leggevano poeti e filosofi. Ma perciò appunto ci fu sempre a Roma una viva avversione contro la letteratura leggera e immorale. Se i libri fossero andati solo per le mani degli uomini, la poesia di Ovidio non avrebbe forse avuto la fortuna di una persecuzione, che doveva attirare su di essa l’attenzione della posterità. La libertà della donna pareva, insomma, a questa società, dovere imporre una maggior riserva anche nella letteratura; e Ovidio, che se ne era scordato, se ne ricordò a proprie spese, quando dovè ridursi in esilio tra i Geti, sulle rive del Danubio gelato, perchè troppe donne leggevano troppo volontieri, a Roma, i suoi libri. I quali furono, per ordine di Augusto, tolti dalle biblioteche: il che non impedì tuttavia che giungessero sino a noi, quando tante opere più serie — la storia di Tito Livio per esempio — si sono o interamente o in troppa parte perdute!
[78]
Dopo la rovina della seconda Giulia, Augusto non ebbe più, sino alla morte, che avvenne il 23 agosto del 14 dopo C., gravi dispiaceri dalle donne della sua casa. La grande sciagura degli ultimi anni del suo governo è una sciagura pubblica: la disfatta di Varo e la perdita della Germania. Ma con quanta tristezza doveva Augusto guardare indietro, nelle ultime settimane della sua lunga vita, la storia della sua famiglia! Tutti quelli che egli aveva amati erano stati strappati a lui innanzi tempo da un destino crudele: dalla morte, Druso, Caio e Lucio Cesare; dall’Infamia e dalla Crudeltà della legge, peggiore che la morte, le due Giulie! La grandezza senza esempio a cui si era levata, non aveva portato fortuna alla sua famiglia. Egli restava vecchio, quasi solo, superstite stanco tra le tombe dei suoi cari spenti innanzi tempo dal Fato, tra le memorie ancora più dolorose di quelle che [79] erano state sepolte vive in selvaggie isolette e nella tomba dell’Infamia; non avendo più altra compagnia che quella di Tiberio con cui si era riconciliato davvero, di Antonia, la dolce nuora da tutti rispettata, e di Livia, la donna che il destino aveva messo ai fianchi negli anni orrendi del sangue e del ferro; la compagna fedele, per cinquantadue anni, della sua varia, meravigliosa e tragica fortuna. Si capisce quindi che, come gli storici narrano, le ultime parole del vecchio imperatore siano state un tenero ringraziamento alla moglie fedele: «Addio, Addio, Livia; ricordati della nostra lunga unione!». Con queste parole egli terminava la sua vita da vero romano: rendendo omaggio alla sposa, che il costume e la legge volevano compagna fedele e amorosa, non docile schiava dell’uomo.
Ma se la famiglia di Augusto aveva tribolato e sanguinato già durante la sua vita, più sofferse e pericolò dopo la morte di lui. Non si renderà mai conto della storia del primo impero chi, partendo dal preconcetto che Augusto fondò una monarchia, si imagina che la sua famiglia dovè godere, nella società romana, dei privilegi che sono riconosciuti, in tutte le monarchie, alla famiglia del sovrano. Certo di una condizione privilegiata [80] questa famiglia godè sempre se non per legge, di fatto, e per la forza stessa delle cose: ma non per nulla Roma era stata per tanti secoli una repubblica aristocratica, in cui tutte le famiglie della nobiltà si erano considerate eguali e sottoposte alle medesime leggi. Del privilegio che alla famiglia dei Giulio-Claudi assicurava la suprema dignità del suo capo, l’aristocrazia si vendicò prendendola in odio, sospettandone e calunniandone tutti i membri, sottoponendola con crudele voluttà, quando poteva, alle leggi comuni, anzi maltrattando con più feroce accanimento quelli che per caso cadessero sotto le sanzioni di una legge. Ai privilegi di cui godevano i membri della famiglia imperiale, faceva equilibrio il pericolo di dover ricevere più forte i colpi delle leggi, se qualcuno ci cascasse sotto, per dare all’aristocrazia senatoria la atroce soddisfazione di vedere uno di questi felici martoriato come e più degli altri. Non è dubbio, ad esempio, che le due Giulie furono più severamente punite e infamate che le altre signore dell’aristocrazia ree dello stesso delitto; e che Augusto aveva dovuto essere con loro spietato, perchè non si dicesse in Senato, che faceva leggi non per i suoi, ma per gli altri.
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Tuttavia sinchè Augusto visse, egli fu per i suoi parenti uno schermo sufficiente. Sopratutto nell’ultimo ventennio Augusto fu l’oggetto di un rispetto quasi religioso. L’epoca tempestosamente grande da cui proveniva, straordinaria fortuna, il lungo governo, i servigi che aveva resi davvero e quelli che era parso rendere, gli avevano conferito tanta autorità, che l’invidia riponeva innanzi a lui le sue freccie più avvelenate. Per rispetto a lui, anche la sua famiglia non fu, tranne in qualche passeggero furore dell’opinione pubblica, come quelli in cui le due Giulie furono condannate, troppo calunniata e maltrattata. Ma, lui morto, le cose mutarono, perchè Tiberio, sebbene fosse un sagace amministratore, un valentissimo generale e un uomo capace, non godeva le simpatie e il rispetto di Augusto: anzi era odiato da una parte considerevole del Senato e della aristocrazia, quella che aveva a lungo parteggiato per Caio e Lucio Cesare. Non l’ammirazione del Senato e del popolo, ma la necessità l’aveva imposto come capo della repubblica, perchè, quando Augusto morì, l’impero essendo in guerra con i Germani e le provincie pannonico-illiriche in rivolta, era forza affidare l’esercito ad un uomo che incutesse terrore ai barbari e che al [82] caso sapesse combatterli. Tiberio stesso era così convinto che la maggioranza del Senato e il popolo di Roma subirebbero il suo governo per forza, che era stato a lungo in forse: se accettare o no. Nessuno si illudeva meno di lui che sarebbe facile governare con gli animi così avversi.
Sotto il governo di Tiberio la famiglia imperiale fu circondata da un odio molto più intenso e palese, che non sotto Augusto. Una coppia faceva eccezione: Germanico ed Agrippina, i quali erano molto amati. Ma qui appunto incominciarono le prime gravi difficoltà per Tiberio. Intorno a Germanico, che aveva 29 anni quando Tiberio fu assunto alla presidenza della repubblica, incominciò a raccogliersi un partito che, corteggiandolo e adulandolo, lo oppose a Tiberio; inconsapevolmente aiutato sopratutto dalla moglie di Germanico: Agrippina. Era costei, diversamente da sua sorella Giulia, una donna di costumi intemerati, innamorata e fedele al marito, una vera matrona romana come la tradizione l’aveva vagheggiata, casta e feconda, che a 26 anni aveva già dati nove figli al marito, di cui però sei erano morti. Ma quasicchè Agrippina fosse destinata a mostrare che nella casa di Augusto ed in quei tempi torbidi e [83] strani, la virtù non era meno pericolosa del vizio, sia pure per un altro verso, e per differenti ragioni, della sua fedeltà al marito, dell’ammirazione che godeva in Roma, Agrippina era così fiera, che tutti gli altri difetti del suo carattere erano come inturgiditi dallo smodato orgoglio di questa sua virtù. E tra questi suoi difetti occorre enumerare una grande ambizione, una specie di attività faragginosa e tumultuaria, una irriflessiva impetuosità di passioni, una pericolosa mancanza di ponderazione e di criterio. Agrippina non era malvagia; ma era ambiziosa, violenta, intrigante, imprudente, poco riflessiva, quindi facile a scambiare i suoi sentimenti ed interessi per la ragione universale del giusto; amava molto il marito, da cui non si staccava mai, che accompagnava in tutti i viaggi; ma appunto perchè lo amava lo spingeva a secondare quella sorda opposizione a Tiberio, che voleva farne il suo campione e il suo favorito.
Se di nuovo il Senato e la famiglia imperiale non si scisse in due fazioni, fu perchè Germanico resistè saviamente ai suoi troppo zelanti ammiratori; e forse anche perchè la madre, Antonia, non smise mai di essere, quanto il governo di Tiberio durò, la più fida ed affezionata amica dell’imperatore. [84] Dopo il divorzio di Giulia, Tiberio non si era riammogliato; e gli affettuosi uffici che avrebbe dovuto compiere presso di lui la moglie, furono compiuti in parte dalla madre, in parte dalla cognata. Nessuna persona era ascoltata dal chiuso e diffidente imperatore, quanto Antonia. Chi voleva impetrar da lui qualche favore, non poteva far meglio che affidar la causa ad Antonia. È verosimile quindi che Antonia bilanciasse presso il figlio la moglie. Ma se proprio non si giunse alla scissione, delle difficoltà nacquero presto. Non solo Agrippina e Livia vennero in discordia, ma — e fu cosa più grave — cedendo un po’ al suo temperamento, un po’ ai suggerimenti della moglie e degli adulatori, Germanico, che alla morte di Augusto era legato per la Gallia, iniziò di suo capo una politica germanica contraria alle istruzioni di Tiberio. Tiberio, che i Germani conosceva per lunga esperienza, non voleva più molestarli: la rivolta di Arminio dimostrava che, minacciati nella loro indipendenza, sapevano unirsi e diventavano pericolosi; lasciati in pace, si distruggevano in guerre continue. Occorreva quindi non assalirli o minacciarli, ma abilmente soffiar nel fuoco delle loro continue discordie e guerre, affinchè, interdistruggendosi, lasciassero tranquillo [85] l’impero. Ma questa saggia e prudente politica poteva piacere a un vecchio guerriero, come Tiberio, che già aveva raccolti tanti allori; non ad un giovane che ambiva di segnalarsi con grandi imprese; al cui fianco stava, stimolo continuo, una moglie ambiziosa e che era circondato da una corte di adulatori. Germanico, di sua iniziativa, passò il Reno e incominciò una vasta offensiva, attaccando una dopo l’altra, con rapide e fortunate spedizioni, le più potenti popolazioni germaniche. A Roma questa ardita mossa piacque, massime ai nemici di Tiberio che erano molti; sia perchè l’ardimento piace sempre più che la prudenza, a coloro che non rischiano nulla e giudicano di una guerra a centinaia di miglia dai campi di battaglia; sia perchè la gloria di Germanico poteva offuscare Tiberio. E Tiberio, non ostante disapprovasse, per un certo tempo lasciò fare il figlio adottivo per non contrariare l’opinione pubblica e per non parer di invidiare al giovane Germanico la gloria che si acquistava.
Tuttavia egli non voleva che Germanico si impegnasse troppo con le tribù germaniche; e quando gli parve che avesse abbastanza mostrato il valor suo e abbastanza [86] fatto sentire ai nemici la possanza di Roma, lo richiamò, mandando l’altro figlio suo, figlio non adottivo, ma vero, Druso. Ma questo richiamo non garbò punto al partito di Germanico, il quale recriminò amaramente sussurrando che Tiberio era geloso di Germanico, che lo aveva richiamato per impedirgli di acquistare gloria in una impresa immortale. Tiberio pensava così poco a impedire a Germanico di adoperare in servizio di Roma il suo ingegno, che subito dopo nell’anno 18 d. C. lo mandò in Oriente a rimettere l’ordine nell’Armenia agitata da interne discordie, dandogli quindi un comando non meno importante di quello che gli aveva tolto. Ma nel tempo stesso non volle affidar interamente ogni cosa al senno di Germanico, che era capace e valoroso, ma giovane, e sempre accompagnato da una moglie imprudente e da una corte di adulatori irresponsabili; e perciò gli mise a fianco un uomo più anziano, maturo e sperimentato: Gneo Pisone, un senatore, che apparteneva ad una delle più illustri famiglie di Roma.
Gneo Pisone doveva aiutare, consigliare, e se era necessario, frenare Germanico; e anche informare Tiberio di quanto il giovane faceva in Oriente. Di questo non si può [87] dubitare: ma chi vorrà contestare a Tiberio, che aveva la responsabilità dell’impero, il diritto di far sorvegliare un giovane di trentatrè anni, cui tanti e così gravi interessi erano commessi? Senonchè questa ragionevole e misurata cautela fu cagione di infiniti guai. Germanico si offese, e istigato dagli amici, venne in guerra con Pisone; Pisone avendo condotto sua moglie Plancina, che era una grande amica di Livia, come Germanico aveva condotto Agrippina, Agrippina e Plancina litigarono, da mogli fedeli, non meno dei loro mariti; l’autorità romana in Oriente si divise in due cabale, quella di Pisone e quella di Germanico, che si accusarono di illegalità, di concussione, di prepotenza, e di cui ciascuna non pensò che a disfare quello che l’altro aveva fatto. Quale delle due cabale avesse ragione o in che misura ciascuna avesse torto o ragione, è difficile dire, perchè il racconto di Tacito, annebbiato da un’ostilità preconcetta, non ci illumina affatto. Ma è certo che Germanico non rispettò sempre le leggi e qualche volta agì con soverchia leggerezza, obbligando Tiberio ad intervenire personalmente: come allorchè andò con Agrippina a fare un viaggio [88] in Egitto, che anche allora era una meta favorita dei viaggiatori curiosi e istruiti. Ma allora vigeva anche un’ordinanza di Augusto che vietava ai senatori romani di metter piede in Egitto, senza uno speciale permesso. Come aveva scavalcato questo divieto, non sarebbe meraviglia se Germanico in altre occasioni non avesse rispettato troppo alla lettera le leggi, che definivano i suoi poteri.
Purtroppo la discordia tra Germanico e Pisone empì di confusione e di discordia tutto l’Oriente; e inquietò di riflesso Roma, dove il partito avverso a Tiberio l’accusò di perseguitare il figlio adottivo per gelosia; dove anche Livia, non più protetta da Augusto, incominciò ad essere sospettata di intrigare contro Germanico per odio di Agrippina. E Tiberio non sapeva che fare, impacciato dalla opinione pubblica favorevole a Germanico, e desideroso nel tempo stesso che i suoi figli dessero l’esempio di obbedire alle leggi. Quando, nel 19 d. C. Germanico ammalò ad Antiochia; e dopo una malattia lunga, alternata di molti miglioramenti e peggioramenti, alla fine, come suo padre, come i suoi cognati, soccombette [89] al destino, in piena giovinezza, a 34 anni! È da stupirsi se l’immaginazione popolare, sgomenta da questa nuova morte immatura, che troncava una pericolosissima discordia politica, incominciasse subito a sussurrar di veleno? Il partito di Germanico, esasperato da questa sciagura che lo annientava, insieme con le speranze di quanti si erano legati a Germanico per le loro fortune future, raccolse, colorì, propagò per ogni dove la voce: e chi a questa voce credette con maggior fede fu Agrippina, che il natural dolore della morte faceva anche più impetuosa, scriteriata e violenta. Agrippina che, se fosse stata una donna ponderata e di senno, meglio di ogni altro avrebbe potuto sapere quanto quella diceria era assurda.
In breve fu diceria universale a Roma che Germanico era stato avvelenato da Pisone; e per ordine di Tiberio e di Livia, si sussurrò a voce più bassa. Pisone era stato lo strumento di Tiberio, Plancina quello di Livia. L’accusa è assurda: lo riconosce anche Tacito, il quale ci racconta in che modo gli accusatori di Pisone pretendevano che il veleno fosse stato propinato: in un banchetto, a cui Pisone, invitato da Germanico, sedeva parecchi posti distante da lui, e [90] avrebbe versato il veleno nelle sue vivande, in presenza di tutti i convitati, senza che nessuno se ne accorgesse. Tacito stesso, che pure odia a morte Tiberio, dice che tutti giudicavano questa una favola assurda: e tale la giudicherà ogni uomo di buon senso. Ma l’odio fa credere anche a persone intelligenti le favole più inverosimili; il popolo, favorevole a Germanico, era invelenito contro Pisone e non ascoltava ragione; tutti i nemici di Tiberio si persuasero facilmente che qualche truce mistero si nascondeva sotto questa morte e che da un processo contro Pisone potrebbe nascere uno scandalo, il quale riverbererebbe sullo stesso Tiberio; si incominciò a dire che Pisone possedeva delle lettere di Tiberio, in cui era contenuto l’ordine di avvelenare Germanico! Alla fine anche Agrippina giunse a Roma con le ceneri del marito e con l’usata veemenza incominciò a empire di proteste, di imprecazioni e di accuse contro Pisone la casa imperiale, il Senato, Roma tutta. Il popolo, che l’ammirava per la sua fedeltà e il suo amore, si commosse anche di più e da ogni parte si gridò che un così esecrando delitto meritava una punizione esemplare.
Difatti se da prima Pisone aveva trattato come meritavano, con altero disprezzo, queste accuse, presto si accorse che gli era necessario [91] ritornare a Roma a difendersi. Un amico di Germanico l’aveva accusato; Agrippina, strumento inconsapevole dei nemici di Tiberio, riscaldava ogni dì più la opinione pubblica con il suo lutto querulo ed ostentato; il partito di Germanico agitava il Senato e il popolo. Ma quando Pisone giunse a Roma, si vide abbandonato quasi da tutti. Egli sperava in Tiberio, che conosceva la verità e che desiderava che questa follia dileguasse dagli spiriti. Ma Tiberio era sorvegliato da una malevolenza spietata; qualunque cosa avesse fatto a prò di Pisone, sarebbe stata interpretata come la prova che egli era il complice di lui e che perciò lo voleva salvo. Tutta Roma, diceva, ripeteva, era sicura che Pisone mostrerebbe al processo le lettere di Tiberio. Livia si industriò nell’ombra per salvare Plancina, ma per Pisone Tiberio non potè far altro, che raccomandare al Senato, quando il processo incominciò, e con un nobilissimo discorso che Tacito ci ha conservato, la più rigorosa imparzialità. Giudicassero senza riguardi nè alla famiglia imperiale nè alla famiglia di Pisone. Inutile ammonimento: chè la condanna era sicura, non ostante l’assurdità [92] della accusa. I nemici di Tiberio erano così inviperiti e così risoluti a spingere le cose all’estremo, sperando che saltassero fuori le famose lettere; l’opinione pubblica era così esaltata, che Pisone si uccise prima della fine del processo.
Agrippina aveva sacrificato ai Mani del marito, morto prematuramente, un innocente. Tiberio potè solo salvare la moglie, il figlio e la fortuna di Pisone, che i nemici volevano distruggere con un solo colpo.
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Con la morte di Germanico e il processo contro Pisone, incomincia quel tetro periodo, che doveva passar nella storia con il nome di «tirannide tiberiana». In questo la famosa legge de majestate, non applicata sotto Augusto, prende forza e flagella Roma a sangue con gli scandalosi processi, le atroci denuncie, le condanne crudeli, i suicidi disperati, la rovina e l’infamia di tanti illustri personaggi.
Di questi processi, delle denuncie che li promossero, delle crudeli condanne in cui terminarono, la storia chiama da venti secoli responsabile una crudele e sospettosa tirannide del figlio di Livia, che avrebbe tollerato intorno a sè soltanto servi e sicari, [96] cui ogni memoria della antica libertà romana avrebbe dato ombra e noia. Ma quanto è lontano dal vero questo giudizio! Quanto male ha inteso la posterità superficiale e leggera la terribile tragedia del governo di Tiberio! Si dimentica sempre che Tiberio fu il secondo princeps o presidente dopo Augusto; ossia il primo che dopo il fondatore ebbe a reggere la nuova e un po’ strana carica suprema della repubblica, senza il prestigio e il rispetto che assicuravano ad Augusto la straordinaria fortuna della sua vita, l’universale opinione che egli aveva terminate le guerre civili, ridato pace al travagliato impero, salvato Roma dalla rovina suprema, di cui l’Egitto, Cleopatra e la follìa di Marco Antonio, l’avevano minacciata. Questo prestigio e questo rispetto avevano, sinchè Augusto visse, tenuto in soggezione le invidie, le gelosie e gli odî contro la nuova autorità della aristocrazia romana, che da quell’autorità si considerò sempre, e quanto più dovette subirla per necessità di Stato, come umiliata e spogliata di una parte dei suoi privilegi. Ma queste invidie, queste gelosie, questi odî — già l’ho detto, ma giova ripeterlo, perchè il punto è capitale, per comprendere la storia del primo impero — si scatenarono ferocissimi, quando Tiberio fu assunto all’impero.
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In quale situazione si trovava Tiberio, dopo la morte di Germanico? Bisogna intender bene questo punto se si vuol capire l’infierire delle accuse di maestà e il modo con cui il secondo imperatore trattò e governò la famiglia. Il Princeps era ormai la volontà motrice e il genio regolatore di tutto lo Stato; delle finanze, della annona, dell’esercito, della guerra e della pace. In ogni difficoltà o pericolo, per qualunque torto o disgrazia, da ogni parte dell’impero, da ogni classe sociale si ricorreva a lui. Da lui le legioni aspettavano la regolarità del soldo, la plebe di Roma il grano abbondante, il Senato la sicurezza dei confini e la pace civile, le provincie la giustizia, i sovrani alleati o vassalli quell’aiuto, senza cui non potevano più governare. Queste responsabilità erano tante e così gravi, che Tiberio, come Augusto, si sforzava di indurre il Senato ad aiutarlo, ad assumersene la parte sua, secondo l’antica costituzione: ma inutilmente; chè il Senato si schermiva e ne lasciava a lui la parte più gravosa. È concepibile che un uomo potesse bastare a tante responsabilità, in tempi in cui le tradizioni del nuovo governo accennavano appena a delinearsi, se non fosse stato sostenuto da [98] una grande autorità personale, l’oggetto di un profondo e universale rispetto? Augusto aveva potuto per più di quaranta anni governare con così piccoli mezzi un così grande impero, perchè, per fortuna sua e dell’impero, aveva goduto di questo profondo, sincero, universale rispetto. Tiberio, assunto già molto impopolare al potere, s’era ancora più alienato nei primi sei anni del suo governo il favore pubblico, non ostante si fosse studiato con zelo infaticabile di ben governare. Superbia e durezza era definita la sua sollecitudine di mantenere un certo ordine nello stato; avarizia il suo scrupolo di non dilapidare in spese inutili le scarse entrate dell’erario; invidia e torva malignità, la prudenza che aveva frenato le temerarie espansioni e aggressioni di Germanico oltre Reno. Ed ora, perchè il destino aveva colpito Germanico, egli era accusato sotto voce, in molte grandi famiglie di Roma, nei circoli senatorî, di aver avvelenato, per gelosia, il suo nipote, il suo figlio adottivo, il popolarissimo rampollo di Druso, il figlio di Antonia, che era la sua più fedele amica! Ma se, accreditata e messa in giro dalle grandi famiglie di Roma, quella diceria si propagasse nell’impero, con quale autorità un imperatore, sospettato di un così orribile [99] delitto, avrebbe potuto ancora mantenere la disciplina nell’esercito, di cui era capo, e l’ordine nella plebe di Roma, di cui come tribuno era il grande protettore; dirigere, stimolare, frenare il Senato, di cui era, diremmo oggi, il presidente? Le popolazioni italiche da cui escivano l’esercito e le magistrature dell’impero, non consideravano ancora il capo dello stato come superiore alle leggi, che gli fosse lecito commettere delitti.
Nessuno storico, che conosca le cose del mondo in genere e il primo secolo dell’impero in particolare, attribuirà alla supposta tirannica crudeltà di Tiberio i rigori della lex de majestate che seguirono la morte di Germanico e il processo di Pisone. Questi rigori furono la risposta al delirio di calunnie che infuriò nell’aristocrazia e specialmente nella casa di Agrippina. Troppo creduli a Tacito, molti scrittori hanno bollato d’infamia, come un segno di servilismo, la facilità e la severità con cui il senato condannava gli accusati per la lex de majestate: ma noi sappiamo che il senato di Roma non si componeva neppure in quei tempi solamente di adulatori e di servi; che gli uomini di senno e di carattere erano ancora numerosi. Questa severità si spiega molto meno [100] romanticamente ammettendo che molti senatori giudicavano non potersi abbandonare l’imperatore indifeso alla frenetica maldicenza delle grandi famiglie; che queste calunnie insidiose minacciavano, con il prestigio e la fama del capo, la tranquillità e la potenza dell’impero. Ma la lex de majestate — si dice — fatta per difendere il prestigio dello Stato nei magistrati che lo rappresentavano, diventò a sua volta organo di false accuse, di vendette private, di orrende ingiustizie. È vero: occorre però andar cauti nell’accusare Tiberio. Tacito stesso più di una volta ci descrive l’imperatore che interviene in processi di majestas, a pro’ dell’accusato, per impedire appunto vendette e ingiustizie: di molti altri processi abbiamo resoconti troppo sommari e troppo parziali, da avventare giudizi.
È certo invece che, dopo la morte di Germanico, gli amici del morto e di Agrippina incominciarono una guerra implacabile contro Tiberio; e che il così detto tiranno fu da principio molto debole, incerto, oscillante nel combattere la nuova opposizione. Questa non risparmiava la sua persona; lo perseguitava accanita con la calunnia del veneficio; si sforzava di diffonderla e accreditarla, e già metteva innanzi, per [101] opporglielo un giorno, il primogenito di Germanico, Nerone, il quale nel 21 d. C. aveva 14 anni. Eppure Tiberio cerca da prima di moderare le accuse di maestà, sua suprema difesa; finge di non sapere e di non sentire; incomincia a soggiornare lungamente fuori di Roma, quasi abbandonando ai suoi nemici e alle loro calunnie la capitale, dove risiedeva la guardia pretoriana. Di tutti i suoi nemici, il più implacabile era Agrippina, la appassionata, la veemente, la scriteriata, che, abusando della parentela, della sventura, non lasciava sfuggire occasione alcuna per rinfacciare a Tiberio il suo preteso delitto: non a parole, ma con scene ed atti che commuovevano il pubblico ancora più che le aperte accuse. Restò famosa a Roma una cena a cui Tiberio l’aveva invitata; e nella quale essa ostentatamente e ostinatamente rifiutò di toccar qualsiasi cibo o vivanda, sotto gli occhi dei convitati sbalorditi, i quali capivano benissimo quel che significava quel gesto! E pure a queste calunnie e a questi affronti, Tiberio non oppone che un silenzio disgustato e rassegnato; o, quando proprio non ne può più, qualche amaro e conciso rimprovero.
[102]
Non par dubbio che Tiberio si proponesse, da principio, di rifuggire, quanto era possibile, dai mezzi troppo aspri, non osando infierire contro tanta parte dell’aristocrazia e contro la sua stessa famiglia, egli così impopolare e mal compreso. Inoltre Agrippina era tra le donne della famiglia la meno intelligente: egli poteva tollerare con pazienza la sua pazza avversione, quando Livia ed Antonia, le due donne serie della famiglia, erano con lui. Ma è facile comprendere che non poteva andare avanti a lungo così. Un potere, che non si difende, indebolisce: il partito di Agrippina avrebbe dunque guadagnato favore e potere, se a fianco del vacillante Tiberio, non fosse apparso, per sostenerlo, il comandante della guardia pretoriana, Seiano. Seiano non era neppur senatore; nato da una oscura famiglia di cavalieri, non era che il comandante della guardia; e in tempi ordinari sarebbe rimasto nell’ombra, confuso tra i personaggi secondari, [103] intento ai doveri della sua carica, che era militare soltanto. Il partito di Agrippina, i suoi intrighi, la debolezza e l’incertezza di Tiberio fecero di lui, per un certo tempo, una potenza. Non è difficile intendere quali fossero le prime origini di questa potenza. La fedeltà della guardia pretoriana, dalla quale dipendeva la sicurezza e la fermezza dell’autorità imperiale, era una delle cose che maggiormente dovevano stare a cuore a Tiberio, massime quanto più insidiosamente il partito di Agrippina lo accusava. La guardia vivendo in Roma, tutto ciò che si diceva nei circoli senatorî o nel palazzo dell’imperatore e dei suoi parenti si risapeva dalle coorti, tra le quali la memoria di Druso e di Germanico era veneratissima. Se la guardia si convinceva che l’imperatore era un avvelenatore, e che aveva fatto assassinare il figlio di Druso, la sua fedeltà poteva vacillare. Perciò un comandante di fiducia era un uomo che doveva essere molto ascoltato da Tiberio. Seiano seppe ispirare questa fiducia: parte, forse, per la sua origine, perchè l’ordine equestre per l’antica rivalità con la nobiltà senatoria, era più favorevole all’autorità imperiale; [104] parte con certe riforme che egli seppe introdurre nella guardia pretoriana.
Acquistata la fiducia dell’imperatore, lo ambizioso e intelligente prefetto del pretorio, non tardò a rendersi necessario in ogni cosa, approfittando del momento. Crescevano in Tiberio, la stanchezza, la sfiducia, il disgusto di Roma, della nobiltà, degli uomini, che doveva governare: primi accessi di quella cupa melanconia, che andò via via aggravandosi, per effetto dei lunghi contrasti, delle infinite amarezze, dei continui timori e sospetti e forse anche un po’ per l’abuso del vino, se è vero che Tiberio, come ci racconta Svetonio, aveva il vizio di bere troppo. L’uomo che per tanti anni aveva fatto tutto da sè, che non aveva mai voluto nè consiglieri nè confidenti, aveva ora bisogno, invecchiando, di appoggiarsi a una volontà più ferma. Ma nella sua famiglia non poteva far assegnamento che sul suo figlio Druso, che era ormai diventato un uomo serio e degno di fiducia, e per il quale infatti, nel 22, egli domandò al Senato la potestà tribunizia, facendolo suo collega. Ma poichè Druso non bastava, Seiano potè divenire, di fatto se non ufficialmente, il primo e più attivo e più ascoltato consigliere di Tiberio, insieme con Druso. Anzi più attivo [105] e più ascoltato, poichè Druso era spesso in missione ai confini dell’impero, mentre Seiano era quasi di continuo a Roma, dove, invece, l’imperatore appariva sempre più raramente.
Così era nata l’anomala potenza in Roma di questo Cavaliere che non aveva esercitato nessuna magistratura: potenza, che era figlia della debolezza di Tiberio e delle discordie dell’aristocrazia; potenza che sarebbe funesta sopratutto al partito di Agrippina e di Germanico. Sebbene non manchino notizie che Seiano e Druso non si vedevano di buon occhio, è manifesto che Seiano, come uomo di fiducia di Tiberio, doveva volgersi contro gli amici di Agrippina, da cui moveva la più fiera opposizione. Ma nel 23 anche Druso moriva, come tanti altri di sua famiglia, immaturamente a 38 anni, senza che alcuno, lì per lì almeno, parlasse di veleno; e questa inopinata sventura, che colpiva Tiberio di un vivissimo dolore, parve lì per lì riconciliare Tiberio e il partito di Agrippina, a danno di Seiano. Sparito il figlio suo, tra chi, se non tra i figli di Germanico e di Agrippina, potrebbe Tiberio, se non volesse uscire dalla famiglia, cercare il successore? E Tiberio infatti — altra prova che egli desiderava evitare quanto [106] più potesse i conflitti nel seno della famiglia — non esitò un momento, non ostante le noie e le difficoltà che gli erano venute da Agrippina e dai suoi, a riconoscere che nei figli di Germanico erano ormai poste le speranze della famiglia e della repubblica: fece comparire innanzi al senato i due maggiori, Nerone che aveva 16 anni e Druso che era più giovane, ma di cui si ignora l’anno della nascita; li presentò all’assemblea con un nobile discorso, di cui Tacito ci ha trasmesso il sunto, esortando i due giovanetti e il Senato a compiere il proprio dovere per la repubblica.
Dopo la morte di Druso la famiglia dei Cesari poteva riconciliarsi con se medesima, perchè la rivalità tra la stirpe di Tiberio e quella di Germanico era tolta. E un raggio di concordia sembra davvero aver brillato, pur in mezzo alle lagrime per la morte di Druso, sulla casa desolata da tante tragedie; mentre Seiano, la cui potenza era figlia delle altrui discordie, è per un momento messo in disparte. Ma per poco; chè presto la discordia ridivampò. Di chi fu la colpa? Di Seiano o di Agrippina? Tacito incolpa Seiano, che accusa di aver voluto distruggere la discendenza di Germanico per usurpare il posto: ma egli stesso deve poi [107] altrove ammettere (ann. 4, 9) che tutta una piccola corte di liberti e di clienti stava attorno a Nerone, il maggiore dei figli di Germanico, aizzandolo contro Tiberio e contro Seiano, e sollecitandolo a far presto: esser questo — gli dicevano — il volere del popolo, il desiderio degli eserciti, nè Seiano, che ora si burlava della pazienza del vecchio e della lentezza del giovane, avrebbe osato resistergli. Da simili discorsi a propositi di ribellione e di congiura il passo era breve.
È verisimile dunque che la colpa della nuova e più acerba discordia debba attribuirsi, come del resto succede quasi sempre, alle due parti. Il partito di Agrippina, imbaldanzito dalla fortuna toccatagli e dalla debolezza di Tiberio, sentendosi, dopo la morte di Druso, più forte, non ebbe ormai più che un desiderio: collocare più presto che fosse possibile Nerone, il primogenito di Germanico, al posto di Tiberio. Riprese quindi i suoi intrighi contro Tiberio, seminando discordia tra lui e Nerone. Ma questa volta cozzò con Seiano, il quale difese Tiberio con un vigore, di cui Tiberio non era mai stato capace; e tra Seiano e il partito di Agrippina incominciò una guerra accanita e feroce di intrighi, di calunnie, di accuse, di [108] processi di cui Tacito ha saputo dipingere con colori indelebili tutto l’orrore. Tra gli intrighi non potevano mancare i matrimoni. Nel 25 Seiano ripudiò la sua moglie, Apicata, e domandò a Tiberio la mano di Livia, la vedova di Druso. La mossa era arditissima, perchè riuscendo avrebbe introdotto Seiano nella casa imperiale; ma era troppo ardita e fallì, — ci dice Tacito — sopratutto perchè Tiberio ebbe paura che questo matrimonio irritasse ancor più Agrippina. L’imperatore avrebbe detto a Seiano che già troppe discordie di donne agitavano e turbavano la casa dei Cesari, con grave danno dei suoi nipoti: che avverrebbe se questo matrimonio fomentasse ancor più gli odî? Quid si intendatur certamen tali coniugio? Risposta notevole, perchè ci prova che Tiberio, accusato di odiare Agrippina e i suoi figli, ancora due anni dopo la morte di Druso, cercava di accontentare un po’ gli uni e un po’ gli altri, di non irritar troppo gli avversari, di conservare tra tanti pazzi una ragionevole equanimità.
Seiano ebbe dunque un rifiuto, del quale il partito di Agrippina esultò come di una sua vittoria, ma per incorrere l’anno dopo, il 26, in uno smacco della stessa natura. In quest’anno Agrippina chiese a Tiberio il [109] permesso di rimaritarsi. A creder Tacito, Agrippina avrebbe fatta questa domanda di sua testa, spinta da uno dei tanti capricci che di continuo le frullavano per il capo: ma è da supporre che a un tratto, senza ragione, dopo così lunga vedovanza, Agrippina uscisse in un così singolar proposito; e che se questo non fosse stato che un capriccio di una donna bisbetica, se ne sarebbe tanto ragionato nella casa imperiale, e la figlia di Agrippina avrebbe raccontato l’episodio nelle sue memorie? Sembra più probabile che anche questo matrimonio avesse uno scopo politico: dando un marito a Agrippina, dare un capo al partito antitiberiano. I figli di Germanico erano troppo giovani e Agrippina troppo inabile, perchè insieme potessero tener testa a Seiano, appoggiato da Tiberio, da Livia, da Antonia. Si spiegherebbe allora perchè Tiberio si oppose: Agrippina era già una piaga, sola; non c’era bisogno di autorizzarla a prendersi, in veste di marito, un consigliere.
Questa volta trionfava Seiano. E la guerra proseguì a questo modo, con varie vicende. Ma a cominciare dall’anno 26 spesseggiano i segni che il partito di Agrippina e di Germanico soccombe, non resistendo ai colpi e agli intrighi di Seiano, che distacca [110] da lui, uno dopo l’altro, tutti gli uomini di qualche importanza, o guadagnandoli a sè con i favori e le promesse, o spaventandoli con le minaccie, o distruggendoli con i processi. Tiberio sta in mezzo a questa mischia; e, all’opposto della leggenda, si studia quanto può di impedire che dalle due parti si giunga alle estreme crudeltà. Ma che penosa e ripugnante fatica doveva essere per lui questa estrema difesa della ragione e della giustizia tra tante malvagie passioni, tra tanti odî, ambizioni, rivalità! Per lui che era cresciuto nel momento in cui più sfolgorante splendeva innanzi allo spirito delle alte classi di Roma la visione di una grande restaurazione aristocratica! Per lui che giovanetto aveva conosciuto e amato Virgilio, Orazio, Tito Livio, i poeti e lo storico di questa sublime visione; per lui che, come tutti gli spiriti eletti di quegli anni ormai lontani, aveva visto in fondo a questa visione un grande Senato, un esercito glorioso e terribile, una repubblica austera e veneranda come quella che Tito Livio aveva dipinta nelle sue pagine immortali con così potenti colori. Ed egli si trovava invece a capo di una cadente e miserabile aristocrazia, non d’altro avida che di lacerarsi con calunnie, accuse, processi e condanne infamanti; [111] che di quanto egli aveva fatto e faceva per la repubblica lo ricompensava deridendolo, motteggiandolo e accusandolo di assassinio. Aveva sognato i lauri delle vittorie sui nemici di Roma; e doveva rassegnarsi a guerreggiare giorno e notte contro le isteriche stravaganze di Agrippina; accontentarsi — senza essere nemmeno sicuro di riuscirvi — di non passare agli occhi dei più per un avvelenatore! La potenza sprovvista dei mezzi necessari, senza gloria e senza rispetto: questo era l’impero del successore di Augusto, dopo dodici anni di difficile governo! Non è da stupire se vecchio, stanco, disgustato, non sentendosi a Roma sicuro, tra il 26 e il 27 Tiberio si ritirasse a Capri, nascondendo la sua misantropia e la sua stanchezza nella meravigliosa isoletta, che un capriccio delizioso della natura ha deposta in mezzo al divino golfo di Napoli.
[112]
Ma in Capri invece della pace Tiberio trovò l’infamia. Da che foschi ricordi ravvolta, la vaga isoletta emerge colore di viola, dal mare azzurro, nei giorni di sole! Quel frammento di paradiso, caduto in riva ad uno dei più bei mari del mondo, sarebbe stato, per dieci anni, un inferno di truci crudeltà e di vizi abominevoli. Tiberio si è condannato nella opinione della posterità, chiudendosi in Capri. Dovremo noi trascrivere qui senz’altro questa condanna? O non dobbiamo invece domandarci come, da chi, da che fonti Svetonio e gli altri antichi hanno conosciuto tanti particolari? Certe cose non si sanno mai con precisione, appunto perchè devono essere per natura occulte. Convien tener conto poi che tutti i personaggi della storia di Roma che ebbero molti nemici, Silla, Cesare, Antonio e perfin Augusto, furono accusati di scandalosi costumi. Appunto perchè la tradizione puritana era forte in Roma, questa accusa nuoceva molto; e perciò i nemici la ripetevano volentieri, vera o falsa che fosse. Infine tutti gli scrittori antichi, anche i più ostili, dicono che sino alla età matura Tiberio fu esempio di austeri costumi: è verosimile che ad [113] un tratto, già vecchio, si sia bruttato di tutti i vizi? Se c’è del vero in quei rapporti, bisognerebbe conchiudere che, vecchio, Tiberio abbia soggiaciuto a una qualche infermità di mente; e che l’uomo che si rifugiò a Capri non era più sano di spirito.
È certo invece che, ritirandosi a Capri, Tiberio trascurò le faccende pubbliche; e che Seiano fu considerato a Roma come l’imperatore vero. Tutte le informazioni e le notizie che dall’impero e da Roma giungevano all’imperatore, come le risoluzioni che da Capri partivano per tutto l’impero, passavano ormai per le sue mani. A lui si rivolgevano, in Roma, per ogni faccenda, i senatori: intorno a lui, si accalcavano e facevano ressa gli adulatori; in sua presenza tacevano perfino, intimorite da tanta potenza e fortuna, tutte le invidie. Roma ormai tollerava, senza protestare, che un cavaliere, un uomo di oscuri antenati, dominasse l’impero invece del discendente dalla grande famiglia Claudia; e i senatori dei più illustri casati si acconciarono a fargli la corte. Peggio ancora lo aiutarono quasi tutti, o apertamente favorendolo o lasciandolo fare, a compiere la distruzione del partito e della discendenza di Germanico, di quel Germanico che tutti avevano amato, di cui [114] il popolo venerava ancora la memoria. Dopo il ritiro di Tiberio a Capri, tutti sentirono che Agrippina e i suoi figli erano destinati a soccombere presto o tardi; e allora non si conservarono fedeli ai vinti, prossimi ad essere distrutti, che pochi generosi, atti più ad addolcire il dolore della rovina, che ad allontanarla o a evitarla. Un certo Tizio Sabino era tra questi ultimi fedelissimi ed eroici amici; e l’implacabile Seiano lo distrusse con un processo, di cui Tacito ci ha riassunta la storia: orrenda storia di una delle più abominevoli macchinazioni giudiziarie, che la perfidia umana possa imaginare. Ad aggravare il pericolo sopraggiunse la discordia, nata tra il primogenito Nerone e il secondogenito Druso, proprio quando più necessaria era la concordia di tutti contro l’implacabile avversario, che tutti voleva sterminare. Un ultimo schermo restava ancora a proteggere la famiglia di Germanico: Livia, la veneranda vegliarda che aveva visto nascere e crescere la fortuna di Augusto e la nuova autorità imperiale, che aveva quasi tenuto in braccio, bambino, quel nuovo mondo nato in mezzo alle convulsioni delle guerre civili, e che allora già cresciuto incominciava a tentare i primi passi sulle vie della storia. Livia non amava molto [115] Agrippina, di cui aveva sempre biasimato l’odio e gli intrighi contro Tiberio: ma era troppo saggia e troppo sollecita del prestigio della famiglia da lasciare che Seiano distruggesse interamente la famiglia di Germanico. Sinchè ella visse Agrippina e Nerone poterono almeno vivere sicuri a Roma. Ma Livia era decrepita, e al principio del 29, vecchia di 86 anni, morì. La catastrofe, preparata da Seiano con tanta tenacia, si compì allora: pochi mesi dopo la morte di Livia, Agrippina e Nerone furono sottoposti a processo, e condannati dal Senato all’esilio, sotto l’accusa di aver cospirato contro Tiberio. Nerone, poco dopo la condanna, si uccise.
Il racconto che Tacito fa di questo processo è oscuro e monco, perchè la narrazione è troncata nel vivo da una sciagurata lacuna nel testo. Gli altri storici non aggiungono luce, con le loro frasi succinte e i loro accenni rapidi. Cosicchè non si capisce bene nè il tenore dell’accusa, nè le ragioni della condanna, nè la posizione degli accusati, nè il contegno di Tiberio. Par poco verisimile che Agrippina e Nerone fossero rei di una vera e propria cospirazione contro Tiberio, perchè isolati da Seiano dopo il ritiro di Tiberio a Capri, non avrebbero, anche volendo, [116] potuto ordire nessuna cospirazione. Ma essi pagarono il fio della lunga guerra di calunnie e di maldicenze mossa a Tiberio; di quel loro odio tenace e insensato, che molti senatori avevano per lungo tempo incoraggiato, quando Tiberio — il Tiranno! — non osava farsi rispettare dalla famiglia; e che si voltò per la sventurata donna e il suo disgraziato figlio, in un crimenlese, ora che in nome e vece di Tiberio agiva un uomo risoluto, che sapeva percuotere i nemici e premiare gli amici.
Il processo e la condanna di Agrippina e di Nerone furono certamente macchinazioni di Seiano, che si impose al Senato, agli amici della famiglia imperiale, forse a Tiberio stesso. L’uno e l’altra dimostravano quanto Seiano avesse saputo rinvigorire l’autorità imperiale, così incerta e debole nell’ultimo decennio. Seiano aveva osato fare quel che a Tiberio non era riuscito mai: distruggere la velenosa opposizione, che si annidava nella casa di Germanico. Non è neppur necessario di dire che, dopo la rovina di Agrippina, tutti inchinarono, tremando, l’uomo che aveva osato umiliare la stessa famiglia dei Giulio-Claudi. Seiano fu fatto senatore e pontefice; ricevette la potestà proconsolare, si ventilò un matrimonio tra [117] lui e la vedova di Nerone; fu proposto perfino di nominarlo console per cinque anni; e nel 31 fu, per volere di Tiberio, collega dell’imperatore stesso nel consolato. Non gli restava più che ricevere la potestà tribunizia, per diventare il collega ufficiale dell’imperatore e il suo successore designato. Tutti del resto lo consideravano a Roma come il futuro principe. Senonchè a queste altezze Seiano fu colto dalla vertigine; si domandò per qual ragione eserciterebbe il potere e ne avrebbe tutti i pesi e i pericoli, lasciandone ad altri il fasto, gli onori e i vantaggi. Sebbene Tiberio lasciasse il Senato coprire il suo fido prefetto di onori, ed egli stesso manifestasse in molti modi la sua gratitudine sino a volergli dare in moglie la vedova di Nerone, non intendeva affatto di prenderlo come collega e di indicarlo come suo successore. Tiberio era un Claudio, non poteva nemmeno pensare che a capo dell’aristocrazia romana avesse a porsi un cavaliere senza antenati; anche esiliato Nerone, aveva posto gli occhi sopra un altro figlio di Germanico, Caio, come un possibile successore. Nè aveva nascosto la sua intenzione: anzi l’aveva chiaramente espressa in differenti discorsi al Senato. Onde Seiano dovè dirsi alla fine che, continuando a difender [118] Tiberio e gli interessi suoi, egli non potrebbe più sperar nulla da lui e potrebbe invece mettere a repentaglio la potenza e la popolarità che si era acquistata. Che cosa succederebbe quando Tiberio morisse? Tiberio era odiato; il partito, avverso a lui, era numeroso in Senato, grande la sua impopolarità nelle masse: molti ammiravano Seiano per sfogare l’odio di Tiberio, quasi per dire che preferivano esser governati da un oscuro cavaliere anzichè dal solitario di Capri. Seiano sembra essersi a poco a poco illuso che se gli riuscisse di toglier di mezzo l’imperatore, potrebbe facilmente succedergli, saltando il giovane figlio di Germanico; e intesosi con i nemici di Tiberio preparò una cospirazione per rovesciare il detestato governo del figlio di Livia. Molti senatori aderirono; e certo poche cospirazioni furono mai ordite sotto auspici più favorevoli; Tiberio era vecchio, disgustato di tutto e di tutti, e solo a Capri; non aveva amici a Roma; non sapeva del mondo che ciò che Seiano gli raccontava; era quindi interamente nelle mani dell’uomo che si preparava a sacrificarlo agli odî tenaci della plebe e dell’aristocrazia. Giovane, energico, favorito dalla fortuna, Seiano aveva un partito in Senato, era il comandante della sola forza [119] militare stanziata in Italia, aveva atterrito con le sue persecuzioni implacabili tutti coloro che le sue promesse o i suoi favori non avevano guadagnati. Il duello tra questa vecchiaia e questa virilità, tra questa misantropia solitaria e questa ambizione infaticabile poteva terminare altrimenti che con la disfatta della vecchiaia e della misantropia? Quando, uscendo a un tratto dall’ombra in cui si appartava, una donna apparve, si buttò tra i due combattenti, e mutò le sorti del duello. Fu Antonia, la veneranda vedova di Druso, la fedele amica di Tiberio.
Dopo la morte di Livia, Antonia era in Roma il personaggio più rispettato della famiglia imperiale. Essa vegliava ancora, appartata ma attenta sui destini della famiglia, ormai quasi distrutta dalla morte, dalle discordie, dalla crudeltà delle leggi, dalle implacabili invidie della aristocrazia. Ella ebbe sentore di quanto si tramava; pronta e coraggiosa avvertì Tiberio. Il quale, nel pericolo, e da Capri, ritrovò il vigore e l’avvedutezza dei suoi bei tempi; tenne a bada Seiano con lettere amichevoli e facendogli balenare la speranza che gli avrebbe fatto concedere la potestà tribunizia; intanto segretamente provvide a nominare il successore al comando della guardia pretoriana. Ad [120] un tratto Seiano seppe che non era più comandante della guardia e che era accusato dall’imperatore innanzi al Senato, di cospirazione. In un attimo, sotto questo colpo, la fortuna di Seiano ruinò; le invidie e gli odî latenti contro il cavaliere che aveva umiliato e calpestato l’aristocrazia senatoria, si risvegliarono; il Senato e l’opinione pubblica inferocirono: Seiano, la sua famiglia, i suoi amici, i suoi complici, quelli che parvero i suoi complici furono messi a morte quasi a furore di popolo dopo processi sommari. Tutta Roma fu chiazzata di sangue.
Antonia aveva salvato con la sua avvedutezza e con il suo coraggio Tiberio e quel po’ che restava della famiglia. Quando, da questa atroce tempesta della collera pubblica si levò all’improvviso un’ondata, che le rapì dal fianco e inghiottì anche una sua figlia: Livilla, la vedova di Druso. Il lettore non ha forse dimenticato che otto anni prima, Seiano, quando sperava di sposare Livilla, aveva ripudiata la sua prima moglie: Apicata. Apicata non volle sopravvivere alla rovina del suo antico marito e si uccise, ma dopo aver scritto a Tiberio una lettera nella quale accusava Livilla di avere avvelenato Druso, d’accordo con Seiano, per diventare sua moglie. Confesso che anche [121] questa accusa mi pare poco verisimile; e non credo che la denunzia di Apicata basti a farcela ammettere. Che prove Apicata poteva possedere di questo delitto e come se le sarebbe procurate, anche se il delitto fosse stato commesso, quando i due complici, se erano tali, dovevano cercar di nascondere a tutti il loro misfatto e a nessuno con più cura che ad Apicata? Inoltre non sembra che un uomo avveduto come Seiano, potesse pensare, nel 23, ad avvelenare il figlio del suo protettore. Per qual motivo lo avrebbe fatto? Non pensava allora a succedere a Tiberio; togliendo di mezzo Druso giovava alla famiglia di Germanico, che già allora era sua nemica. Non potrebbe invece questa denuncia in extremis essere la vendetta di una donna ripudiata, contro la rivale che per un momento aveva minacciato di prendere il posto da cui essa era stata scacciata? Apicata, che non apparteneva all’aristocrazia, non era stata allevata, come le donne delle famiglie senatorie, nell’idea di dover servire docilmente alle fortune politiche del proprio o dei propri mariti. Forse la sua denuncia fu una vendetta della gelosia, che gli ordini meno illustri della società romana non spegnevano nel cuore della donna, come l’aristocrazia.
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Questa denunzia però — si capisce dagli antichi scrittori — fu uno dei più terribili dolori della vecchiaia di Tiberio. Egli aveva teneramente amato il figlio, e l’idea di lasciare impunito un così orrendo delitto, se l’accusa era vera, lo esasperava. Ma d’altra parte, Livilla, la presunta rea, era la figlia della sua amica fedele, di colei che lo aveva salvato dalle insidie di Seiano, di Antonia. Quanto al pubblico, così facile a credere tutte le infamie che si propalavano sulla famiglia imperiale, non dubitò un istante che Livilla fosse una scelleratissima avvelenatrice. Un gran processo fu iniziato; molte persone furono poste alla tortura, segno manifesto che non si venne in chiaro di nulla; ed è probabile che non si venne in chiaro di nulla, perchè si cercava la prova di un delitto immaginario. Ma Livilla non sopravvisse allo scandalo, alla accusa, ai sospetti di Tiberio, alla diffidenza che la circondò. Perchè ella era figlia di Druso e nuora di Tiberio; perchè apparteneva alla famiglia che la fortuna aveva posta a capo dell’immenso impero di Roma, essa non potrebbe persuader nessuno della sua innocenza: l’oscura donna senza antenati che l’accusava dalla tomba sarebbe creduta da tutti sulla parola, convincerebbe i posteri e la storia, sarebbe [123] più potente della sua grandezza e di ogni buona ragione. La sventurata si rifugiò nella casa della madre e si lasciò morire di fame, non potendo sopravvivere ad una accusa, che non poteva confutare.
Dopo questo supremo orrore i sei anni che Tiberio visse ancora, non furono più che una lenta e cupa agonia. L’anno 33 vide ancora una tragedia, il suicidio di Agrippina e quello del suo figliuolo Druso. Della prole di Germanico non restava in vita più che un maschio: Caio, e tre femmine, delle quali la più vecchia, Agrippina; la madre di Nerone, era stata maritata pochi anni prima al discendente di uno dei più grandi casati di Roma: Gneo Domizio Enobardo. Tiberio rimaneva ultimo superstite di una età più antica a rappresentare idee e aspirazioni ormai spente tra le rovine e le tombe dei suoi. Di queste rovine la posterità, sulla traccia di Tacito, ha ritenuto responsabile lui solo e la sua cupa natura. È da credere invece che egli fosse uomo nato a più alti e più felici destini; ma che dovè egli pure espiare la grandezza unica a cui la fortuna lo aveva innalzato. Come i membri della sua famiglia esiliati, morti [124] precocemente, costretti dalla disperazione al suicidio, egli fu vittima di una tragica situazione, piena di contradizioni insolubili; e fu la vittima forse più disgraziata, perchè dovè vivere.
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Morto Tiberio (37 a. C.) fu forza cercare un successore: compito non facile. Tiberio aveva nel testamento adottato come figlio Caio Caligola, figlio di Germanico, e Tiberio, figlio del figlio suo Druso. Quest’ultimo che aveva 17 anni, era troppo giovane. Caligola ne aveva 27, e quindi era ancor molto giovane, sebbene a rigor di termine potesse essere imperatore; ma non godeva buona reputazione. Oltre lui non c’era altro membro della famiglia, in età di governare che Tiberio Claudio Nerone, un fratello di Germanico, l’ultimo figlio superstite di Druso e di Antonia, che tutti consideravano come uno sciocco, zimbello di liberti e di donne, [128] a cui non si era potuto far fare la carriera delle magistrature, tanto era ridicolo e balordo. Difatti non era neppur senatore. Non potendosi dunque pensare a lui, non restava che Caligola, se non si voleva uscir dalla famiglia di Augusto: il che era costituzionalmente possibile, ma politicamente difficile; perchè le provincie, i barbari della Germania e i soldati delle legioni si erano ormai abituati a vedere in questa famiglia il sostegno dell’impero. Le legioni, anzi, si erano molto affezionate, alla memoria e alla discendenza di Druso e di Germanico, le cui figure, trasfigurate dalla morte, vivevano negli spiriti dei soldati e ritornavano, richiamate dai loro discorsi, nelle lunghe veglie, a visitare i campi sul Reno e sul Danubio, testimoni un tempo delle loro imprese e delle loro virtù. Sulla famiglia di Augusto si raccoglieva ormai la venerazione, che gli eserciti dei tempi più remoti avevano professata per tutta la nobiltà romana. In queste difficoltà il Senato scelse il male minore: Caligola, il figlio di Germanico.
Ma se non era stato facile trovare un imperatore, la morte di Tiberio doveva dimostrare, per la prima volta a Roma, che era forse anche più difficile trovare una imperatrice. Durante il governo di Augusto questa [129] dignità era stata occupata, e con incomparabile maestria, da Livia. Ad Augusto era successo Tiberio, che, dopo il divorzio da Giulia, non si era più riammogliato; c’era stato quindi un lungo interregno muliebre, durante il quale nessuno aveva pensato se fosse facile o difficile trovare in Roma, una donna che sapesse succedere degnamente a Livia. La difficoltà si presentò con Caligola, il quale, a 27 anni, non poteva eluderla come aveva fatto Tiberio; sia perchè è cosa naturale che a quell’età un uomo sia ammogliato; sia perchè la lex de maritandis ordinibus gliene faceva un obbligo, a lui come a tutti i senatori; sia perchè il capo della repubblica aveva bisogno, per i suoi doveri sociali, di una sposa. Al funesto isolamento di Tiberio, aveva contribuito anche il suo celibato. Senonchè con Caligola si incomincia a vedere che il trovare una seconda Livia non era così facile, tante erano le qualità che si richiedevano. Doveva essere infatti di stirpe nobilissima, uscendo da una di quelle grandi famiglie romane, che scarseggiavano, si isterilivano e si guastavano sempre più di generazione in generazione, e quel che è peggio erano divise da odî ferocissimi; gravissima difficoltà, perchè imparentandosi con una di [130] queste famiglie, l’imperatore correva il pericolo di inimicarsi con tutte le famiglie, che di quella erano nemiche. Doveva inoltre l’imperatrice essere il modello di tutte le virtù, prolifica, per obbedire alla lex de maritandis ordinibus; religiosa, casta e virtuosa, per non violare la lex de adulteriis; semplice e modesta in omaggio alla lex sumptaria: doveva saper amministrare saggiamente la vasta casa, piena di servi e di liberti, dell’imperatore; e aiutare il marito a compiere tutti i doveri sociali — ricevimenti, pranzi, feste — che gravosi per ogni nobile romano, erano gravosissimi per il capo della repubblica. Non poteva infine essere stupida e ignorante. Da questo momento infatti, sino alla catastrofe di Nerone, le difficoltà della famiglia e dell’autorità imperiale nascono più ancora che dagli imperatori dalle loro mogli: cosicchè si può dire che le donne sono state, senza volerlo, la rovina della casa Giulio-Claudia.
La difficoltà insomma era grande. Ma se c’era uomo poco fatto per superarla, era questo giovinotto di 27 anni assunto all’impero dopo la morte di Tiberio. Era, quando fu eletto imperatore, ammogliato da quattro anni con una certa Giunia Claudilla, una dama che doveva appartenere ad una delle [131] grandi famiglie di Roma e intorno alla quale noi non abbiamo alcuna notizia. Non possiamo dire quindi se, a fianco di un secondo Augusto, avrebbe potuto diventare la nuova Livia. Ma è certo invece che Caligola non era un secondo Augusto. Caligola non fu probabilmente un pazzo così frenetico, quale gli scrittori antichi l’hanno dipinto; ma fu certo un uomo stravagante, squilibrato, e agitato da un delirio di grandezza, che il potere esaltò facilmente, perchè gli fu conferito in età troppo giovane e senza preparazione. Per molti anni Caligola, più che sperare di succedere a Tiberio, aveva temuto una sorte simile a quella della madre e dei fratelli maggiori; nonchè sognare la dignità suprema, aveva desiderato di non finire esule in qualche isola deserta del Mediterraneo. Tanta fortuna, dopo la lunga persecuzione, sconvolse le facoltà mentali, già per natura traballanti, e fomentò un delirio di grandezza, che lanciò violentemente il suo spirito fuori della grande orbita storica della tradizione romana, in cui i suoi precedenti si erano aggirati, in una corsa aberrante verso l’Egitto. Caligola aveva già mostrato una grande inclinazione per le cose e gli uomini di quel lontano paese, così ammirato e così temuto dai Romani. Noi sappiamo, [132] per esempio, che tutti i suoi servitori erano egiziani, e che il suo liberto più fido e influente, Elicone, era un alessandrino. Ma questa ammirazione per la terra dei Tolomei e dei Faraoni divampò, poco dopo la sua assunzione all’impero, in un esotismo temerario, che lo spinse a voltar le spalle alla politica di Tiberio e di Augusto, per rifarsi, come a suo modello, addirittura a quella del suo bisnonno Marco Antonio; a introdurre in Roma le idee, i costumi, le pompe, gli istituti della monarchia faraonica e tolemaica; a far del suo palazzo una corte simile a quella di Alessandria; della sua famiglia, una famiglia semidivina ed unica, quale era stata quella dei Tolomei; e di sè, un Re adorato in carne ed ossa, come si usava sulle rive del Nilo.
Caligola era pazzo, senza dubbio; ma la sua pazzia sarebbe sembrata meno caotica e incomprensibile, un filo e un senso si sarebbero trovati pur negli eccessi e nei vaneggiamenti del suo spirito turbato se si fosse capito che, se non tutte, molte delle sue pazzie più famose sono mosse e inspirate dall’idea monarchica ed egiziana. Nella pazzia di Caligola, come nella storia di Antonio o nella tragedia di Tiberio, si ritrova ancora e sempre il conflitto ideale tra l’Italia e l’Oriente, [133] tra Roma e Alessandria, che è la chiave di tutta la storia dell’ultimo secolo della repubblica e del primo secolo dell’impero. Noi vediamo infatti il nuovo imperatore, appena eletto, introdurre Iside tra i culti ufficiali dello stato romano e assegnarle nel calendario una festa pubblica; proteggere insomma quei culti egiziani, così fieramente combattuti da Tiberio, il «vecchio romano». Noi lo vediamo proibire le feste commemorative della battaglia di Azio, che si celebravano da un secolo ogni anno: idea che lì per lì può sembrare strana e insensata. Eppure neppur questa idea deve considerarsi come un puro capriccio; perchè voleva dire la riabilitazione ufficiale di Marco Antonio, del bisnonno che aveva tentato spostare il governo dell’impero da Roma ad Alessandria; un mezzo di dire che Roma non doveva più vantarsi di avere umiliato Alessandria con le armi, poichè d’ora innanzi avrebbe preso, in ogni cosa, Alessandria come modello.
Inspirandosi pure a esempi egiziani, cercò di circondare di un rispetto quasi religioso, simile a quello in cui si era avvolta la dinastia dei Tolomei, tutta la famiglia sua: quella che Tiberio, il repubblicano di vecchio stampo, aveva lasciato perseguitare e infamare [134] con i processi, decimare con i suicidi obbligatori dalle invidie dell’aristocrazia, che non voleva perdonarle la sua troppo grande fortuna. Non solo Caligola si affrettò a raccogliere le ossa della madre Agrippina e del fratello, per riportarle a Roma e riporle piamente nel sepolcro di Augusto; ma proibì che si nominasse tra i suoi antenati il grande Agrippa, il costruttore del Pantheon, perchè l’origine troppo oscura di lui macchiava la purezza semidivina della razza; fece attribuire alla nonna Antonia, la figlia di Marco Antonio, e la fedele amica di Tiberio, il titolo di Augusta e tutti i privilegi delle Vestali; fece attribuire questi stessi privilegi alle tre sorelle Agrippina, Drusilla e Livilla; fece loro assegnare nei giuochi del circo un posto eguale al suo: volle infine che i loro nomi fossero compresi nei voti che ogni anno i magistrati e i pontefici esprimevano per la prosperità del principe e del popolo; e che nei giuramenti per la conservazione del suo potere si includesse anche un giuramento per la loro felicità! Dalle persecuzioni e dalle umiliazioni che la famiglia imperiale aveva subite sotto Tiberio, le sorelle dell’imperatore passavano agli onori e privilegi divini: novità contraria allo spirito e alle tradizioni repubblicane, ma [135] ispirata dagli esempi e dai principî delle monarchie orientali; trapasso un po’ troppo brusco, che è prova di temperamento violento e poco riflessivo in chi lo volle e lo impose. Tuttavia lì per lì non ci fu nè scandalo nè protesta: come nessuno si dolse che nel palazzo imperiale, così semplice, severo, triste sotto Tiberio, irrompessero in gioiose turbe i piaceri, il lusso, le feste e tutti gli artigiani della voluttà: i mimi, i cantori, gli attori, i ballerini, i cuochi, i fantini. Il governo avaro e triste di Tiberio aveva stancato tutti. Caligola fu popolare nei primi mesi.
E se, anche prendendo la mossa da idee e costumi egiziani, si fosse contentato di mettere la sua famiglia, e le sue donne, al riparo di un rispetto che le proteggesse contro le infami accuse e gli iniqui processi, avrebbe potuto far cosa giusta, buona e utile alla repubblica. Era assurda infatti, e pericolosa, quella contraddizione per cui, durante il governo di Tiberio, l’imperatore era stato insignito di straordinari poteri e fatto oggetto di un rispetto quasi religioso; la famiglia poi — e particolarmente le donne — erano state messe fuori della legge e bersagliate con mille insidie. Ma il lunatico Caligola non era uomo da trattenere nei limiti della ragione neppure un proposito savio. Il potere, [136] la popolarità, le lodi esaltando la sua natura bizzarra e incline agli eccessi, ben presto, a quanto pare, sul finire del 37, venne in un’idea, che a Roma sembrò una orribile empietà. Sua moglie morta, poco dopo la sua assunzione all’impero, e dovendo rimaritarsi, annunciò che sposerebbe sua sorella Drusilla. Gli storici hanno rappresentato questo proposito come il delirio perverso di una sfrenata sensualità; e certo pazzia era e una grossa pazzia; ma una pazzia politica forse, più che un mostruoso traviamento dei sensi; perchè tentava di portare in Roma i matrimoni dinastici tra fratelli e sorelle, che erano stati costante tradizione dei Tolomei e dei Faraoni in Egitto. Certo a noi, educati secondo le dottrine severe ed austere del cristianesimo che ereditò in questa materia, purificandole e facendole più rigorose, il fiore delle idee greco-latine, questi incesti sacri paiono una orribile aberrazione. Pure per secoli in Egitto, nella più antica delle civiltà mediterranee, erano stati il privilegio sovrano che avvicinava agli Dei la dinastia, conservandone la purezza celestiale del sangue; e forse il costume, durato in Egitto sino alla caduta dei Tolomei, era l’avanzo di antichissimi tempi, e di più vasta diffusione, perchè se ne trova traccia anche [137] nella mitologia greca. Giove e Giunone, la coppia augusta dell’Olimpo, sono fratello e sorella. Ristretto forse a poco a poco dall’espandersi della civiltà greca, il costume fu definitivamente sradicato nel bacino mediterraneo da Roma, quando distrusse il regno dei Tolomei.
Ed ecco il lunatico Caligola vuole a un tratto trapiantare l’incesto sacro con tutto l’apparato religioso della monarchia egiziana, facendo della più illustre e potente famiglia dell’aristocrazia romana una famiglia addirittura divina, i cui membri dovevano sposarsi tra loro, per non turbare la celeste purezza del sangue! La stravagante idea era già matura nel suo capo e la sposa già scelta tra le tre sorelle nella persona di Drusilla, alla fine del 37: come lo prova il testamento che egli fece, sul finire dell’anno, in occasione di una malattia, e con il quale lasciava non solo i suoi beni, ma anche l’impero a Drusilla, come se l’impero fosse suo. Ma appena l’idea fu nota, la concordia e la pace, ristabilite per un momento nella travagliata famiglia imperiale con l’avvento di Caligola, dileguarono di nuovo. La nonna e le sorelle di Caligola erano romane, romanamente educate, e questa esotica pazzia non poteva ispirar loro che un invincibile [138] orrore. Fu uno scompiglio. Le disgraziate figlie di Germanico erano dunque scampate dalle persecuzioni di Seiano e del suo partito, per cadere in balìa dei capricci incestuosi del fratello? Nel 38 già Caligola è in rotta con la nonna, che l’anno prima egli aveva fatto proclamare Augusta, e tra il 38 e il 39 le catastrofi si succedono nella famiglia, con una rapidità paurosa. Drusilla che, come dice Svetonio, egli trattava già come una sposa, muore ad un tratto, giovanissima ancora, non sappiamo di qual malattia, forse per lo spavento — non è temerario il supporlo — della folle avventura, in cui la voleva trascinare il fratello sposandola. Caligola fece subito di lei una Dea a cui si dovevano tributare gli onori in tutte le città, le eresse un tempio, costituì un corpo di venti sacerdoti, uomini e donne, decretò che il suo natalizio fosse giorno di festa; volle che la statua di Venere sul Foro le rassomigliasse. Ma a mano a mano che si infervorava in questa adorazione della sorella morta Caligola veniva in più aspra discordia con le sorelle vive. Giulia Livilla è esiliata nel 38; Agrippina, la moglie di Domizio Enobardo, nel 39; a quanto si dice, perchè avevano congiurato contro l’imperatore; e intorno a questo tempo la veneranda Antonia [139] muore, costretta — si vociferò — da Caligola a suicidarsi. Quel che ci sia di vero in queste dicerie, è impossibile dire; ma quel che si può affermare con sicurezza è che nessuno poteva più vivere nel palazzo imperiale, con questo pazzo che scambiava Roma per Alessandria e voleva sposare una sorella. Anche Tiberio, il figlio di Druso, il coerede di Caligola, è inghiottito in questo tempo da un oscuro processo e sparisce.
Caligola restò solo a Roma, a rappresentar nel palazzo imperiale la famiglia che per ironia si doveva considerare come la più fortunata dell’impero. Di tre generazioni, a cui la sorte pareva aver largiti tutti i beni della vita, non sopravviveva che Claudio, il vecchio balordo, lo zimbello dei servi e dei liberti, che nessuno molestava perchè tutti potevano prendersi beffe di lui. Un pazzo e un imbecille: ecco i superstiti della famiglia di Augusto, settanta anni dopo la battaglia di Azio! Solo, non potendo più innalzare una sorella agli onori dell’Olimpo monarchico, Caligola fu costretto a cercar moglie nelle famiglie dell’aristocrazia: ma pare che neppur lì ci fosse abbondanza di donne, atte a far compagnia a un Dio così capriccioso. In tre anni ne sposò e ripudiò tre: Livia Orestilla la prima, Lollia Paulina, [140] la seconda; Milonia Cesonia, la terza: figure senza rilievo, ombre e parvenze di imperatrici, nessuna delle quali ebbe nemmeno il tempo di occupare l’altissimo posto. Invano il popolo aspettò che comparisse nel palazzo imperiale la degna continuatrice di Livia: Caligola, come tutti i pazzi, era un solitario, non poteva vivere con altri esseri umani, si abbandonava solo ai suoi vaneggiamenti, sempre più strani e violenti. Ormai voleva addirittura imporre il culto della sua persona a tutto l’impero, senza badare a tradizioni e superstizioni locali; facendo violenza al sentimento dell’Italia, che detestava questo culto di un vivo come un’adulazione orientale, non meno che alla devozione degli Ebrei, inorriditi dall’idolatria. In tutte le parti dell’impero nacquero difficoltà, disgusti, sommosse; le stravaganze, le pazze spese, i disordinati piaceri, le crudeltà di Caligola acrebbero il malcontento ed il disgusto. Se anche Caligola è stato dipinto con il nerofumo e le sue crudeltà e violenze esagerate dagli scrittori antichi, è certo però che il suo governo, negli ultimi due anni, degenerò in una tirannide spensierata, spendereccia, violenta e crudele. Un giorno Roma si accorse che la famiglia, a cui la repubblica e l’impero si appoggiavano [141] come ad una colonna, stava per spegnersi; che nel palazzo imperiale, vuoto di donne, vuoto di giovani, vuoto di speranze, vaneggiava, ultimo superstite, un pazzo di 31 anni, il quale mutava moglie ogni sei mesi, profondeva follemente il denaro e il sangue dei sudditi, e non pensava che a farsi adorare come un Dio in carne ed ossa da tutto l’impero. Nel palazzo stesso una congiura fu ordita, e Caligola ucciso.
All’annunzio il Senato restò perplesso. Che fare? La maggioranza pendeva a restaurare l’antico governo repubblicano, abolendo la autorità imperiale, e restituendo al Senato il timone della repubblica, che a poco a poco era passato nelle mani dell’imperatore. Ma molti temevano che questo ritorno all’antico non fosse nè facile nè senza pericoli. Riuscirebbe il Senato, così neghittoso, così discorde, così scadente a governare l’immenso impero? Rispetterebbero le legioni [142] la sua autorità? Qui stava il tutto; e il punto era dubbio. Ma non era neppur molto più facile trovare un imperatore, se ormai un imperatore era, come molti temevano, necessario. Della famiglia di Augusto sopravviveva solo Claudio: troppo sciocco e ridicolo, perchè si potesse pensare a farne il capo dell’impero. Pare che qualche senatore eminente avanzasse la propria candidatura: ma se l’autorità dei membri della famiglia di Augusto era così incerta, così discussa, così minata, sotto sotto, che potrebbe e farebbe un imperatore nuovo, sconosciuto alle legioni e alle provincie, non sostenuto dalla gloria degli antenati? Mentre il Senato si dibatteva in queste perplessità, i pretoriani scovarono in un angolo del palazzo imperiale Claudio, che si era appiattato, per paura si volesse uccidere anche lui. Riconoscendo in lui il fratello di Germanico, il figlio di Druso, dell’eroe venerato negli accampamenti, i pretoriani lo acclamarono imperatore. Un atto di volontà soverchia facilmente mille scrupoli e incertezze: il Senato cedette alle legioni, riconobbe imperatore Claudio l’imbecille.
Ma Claudio un imbecille non era, sebbene [143] sembrasse ai più. Era invece un uomo riuscito a mezzo, nel quale l’intelligenza si era sviluppata molto, ma il carattere era rimasto fanciullo, paurosissimo, capriccioso, impulsivo, sventato. Amava gli studi, la storia, le lettere, l’archeologia (Tito Livio era stato suo maestro); era più che colto addirittura erudito; e parlava e scriveva bene: ma Augusto aveva dovuto rinunciare a farne un magistrato e un senatore, perchè non era riuscito ad acquistare non solo quella fermezza e volontà, ma neppure quella dignità apparente, dei modi e del contegno, ch’è necessaria per governare gli uomini. Paurosissimo, credulo, suggestionabile e insieme ostinato, ghiotto e sensuale, questo erudito fanciullone, era diventato nel palazzo imperiale una specie di zimbello di tutti, massime dei suoi schiavi, che, conoscendone i difetti e le debolezze, facevano di lui ciò che volevano. L’intelligenza per governare non gli faceva difetto, ma gli mancava totalmente la tempra: era intelligente e pareva stupido; sapeva considerare le grandi questioni della politica, della guerra, della finanza con larghezza di vedute, con spirito originale ed acuto, ma non riusciva a farsi prender sul serio dalle persone che lo circondavano, e a farsi obbedire dalla moglie [144] e dai liberti; aveva ingegno quanto bastava per governare l’impero così bene come Augusto e Tiberio, ma perdeva la testa alla prima favola di congiura che un suo familiare, fingendosi sgomento, gli raccontasse.
Un uomo siffatto doveva riuscire un imperatore ben singolare: grande e ridicolo nello stesso tempo. Egli fece leggi importanti, opere pubbliche gigantesche, conquiste di grande momento, (la Britannia per esempio); ma fu un marito così debole e imbecille, che con le debolezze coniugali sciupò le belle e saggie opere del governo, massime nei primi anni del suo governo, ossia sinchè visse con Valeria Messalina. Bisogna riconoscere che non era stato fortunato perchè la sorte gli aveva data una donna che, non ostante i suoi illustri natali — apparteneva ad una delle più grandi famiglie di Roma, imparentata con la famiglia di Augusto — non era proprio fatta per lui. Il nome di Messalina suona in tutto il mondo sfrenata lascivia: esagerazione, come al solito, dell’odio, che non diede tregua alla famiglia di Augusto, sinchè uno dei suoi visse; perchè delle infamie che si attribuiscono a lei, molte sono favole manifeste, raccontate [145] con compiacenza da Tacito e da Svetonio e facilmente credute dai posteri. Certo è invece che Messalina era una donna bella, capricciosa, leggera, prepotente, spensierata, sfarzosa, avidissima di denaro, e prodiga, che non si era mai fatto scrupolo di abusare della debolezza del marito; una donna, insomma, poco virtuosa e seria, ma non un mostro. Donne tagliate di questa stoffa, tutte le epoche e tutte le condizioni ne hanno conosciute; e a nessuno è venuto mai in mente di definirle dei mostri, essendo di solito considerate da tutti come una varietà molto piacevole anche se un po’ pericolosa, del sesso femminile, che ha bisogno, per vivere senza far troppo male, di un uomo che la domini con saggezza e fermezza. Mancando questa mano vigorosa, Messalina non era donna da capire che se aveva potuto abusare impunemente della sua debolezza, sinchè Claudio era stato il più oscuro tra i membri della famiglia imperiale, pericolosissimo sarebbe continuare ad abusarne, dopo che era diventato il capo dell’impero; anzi, ne abusò più di prima e da questo errore nacquero tutti i guai. Incominciò, scatenando una nuova discordia nella famiglia imperiale. [146] Claudio aveva richiamato a Roma le due nipoti vittime dei capricci egiziani di Caligola, Agrippina e Giulia Livilla: ma queste, se non ritrovarono più a Roma per perseguitarle il fratello, ci trovarono la zia; e non guadagnarono molto al cambio. Messalina si adombrò dell’influenza che le due sorelle acquistavano sull’animo del debole zio, e non andò molto che Giulia Livilla fu accusata in forza della lex adulteriis ed esiliata con Seneca, il famoso filosofo che si volle, a torto o a ragione, far passare per suo amante. Agrippina — ed è questa una prima prova che era, come sua madre, una donna virtuosa — non potè essere ferita con queste armi e restò a Roma; ma dovè star all’erta ed esser prudente; tanto più che rimasta vedova, non poteva contare nemmeno sulla protezione del marito. Se Agrippina potè restare a Roma fu isolata, ridotta all’impotenza: Messalina sola, d’accordo con quattro o cinque liberti senza scrupoli, circuì Claudio; e governò con loro. Governo di incredibili dilapidazioni e ruberie! Se tra questi liberti c’erano uomini, come Narciso e Pallante, intelligenti e avveduti, i quali non si contentavano di rubare molto denaro, ma aiutavano Claudio a ben governare l’impero, Messalina non pensava che a [147] far denaro per profonderlo in lusso e in piaceri. Si vide così la moglie del princeps vendere la sua intercessione ai sovrani alleati e vassalli, ai ricchi personaggi dell’impero che desideravano ottenere qualche favore dall’autorità imperiale; intendersi con gli accollatari delle opere pubbliche; immischiarsi nei conti dello Stato, ogni qualvolta ci fosse occasione di far denaro; e con il denaro così lucrato sfregiare ogni giorno la lex sumptuaria, e fare scempio delle virtù muliebri in una vita di disordinati piaceri. Claudio o ignorava o sopportava.
Mormorava invece il pubblico. Se coloro che approfittavano delle sue dissipazioni, ammiravano molto Messalina, il popolo incominciò presto a protestare. Fedele ancora alla tradizione, Roma e l’Italia volevano accanto all’imperatore una seconda Livia, un esempio di tutte le più belle virtù della antica matrona; non una Baccante, che avrebbe dovuto essere condannata all’esilio come tante altre donne di Roma infedeli ai loro mariti; che disonorava e faceva ridicola con l’impunità l’autorità imperiale. La moltitudine venerava nell’imperatore un magistrato quasi sacro, incaricato di mantenere con le leggi e con l’esempio la purezza delle famiglie, la fede dei matrimoni, la semplicità [148] dei costumi: ed ecco tutte le dissipazioni, corruzioni, e perversioni della donna che vuol vivere solo per il suo piacere, per godere e far godere della sua bellezza, erano insediate a scandalo delle persone dabbene nel palazzo dell’imperatore accanto a lui, nella persona dell’imperatrice! Un imperatore che fosse un marito debole, era uno scandalo, perchè il buon senso popolare non ammetteva che potesse governare un impero chi non sapeva comandare a una donna.
Fu ben presto opinione di tutte le persone sensate che Messalina al posto di Livia, sul Palatino, e un marito così debole erano un pericolo pubblico. Ma non sarebbe stato neppure cosa facile, anche se l’imperatore l’avesse voluto, colpirne la sposa come rea di infedeltà o di disobbedienza ad una delle grandi leggi di Augusto; perchè se Caligola, che era pazzo, aveva potuto fare tre divorzi, un imperatore più savio doveva pensarci bene, prima di render pubblici gli scandali e le vergogne della famiglia, in cospetto di quella aristocrazia così pronta alle calunnie e al sospetto. Ma la difficoltà era addirittura invincibile, quando l’imperatore non vedeva o non voleva vedere le colpe della moglie. Chi oserebbe accusarla in sua vece?
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Governato con intelligenza ma disordinatamente e tra infinite contradizioni, oscillazioni e debolezze lo Stato si rafforzava in parte e in parte si dissolveva; la prepotenza e le ruberie dei liberti esasperavano il pubblico; Messalina per quel che faceva e per quel che se ne raccontava, era uno scandalo pubblico, tanto più insopportabile perchè senza rimedio. Roma si accorgeva per la prima volta che una imperatrice era invulnerabile; e che una volta insediata al Palatino, guai se era una Messalina invece che una Livia: mezzo di protestare contro i suoi abusi di potere non c’era, se l’imperatore non voleva intervenire. Esasperato, il pubblico sfogò su Claudio anche le sue collere per i disordini di Messalina; alla sua debolezza fu apposto anche il malcostume della moglie; e intrighi, attentati, congiure, piani di guerra civile furono a Roma, come dice Svetonio, cose di tutti i giorni. La debolezza dell’imperatore diffondeva in tutto lo Stato l’insicurezza e il dubbio; tutti si domandavano ogni mattina quanto durerebbe questo governo, se una congiura di pochi o una rivolta di legioni non lo travolgerebbe prima di sera; il sospetto, la diffidenza, la paura erano in tutti gli animi; e molti pensavano che, poichè Claudio non era buono a liberare [150] l’impero di Messalina, occorreva liberar l’impero di Claudio.
Per sei anni Messalina fu la grande debolezza di un governo, che pure aveva meriti insigni e faceva grandi cose. Claudio, che fu certo l’imperatore più minacciato di tutta la famiglia di Augusto, visse in continuo pericolo per cagione della moglie. Ma le cose non potevano restar così sospese e in bilico a lungo; e precipitarono infatti in uno scandalo che, così come è stato raccontato da Svetonio e da Tacito, sarebbe davvero il più mostruoso disordine, in cui possa infuriare una imaginazione di donna pervertita dalla potenza. Narrano questi scrittori che Messalina, non sapendo più che stravaganza nuova inventare, un bel giorno avrebbe pensato di sposar Silio, un giovane da lei molto amato, che apparteneva ad una grande famiglia e che era console designato; e lo avrebbe difatti sposato con i più solenni riti religiosi, a Roma, mentre Claudio era ad Ostia, per lo scellerato piacere di imbrattare pubblicamente di bigamia i sacri riti nuziali. Ma è ciò credibile, almeno se non si ammette che Messalina era subitamente impazzita? A che pro’, per qual scopo commettere un tanto sacrilegio, che offendeva il sentimento popolare nelle sue fibre più [151] sensibili? Dissoluta, crudele, avida Messalina, certo era; ma pazza no. E se si vuol ammettere che essa fosse impazzita, è da credere che fossero impazziti tutti coloro che le prestarono mano? Supporre che avessero agito per paura, è difficile: la moglie del princeps non aveva nessun potere, con cui costringere dei personaggi cospicui a commettere in pubblico un sacrilegio.
Questo episodio sarebbe forse un indovinello insolubile, se Svetonio non ci desse, per caso, la chiave con cui scioglierlo. «Nam illud omnem fidem excesserit, quod nuptiis, quas Messalina cum adulterio Silio facerat, tabellas dotis et ipse consignaverit». «Una cosa che nessuno giudicherà credibile è che egli stesso, nelle nozze di Messalina con Silio, sottoscrisse i titoli della dote». Claudio dunque sapeva che il matrimonio di Messalina e di Silio doveva aver luogo, se egli stesso dotò la sposa: e questa par cosa quasi incredibile a Svetonio. Ma noi sappiamo che nella aristocrazia romana si poteva cedere la propria moglie a questo modo: non abbiamo noi stessi raccontato che Livia fu dotata e sposata ad Augusto dal suo primo marito, dal nonno di Claudio? La cessione della moglie con una dote faceva parte dei costumi matrimoniali, un po’ troppo promiscui [152] a dir vero, dell’aristocrazia romana, che si andaron poi perdendo a mano mano che nel primo e secondo secolo dell’era volgare il prestigio e la potenza dell’aristocrazia romana scemarono; a mano a mano che le classi medie imposero le loro idee e i propri sentimenti. Il passo di Svetonio ci prova che egli non capiva più questo costume matrimoniale; forse neppur Tacito lo intendeva bene; e non è improbabile che anche a molti contemporanei di Claudio sembrasse strano. Si comprenderebbe quindi come, non intendendo bene quel che era successo, gli storici del secolo seguente abbiano creduto che Messalina quando ancora era moglie di Claudio, sposasse Silio.
Insomma Claudio si lasciò persuadere a far divorzio da Messalina e a sposarla a Silio. Quali mezzi furono adoperati per persuadere Claudio a consentire a questo nuovo matrimonio noi non sappiamo, perchè Svetonio fa a questo mezzo una allusione, che non è molto chiara. A ogni modo questo punto è meno importante dell’altro; per quale ragione Messalina volle divorziare da Claudio e sposare Silio? Il quesito non è facile: ma dopo un lungo studio io mi sono deciso ad accettare, con qualche ritocco, la spiegazione data in un suo lavoro, ricco di [153] idee originali e di acute osservazioni «L’Impero e le donne dei Cesari» da Umberto Silvagni. Il Silvagni ha osservato giustamente che Silio apparteneva ad una famiglia dell’aristocrazia, famosa per la devozione al partito di Germanico e di Agrippina; tanto è vero che suo padre, era stato una delle vittime di Seiano e accusato per la legge di maestà al tempo di Tiberio, s’era ucciso; sua madre, Sosia Galla, era stata condannata all’esilio, come amica di Agrippina. Partendo da queste considerazioni e esaminando con acume i racconti degli storici antichi il Silvagni ha conchiuso che questo matrimonio coprì una cospirazione per rovesciare Claudio e sostituirlo con Caio Silio. Messalina dovè sentire a un certo momento che le cose non si reggevano più, che Claudio non era imperatore abbastanza forte, da poter imporre all’impero il suo disordinato governo e quello dei suoi liberti, che era ogni giorno alla mercè di una congiura o di un attentato. Che cosa avverrebbe se un giorno Claudio fosse spazzato via, come Caligola, da una congiura? Essa avrebbe subita la stessa sorte. Quindi il proposito di rovesciare l’imperatore, per conservare accanto al successore scelto da lei, la potenza che aveva avuta sotto Claudio. Ma poichè, [154] morto Claudio, nessun membro della famiglia di Augusto era in età di governare, il successore doveva essere scelto in una famiglia dell’aristocrazia; e fu scelto in una famiglia famosa per la sua devozione a Germanico e al ramo più popolare dei Giulio Claudi, per la speranza di guadagnar le legioni e i pretoriani. Poichè la discendenza di Druso era spenta, che altro restava se non scegliere il successore nelle famiglie dell’aristocrazia, che avevano mostrato affetto e devozione al sangue del grande estinto?
Insomma, per la prima volta, una donna si trovò a capo di una vasta e vera cospirazione politica, per togliere alla famiglia di Augusto il supremo potere; e questa donna — altra prova che non era una sciocca — seppe tramare così bene e in tempo così opportuno la sua congiura, che i più intelligenti ed influenti tra i liberti di Claudio esitarono a lungo, se unirsi a lei o parteggiare per l’imperatore. Tanto pareva dubbio indovinare chi vincerebbe tra il debole marito e la moglie audace, senza scrupoli. Essi lasciarono Messalina e Silio cercare partigiani e amici, intendersi perfino con il prefetto dei vigili, celebrare il loro matrimonio, senza aprir gli occhi a Claudio. Claudio sarebbe forse perito, se all’ultimo momento Narcisso non si fosse risoluto a correr dall’imperatore [155] che era ad Ostia, e spaventandolo non lo avesse persuaso a sradicar subito la congiura con un colpo. Seguì un altro di quei macelli giudiziari, che da più di trenta anni insanguinavano Roma; e Messalina fu travolta, anche essa, nella strage.
Dopo la scoperta della congiura, Claudio arringò i soldati, dicendo loro che i matrimoni gli riuscivano troppo male, onde non intendeva più riammogliarsi. Il proposito forse era savio, ma difficile ad eseguire. Per tante ragioni l’imperatore aveva bisogno di avere accanto una donna! E ben presto Claudio consultò i suoi liberti sulla nuova moglie che voleva scegliere. Le discussioni furono molte e lunghe le incertezze; ma poi la scelta cadde su Agrippina, e non a caso. Poichè Agrippina era nipote di Claudio; e i matrimoni tra zio e nipote, se non erano proprio proibiti, ripugnavano al sentimento pubblico, Claudio e i suoi liberti non poterono risolversi a vincer questa ripugnanza, se non per gravi ragioni. Tra queste, la più grave fu forse che, dopo la prova di Messalina, [156] si preferì di non uscire dalla famiglia, argomentando che una imperatrice della famiglia non si sarebbe così facilmente indotta a cospirare contro la discendenza di Augusto, come aveva fatto una estranea, venuta da una di quelle famiglie dell’aristocrazia che tanto odiavano la famiglia imperiale. Agrippina era una figlia di Germanico: raccomandazione potente, presso le plebi, le coorti pretorie e le legioni; era intelligente, colta, semplice, economa; era cresciuta in mezzo alle faccende politiche e conosceva il governo dell’impero; aveva sino ad allora menato vita irreprensibile. Parve dunque la donna che ci voleva, per far dimenticare al popolo Messalina; per rianimare nelle moltitudini il rispetto della famiglia di Augusto, mezzo spento da tanti scandali e da tante discordie; per non scomparir troppo al confronto di Livia.
Claudio domandò al Senato che autorizzasse i matrimoni tra zii e nipoti, non osando assumersi da solo la responsabilità di contrariare il sentimento del popolo. E la figlia di Germanico, la sorella di Caligola diventò imperatrice.
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Sposar Claudio poteva essere, come vuole Tacito, la massima ambizione di Agrippina; ma poteva essere anche la abnegazione suprema di una donna che si considerava, alla romana, lo strumento della fortuna della sua famiglia e dei suoi. Sposando Claudio, Agrippina non sposava soltanto uno zio molto più vecchio, un marito poco gradevole; ma legava la sua sorte a quella di un imperatore debole, minacciato da continue congiure e rivolte, le cui incertezze e paure erano universalmente considerate un pericolo pubblico; metteva a un cimento mortale la vita e l’onore, se non riuscisse a bilanciare con la sua intelligenza e la sua volontà le debolezze dello strano marito: impresa che non è chi non veda quanto fosse difficile.
Ma Agrippina si accinse all’arduo compito con ardore e con fortuna. Le circostanze la favorirono sul principio. Le pazzie di Caligola e gli scandali di Messalina avevano tanto disgustato Roma e l’Italia, che tutti, [160] dal Senato alla plebe, chiedevano un governo più forte, più coerente, più rispettabile, che la facesse finita coi processi, le discordie, le rapine, le congiure. Appena Agrippina apparve, tutti sperarono in lei, nella figlia di Germanico, nella nipote di Druso, nel sangue dei Claudi; nella loro fermezza, nel loro puritanismo tradizionalista. E non a torto; chè questa donna era una specie di Tiberio femmina, simile nella purezza dei costumi alla madre, alla nonna Antonia, alla bisnonna Livia, per quanto Tacito maligni anche intorno a lei, a proposito di Pallante e di Seneca. Ma non solo è smentito dal fatto che neppure l’odio implacabile di Messalina riuscì a farla cadere sotto i colpi della lex de adulteriis; egli stesso si smentisce da sè, quando dice: «nihil domi impudicum nisi dominationi expediret»: il che significa che Agrippina fu donna di intemerati costumi, perchè tutta la sua storia dimostra che la sua potenza prima e la sua disgrazia poi dipesero da tali e tante cause e ragioni, che proprio le sue grazie femminili non ebbero forza nè di accrescere la potenza nè di ritardar la rovina. Appunto perchè con le sue virtù Agrippina ricordava i personaggi più venerati della famiglia di Augusto, tutti sperarono quando la videro [161] accanto al debole Claudio; e incoraggiata da questo favore, Agrippina si accinse a restaurare nello Stato i principii tradizionali della nobiltà, in cui Livia aveva educato prima Tiberio e Druso, poi Germanico, poi Agrippina stessa. Lo spirito della grande avola spento nella famiglia dal conflitto tra Tiberio e Agrippina, dalle pazzie di Caligola e dagli scandali ridicoli del primo governo di Claudio, rivisse finalmente in questa pronipote. La quale si adoperò a ridare allo Stato un po’ di quel vigore autoritario, che era stato il pensiero costante della nobiltà, ai tempi del suo splendore. «Adductum et quasi virile» chiama Tacito il suo governo: rigido e quasi virile: il che significa che dopo il rilassamento e il disordine dei primi anni si restaurò, sotto l’influenza di Agrippina, un po’ di ordine e di disciplina. Agrippina, come Livia, come tutte le donne della grande nobiltà romana, era una brava massaia, parsimoniosa, vigilante, sempre attenta alle entrate e alle spese, agli schiavi e ai liberti; e quindi odiava gli uomini dei subiti guadagni, gli accollatari arricchiti troppo rapidamente, la gente che non si propone che di far quattrini. Noi sappiamo che essa cercò di impedire, quanto potè, le malversazioni del denaro pubblico, [162] con cui i liberti di Claudio arricchivano; noi abbiamo notizie, dopochè essa sposò Claudio, di processi fatti contro dilapidatori del pubblico denaro, mentre sotto Messalina non se ne sente mai discorrere; noi sappiamo infine che essa riassestò la fortuna della famiglia, che non è improbabile fosse stata molto scossa dalle prodigalità di Messalina. Questo vuol dire una frase di Tacito, colorita dalla solita malignità: cupido auri immensa obtentum habebat, quasi subsidium regno pararetur. «Badava ad arricchir la famiglia, sotto il pretesto di provvedere ai bisogni dell’impero». Quello che Tacito chiama «pretesto» era invece l’antico modo di intendere la ricchezza, come mezzo di governo e organo di potenza: la famiglia la possedeva ma per servirsene a pro’ dello stato.
Insomma Agrippina si sforzò di ravvivare nel governo le tradizioni aristocratiche, che avevano guidato e consigliato Augusto e Tiberio; e non solo si sforzò ma — il che può parer da prima più singolare — ci riuscì quasi senza lotta. Il governo di Agrippina parve da principio riuscire in ogni sua impresa. Non solo, dopochè Agrippina ha sposato Claudio, si sente in tutta l’amministrazione una maggior fermezza e coerenza; [163] non solo Claudio non sembra più in balìa dei liberti e delle fuggevoli impressioni; ma anche il tetro colore dei tempi si schiarisce per qualche anno, una certa concordia e tranquillità ritornano nella casa imperiale, nell’aristocrazia, nel Senato. Per quanto Tacito accusi Agrippina di aver fatto commettere a Claudio ogni sorta di crudeltà, certo è che sotto il governo di lei i processi, gli scandali, i suicidi diminuiscono; anzi le scandalose tragedie furono nei sei anni che Claudio visse con Agrippina, così poco numerose che Tacito, scarseggiandogli la materia preferita, sbriga la storia di questi sei anni in un solo libro. Agrippina, insomma, non trovò quasi opposizione; mentre Tiberio e perfino Augusto avevano dovuto, per governare l’impero secondo le tradizioni della antica nobiltà, combattere aspramente il partito della nobiltà nuova e modernizzante, di questo partito non si ha più notizia quando Agrippina fa rivivere lo spirito dei grandi antenati; il partito della vecchia nobiltà sembra dominare da solo, con Agrippina, la repubblica. Il che è probabile nascesse parte dal disgusto per gli scandali dell’ultimo decennio; parte dallo spossamento dei due partiti, dopo tanti processi e scandali e rappresaglie. Nelle due fazioni il [164] vigore pugnace affievoliva; una mollezza universale induceva tutti ad accettare l’indirizzo del governo; l’autorità dell’imperatore e dei suoi consiglieri acquistava forza, indebolendosi le forze di opposizione entro il Senato e nell’aristocrazia.
Le debolezze e le incoerenze, che avevano alonato sino allora di ridicolo il governo di Claudio, non si ripetevano più. Ma Agrippina pensava anche al futuro. Essa aveva avuto, dal primo marito, un figlio, che quando essa sposò Claudio aveva undici anni; e a proposito del quale Tacito ha fatto segno Agrippina delle sue più gravi accuse. Secondo quel che Tacito racconta, Agrippina sin dal primo giorno del suo matrimonio avrebbe macchinato di far del suo figlio — il futuro Nerone — il successore di Claudio, escludendo Britannico, il figlio di Claudio e Messalina; per riuscire non avrebbe risparmiato intrighi, frodi, inganni. Fa richiamare dall’esilio Seneca e lo dà come maestro al figlio; fa destituire i due comandanti della guardia pretoriana che erano creature di Messalina e ottiene che sia nominato in loro vece una sua creatura, Afranio Burro; circonda di spie e di insidie Britannico; riesce infine con mille intrighi e moine a far adottare, nell’anno 50, il suo figlio [165] da Claudio. Ma tutto questo racconto non è che un romanzo ricamato su una verità molto semplice. Intanto Tacito stesso ci dice che Agrippina era una madre severissima, all’antica cioè, trux et minax come egli dice; la quale non seguiva i modi molli della nuova educazione, troppo in favore, ormai, nelle grandi famiglie; e aveva allevato il figlio come si usava una volta con grande semplicità. Inoltre giova osservare che Britannico non aveva, come non l’aveva Nerone, alcun diritto alla successione di Claudio. Il principio ereditario non esistendo nel governo imperiale, il Senato era libero di scegliere chi volesse; la scelta era stata fatta sempre, sino ad allora nella famiglia di Augusto, solamente perchè in questa famiglia era più facile trovar persone che fossero conosciute, rispettate, ammirate dai soldati delle lontane legioni e preparate ai molteplici e difficili uffici della carica. Ma appunto per questo Augusto e Tiberio avevano sempre cercato di preparare alla carica suprema più di un giovane, sia perchè il Senato avesse una certa libertà di scelta, sia perchè ci fosse una riserva, se uno o falliva alle speranze, o moriva immaturamente, come tanti erano morti. Che Agrippina facesse adottare da Claudio il figlio suo, non [166] prova dunque che volesse escludere Britannico a vantaggio di Nerone; dimostra soltanto che voleva che il potere supremo non uscisse dalla famiglia di Augusto; e perciò intendeva preparare non un solo successore a Claudio, ma una coppia, così come Augusto aveva prima preparato Druso e Tiberio, poi Caio e Lucio Cesare. Nè si dimentichi, per persuadersi quanto Agrippina fosse savia, che Nerone era di quattro anni più vecchio di Britannico; e che quindi, nel 50, quando Nerone fu adottato, Britannico era ancora un ragazzo di 9 anni. Siccome Claudio già ne aveva 60, sarebbe stato imprudente non fare assegnamento, per la successione che sopra un ragazzo di 9 anni; mentre Nerone, più anziano di 4, sarebbe stato più presto in grado di aiutare il padre e di esercitare il potere. Agrippina era così lontana dal voler distruggere la discendenza di Claudio e di Messalina — sarebbe stata pazza, se l’avesse pensato — che prima dell’adozione aveva fatto sposare a Nerone Ottavia, figlia di Claudio e di Messalina. Ottavia era una donna virtuosa e all’antica, quale piaceva ai fedeli della tradizione; all’antica, Agrippina aveva fidanzati di buon’ora i due giovani, sperando di farne una coppia che fosse modello alle famiglie della aristocrazia.
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Agrippina insomma, nonchè indebolire la famiglia imperiale, distruggendo i discendenti di Messalina, voleva rinforzarla, introducendo il figlio suo. Nè poteva volere altrimenti, essendo donna di alto senno. Aveva veduto la famiglia di Augusto, così fiorente un giorno, esausta e quasi distrutta dalle atroci discordie dei suoi: poichè all’ardore della madre sposava una ponderazione che a sua madre era mancata, voleva cercar di riparare, quanto poteva, il male fatto dalla prima Agrippina e da Caligola. Tutte le speranze dell’avvenire erano ormai riposte in Britannico ed in Nerone. Riappariva in Agrippina il senno dei gloriosi antenati; e il pubblico fu così contento, che a lei furono decretati onori grandissimi, quali neppure a Livia: che portasse il titolo di Augusta, che potesse salire il Campidoglio in cocchio, onore questo concesso in antico solo ai sacerdoti ed alle imagini degli Dei.
La morte improvvisa di Claudio troncò l’opera così bene avviata. A 64 anni, in una notte di ottobre dell’anno 54, Claudio soccombè a un male misterioso, dopo una cena in cui aveva, come al solito, disordinatamente mangiato. Tacito pretende di sapere che Agrippina aveva somministrato del veleno a Claudio in un piatto di funghi; e che [168] dubitando che sopravvivesse, aveva fatto chiamare nella notte il medico Senofonte, il quale, d’accordo con lei, fingendo di voler provocare il vomito, gli aveva cacciato in gola una penna intinta in un potentissimo tossico, uccidendolo. Il racconto è così strano e così inverisimile, che Tacito stesso lo riferisce come una dicerìa (creditur); ma se nessun uomo sensato crederà che il capo di un grande Stato possa essere avvelenato in un baleno dal suo medico con qualche pennellazione sulla gola, ancor più difficile è spiegare per qual motivo Agrippina avrebbe avvelenato Claudio. Perchè — come Tacito pretende — Claudio da qualche tempo mostrava di prediligere Britannico a Nerone? Ma anche se fosse vero, il motivo sarebbe ridicolo. Augusto amava assai più Germanico che Tiberio: eppure alla sua morte il Senato scelse Tiberio e non Germanico, perchè Tiberio era meglio indicato come capo dell’impero, in quel momento. Quando Claudio morì, Britannico aveva 13 anni e Nerone 17; erano dunque tutti e due dei ragazzi; onde quel che si poteva e doveva temere per l’uno e per l’altro era che, vacando proprio allora la carica suprema, il Senato non volesse nessuno dei due, perchè ambedue troppo giovani. Ciò è così vero che [169] altri storici hanno supposto che Agrippina fosse venuta in discordia con qualcuno dei liberti più potenti di Claudio; e che, vedendo il debole Claudio tentennare, lo avrebbe tolto di mezzo per non far la fine di Messalina. Ma anche questo racconto è assurdo. La sposa dell’imperatore era così invulnerabile, che Messalina aveva potuto commettere impunemente per tanti anni tanti eccessi e tanti abusi, ed era caduta solo quando si era lasciata cogliere in flagrante cospirazione. Universalmente rispettata per le sue virtù, rivestita di onori sacri, Agrippina non aveva più nulla a temere, nè da Claudio nè dai suoi liberti.
No: questa accusa non è più seria e fondata, di altre consimili, che la credula storia ha registrate a carico di altri membri della famiglia di Augusto. Claudio, a 64 anni, morì troppo presto, per gli interessi della famiglia di Augusto che tanto stavano a cuore a Agrippina. Si poteva chiedere al Senato romano che facesse imperatore e comandante degli eserciti, uno dei due giovinetti nei quali sopravviveva ancora la stirpe di Augusto? La domanda era così arrischiata, che Agrippina — ce lo racconta Tacito — nascose per molte ore la morte di Claudio, e fece credere che i medici speravano [170] ancora di salvarlo, quando già era morto, dum res firmando Neronis imperio componuntur, mentre si disponevano le cose per assicurare l’impero a Nerone. Dunque, se tutto fu in fretta e furia disposto all’ultimo momento, Agrippina era stata anche essa sorpresa dalla malattia e dalla morte di Claudio; dunque non l’aveva provocata. Non è perciò difficile ricostruire gli avvenimenti. Sorpreso Claudio nella notte dal 12 al 13 ottobre da un violento e mortale malore, Agrippina vide subito il pericolo che, la famiglia di Augusto, non potendo offrire all’impero un uomo valido, il Senato rifiutasse di consegnare il sommo potere sia a Nerone sia a Britannico: unico scampo far pressione sul Senato, per mezzo delle coorti pretorie, affezionate alla famiglia di Augusto, quanto il Senato era avverso; presentare alle coorti uno dei due giovani, farlo acclamare non capo dell’impero, ma capo dell’esercito: il Senato sarebbe poi costretto a proclamarlo capo dell’impero, come era accaduto per Claudio. Ma quale dei due giovanetti scegliere: il figlio carnale o il figlio adottivo? Fu scelto Nerone: e per ambizione iniqua di Agrippina — dice Tacito. — Che Agrippina desiderasse piuttosto il figlio suo che Britannico a capo dell’impero, è [171] probabilissimo; ma questa non fu la ragione della scelta, che non sarebbe stata diversa nemmeno se Agrippina avesse odiato Nerone ed amato Britannico come la pupilla dei suoi occhi. Nerone doveva essere preferito a Britannico, perchè era quattro anni più vecchio. Se era già una temerità proporre al Senato di far imperatore un giovinetto di 17 anni, sarebbe stata una follìa offrire alle legioni un ragazzo tredicenne come capo supremo!
Il piano di Agrippina fu attuato, con il concorso di Seneca e di Burro, con risoluta rapidità e buon successo. Preparate le coorti pretorie, il 13 ottobre, a mezzodì, Nerone accompagnato da Burro, si presentò alla coorte che era di guardia al palazzo imperiale. Accolto con liete acclamazioni, fu messo in lettiga, portato al quartiere dei pretoriani, acclamato capo degli eserciti. Il Senato, sebbene a malincuore, confermò l’elezione. Avvenimento inaudito a Roma — a capo dell’immenso impero era stato posto un giovinetto di 17 anni, allevato all’antica, quindi già ammogliato — ma ancora, a quella età, interamente sottoposto alla tutela della madre severa; un giovinetto ignaro dei lussi, dei piaceri e delle eleganze di cui i tempi erano ormai invaghiti; un giovinetto [172] che sino ad allora, oltre l’ingegno vivace, e la docilità, non aveva mostrato nessuna virtù o nessun vizio particolare. Una sola stranezza era stata osservata in lui: che avesse studiato con maggiore zelo e profitto il canto, la pittura, l’intaglio e la poesia — arti frivole e inutili — anzichè l’eloquenza, arte necessaria per un’aristocrazia che doveva adoperare la parola nei comizi, nei tribunali e nel Senato quanto la spada sui campi di battaglia. Ma i più credevano a un capriccio di gioventù, che non durerebbe.
Agrippina, dunque, aiutata da Seneca e da Burro, aveva conservato nella famiglia di Augusto la somma carica dell’impero, ma era troppo intelligente da non capire quanto la sua ardita mossa fosse pericolosa, e da non prevedere che un imperatore di 17 anni sarebbe esposto ad ogni sorta di insidie, di invidie, di opposizioni palesi e nascoste. Essa provvide prontamente a temperar l’inconveniente e a parare il pericolo, con un altro accorgimento abilissimo: la quasi totale restaurazione della vecchia costituzione repubblicana. Seppellito Claudio, [173] Nerone si presentò al Senato e in un forbito e modesto discorso, inteso quasi a scusare la sua giovine età, dichiarò che di tutti i poteri esercitati dai suoi predecessori egli non voleva che il comando degli eserciti: tutti i poteri civili, giudiziari, amministrativi rimetteva al Senato, come nei bei tempi della repubblica.
Questa «restaurazione della repubblica» fu il capolavoro e l’apogeo di Agrippina. Nerone, il futuro tiranno, incominciava a governare con una solenne rinuncia di poteri a favore dell’aristocrazia, voluta dalla madre. Allucinati da Tacito, gli storici non se ne sono accorti; e non hanno capito il senso o il valore di questa rinuncia, in cui rinasce ancora una volta lo spirito di Augusto e di Tiberio. Per Augusto e per Tiberio l’impero apparteneva alla repubblica e questa all’aristocrazia: l’imperatore era il depositario temporaneo d’alcuni poteri della nobiltà, che alla nobiltà, al Senato, organo delle nobiltà, dovevano essere restituiti, quando le ragioni politiche che avevano imposto il trasferimento, venissero meno. Poichè quell’imperatore di 17 anni doveva far dimenticare così la sua giovane età come la pressione illegittima a cui le coorti avevano sottoposto il Senato, questa restaurazione non era una rinuncia [174] a privilegi e poteri inerenti all’autorità imperiale, ma una restituzione consigliata da una donna, che aveva appreso l’arte di governare alla scuola di Augusto. E difatti la mossa riuscì. L’illusione che l’autorità del princeps fosse un espediente temporaneo, imposto dalle guerre civili e che un giorno o l’altro cesserebbe perchè non più necessario, era ancora così tenace e profonda nell’aristocrazia romana, che ogni indebolimento dell’autorità imperiale era salutato come un felice ritorno dall’eccezione alle norme e alle regole. Il governo di Nerone incominciò dunque bene, tra le speranze più liete, i propositi più generosi, un universale rinascere della fiducia, che i primi atti del nuovo governo e i segni del futuro parevano giustificare. Agrippina continuava a vigilare, guidare, consigliare, riprendere Nerone, come prima dell’elezione, d’accordo con i due maestri del giovane, Seneca e Burro; Nerone obbediva docile al freno e alla frusta; il Senato ripigliava i suoi antichi uffici; governato da Seneca, da Burro e da Agrippina d’accordo con il Senato, e docilmente consenziente Nerone, l’impero pareva a tutti rifiorire e tutto lo Stato essere in così buon assetto, come non era stato mai. Ma per poco tempo. Se Agrippina aveva educato [175] il figlio all’antica, se l’aveva allevato con semplicità e durezza disusate, se l’aveva sposato di buon’ora, e non abdicava dall’autorità materna neppure in presenza dell’imperatore, il temperamento del figlio non era fatto per queste asprezze o discipline. Quel gusto per il disegno ed il canto, quella noia dell’eloquenza, che aveva mostrati sin da ragazzo, erano il piccolo seme da cui doveva svilupparsi con gli anni, con l’uso e l’abuso del potere, un furioso esotismo; uno di quei temperamenti riottosi, che ogni tanto prorompono dalle antiche aristocrazie, smaniosi di far l’opposto di ciò che impongono la tradizione, l’educazione e l’opinione. Tutti gli inconvenienti e i pericoli della antica educazione romana dovevano perciò apparire in Nerone: primo tra tutti, la fragilità dei matrimoni precoci. Agrippina l’aveva ammogliato di buon’ora con una giovanetta che per nobiltà di natali e virtù poteva essergli degna compagna: ma un anno dopo la assunzione all’impero il giovane diciottenne dimenticava il dovere per l’amore, la virtuosa Ottavia per la bellissima Acte, una liberta venuta dall’Oriente, una bellezza esotica di cui si innamorò al punto che un bel giorno manifestò il proposito di ripudiare Ottavia e sposare Acte. Era una pazzia di [176] ragazzo innamorato, perchè la lex de maritandis ordinibus vietava le nozze tra senatori e liberte. È quindi naturale che Agrippina si opponesse con veemenza: la bisnipote di Livia, la nipote di Druso, la figlia di Germanico, educata alle idee più rigide del romanismo, non poteva lasciar il figlio compromettere, con uno scandaloso concubinato, il prestigio della nobiltà. Ma il giovane resistè; se non ripudiò Ottavia, la trascurò, visse con Acte quasi fosse sua moglie; e invano Agrippina tentò di rompere questa catena, fabbricata da Afrodite. Il figlio incominciava a ribellarsi, perchè non era più il figlio soltanto, ma anche l’imperatore.
Era questo uno scoppio, prima o poi necessario. Troppo autoritaria, Agrippina commetteva l’errore di trattare l’imperatore come aveva trattato il figlio. Ma che lo scoppio avvenisse a quel modo, a proposito di un amorazzo, e con una asprezza che poteva presto generare l’odio, fu cosa funestissima. Agrippina aveva molti nemici nascosti. Tutti sapevano che essa vedeva di mal occhio il lusso, il rilassamento dei costumi, l’incremento delle spese pubbliche e private; che si sforzava di impedire gli sperperi, le malversazioni e tutte le spese voluttuarie dello Stato e della famiglia imperiale. [177] Se il rispetto, di cui le sue virtù e il paragone di Messalina l’avevano ravvolta; se la reverenza dell’imperatore per lei avevano obbligato sino ad allora i suoi nemici a nascondersi e a tacere, non fu più così quando le prime discordie tra lei e Nerone fecero intravvedere a molti la speranza di molestarla al riparo dell’autorità imperiale. Più Nerone si invaghiva di Acte, più si distaccava dalla madre; più si staccava dalla madre più il suo temperamento fantastico e ribelle si svelava agli altri e a se stesso; più l’egoismo suo si dichiarava, più si rianimava il partito della nobiltà modernizzante, sgominato dall’autorità di Agrippina. Il ricordo di Caligola e di Messalina impallidiva, il severo e parsimonioso governo di Agrippina incominciava a stancare; gli spiriti di nuovo aspiravano a novità.
Si schierarono di nuovo e di fronte, nella casa imperiale e nel Senato, i due partiti che dai tempi di Augusto dilaniavano Roma: il partito della nobiltà modernizzante, raccolto intorno all’imperatore, e il partito della vecchia nobiltà, che ebbe a capo Agrippina. Tacito ci dice che le più antiche e più rispettabili famiglie della nobiltà romana parteggiavano per Agrippina; e anche se avesse dimenticato di dircelo, l’avremmo potuto [178] supporre. Ma se Agrippina poteva esser l’anima del partito della vecchia nobiltà, questo aveva bisogno di un uomo, da opporre a Nerone, come un imperatore migliore di lui. Agrippina, che si considerava madre della repubblica prima che di Nerone, mise gli occhi su Britannico, che frattanto era divenuto un giovinetto più serio di Nerone. Si sussurrò anzi che essa meditasse di sostituire il figlio di Messalina al figlio suo. Quando, nel 55, Britannico morì improvvisamente, a un pranzo a cui assisteva Nerone. Fu avvelenato da Nerone, come dice Tacito? Sebbene nel racconto di Tacito non manchino i punti oscuri e inverisimili, pure questa volta l’accusa, se non è certa, apparisce un po’ più verisimile che le altre accuse sorelle. Certo è che la voce del veleno corse per Roma e fu creduta; e che la morte di Britannico fu cagione di un grande spavento e di una indicibile costernazione ad Agrippina: ce lo dice Tacito e il perchè non è difficile a indovinare. Nerone rimaneva ultimo e solo superstite della famiglia di Augusto; e quindi non era più possibile di opporsi a lui con profitto, contrapponendogli un altro membro della famiglia, capace di governare. Rapidamente il partito della nobiltà modernizzante acquistò forza; e la potenza di Agrippina decrebbe.
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Agrippina aveva potuto dominare e comandare sinchè era riuscita a mantenere sotto la sua influenza l’imperatore — fosse Claudio o Nerone. Dal giorno in cui Nerone sfuggì alla sua autorità, anzi si volse contro di lei, il suo potere doveva declinare, il suo partito assottigliarsi. Anche giovane e debole l’imperatore era, per forza di carica, più potente dei membri della sua famiglia; e questa volta Nerone era sorretto da un partito, che andava crescendo ogni giorno di numero e forza, perchè i tempi aspiravano, come sempre avviene nella prosperità e nella pace, a un governo più molle, più prodigo, più dolce, meno autoritario e severo. Agrippina però non si scoraggiò; onde per due anni ancora, pur in mezzo a complotti e intrighi e sospetti, conservò molto potere e potè rallentare i progressi del nuovo indirizzo di governo, sia perchè Nerone, se non obbediva più alla madre, era ancora troppo debole, incerto, impacciato dalla sua prima educazione, da rivoltarsi apertamente; sia perchè Seneca e Burro cercavano di conciliare la madre e il figlio. La rottura avvenne nel 58, quando Nerone dimenticò Acte per Poppea Sabina. Apparteneva costei ad una delle grandi famiglie di Roma, più alterate se non guaste dal nuovo spirito e dal [180] nuovo costume. Ricca, bellissima, avida di lusso e di piaceri, ambiziosa, essa innamorò Nerone, e per farsi sposare, precipitò con una spinta risoluta il lento mutamento che dal discepolo di Agrippina e dal nipote di Germanico traeva l’imperatore prodigo, dissoluto, festaiolo, innamorato della Grecia e dell’Oriente, smanioso di caligoleggiare sia pur un po’ meno pazzamente. Tacito ci racconta che rimproverava di continuo in Nerone i costumi semplici, le maniere poco eleganti, i gusti rozzi; gli citava ad esempio e a rimprovero la eleganza e il lusso di suo marito, che era l’ammirazione e il modello della nuova nobiltà; ne rifaceva insomma l’educazione, demolendo pietra su pietra l’opera paziente di Agrippina. Nè le bastò: diventò anche, con il suo piccolo cervello, la sua consigliera; lo persuase che l’autoritarismo parsimonioso della madre spiaceva al popolo, lo incitò ad affezionarsi le moltitudini, spendendo e spandendo. Ed ecco Nerone, che sino allora aveva governato poco o punto, imaginare a un tratto e proporre al Senato arditissime leggi a favore del popolo, proporre un giorno perfino che si abolissero tutti i vectigalia — ossia tutte le imposte indirette, dazi, pedaggi dell’impero. La legge sarebbe stata di certo applaudita; [181] e fu molto discussa in Senato; ma gli uomini esperti osservarono che le finanze dell’impero sarebbero rovinate e persuasero Nerone a non insistere. Ma Nerone, pur volendo far qualche riforma che giovasse al popolo, ordinò con un editto che le tariffe di tutti i vectigalia fossero pubbliche; che a Roma il pretore, nelle provincie il propretore e il proconsole decidessero sommariamente i processi contro gli appaltatori delle gabelle; che i soldati fossero esenti dai vectigalia.
Questo nuovo indirizzo alienò per sempre la madre e il figlio. Agrippina e Nerone non si videro quasi più; e Nerone, nelle poche visite a cui non poteva sottrarsi, per salvar le apparenze, procurava di non restar mai solo con lei. Ma la vittima della rottura fu la madre, perchè il pubblico, sempre smemorato, dimenticò quel che essa aveva fatto e la pace da essa ricondotta nello Stato per voltarsi a sperare ogni sorta di nuovi benefici da Nerone, che piaceva per la grandezza e la prodigalità; Poppea, incoraggiata dalla sua popolarità più arditamente insisteva perchè Nerone divorziasse da Ottavia e sposasse lei. Ma Agrippina non era donna da cedere così facilmente; e continuava a lottare contro il figlio, contro la sua amante, [182] contro la consorteria che ingrossava intorno al figlio, opponendosi sopratutto al ripudio di Ottavia, che fatto per capriccio, senza ragione nè di Stato nè di legge, sarebbe stato cagione di grave scandalo a Roma. E Nerone era ancora troppo debole e incerto; ricordava ancora troppo la lunga autorità della madre; la temeva troppo da ribellarsi apertamente e interamente. Alla fine Poppea capì che non diventerebbe imperatrice, sinchè la madre vivesse; e allora il destino di Agrippina fu deciso. Tanto essa disse e fece, eccitata dai nuovi amici di Nerone che volevano distruggere per sempre l’influenza di Agrippina, che lo persuase ad uccidere la madre. Non era soltanto una scelleraggine, era anche un’imprudenza, uccidere la madre, uccidere la figlia di Germanico, uccidere questa donna, in cui il popolo venerava un portento della fortuna, perchè nata da un uomo cui solo una morte precoce aveva impedito di essere il capo dell’impero; perchè sorella, moglie, madre di imperatori. Onde il modo della strage fu lungamente discusso affinchè restasse segreta: nè Nerone si risolvè se non quando fu trovato un mezzo di far sparire Agrippina, che parve sicuro.
L’aveva proposto il liberto Aniceto, il comandante della flotta, nella primavera del [183] 59, quando Nerone era a Baia, sul golfo di Napoli. Si costruirebbe una nave, che, come dice Tacito «si aprisse con arte da un lato»; se Nerone facesse salire Agrippina su quella nave, Aniceto penserebbe a seppellire in fondo al mare Agrippina e il segreto della strage. Nerone diè il suo consenso al diabolico piano; finse di voler riconciliarsi con la madre, la invitò da Anzio, dove ella era, a Baia, le usò ogni sorta di riguardi e cortesie; e quando, rassicurata dalle premure del figlio, Agrippina ripartì alla volta di Anzio, Nerone l’accompagnò sino alla nave fatale, teneramente abbracciandola. Era una sera placida e stellata. Agrippina stava ragionando con una sua liberta del pentimento del figlio e della riconciliazione, quando, scostatasi alquanto dalla sponda la nave, si tentò di far giocare il trabocchetto. Quel che successe, non è molto chiaro, perchè la descrizione di Tacito, in apparenza pittoresca, è confusa e imprecisa: par che la nave non affondasse così rapidamente, come gli artefici dell’insidia avevano sperato; e che nel parapiglia, Agrippina, pronta e risoluta, riuscisse a scampare, buttandosi a nuoto, mentre i sicari uccidevano a bordo la sua liberta, credendo di uccidere lei.
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Ad ogni modo è certo che Agrippina riuscì a salvarsi in una sua villa sulla costa, con l’aiuto — pare — di una barca che incontrò nuotando; e che mandò subito un suo liberto ad avvertire Nerone del rischio da cui, per bontà degli Dei e fortuna di lui, era scampata. Agrippina aveva indovinato la verità; ma per questo appunto aveva rinunciato alla lotta, spedendo quel messo per far capire, senza dirlo, che essa dimenticava e perdonava. Che cosa poteva fare essa, donna e sola, contro l’imperatore, che osava perfino levar la mano contro sua madre? Ma la paura impedì a Nerone di capire, appena seppe che Agrippina era scampata perdè la testa; la vide correre a Roma, denunciare ai soldati e al Senato l’orrendo matricidio, e fuori di sè per lo spavento, mandò a chiamare Seneca e Burro, per aver consiglio. Come restassero i due maestri del giovane, al terribile racconto, è facile immaginare: neppur essi capirono che Agrippina si sentiva e si dichiarava ormai vinta; anch’essi temevano che Agrippina provocherebbe il più terribile tra gli scandali che Roma avesse ancora veduto; e tacevano non sapendo che consiglio dare, o piuttosto non vedendo che un solo consiglio da dare, ma troppo grave e terribile, mentre Nerone supplicava [185] che lo salvassero. Alla fine Seneca, il filosofo umanitario, si volse a Burro e gli domandò che cosa avverrebbe, se si desse ai pretoriani l’ordine di uccidere Agrippina. Burro capì che Seneca, pur dando per primo il crudele consiglio, voleva lasciare a lui la responsabilità molto più grave dell’esecuzione, perchè egli, come comandante della guardia, avrebbe dovuto dar l’ordine della strage. Si affrettò quindi a dire che i pretoriani non avrebbero mai uccisa la figlia di Germanico: poi aggiunse che, se proprio si voleva toglier di mezzo Agrippina, il miglior consiglio era che Aniceto, il quale l’aveva incominciata, terminasse l’opera sua. Anche Burro dava il medesimo consiglio di Seneca, ma passando ad un terzo la responsabilità dell’esecuzione. Egli però aveva scelto questa terza persona meglio che Seneca, perchè Aniceto non poteva rifiutare. Se Agrippina viveva, egli correva il pericolo di diventare il capro espiatorio di tutto questo orribile e cruento intrigo. Aniceto infatti accettò. Fu imprigionato e messo in ceppi il liberto di Agrippina, per far credere che fosse stato sorpreso con armi nascoste in procinto di attentare, per incarico della padrona, [186] l’imperatore: poi Aniceto corse con un manipolo di marinai alla villa di Agrippina, la circondò, entrò nella villa, corse con due ufficiali sino alla camera dove distesa sul letto Agrippina stava discorrendo con una ancella e l’uccise. Tacito dice che quando Agrippina vide uno degli ufficiali snudare il ferro, gli disse di ferirla al ventre, che aveva portato il figlio.
Così morì l’ultima, e dopo Livia, la più insigne donna della famiglia di Augusto. Morì come un soldato, al suo posto, difendendo bravamente le tradizioni dell’aristocrazia e i principi secolari del romanesimo contro i tempi nuovi che volevano inorientare la antica repubblica latina. Morì per la sua famiglia, per la sua casta, per Roma senza nemmeno il compenso di essere ricordata con pietoso rispetto dai posteri, sacrificando in questa lotta non solo la vita, ma la fama e l’onore. Tale fu il destino comune di tutta questa, non saprei se fortunatissima [187] o sciaguratissima tra le famiglie del mondo antico, ad eccezione della coppia privilegiata che la incomincia: Livia ed Augusto. Non è possibile a chi capisce questa tragedia grondante di sangue, non inorridire della ferocia con cui Roma si vendicò di questa famiglia, perchè per ridarle la pace e conservarle l’impero, aveva dovuto innalzarsi un poco sopra la comune grandezza dell’antica aristocrazia. Gli uomini e le donne, i giovani e i vecchi, gli scellerati e i generosi, i savi e i pazzi tutti furono egualmente insidiati e perseguitati; e a tutti, tranne alla coppia dei due fondatori, ad Antonia e a quelli che ebbero come Druso e Germanico la ventura di morire giovani, essa tolse o la vita, o la grandezza, o l’onore; non di rado tutte queste cose insieme. Quelli che difesero il romanesimo come Tiberio e Agrippina, non furono odiati, perseguitati e infamati con minore furore di coloro che, come Caligola e Nerone, tentarono di distruggerlo; nessuno, quali fossero le sue inclinazioni e intenzioni, riuscì a farsi capire dai suoi tempi e dai posteri; comune destino di tutti, anche dei peggiori, fu di essere fraintesi e perciò calunniati; il destino delle donne fu ancor più terribile di quello degli uomini, perchè da esse i tempi esigettero, a compenso del [188] grande onore di far parte di questa privilegiata famiglia, tutte le virtù più rare e difficili, e quando le ebbero, non le ricompensarono neppur con il rispetto. A tutte esilio, infamia, morte!
Per quale ragione? Come furono possibili tante sventure e un così spietato svisamento della tradizione? È veramente un peccato che la posterità abbia sempre studiata e meditata questa immane tragedia sulla rozza e superficiale falsificazione di Tacito. Perchè pochi episodi della storia possono far meglio capire, specialmente alle generazioni favorite da tempi prosperi e facili, che tragica cosa è la vita, quando alcuno la prende sul serio. Non lo sa chi non ha vissuto in tempi in cui un vecchio mondo muore e uno nuovo nasce; ma il primo è ancora abbastanza forte da resistere agli assalti dell’altro e questo, pur crescendo, non può ancora annientare il mondo sulle cui rovine soltanto potrà prosperare. Gli uomini devono allora, a ogni momento, risolvere dei problemi insolubili, e tentare delle imprese altrettanto necessarie quanto impossibili; la confusione è negli spiriti come nelle cose; l’odio separa coloro che dovrebbero aiutarsi perchè tendono al medesimo fine; e la simpatia avvince talvolta quelli che [189] sono costretti a combattersi; le donne soffrono più ancora degli uomini, perchè ogni mutamento che avvenga nella loro condizione sembra, e ragionevolmente, più pericoloso. Vestale del genio della specie, che non deve addormentarsi mai, la donna deve essere più ligia al passato, più savia, più virtuosa dell’uomo; possedere e conservare più che l’uomo, le virtù da cui dipende la stabilità della famiglia e l’avvenire della razza. È questione, per ogni tempo, di vita o di morte. Ma appunto per questo nei tempi in cui un mondo muore e un altro nasce, e tutte le idee si confondono, e tutti gli sforzi riescono a risultati inattesi, e chi vuole conservare spesso distrugge, e la virtù pare vizio e il vizio virtù, la donna più difficilmente compie la propria missione, e più esposta al pericolo di smarrir la sua via, di snaturare il proprio compito, di fallire al proprio destino, e perciò di essere infelice.
Tale fu la sorte della famiglia di Augusto; tale la sorte delle sue donne. I Romani o gli stranieri che visitano Roma, spesso vanno, nei pomeriggi delle domeniche, ad ascoltar della buona musica in una sala, che si chiamava sino a poco tempo fa il Corea. Questa sala è costruita sopra un antico rudere romano di forma rotonda, che chiunque [190] può vedere entrando. Il rudere è l’avanzo della tomba che Augusto eresse, sulla via Flaminia, a sè e alla famiglia. Quasi tutti i personaggi, di cui abbiamo narrato qui la storia, furono seppelliti in quel mausoleo. Se qualcuno tra coloro che hanno letto questa storia, si troverà un giorno a Roma, ad ascoltare un concerto nell’antico Corea ora rinominato Augusteo, rivolga un pensiero a queste lontane vittime di una storia terribile; e pensi che lì, dove in pieno ventesimo secolo, ode scorrere i fiumi sonori della musica più melodiosa, lì soltanto i membri della famiglia di Augusto, poteron trovar scampo, venti secoli fa, dalla loro insidiosa grandezza, e riposare alla fine, per la prima volta, fatti cenere, in pace.
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PREFAZIONE | Pag. V | |
I. | — La donna in Roma antica | 1 |
II. | — Livia | 29 |
III. | — Le figlie d’Agrippa | 59 |
IV. | — Tiberio e Agrippina | 93 |
V. | — La moglie di Caligola e il matrimonio di Messalina | 125 |
VI. | — La madre di Nerone | 157 |
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.