The Project Gutenberg eBook of Storia degli Italiani, vol. 14 (di 15) This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Storia degli Italiani, vol. 14 (di 15) Author: Cesare Cantù Release date: February 3, 2024 [eBook #72866] Language: Italian Original publication: Torino: Unione Tipograficp/o-Editrice Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 14 (DI 15) *** STORIA DEGLI ITALIANI PER CESARE CANTÙ EDIZIONE POPOLARE RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI TOMO XIV. TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1877 LIBRO DECIMOTTAVO CAPITOLO CLXXXIX. Principi e popoli dal 1830 al 46. Aspirazioni e trame. Come sempre, i paesi in cui si ristabilì l’armonia fra l’autorità e gli obbedienti furono quelli ove non si lasciò corso alla riazione dopo le rivoluzioni del 1831. Tale fu la Toscana. Ferdinando III granduca dal trilustre esiglio (se esiglio poteva chiamarsi la dimora in paese di sua nazione) non riportava rancori e vendette; vedendo la memoria di suo padre, benedetta in Toscana, non aveva che a seguirne le orme, al che lo inclinava pure la mitissima sua indole. Ritrovava spento il debito antico, sistemata la magistratura, ricco il pubblico dominio; sicchè molti beni poteva effettuare chi avesse saputo innestare le utili novità col sistema leopoldino. Ma crogiolandosi in questo, si tirò via tolleranti e fiacchi, in una mansuetudine senza progresso; riponendo il liberalismo i ministri (di cui era principale il Fossombroni) nell’opporsi ai preti e a Roma, la gente colta nel far epigrammi contro i ministri. Ferdinando aprì nuove strade; fece compiere il catasto sopra la triangolazione eseguita dal professore Inghirami; istituì a Firenze un archivio centrale, l’uffizio dello stato civile, una casa di lavoro, l’istituto della Nunziata perla maternità e a Pistoja un altro, a Pisa un’accademia di belle arti; introdusse i pompieri; migliorò i palazzi e le ville reali. Passeggiava famigliarmente le vie, andava a visitare ne’ palchetti le signore, e poichè le persone che vi si trovavano levavansi e teneansi in piedi, egli diceva alla padrona: — E perchè non permettete a questi signori di sedersi?» Un abate scontratolo così, andava ripetendogli: — Oh altezza! che consolazione fu per me il vederla — Oh grazie! — Ah non le so esprimere quanto sempre lo desiderassi — Sta bene: le son obbligato — Davvero ho sempre sperato che dovesse venire questo giorno — Ed io non lo sperava più». Vantandosi in sua presenza i molti miglioramenti introdotti dai Francesi durante il loro governo, proruppe: — Capisco saria stato bene che fossero rimasti dieci anni di più». Soldati non volea, perchè nè del popolo avea paura, nè contro l’Austria osava reluttare, benchè neppur volesse soffrirne la tutela; i Carbonari conobbe ma non volle punire, accogliendo anzi i profughi del resto d’Italia. Non ci ricorda che per verun principe siansi scritte parole affettuose (e undici anni dopo il fatto) come queste d’un galantuomo qual fu Emanuele Repetti: «I cittadini, entrati in sollecitudine per l’imminente pericolo, taciturni erravano per le vie, ingombravano i sacri templi, sogguardavansi, interrogavansi, e penetravano negli atrj stessi e nelle sale del regio palazzo smarriti, sparuti, affannosi, desolati. Niun’altra premura, nessun affare domestico o civile, tutti i passi, tutte le lingue, tutte le orecchie a questo solo erano rivolte, di questo solo occupate! Il pallore di un volto nell’altro si diffondea: nè potrei agguagliar con parole quello ch’io stesso vidi, e nell’intimo petto sentii fra il gemito e il tumulto della reggia e del popolo. Suonò l’ultima ora, e il 18 giugno 1824 fu giorno di pianto per tutti; e dico per tutti perchè anche gli stranieri medesimi che si trovarono presenti a così trista ed inusitata scena, rimasero talmente commossi, che proruppero pure al pari di noi in tristi lamenti ed in sincere lagrime»[1]. Il figlio Leopoldo II succedutogli (1824 giugno) con pari bontà, favoriva quel vivere amichevole, quella cittadinanza riposata che della Toscana faceva un’Arcadia. Intanto le belle arti, la gentilezza, il clima, la favella continuavano ad attirarvi forestieri; studiosi l’Università di Pisa, cui s’invitavano professori d’ogni paese; e i collegi di Siena e di Prato; capitali il ferro dell’Elba, l’acido borico dei Lagoni, e la libertà di commercio; si estesero le scuole normali, di mutuo insegnamento, di sordimuti; presto s’introdussero asili infantili, casse di risparmio. Il popolo v’è per indole calmo, devoto, operoso nella povertà; il clero allevato nelle opinioni pistojesi, tiensi ligio al Governo; i ladri grossi non v’erano gloriati, se anche non sempre puniti; i pensatori, sceveri dalla Corte che non gli ascoltava ma li rispettava, ambivano all’aureola popolare, idoleggiando il meglio ne’ tempi anteriori alla rivoluzione, zelando le istituzioni leopoldine, e nominatamente le leggi costituzionali, il diritto di neutralità, il libero traffico, l’opposizione a Roma; i più aspiravano ad uno statuto con leggi e finanze discusse, assennati però o coraggiosi abbastanza per non avvolgersi in congiure. Carlo Troya, Pasquale Borelli, Pietro Colletta, Anton Raineri, Gabriele Pepe, Giuseppe Poerio da Napoli, Nicolò Tommaseo e Giuseppe Montani dalla Lombardia, Nobili e Antinori da Modena, Leopardi da Romagna, rifuggiti colà e uniti a giovani del paese, Giovanni Poggi, l’eloquente Salvagnoli, i giuristi Francesco Forti, Marzucchi, Capei, l’educatore Lambruschini, Ridolfi che nel podere di Meleto preparava un modello di dotta agricoltura, alimentavano la vita intellettuale, e col Capponi, col Niccolini, col Ciampolini, col Mayer, col Ricci, nella società de’ Georgofili esercitavano il discorso e l’attenzione sopra quistioni vitali[2], e collaboravano all’_Antologia_, giornale fondato da Pietro Vieusseux nizzardo, nel cui gabinetto letterario nessun giornale era proibito. Agitando francamente i problemi civili, coll’autorità della dottrina consacravano le massime liberali, ma neppur essi possedeano quell’accordo che dà forza. Alcuni, come il Montani, v’aveano importato il romanticismo colle idee del _Conciliatore_; altri, come Mario Pieri, abbarrati nella venerazione de’ vecchi, repulsavano dottrine che giudicavano codarde perchè tedesche: chi idolatrava l’êra napoleonica come il Colletta; chi ambiva le istituzioni municipali della passata Italia; chi aspirava all’unità dell’Italia futura: quali col Niccolini professavansi ghibellini con Dante e Machiavelli; quali con Troya e Tommaseo inserivano l’innesto neoguelfo: tutti desideravano un Governo parlamentare, dove sfoggiar l’eloquenza, se non la sapienza civile: assideano la libertà all’ombra dei troni; pure non mancava chi la ponesse lontano da quelli; e nell’_Antologia_ penetrarono scritture di Mazzini e corrispondenze radicali. I ministri non ingelosivano di manifestazioni, inefficienti su popolo tanto quieto: e il Fossombroni, insigne matematico e filosofo scettico ed epicureo, che zelava l’indipendenza della Toscana, ma nell’interno credeva giovasse il governare il meno possibile, persuaso che _il mondo va da sè_, rispondendo vaghe parole, e colle arguzie sviando le serie domande, niuna cura davasi d’eserciti, niuna del morale rigore, niuna degl’interessi d’Italia; buon fattore in casa, e basta. L’Austria potea pretendervi a un’ingerenza parentale, ma nel Governo non ne aveva alcuna; ed anzichè odiare questa dinastia come tedesca, gl’italiani le sapeano grado della tolleranza e dolcezza. Il principe, patriarcalmente buono, era assente quando avvennero le rivoluzioni del 31; e sul territorio suo si lasciarono liberamente passare i fuggenti da Romagna. Quando egli tornò da Dresda, gli fu preparata una colonna con iscrizione del Giordani, ove si rammentava come egli «in sei anni di regno accrebbe la pubblica prosperità, alleviò d’un quarto la gravezza de’ terreni;... liberò i macelli dal privilegio, e dall’importuno divieto il ferro lavorato dagli stranieri; finì l’opera lodata del padre in val di Chiana; cominciò gloriosamente opera di grande e di buon principe nella maremma grossetana; condusse in cenquaranta giorni per cinque miglia di canale nuovo l’Ombrone; ordinò ampia strada per congiungere la maremma di Pisa e di Grosseto; imprese di congiungere Toscana al mare Adriatico; alle gentili fanciulle con larghezza regia e paterno amore procurò educazione più degna del secolo; e nella scientifica spedizione d’Egitto, associò il nome italiano alla gloria di Francia». Eppure il Comitato rivoluzionario di Parigi tentò sovvertire anche questo paese, per rinvigorire i movimenti delle limitrofe provincie. Alquanti giovani, gli avanzi dell’esercito napoleonico, Modenesi e Romagnuoli rifuggiti vi diedero ascolto. Si limitarono a combinare una clamorosa dimostrazione, in teatro chiedendo la costituzione: il principe avutone avviso, non mancò di recarvisi e passeggiare in platea come al solito; l’orditore non vi comparve, gli adepti si tacquero; ma sparsero che ogni angolo fosse irto di spie e di sgherri. L’_Antologia_ eccitava sospetti non tanto per gli articoli suoi proprj, quanto per la corrispondenza che teneva con Italiani d’ogni parte: non che fosse esclusa dai dominj austriaci, molti Lombardi vi contribuivano; ma la _Voce della verità_ non cessava da Modena di rivelarne, infistolirne, ribatterne le asserzioni e le dottrine; poi un articolo sulla Russia provocò una rimostranza da parte di quell’ambasciadore, e bisognò soddisfarvi col sopprimere quel giornale, e mandar via Nicolò Tommaseo. La Toscana mosse rimostranze, tutta Italia lamenti, come si trattasse d’una pubblica istituzione; nobile sintomo, dove il torto fatto ad uno si considera come comune. Il Governo compensò il Vieusseux, e ne attestò dispiacere; ma da quel punto parve liberalità l’opposizione; due accreditati personaggi (Capponi e Ridolfi) rimandarono le loro chiavi di ciambellano: il granduca le tenne nel suo gabinetto finchè il tempo ebbe smorzate le ire; allora ebbe a sè i due marchesi, e gliele restituì. Sono tratti di bontà che resistono all’epigramma e alla diatriba. E di epigrammi lo bersagliava il Giusti, chiamandolo «toscano Morfeo, che asciugava tasche e maremme»; e il granduca scontratolo per via — Ehi (gli disse), quanto alle tasche dite vero, ma le maremme non riuscii. Voi però per mio conto vivete sicuro; ma se gli altri principi che colpite domandassero di farvi tacere?» A tal uomo poteasi voler male? Gian Domenico Guerrazzi, avvocato di Livorno, immaginazione bollente, venuto a Firenze per intendersi co’ cospiratori e, a dir suo, per chetarli, fu arrestato ma subito dimesso. Aveva egli allora pubblicato la _Battaglia di Benevento_ (tom. XIII, p. 466) sbuffante contro ogni ordine, ogni autorità. Tutti sapevano di chi fosse, benchè stampata anonima; all’autore fu trovato il manoscritto; eppure si mostrò credergli l’avesse copiato e corretto per proprio esercizio, nè si procedette ad altra molestia. Ma il Guerrazzi passava per archimandrito della Giovane Italia, allora insinuatasi anche in Toscana, per cui Marmocchi ed altri furono messi in fortezza, e dopo quattro mesi rimandati senza processo. Colà Guerrazzi scrisse l’_Assedio di Firenze_; e quel furore lo fece guardare come un satana, bello e formidabile. Altri lavoravano a sollecitazione del Walewski, figlio naturale di una Napoleonide, e la vigilia di San Giovanni sparsero un programma per chiedere un re costituzionale d’Italia; ma il Governo si accontentò di ammonire alcuni, alcuni mandar via. Fatto appena credibile fra la civiltà odierna, a Livorno si stabilì una banda della _fusciacca rossa_ o dei _bucatori_, che si proponeva di non finir giorno senza sangue umano, e per le vie coglieva il primo che le desse in mano[3]. Neppure contro siffatti spiegossi tutto il rigore, e dovendosi mandarne a morte uno convinto d’assassinio, dal fanciullino di Leopoldo si fece sporgere la domanda di grazia al padre, che l’esaudì, e ne fu lodato; quasi sia bontà tollerare il delitto. Per secondare altre dimostrazioni chiassose, il principe congedò il Ciantelli, odiato ministro di Polizia, e n’ottenne una serata d’applausi. Così innestavasi la febbre politica al popolo colle piazzate, arma dei deboli, e delle quali non erasi ancora conosciuta la spaventevole portata. Leopoldo non mostrò mai paura de’ popoli; creò la guardia urbana, sebbene poi abbia dovuto abolirla; diminuì d’un quarto l’imposta prediale; mostrò cuor di padre sì nel cholera che infierì a Livorno, sì nella terribile inondazione dell’Arno nel 1844, sì nei tremuoti che il 46 imperversarono fra Orbitello e la montagna di Pistoja. Seppe schermirsi al pari dalle insinuazioni retrive e dall’onnipotenza dei ministri, istituendo delle soprantendenze, che a lui stesso recavano gli affari in privato consiglio, e affidandole a persone reputate. L’ordinamento municipale conservò, benchè inceppato coll’attribuire le nomine al principe od al ministro. Nel 1838 si riformava la procedura, introducendo la pubblicità, la pena di morte infiggendo sol quando cadano conformi tutti i voti: valenti giureconsulti ebbero incarico di rivedere le leggi. Colla spesa di sette milioni si compì il catasto; si aperse l’Appennino colle strade di Lunigiana, d’Urbania, di val Montone; si cinse Livorno di più vasta circonvallazione; si mandò Ippolito Rosellini compagno alla spedizione di Champollion in Egitto (t. XIII, p. 485). Nelle maremme verso il mare Ligure impigrano i fiumi sovra paesi, fiorentissimi un tempo, ora così spopolati, che la maremma sanese sovra novecennovanta miglia quadrate conta appena ventisettemila abitanti all’inverno, quindicimila l’estate. Il principe pigliò passione ad asciugarle, e nel 1830, al 26 aprile con gran festa s’introdusse l’Ombrone nel gran canale; sicchè, diffondendosi le feconde torbide sui bassi piani, ricomparvero campi e biade e popolo; il limaccioso Prelio, l’isola di Pacuvio furono riabitati, e ripristinata la via Emilia tra Pisa e Grosseto; e sebbene non fosse ordita nel miglior modo e non riuscisse ai più sperabili intenti, e dopo consumati sette od otto milioni che Ferdinando aveva lasciati nel tesoro, se ne buttassero altri, e contro il costume de’ Lorenesi si incontrasse un debito di quaranta milioni, che non si volle pareggiare con rincarare le imposte; il fare di quelle opere accusa o beffa al principe è miserabile uffizio. Ma se il liberalismo nel secolo passato predicava ai Governi _Lasciate fare, lasciate passare_, nel nostro vuol che essi facciano tutto, e al popolo pupillo somministrino gli alimenti, l’educazione, la direzione. Quando sentiamo tuttodì accusare il Governo toscano che mancasse d’iniziativa, apparisse negligente piuttosto che dolce, in paese assonnato piuttosto che tranquillo, ci torna a mente la favola delle rane chiedenti un re. Lucca era stata attribuita all’infante di Parma, finchè Maria Luisa morendo non lasciasse il ducato de’ suoi avi. La Spagna repugnò lungamente a questo baratto; talchè Maria Luisa, ch’era stata regina d’Etruria, tardò un pezzo a giungere nel temporario suo dominio, lasciando intanto i Tedeschi fare e disfare. Venutavi, non sapea limitare la sua splendidezza alla povertà del paese ed al costituzionale assegno di lire quattrocentomila: e se colle largizioni si faceva amici, molti avversò col rintegrare la libertà religiosa, i possessi di manomorta, i frati; e i disavvezzi se ne adontarono in modo, che parve una fortuna il succederle del figlio Carlo Lodovico (1824). Anche qui rane chiedenti un re. In paese dato a temporario usufrutto, nè il principe poteva introdurre buone istituzioni, nè i popoli prendere affetto a questo signore temporaneo, nessuno avviare que’ miglioramenti, la cui più necessaria condizione è la stabilità. Il duca poi, singolare mescolanza di qualità, nè al bene nè al male perseverava; accolse i profughi del resto d’Italia; e più d’una volta pensò attuare la costituzione del 1805, ma i vicini non soffrivano in Italia questa disformità. Intanto egli davasi aria di gran principe, e in viaggi e dissipazioni logorava l’assegno non solo, ma i beni proprj, e riduceasi a contrarre debiti, e per pagarli rovistar antiche ragioni dello Stato, e mercatare la ricca pinacoteca. Favoriti forestieri il menavano, e principalmente l’inglese Ward, di bassa estrazione e non ordinaria capacità. Fu sin detto che il duca avesse a Trieste partecipato alla comunione protestante, e un prelato speditogli da Roma il richiamasse alla cattolica, senza grand’urto delle sue convinzioni o prima o dopo. In Piemonte ai senati di Torino, Casale, Genova, Nizza, composti di membri eletti dal re ed amovibili, competevano i processi degli alti dignitarj, le contestazioni fra privati e comunità, ciò che concerne statuti, privilegi, usi; l’applicare le pene, dopo l’istruzione dei tribunali di provincia; l’appello delle sentenze e la cassazione: dovevano pure interinare gli editti e le patenti dell’autorità. Ma seguivano giurisprudenza differente, sicchè in uno condannavasi una causa che nell’altro avea trionfo. In ciascuna provincia era un tribunale: ai consolati spettavano gli affari di commercio. I governatori generali esercitavano l’autorità militare, e da essi dipendevano i comandanti di piazza. Dappertutto poi un’apparenza guerresca, soldati e divise, e continuo batter di tamburi, e riviste, esercizj, collegi militari. Arma odiata erano i carabinieri che esercitavano la Polizia. Questo nome richiama uno de’ peggiori flagelli moderni, non ispeciale al Piemonte più che ad altri paesi. Fatta onnipotente, impieghi, onori, cattedre dipendeano dalle sue informazioni, secrete, irreparabili; essa stiticava i passaporti; essa le cittadine dolcezze attossicava col far credere l’uno dell’altro traditore, affinchè, temendoci a vicenda, non acquistassimo la potenza della concordia; essa indagare arcani per propalarli a vitupero o a strazio de’ suoi odiati, e non trovandone, inventarli; essa sorreggere gl’infimi perchè aduggiassero o perseguitassero il merito sodo e i caratteri intemerati[4]; essa violare impudentemente il segreto delle lettere; essa tenere in lunga prigionia per semplici sospetti, poi rilasciare senza tampoco addurre un titolo. Forse v’era chi, spinto dal bisogno o dal vizio, intercedea di vender l’anima; altri la vendeano per voluttà, per ambizione, per vendetta: ma la Polizia riuscì a persuadere che lo spionaggio fosse estesissimo, oculatissimo, e patrioti ingannatori ripeterono una calunnia, che in fatto dispensava la Polizia dalla costosa vigilanza; che contaminò il carattere morale de’ cittadini; e che mostrandosi tanto vili, sarebbe bastata a eternare le catene, se non fosse destino che costoro riescano a fare aborrire ma non a salvare i Governi. Disformità di costituzione amministrativa portava alle provincie la diversa derivazione; in quali stabilito il censimento, in quali no; estesissime le une, anguste le altre; queste soggette all’imposizione prediale, non quelle; alcune conservarono privilegi antichissimi, e fino diritti regali, e massimamente la Savoja teneva degli ordini antichi, francese di lingua e d’origine, con poca simpatia per l’Italia. Della tenuità delle imposte non accorgevasi la popolazione, perchè non avea provato di peggio: ma sentivansi gravosi i dazj, sconvenienti e mal ripartite le gabelle, il commercio e l’industria angustiate nelle fasce tradizionali, ignorata la potenza del credito, indicate come utopie le grandi opere pubbliche. I maggiori depositarj del potere erano scarsi di lumi e repugnanti al movimento; lenti e materiali gl’intermedj. A chi v’andasse dalla Lombardia, faceano urto la severità de’ doganieri, l’abbondanza di frati, scomparsi di qua dal Ticino, la sofisticheria della censura civile ed ecclesiastica; soprattutto quell’aristocrazia, non capace di contrapesare la Corona, eppure orgogliosa, esclusiva, collegata fra sè e col clero, ingerentesi in ogni affare, perchè aveva ricchezza, aderenze, impieghi civili e militari, cariche di Corte che portavano privilegio di fôro. Il medio stato che vuol chiamarsi popolo, la guardava in sinistro; ne ripeteva alcuni motti forse d’età più lontane; la bersagliava di epigrammi, raccolti poi dal migliore poeta vernacolo (Brofferio): ma non confessavasi che quei nobili erano finamente educati, e redimeano l’alterigia cogli studj e colla cura delle pubbliche cose; l’educazione militare salvava dalla sprezzante inettitudine de’ lombardi Sardanapali. Molti poi de’ signori rimaneano esuli, altri in broncio colla Corte perchè o negletti o perseguitati dopo il 1821, o parenti di perseguitati. Tra gl’incensi e le denigrazioni, trapela che Carlalberto secondò il movimento, a cui universalmente portavano la lunga pace e le attive intelligenze. Giusto e rispettoso dell’avere altrui, forse unico de’ principi italiani leggeva, e potea così misurare la marea delle opinioni; conosceva gli scrittori paesani, e legavaseli con posti e decorazioni: ma non era popolare, nè mostrava famigliarità se non forse coi militari; alle sue udienze arrivavasi traverso un difficile cerimoniale; ai suoi circoli ammetteansi solo veri nobili, non gl’impiegati, fosse anche il segretario generale che ogni mattina gli presentava le carte da firmare. Sollazzevole e galante in gioventù, si raccolse poi alla devozione e a tale ascetismo, da non gustare più che uova, pesce, riso (Cibrario). Bisognoso d’appoggio come chi diffida di sè, rimettevasi ai ministri; e l’opinione, sempre matta ne’ suoi giudizj, presentava come progressisti il Villamarina ministro della guerra, il Barbaroux della giustizia, il Pralormo, poi il Gallina delle finanze; e retrogradi il Lascarena ministro della Polizia e dell’interno, il La Margherita succeduto al La Tour nel dirigere gli affari esterni, e che più tardi espose la propria politica nel _Memorandum_, singolare rivelazione dell’indole e degli intenti di Carlalberto. Del quale la persona altissima ma scarna e gracile parea ritrar l’anima, formata ad elevate cose, eppur sempre barcollante fra il bene e il male, la spinta e la resistenza. L’opposizione de’ ministri portavalo a continua peritanza di atti, a incompleti provvedimenti, fra il bisogno di riparare gli errori giovanili, e la paura che dalle sue concessioni liberali l’Austria non traesse pretesto a sminuirne l’indipendenza, o il soverchiasse la scossa popolare, quasi dai fatti del 21 presagisse quelli cui sarebbe trascinato di poi[5]. Introduceva istituzioni benefiche e provvide, case penitenziarie e d’istruzione, nuove strade, costosissime in paese di tanti torrenti; col codice civile abolì gli statuti locali, e ridusse ad unità la giurisdizione; nel criminale, ricalco del francese, spietato e d’intolleranza religiosa, conservava esorbitanti pene, prodigalità della capitale, gli asili e le immunità ecclesiastiche, gli arbitrj de’ giudici, obbligatoria la delazione fino contro i parenti ne’ reati politici; poi mancava il codice di procedura, senza cui è inutile la bontà degli altri. Vagheggiava le armi, sicchè de’ settantacinque milioni d’entrata, ventisette consumava nell’esercito: e credeva averlo poderoso perchè gli offriva parate e rassegne; eppure nel codice militare costituì la pena delle verghe sino a mille ottocento colpi. Profittò della stupenda postura di Genova, sebbene questa non affezionasse alla sua obbedienza: mandò la prima nave italica di guerra a fare il giro del globo. Migliorò l’Università, ma non vi tollerò una cattedra di storia moderna: istituì l’Ordine del Merito Civile, ma bisognava domandarlo e addurne titoli, e i decorati giuravano di non istampare fuori di Stato nè contro la religione, e poteano presentarsi ai circoli del re. Concedeva il ritorno a molti profughi, ma non diede mai l’amnistia. A Pellico permise di pubblicare le _Mie prigioni_, ma non gli concesse la cattedra d’eloquenza che pur desiderava, e dell’Ordine del Merito Civile gli assegnò la pensione, non le insegne. Abolì nel codice le sostituzioni fedecommissarie, e in un editto le permise. Pose un Consiglio di Stato, ove si discuteano le leggi, i bilanci, i contratti, tutte le operazioni di finanza, ma affatto dipendente da sè, e delle moltissime proposte poche furono adottate. Non esisteva una buona statistica, con un catasto su cui regolare l’equa distribuzione delle gravezze; e continuavasi l’imposta personale senza riguardo alla condizione del contribuente. Gian Carlo Brignole nel 1824 avea cominciato a introdurre ordine e chiarezza nella finanza, e negl’impiegati l’amore del proprio dovere, e diceva: — Non lo spendere mi rincresce, ma lo spender male». Dappoi l’avvocato Gallina in quel ministero fu odiato perchè destro negli artifizj di cavar denari. Però le finanze trovavansi in un assetto invidiabile[6]; poi il re custodiva nelle casse un ingente prestito fatto nel 1831 e nel 42, quando pareva imminente la guerra; modo or riprovato, ma che gli offrì il mezzo d’intraprendere le strade ferrate senza i giuochi dell’agiotaggio. Nell’isola di Sardegna eransi conservati i giudizj come sotto la Spagna, cioè una regia udienza in Cagliari e il supremo consiglio a Torino, il quale avea voto consultivo nelle leggi concernenti l’isola, e suprema autorità sulle decisioni dell’udienza. Antiche istituzioni vi duravano, i Monti di soccorso, che in ogni città e capoluogo somministravano grani per riseminare i campi; e il bargellato, milizia urbana per assicurare le campagne, composta di possidenti sotto un capitano eletto dal vicerè. Già Carlo Felice v’aveva aperto fra i i due capi una strada di ducentrentacinque chilometri, colla spesa di quattro milioni, di suprema efficacia in paese bollente di gelosie: ma mentre i re precedenti aveano cercato il meglio dell’isola conservandone le forme datele dagli Spagnuoli e connaturate, Carlalberto la ridusse a nuovo assetto politico e sociale. Abolì la feudalità, togliendo ai baroni la giustizia e il diritto a servigi di corpo, e sciolse i feudi della Corona; ai numerosi cavalieri tolse il privilegio del fôro, e alle chiese gli asili; introdusse carceri, quartieri, sistema decimale di pesi e misure, attenzione alle foreste. Abolita la servitù del _pabarile_ che impediva la piena proprietà, cresceano i fondi chiusi; e sebbene i proprietarj stessi vi siano negligenti, o i pastori, insofferenti di quell’inusato ritegno, distruggessero le chiusure, rimetteansi a coltura tre quarti del terreno ancora sodo, utilizzando quella incomparabile vegetazione e l’eccellente bestiame, e cresceva la popolazione da trecencinquantadue a cinquecentoventicinquemila teste. Quelli che scapitavano dal cessare degli antichi abusi, levarono lamenti; il popolo non credea che la perdita de’ privilegi fosse compensata dall’eguagliamento dei diritti; tanto più che non s’erano alle nuove forme acconciati gli ordini antichi, e il despotismo vicereale e la trapotenza degl’impiegati faceano sentire i pesi più de’ vantaggi; le carestie stesse sopravvenute parvero colpa del Governo. L’ambizione antica nella Casa di Savoja di mettersi a capo della penisola tutta non mancava a Carlalberto, il quale perciò attirava l’attenzione e le speranze di molti. Fra gli sbigottimenti politici e religiosi, quando noi l’esortavamo a rendere il suo paese invidia esempio agli altri d’Italia col dargli una costituzione, esso ci rispondeva che missione della sua Casa era il cacciare lo straniero; ma a ciò richiedersi quell’estremo di sua possa che non può ottenersi se non col dominio assoluto; vinta la prova nazionale, si profonderebbero le libertà. Gli anni però passavano, e l’occasione non sorgeva; e i giovani imparavano a bestemmiarlo nelle canzoni de’ vecchi, tanto più dopo che al suo primogenito diede sposa una figlia del vicerè della Lombardia. A Napoli la restaurazione del 1821 avea lasciato odio e contro il Borbone e contro chi l’avea ricondotto. Ma poichè ad una rivoluzione anche fallita è dovere o prudenza il dare qualche soddisfazione, si fecero ordinanze buone, s’introdussero consigli provinciali, e un largo sistema comunale, con conciliatori, inamovibili i giudici, consulta di Stato, ove i ministri erano risponsali, ma in faccia al re; si soddisfece alle nazionali repugnanze coll’ordinare che nessun Napoletano avrebbe impieghi in Sicilia. Ma, come dopo ogni rivoluzione fallita, l’onnipotenza restava alla Polizia; meticolosa e inintelligente la censura de’ libri, e alcuni bruciati, fino un catechismo stampato nel 1816, in cui puzzavano di libertine le massime de’ santi padri e di Bossuet; il divieto d’introdurre libri, se non pagando un carlino l’uno; rese impossibili i cambj, e l’arte tipografica dovette ridursi a contraffazioni, abbandonate alla brutale speculazione d’incolti libraj, che v’introducono non solo mutilazioni ma aggiunte, le quali alterano il senso, e mentiscono il sentimento degli autori[7]. Di tali asprezze imputavansi i Gesuiti; ma quando ad essi fu tolta la censura e concentrata nella Polizia, molto di peggio si provò. Se ne esacerbavano gli animi; le sêtte interzavano le fila: ne seguivano processi da una parte, dall’altra quella depravazione del senso morale che nobilita l’assassinio col titolo di politico; e vuolsi che nel 22 ottocento persone perissero tra sul patibolo come liberali, e vittime di questi; nove teste di settarj rimasero molti anni esposte a San Giorgio di Palermo. S’aggiunsero tremuoti e scoscendimenti e sbocchi di torrenti[8]. Alla pubblica indignazione si diè soddisfacimento rinviando il Canosa e surrogandogli il cavaliere Luigi Medici, uomo di rara abilità e bersaglio di tutti i partiti; ma se minore la fierezza, non fu diverso il modo. Il codice abolì il marchio e le confische; alla pena di morte pose quattro gradazioni, secondo che il reo mandasi al patibolo vestito di giallo o di nero, calzato o scalzo; stabiliva l’eguaglianza di tutti in faccia alla legge, ma nel 26 s’introdusse una giurisdizione privilegiata pei delitti politici. Ferdinando, vissuto tra due secoli, de’ quali non intese l’immensa distanza, morì d’apoplessia (1825 gennajo) dopo sessantacinque anni di un regno, perduto tre volte con vergogna, e altrettante ricuperato con sangue. Gli successe Francesco, che aveva favorito la costituzione come vicario del regno nel 1820, e protestato contro l’occupazione straniera, la quale diminuì al suo venire, e presto cessò, surrogandovi quattro reggimenti svizzeri, capitolati per trent’anni, e che costavano cinquecensessantamila ducati all’anno, oltre un milione e settecentonovantaduemila di primo stabilimento. Dal palazzo usciva un tristo fiatore; gravosa l’ingerenza de’ favoriti[9]; di sfacciatissima corruzione erano stromento un Viglia e una Desimoni camerieri, de’ cui baratti il re celiava, e — Fate buoni affari ma presto, chè io ho poco da campare». E in fatto fra breve succedeva nel paterno seggio Ferdinando II (1830 9 9bre), fratello della duchessa di Berry e di Cristina di Spagna, rinomate per vigorìa di volontà e complicazione d’avventure pubbliche e personali. Non avendo colpe da mascherare nè vendette da esercitare, egli cominciò coll’amnistia, e mostrossi voglioso di dominare assoluto, ma di attuare il ben pubblico e di «rimediare le piaghe». Senza finezze diplomatiche, si tenne indipendente dall’Austria, fino a non volere con essa trattato di commercio nè di proprietà libraria. Scarso d’educazione, ma scevro delle trivialità avite, col pagare chi lodasse il Governo mostrava credere all’efficacia di quelli che pur derideva col titolo di _pennajuoli_. Conservò la Corte in una costumatezza esemplare, sbrattatala dagl’ingordi favoriti del padre; amò monsignor Oliveri suo maestro, Giuseppe Caprioli prete, il Cocle arcivescovo di Patrasso: fatti perciò capri emissarj quando venne di moda l’esecrare, com’era a principio il lodare. Oltre le pensioni improvvidamente o turpemente assegnate da’ suoi predecessori, gl’impieghi erano così esorbitatamente retribuiti, che i ministri toccavano dodicimila ducati, e quello degli affari esteri altrettanti di soprappiù per la rappresentanza. Il re li gravò di tasse progressive, che giungevano fino al cinquanta per cento; egli stesso rinunziò a trecensessantamila ducati che suo padre prevaleva per eventuali beneficenze; disserrò gran parte delle caccie regie e le costose uccelliere; condonò o alleggerì le pene per colpe di Stato; dava udienza a tutti; percorse il Regno modestamente, alloggiando ne’ conventi, sedendo a tavola coi magistrati paesani, ballando con popolane, e dicendo motti e lusinghe. Scoppiato il cholera, accorse da un viaggio, e si mescolò colla plebe, e ne mangiò il pane per assicurarla contro i pretesi avvelenatori. Altre sventure pubbliche diedero esercizio alla sua pietà: nel 30 i tremuoti disastrarono la Calabria Citeriore, facendovi ducensessantatre morti e centottantadue feriti: l’eruzione dell’Etna nel 43 è memorabile perchè la lava invase anche terreni coltivati, si buttò in un bacino d’acqua, che a quel tocco sciogliendosi in vapore, tempestò di lapilli l’intorno, uccidendo settantacinque persone, ferendone moltissime. Ferdinando rinnovò l’esercito collocandovi molti uffiziali rimossi; e parlava coi soldati, esercitavali, partecipava alle fatiche; ma i due reggimenti di Siciliani trovò tanto indomabili che li dovette sciogliere. V’aggiunse la guardia urbana, corpo civico, allestito a servire di guarnigione qualora l’esercito si muovesse. Ebbe eccellenti fonderie di cannoni e un corpo topografico, che associava le sue operazioni con quelle del rinomato osservatorio. L’amministrazione civile concentravasi nel ministero dell’interno, che abbracciava istruzione, agricoltura, commercio, beneficenza, lavori, e l’elezione agli uffizj municipali e ai consigli distrettuali e provinciali. Era affidato a Nicola Santangelo, astuto ingegno e degl’ingegni fautore, che faceva fare un dizionario della lingua, un giornale del Regno, ma che sapeva come al suo posto possa lucrarsi. Il Faldella ministro sulla guerra, D’Andrea sulle finanze[10], Intonti sulla Polizia erano persone valenti, come il presidente Pietracatella; in periodica adunanza discutevano gli affari più rilevanti, che poi ciascuno mandava a compimento; indi nel consiglio di Stato preseduto dal re, decidevansi quelli trattati da essi. Nel 42 furono aggiunti ministri senza portafoglio, fra cui Giustino Fortunato, già attizzatore politico e allora indocilito all’obbedire, e l’insigne giurista Nicola Niccolini: ma invece di nuovi lumi, ne derivarono sconcordie e diminuzione dell’autorità ministeriale. La lista civile non era prefinita, ma vi colavano gli avanzi delle varie casse; talchè per gratificarsi il re si facevano anche sconvenevoli sparagni. L’istruzione era affidata ai Gesuiti, ma l’Università conservò il fiore e l’indipendenza, tanto più da che fu lasciata facoltà a chiunque d’aprire scuole, le quali davano campo agli studiosi di mostrarsi, o scuotevano l’inerzia dei vecchi professori col confronto di giovani, che il re e il pubblico conoscevano: e veramente, oltre gli antiquarj che ivi sono in casa loro, benemeriti cultori vi ebbero la filosofia e le scienze civili. La procedura pubblica produsse avvocati eloquenti, desiderosi di brillare in più nobile ringhiera. La giunta suprema pe’ reati di Stato era bestemmiata, eppure quando fu abolita nel 46, venne rimpianta ricordando quai valent’uomini la componevano, e come avesse saputo assolvere. I titoli di nobiltà screditavansi ogni giorno, e sin dal 1821 fu permesso vendere i possessi feudali di Sicilia, gravati dalle _soggiogazioni_; il che suddivise le proprietà, agevolò i passaggi, immigliorì i fondi. Quelli di manomorta furono pareggiati; quelli di regio patronato, assegnati per benefizio ecclesiastico, fu imposto si dessero in enfiteusi, a quote non maggiori di quattro salme; provvedimento del medioevo, che rinnovavasi nell’intento di ristabilire la popolazione e la minuta possidenza. Toglievansi le servitù agrarie e la promiscuità dei possessi; provvedeasi all’immenso Tavoliere di Puglia, ai fondi comunitativi, ad estirpare i litigj feudali; e il Governo e le Commissioni provinciali studiavano a introdurre metodi e prodotti nuovi. Gli Ordini religiosi, ripristinati da Ferdinando I appena tornò, e dotati con beni demaniali, erano un terzo di quei che prima della Rivoluzione; il clero, non isproporzionato ai bisogni, perdè lo spirito ostile a Roma, che nel secolo passato lo facea ligio al potere. I pescatori del corallo, tanto numerosi che fu per essi compilato il Codice Corallino[11], vanno diminuendo; ma crescono le navi mercantili e l’esercito. I solfi, oro della Sicilia, erano privativa regia fino al 1808, quando il re non riservossi che di permettere le nuove cave. D’allora ne crebbe la produzione, e insieme i prezzi, attesa la ricerca di Francia e Inghilterra per fabbricare la soda: nel 1832 se ne asportarono seicento quintali, nel 34 seicensettantasei, presto novecentomila: onde allettati i capitalisti, la produzione superò lo spaccio. Il Governo allora (1838) stipulò colla società francese Taix e Aycard, che questa ne comprasse seicentomila quintali a due ducati o due e mezzo; per gli altri trecentomila darebbe un tenue compenso ai produttori; essa potrebbe rivenderlo a quattro ducati o quattro e mezzo; e all’erario pagherebbe quattrocentomila ducati, che doveano andare in isconto del _consumo rurale_, dazio gravitante sull’agricoltura. Da questa privativa sentiansi pregiudicati i proprietarj delle solfare; e l’Inghilterra, invocando l’accordo del 1816 che la eguagliava ai meglio privilegiati, chiese trecentomila sterline per danni derivatine a’ suoi negozianti. Due anni si disputò, e il re, sempre geloso dell’indipendenza, volle mostrarla anche in faccia a quella gran Potenza, e rispettare i contratti, anzichè avventurarsi a quella libertà di commercio, che avrebbe prevenuto le collisioni; al tono minaccioso rispose con dignità, sentire dalla parte sua la giustizia e Dio, e fidare più nella forza del diritto che nel diritto della forza. Ma ecco la flotta inglese chiudere i porti di Sicilia, affrontar Napoli, prendere varj legni sino nel porto: il conflitto pare inevitabile, quando la Francia interpostasi compone la differenza, abolendo il contratto col Taix, gravando l’uscita dei solfi di venti carlini al quintale, obbligando il Regno a dare compensi e ai negozianti francesi e agl’inglesi[12]. Viltà, colpe, mangerie della Corte e dei ministri, furono le grida di que’ che pretendono dai caffè governare il mondo: il re conobbe la necessità di accrescere la marina, e proteggere l’esposta capitale; e procacciossi la flotta più robusta che veleggiasse il Mediterraneo. Il debito pubblico si alleggerì con annue estrazioni; si spensero anzi tempo due milioni e mezzo di sterline imprestati nel 1824 a Londra; la banca dello Stato prosperò, fino a salirne le azioni al centrenta. Nel 44 l’annua rendita dei dominj di qua del Faro ammontava a ventisette milioni e mezzo di ducati; e il debito pubblico eccedeva appena il capitale di ottantasei milioni, cioè poco più d’un triennio di rendita. Nel 31 si fondò la Banca fruttuaria, di seicentomila ducati in diecimila azioni; poi altre pel prosperamento dell’industria e del commercio, crebbero di numero e di valore; sebbene per mala amministrazione decadessero. Nel Regno si fece il primo saggio di battelli a vapore (1832); il primo ponte di ferro sul Garigliano, al costo di settantacinquemila ducati; la prima strada ferrata italiana (1839) da Napoli a Castellamare; la prima illuminazione pubblica a gas. Si migliorò il porto di Brindisi; si moltiplicarono trattati colle Potenze; si alleggerirono le dogane; si favorì la marina mercantile con privilegi, talchè, mentre nel 1825 non v’avea di qua dal Faro che 4800 legni, nel 39 se ne trovarono 6803, e 2371 siciliani, portanti 21,3198 tonnellate, con 52,514 marinaj. Sulle strade si fecero almeno decreti, e ben trentasette ne vennero ordinate nella sola Sicilia per lo sviluppo di novecentosedici miglia. La beneficenza pubblica ha nella sola Napoli la rendita di tre milioni di ducati; l’Albergo dei Poveri basta a quattromila persone: ma istituzioni stupende, come questa, come l’Annunziata, deterioravano nello sperpero e nella malversazione; nè fu applicato il bell’ordine che, istituendo dappertutto depositi di mendicità, voleva vi fosse annesso un orto modello. Incamminato il popolo al meglio, il pittoresco dei costumi irregolari dava luogo al civile, e appena il curioso vi trovava que’ lazzaroni, quelle nudità, quei briganti, di cui si farciscono ancora i viaggi romanzeschi e le descrizioni per udita. Il vulgo è tuttavia chiassoso ma non insubordinato, gajo ma non dissoluto: gli altri vizj era a sperare si correggerebbero mercè dell’istruzione e de’ pubblici lavori. Un paese di sei milioni d’abitanti, e capace di cento milioni di tasse, a che non poteva aspirare? Ma i Napoletani si ricordavano che Ferdinando I, ritornando nel 1815, aveva promesso una costituzione, l’avea giurata nel 20, poi mentita: i Siciliani non sapevano dimenticare la Carta del 1812 e i privilegi antichissimi; spiaceva quel corpo di Svizzeri, stipendiato contro i sudditi; la bassa e invereconda corruzione che dagli infimi impiegati giungeva ai sommi; l’esorbitante potere della Polizia, il cui ministro disponeva di diecimila gendarmi, fior dell’esercito, sicchè poteva fin meditare il cambiamento della monarchia. Così fece Intonti, che blandì i liberali, e tentò persuadere il re a dare la costituzione, esagerandogli la possa delle società segrete; ma un bel giorno eccolo destituito, surrogandogli Del Carretto, la cui robustezza ridusse il Governo a Polizia. I gendarmi potevano arrestare, perquisire, accusare, testimoniare, ottenendo intera fede: fin la pena delle verghe fu ristabilita, ed applicavasi immediatamente. Eppure le masnade non erano scomparse, e col Talarico, che per dodici anni padroneggiò la Sila, il Governo dovè calare a patti, e fattagli grazia, gli assegnò per ricovero l’isola di Lipari, e diciotto ducati il mese a lui, dodici a’ suoi compagni. Peggio estendevansi le società segrete, delle quali avrem molto a dire. Nelle _Prigioni_ di Silvio Pellico tutti i subalterni sono dipinti come benevoli, fino il carceriere, fin Bolza: le ineffabili severità vengono comandate dall’alto; il medico non può concedere gli occhiali, se non ne arrivi la licenza da Vienna; si toglie ai carcerati ogni libro per ordini di Vienna; per amputare la gamba a Maroncelli vuolsi che Vienna il consenta; l’imperatore tiensi sul tavolino la pianta dello Spielberg, e ordina quel che deve soffrire il numero quindici, il numero venti, unica designazione di quegli esseri umani. Alla fine Pellico con un compagno escono di carcere, e passando da Vienna, vengono condotti ad asolare nel parco del Belvedere: ma di botto son fatti ritirare perchè arriva l’imperatore, agli occhi del quale non deve mostrarsi la loro macilenza. Apparizione degna de’ maggiori tragici! Il sentimento che spira di qui potea dirsi comune in Italia, ove d’ogni male imputavasi l’Austria. E chi non volesse i fischi del vulgo ricco e dotto, forza era ne dicesse ogni vitupero; chiamasse vile il suo esercito, i capi suoi non vogliosi che di opprimere, il Governo non intento che a smungere il paese, e immolare gl’interessi ai transalpini. Chi chiama stolto e assurdo un Governo, mostra la propria inintelligenza, non lo spiega; e il generale che vuol espugnare una rôcca, non la deride come di facile attacco, bensì la studia a fondo. Noi non conosciamo Governi che di proposito vogliano il male; e non credemmo avere diritto di dire ai popoli _Siate savj_ se non avessimo osato dire ai principi _Siate giusti_; nè ci ascriveremmo a coraggio il farne censure quando ci fosse mancato quello di confessarne i meriti, e fra gli altri questo, che, scrivendo in paese austriaco, potemmo dire il vero impunemente, mentre quel vero da altri tirannelli era condannato intollerantemente, e giudicato vigliaccheria o paura, fosse pur detto da chi lo osò in faccia al giudizio statario[13]. Tutt’altro che odiati erano nella Lombardia austriaca Maria Teresa, Giuseppe II, Leopoldo II, quando ai popoli non regalavasi la libertà politica, ma si lasciavano le libertà naturali; i migliori ingegni si offrivano sostegni lodatori, difensori del trono; e lo coadjuvavano a concentrare in sè le prerogative, dapprima sparpagliate fra autorità paesane o ministeriali. La rivoluzione ruppe quell’accordo, e lasciò da una parte l’assolutezza amministrativa, dall’altra repugnanza a leggi fatte per civiltà e per interessi che non sono i nostri, e appoggiate con mezzi diversi. Il disprezzo poi è così insoffribile, che per sottrarsene si cerca fin il terrore; e reciproco disprezzo nasce facilmente tra il forte che vede gl’impotenti conati, e il debole che le memorie antiche e nuove fan dispettoso del vedersi non sentito, non conosciuto, in balìa d’istituzioni e di persone estranee ai sentimenti, alle simpatie, alle sue compiacenze. L’Austria, potenza conservatrice eminentemente, sin da quando resistette alla Riforma fu osteggiata dai pensatori, ch’essa del resto non accarezza. Ambiziosa senza rumore, progredisce colla forza del secolo, ma senza confessarlo; segue le abitudini; vuole il silenzio fin sulle cose lodevoli; e avea ridotto il Governo ad amministrare e constatar i fatti colle statistiche, mentre per iniziare al nuovo voglionsi genio, bontà, sapienza. Francesco I, tenacissimo all’idea del dovere, qual esso lo concepiva, secondo questa oppugnò le innovazioni; buono doveva essere ciò che buono era stato altre volte; i popoli doveano persuadersi che l’imperatore volesse il loro bene, e lasciarlo fare. In conseguenza ebbe riguardo alle costituzioni eterogenee de’ varj suoi popoli; e per quanto vagheggiasse l’accentramento amministrativo all’uso di Giuseppe II, non pretese una uniformità, che non cresce la forza bensì il disgusto. Come l’Ungheria dunque e la Boemia, così v’ebbe un regno Lombardo-Veneto suddiviso in due Governi. Dell’imperatore obbligo unico il venire a farsi coronare; a lui il nominare a tutti gl’impieghi regj e confermare i comunali, l’imporre ed erogare il tributo senza sindacato, l’amministrare il Monte dello Stato; a lui la pubblica istruzione, la censura, la tutela delle istituzioni benefiche, l’approvare società, il concedere privilegi; e in conseguenza i decreti arrivavano o tardi per la lontananza e per le interminabili trafile, o improvvidi per imperfetta informazione. Quando la parola d’ordine dei re alleati era la franchigia de’ popoli, come rappresentante del paese fu costituita una Congregazione Centrale, eletta popolarmente, nominata e stipendiata dal sovrano, convocata a beneplacito del governatore per dare voto consultivo sopra le materie che a volontà esso proponeva al loro esame. Restava in piedi il mirabile sistema comunale, derivato dagli antichi municipj e sopravvissuto alle rovine rivoluzionarie, e felicemente combinato col censimento, talchè bastò a mantenere la vita e favorire il prosperamento del pinguissimo paese. L’amministrazione, ridotta a mera burocrazia, camminava regolare e robusta, come in paese da gran tempo avvezzato: pronta e incorrotta la giustizia, qualvolta non vi si complicassero titoli di Stato, a norma d’un codice compilato colle intenzioni moderne, e in molte parti migliori del napoleonico, più mite nelle pene, più espanso nell’eguaglianza; ma escludendo ogni pubblicità, metteva l’idea di arbitrio invece delle garanzie che la società è in diritto di chiedere intorno ai membri che le sono strappati. Un’eletta d’ingegni acquistava a Milano il titolo di Atene italica: che se il Governo nè li favoriva nè tampoco li conosceva, la stampa v’era meno inceppata che altrove, sebbene contro censori o ignoranti o maligni bisognasse spesso reclamare a Vienna, donde le decisioni venivano assai meno ignobili, ma così lente da equivalere a un divieto. Pure in questo regno si produceano e ristampavano opere, nel resto d’Italia proibite; e attivissimo correva il commercio di libri forestieri: i congressi scientifici, spauracchio altrove, qui furono accolti ben tre volte: l’istruzione vi era animata, o almeno diffuse le scuole fin ne’ minimi villaggi; se quelle di mutuo insegnamento si proscrissero perchè servite di velo ai Carbonari, si ammisero gli asili dell’infanzia quand’erano tutt’altrove proibiti; e il loro introduttore, mal visto a Torino, otteneva onori e decorazioni in Lombardia. Esclusa quell’educazione de’ claustrali, che si diceva l’arsenico degli altri paesi, i Gesuiti, anche quando qui presero stanza, furono sottomessi alle autorità, nè esercitarono ingerenza a fronte di un clero illuminato e di vescovi assennati. Non frati o pochissimi, non eccezione di fôri, non triche di sacristia: il partito religioso era rappresentato nell’idea da eminenti ingegni, nelle azioni da una società (_Pia Unione_) che, fra le beffe e la denigrazione, compiva una beneficenza stupendamente grandiosa. Le prime società per strade ferrate si formarono qua sin dal 1837, e non fu colpa del Governo se si svamparono in risse e municipali battibugli. Qua fiorentissima la cassa di risparmio; qua imprese sociali per le diligenze, per assicurazioni contro gl’incendj, per filature del cotone e del lino. Molteplici e ben sistemate le strade, e poetiche quelle lungo le delizie del lago di Como e traverso alle sublimità dello Stelvio e dello Spulga: con dispendio assai maggiore le comunità compivano una rete di comunicazioni: si profondea per regolare i laghi e i fiumi che l’improvvido diveltamento delle foreste rende più sempre gonfi e ruinosi[14]. A Venezia dal 1816 al 41 in sole opere stradali interne si spese meglio di sei milioni. Dopo lunghissimo discutere, e sentiti i primi ingegneri e il Fossombroni, nel 1845 fu approvata una sistemazione di tutti i fiumi che immettono nella laguna, e che singolarmente dopo il 1839 aveano recato indicibili guasti; e all’opera ben avanzata servirono di compimento la gran diga di Malamocco e l’ampliazione dei Murazzi, spendendovi oltre sei milioni. Vero è che Venezia soccombeva alla concorrenza di Trieste. Questa era vissuta di vita stentata sotto i patriarchi d’Aquileja o gl’imperatori di Germania, fin quando Carlo VI conobbe quanto essa potrebbe complire al commercio della Germania, ad eclissare Venezia. Pertanto vi fece edificare, chiamò coloni, istituì una compagnia che avrebbe dovuto emulare la inglese delle Indie Orientali: ma questa fallì, e le cure di lui e di Maria Teresa poco profittarono alla città. Nè vi giovò Napoleone, che, incapricciato di emulare l’Inghilterra sul mare, pensava renderla capitale d’un nuovo regno Illirico, nel quale sarebbero state comprese la Dalmazia, la Bosnia, l’Erzegovina, il mar Nero. Dove essi fallirono riuscì la società del Lloyd, che fondata dapprima per le assicurazioni marittime, assunse poi alcun’impresa di battelli a vapore: ma stava per liquidare quando vi capitò un giovane, tutta attività e voglia di riuscire, e messosi in quegli uffizj arrivò alla direzione, e vi diede impulso efficacissimo[15]. Così Trieste crebbe da cinque a ottantamila abitanti; moltiplicano gli affari, gli edifizj; e compita che sia la strada ferrata verso Vienna, offrirà la linea più breve fra la Germania e le Indie. Le prosperità di Trieste non sono anch’esse italiane? Lo straniero che fosse calato in Lombardia, credendo, sopra i giornali e le romanze, vedervi braccia scarnate nel mietere solo a vantaggio dello stranio sire, e sbandito il riso, e signor de’ cuori il sospetto, stupiva a trovare su quest’opima campagna i coltivatori agiati e conscj della propria dignità, i braccianti o non più miserabili che altrove, o solo per colpa dell’indigena avidità; Milano nuotare nella pinguedine e nel lusso; i suoi negozianti pareggiare in destrezza i più famosi, in credito i più ricchi; fra’ principali commerci figurarvi quello de’ teatranti, e agli spettacoli d’un teatro de’ primi in Europa affollarsi un mondo elegantissimo, come ai suoi corsi uno sfarzo di carrozze, che sì elegante non hanno Vienna e Parigi. Il Lombardo-Veneto avrebbe potuto farsi esempio di savia amministrazione agli altri d’Italia, se si fossero conciliate le inevitabili sofferenze d’una provincia colla dignità di chi v’è sottomesso, lasciando svilupparsi quell’attività delle corporazioni, dei Comuni, delle province che dispensa l’amministrazione centrale dall’intervento impacciante e dalle cure minute, e non sottrae nè ricchezza al fisco dei dominanti, nè ai dominanti la compiacenza di sentirsi cittadini. Qui accentravasi ogni cosa in Vienna; e non di colpo, siccome dopo una conquista, ma con meditata lentezza. Il sistema di pesi, misure, monete alla francese, conservato fra i nostri vicini, fu surrogato dal tedesco. L’unità dell’impero costringeva a regolar noi colle leggi stesse del Galliziano e del Croato, fin a mandare regolamenti sulle acque a un paese che inventò l’irrigazione artifiziale. V’avea supremi magistrati, ignari dell’indole e delle consuetudini: era tolta l’investigazione nazionale sul viver pubblico, l’esporre il meglio e implorarlo: silenzio su ogni atto. La postura e la conformazione fan questo paese più atto a trafficare cogli esteri che coll’impero; laonde per impedirlo occorreva un esercito di doganieri, spreco dell’erario e depravamento della popolazione, fra cui viveano oziando e trafficando di connivenza. L’attività comunale era impacciata dai commissarj: alla Congregazione Centrale mancava voce per esporre domande, o fermezza per volerne la risposta: fin la Chiesa era tenuta servile, mediante il sistema giuseppino; sopra informazione della Polizia nominavansi i parroci e i vescovi, ai quali era impedito di comunicare con Roma, e fin di scrivere al proprio gregge se non col visto d’un impiegato provinciale. Francesco I a Lubiana avea detto, — Voglio sudditi obbedienti, non cittadini illuminati», e su tale programma le scuole riduceansi a moltiplicare i mediocri e mortificare ogni superiorità; l’istruzione popolare limitavasi a quel che basti per tramutare gl’istinti insubordinati in una rassegnata obbedienza; la classica non metteasi in armonia colla situazione di ciascuno; e coll’educazione dissipata eppur letteraria, moltiplicavansi giovani leggeri, eppure dogmatici, vanitosi delle piccole cose, puntigliosi della parola, smaniati del rumore; giornalisti non letterati, impiegati non pensatori. Da Vienna mandavansi libri di testo, qualche volta i professori, questi eleggeansi per concorso, dove, astenendosi i migliori, prevalevano novizj o ciarlatani, non mai superiori alle cattedre. Le tante parti eccellenti poi restavano corrotte dalla Polizia, arbitra di tutto, e che spegneva il senso più importante ne’ popoli, quel della legalità, la persuasione più necessaria ai governanti, quella che operino per indeclinabile giustizia. Una Polizia aulica, una vicereale, una del Comune, una del Governo, una della presidenza del Governo, spiavansi a vicenda[16]. A chi dal lungo esiglio o dalle inquisitorie prigioni tornasse in società, esse dicevano — Avete sofferto abbastanza. Che vi cale delle cose pubbliche? divertitevi, chè il Governo nol vi contende: siete ricchi, siate allegri». E ne’ divertimenti si cerca tuffare le memorie; secondavasi la tendenza di sviluppare in grassume quel che avrebbe dovuto fortificare in muscoli; poi accennando al viver morbido, agli scialosi equipaggi, alla prospera agricoltura, diceano all’Europa: — Vedete come la Lombardia, nostra serva, è beata». Ma l’uomo non è destinato solo a impinguare e godere, e falliscono ai loro doveri quelli che, invece di prepararlo a un avvenire di sempre maggiore ragionevolezza e dignità, lo comprimono in modo che non gli rimanga se non l’alternativa di un codardo silenzio nella servitù o di collere maniache nella libertà. Dal non potersi conseguire onori e impieghi se non per consenso della Polizia, derivava che da una parte non si stimasse se non chi ne aveva, dall’altra ne rifuggissero i generosi: i migliori ingegni trovavansi perseguitati colle prigioni o nei giornali, e cercavasi coprirli di sprezzo per non dover temerli, repudiandosi così quel tesoro di potenza morale che viene dal concorso delle forze attive, istruite, morali. Erasi avuto un elettissimo esercito italiano, ed ora i coscritti s’incorporavano ne’ reggimenti tedeschi, sotto uffiziali tedeschi; laonde se ne sottraeva chiunque sentisse la dignità nazionale e bastasse a comprare un supplente; e mentre con ciò assecondavasi l’infingardaggine indigena, le si dava la maschera di patriotismo, indicando come traditori que’ pochi civili che si volgessero all’armi o alla diplomazia. Con questo voler apposta adulterare la misura dei diritti e dei doveri, ed applicare nomi virtuosi ad atti meramente negativi, pervertivasi il senso morale; mentre il rimanere estranei alle sorti del paese deprimeva i caratteri, intorpidiva le abitudini, gettava nelle esagerazioni ed utopie proprie di chi non vede in pratica le cose, nè sa fin dove possa arrivare legalmente. Per conseguenza tutti cianciullavano di politica e governo, ma senza cognizione de’ fatti veri, nè discernimento per valutarli; sicchè qual conto poteva tenersi d’un’opposizione limitantesi a disapprovare tutto, tutto abbattere, nulla asserire o edificare? Epperò questo Governo, che disponeva di terrori, lusinghe, impieghi, onorificenze, decorazioni, non trovò un lodatore, non dico di cuore, ma neppur d’ingegno, talchè dovette prezzolarne di tali, la cui ignoranza era sopportata solo per la viltà con cui la prostituivano. In tutta Italia poi restava il concetto che l’Austria sola avesse impedito o traviato le rivoluzioni, laonde era avuta come universale nemica della libertà da molti che questa identificano con quelle. Morto Francesco I, suo figlio Ferdinando, il giorno stesso che montava al trono (1835 2 marzo), con un viglietto al vicerè ordinava si cessassero i processi politici, si rilasciassero tutti i condannati: amnistia la più ampia, la più incondizionata, che si legga nelle storie, se il vicerè e gli esecutori non l’avessero tergiversata e resa parziale ed illusoria[17]. Il buon imperatore non ne sapea nulla giacchè non comunicava coi sudditi; ma avutone sentore, disse: — Andrò io a Milano», e venne a farsi coronare. O fosse il lenocinio delle feste; o stanchezza del fremere, o naturale bontà, o riconoscenza di così insolito perdono, diè fuori dappertutto una prurigine di balli, di parate, di adulazioni in prosa e in versi, in musica e in quadri; gran liberali camuffaronsi da guardie nobili e da ciambellani; v’ebbe decorazioni e dignità auliche, e un ripullulamento d’aristocrazia. Per isgravare se stessi, costoro sparsero vilipendio e sospetti su quei che anche allora tennero la mano e la penna intemerata, e che, rinserratisi nella propria coscienza, da Dio invocarono e col proprio senno maturavano alla patria fortune migliori, pur deplorando che non le meritassimo. Parliamo a disteso della Lombardia: agli altri paesi però conviene, e forse più, quel che della Lombardia dicemmo. Quei principi, persuasi dell’onnipotenza materiale dell’Austria, agli ordini e all’ispirazioni di questa si rassegnavano più o meno, e non che farsi iniziatori con esempj che mortificassero lo straniero, più di uno colla propria rendeva desiderabile l’amministrazione di questo. Intanto che piagnucolavasi, nella lunga pace erasi moltiplicata la ricchezza nazionale, ed estesi que’ comodi e godimenti, la cui ricerca è carattere della nostra età: il commercio s’ampliò, agevolato da leghe e trattati; e visto che la libertà n’è il migliore sussidiario, il sistema protettore si modificò: guadagnaronsi immensi terreni alla coltura, e se ne trassero maggiori frutti dacchè alla trascuranza delle manimorte fu surrogata l’oculatezza di piccoli possidenti, e si svincolarono dai fedecommessi, dalle servitù, dai livelli. Ormai gli sbalzi nel valore dei commestibili scomparvero, e se prima fin a quindici e venti volte dell’ordinario crescea nelle carestie, parve sommo nel 1812 l’elevarsi al triplo, proporzione che dappoi fu sempre assai minore. Il credito si trovò protetto dalla pubblicità delle ipoteche, dalle banche, dalle semplificate procedure, ed esteso anche a vantaggio de’ poveri colle casse di risparmio. L’industria vantaggiò dello spirito d’associazione e delle scoperte della fisica e della chimica, per mettere a carico delle forze gratuite della natura molta parte della fatica umana, perfezionare metodi e macchine, far che il lavoro versasse e la concorrenza distribuisse una sempre maggior copia di utilità nel corpo sociale: e sebbene non eguagliasse i forestieri nè per tenuità di prezzi, nè per eleganza e finezza, cresceva il ragguaglio tra il lavoro e le soddisfazioni che con esso il povero può procacciarsi. S’introdussero battelli a vapore[18], strade ferrate, telegrafi, spirito d’associazione, studj concordi, unione di capitali introdussero vastissime imprese per le strade ferrate, pel gas, per le assicurazioni, per gli scavi. Tale spirito si applicò pure alla beneficenza, istituendo scuole per intenti particolari, e asili d’infanzia, e mutuo insegnamento, e presepj pei lattanti, e società di vicendevole soccorso, e miglioramenti alle carceri, e ricoveri per gli scarcerati; ammirati da taluni con quell’entusiasmo che non soffre la critica nè la ricerca del meglio, da altri bersagliati con l’atrabile che tutto denigra, o coll’intolleranza che condanna il bene per vaghezza del meglio. Ripudiavano francamente, anzi deridevano i vantati progressi e una carità destituita dello spirito avvivatore del cattolicismo le _Memorie religiose_ di Modena e il _Diario_ di Roma seriamente, bizzarramente la _Voce della verità_, dove i nomi più simpatici erano malmenati dal Galvani, dallo Schedoni, dal Calvedoni; e più strepitose riuscirono le _Illusioni della pubblica carità_ di Monaldo Leopardi, e l’_Esperienza ai re della terra_ del principe di Canosa. Altri pensarono giovare al prossimo pe’ soli meriti di Cristo e per diffondere la verità e la santificazione cristiana. Le istituzioni pie, ricchezza de’ secoli andati, ebbero molto a soffrire nella rivoluzione, nelle guerre, nella soppressione dei corpi religiosi; onde vi si riparò con lasciti, e ai bisogni nuovi andavasi incontro con nuove istituzioni. A Milano i fratelli Felice e Gaetano De Vecchi barnabiti fin dal 1802 raccoglievano una Pia Unione di nobili, che andavano all’ospedale confortando gl’infermi, e preparavano vitto, vestito, educazione, ricreamento ai poveri nelle case o in ricoveri: col nome di Società del biscottino fu derisa dal bel mondo e benedetta dai poveri, pei quali ha consolazioni d’ogni maniera, educazione conveniente all’indole e al bisogno di ciascuno; impedire lo svio delle pericolanti, richiamar le pericolate, assistere i vergognosi indigenti, tenere scuole festive e notturne a comodo di poveri, ricreazioni e oratorj pei tempi festivi. La marchesa Maddalena Frescobaldi Capponi e il padre Idelfonso istituirono a Firenze un ricovero per le traviate: a Imola la Pia Unione di San Terenzio diffonde quotidiane elemosine, come a Bologna la Pia Opera de’ vergognosi: ad Ancona l’oratoriano Luigi Baroni esercitò nelle più variate guise l’eroismo della carità, come il Manini in Cremona. In Venezia e Verona Maria Maddalena di Canossa (1774-1835) fondava nel 1819 le Figlie di Carità, dirette a perfezionarsi nell’amor di Dio e del prossimo; i conti Cavanis le Scuole di Carità; Nicolò Mazza verso il 1830 ricoveri di fanciulle, educandole sino ai ventiquattro anni conforme al loro stato, ed altri pei garzoni, bene studiandone l’inclinazione, menandoli alle scuole, collocandoli in varj stabilimenti, e tutto per carità. Nicola Olivieri inanimato dalla Immacolata, nel 1838 comincia a raccogliere qualche moretta e la fa educare, poi va in Egitto e in Barbaria, e segue tuttora a riscattarne, d’accordo colle Suore della Carità, per poi collocarle in conventi. Brescia deve alla Rosa molte caritatevoli istituzioni: Modena la scuola dei sordi-muti di D. Severino Forchiani: a Bergamo i conti Passi introducono la Pia Opera e le Suore di santa Dorotea, per formar le fanciulle alla pietà e ai casalinghi disimpegni; mentre il prete Botta toglieva in cura i fanciulli sviati: un suo allievo, Marchiondi laico somasco, portò quell’istituzione a Milano, e grossolano ma di alto e retto cuore, ricusando sottoporsi alle burocratiche formalità, ve la fece fiorire. A Torino Giulia Colbert di Barólo, la patrocinatrice di Pellico, istituì le Sorelle di sant’Anna per educare povere figlie, e ispirarvi modi civili e la contentezza del proprio stato. La Congregazione di san Paolo distribuiva centrentamila franchi l’anno in doti, pensioni, sussidj a poveri nascosti. Il canonico Cottolengo nella Piccola Casa della divina Provvidenza preparava soccorsi a tutte le miserie, e giganteschi benefizj effettuò con mezzi tenuissimi. Rosa Govona avea fondato le Rosine che devono «mangiar del lavoro di loro mani», e che si estesero ad Asti, Chieri, Mondovì, Fossano e altrove. La contessa Tornielli Bellini a Novara lasciava in testamento molte istituzioni caritatevoli, e scuole gratuite d’arti e mestieri. L’abate Febriani prese cura speciale dei sordimuti. La Misericordia di Casale dispensa quarantacinquemila franchi in pane, vesti, doti, baliatici, sussidj a domiciliati: quella di Savona, oltre il resto, dà ogni giorno il pranzo a quattrocencinquanta poveri. Chi non conoscesse in qual modo si forma quell’assurdità, che intitolasi l’opinione pubblica, stupirebbe dell’avversione che professavasi contro questi benefici, e come fossero scherniti nei tempi quieti, percossi nei tempestosi. Perocchè, a fianco alla potenza governativa era cresciuta quest’altra dell’opinione, surrogatasi alla fede assoluta in un pensiero, in un sentimento, e che avversava tutto ciò che mostrasse fermezza, fossero le credenze fosse l’autorità. Quella classe delle persone di cultura, indipendente, che in ciascun paese la imponeva nel secolo passato, sotto il regno d’Italia era stata diretta dagli impiegati, potenza nuova; dappoi se la sottoposero i liberali; sottentrarono quindi i giornalisti, finchè venne alla piazza. E le rivoluzioni, state militari nel 1815 e 1821, divennero giornalistiche ed avvocatesche; e dove riuscirono, posero in dominio e ne’ ministeri gli scrittori; dove fallirono, li resero cospicui per le persecuzioni e gli esigli. Mentre era cresciuta la smania del leggere, in alcuni paesi non correva che la gazzetta uffiziale, cioè a dire applausi o silenzio; e questo ancor più che quello, giacchè molti Governi preferivano non si parlasse di loro, nè in bene nè in male, come l’Austria, mentre Napoli facea pomposamente enunciare i suoi atti negli Annali civili e in altri fogli governativi. Ma o per tolleranza o alla macchia trapelavano giornali forestieri, alle cui questioni si prendeva parte incompetente, come avviene degli affari altrui, e per lo più passiva, accettando l’opinione del giornale senza mezzo o volontà di discuterla, e nell’opposizione riponendo la luce dell’intelletto, la generosità del pensare. Anche il teatro, rimaneva o in balia de’ ballerini, ovvero tradotto o almeno foggiato sul francese. Esposte le moltitudini a questi mareggi dell’opinione, l’uomo abdicava alla padronanza degli atti, dei destini, de’ pensamenti proprj: la classe colta, divenuta moderata meno per buon senso od esperienza che per timidezza e amor di pace, dovea cedere il campo ai ciarlatani. Ora questi non potevano diffondere che un’opinione non solo versatile, ma sconnessa: fino chi pensa, pensava poco in una Babele, dove niuna associazione di forze intellettuali, ma solo antagonismo ed isolamento: invece di partiti v’erano gruppi, quasi equipollenti di numero e di valore, gli uni chiassosi, gli altri operativi, i più disputanti in panciolle. Alcuni, credendo inutile parlare di libertà finchè manchino pane e educazione, appigliavansi di preferenza all’economia; mentre i più dalla politica aspettavano tutto, secondo l’andazzo francese. In ciò pure alcuni consideravano come una sciagura la rivoluzione di Francia e l’irrompere suo in Italia, perchè col balocco delle libertà politiche ci aveva defraudati delle libertà naturali; inoculato pensamenti, odj, amori esotici; compressi i semi indigeni e storici, per avventurare alle sovversioni d’un progresso sistematico e umanitario; doversi ripigliare l’opera del secolo precedente, pur applicandovi le conquiste del nostro, cercando la libertà non i nomi, progredendo a passi non a sbalzi, cumulando le forze invece di abbatterle, traendo i principi ad attuare il bene anzichè nimicarli, e nell’intento nazionale confederando i varj Stati per opporne la lega allo straniero, qualunque egli sia. Ve n’avea tra questi che aborrivano dalla Francia, come irreposata e infida sommovitrice; altri distinguevano questa nazione dalle vertigini della sua tribuna e de’ suoi giornali: altri analizzavano la prosperità inglese, i Parlamenti, la legale ampliazione della parola morta, il progresso ragionato e lento ma continuo ed indefettibile; pochi si lasciavano allettare allo smisurato incremento degli Stati Uniti e alla formola dell’avvenire. E poichè l’eccesso degli appetiti materiali porta a lusso e vanità irrefrenate, e queste alla bestemmia, ultimo strillo dell’intelligenza spirante del secolo, per amore dell’Italia insultavano all’Italia dichiarandola inetta al meglio: il Botta e l’Angeloni la infarinavano d’improperj, abburattati da frà Cavalca; Berchet pindareggiava contro Carlalberto e contro gl’italiani che dimenticavano la patria e lo Spielberg per istordirsi fra baci e bottiglie; Niccolini, gridando «Italia vile, non ha di suo neppure i vizj», imprecava che le nubi stendessero un velo densissimo su questa terra del vile dolore; Leopardi, dopo compianta l’Italia coll’amarezza di Dante, nei _Paralipomeni_ beffava i desiderj e i tentativi di riscossa, con una ironia che il Gioberti diceva squarciare il cuore, eppur essere giustissima[19]: il qual Gioberti asseriva che la nazione italiana non potrà mai recuperare il suo antico primato morale e civile sul mondo «finchè l’uomo italiano dei nostri tempi non sarà divenuto pari a quello dell’antica Italia e dell’antica Roma... Certo noi, generazione matura e cadente, col piè sulla fossa, indarno ci penseremmo, perchè l’osso è duro, il callo è fatto, e ancorchè riuscissimo a rimpastarci, poco e corto saria il frutto». Solo allorchè qualche straniero ripeteva altrettanto, o lady Morgan coi colloquj sottratti a questo nostro circolo giudicava baldanzosamente gli uomini e le cose nostre, o Lamartine ci chiamava terra dei morti[20], o Stendhal ci sentenziava degni delle nostre sofferenze, il patriotismo si risentiva, numerava i nostri vanti, ci inebriava col «misero orgoglio d’un tempo che fu». Gente più seria esploravano a fondo le piaghe mortali d’Italia; se diceasi ch’era corrotta da’ suoi signori, rispondea che non si corrompe chi corrompere non vuole lasciarsi; che del meglio non eramo degni perchè al giogo non sapevamo opporre quella fermezza che si frange ma non si piega; perchè sulle catene celiavamo, contentandoci di burlare quei ch’era necessario esaminare; perchè i beati d’ozj e vivande stordivansi nei godimenti, col pretesto de’ codardi, l’impossibilità del migliorare; e diguazzando nelle morbidezze, sviavansi da’ severi proponimenti di chi, perduta la patria, mantiene cuore per amarla, voce per ammonirla, senno per dirigerla; perchè secondavamo la Polizia col mettere e spine e coltelli fra seni che volevano ravvicinarsi; perchè coloro che all’emancipazione ci inuzzolivano, non sapeano pascerci che d’odio e denigrazioni, ed anzichè convergere la repulsione contro i veri nemici, sparpagliavanla su nostri fratelli; perchè abjette invidie, adipose gelosie, orgoglianti vendette ci faceano sprezzare e deprimere que’ migliori, i quali avrebbero potuto concentrare l’opposizione ed onorarla, farsi rappresentanti del paese; se non altro, circondare la nazionale decadenza di dignità; quella dignità ch’è necessaria in tutti, indispensabile in una gente che voglia rigenerarsi. Ultima miseria d’un paese, quando, perduta la fiducia in sè e ne’ suoi, dalla sventura aizzato a discordie, mancante di amici organizzati e di nemici rispettosi, esercita il piccolo resto di libertà a scoraggiare: miseria più deplorabile quanto maggior bisogno di gloria letteraria e morale ha una nazione, a cui ogni altra via è chiusa d’attestare alle venture che la presente generazione non era vile. A chi svelasse tali piaghe non era perdonato dal bugiardo patriotismo, nè fu perdonato a noi; ma per acquistare diritto di dire il vero agli avversarj, bisogna non temiamo di dirlo a noi stessi. E venendo ai particolari, additavano gl’impiegati corrotti e inabili negli Stati pontifizj e siciliani, duri e servili in Piemonte, sbadiglianti in Toscana, dappertutto irrazionalmente obbedienti; avvocati ciancieri, vagheggianti costituzione parlamentare per solo esercizio di eloquenza; nobili, in Lombardia ricchi, gaudenti, oppositori; in Piemonte ligj, influenti, studiosi; incolti e lascivi a Napoli; avversi ai preti nelle Romagne, quanto propensi a Roma; il clero alto lussureggiante a Roma, o persecutore in Sardegna, dappertutto ombroso delle libertà; il basso, scarso d’educazione e di virtù, o giansenista o papale per tradizione non per meditazione; i pochi studiosi, scissi tra Liguori e Perrone, tra Rosmini e Gioberti, tutti lagnantisi de’ superiori ecclesiastici e secolari; i frati scaduti di zelo e di scienza; i Gesuiti odiati perchè zelo e scienza ostentavano; i negozianti uggiati delle gravezze e degli impacci, ma aborrenti da sovversioni che ne crescerebbero all’industria loro materiale. Il dover sottrarsi a una vessazione dava l’abitudine di sprezzare o eludere le leggi anche le più opportune, il che è uno degli abiti più funesti. Scarsi gli eserciti, e più lo spirito militare, non meno che quello delle grandi imprese; rare le idee pratiche, atteso che non s’agitassero nella pubblicità; nullo il sentimento della legalità, e di quella solidarietà per cui si considera come proprio il torto fatto a uno qualunque; non rispetto per l’operosità, nè tolleranza pe’ dissensi; non dignità per comporli e discuterli; non intelligenza fra gl’ingegni, e ciascuno disamato, se non anche calpesto, nel brano di terra che gli è patria, sconosciuto negli altri. Il popolo non legge: il vulgo giudica dai giornali e sulle pancacce, rimpiange il Governo passato, querelasi degli aggravj, della coscrizione, dello scarso soldo, del tenue commercio, della molesta Polizia, ma composto e tranquillo in Piemonte; in Lombardia beffardo, odiante i Tedeschi e rifuggente dall’arme; più cheto nel Veneto, donde si cernivano eccellenti soldati della marina e granatieri; acqua cheta e bella creanza in Toscana; nelle Romagne manesco, brigante, cospiratore; in Roma ligio alla lautezza clericale, che gli alimenta l’infingardaggine e l’orgoglio del nome romano; in Napoli spavaldo, superstizioso, senza dignità nè costanza; nelle provincie sofferente, astuto, coraggioso, anneghittito; in Sicilia rozzo e fiero, potente agli odj come ai sacrifizj, irreconciliabile col dominio, e disposto a qualunque rischio per abbatterlo. De’ letterati la più parte avversi al Governo, e da questo sospettati, perseguiti o, dove meglio, dimenticati; quella età che preferisce all’ordine la libertà, l’entusiasmo alla ragione, imbevevasi d’idee sovversive, e fremeva d’un giogo di cui invece però d’analizzarne la forza e la natura per romperlo, si piaceva aggravarselo colle intempestive reluttanze e cogli impotenti conati, testimonio d’estrema debolezza, che sfiancano chi li commette, e rendono gagliardo e sprezzante chi senza fatica li compresse. I giornalisti, genuflessi alla mediocrità, idolatri del negativo e della sovranità del nulla, chiunque si elevasse sorvegliavano coll’ansietà della diffidenza; petulanti perchè servili, faceano aborrire la franchezza col separarla dalla dignità, col deprimere ogni elevazione morale all’insolenza faccendiera e alla fatuità elegante davano baldanza d’oltraggiare gli alti pensatori e i caratteri intrepidi: e questi appunto erano più calunniati perchè sprezzatori della calunnia; non vedendoli tali quai si volevano, erano rappresentati quali non erano, o denunziati disertori, titolo che i partiti infliggono a chiunque non li serve a loro modo. Così di generosi ditirambi mantellavasi un abjetto egoismo, e col dispetto del gaudente contro il pensatore, di tutta la loro enfiata vanità aggravavano l’uomo che vale, impacciavano l’uomo che vuole; e fiacchi essi, tali dichiaravano gli altri: non ascoltati, faceano ogni opera perchè ascoltato non fosse nessuno; e a maggior baldanza calunniavano chi alla calunnia men bada perchè se ne sente superiore. Tali dissensi nimicavano fra loro gli stessi liberali; e più dove poteano manifestarsi, cioè fra i migrati, che pretendeano dirigere da Parigi e da Londra le fortune della patria, e intanto non s’accordavano sui modi; troppo spesso simili a due corpi, che, egualmente elettrizzati, si respingono. Tutti convenivano nell’odiare l’Austria, sentendo sempre nell’aria l’occasione, e persuadendosi che non potesse venire se non di fuori. Intanto la declamazione era l’arma che più usavano, e il torsi fede od efficacia col mentire e coll’esagerare, coll’amplificare in verso o in prosa i patimenti degli Italiani, facendo supporre la disperazione in quelli che adagiavansi nell’incremento della prosperità materiale. Molti migrati onore e compassione acquistarono a sè e alla causa loro coll’intelligenza, col carattere, coll’industria. Luigi Filippo, salito al trono per una rivoluzione, adoprò un ingegno raro e una ferrea volontà a frenare ogni nuovo prorompere; pure non la potea rinnegare, nè disdire coloro, la cui colpa consisteva nell’aver fallito in tentativi, in cui erano riusciti i suoi. Perciò quei profughi v’ebbero cortesie, onori, promesse da principio, poi freddezze, poi dimenticanza: alcuni non ottennero il pane se non arrolandosi nella legione straniera, altri lasciandosi relegare in qualche città; chi sentiva dignitosamente pensò a guadagnare colle proprie mani; chi potea, visse come si vive a Parigi, onorato a misura delle spese, e qualche volta anche dell’ingegno. Altri de’ migrati erano i patentati impresarj di rivoluzioni; o quei che, stando male in paese, amavano cambiare plaga; o che aspiravano alla gloriola d’essere del numero de’ perseguitati. Tra questi prevaleva l’opinione giacobina della potenza del numero, che è ancora la forza, ed esserne impulsi efficacissimi le società segrete; agli incorreggibili Governi doversi surrogare la sovranità popolare, non solo come fonte, ma anche nell’applicazione del potere, la democrazia riducendo a repubblica, e questa nemica ai nobili, ai preti, abbracciante tutta l’Italia in unità; qualunque mezzo esser buono a un elevato fine: e il fine era sbarbicare quanto esisteva, per costruire poi non si sapea che, ma quel che l’accidente porterebbe. Il bisogno d’azione, d’essere qualcosa, di valere sui destini del paese, di aver amici qua e fuori, di rivolgere contro Governi esecrati alcun che di più reale che non le grida; la devozione a idee, la cui generosità parea giustificare gli spedienti anche iniqui; la spinta in alcuni irresistibile di protestare in nome d’un intero popolo contro un popolo intero, e alimentare fino col proprio sangue la speranza dissotto all’oppressura de’ forti e alla vigliaccheria de’ gaudenti, fomentavano le società secrete, dove l’immaginazione e l’attività compiacevansi di misteri, carteggi, processi, condanne, assassinj, e dell’arrabattarsi presso chi si credeva potente. I Francesi accettavano le costoro proposizioni come innocui balocchi e temi opportuni di retorica parlamentare e giornalistica; e i generali Foy, La Fayette, Lamarque, gli avvocati Mauguin, Perrier, fors’anche Luigi Filippo prima d’essere re, li alimentavano a buone parole, che gli esposero poi ad essere chiamati traditori quando venne di tradurle in fatti. Il legare la propria libertà a un archimandrito che può imporre tutto, persino il delitto; l’obbligarsi con giuramento a fatti di cui si conoscono solo in parte i fini e nulla i mezzi, non è libertà: nè credo nelle cospirazioni s’invigorisca il carattere o si acquisti la pratica, come farebbesi con qualche atto di coraggio civile, coll’istruire il pubblico, educarsi negli impieghi, nella diplomazia, nella guerra. Nè tampoco s’imparava ad affrontare i pericoli, a nessuno esponendosi i capi che tramavano lontano, e che, col titolo d’alimentare la fiamma, esponeano de’ subalterni, dei quali soli è composto il lungo martirologio. La società della Giovane Italia, obbligata ad abbandonare la Svizzera dopo la deploranda spedizione di Savoja, a Berna fece unione colla Giovane Germania e la Giovane Polonia, tre forze che doveano coadiuvarsi nel diffondere le dottrine repubblicane e attuarle; e al regolare istromento (1834 15 aprile) si firmarono gl’italiani Mazzini, Melgari, G. Ruffini, C. Bianco, Rosales. Giovani arditissimi, da loro aggregati, scorreano Italia, tenendo intelligenze, carteggi, conciliaboli, senza che se n’avvedessero le migliaja di spie che diceansi pagate dai Governi. Ma la smania d’essere capo portava moltissime suddivisioni e nomi fra i cospiratori stessi: la Riforma della Giovane Italia, i Federali, la Società di Louvel, gl’Imitatori di Sand (uccisori del duca di Berry e di Kotzebue), i seguaci di Alfieri, della Luce, del Silenzio... Però il concetto generale essendo l’insurrezione, sostenuta colla guerra delle squadriglie, non si potè stare contenti di scrittori e di guanti gialli, e bisognò associarsi braccia e cuori risoluti, facchini, macellaj, contrabbandieri, briganti, i quali a vicenda imparavano il cospirare e i segretumi, e pretendeano anch’essi aver ponderanza nella riforma dello Stato, perchè aveano membra torose e anima leonina. Perciò la società, ramificata per tutto, travagliò viepiù i paesi dove abbondano costoro, e principalmente le Romagne e le Calabrie. Che se per le prime s’avea una ragione nella debolezza e inettitudine del Governo, nella dissoluzione che vi è cagionata ad ogni vacanza, e nelle alte condizioni di un principato elettivo, mal si saprebbe trovarne il perchè nel Napoletano, con una Polizia vigorosa e un re bene armato, che conveniva non inimicare alla causa italica, della quale era a prevedere sino allora che potrebb’essere o robusto appoggio o decisivo avversario. Eppure nel Regno può dirsi non passasse anno senza qualche nuova sommossa, e sempre per ordirle l’avventatezza, per mezzi la guerra di bande, per risultato incarcerazioni e condanne. Tre fratelli Cappozzoli, ricchi del Vallo, dopo la suddetta rivoluzione si ressero fra i monti di Calabria fino al 1828. Allora un canonico De Luca, persuaso che i re, i quali colla battaglia di Navarino aveano assicurato l’indipendenza della Grecia, non isfavorirebbero la redenzione d’Italia, cominciò in Bosco a predicare contro il dominio assoluto piantato colle bajonette straniere, e proclamò la costituzione francese, come áncora della salute. Il vulgo applaudisce, il grido si diffonde, i Cappozzoli fan gruppo di gente volonterosa; ma Del Carretto le sgomina, appicca il De Luca e un venti de’ principali, e diroccato Bosco, vi erige una colonna infame. I Cappozzoli ch’erano fuggiti in Corsica, tornarono più tardi, e côlti con altri invano difendentisi, vennero mandati al supplizio. Nel 1833 i fratelli Rossaroll, spinti da privati rancori, subornarono a Napoli molti militari, e scoperti ebbero grazia. Poco poi Peluso e Nerico tentavano sorprendere Del Carretto e indurre il re alla costituzione, ma n’ebbero ergastoli ed esiglio. Un De Mattheis intendente di Cosenza, ottenuto ampj poteri, costrinse taluno a confessare il reato, tre mandò a morte, dieci ai ferri: ma le grida universali fecero rivedere il processo, e il De Mattheis, trovato bugiardo e calunniatore, fu condannato. Anche la Sicilia lasciossi solcare dalle società secrete che prima vi erano ignote: nel 1823 sollevossi un Abela, nel 25 altri a Palermo, sempre annunziando lo sterminio de’ forestieri, e per forestieri intendendo i Napoletani. Dicemmo i guaj cagionati dal cholera. Di nuovo nel 1840, allorchè Mazzini cominciò a stampare a Londra l’_Apostolato popolare_, insorsero bande nella Calabria e negli Abruzzi, dove si assassinò il colonnello Taufano. La Romagna bollì sempre di sêtte; a Viterbo si formò una congiura, altre altrove. Nel 1840, pel centenario dell’attentato dell’Alberoni contro la repubblica di San Marino, molti v’accorsero da Pesaro, da Rimini, da Sant’Angelo, sfoggiando in piazzate e discorsi contro le monarchie e i papi. L’anno appresso si rannodarono le trame, false nuove tuttodì spargendo sul conto d’altri paesi, e che dalle Calabrie riferivano essere debole e ignaro il re, la milizia guadagnata, scontentissimo il popolo, sicchè tosto proromperebbe l’insurrezione, indomabile fra quei monti. Di fatto, in occasione che le truppe stavano occupate alla festa di Piè di Grotta, un Ciampella tentò di sollevare Aquila; alcuni soldati furono uccisi, ma gli altri rannodatisi rimisero l’ordine, poi fatti processi a cinquanta individui, tre passarono per le armi, altri ai ferri. Nella Spagna, che mai non aveva trovato assetto, ferveva allora la guerra paesana, e alcuni capibanda di colà, i quali asserivano le maggiori loro imprese essersi cominciate con nulla meglio che sette uomini, furono assoldati per mettersi a capo delle nostre. Vennero in fatto a Livorno, ma trovando già finita la resistenza, ripartirono. Pure alcuni vollero far tentativi su Bologna, e subito repressi, buttaronsi fra gli Appennini, guidati da un medico Muratori; e considerati per contrabbandieri, disonoravano l’insurrezione e giustificavano i rigori della Polizia. Non mancò chi vi si aggregasse, massime dacchè Ribotti, venuto di Spagna, tentò sistemare le bande: ma gli Svizzeri le dissiparono, e militarmente furono mandati al patibolo sette popolani; altri alla galera; i capi ricoverarono a Malta, in Francia, in Toscana, fra cui alcuni di buon conto e il medico Farini, fattosi poi storico de’ fatti recenti. Altre Commissioni severe sotto il generale Casella purgarono le Calabrie; ma le file si estendeano e quivi e nelle Romagne, rendendo a chi sacro, a chi infame il nome di brigante. Nel 1844 parve imminente uno scoppio generale; Ricciardi dovea dalla Corsica venire sopra Roma; i rifuggiti nel cantone Ticino invadere Piemonte e Lombardia; Fabrizj colla legione straniera d’Algeri assaltar la Sicilia; altri da Malta e Corfù sbarcare ai diversi porti. Un Partesotti, confidente d’ogni loro mistero e cooperatore, ne teneva informata l’Austria; e dopo che fu morto e onorato di patriotiche esequie e di echeggianti epicedj, gli si trovò l’infame carteggio. In altre parziali sollevazioni il figlio del filosofo Galuppi, capitano de’ gendarmi, restò vittima degli insorgenti, i quali poi, invidiando questo martire alla causa dell’ordine, lo dissero loro partigiano. Le procedure susseguite tennero alcun tempo in carcere Bozzelli filosofo ed estetico, Carlo Poerio, il marchese Dragonetti, Mariano d’Ayala, Matteo De Agustinis, già nominati allora, e più da poi. Maggior compianto eccitò il caso de’ fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, e di Domenico Moro uffiziali nella marina austriaca, che legatisi con Mazzini e disertati, a Corfù aspettavano le sollevazioni promesse per accorrervi; e vedendo tutto fallire, e trovandosi mancanti fino del vivere, persuasi che un sagrifizio fosse necessario per iscuotere l’addormentata Italia, con un pugno d’amici e sprovvisti di tutto sbarcarono in Calabria (1844 25 luglio): non entusiasmo, ma trovarono freddezza e peggio[21]; sicchè côlti furono passati per le armi: caso istantaneo, isolato, eppure d’efficacissima impressione. Le commissioni raddoppiarono d’attività, e molti dovettero migrare. Nei rimasti incancreniva lo sdegno; che sfogavasi in assassinj, i quali davano ragione a nuove procedure, e queste attiravano fama di tiranni ai prelati o ai ministri che avevano dovuto procedere, o di eroi a quelli che s’erano opposti: riputazioni capricciose, perchè determinate dall’opinione personale di chi avesse l’impudenza di asserire. Sparagni, brigadiere dei carabinieri pontifizj, è assassinato (1846) in Ravenna; e poco dopo Adolf, soldato svizzero, che solo avea visto l’assassino: subito si erge un processo che involge settanta individui, e la commissione riconosce che fin dal 1843 esiste una società, mescolata di liberali e di briganti, concordi all’intento di concutere lo Stato, adoprando intanto gli assassini; oltre le confessioni anche stragiudiziali, provarlo le numerose e armate bande di contrabbandieri, insultanti alla forza pubblica, il concorrersi alle esequie di liberali, l’applaudire agli assassinj politici, il denaro profuso ai bisognosi. Su questi indizj e su prove specifiche fondavasi la condanna di molti, e fino di trentasei nella sola Ravenna, de’ quali il papa mitigò le pene. Poi il Governo pontifizio fu fatto conscio come le diverse società stringeansi ad una centrale di Bologna, e colse l’avvocato Galletti e Mattioli loro cassieri e corrispondenti, e le carte a loro apprese diedero titolo a nuove condanne. Bologna appunto formicolava di società segrete, le une rivolte a favorire il dominio tedesco, le altre a repubblica; alcuni moderati voleano solo dal Governo opportuni provvedimenti; e legame fra i popolani e i signori formavano antichi militari, come il conte Livio Zambeccari. V’era chi sognava che il re di Napoli aspirasse a tutt’Italia; v’era chi se la diceva coi Buonaparte, o tenea l’occhio al duca di Leuchtenberg, nipote del re di Baviera, genero dell’imperatore di Russia, figlio dell’antico vicerè d’Italia, e che come tale aveva immensi possessi nelle Marche, tolti da Napoleone ai conventi per farne appanaggio al suo figlio adottivo[22]. Questo partito avea denari e bei nomi, e non sperava l’appoggio del czar, tanto più che questo potente, avendo tolto a perseguitare i Cattolici del suo Regno, si trovò a fronte la maestà del papa, che fece sentire una voce dignitosamente severa, la quale trovò eco in tutto il mondo, e valse ben più che idrofobe declamazioni. Chi non osava afferrar le armi e sparger sangue, spargeva odj, calunnie, rancori. A differenza dei vecchi Frammassoni e Carbonari, le società segrete odierne si valsero molto della stampa; e da Londra, da Parigi, da Lugano, da Losanna diffondevansi scritti, che, parlando della libertà colla stizza di carcerati, e predicando l’intervento diretto del senso comune nelle cause politiche, tenevansi per lo più nel vago, nell’utopia, nel sentimentale, quand’era mestieri di principj, di notizie, d’azione. Quel mistero e il solletico della proibizione faceanli ricercati quanto un romanzo satanico: eppure esercitarono efficienza scarsissima, nonchè sugli eventi, neppure sullo spirito pubblico, non arrivando al popolo, ma solo a quella classe per non avere la fatica del pensare, e fra cui interpolava un guizzo galvanico che mal simulava la vita[23]. Non avendo cognizione immediata degli avvenimenti italiani, stavano a detta di un corrispondente, che parlava intrepido perchè nascosto e fuori del pericolo d’essere contraddetto; e così esaltava sè ed i suoi, deprimeva i personali avversarj, scaraventava le più strane baje: e i lettori, invece di ripudiarlo come bugiardo, diceano, — È meglio informato che noi concittadini». V’avea degli zoili semplici, di cui i furbi si valeano per eludere l’influenza degli scrittori onesti: ve ne avea di malvagi, che per la stessa loro ribalderia imponevano al pubblico, il quale in segreto n’ha schifo, eppure in palese li loda ed approva. La sciagurata abitudine del censurare, del detrarre ad ogni atto dei proprj cittadini, oltre amareggiare le vite più benefiche, rapiva al popolo quella confidenza nei migliori, la quale li avrebbe trasformati in potenze tutelari se si fossero sentiti appoggiati dalla patria; mentre invece scassinati, derisi per la loro superiorità, costretti a guardarsi le spalle dagli amici, vedevano dai proprj concittadini tolta all’amico comune la verecondia del perseguitarli, tolta a se stessi, se non la costanza, l’efficacia del resistere. Così, invece di studiare ed ammannire i rimedj possibili, e il più efficace di tutti, la concordia, sbuffavasi contro i nostri che per poco si elevassero dalla folla, o ambissero le simpatie nazionali, o sdegnassero per naturale orgoglio di giustificarsi in piazza, o, troppo sinceri per esser mobili, dissentissero da loro in qualche punto solo; o che, invece di precipitarsi a capofitto, preferissero giungere per anfratti legali là dov’essi volevano di sbalzo. Gelosie di paese, di condizione, d’ingegno, concittadini livori, adipose insofferenze appiattavansi dietro quella siepe onde avventare accuse reciproche, contraddittorie, irreparabili, e così abjette, che sariasi dovuto conchiuderne, essere cattivi i tiranni, ma pessimi noi, e perciò o immeritevoli di libertà, o incapaci d’acquistarla. Qual meraviglia se alcuni cadeano in quegli scoramenti che al genio detraggono l’autorità, se non lo splendore? se dalla calunnia o dalla paura dell’impopolarità erano spinti all’esagerazione quei buoni che non sanno rassegnarsi all’ingiustizia dei fratelli? E intanto formavasi un’opinione fittizia, da cui martiri ed apoteosi allorchè i pochi encomj e i prodigati vituperj si tradussero in urli di piazza e fino in coltelli. Questa denigrazione sistematica è micidiale della libertà e delle buone istituzioni, perocchè non crea se non la lotta, logora le forze degli uni nell’abbattere gli altri cittadini, men cerca elevar sè che deprimere gli altri; riduce i buoni non a volere dignità, elevatezza, gloria, ma a farsi perdonare la scienza e la virtù e dimenticare; e così lasciare ai nemici il monopolio dell’amministrazione e delle reputazioni. Volesse anche scusarsi come arma da guerra, o come infamia de’ corrispondenti, quali ebbero il coraggio di discredersi quando i fatti le smentirono? e rettamente Mazzini pronunziava, che prima causa dei disastri del 1848 era «l’aver dimenticato che le nazioni non si rigenerano colla menzogna»[24]. Ai nemici dava eccellente salvaguardia la nostra discordia calunniatrice, e non poteano risparmiarsi di mantenere spie quando i nostri ci persuadevano che, ogni tre fratelli, spia era l’uno, vigliacco, traditore. Talmente delira l’opinione quando, dismesso l’uso di ragionare, i sentimenti si accettano dalla moda, dall’abitudine, dal caffè, dai giornali. Chiesti in che consistesse il liberalismo, i più avrebbero risposto «nell’odiare lo straniero». Ma oltrechè una negazione non basta a determinare l’attività, essa sviava dall’educarsi nella libertà vera, lasciando contenti della beffa, abituando a vilipendere ed illudere la legge, credendo generoso del pari chiunque facesse opposizione al Governo, fosse col subire venti anni di ferri o col fischiare ad una ballerina. Tanto maggior lode meritano coloro che, in tempi così funesti alla virtù delle anime, alla forza de’ caratteri, all’elevazione degl’ingegni, e mentre un patriotismo cieco, addormentandosi nelle memorie e adulando se stesso, adontavasi della verità, ovvero l’impazienza del giogo oppressivo rendeva insofferenti anche dei poteri tutelari, lavoravano solinghi, sconosciuti, oltraggiati anche, ma perseveranti. Singolarmente negli ultimi anni, quando altrove maturavano i frutti della pace nelle grandi imprese di commercio, nelle leghe doganali, nelle esposizioni d’industria, qui l’attività si spiegò in ricerche storiche ed esercitazioni letterarie e statistiche, dove, sotto fatti antichi, adombravansi gli odierni; si chiamava l’attenzione sui problemi politici e sociali; ripeteansi in cento toni il nome d’Italia e le sue speranze; e la censura poteva bene cancellare parole e frasi, non lo spirito dei libri cautamente robusti. Persino dal rancidume delle accademie si trasse pretesto di ravvicinare gl’Italiani, dare le abitudini della parola, dell’ordine, della legalità. Tali furono i Congressi scientifici, cominciati a Pisa nel 1839, poi a Torino, Firenze, Padova, Napoli, Lucca, Milano, Genova, Venezia. Dapprima ristretti nelle scienze naturali, presto vi si innestarono anche gli studj economici e morali: nel Congresso di Firenze si propose la riforma carceraria, nesso della medicina colla scienza penale: in quel di Genova le traccie della grande strada ferrata[25], che implicava la quistione nazionale. E se erano campo ai ciarlatani, i quali di qualunque idea si fanno un trespolo, se facevano scambiare l’uomo di rumore per uomo di talento, già pareva assai il vedere Comizj italiani accumulare il frutto delle solitarie ricerche, ed applaudirvisi ad altri che a mime e cantatrici. Eppure fin quelli che la libertà esaminavano come cosa sacra e ne ponderavano gli elementi, dissentivano fra loro; e vulgarmente venivano classati sotto le antiche bandiere di Guelfi e Ghibellini. I Ghibellini, consoni nel bene a Dante, a Machiavelli, ai Giacobini, vedevano la necessità di Governi robusti, qualunque si fossero; e rammentando come Napoleone avesse colla spada troncato tanti modi italici, sicchè stette da lui il farci nazione, avrebbe voluto qualcuno de’ principi d’Italia metter capo di tutta, fosse Carlalberto di Savoja, o Francesco di Modena, o fino l’imperatore d’Austria: primo bisogno d’una nazione diceano l’unità; il resto terrà dietro. Gli altri zelavano la libertà innanzi tutto, e ne vedevano appoggio e fonte la religione. La moda degli scherni volteriani avea ceduto a quella d’un cristianesimo vaporoso e sentimentale, figliazione di quello di Chateaubriand, che aveva non dischiuso il tempio, ma ornata di tappeti la via che vi conduce; e che vagheggiandolo come un’anticaglia scoperta, confessava in piedi un Ente supremo, ch’era poco più del dio de’ galantuomini di Voltaire, o del dio delle anime sensibili di Rousseau e Lamartine, anzichè inginocchiarsi al Dio vivente, personale, crocifisso; coltivava il sentimento negligendo il dogma; la fede limitando a una speculazione, che nè regolava le azioni, nè repudiava necessariamente qualunque altro culto o dogma morale. Che se taluno degenerò in ascetismo monacale o in gergo teosofistico, nè migliorò lo spirito religioso, molti altri spingeva ad opportunissime beneficenze, e negli scrittori aveva prodotto (a tacere altri) i due libri che quasi soli divennero popolari anche oltr’Alpe, e dove alle nequizie degli uomini e alle sofferenze della vita si opponevano quelle miti virtù che trionfano del mondo. I migliorati studj e l’annobilito sentimento religioso cambiarono il modo vulgare di considerare la dominazione dei papi, e mostrarono come la libertà fosse tutelata da essi, i quali, coll’opporre la Chiesa universale all’universale impero, aveano creata, anche politicamente la vasta unità cattolica, e sottratta l’Italia dall’eccidio totale della civiltà; essi impedito che prevalesse nessun Barbaro; in loro nome eransi fatti i tentativi di indipendenza e di federazione italica, sia nella Lega Lombarda e nella Toscana, sia in quella contro Ezelino, poi da Giulio II, e fin da Pio VI. Pure, riversando sul pontefice l’odio che meritava la cattiva amministrazione, molti per politica aborrivano l’organizzazione cattolica, benchè fosse la sola che conservò all’Italia un primato nell’età moderna[26]. Altri invece propugnarono la primazia papale perchè la vedeano repulsata dai Governi e principalmente dall’austriaco, ossesso dalle gelosie giuseppine; e nel Lombardo-Veneto era quasi una moda, massime fra il giovane clero, il mostrarsi papale, autorizzandosi dei nomi patrj di Manzoni, di Cantù, Vitadini, e degli esotici di La Mennais finchè non precipitò, e de’ suoi collaboratori nell’_Avenir_, Ratisbonne, Lacordaire, Montalembert, i quali, saldi al cattolicismo, lo associarono colla libertà e colla scienza. E a noi pure sembrava che, ad elevare le plebi, il miglior modo fosse elevare i pastori; rinfiancavamo la primazia spirituale, come adatta a ristabilire il concetto dell’autorità, così necessario per reggimenti liberi, cioè frenati solo dalla morale. Temerne le esorbitanze come poteasi quando ai Governi stavano in mano la forza, e agli scrittori l’opinione? Ricorrendo alla storia, si divisava adunque una lega di popoli italiani, a cui capo il pontefice, che così facesse rivivere l’Italia, non nell’unità del principato, ma nell’unione di interessi, di sentimenti, di bandiera, di pesi, misure, dogane, di militari esercizj, di palestre dottrinali, di diplomazia[27]. Ma l’Austria vorrebb’ella entrarvi, isolando le sue provincie italiche dalle transalpine? o la sua potenza non ve la farebbe preponderare a scapito dell’indipendenza? Gravissima difficoltà! e, come troppi sogliono, credeasi eluderla col non tenerne conto. Queste idee, volte in motteggio dai molti che, senza discernere gli accidenti dalla sostanza, l’abuso dalla regola, le persone dai principj, il papa dal papato, riguardano come unico impaccio alle fortune italiane i pontefici, erano con pazienza coltivate da buoni ingegni e retti cuori, l’esempio e la voce de’ quali professò seguire l’abate Gioberti. Esigliato dal Piemonte, senza relazioni nè libri viveva a Brusselle[28] la vita dell’infelice esule, di fare il maestro, e di una pensione conflatagli da quei che in esso ammiravano un sommo filosofo e un eloquentissimo letterato. Di là appunto inviò il _Primato civile e morale degl’Italiani_ (1843 giugno), cui assunto politico è «l’Italia essere la sopra nazione, il capo-popolo, la sintesi e lo specchio dell’Europa, la creatrice e redentrice per eccellenza», e ciò perchè capitale religiosa dei popoli ortodossi. Ma poi, in contraddizione di questo asserto, cerca le guise di _migliorarla e riordinarla_, e lo crede impossibile senza il concorso delle idee religiose. La penisola non può essere una, libera, forte, se Roma, sua metropoli civile e morale, non risorge civilmente; finora i tentativi politici fallirono perchè non si tenne conto della classe clericale, delle comuni credenze, della religione ch’è la base del genio nazionale. Però ridurre l’Italia in unità è follia, bensì varrà una confederazione di cui il pontefice sia capo e presidente, monarchico e aristocratico il Governo. I principi prevengano le rivoluzioni col fare riforme animosamente: ma le ecclesiastiche non possono venire che dall’autorità legittima; altrimenti il bene che ne deriva non compensa il male cagionato dalla natura dei mezzi. Fortunati i principi d’Italia che possedono il gran bene d’essere assoluti, perchè ciò dà loro il privilegio veramente invidiabile di essere onnipossenti per salvare l’Italia (tom. I, p. 181). Tutto ciò affogava in un mar di parole e fra un implacabile panegirico dell’Italia e di tutti, dei re e del popolo, dei nobili e del vulgo, dei dotti e degli ignoranti, di Pellico e d’Alfieri, de’ preti secolari e de’ Gesuiti, principalmente di Roma, «ai dì nostri asilo inviolabile di civile tolleranza, e ricetto ospiziale aperto a tutti gli uomini onorati, specialmente se infelici, qualunque sia la setta a cui appartengano»: del papa, gloria perpetua, antica tutela, nuova speranza della nazione; di Carlalberto, acciocchè si facesse centro al restauramento italiano, ma sconsigliavalo dal dare libera stampa[29] nè assemblee legislative, bastando un consiglio di Stato e la libertà di supplicare. Quanto all’Austria, non ne facea parola. Sì poco erano coltivati tali concetti, che, quantunque tanto vi fosse di che eccitare la fantasia d’un popolo artista, e stuzzicare l’amor proprio d’un popolo umiliato, quei due grossi volumi furono conosciuti da ben pochi, fin quando non ne divulgò le dottrine Cesare Balbo (1789-1853), uomo che merita essere studiato come tipo di quelli che, o per lode o per biasimo, s’intitolarono moderati. Ogni suo scritto è pieno di lui, sicchè non riesce difficile il ritrarlo. Giovanissimo spinto negli affari dall’essere figlio del ministro Prospero Balbo, assistette ai consigli di Stato di Napoleone, fu aggiunto alla commissione francese nel Governo di Roma, dove apprese a stimare il debole che protesta, più del forte che sopraffà. Tornati i reali a Torino, egli non ne fu ben visto, pure tenuto negli affari o nella milizia. Nel 1821 dissentì dai cospiratori, pose anzi la sua spada a servigio del re; ma questo, non che gradirlo, il rimosse da sè e dagli affari. Bisognoso d’azione e d’influenza acquistata con onestà e decoro, si buttò allo scrivere come un’occupazione in mancanza d’altra; e moltissimi lavori intraprese, suggeriti dalla lettura e dalla critica, sbozzati con impeto, abbandonati a mezzo, od esposti con stile di brevità scabra ed oscura, misto di francese e d’arcaico. La storia divenne suo campo prediletto, ma gli mancava la pazienza di verificare fatti, e d’accertare se corrispondessero al suo preconcetto. Cominciò una storia d’Italia; ma la severa critica dell’Antologia, giornale allora il più accreditato, gliela fece interrompere, e soffrì della situazione dell’uomo che, non volendo chinarsi alle prepotenze giornalistiche e liberali, scostasi del pari dai due estremi. «Sovente (scriveva) gli uomini calunniati per invidia dai concittadini, sono per le prove fatte ammirati dai nemici. Qualunque volte soggiaccia la patria a qualche durevole calamità, è naturale a molti, o per forza o per dispetto, il ritirarsi nelle solitudini. Ma è bella solamente la solitudine austera, occupata, religiosa, come se la fecero i monaci antichi; non quella non curante, oziosa, viziosa, dispregiatrice e schernitrice di tanti uomini di secoli più colti... Una delle disgrazie più accoranti è l’essere rigettato dal proprio partito; ma è una di quelle a cui più frequentemente soggiacciono gli uomini virtuosi e forti, perchè non volendo adattarsi alle esagerazioni e stoltezze del partito, lo offendono, e se ne fanno prendere in sospetto finchè durano le difficoltà, e cacciare dopo la vittoria... Per dire un uomo civilmente coraggioso, non basta che egli abbia resistito una volta ad una parte, una volta all’altra: bisogna che egli abbia resistito alle due insieme, alle due ogni volta, in tutte le occasioni importanti... Nei paesi assoluti, ineducati alla politica, si vuol troppo riprovare ogni ambizione; non vedendosene altra che dei posti, dei titoli o del denaro, è antica e santa massima di non cercare, di aspettare i posti. A me parve sempre più santa la massima di prendere ed anche cercare legittimamente i posti per promovere la propria opinione; santa e buona l’ambizione dell’opera, che si dee dunque distinguere dall’ambizione dei posti, che li prende per mezzo non per fine». Pertanto si duole d’essersi talvolta rattenuto dal domandare più alti posti per riguardo ai concittadini, «chè le invidiucce dei paesani non si vincono rispettandole ma opprimendole»; ripetutamente offerse i suoi servigi a Carlalberto, e del vedersi scelto solo a bassi incarichi prendea sdegno; lamentavasi de’ lunghi e amari disprezzi prodigatigli da chi governa il suo paese: «Fui e sono costantemente rigettato dal Governo,... sono o mi credo (chè monta al medesimo qui) offeso e disprezzato. Non sarei uomo se non cadessi talora per un istante involontariamente nel desiderio di vedere mutato un tal Governo, di vederne sorgere uno dove mi si aprisse campo, una volta almeno prima di morire, di sfogare, di mostrare la mia vecchia ma non spenta operosità per la patria. E tanto più che anche per la patria sento un desiderio di mutazione, diciam la parola, rivoluzione. Il pensiero delle sventure e dei delitti stessi che accompagnano tali eventi, non valgono a distrarre in me tal mio desiderio primo»[30]. Carlalberto l’invitò poi qualche volta a pranzo, del che scandolezzavansi i liberali; ma egli non opinava che la dignità restasse svilita da atti urbani. E la condizione degli scrittori moderati ben dipinse dicendo: «Nei paesi dove le parti latenti si esagerano in quel segretume che diventa loro necessità e natura, sorgono di qua di là quelle, come che si chiamino, leghe difensive ed offensive, ma principalmente esclusive, che si rivolgono poi con ardore contro a chiunque parla chiaro e pubblicamente; sorgono quelle purificazioni, sempre stolte anche quando sono fatte dalle parti vittoriose, più stolte quando dalle parti ancora combattenti, stoltissime quando non è instaurato nemmeno un aperto combattimento. Qui ogni anima sdegnosa, respingendo i segretumi, riman respinta da quasi tutti; rimane non solamente, come altrove, poco accompagnata, ma quasi solitaria; non ha per difendersi in suo modo aperto nè le opere che le sono vietate, sia che soverchi l’una o l’altra parte estrema, nè le parole che non vi sono pubbliche mai; se scrive, ella ha contro sè non una ma due censure, quella pubblica della parte soverchiante e quella segreta della parte compressa; quella che sembra voler conservare tutto, anche gli stranieri, e quella che tutto mutare, anche gli strumenti da cacciare gli stranieri; volendo serbarsi pura secondo la propria coscienza, riman dichiarata impura di qua e di là; rimane quasi _ex-lege_, fuor delle Caste onnipotenti, senza speranza di vincere vivendo la doppia guerra arditamente bandita, senza speranza di niuna giustizia di posteri vicini»[31]. Ispirato dunque dal libro di Gioberti, ne compose uno più semplice e breve, col titolo di _Speranze d’Italia_ (1845). Era il primo che di politica italiana ragionasse non fuoruscito, e sotto un principe che non l’avrebbe molestato, ma forse neppure difeso. E divenne il programma sopra il quale si esercitarono i ragionamenti de’ pochi che pensano, e i discorsi de’ molti che ripetono. Mentre Gioberti non erasi dato briga dello straniero, Balbo mette l’indipendenza innanzi tutto, _Porro unum est necessarium_, fin a sagrificarle le forme della libertà[32]; rifugge dalle sollevazioni e come ree e come pregiudicevoli; non crede possibile la formazione «d’un regno d’Italia in tante varietà d’opinioni, di disegni, di province», bensì una confederazione, ove il Piemonte sia spada e cuore Roma, e nella quale si concedano tanti beni ai popoli, che il dominatore straniero perda ogni nerbo, sinchè la Provvidenza non conduca il tempo di fargli abbandonare l’Italia, compensandolo con acquisti sulla Turchia. L’effettuazione di queste idee rimetteva di là dal 1860, dopo finite le strade ferrate e caduto l’impero Ottomano. Tutto ciò con una sincerità senza violenza, un’onestà senz’illusioni. I gran savj da caffè lo definivano il libro contro le speranze d’Italia; ma intanto diffondeansi la discussione e l’idea del riconciliamento, e formavasi un’opinione nazionale, meglio che non si fosse ottenuto colle esorbitanze declamatorie. Questi svolgimenti indigeni erano, al solito, modificati dagli esterni, massime dalla Francia, paese che l’irremissibile bisogno di movimento sospinge continuamente a nuove esperienze, e a non accettare altro pilota che la tempesta. La carta costituzionale, ristampata sanguinosamente con correzioni nel 1830, avea assicurata la maggiore libertà possibile a quella nazione; la pace avea fatto prosperare gl’interessi: ma infuse un’improvvida sicurezza, ebrietà di lusso, di felicità, d’ingegno, di quei godimenti che favoriscono gl’istinti corrotti, sopreccitano le facoltà pericolose, e ogni limitazione rendono intollerabile a gente che, di tutto divertendosi, lascia addormentare le facoltà serie, che avvertono e moderano. Surrogato così al regno delle idee il regno degli appetiti, la libertà non volle riconoscersi che sotto forma d’opposizione, sempre ammirando chi contraffaceva o almeno contraddiceva al Governo; tema per verità più opportuno alla declamazione che non alla difesa dell’ordine e allo svolgimento della legge. Dai Parlamenti quell’abitudine passava nella letteratura, e gl’ingegni bellissimi, il limpido discorso, la colorita descrizione volsero Thiers, Luigi Blanc e Lamartine a divinizzare la forza, sia manigolda con Robespierre e Marat, sia radiante con Napoleone; Béranger colle canzoni, Vernet col pennello, ridestavano il culto di Napoleone, sol per fare onta alle dinastie; Lamennais, stizzito con Roma dacchè questa ripudiò le idee di lui, torse la logica potente e lo stile incomparabile a scassinare quell’autorità, sulla quale avea dianzi posato l’edifizio della società e della cognizione; Hugo professava che il «poeta può credere a Dio o agli Dei, a Plutone o a Satana o a nulla». I giornalisti, echeggiando tutti una stessa voce, la faceano somigliare ad opinione pubblica, e perciò acquisirono la presunzione di esserne non organi, ma dettatori, e in conseguenza poter imporre ai Governi. Molti speculanti sull’immaginazione, fomentavano alla rivolta del cuore, della fantasia, dei sensi, divinizzando i godimenti sensuali, togliendo ogni idea d’abnegazione, ogni riguardo di carità; dalle cattedre sbertavasi quanto v’ha di venerato; e resuscitavansi i rancori contro il papa e i preti, demonj della società e della morale. Romanzi, schifosi al buon senso come al buon gusto, per farsi leggere si sminuzzavano in appendice alle gazzette, portando ogni giorno un grano d’arsenico nelle famiglie, nelle botteghe, alla campagna; blandivano la doviziosa lascivia colle azzimate laidezze, la stizza de’ proletarj coll’esagerare la corruttela gaudente, gl’istinti col mostrare le donne inevitabilmente soccombenti alla tentazione, gli uomini operanti solo per interesse e passione; prendendo per ideale le eccezionali sconcezze della natura o della società, iniziavano i cuori vergini a turpitudini col rivelarle, e attizzavano il popolo contro i ricchi, come usurpatori del patrimonio comune. Dove la stampa, il disegno, il teatro, la declamazione baldanzeggiavano senza rispetto e senza pudore contro al Governo, alla famiglia, all’ordine sociale, si concepì spettacolosa paura di alcuni preti che, all’ombra della libertà, aveano creduto poter riunirsi a pregare, a insegnare, ad apostolare. Libri, stampe, canzoni, romanzi aizzarono fin al parossismo contro i Gesuiti, sfogando su questo nome il bisogno di ire, che nei volghi è insito come il bisogno d’ammirazione[33]. E dico nome, perchè il buon senso non crederà mai il mondo così rimbambolito, da capovoltarsi per alcuni preti, i quali cacciò a budelli ogniqualvolta lo volle. Vero è che ogni volta tornarono. Quei libri correano anche in Italia, ai Governi giovando che l’attenzione si storni sulle sacristie; e coll’impeto d’una moda e colla comodità di un nome, nel secolo della Polizia e della legge marziale, in un paese che avea reali nemici a combattere, fu sparso l’odio contro i Gesuiti, designando così non le reliquie degli antichi Lojolani, ma chiunque mettesse zelo nell’ecclesiastico ministero, poi chiunque asserisse la primizia papale, infine chiunque si volesse screditare con un titolo che non ammetteva discolpe, che nella sua vaghezza abbracciava qualsifosse gradazione di merito e d’infamia. E perchè la peggiore infamia era il parteggiare collo straniero, si dissero i Gesuiti turcimanni di quell’Austria, che nel suo dominio gli ammise tardi e scarsi e ammusolati. Onnipotevano invece in Piemonte, se crediamo al Gioberti, il quale, sbigottito dal sentirsene affiggere il titolo per averli encomiati nel _Primato_, e indispettito della fredda accoglienza fatta a questo, «da acqua tepida si convertì in lava» nei _Prolegomini_, disdicendo la più parte del detto nel _Primato_, spiegando quell’odio contro i Gesuiti, che divenne d’allora il suo carattere, e professando che ogni bene consisterebbe nell’abolirli. Vi rispose poche pagine il gesuita Curci; e l’abate avventogli in cinque grossi volumi la requisitoria più estesa che mai se ne fosse formata. Stile manierato, qualche valore d’analisi e impotenza della sintesi, blandizie cortigiane, menzogna sistematica, spionaggio, odio contro chiunque ha valore, morale lassa, erano le colpe che ad essi apponeva il Gioberti: poi ragguagliavali ai Mazziniani per la cieca obbedienza a un capo, l’indifferenza nella scelta de’ mezzi, la giustificazione del regicidio: infine li gravava di quante nefandigie mai possono commettersi o escogitarsi. Che se Eugenio Sue avea finto avventure e nomi per divertire e ingannare, il Gioberti altrettanto assoluto e intrepido metteva alla gogna e senza discussione persone vive[34]; asseriva, sempre a detta altrui, che nelle scuole gesuitiche «si predica una morale ribalda che non ha di cristiano che le sembianze, un costume di cui gli onesti gentili si vergognerebbero, una giustizia che contraddice alle leggi pubbliche e non può avere altra sanzione che quella degli scherani». Il secolo critico avrebbe osato revocarlo in dubbio? Quella che il Brofferio qualifica «ignobile invettiva, rabbiosa rapsodia, prolissa declamazione, di tratto in tratto splendente d’impeti sublimi»[35]; e il Pellico «profluvio inesausto di bene e di male, di carità e di odio»[36], fu letta da pochi nei passi dottrinali, da tutti nei virulenti; chi dissentiva dal _Primato_, applaudiva al _Gesuita moderno_, che molte persone espose allo scherno concittadino, e presto alle violenze. Ma perchè aveali tanto carezzati? Rispondea, per correggerli. N’avesse anche lasciato ad essi il tempo, però mostravasi incerto o sleale nei giudizj; chiamava gesuitico non tutto quello che nella Chiesa apparivagli guasto, ma quel che a lui non piaceva; e, pur volendo venerata la Chiesa, acquistava aria di sofista. I Gesuiti non conobbero nè la dignità del silenzio, nè quella della risposta; e sputacchievoli accapigliamenti sconnetteano in sè e disonoravano in faccia altrui la parte guelfa; mentre i non guelfi le movevano opposte battaglie, incolpando essa di repubblicana, e il papa d’aver rovinato l’Italia. In tal senso Giacomo Durando (_Della nazionalità italiana_) impugnava i neoguelfi[37]; al papa volea si conservasse Roma e qualche isola, il resto d’Italia dividendo tra Casa di Savoja e i Borboni di Sicilia; non toccar l’Austria fin che essa non provocasse; aversi a sperar meglio nella Russia che nell’Inghilterra, questa amica, quella nemica naturale dell’Austria; del resto l’unità d’Italia non poter venire che dal principato, la sua reviviscenza dalla libertà. Leopoldo Galeotti (_Della sovranità temporale dei papi_) era d’avviso che a riformare gli Stati Pontifizj bastasse il richiamar le antiche leggi, e principalmente i Capitoli di Eugenio IV. Gino Capponi (_Attuali condizioni della Romagna_) dicea che tutti consentono nella necessità del dominio temporale, sol doversi cambiare ministro, istituzioni, leggi, e consigliava i papi a farlo e rendere così venerabile la tiara prima che qualche evento europeo obbligasse a bruttarla di sangue per lasciarla cadere nel fango; un papa che regni senza governare è l’unica soluzione del nodo; Roma ha più bisogno del papa che il papa di Roma. Altre idee e partigioni diverse propugnava un Lombardo nei _Pensieri sull’Italia_, considerando come impedimento quel dominio papale, che pel Gioberti era la salute, per Durando la ruina d’Italia. Della reviviscenza guelfa indispettì il poeta Giambattista Niccolini, e nell’_Arnaldo da Brescia_ pose una bella poesia e un’imperfettissima erudizione a servigio delle passioni. Anche il Giusti berteggiava «quest’Apollo tonsurato che dall’Alpi a Palermo insegna il cantofermo», e il tuffare la penna nell’acqua benedetta. In verità l’assunto dei neoguelfi pareva ognor meno accettabile in grazia della speciale condizione dello Stato Ponlifizio, portato da lunghi eventi allo sconcio eccezionale di concentrare nella stessa persona la sovranità temporale e l’impero sulle coscienze, come nella società pagana; talchè sul papa ricadeano anche le colpe o i difetti del principe. Gregorio XVI, ancora monaco, avea scritto il _Trionfo della santa Sede_, dove, zelando la primazia pontifizia, in nome del cristianesimo proclama il diritto delle nazionalità. Un ingiusto conquistatore, con tutta la sua potenza, non può mai spogliare dei suoi diritti la nazione, ingiustamente conquistata. Potrà con la forza ridurla schiava, rovesciare i suoi tribunali, uccidere i suoi rappresentanti; ma non potrà giammai indipendentemente dal suo consenso o tacito o espresso, privarla de’ suoi originali diritti relativamente a quei magistrati, a que’ tribunali, a quella forza cioè che la costituiva imperante (pag. 37). Fervoroso per la causa di Dio e la santa maestà del dogma, secondò le reviviscenze gerarchiche, infervorò i parroci ne’ doveri religiosi, e cercò opporsi alle ripullulanti eresie; santificò Alfonso Liguori, Francesco di Geronimo gesuita, Giuseppe della Croce minorita, Pacifico da San Severino minor osservante, Veronica Giuliani cappuccina; altri italiani beatificò; accelerò la ricostruzione dell’incendiato San Paolo[38]; conchiuse concordati col re di Sardegna, per cui lasciavasi al fòro secolare la cognizione dei _crimini_ di ecclesiastici, mentre i _delitti_, eccetto quei di finanza, restavano di competenza curiale, e nei casi capitali fosse comunicato il processo al vescovo che deve degradare il condannato. Anche al duca di Modena consentì che le cause meramente civili fra ecclesiastici e laici si portassero al fôro secolare, e così i delitti di lesa maestà, sedizioni o contrabbando, intervenendovi però un deputato del clero; e per le pene capitali deve il vescovo conoscere il processo originale: del resto integrava i pieni diritti pontifizj e vescovili, ed aboliva le restrizioni ai possessi di manomorta. Ebbe a lottare colla Spagna che tolse i beni al clero e la nunziatura, col Portogallo a proposito dell’istituzione canonica dei vescovi, colla Svizzera per la soppressione dei conventi d’Argovia, e così coll’America meridionale: e mentre da un secolo i papi non avean mostrato vigore che col soffrire, Gregorio uscì dalla posizione meramente passiva per mostrare la fronte ai persecutori subdoli o prepotenti. Animato dalla coscienza cosmopolitica del supremo sacerdozio, scomunicò i fautori della tratta dei Negri. A proposito de’ matrimonj misti parlò alto al re di Prussia; e avendo questo incarcerato l’arcivescovo di Colonia, esso il denunziò a tutta la cristianità per modo che il persecutore dovette chinarsi. Approvò la rivoluzione dei Belgi perchè eccitata da persecuzione religiosa; ma allorchè alla Polonia sollevata contro la Russia scismatica rammentò l’obbligo d’obbedire, parve insultare a un cadavere. Al tempo stesso egli ricorse al czar perchè trattasse meglio i Cattolici, e adempisse le promesse fatte loro: ma il czar non che badarvi, adoprò seduzione e persecuzioni per unificare l’impero anche nelle credenze. Corse anche voce, e un opuscolo pubblicato da persona a lui vicina parve confermarlo, che l’imperator Nicolò si credesse il vero rappresentante dell’impero romano, e in conseguenza il capo di tutta la cristianità nel religioso come nel politico. La sua forza già gli attribuiva predominio sui re; rimaneva di ridurre a una sola le due Chiese, latina e greca; ossia, considerando questa come l’unica vera, e la latina come scismatica, questa richiamare all’unità sotto di lui, unico papa. A tal fine erano dirette le persecuzioni ai Cattolici, mediante le quali molti preti e intere provincie fece apostatare, di orride persecuzioni punendo chi reluttasse. Il papa le espose in una relazione (1842), che fece inorridire il mondo. Essendo poi il czar passato per Roma nel visitare sua moglie che miglior salute cercava a Palermo, Gregorio, invece delle blandizie profusegli dai principi, gli fece severi raffacci delle sevizie usate ai Cattolici, intimandogli: — Fra breve noi compariremo al tribunale di Dio; e non oserei sostener la vista del mio giudice se non difendessi la religione, della quale io sono il tutore, voi l’oppressore». Quelle minaccie non uscirono vane, e provarono quanto un pontefice possa ancora sul mondo allorchè tuteli la verità e l’innocenza, scevro da interessi mondani e da grette paure. Chi conobbe Gregorio nell’intima vita, lo trovò di consuetudini semplici, e gusti fin vulgari; facile alle udienze, studioso anche sui libri nuovi che gli si lasciassero arrivare; ai parenti non diede nè ricchezze nè cariche, mentre debolmente condiscendeva al cameriere Gaetano Moroni, che blandito con titoli e decorazioni dai re e fin con applausi letterarj, subì la responsalità di quanti errori allora si fecero. Piovvero epigrammi su quest’amicizia, e sull’ubriacarsi del papa e su altre baje, dove non era di vero se non la debolezza di un vecchio e frate. Di costituzione, di bilancio, degli altri arzigogoli estranei alla teologia ed esotici nel regno di Dio, nulla intendeva, sicchè bisognava lasciasse fare ai ministri e alle circostanze, per cui colpa le riforme promesse nel 1831 riuscirono a nulla o a male. Quelle imperfette concessioni guardava il Governo come estorte, e voleva eliderle; impacciava le amministrazioni comunali coll’intervento governativo; gl’impieghi conferiti a laici nelle Legazioni furono ritolti; il regolamento del 1835 metteva norma ai giudizj il diritto comune, moderato dal canonico, e senz’abolire gli statuti locali. La giustizia era corruttibile non solo, ma esposta agli arbitrj de’ superiori, e alle interminabili restituzioni in intero. Commissioni militari erigevansi ad ogni attentato contro la sicurezza pubblica, sinchè non vi venne sostituita la Consulta, che, con norme eccezionali anch’essa, dava il difensore, ma scelto fra quattro proposti dal Governo, e vincolato al secreto; testimonj e giudici lasciava ignoti al reo. Le riforme amministrative si riduceano a una maggior regolarità di protocolli, insegnata da un magistrato austriaco (Sebregondi), a tal uopo deputatovi; e al crescere gl’impiegati, parassita aggiunta alle altre: crebbero fuor modo le ruberie e le venalità, l’onnipotenza degl’intriganti, l’assolutezza moltiplicata quanti erano i potenti, quanti i domestici del papa. Il debito, lasciato o causato dalla rivoluzione del 31, era ben lungi dall’essere spento dalle tasse nuove e da altri compensi; tanto più che tutti dilapidavano, e il lusso governativo cresceva, e il cardinal Tosti tesoriere non sapeva asciugar pozza che col farne un’altra, tanto da non fallire[39]. Le opere pubbliche volgeansi al fasto, più che all’utile: e il viaggiatore, gemente su quelle incomparabili ruine, domandava perchè piantagioni e coltura non tornassero sane e ubertose le circostanze di Roma, perchè vaporiere non risalissero il Tevere, perchè strade ferrate non congiungessero coi due mari la metropoli della cristianità. Peggio andava nel morale; ed oltre la Polizia, una ciurma ammantavasi di devozione al Governo per trasmodare contro le opinioni opposte. Il papa nol sapeva, chè de’ favoriti suoi era cura non gli si ragionasse di affari, talchè rimanea persuaso che ogni cosa andasse nel meglio possibile. Vollero ribadirgli questa persuasione col fargli intraprendere uno di que’ viaggi (1841), in cui il principe non riceve se non riverenze e trionfi, gli si lasciava solo il tempo di visitar chiese, monumenti, istituti pubblici parati ad inganno, e uomini disposti a staccare i cavalli e tirar la carrozza, e quella turba di cittadini che s’affollano sulle strade o nelle anticamere, applaudendo se vulgo, petizionando se civili. Ne riportò dunque l’idea della beatitudine universale; e intanto lo scontento delle Legazioni, già preveduto dai diplomatici nel 1831, fu portato al colmo dal non averle egli visitate; e massimamente a Bologna preferivasi palesemente la dominazione austriaca[40], perchè forte, di truppe disciplinate, d’incorrotta giustizia, di tutto quel bene che l’odio del proprio fa supporre ne’ Governi altrui. Al fine del 36 i Francesi si erano ritirati da Ancona, i Tedeschi dalle Legazioni, lasciando sentimenti opposti, ma accordantisi nell’avversione al dominio papale. Anche ai miglioramenti non faceasi buon viso; e quando fu pubblicata la riforma giudiziaria, non solo avvocati e tribunali la combatterono così, che fu duopo sospenderla, ma una stampa clandestina diceva: «È dell’onor nostro il resistere. Niuna transazione con Roma». Anche voti ragionevoli si mormoravano, e tratto tratto si gridavano in tono di rivolta; ma le insurrezioni tentate ripetutamente diedero ragione a repressioni vigorose, tanto più che spesso la causa degli insorgenti confondeasi con quella de’ masnadieri, cronico morbo al paese. Un Renzi riminese, reduce di Francia dove avea mestato nelle combriccole, mandato o fingendosi dai liberali di Romagna, e affiatatosi con altri ricoverati in Toscana, indusse a fare una protesta armata per sostenere un’altra scritta dal dottore Farini, intestata _Libertà civile, Governo secolare, Ordine pubblico_. Avuto compagni ed arme, il Renzi sbucò da San Marino, e occupò Rimini; ma poichè nessuna città rispose, i soldati svizzeri gliel’ebbero prontamente ritolta, ed egli con cencinquanta rifuggì in Francia traversando Toscana. Stolto tentativo; eppure se ne fece un gran parlare, e valse a fissare gli occhi d’Europa sopra le domande de’ Papalini, in gran parte sensate ed effettibili. Tolse a sostenerle il piemontese Massimo d’Azeglio, che, nei _Casi di Romagna_, riprovando risolutamente le congiure, le manifestazioni di piazza, le insurrezioni, insieme mostrava come unica via di evitarli il governar bene, svellere gli abusi, concedere le riforme necessarie. La Polizia rabbrividì quando non si trovava più a fronte sediziosi da incarcerare, ma ragioni da ribattere; non minacciata la religione, non i possidenti, nè tampoco il Governo, ma gli abusi, le turpi passioni e l’inerzia negativa; non imposte nuove concessioni, ma rammentato voti già espressi nel 1832 dalle Potenze che si chiamano tutrici della servitù, poi dimentichi a segno, da parer adesso novità[41]. Il Governo rispose al manifesto, parte negando o attenuando que’ fatti, parte mostrando o ingiuste o improvvide le domande, parte denigrando i sovvertitori; e sebbene dicesse molte verità, ognun sa quanto poco vagliano le difese, tanto più quelle d’un Governo contro un nome divenuto popolare. Cresceano dunque i fremiti; e come in Lombardia formolavansi nella cacciata degli stranieri, così qui nella parola di secolarizzazione. Un principe a tempo, scelto per lo più in vecchiaja, tra una classe aliena per istituto dagli affari temporali; scelto, aggiungiamo, a preferenza per le virtù che continuino la serie di tanti virtuosi, e rendano servigi alla Chiesa universale, deve riuscire men proprio a governare il paese quanto più l’istituzione ecclesiastica si rende piamente austera ed esemplare; insomma peggiora per quelle condizioni di moralità, per le quali gli altri Governi unicamente possono perpetuarsi. Di qui la necessità di stabili istituzioni, le quali possano in qualunque caso dirizzare i consigli sovrani. E tanto più che negli interregni l’anarchia diventa regola, sconnettendosi ogni autorità, e riagendosi contro chi era stato potente: sicchè il Governo che sottentra deve ripristinare l’obbedienza, effetto sempre scabrosissimo e viepiù con gente nuova com’è quella messa in posto dal nuovo pontefice, di cui è consuetudine, se non obbligo, il dare lo scambio ai ministri del predecessore. Roma da un pezzo non ha municipalità, l’amministrazione della città confondendosi collo Stato, e rammentandosi con ribrezzo i tempi quando ancora il Comune di Roma osteggiava i papi, e li cacciava ad Avignone. L’avere il Consalvi concentrato moltissimi affari nella segreteria di Stato, e tutto il potere esecutivo, aveva sminuita la partecipazione dei cardinali alla sovranità. Il concistoro di questi, eletto fra tutte le nazioni, e dagli uomini più eminenti per scienza ecclesiastica, ha tutt’altra destinazione che la accidentale di reggere lo Stato. Prima della rivoluzione, alla Corte di Roma si formavano buoni amministratori e destri politici, atteso le vive relazioni con tutt’Europa, e l’essere la prelatura riservata ai cadetti delle famiglie nobili, che vi portavano meno l’austerità ecclesiastica, che l’attitudine ereditaria agli affari, l’appoggio delle parentele, la ricchezza, le aderenze. Tutto cambiò nell’eguaglianza sopravvenuta; perì quella scuola di diplomatici; e poichè il riformare richiede genio ed esperienza, qui pure si preferì il non far nulla, o quell’acquistar tempo ch’è reputato guadagno dai poteri egoistici. CAPITOLO CXC. Pio IX. Le Riforme. Le Costituzioni. Morto Gregorio XVI (1846 1 giugno), si antivedeva un conclave tumultuoso, e intanto le Romagne e le Marche bollivano; ad Ancona fu assassinato il colonnello Allegrini; dappertutto adunanze, e petizioni; ma prima che s’iniziassero le brighe diplomatiche, il sacro Collegio nominò (16 giugno) Giovanni Mastai Ferretti, nobile di Sinigaglia e vescovo d’Imola. Preso il nome di Pio IX, nell’enciclica ripetè i lamenti del predecessore contro l’indifferenza, il razionalismo, le società bibliche, la stampa sfrenata; poi colse ogni occasione per ripetere che egli era papa cattolico innanzi tutto, padre di tutti i fedeli e non dei soli Italiani, geloso di non menomare gli affidatigli diritti della santa Sede. Poco dopo (6 luglio) concesse amnistia a chi avea «meritato castigo offendendo l’ordine della società e i sacri diritti del legittimo sovrano»; per ottenerla bisognava riconoscersi in colpa e promettere lealtà di suddito. I menapopolo stettero un istante in bilico; ma poichè, dopo tanto odiare e bestemmiare, se non altro per varietà voleasi assentire ed encomiare, diedero il segno degli applausi: nella limitata amnistia vollero vedere un avviamento a concessioni maggiori; cominciarono a parlarne col miele sulle labbra, indi con ammirazione, infine con adorazione; si ripeteano i detti del papa, se ne inventavano; su ogni atto di lui, presente o passato si diffondevano aneddoti benevoli, arguti, generosi; se ne ammanierò un idolo a capriccio, attribuendogli concetti, atti, parole, divisamenti, alieni dal suo vedere e dal suo volere; e «Viva Pio IX» fu la parola di moda, surrogata a tutti gli applausi, a tutte le speranze. In realtà, egli era un pio sacerdote, che d’ogni giorno molte ore riservava alla preghiera; che nei dubbj del pensiero gettavasi a’ piè della Madonna; che il bene volea lealmente, ma, se non ampliare, neppure sminuire la podestà trasmessagli. Preso però dalla più cara delle seduzioni, quella del favor popolare, credette farsene appoggio alle rette intenzioni, e sorrise a quella pioggia di fiori da cui resterebbe soffogato. Roma cominciò un non più interrotto carnevale; ogni giorno corso, inni, serenate, battimani; tripudio quando il papa usciva, quando villeggiava, quando tornava, applausi altrettanti a chiunque diceasi suo amico, suo servo, suo ammiratore. Di tali entusiasmi, come sempre, era difficile assegnare le cause; nei più era un seguir l’andazzo; in molti una sincerità irriflessiva; quei che s’accorgeano dell’allucinamento, compiacevansi che tale cospirazione d’assensi iniziasse un moto, il quale, moderato dal nome augusto, rimarrebbe sacro al popolo, rispettato ai re. Noi Italiani soprattutto vi vedemmo un lampo di care speranze: quei che «aspettavano il rigeneramento dalla santa libertà e dalla robusta moderazione, anzichè dall’ira declamatrice, dalla denigrazione folliculare, dal despotismo rivoluzionario»[42], credeano mostrerebbe quanto vaglia un principe che, risoluto al bene, s’affidi al suo popolo, ed osi resistere a’ suoi proprj amici; laonde inneggiammo Pio IX quasi a lezione degli altri regnanti. Le Romagne ferveano, non più di rivolta, ma di riforma, chiedendo il _memorandum_ del 1831; iteravano petizioni, dimostrazioni, indirizzi coperti da migliaja di firme, partecipazione al vanto quando più non recava pericolo: e Pio IX pareva inanimarli coll’accoglierli (1847 12 marzo); furono scelte commissioni per maturar riforme; invitati i municipj e le persone meglio credute a proporne; e concessa libertà di trattare dell’amministrazione e di cose politiche sui giornali. Se ne esaltò il sentimento individuale, e mentre questo vagellava nelle proposte più dissenzienti, le speranze sconobbero ogni limite di opportunità, di tempo, di luogo: un papa di ferrea volontà bastava volesse il bene, foss’anche contro la natura del principato ecclesiastico; Pio IX nol facea, dunque la colpa era di cardinali e Gesuiti. Aspettate un pezzo, apparvero le riforme (14 aprile), cioè una consulta di Stato, formata da un cittadino per provincia, scelto dal sovrano sopra triplice proposta dei legati e preseduta da un cardinale. Più tardi si decretò un consiglio municipale di cento, dai quali il papa scerrebbe un senato di nove; restituendo così alla città di Roma la rappresentanza civica. Erasi ripetuto a sazietà che il papato era avverso per essenza ad ogni innovamento e alle istituzioni liberali, e necessario alleato dell’Austria e dell’assolutismo. Or ecco Pio IX secondare i voti dei buoni, i quali si presumeva non potessero volere se non l’indipendenza italiana. Spiritavasi dunque d’applausi, che si propagarono dalle Romagne al resto d’Italia, e di là al mondo; Europei come Americani, Protestanti come Cattolici ripeteano «Viva Pio IX»; in ogni casa il suo busto; sue medaglie, battute a migliaja di migliaja in ogni metallo, fregiavano ogni petto; sui fazzoletti, sui mobili, sui giocattoli il ritratto e i colori suoi; il nome su tutte le pareti, in tutte le bocche, in tutte le favelle; tutti voleano aver veduto l’uomo del secolo; tutti almeno parlarne, lodarlo; il Turco stesso mandò offrendogli omaggi, amicizia, promessa di ben trattare i Cristiani; i figli di Voltaire riconciliavansi a un papa che sarebbe piaciuto al loro patriarca; i liberali incarnavano in esso quanto di meglio potessero chiedere i popoli o fare i principi; Mazzini stesso gli dirigeva mistiche esortazioni a farsi capo della grande impresa: oh, la generazione che la vide, non potrà più dimenticare quelle dimostrazioni. Un Angelo Brunetti, per soprannome Ciciruacchio, bello, robusto, di facile loquela, d’esultanti canzoni, ardito e generoso come que’ popolani, tutta cosa di bettolieri, mercatini, vetturali, vinaj, a’ quali mediava contratti, prestava servigi e, occorrendo denari e braccio, si fece il rappresentante della plebe presso Pio IX; egli sistemare le feste, egli disporre i baccani o i silenzj, egli buttar nelle piazze la parola imboccatagli d’encomio o disapprovazione, che ripetuta da ventimila lingue, sembrava parola di popolo. E Ciciruacchio da quell’ora divise i trionfi e la celebrità con Pio IX, e col principe di Canino l’appalto delle dimostrazioni. Chi si ricordava d’aver visto anni fa la serva di Royer-Collard portata in trionfo dalle ortolane di Parigi, sorrideva e compassionava. Chi conosce che la popolarità vuole schiavi coloro che sceglie per idoli, si sgomentava d’incensi sotto cui fiutava il sito rivoluzionario; e non potendo parlare in quei momenti in cui non è consentita che l’ammirazione, diede indietro, lasciando soletto il papa, e compiangendolo d’aver preso le vertigini. Adunque egli si trovò solo (1847), e obbligato a valersi degli esuli richiamati o di inesperti, contro cui strepitavano coloro i quali non osavano adoprarsi, e pur si dolevano di non vedersi adoprati. Il siciliano padre Ventura, buon filosofo, e che dagli Scolastici avea dedotto il concetto della riverenza all’autorità e dei diritti del popolo, lo incoraggiava a procedimenti, da cui credea dipendere il bene della religione; ma mancava d’esperienza. Agli infervorati parea che il papa avanzasse più lento dei desiderj; sicchè per rinfocolarlo buccinarono d’una _gran congiura_ (16 luglio), dove al popolo radunato a festa correrebbesi addosso, indistintamente trucidandolo con pugnali impressi del _Viva Pio IX_, si troncherebbero le redini de’ cavalli, si getterebbe fuoco nei fenili, i soldati uscirebbero fingendo di calmare la sedizione e invece aizzandola, e fra le stragi e le fiamme si costringerebbe Pio a fuggire e abdicare, mentre gli Austriaci sopraggiunti col pretesto di mettere ordine ripristinerebbero la tirannide. Indicavansi i luoghi, le persone, i mezzi; e in tutto ciò non eravi di vero se non che voleasi farlo credere, e valersene per domandare l’armamento di tutto il popolo a difesa del suo Pio, quasi questo avesse nemici. Era riproduzione d’un noto incidente della rivoluzione di Francia, e il buon papa mise fuori un ordine per dissipare quegli artefatti terrori: ma dopo l’emozione de’ tripudj voleasi l’emozione della paura; e Italia ed Europa credettero alla gran congiura, all’orribile attentato della lega austro-gesuitica. Tutti i paesi d’Italia scotevansi alle scosse di Roma, neppure s’accorgendo che cominciasse qualcosa più che una festa; da tutto prendeasi occasione di dimostrazioni: l’anniversario dell’uccisione dei Bandiera, della cacciata dei Tedeschi da Genova, della battaglia di Gavinana, dell’assunzione del papa, la morte di O’ Connel a Genova, quella di Federico Confalonieri a Milano, la sconfitta del _Sunderbund_ a Lucerna, offrivano titolo a parate, a canti, soprattutto a pranzi, la esternazione allora più usitata del giubilo. Ricardo Cobden, industriale di Manchester, aveva proposto il libero commercio dei grani in Inghilterra, e sostenutolo con tutti gli artifizj legali che offre il suo paese, tanto che lo vide trionfare, a dispetto de’ possidenti, i quali per prosperare le proprie terre, aveano durato enormi spese nella fiducia di rifarsene coll’alto prezzo delle derrate. La quistione era affatto estrania all’Italia, ma il qui comparire di lui fu un trionfo; a Torino, a Genova, a Roma, a Napoli, a Firenze, a Milano, ebbe festeggiamenti nelle accademie, a cui davano aria di adunanze parlamentari i calorosi discorsi che la stampa divulgava; e celebravasi la libertà universale di commercio come necessario fondamento della scienza economica, come santa alleanza de’ popoli. L’importanza stava non in quel che si diceva, bensì nel potere e nel voler dirlo; giacchè da una parte si imparava che noi pure abbiamo il dono della favella, dall’altra cominciava ad atteggiarsi qualche dicitore, qualche capobanchetto. Al vulgo de’ caffè intanto davasi a credere che Cobden fosse inviato dall’Inghilterra a tastar il polso del nostro paese e riferirne: altrettanto si disse di Cormenin, capitato pure di Francia in quei giorni, e che poi pubblicò un libretto ove mostravasi ignaro non solo di quel che si pensava, ma fin di quello che si diceva. Non imputiamolo troppo, giacchè nella scialacquata eloquenza di quei giorni noi pure mostravamo una deplorabile ignoranza di principj e legali e politici; la colposa trascuranza de’ fatti positivi e dei mali veri suggeriva rimedj o folli o insulsi, e rivelava esorbitanti dissensi fra quelli che sin allora eransi creduti in perfetto accordo perchè d’accordo nel fremere o piangere; che eransi creduti amatori della libertà perchè unanimi in un odio. Nella placida Toscana, il vecchio Fossombroni continuò a dar la parola al sostituitogli don Neri Corsini: morto questo, fu messo a capo del ministero Francesco Cempini, e consigliere intimo il Baldasseroni, sgradito al popolo siccome sogliono essere i finanzieri. Il primo dissenso tra il popolo e il principe si manifestò quando il Renzi, ribelle papale (pag. 77), fuggendo da Rimini, fu lasciato passare per la Toscana, con promessa che non più vi tornerebbe. Ma egli di Francia vi ricomparve, e arrestato (1846 gennajo) come violatore della parola, fu consegnato al suo principe. Sembrò un rinunziare alla propria indipendenza; si sublimò come un eroe il Renzi, il quale poi nelle carceri romane mostrossi ben altro. Nuova debolezza parve il mandar via Massimo d’Azeglio, a cui tale persecuzione, accompagnata da ovazioni, attribuì inaspettata importanza politica. La opposizione allora s’ingagliardì; e poichè il Gioberti avea messo di moda l’odio de’ Gesuiti, essendosi voluto porre a Pisa una casa di Suore del Sacro Cuore, si fece una dimostrazione chiassosa (febbrajo), e una supplica firmata dai professori e da quei tanti che non vogliono mancar di figurare in una lista. L’elezione di Pio IX e le sue riforme aggiunsero stimoli e coraggio. Bettino Ricasoli in una petizione esponeva lo scontento del paese, accagionandone l’immoralità del clero, l’istruzione non incoraggita, l’inettitudine degl’impiegati, la mancanza di buoni ordini nel comunitativo e nell’economico, la censura che confondeva il parere dell’uom savio colla suggestione del turbolento; e chiedeasi una buona costituzione. Servì di rincalzo un discorso del Salvagnoli, poi altri ed altri come quando entra la moda: gli stessi capi liberali non cadevano però d’accordo; il che è ovvio quando molteplici oggetti vengono abbracciati; ma i remoranti ne traevano una potente objezione. Su que’ primordj s’andava poco più innanzi che nel secolo passato, insistendo perchè si ridonasse lena alle istituzioni municipali: ma i buoni vollero applicare un motore, presto abbrancato dai diversi, la stampa clandestina[43]. Giravano alla macchia informazioni, conforti, ed una petizione di radicali trascendenze, che rifiuta le migliorie parziali per chiedere il bene di tutta Italia, e che sia unita in nazione. Cominciarono di qui le consuete satire e declamazioni, che toglieano credito ai buoni pensamenti, e ne elidevano l’efficacia; gli uni esclamavano contro i settarj, gli altri contro gli stipendiati dall’Austria; parole di partito su cui fabbricano i loro libri gli scrittori che li compongono come i giornali. Anche l’arcadica Toscana covava dunque i suoi vulcani. Leoli e Bici nel 1846 aveano fondata a Livorno la società segreta de’ Progressisti italiani, coll’aspetto di migliorare l’educazione, ma coll’intento di cacciare gli Austriaci e unire Italia sotto Carlalberto; e fecero proseliti nelle infime classi. Scoperti, processati, il granduca li compatì come traviati di buona intenzione. A Modigliana pure si tumultuò contro la forza, e il granduca perdonò ai cinquanta imputati: si tumultuò a Pescia, a Pistoja, con danno d’oneste persone, e con rapine a titolo di carestia, e il duca perdonava. Più che altre riottava la plebe livornese, mista d’ogni nazione; animosi giovani la istigavano, e il Guerrazzi, che ripetendo sempre concordia e fraternità, causava l’opposto. Udite le riforme di Pio IX, Leopoldo (1847 maggio) le concede anch’esso, e una Consulta di Stato, e gran larghezza di stampa, dove è notabile che n’erano eccettuate le pastorali dei vescovi. Gli studenti di Pisa le solennizzarono processionalmente, gridando «Viva Leopoldo e la stampa»; ma dalla folla usci un «Viva la grascia, viva il pane a buon mercato»; e il grido popolare fu secondato, e ne derivò rissa e capiglia. Anche a Siena i carabinieri urtansi coi giovani, e ne uccidono uno; il popolo pretende siano chiusi in quartiere i soldati, e il Governo consente. Nell’Università di Pisa insinuavasi quell’indisciplina che non tollera superiori, impedivasi di castigare i cattivi, i professori austeri venivano presi a fischi: uno tra le baruffe restò ferito, uno scolaro ucciso, e, fosse Rinaldo o Martano, ebbe esequie spettacolose ripetute in ogni parte, fra imprecazioni ai carabinieri, dianzi portati a cielo perchè sottentrati alla sbirraglia, ora accusati d’aver fatto affilare le sciabole per dare addosso agli studenti. Comandava le poche forze toscane il Laugier, militare napoleonico, fin allora vantato per la sua _Storia militare degli Italiani_, e proponeva di reprimere quei tumulti colla forza; ma negatogli dal Governo, dovette scendere a parlamentare col Lilla, ch’era il Ciciruacchio di Livorno; e da quel punto restò bersaglio all’odio e alle imprecazioni de’ liberali, mentre gli smodati sentironsi sicuri dell’impunità. Anzi alcuni Fiorentini mandarono una spada di fino magistero a Giuseppe Garibaldi nizzardo, che profugo nel 1834, condottosi in America, invece di struggere la vita a ribramare la patria, si era messo soldato di ventura; a capo d’una banda d’Italiani servì ai cittadini di Montevideo contro Oribe; scarso d’intelligenza, semplice anzi rozzo di modi, disinteressato, assoluto, abbondante del valore di cui era tanta scarsezza; onde i Mazziniani lo inneggiarono, come possibile spada dell’insurrezione italica. E già il fremito di questa era espresso ne’ giornali, che, appena trovata qualche larghezza, trascesero di numero e di modi: la _Patria_ proclamava l’accordo dei principi colla libertà; l’_Italia_ sperava il risorgimento dal papa, al quale avversava l’_Alba_, missionando l’unità nazionale e repubblicana. Mentre l’alzarsi della marea mette a galla le persone abili e credute dal popolo, gli inetti smaniosi sentono di non poterlo se non cambiandola in burrasca, dando sul capo di chi si eleva, guastando le previdenze, corrompendo i consigli, proponendo cose che farebbero se fossero in potere; e inefficaci di operare nello Stato e nelle città, s’arrabattano nei caffè e sui giornali, i due perni di questa rivoluzione; e sorretti dalla turba che ascolta sempre a chi più grida e in frasi più rimbombanti, acquistano apparenza di partito, mentre erano pochi egoisti immolanti la causa pubblica all’ambizione personale. Le concessioni del granduca pareano o tarde o inevitabili, onde, invece di riconoscenza, gli si sporgeano domande sempre nuove; flagellavasi l’autorità quando più pareva disposta ad emendarsi; diffondeansi insinuazioni maligne, crudi sospetti, coll’arte di Giuda stillando il biasimo nella lode, e ciò mentre non si parlava che di fratellanza. Altri invece ostentavano liberalità col proporre collette onde erigere monumenti a Pio IX e Leopoldo, al Ferruccio e al Savonarola, e convegni, gite, mascherate, conviti solennizzavano gli eventi giornalieri o le ricorrenze. E memorabile fu l’anniversario (10 8bre) della morte del Ferruccio, quando innumera gente raccolta a Gavinana, udì un discorso del Guerrazzi, ritraente a colori biblici la possa d’un popoletto che potè resistere a Carlo V padrone di due mondi; e mostrando come le discordie fraterne avessero tutto mandato a ruina, invitava a giurare eterna concordia. E concordia, risorgimento, Italia, èra nuova, ripeteansi dappertutto; quasi le stesse persone dappertutto ricomparivano; abbondando e declamazioni e tutto ciò che in politica è inutile, nulla di ciò ch’è necessario ad una ricostruzione. Appena a Roma fu concessa la guardia civica, i Toscani la domandarono anch’essi, parendo, in quella tal fratellanza, male assicurata la quiete e la proprietà da poche truppe e frolle. Il granduca asserì non la darebbe mai, e presto dovette darla: nell’editto rammemorava che «tutti gl’interessi sono impegnati nell’ordine e nell’osservanza delle leggi; che le agitazioni anzichè portare al progresso civile, cagionano discordie, ristagno dell’industria e del commercio, perturbazione degl’interessi particolari e generali, inducendo diffidenza e timore». Parole al vento: più di ventimila persone andarono a ringraziare il principe fra canti e viva chiassosissimi; dappertutto processioni, _Tedeum_, allocuzioni, bandiere biancherosse, corone ai simulacri d’illustri antichi, ovazioni al Niccolini pel suo _Arnaldo da Brescia_; i pezzi della catena rapita a Porto Pisano e sospesa in trionfo a Firenze, sono staccati e rimessi a Pisa. In questa città si rinnova e maggiore il frastuono: Mayer economista, Montanelli poeta, Centofanti filosofo fanno iscrizioni, arringhe, canti; tra gli accorsi della provincia si ricambiano le bandiere, e preti e frati a benedirle. A Livorno molto di più; donne vestite d’amazzoni palleggiano le spade, vecchi gravi discorrono da collegiali, e fra i mille cinquecento vessilli che quel giorno (8 7bre) sventolarono sopra cinquantamila accorsi, grandeggiò il tricolore. Ed ecco (giacchè ogni frivolezza era appiccagnolo) al domani comparire due dei più vivi nelle dimostrazioni romane, il principe di Canino e il suo segretario Masi improvvisatore, vestiti da guardia nazionale romana; accolti spettacolosamente e tra infiammati applausi del Guerrazzi al nipote di Napoleone, essi snudano e incrociano le spade, invitando tutti a giurare la santa causa italiana. Voleasi costringervi a fischi anche il Laugier, che sovrappose in fatti la sua spada gridando «Viva Leopoldo II». A Pisa ebbero nuovi trionfi, e la loro carrozza fu tirata da una schiera di preti (12 7bre). Più misurati a Firenze: ma quivi si rinnovò la festa, venendovi deputati da tutti i Comuni, e ventiquattromila guardie civiche, e cinquanta bande musicali, e senza numero bandiere, sciorinanti i _Viva_ di moda. Sei milioni costò allo Stato il montare la guardia civica, oltre lo speso dai particolari, che si pavoneggiavano in quella, ed esercitavansi a cantar gl’inni, imparare la marcia e la carica in dodici tempi; mentre nessuno arrolavasi alla milizia, per quanto il Ministero vi esortasse; non che mantenere quiete, in ogni villaggio istituivansi botteghe ove leggere giornali e spoliticare; i tumulti cresceano, gli sgomenti ingrandivano, i capitali si ritiravano dalla cassa di risparmio, ch’ebbe bisogno di sussidj del granduca; la feccia montava su; la proprietà non era rispettata, nè la sicurezza delle persone; «dall’umile castello di Castagneto nella maremma pisana ascendendo a gradi fin alla capitale, non scorreva quasi giornata senza nuovi tumulti» (ZOBI); il commercio livornese deperiva, perchè quella agitazione toglieva ai forestieri la sicurezza; del che lamentandosi, i negozianti chiesero una commissione di Polizia; e questa fu riguardata come vessatoria. La plebe cittadina, erettasi sovrana, arrestava e insultava col titolo di traditore e di spia; l’autorità violentata ne’ suoi strumenti, alternava parole amorevolissime con provvedimenti rigorosi che lasciava senza effetto; ogni concessione si considerava puro dovere, ogni freno una tirannia, ogni indugio tradimento o vigliaccheria. Il granduca nominò una consulta, e spiacque perchè tutta di persone già in alti uffizj, e non rappresentava nè le ricchezze nè gl’ingegni delle provincie. Si riforma la legislazione municipale, si nominano commissarj per compilare il Codice civile e criminale: ma dacchè il duca riconobbe che le leggi e gli ordinamenti sono viziosi, nessuno più vuole osservarli; qualunque legge venga fuori è denigrata da quelli che non furono convocati a discuterla; gl’impiegati dal far poco mettonsi al far nulla, in attesa delle riforme. Del resto che forza poteano questi avere quando tutto era sul mutarsi? e la circolare ministeriale del 30 novembre 1847 poneva «i buoni impiegati e la libertà nell’esercizio di loro attribuzioni sotto la salvaguardia dell’onore e della forza de’ magistrati municipali, della guardia civica e de’ buoni e savj cittadini che la componevano». Dolorosa confessione d’impotenza! Sentendo il disordine rigonfiare sotto la congiura degli applausi, chi ne imputava i Mazziniani, chi i Buonaparte, chi la lega austro-gesuitica, e nessuno le basse passioni e i codardi interessi. E noi, testimonj e parte di que’ fatti, or che li ricorriamo, a fatica sappiamo persuaderci come allora non si avvertissero o si scagionassero, volendo soltanto scorgere gioja, fratellanza, tripudj, fiducia d’italica rigenerazione, e guaj a chi credesse altrimenti. Le maggiori speranze fabbricavansi su Carlalberto. Cominciò egli a guastarsi coll’Austria quand’essa sui vini, ricchezza del Piemonte, pose un dazio così gravoso, che equivaleva ad escluderli. Egli a vicenda concesse alla Svizzera di trarre da Genova il sale che l’Austria aveva il privilegio di somministrarle. Ne cominciarono dissensi diplomatici; e poichè la patria, come la religione, non conosce colpe inespiabili, bastò che Carlalberto mostrasse all’Austria non il pugno ma il broncio, perchè venisse anch’egli idealizzato come spada d’Italia, di cui Pio era la testa. I Piemontesi se ne esaltano, con tono insolito si discute di dogane, si propone una società per lo spaccio dei vini, si brinda ai conviti, si dilata la smania di far qualche cosa, d’esser qualche cosa, di mostrarsi capaci per quando i tempi verrebbero. A tale intento un’Associazione agraria ne’ suoi comizj riproduceva in piccolo i congressi scientifici; le elezioni e la presidenza davano origine a partiti, già caratterizzandosi gli eccedenti e i moderati, i repubblicanti e i costituzionali: ma il re troncò le quistioni col rendere carica di Stato la presidenza, e affidarla al conte di Collobiano. Carlalberto, col solito intradue, lasciava scrivere ma non favoriva gli scriventi; fa coniare una bellissima medaglia, ove tra le effigie di grandi Italiani compare il leone di Savoja straziante l’aquila, col motto _J’attends mon astre_, ma la regala quasi di nascosto; lascia festeggiare Cobden, ma non istampare i recitati discorsi; nè vuole si stampino quelli de’ comizj agrarj a Casale; eppur colà manda al Castagneto una lettera ove dice: — Che bel giorno quello in cui si griderà guerra per l’indipendenza d’Italia! Io monterò a cavallo co’ miei figliuoli, e mi porrò alla testa del mio esercito». Fu la favilla in un pagliajo; gli s’inviò un indirizzo, e — Comandate, o sire; non vi rattenga alcun riguardo pe’ vostri popoli: vita, averi daremo per voi». Il bollore rigonfia, eppure Carlalberto nulla risolve; ed egli comincia a temere che anche il suo popolo s’invogli dei tumulti, il popolo a sospettare che il suo re lo meni per le buone parole: raddoppia dunque gl’inni a Pio IX, ma mentre li canta a piena gola sul passeggio degli spaldi, ecco a un tratto «da opposte parti sboccare soldati, gendarmi, agenti di Polizia, con nude sciabole e pistole inarcate, maltrattando, percotendo, insultando senza riguardo uomini, donne, vecchi, fanciulli»[44] (30 8bre). Ultima velleità di resistenza; poichè Carlalberto si trovò subito condotto a concedere riforme amministrative; un tribunale di cassazione; pubblici dibattimenti nelle cause criminali; allargata la stampa; la Polizia passata dai governatori militari agl’intendenti; garantita la sicurezza individuale; i municipj eletti a tempo non in vita; ripristinato il ministero dell’interno; sostituito il merito all’anzianità e alla nobiltà nelle promozioni militari. Quasi avesse commesso un delitto, Carlalberto rinnova il decreto contro gli assembramenti, e da Torino corre a Genova: ma vi è ricevuto con un’esultanza chiassosissima; sventolava innanzi al popolo la bandiera tolta il 1746 agli Austriaci, innanzi ai preti la bandiera di Gioberti, e «Viva Gioberti» ripeteasi violentemente presso al collegio de’ Gesuiti; e fu chi gridò amnistia, e tutti l’echeggiarono; e fu chi gridò al re — Passa il Ticino e tutti ti seguiremo»; e Carlalberto ai minacciosi omaggi impallidiva e taceva. Ma più che a svolgere le riforme si pensava a incorniciarle d’applausi: i giornali della media Italia intonavano ch’essi valevano quanto un intero esercito; negli inesauribili pranzi faceano tirocinio d’eloquenza i futuri oratori[45]; per le strade al pari che ne’ gabinetti cantavasi che l’aquila d’Austria avea perduto le penne, che l’Italia s’è desta, che ogni squilla sonò i vespri; a Genova nella festività de’ bicchieri mescolavansi patrizj e popolani per cantare inni; per un pranzo esibito ai Torinesi, per una visita a Origina, smetteansi negozj e affari; tutti voleano ragionacchiare di politica, tale credendo soltanto quella del giorno e la energumena[46], tutti sbattere acqua e sapone per farne bolle, tutti satollarsi d’applausi col secondare le vulgarità, e discorrere e cantare della battaglia di Legnano, dell’assedio di Parma, dell’insurrezione di Genova, del Procida, del Balilla, d’Alessandro III; e vantare la potenza d’Italia, lo sfasciamento de’ nemici, l’entusiasmo che la causa nostra ispirava a lutti i popoli; e gonfiar panegirici, a cui capo metteasi sempre una calunnia; e con errori calcolati e reticenze, dondolare ogni nome tra le ovazioni e le sassate. Le quistioni vitali offuscavansi in una quantità di giornali, fra cui primeggiavano la _Concordia_ di Valerio, il _Risorgimento_ di Cavour e Balbo, il _Messaggiere_ di Brofferio, il _Corriere mercantile_ del Papi. Una commissione di censura pareva garantire e dalle trascendenze e dagli arbitrj d’un giudice solo, ma a qual censore sarebbe bastato il coraggio di levare una sillaba, quando sapeva che al domani sarebbe messo alla gogna da tutti i giornali, forse fischiato per la via? Prendeasi dunque spirito ad ogni eccesso: folliculari, nodriti di rancori, servili e fatti audaci dalla paura, intimidivano i savj: di patriotismo mascheravansi lo spionaggio e la manìa del far ridere prima, poi far tremare: facile tema a tutti restava poi il bestemmiare l’Austria, quasi non sia leggerezza insultare un nemico prima di vincerlo, come ingenerosità il dileggiarlo vinto; tutto ciò senza mettere la mano sui nemici e sui mali sentiti. E poichè ciascuno volea rumoreggiare più dell’altro, avventandosi a quel declamare tribunizio che più scalda quanto meno ha modestia e riserbo, dalle riforme politiche si passava alle sociali, proclamavansi dottrine comuniste, spiegavasi l’infelice coraggio della provocazione. Oh Foscolo che, trent’anni prima, deploravi che i letterati fossero ruina d’Italia! possano gl’Italiani aver imparato a sì caro prezzo se con schiamazzi e giornali si rigenera una nazione. Di quei che pensavano o se ne davano l’aria, alcuni metteano importanza nell’ottenere qualcosa: ragionevole o no, buona o meno, sarebbe scala ad altro, per via via elevarsi a quell’altezza che non si osava confessare. Machiavellica, nella quale impigliaronsi presto anche i principi, concedendo qualcosa colla fiducia di fermarsi a quel poco, e disposti ad eluderlo. Altri però, meditando il passato, cercavano trovarsi disposti alle grandi eventualità; e vedeano che, in forme liberissime si può essere schiavo; che libertà non regge se non con ragione, libero essendo l’uomo di cui si prevede quel che opererà domani, non quello che bizzarramente cangia pensieri ed atti; che il divario delle costituzioni consiste nell’essenza non nel loro esterno; nè una sola può attagliarsi a tutti, dovendo elle dedursi da ciò che un popolo è e fu, e da ciò che sono quelli che lo circondano; trarsi insomma dalla natura, non dalla fantasia. Quei che a costoro non poteano negare forza di ragione, li tacciavano di timidità di cuore, perchè, vedendo il bene, asserivano che bisognasse aspettarlo. E d’aspettarlo aveasi grand’argomento quando tutti i principi italiani si mostravano convinti dell’obbligo di migliorare la condizione de’ sudditi, se non col farli partecipi al potere, almeno nobilitandone l’obbedienza; e consolidando il principato col fare da esso emanare i miglioramenti, prima che il popolo li strappasse a forza. Ma mentre moltiplicavansi apoteosi a Cobden, si applicava la dottrina opposta di List, il quale aveva indotto gli Stati germanici a una lega doganale, per natura sua esclusiva de’ popoli non consociati. Si parlò di una lega italiana per togliere le infinite barriere doganali: era un atto rilevantissimo, sì pel vantaggio economico della penisola sminuzzata, sì per divergere l’attenzione sovra altro che mera politica, e convincere i popoli che si pensava al loro meglio positivo. «Persuasi che la vera e sostanziale base di un’unione italiana sia la fusione degl’interessi materiali delle popolazioni che formano i loro Stati», il papa, il re di Sardegna e il duca di Toscana fecero una specie di preliminare: il duca di Modena non v’aderì, pure prometteva libero passo pe’ suoi Stati interposti: il re di Napoli amò sempre far casa da sè. Anche quest’opera potendo effettuarsi soltanto dai principi, agli schiamazzanti non restava che arzigogolare articoli e brindisi, e diceano: — L’Austria o non v’assente, ed eccola riconoscersi straniera all’Italia; o vi annette l’unico suo Stato italiano, ed ecco questo separato dagli altri dominj ereditarj». Le nazioni, quanto più sono civili, maggior varietà di principj contengono, la cui lotta costituisce la storia. Ma l’utopista o il passionato suppongono un principio solo, quel che è conforme alle inclinazioni proprie, gli altri dimentica, e vorrebbe dimenticati da tutti; il vulgare non vede che un uomo, che un libro, che un giornale; a quello sacrifica le proprie convinzioni, e spingesi agli estremi, mentre i contrapposti domandano continue limitazioni per arrivare ad accordi. Pure bello e degno di studio fu quel momento. Neppure gli avventati pensavano a impeto di atti, quando anche fossero impetuosissimi di parole; violenza non era usata da nessuno, neppure dall’Austria, per quanto accusatane e provocata; anzi neppur dalla piazza; e pareva l’Italia venir incamminata al bene da’ principi in armonia co’ popoli, dalle audacie giovanili accordate col senno de’ vecchi. In sì cara illusione trasaliva essa di tripudj e banchetti; dimostrazioni e trionfi a chiunque volesse buscarseli coi paroloni simpatici; le difficoltà o non si vedeano, o pigliavansi a gabbo. Ma gl’inni di fratellanza, pregni di collera e d’orgoglio, abbagliavano le menti, quando saria stato bisogno e dovere di rischiararle: a Parma, nel festeggiare l’anniversario dell’elevazione di Pio IX nacquero conflitti con percosse e ferite di cittadini, sin d’una fanciulla di dieci anni, donde una fiera indignazione: così a Piacenza, così a Modena, così a Milano, così a Ferrara, dove fu trucidato il barone Barattelli; sicchè i giorni di prestabilito applauso soleano riuscire a inaspettato compianto. Tutto ciò mettea sull’avviso l’Austria, l’odio contro la quale era per avventura l’unico sentimento comune della lirica italianità. A gloria de’ principi italiani ricadevano anche le nuove sventure dell’Austria; chè noi deploreremo sempre come sventuratissimo un Governo costretto a ristabilire l’ordine colla fierezza. Da qualche tempo le teoriche liberali erano trascese in socialismo. Mentre i Liberali dicevano, — L’uomo è buono, cattivo è il Governo, bisogna riformarlo»; i Socialisti dicevano, — Cattiva è la società, bisogna rifonderla; quanto finora si tenne per bene fu male, e il male bene; le passioni sono naturali e perciò buone, onde il reprimerle non è virtù; dunque ogni Governo è tirannia, ogni soggezione è schiavitù, paradiso unico è la terra; libertà, eguaglianza, fraternità non possono combinarsi colla superstizione cristiana; onde bisogna rimuoverla, e ripudiare l’esperienza di tanti secoli per improvvisare qualcosa di meglio». Gli elementi della società si tengono talmente connessi, che non si può eliminarne uno senza scomporre tutto; negata l’antitesi del bene e del male, vien dietro l’unità, vale a dire il panteismo nella fede, il despotismo ne’ Governi; posta l’eguaglianza di tutti gli uomini sia nel comandare sia nell’obbedire, più non rimangono nè nazionalità nè monarchia, niun limite deve porsi alle passioni, niuno all’esercizio dell’attività, niuna distinzione di tuo e di mio, e la proprietà sarà furto. Da qui la forma sua più popolare, il comunismo, il quale rinnega e la famiglia e i possessi, volendo che tutti abbiano diritto a tutto, chi non lavora possa partecipare ai guadagni di chi lavora. L’inestinguibile ira del povero contro il ricco s’incalorì di queste teoriche, predicate colla storditaggine giornalistica; e mentre in Francia scavavano ridendo un gorgo dove ben tosto s’inabisserebbe l’ordine sociale, ne’ paesi slavi incitò le popolazioni servili contro i signori. La Gallizia nell’iniquo sbrano della Polonia era toccata all’Austria, la quale cercò emanciparvi i possessi, abolire il servaggio, eguagliare ogn’uomo in faccia alla legge: di ciò l’odiavano i signori, quasi ella attentasse ai privilegi loro; mentre il vulgo la considerava tutrice delle sue giustizie. Quando ogni assurdo credeasi, si credette che il Governo austriaco, per umiliare i ricchi, aizzasse i poveri. Il fatto è che i villani sollevatisi saccheggiarono, scannarono, vituperarono i ricchi. La forza armata, corti marziali, esecuzioni feroci repressero una feroce insurrezione; gli orrori di cui erasi contaminato il manto matronale di Maria Teresa, offuscarono il titolo di buono che Ferdinando aveva meritato. In Gallizia governò Massimiliano d’Este arciduca, buon soldato e intollerante, che si fece detestare più per despotismo che per animo ribaldo; tutta Europa ne fremette contro quegli strazj, che parvero mettere l’Austria al bando delle nazioni civili. Ne trasse profitto la Russia, da un pezzo affaccendata a propagare il panslavismo, cioè la nazionalità di tutti gli Slavi, proponendo di toglierli alla Prussia, all’Austria, alla Turchia, per farne sotto il suo scettro un popolo di ottanta milioni, che avrebbe signoreggiata tutta Europa. E fu dalla Russia appunto che venne lanciata primamente questa parola di nazionalità, che accettata per imitazione, doveva essere favilla di tanti incendj[47]. Risonò essa anche in Germania. Un aggregato di genti diversissime d’origine e di civiltà non potea che essere spinto all’abisso dalla proclamazione della nazionalità; e il ministro Metternich, il quale erasi ostinato a non toccar nessuna pietra per tema di sconnettere l’intero edifizio, e fin allora le difficoltà avea superate all’esterno colla prevalenza dell’esercito e dentro coi sopratieni, sentivasi impotente ai nuovi urti, e vacillava ne’ proprj consigli. «Abbiamo attraversati (scriveva a Radetzky) giorni difficili, richiesero grandi sforzi, eppure non furono tristi quanto gli odierni. Lottare contro i corpi sappiamo noi, ma contro larve che vale? e larve appunto abbiamo di fronte: era nei fati che al mondo comparisse perfin un papa liberaleggiante»[48]. L’umiliazione della gran nemica rimoveva dai principi italiani la paura di esser impediti nelle riforme, ma vedeano la necessità di non porgerle pretesti a prender l’offensiva[49]; cingerla bensì di paesi ben organati, dopo una regolare trasformazione del diritto interno, che speravasi condotta per la via della conciliazione. L’applauso ai principi riformatori s’ingrossava delle imprecazioni lanciate allo straniero, che ben avea ragione di sgomentarsi: e pertanto la posizione dell’Italia diventava soggetto anche di trattati e dispute fra gli stranieri. Francia limitavasi a dar coraggio ai principi, fiducia ai popoli; ma a questi e a quelli facea dire non uscissero dalle vie pacifiche, non isperassero rimpasto territoriale[50]. In Inghilterra il ministro Palmerston sorrideva al risorgimento italiano, lanciando frasi a guisa di cavaliero che dà di sprone al cavallo, ma intanto ne serra il freno. Ma Metternich vi ravvisava la radicale sovversione della società, una frenesia rivoluzionaria, un passo alla repubblica federativa. E alle Corti amiche trasmise (agosto) un _memorandum_, ove esprimeva «l’Italia essere un nome geografico; de’ suoi Stati sovrani e indipendenti, l’esistenza e la circoscrizione fondasi su principj di diritto pubblico generale, corroborati da accordi politici incontestabili; l’imperatore è deciso a rispettarli, nè cerca di là di quanto possiede, e lo saprà difendere»: chiedea che le Potenze glielo garantissero di nuovo, e dessero mano a soffogare un incendio, che presto diverrebbe irrefrenabile. I Gabinetti, consentendo nel primo punto, voleano però che ogni Stato potesse riformarsi nell’interno, senza che altri se ne brigasse[51]. E cercò trar la quistione sul campo dov’era certamente superiore, la forza, ed occupò Ferrara come necessaria alla sua sicurezza: ma la dignitosa protesta del papa, efficace come ogni parola ferma appoggiata sul diritto, lo costrinse a ritirarsi, e comprendere che non era tempo di violenze. Ma se non aveasi a temere la forza armata del nemico, ve n’ha un’altra del pari tirannesca, quella dei vulghi dotti e ignoranti; e già la si sentiva pigliare il sopravvento in iscritti violenti d’ira o nauseabondi di lodi, ove gente avvezza sin allora a giudicar di ballerine e di cantanti, sentenziava di politica e moveva le chiassate di piccola turba cittadina, usurpante il sacro nome di popolo. E poichè i siffatti han bisogno d’attaccarsi a grandi reputazioni per roderle o per carezzarle, agli applausi di moda innestarono la moda di esecrazioni, e non più contro il comune nemico, ma contro nostri; non si esaltavano Pio IX, Carlalberto, Leopoldo riformatori, e Gioberti ed altri _italianissimi_, che non s’imprecasse al re di Napoli sanguinario e ai Gesuiti; e gesuita era l’emulo, l’avversario, il rivale, l’invidiato, il benefattore; e Metternich guatava e diceva: — Gli Italiani fortunati s’invidieranno, sfortunati si malediranno, discordi sempre o vincitori o vinti». Il riformare è una delle opere più difficili ad uomo di Stato, quanto pare leggiero ad uomo di partito, il quale movendo da un’idea assoluta, arriva necessariamente a cambiamento radicale. Se v’è paese dove questo passaggio sia inevitabile, vuol dire che inevitabile v’era la rivoluzione: e tale appariva in Italia. Pio IX, quantunque gioisse di quella popolarità senza pari, si impauriva dell’accelerantesi movimento, che mal dissimulava di separare il gran sacerdote dal principe riformatore[52]. Già nell’istituire un patriarca a Gerusalemme, egli protestò contro l’abusarsi del nome suo come opposizione alle autorità; encomiava la Compagnia di Gesù come sopra tutt’altre benemerita della religione; aprendo poi la consulta di Stato (4 8bre), dichiarò avere fatto e voler fare quel che credea vero bene, ma non mettere a repentaglio la sovranità della santa Sede con istituzioni incompatibili con questa. Coloro che delle benedizioni di Pio IX voleano fare carica da cannoni, non si smarrivano a tali dichiarazioni, e le diceano tributi alle esigenze straniere. Sopraggiungevano poi casi che complicavano sempre più la situazione. Francesco IV di Modena era morto (1846 1 genn.), e suo figlio avea secondato l’opinione nel liberare i detenuti politici; limitò a venti giorni al più le pene correzionali, congedò il Riccini odiato ministro di Polizia, e moderò le esorbitanze. A Lucca l’infante continuava a gravarsi di debiti, sicchè il granduca, destinato a succedergli, dichiarò non li riconoscerebbe più, e volle come sicurtà la rendita delle dogane e delle regalie. Anche in quella città erano avvenute le scene stesse che in Toscana; tra le canzoni si assalirono i carabinieri, e perchè si difesero, furono imputati di assassini (1847 luglio). Il duca alzò la voce contro, queste «frasi di letterati ed esaltamenti di scolari», e assicurava voler mantenere la sua monarchia quale l’avea ricevuta, piccola sì ma assoluta. A dire propriamente, egli l’avea ricevuta costituzionale dagli spartipopoli del congresso di Vienna; e Luigi Fornaciari, tutto dedito a studj di filologia e di beneficenza, gli scrisse per rammentarglielo, e per mostrare quanto complirebbe al popolo e al principe l’avere uno statuto. In risposta fu destituito da consigliere di Stato e preside della rota criminale, e se n’andò in trionfale esiglio. I rumori crescono, e quei plausi che sgomentavano i principi come poco poi le campane a martello; si arrestano alquanti giovani, ma bisogna rilasciarli; finchè il duca, tediato de’ complicantisi casi, abdica (8bre), anticipando così l’accessione di quel ducato alla Toscana. Lucca diventava città secondaria in quella Toscana, di cui ai tempi Longobardi era stata capo: atteso però gli applausi allora di moda verso il granduca, il sagrifizio fu accettato con ilarità. Ma secondo le stipulazioni viennesi, il Pontremoli dovea unirsi al Parmigiano; mentre i distretti lunesi di Fivizzano, Pietrasanta e Barga erano destinati al duca di Modena. Adunque nella strepitosissima festa allora combinata, ecco apparire lo stendardo bruno dei Lunigiani che ricusano cadere sotto al duca di Modena. I calorosi di Firenze e di Lucca gridano di non volere staccarsi da que’ loro fratelli, non foss’altro per far onta all’Austria; ma il duca di Modena manda soldati ad occuparli. I Lunesi si difendono, e nella collisione (4 9bre) perdesi qualche vita; si protesta, s’invoca la mediazione del papa e di Carlalberto; pure il duca di Modena conserva il suo possesso, sol per accordo amichevole (17 xbre) lasciando al granduca il Pontremoli finchè non muoja Maria Luigia. Ed ecco appunto Maria Luigia muore; Carlo Lodovico di Borbone diviene duca di Parma e di Piacenza; ed anche Pontremoli cessa d’appartenere alla famiglia toscana, mentre questa aggiungeva allora cendiciotto miglia di terreno alle sue ottomila e ventiquattro. A Lucca, tolta l’autonomia, fu conceduta una corte d’appello: ma Pisa pretende sia messa sotto la sua giurisdizione, onde zizzanie, proteste, tumulti; perchè in que’ giorni ogni incidente prendeva l’importanza d’un gran fatto, e diveniva occasione d’affratellamenti o accozzaglie, ire od applausi; arti colle quali si credea conquistare la libertà e l’indipendenza, e intanto il vero vinto era l’autorità pubblica e la pubblica quiete; e gli amici sodi d’Italia sentivano un cupo rombo ruggire sotto agli applausi[53]. In fatti al cominciare del 1848 Livorno era in effervescenza, perchè tardasse a giungere il decreto per la guardia civica, come necessaria a difendersi dai Tedeschi; l’autorità è costretta ogni tratto a parlamentare colla turba, e non avendo soldati a reprimerla, dee scendere a patti coi tumultuanti, e così perde ogni valor morale. Un proclama diceva: — Toscani! Davanti alla vostra coscienza, alla faccia del mondo, alla storia, voi spontanei offriste vite e sostanze per sostenere i fratelli vostri di Fivizzano e di Pontremoli: eppure Fivizzano fu abbandonato, Pontremoli s’abbandona. Spergiuri, perchè avete giurato? millantatori, perchè vi siete vantati? codardi, perchè vi mostraste generosi? Eh via queruli schiavi, imparate a dormire tranquilli nel letto della vostra viltà... O ministri, voi siete traditori: lo siate per perversità o per inettezza, la conseguenza torna sempre la stessa. Sgombrate, traditori e codardi; sgombrate arcadi, sofisti, dottrinarj! I destini d’un popolo sono troppo peso per le vostre mani da eunuchi e da omicciattoli. La patria è in pericolo! Ora sapete come si fa a salvarla, o Toscani? si chiamano uomini che non temano morire, e si pongono volenti o repugnanti al timone dello Stato d’accordo col principe; si dichiara la patria in pericolo. Così si salva la patria, e se non si vince, si muore onorati e si lascia celebrità di nome, legato di vendetta ai figliuoli, esempio di gloria ad imitare ai popoli! Toscani, la patria è in pericolo! Questo grido, se sarà soffocato dai traditori, serva almeno per far conoscere che non tutti fra i Toscani furono vili, ignoranti ed inetti, e la infamia ricada a cui tocca». Questo cartello incendiario buttato fra popolo sì mite, quest’inoculazione di rabbie civili fatta per retorica amplificazione, furono il trabocchetto delle nostre sorti. Si credette vedere in fiamme il paese, e l’autorità e la gente d’ordine presero sbigottimento: le comunità spedirono indirizzi al principe offrendo denaro e sangue contro la ruggente ribellione, ed esacerbando il male coll’imputare i Livornesi e singole persone. I giornalisti al solito incancrenivano la ferita. E il popolo prorompe (6 genn.), nè v’ha modo a calmarlo, per quanto Leopoldo assicuri non esservi pericoli; vi fossero, e’ gli affronterebbe e vincerebbe, risoluto com’era a compire le riforme, le quali però non si poteano senza la pace: e raccomandava la tranquillità di Firenze, di Lucca, di Pisa alla guardia civica. Ma una deputazione Livornese che chiedeva armi, armi, si fa deliberante e accusa il Governo; fin gli apostoli della Giovane Italia, i quali assicuravano che «il sangue de’ martiri di questa era stato non meno prezioso de’ nostri inchiostri»[54], si affrettavano a disapprovare que’ moti e separare la causa loro dalla setta livornese. Ripreso il sopravvento, Guerrazzi e alcuni altri son condotti a Portoferraio tra i fischi della plebe, che jeri ne facea l’apoteosi. Qui nuovi accidenti mutano carattere al movimento italiano. Sponemmo già le condizioni del Napoletano, paese di così splendido avvenire e di presente così tenebroso. L’aspirazione nazionale per cui febbricitava la restante Italia, non erasi comunicata ai Siciliani, ricordevoli dei Normanni, degli Svevi, dell’antico loro Parlamento e della prosperità che alcun tempo vi produsse la ingerenza inglese; prosperità derivata da condizioni eccezionali, com’era il trovarsi ivi solo pace fra le guerre napoleoniche, ivi fra il blocco continentale uno scalo al contrabbando britannico, che vi mandava per cencinquanta milioni annui. La costituzione del 1812, data sotto gli auspizj inglesi, lasciò intatte la feudalità, le moltissime manimorte, le primogeniture, gli altri mali su cui una rivoluzione può passare la spugna inzuppata di sangue, mentre un Governo regolare, comechè ben ispirato, non le abolisce che passo passo. L’Inghilterra si era fatta garante di quella costituzione; ma Ferdinando I non vi badò; crebbe l’imposta, che prima era fissata in annue onze 1,287,687, nè più convocò il Parlamento. Di qui odio mortale contro la Casa regnante; e guardare i Napoletani come stranieri e oppressori; e non badare all’Italia, bensì a recuperare la costituzione del 1812. Il principe di Castelnuovo legò ventimila onze all’uomo di Stato che indurrebbe il re a riconoscerla; il principe di Villafranca vecchione non cessava di protestare in questo senso; in questo andavano molti libri. Il Lanza, nelle _Considerazioni_ sulla storia del Botta, repugna deciso all’unione col Napoletano, preferisce al regno di Carlo III quel di Vittorio Amedeo perchè lontano, e lascia «ad altri la perniciosa chimera dell’italica unione, nella quale, per maggiore danno dell’Italia medesima, sono caduti gl’inesperti e i mal accorti, presi dalle grida di novatori» (pag. 421). Michele Amari, descrivendo la guerra del Vespro Siciliano, sentenzia di stranieri Giovanni da Procida e Ruggero di Loría, spogliandoli dell’aureola tradizionale per cingerla al popolo siciliano[55]. Palmieri storiò la costituzione siciliana in senso dell’aristocrazia e con allusioni mordenti. L’isola realmente non avea più Corte nè ministeri come all’età normanna, pure era trattata con favori eccezionali; non bollo di carta, non privativa di tabacchi, non coscrizione; ma anche pochissime istituzioni, cattive strade e gli sconcj d’un Governo lontano. Chi vedesse quell’isola, già granajo d’Italia, ora stremata di popolazione, sparsa di ruine, con immense campagne incolte e impaludite, ed altre non pascolate che da meschini branchi di pecore; chi vi paragoni la spigliatezza degli ingegni, il loro amor di patria, la risoluta volontà del meglio augurava il momento ch’ella tornasse centro al commercio del Mediterraneo, e provveditrice alle navi dirette all’estremo Oriente. Ma l’imputare tutti i mali al Governo era giusto? Vedemmo i Siciliani non essersi voluti affratellare alla rivoluzione napoletana del 1821, così accelerandone il crollo. Le riazioni seguite ne infistolivano le piaghe; e sebbene Ferdinando II, ch’era nato in Sicilia, professasse volerle medicare, troppo erano inveterate perchè il buon volere bastasse. Egli vi destinò vicerè il conte di Siracusa suo fratello, dal che nacquero speranze volesse farlo re indipendente: ma poi Ferdinando vi surrogò lo svizzero Tschudi (1835). Se ne invelenirono gli odj, e di tutto si facea dimostrazione, dell’arrivo d’un magistrato, di una festa messinese, della morte di Bellini; lo scontento, fomentato dai nobili, dal clero, dai Gesuiti, talora prorompeva, specialmente nel 37 in occasione del cholera (t. XIII, p. 415). Compressa fieramente la sollevazione, si cassarono il ministero distinto, che erasi istituito nel 33, l’amministrazione speciale, le giurisdizioni patrimoniali, la feudalità; insieme si decretarono trentaquattro strade, nuovo catasto, lo spartimento delle terre demaniali fra i poveri: ma i decreti erano mal eseguiti; poi qualunque provvedimento venisse da Napoli era sgradito; il re, andatovi in persona nel 42, vi fu accolto mutamente; ogni umiliazione di lui tenevasi come vanto patrio[56]; gl’intacchi fatti alla fedualità nel 43 spiacquero ai baroni; al popolo le tasse. Le società segrete di colà non camminavano del passo di quelle del continente, perchè diverse d’intento, attesochè i Siciliani volgeansi al loro passato, non al comune avvenire, alla costituzione patria e storica carpita, anzichè all’idealità italiana; municipali più che nazionali, popolo e aristocrazia consideravano forestieri i Napoletani. Pure quelle società al fine aveano preso accordo colle napoletane d’avvicendare la domanda di qualche franchigia, e d’una in altra procedere fino ad ottenere per entrambe la costituzione. Ma quando i rancori fermentano, ogni favilla mette fuoco, per modo che, qualunque sieno le particolarità, la ragione va sempre divisa tra l’offensore e l’offeso. Una di queste faville mise fuoco a Messina (1847 2 7bre), e fu repressa colle armi, ma si raccolse memoria di ciascun _martire_, singolarmente valutando il silenzio con cui furono celati i complici, malgrado le minaccie e le grosse taglie del Governo. Contemporaneamente sollevavansi Geraci e Reggio sotto Gian Domenico Romeo: represse, la testa del Romeo fu obbligato un suo nipote a portarla attorno; molti ebbero pene minori. Ma l’eco ripeteva di là dal Faro gli applausi a Pio IX e all’Italia; e ad imitazione di Napoli, le passeggiate alla villa Giulia e il teatro risonavano d’inni; e vi figuravano i colori italiani. La stampa clandestina ripeteva i diritti antichi, e finalmente eccitò a sollevarsi. Al 12 gennajo 1848, festivo pel re, Palermo insorge; Trapani, Messina, Catania, Girgenti v’acconsentono; vincitori alle barricate, istituiscono un Governo provvisorio preseduto da Ruggero Settimo, che era stato luogotenente generale nella rivoluzione del 20: accorre gente dalla campagna, si disarmano i pochi soldati, i briganti Scordato e Miceti mutansi in eroi; si allestiscono le _compagnie d’armi_, antica istituzione, che fa garante ciascun distretto dei furti commessi in campagna; e chiedesi governo separato per la Sicilia. Il re acconsente che la giustizia sia amministrata in tutti i gradi nell’isola, e impieghi civili e dignità ecclesiastiche non sieno date che a Siciliani: non per questo gli acqueta; onde fa domandare che cosa vogliano, ed ha per risposta: — Non si poseranno le armi, se non quando la Sicilia unita in generale parlamento, acconcerà ai tempi la sua costituzione del 1812». A un Governo in tali frangenti che resta? se manchi d’armi come la Toscana o il papa, abbandonerà il paese alla anarchia: se ne abbia, sentirà ch’è primo diritto d’un ente qualunque il conservarsi, e userà la forza, almeno per chiarirsi se quella sia volontà nazionale o sommossa di pochi. Il re di Napoli mandò il conte d’Aquila suo fratello con nove battelli a vapore, che, non valendo le buone, cominciarono a bombardare Palermo (15 genn.): ma ecco i consoli stranieri interporsi, e far sospendere le ostilità, l’andazzo d’allora essendo sul dar ragione ai popoli[57]. L’Italia ruggì allora contro il _re bombardatore_: Napoli, infervorata dalla resistenza de’ Siciliani, domandava con applausi e con fischi quelle riforme, per le quali già tripudiava l’Italia: il re cominciò a dar soddisfazione congedando i due capri emissarj, il suo confessore Cocle e Del Carretto ministro della Polizia. Costui, che da diciassette anni lo serviva con quello zelo che affronta la pubblica esecrazione, trovossi improvvisamente gettato in una nave, senza tampoco l’addio domestico. Il battello che lo portava toccò a Livorno chiedendo carbone e acqua; ma la plebe a tumulto il negò, e per quanto il capitano facesse protesta contro un atto inumano che metteva a repentaglio il suo legno, e per quanto il ministro Ridolfi avesse pubblicato che «il Governo non transigerebbe mai col tumulto», fu duopo rassegnarsi, e rimettere alla vela. A Genova nuovo furore, e gran fatica si durò perchè i fischi non si risolvessero in peggio: alfine potè approdare in terra francese. A Napoli le concessioni amministrative degli altri paesi non occorreano; già vi era la consulta di Stato, già i consigli provinciali, già la guardia civica; laonde il re non ebbe a crearli, ma solo ad estenderli. Quanto però veniva da lui doveasi prendere in sinistro; si dichiararono scarse quelle concessioni; la libertà della stampa fu giudicata un lacciuolo, l’ampia amnistia pei rei di Stato fu disgradita; chiamasi un ministero (27 genn.) di liberali, e sin di fuorusciti, ma non basta; già si grida «Viva la costituzione»; ma il popolo risponde «Viva il re»; ne nasce un’avvisaglia, ove s’impegnano le guardie civiche contro le truppe: e il re, vedendo non potrebbe reprimersi quel moto senza sangue, benchè padrone dei forti che possono distruggere Napoli, benchè le potenze nordiche il dissuadessero[58], non si limita più a riforme e allargamenti come gli altri principi, ma «avendo inteso che gli amati suoi sudditi desiderano garanzie ed istituzioni conformi all’attuale incivilimento», di propria volontà concede una costituzione, «nel nome temuto dell’onnipotente santissimo Dio uno e trino, a cui solo è dato leggere nel profondo de’ cuori, e che egli altamente invoca a giudice della purezza di sue intenzioni e della franca lealtà onde è deliberato di entrare in queste novelle vie d’ordine politico». Subito s’istituisce un nuovo ministero (28 genn.), preseduto da Serra-Capriola, e composto di Dentice, Torrella, Garzía, Bonanni, Bozzelli e del siciliano Scovazzo, sovrapponendo alla Polizia Carlo Poerio, figlio, nipote, fratello, cugino di esuli, tre volte carcerato egli stesso. Al Bozzelli, scrittore di materie letterarie e rifuggito in Francia per diciott’anni dopo il 1821, fu dato incarico di stendere la costituzione, ch’egli modellò sulla francese, su quella cioè che in trent’anni non avea ridotto a quiete la Francia, e che anzi stava per andare sobbissata[59]. Essa (10 febb.) portava monarchia costituzionale, religione cattolica; il potere legislativo diviso fra il re e il Parlamento composto di due Camere, una di pari, eletti a vita dal re fra’ possessori di almen tremila ducati di rendita tassabile, l’altra quinquenne, d’un deputato ogni quarantamila abitanti, possessore, non impiegato amovibile, nè ecclesiastico; indipendente il poter giudiziale; l’esecutivo sta nel re e ne’ ministri responsali, che han la parola ma non voto in Parlamento; non più milizie forestiere; guardia nazionale, con uffiziali elettivi sin al capitano, e da quello in su eletti dal re; diritto di petizione; eguali i cittadini in faccia alla legge; libera la stampa, eccetto che in materie religiose; abolita ogni condanna per reati politici. Dappoi il re stesso decretava (23 febb.) che alla bandiera borbonica si annestassero i tre colori italiani. Date le riforme a Roma, dovettero darsi pertutto; data la costituzione a Napoli, fu inevitabile anche altrove, per quella solidarietà d’interessi che alcuno s’accontenterà di qualificare per moda. Che se ne pigliarono sgomento coloro che credeano doversi il popolo educare poco a poco alla vita politica, e misurargli a miccino le libertà, gl’infervorati ne tripudiarono; nella voltabile ammirazione de’ giornalisti il nome del re bombardatore fu sublimato di sopra dei tre riformatori, sebben insieme colla _italica Palermo_, con quella Palermo che gli opponeva rifiuto e bestemmia. Gli applausi al nuovo feticcio divengono pretesto a grida violente in Livorno; si domanda la liberazione di Guerrazzi, che subito diviene capo d’un comitato; Montanelli, Ricci, Fabrizi predicano ne’ circoli; altri ubriacano nelle gazzette: il simile succede altrove, e se il «Viva Pio IX» avea sgomentato gli assolutisti, il «Viva Ferdinando» fece comprendere ai principi ch’era inevitabile l’imitarlo. Già la pietosa maestà di Pio IX era soccombuta alla piazza, e la congiura delle ovazioni eragli riuscita più micidiale che non a’ suoi predecessori quella dei coltelli. Non per mezzo della consulta, ma di Ciciruacchio (1847 27 8bre), gli si erano fatte pervenire «domande del popolo romano», le quali esigevano libertà di stampa, remozione de’ Gesuiti, lega italiana, emancipazione degli Israeliti, scuole di economia pubblica, colonizzare l’agro romano, abolire il lotto, far pubblici gli atti della consulta, scarcerare ventiquattro detenuti politici, armarsi, frenare gli arbitrj, abolire gli appalti camerali e i fedecommessi, riformare le manimorte. Gli arruffapopolo già poteano minacciare, già impiantare il despotismo. I giornali, fra cui gittava solfanelli Pietro Sterbini, diroccavano una dopo l’altra le reputazioni delle persone che il papa metteasi attorno; vollero l’armamento, e perchè i ministri disapprovavano, fu proposto di cacciar a furia essi, i Gesuiti e gli austriacanti; il senatore dovè prometterlo, e Ciciruacchio disse: — Mi fo garante io che si daranno ministri secolari». Fra costoro rimane appena luogo a Pio IX di dire: — Non badate a questo grido ch’esce da ignote bocche a spaventar i popoli col titolo d’una guerra straniera. È inganno di chi vuole spingere col terrore a cercare la salvezza pubblica nel disordine, confondere col tumulto i consigli di chi governa, e colla confusione apparecchiar pretesti a una guerra che altrimenti non ci si potrebbe rompere. E chi l’oserebbe finchè gratitudine e fiducia congiunga le forze dei popoli colla sapienza de’ principi? Gran dono del Cielo che tre milioni di sudditi nostri abbiano ducento milioni di fratelli di ogni lingua! Questo fu sempre la salute di Roma; questo fece che non mai intera fosse la ruina di Roma; questa sarà la sua tutela finchè vi sia quest’apostolica Sede. Benedite, gran Dio, l’Italia, e conservatele il preziosissimo dono della fede». Parlava il pontefice, e volea sentirsi il principe, anzi il tribuno; e mutilando il concetto, quel suo _Benedite l’Italia_ fu ripetuto come un invito alla rigenerazione nazionale; gli fu chiesto «venisse a benedire, non più circondato da preti, ma da uffiziali della guardia civica»; ed egli rispose: — Siate concordi, non levate certe grida che sono di pochi non del popolo; non fate domande contrarie alla santità della Chiesa, che non posso, non devo, non voglio ammettere. A questo patto vi benedico». Mentre Romagna e Toscana barcollavano ad ogni vento per mancanza di pubblica forza, il Piemonte ben in armi pareva sicuro dall’imperio della ciurma. Girava però tale influsso, che la forza bisognava chinasse all’opinione. I libri del Gioberti aveano popolarizzato l’odio ai Gesuiti, e l’insultarli pareva eroismo: la città di Fano cacciolli a furore: Ancona e Sinigaglia fecero altrettanto cogl’Ignorantelli che diceansi loro rampollo: le imitarono Faenza, Camerino, Ferrara: a sassi e razzi vennero presi in Sardegna, talchè dovettero imbarcarsi per Genova; ma quivi trovansi assaliti nel loro convento, e mandati a preda. Nella patria poi del Gioberti tenevansi insulti alle case loro e delle Suore del Sacro Cuore: Carlalberto assicurò nol comporterebbe mai; eppure la sera cominciò la chiassata, nè più cessò finchè esse suore e le allieve non furono disperse. Al domani avviene altrettanto de’ Gesuiti, nelle cui case esultò la tregenda, menata poi or sotto la finestra del governatore, or dell’arcivescovo, ora dei Saluzzo, or della beneficentissima matrona che dignitosamente ricoverava Silvio Pellico, il quale scotendo il capo ci diceva: — Le grandi imprese mal s’inaugurano con atti di debolezza e d’ingiustizia». Ed ecco ventimila firme giungere da Genova per domandare la guardia civica e l’espulsione de’ Gesuiti: la deputazione non fu voluta ricevere dal re, ma i sommovitori la sorressero, a segno che il re dovette sciogliere la Compagnia di Gesù. Si gridò che bisognava ovviare a queste incondite manifestazioni coll’armare la guardia civica: il re si pose al niego, trovandola superflua in paese di tanti armati; eppur dovette consentirla, e n’ottenne applausi, dai quali però egli ancora tenevasi quasi rimpiattato, seco stesso librando le paure. La Tour, governatore di Torino, maledetto come riazionario, cantò a Carlalberto ch’era impossibile dondolarsi fra il despotismo e il Governo costituzionale. In fatto il re non era protetto dallo schermo de’ ministri; la stampa mettevalo in compromesso coi vicini perchè sorvegliata, mentre la sorveglianza non ne impediva le trascendenze; le domande cresceano, l’opinione si infervorava, iteravansi le dimostrazioni. Alfine Pietro figlio di Santorre Santarosa persuase al municipio di domandare al re la costituzione: e Carlalberto, esitato lungamente contro gli scrupoli della propria coscienza e le promesse forse date al letto di morte del suo predecessore, in fine, sentito molti consiglieri e preti, confessatosi e comunicato, promette la costituzione (8 febb.), palliandola col nome di statuto, e professando darla di regia autorità, onde non teneasi obbligato a giurarla. Non mi chiedete i tripudj: ma perchè qualche coccarda tricolore compariva, il re dichiarò non ne soffrirebbe altra che la intemerata e vincitrice di Savoja. Pochi giorni, e tutti i suoi soldati stessi porteranno la tricolore. Pietro Leopoldo già avea pensato dar una costituzione alla Toscana; Ferdinando III, quando i membri del consiglio generale di Firenze se gli congratulavano del ritorno al 7 gennajo 1815, promise «andrebbe poco tempo senza che il suo popolo possedesse costituzione e rappresentanza nazionale»; quando nel 1820 udì la sommossa di Napoli, disse ai ministri: — Ehi signori, se s’avrà a dar costituzione, si ricordino non voglio essere degli ultimi». Leopoldo II seguiva dunque gli esempj domestici nel concedere la costituzione al suo popolo. Insistevasi di foggiarla sopra la consultiva di Pietro Leopoldo, modificata in modo da attribuirle pure l’iniziativa: ma i giornali e la piazza non lasciano tempo a discutere, onde s’adotta qui pure la francese, col solo divario che ogni elettore sarebbe eleggibile, ed elettori sarebbero non solo i possidenti, ma negozianti, industriali, dotti; i deputati durerebbero tre anni; e fu proclamata (17 febb.), essendo ministri Ridolfi sugli affari interni, Bartolini sugli esterni, Serristori sulla guerra, Baldasseroni sull’erario, Cempini presidente. Fin il principe di Monaco diede la costituzione. Pio IX per la prima volta non era iniziatore de’ movimenti, aveva professato non isminuirebbe mai la ricevuta potestà, e tutti diceano la dominazione pontifizia non comportare restrizioni rappresentative. Ma il municipio, spinto dai carnevaleschi schiamazzi, gli mostrò la necessità di fare quel che gli altri; ond’egli combinò un nuovo ministero, con Recchi sugli affari interni, Sturbinetti sulla giustizia, Minghetti sui lavori pubblici, Aldobrandini sulla guerra, Pasolini sul commercio, Galletti sulla sicurezza interna, tutti secolari, e preti il Morichini sull’erario, il Mezzofanti sugli studj, l’Antonelli sulla diplomazia; consultò il concistoro principalmente sul come conciliare la libera stampa colla censura ecclesiastica, salvare le giurisdizioni del sacro Collegio, lasciar libero il principe nel seguire la politica che più complisse al bene della santa Sede, infine rattenere le assemblee legislative dai punti che si riferissero a canoni e statuti apostolici. Ma poichè i cardinali furono unanimi nella possibilità d’uno statuto (14 febb.), Pio IX professò: — Purchè salva la religione, non ci rifiuteremo a veruna innovazione necessaria». All’intento dell’unità italica sarebbe stato a desiderare uniformi le costituzioni; ma poco differivano l’una dall’altra, ricalco della francese: due Camere; ministri responsali; d’elezione regia i senatori; elettori de’ deputati i censiti; libertà di stampa e di petizione; inamovibilità de’ giudici: solo Roma, per suggerimento del padre Ventura che pur volea qualche resto delle forme teocratiche, conservava come terza Camera il concistoro de’ cardinali, elettori del sovrano e da questo eletti a vita, che in secreto decidevano sulle risoluzioni del Parlamento; oltre che riservava a sè gli affari misti, o concernenti i canoni e la ecclesiastica disciplina. Mantenevasi la censura ecclesiastica, nè i consigli poteano proporre legge che concernesse canoni e discipline. Lo statuto dato da Roma parea mettere la religiosa sanzione a quello degli altri paesi: onde fu un’ebrezza tra la folla; mentre quei che folla non vogliono essere discutevano di libertà, e dei fondamenti e delle forme di essa; analizzavano e paragonavano le costituzioni; esprimeano pubblicamente i desiderj fin allora repressi; chiedevano ed ottenevano ministri nuovi, non più a talento del principe, ma a fiducia de’ cittadini, e noti all’Italia per antica venerazione, ed altri pur allora richiamati da diuturni esigli; lodavansi i principi dei freni che poneano a se stessi, volendo che la legge non fosse atto di potenza ma di ragione; e quasi possa alle cancrene rimediarsi coll’acqua di rose, pindarizzavasi un beato accordo di popoli e principi, della forza e del pensiero, nell’acquisto della libertà e dell’indipendenza. CAPITOLO CXCI. Le insurrezioni. A questo accordo di principi e popoli per la rigenerazione nazionale, chi penserebbe opporsi? L’Austria sola: ma questa non potrebbe spiegare le sue forze per reprimerli, fin a tanto che non si rompesse guerra; e guerra non si romperebbe, attesa la moderazione dei popoli, educati alla saviezza dalla sventura _e dai giornali_. Ma senza guerra come cacciarla oltr’Alpi? nessuno vedevane modo, eppur tutti se ne confidavano; non ragionavansi le difficoltà, si negavano; e la speranza occupava gli animi come una di quelle idee fisse che l’allucinazione traduce in realtà. Ed ecco in quel ridente orizzonte scoppiare il turbine, una nuova rivoluzione della Francia. Da un re portatole dagli stranieri, questa accettò come umiliazione la Carta del 1815; e invece di svilupparla, la spiegazzò; poi come vide i Borboni intaccarla, li cacciò, sovvertì quanto avea rifondato in quindici anni, moltiplicò sangue e ruine, conculcò glorie; e tutto ciò per fare della Carta stessa un’edizione con varianti. Parve essa raggiungere la massima libertà ottenibile ne’ Governi rappresentativi, tutto potendo la legge, nulla il re, il quale regnava non governava; illimitata la libertà della parola, dell’associazione, dello scrivere, dell’adorare; tenue il censo richiesto per esser elettore ed eletto. Luigi Filippo, posto sul trono come una barriera contro la repubblica, riuscì a rattenerla per diciassette anni; nei quali aveva egli rattoppato gli sdrucci che ogni rivoluzione fa, non diminuiti i debiti ma cresciuto credito alle finanze, ravviato il commercio, estesa la prosperità materiale favorendo l’aristocrazia mercantile, surrogatasi alla patrizia; lettere, arti, scienze incoraggiò sin a farne una potenza nei giornali e alle Camere; insieme mantenne la pace fra pressantissime incidenze di guerra; restaurò la marina in modo, da comparire onorevolmente nei mari più distanti. Pure il suo Governo, per volger di tempo, non si consolidava, come quello che unica origine e fondamento avea la rivoluzione; chi in questa non erasi acquistato una nicchia, martellava a prepararsene un’altra; i diseredati della quale ne solleciterebbero una terza. Il Governo stesso, nelle arti con cui era costretto accaparrare le elezioni, nella condiscendenza che doveva a’ suoi creatori e sostegni, nel dover rannodare alla propria durata i grandi interessi e i minuti, poneva mente a tutt’altro che alla moralità; vacillava condiscendendo, anzichè progredire resistendo; e dopo diciott’anni si trovava in aria come al principio. L’incremento materiale, così sproporzionato al morale, portava un’ebrezza di desiderj, una bolimía d’oro, tutti volendo acquistare, tutti godere, qualunque ne fosse la via: deperito ogni carattere privato e pubblico, non più rattenuti da riflessi superni o da ricompense postume, anzi istigati da una letteratura sistematicamente depravatrice. Allora moltiplicate le frodi, e i delitti codardi e i feroci sin tra persone elevate, il cui scandalo era aumentato dalle difese pubbliche e dall’interesse che i giornali e il bel mondo prendevano per scellerati. La moltitudine più sana, che anzitutto vuol pace e ordine; i trascuranti che imbellettano di moderazione l’accidia; gl’interessati a mantenere l’impiego, la pensione, il posto in palazzo o al Parlamento, bramavano s’assodasse quel dominio, ma il bramavano fiaccamente, mentre operosissimi lo sottominavano i partiti. Contro la vita d’un re eletto dal popolo, lealmente liberale, e modello di virtù domestiche, ripeteansi attentati, più che contro qualsiasi tiranno. Ai Legittimisti, confidenti nel diritto divino, si rannodavano gli antichi nobili e parte del clero. Repubblicane professavansi le società secrete, i giovani, gli artigiani, i Furieristi. Con miglior carta ormeggiavano i Buonapartisti; e se quanto i Mazziniani parvero ridicoli i tentativi di Luigi Napoleone, che, fallito in Italia, due volte avea presunto, col proprio nome e con un pugno d’amici, sovvoltare la Francia, ove non trovò soccorso nè simpatia, bensì carcere e perdono, l’avvenire attestò quanto quel fuoco sotterraneo operasse. Il Governo, battuto dalla stampa e dalla calunnia, liberalissime e provocanti, dai rifuggiti d’ogni favella, dai cospiratori d’ogni gradazione, non che predisporre l’avvenire, poteva a stento orzeggiare giorno per giorno. Il Parlamento, cui uffizio sarebbe stato condur il paese a riformarsi senza scosse, irritava colle declamazioni e col continuo imputare al Governo d’avvilire la Francia nelle relazioni esterne, di comprimerla nell’interno progresso; balzavasi da un ministero all’altro senza un perchè, e sempre lamentando che i surrogati divenissero peggiori de’ precedenti. Il più lungo fu quello dello storico Guizot, carattere più rigido che nol soffrissero le passioni pruriginose, più incorrotto che i suoi competitori, ostinato a voler la pace, e come mezzo a ciò, consolidare la nuova dinastia; ligio a questa, ma operando costituzionalmente e colla maggiorità delle Camere. Nel sommovimento cominciatosi in Isvizzera, fra gli Slavi e da noi, il Governo assunse uffizio di moderatore: ma la nazione si rinfocò, quasi recassesi a onta l’esser precorsa da altri nella politica arrischiosa e di eventualità; imitando gl’Italiani, propagava il fermento coi banchetti, dove il ravvicinamento e i vini incalorivano i discorsi, esagerati come di chi parla a pochi, senza mandato nè contraddizione nè responsabilità: ma quei brindisi, ripetuti sui giornali, fragorosi conduttori dell’elettricità rivoluzionaria, acquistavano una rappresentanza diversa dalla legale. Il re disapprovò tali arti, nè però si rassegnava a sagrificare il ministero alle chiassate. Un banchetto in Parigi di centomila persone fu il segnale d’una rivolta, dove a mano armata e colle barricate si cominciò a chiedere la riforma elettorale e cangiamento di ministero[60], e si finì coll’acclamare la repubblica e un Governo provvisorio (24 febb.). Non dunque l’inesaudito bisogno di ragionevoli emendamenti, non il generoso desiderio di libertà e dignità, bensì il sussulto di una sconsiderata e tardi ravveduta minorità capovoltava la Francia, cancellando ogni diritto ereditario, e fin l’ultimo privilegio politico, quello del censo, per affidare la decisione a quel voto universale, che colloca la ragione e la giustizia nel numero. Sconnesse le antiche, nè operando ancora le nuove istituzioni, una plebe iraconda, avida, criminosa rimase despota di Parigi e della Francia; il mondo, che alla parola di repubblica avea sperato la grande pacificazione della democrazia, si sgomentò quando la vide, da rigeneratrice della dignità umana, cangiarsi in sovvertitrice della società e di ciò che l’uomo ha più sacro, la famiglia, la proprietà. Come nel 1830, ogni paese risentì di quell’urto; e dove fin là erasi aspirato ad acquistare o realizzare il Governo costituzionale, si prese ad abbatterlo; il rinascimento italiano da difensivo si mutò in aggressivo. Le potenze straniere aveano dato mano al movimento pacifico, esortato i popoli a fidare ne’ principi, promesso a questi non solo l’appoggio morale della parità d’istituzioni, ma anche il materiale, caso mai l’Austria attraversasse il quieto decorso. L’importanza consisteva dunque nel non turbare la pace: quando l’Austria la turbò coll’occupare Ferrara, trovossi vinta e costretta a recedere: guaj al momento che le fosse ridonata la superiorità col prendere noi l’offensiva! Ma la Francia repubblicana come intenderebbe i suoi politici doveri? Lamartine, che colla poetica frase avea fatto aggradire il Governo repubblicano, comparve eroe nel sostenerlo contro il furore plebeo; ma costretto a condiscendere a tutti, e adulare come ogni potere nuovo, e sprovvisto di tutt’altra idea che quella dell’opposizione, trovavasi incapace di riordinare, e di concepire un avvenire altrimenti che fantastico. Qual ministro degli affari esteri, all’Europa dichiarò (2 marzo) che, a differenza di quella del 1793, la repubblica non minacciava ai Governi, comunque fossero costituiti, conoscendo pericolosa alla libertà la guerra; considerare i trattati del 1815 come non più esistenti, ma rispettare le circoscrizioni territoriali stabilite in essi; se però qualche nazionalità oppressa si svegliasse, «se gli Stati _indipendenti_ d’Italia fossero invasi, od impacciate le interne loro trasformazioni, Francia tutelerebbe i legittimi progressi». Dire quanto basti per sospingere i passionati, e intanto riservarsi pretesti onde rinnegarli; sopreccitare ne’ popoli l’amore della libertà e indipendenza, eppure assodare i trattati che le conculcavano; estendere la periferia morale, e impedire la materiale trincerandosi nell’amor della pace, era indegno d’una gran nazione. Vero è che il Gioberti, testimonio degli errori parigini, scriveva qua lettere della sua solita esagerazione contro la repubblica; i festeggiamenti fattine a Roma malgrado il papa, indicavano la mano di un Buonaparte che ne sperava profitto; i poveri, attruppatisi a Napoli per chieder lavoro, a Firenze per non anticipare le pigioni, a Genova per partecipare ai guadagni de’ negozianti, palesavano una feccia che presto al fermento sormonterebbe. Ma i popoli restano sordi agli avvertimenti per non badare che alle catastrofi; e inebriati da quell’esempio, e illudendosi su quelle parole, credettero mature le sospirate franchigie. Se il desiderio d’italianità nella restante penisola esprimevasi in applausi ai regnanti (1847), nel Lombardo-Veneto concentravasi in fremiti. Delle riforme amministrative concedute ai vicini già era in possesso da gran tempo questo paese, mercè l’antica tradizione municipale; nè qui si cercava rigenerare, bensì distruggere il Governo: scopo determinatissimo, proponendo l’acquisto di quella nazionalità, senza cui non parea possibile libertà soda, potente dignità, verace progresso. Ma non se ne vedea modo che in un subbuglio europeo. Aspettando il quale, la folla coglieva ogni destro di esprimere avversione ai dominanti, simpatia ai principi italiani, un accordo di volontà, ben diverso dalle congiure, qui men che altrove opportune dove lo scopo era palese, e robustissima la repressione[61]. Gaetano Gaisruk, arcivescovo di Milano, era vilipeso per iscarsa dottrina e ignoranza di ecclesiastiche discipline, ed esoso come straniero fin quando la sua morte fece rendere giustizia a una generosissima beneficenza, a un sentimento di giustizia che non lasciavasi raggirare dai circostanti, nè da influssi d’anticamera, di sacristia, di consorzj; alla sua franchezza di esporre rimproveri ai subalterni e ragioni ai potenti; alla cura degl’interessi generali di questo paese che forse non amava, e da cui non era amato. Vero è che non sapeva di lingua e zoppicava di stile. Ai funerali di lui proruppero il vilipendio vulgare e poetici insulti; poi si spiegò così solennemente il voto d’avere un prelato italiano, che l’Austria vi destinò il bergamasco Romilli. Nè le virtù, nè il sapere, nè l’attitudine e la prudenza di lui erano conosciuti: che importava? egli era italiano, e bastò perchè, come a Pio IX, così a lui si facessero feste strepitose (5 7bre), con iscrizioni allusive a patria, a Italia. Ma i _Viva_ non furono accompagnati dai soliti _Mora_; la turba, dall’applaudire al palazzo arcivescovile, passò al fischiare sotto le finestre ove agonizzava uno degli uomini più splendidamente benefici[62]; poi agli inni a Pio IX seguirono i disordini che riscontrammo in ogni altro luogo, e come in ogni altro luogo i poliziotti dovettero tirar le sciabole: prima volta che la turba milanese affrontasse la forza, prendendola in disprezzo perchè la sua moderazione credette impotenza. Poco appresso adunavasi il settimo Congresso scientifico a Venezia; e sebbene vi mancassero Piemontesi, Toscani, Romagnoli, atteso che già possedevano quello a cui i Congressi erano avviamento, parve injettare la vita in quella città man mano che procedeva: le discussioni scientifiche ed economiche assunsero importanza politica; la quistione delle strade di ferro, che già avea agitato Genova, qui fu colta con tale aspettativa, che a pena agli ascoltanti bastò la sala del gran Consiglio: la quale poi nell’adunanza finale, cogli applausi dati a qualche scienziato, e negati al vicerè, vide prorompere manifestamente la volontà paesana. Sentì il vicerè l’insulto, e ne fece cadere la vendetta sopra l’applaudito: ma che ivi si concertassero i capipopolo per iniziare la rivoluzione, è falso[63]. Nè società segrete o comitati direttori promossero le dimostrazioni, che da quel punto si moltiplicarono in tutte le città (1848). La più significativa fu l’astenersi dal fumare: sucida abitudine venuta qua d’oltr’Alpi, e il cui abbandono poteva esprimere e un ritorno all’urbanità, e che la gioventù possedeva volontà unanime, e conosceva la forza dell’abnegazione; due qualità indispensabili al risorgimento nazionale. L’astinenza volle spingersi fino a violentare altri; e sia vero o no che i militari o la Polizia mandassero attorno fumanti provocatori, ne nacque occasione (5 genn.) di trarre le sciabole; il popolo fu ferito e calpesto, come sempre, e come già in tutti gli altri paesi d’Italia; il numero delle vittime fu esagerato, ma compiante per tutta Italia quai martiri; le declamazioni de’ circoli e de’ giornali e le esequie drammaticamente ripetute in ogni angolo affondavano sempre più l’abisso tra noi e gli stranieri. La Congregazione Centrale, corpo che rappresentava il paese e che non aveva sino allora conosciuto altro dovere che di eseguire la volontà superiore, sentì pur quello, impostogli dalla propria istituzione, d’ammonire il potere, d’iniziare miglioramenti, di presentare rimostranze. Il bergamasco Nazzari ne sporse una, dove non chiedeva innovamenti, ma l’attuazione della sovrana ordinanza: che se altre in altri tempi l’autorità aveva lasciate cascare, l’aura odierna impose che la petizione fosse accolta, appoggiata, spedita a Vienna. Allora la paura dell’opinione pubblica assunse la maschera di coraggio civile; le Congregazioni provinciali e le municipali e le Camere di commercio presentarono istanze e richiami, esitanti fra il rispetto abituale e una risolutezza insolita: pure restringevansi prudentemente a chiedere si mettesse in atto ciò che già era in decreto, o a trarne le legittime conseguenze. Anche gli scritti di qualcuno che esponeva per la stampa estera la condizione e i bisogni del paese, non parlavano che delle riforme necessarie per riconciliare la provincia coi dominatori, e far meno indecorosa la servitù. Pari agitazione legale nel Veneto; e citando leggi inosservate, si domandò una censura meno assurda, e di partecipare al decidere sugli interessi immediati del paese; insomma che, rientrando nelle vie della morale e della civiltà, si togliesse l’onnipresenza deleterica della Polizia, odiata più veramente che non il Governo. Secondare questo movimento legale sarebbe stato il modo di calmarlo sinceramente, o fintamente eluderlo; ma il vicerè conosceva solo arti diverse: il Nazzari esprime i voti della rappresentanza paesana, ed esso ordina sia sorvegliato dalla Polizia: Manin e Tommaseo espongono domande a Venezia (gennajo), ed esso li fa arrestare: crescendo l’irrequietudine di Milano, promette chiedere ampj poteri da Vienna per soddisfarvi, e gli ottiene, e bandisce si rassicurino perchè omai egli si recherà in mano le redini dello Stato; e la notte stessa manda ad arrestare persone, diversissime d’indole, di relazioni, di costume, e senza pure una parola, deportarle in Germania. Contemporaneamente fecero dal mitissimo imperatore dichiarare (22 febb.), lui avere operato abbastanza pei popoli, nè essere disposto a ulteriori condiscendenze; affidarsi nel valore delle sue truppe; e gli chiesero l’arbitrio d’arrestare, di deportare, di bandire la legge marziale. Questi atti tolsero ogni confidenza nel Governo, che non trovando chi cospirasse, perseguitava, eppure tremava davanti a un popolo che irritato, non sbigottito, opponeva il silenzio e l’astinenza. Un potere minacciato diviene violento; parlavasi di truppe sempre nuove giungenti in Italia, di promessi saccheggi, di bombardamenti al minimo agitarsi. E per verità, risoluti com’erano a reprimere colla forza, sarebbero dovuti porsene in grado[64], dacchè fiutavasi in aria la rivoluzione a segno, che Metternich ripeteva a tutti gl’incaricati d’affari, — Sta primavera in Italia vi avrà bôtte e ferite»; poi il vicerè partiva, lasciando la legge stataria come suo legato a un paese dov’era seduto vent’anni. D’altro lato susurravasi d’armi ammassate in Milano, di corpi predisposti dai profughi ai confini, di incitamenti uffiziali venuti dalla Francia, dall’Inghilterra, più dal Piemonte: eppure il successo chiarì che nè armi v’avea, nè intelligenze, nè preparativi; gli stessi Mazziniani aveano di quei giorni a Parigi preso accordo di non alterare colle loro mosse il quieto svolgimento italiano, e la Giovane Italia erasi adagiata nelle braccia di un’_Associazione nazionale_. Il martirio si venera, ma non si predica: e quale onest’uomo assumerebbe la responsabilità d’avventare il paese inerme nel terribile esperimento d’un’insurrezione contro un esercito sì bene disciplinato? Pure la pazienza cessa quando cessa la speranza, e giunge un’ora in cui per le nazioni l’obbligo della fedeltà cede al diritto d’acquistare la sicurezza che più non trovano nell’ordine stabilito; e quest’ora la Provvidenza la batte ineluttabilmente. E come i colpi provvidenziali scoccò d’onde meno sarebbesi aspettato. Vienna, città che credevasi ridotta materiale nei godimenti, e particolarmente divota ad una dinastia che la faceva capo di un grande impero, erasi stancata dello stupefacente assolutismo di un ministro, che facendo sinonimi governare e comprimere, catalogando gli uomini secondo quel che pagavano, riducendo il Governo a doganieri, burocratici, spie e soldati, privavalo della sua più nobile qualità, l’iniziativa; dei sudditi spodestava le volontà, e scroccando il nome di accorto e robusto coll’impedire ogni movimento, lasciossi sopraggiungere da uno di que’ turbini, che cogli abusi svelgono anche le istituzioni. Ambiziosi di palazzo e di gabinetto secondarono gli aliti liberali, già incitati dalle diatribe della Germania settentrionale, poi dai movimenti slavi e dalla rivoluzione francese: la Boemia e la Gallizia avevano mandato a chiedere libertà di stampa, d’insegnamento e d’altro: un proclama dell’ungherese Kossuth allora allora divulgato, ove si chiedeva che l’impero si riformasse, alle singole nazionalità il governarsi, e congiungendole in federazione, assegnò più preciso scopo alle domande della Società Politica e della Industriale di Vienna, e degli studenti che inanimati dalla sollevazione di quelli di Monaco, proclamarono una petizione nell’aula universitaria, e vollero portarla alla Corte (13 marzo). Questa oppose il niego, poi i sopratieni, ma il popolo tumultuava; gli eserciti stavano lontani; la piccola guarnigione poteva esser presa in mezzo dagl’insorgenti: i quali, inviperiti da alcuni colpi da essa tirati, mostrarono inaspettato coraggio e impetuosa fermezza; e mentre i ministri e la Corte vacillavano in quell’inaspettatissimo accidente, si ottenne fosse espulso Metternich, e per tutto l’Impero libera la stampa, guardia nazionale, un’assemblea generale per formare la costituzione; e il buon Ferdinando proclamava: — Seriamente, solennemente, e con sincera soddisfazione andai incontro ai voti del mio popolo, concedendo una costituzione, ch’io riguardo come l’atto più soddisfacente della mia vita». Applausi, abbracci, inni festeggiano l’affratellamento; i liberali esultano del loro trionfo, e frenano la plebaglia ladra; e la Corte, affidando il ministero a Pillersdorf e ad altri onesti della vecchia scuola, spera pure col tempo rivalere contro le esigenze superlative. Il telegrafo portò in Lombardia (17 marzo) quelle concessioni viennesi; e la loro dissonanza dai minacciosi rifiuti dei giorni precedenti vi dava l’aria d’un’inevitabile necessità; l’Austria doversi trovare agli estremi se mettevasi per una via da lei esecrata, e su cui non era possibile durasse. Pertanto alle fantasie già bollenti s’offre l’incentivo dell’occasione: preceduti dalla rappresentanza municipale, i Milanesi vanno a domandare armi per la guardia civica; e ne hanno la promessa, fra i _Viva_ e le coccarde; ma quando convengono al palazzo municipale per riceverle, eccoli assaliti dalla truppa, che alla ventura ne coglie alquanti, e li trascina in fortezza. L’indignazione precipita il moto, che già era cominciato non senza sangue; l’esultanza si converte in furore; e mentre alcuni persistevano a consigliare che s’accettassero le concessioni, e consolidandole si facessero scala a maggiori, altri elevano le speranze fino all’indipendenza; impennati i tre colori, gridano «Viva Pio IX, e Morte ai Tedeschi»; ubriachi di magnanima imprudenza rimettono la suprema decisione ai rischi dell’audacia; e vendicando le paure di cui si era loro prodigato l’oltraggio, cominciano una battaglia memorabile (1848 18 marzo). Dappertutto sbarrar le vie con quel che prima venisse alla mano; e se mancassero le travi, le botti, i lastroni delle vie, s’accatastano i mobili anche più fini, quasi si sentisse bisogno di fare più costosi sagrifizj. Capita una carrozza? ne staccano i cavalli, la rovesciano, la riempiono di ciottoli, di strame, e il passo è intercetto. Ogni casa era munita a guisa di fortezza; sui davanzali panieri di sassi, e dalle socchiuse gelosie sporgeano canne mortifere, e dentro preparati coltroni e materassi per ammortire i colpi o spegnere le bombe. Alla scarsezza di fucili e di munizioni supplivasi come si poteva, ammannivasi cotone fulminante, spogliavansi i musei d’armi. I nemici entro le caserme e dal duomo si difendeano; aprivansi la via sanguinosamente, traverso una tempesta di tegoli e di ciottoli, per riunirsi attorno al castello, dove accampavano sotto una pioggia, incessante come il tempellare delle campane, che mentre infondeano terrore nel nemico, incoravano gl’insorgenti dando certezza ai lontani che quella chiesa, quel quartiere erano sgombri. Alcune vie furono prese e riprese; e si sparse e si credette che i Croati si piacessero di gratuite e raffinate atrocità, sventrare incinte, crocifiggere od arrostire a lento fuoco i vecchi, spiaccicar fanciullini, o infilzati portarli sulle bajonette; altri sepellire vivi, o coprire d’acquaragia e poi infiammare. Quando poi leggemmo su altri giornali apposte le medesime spietatezze ai nostri contro i Tedeschi, comprendemmo che è stile delle nazioni odiantisi il ricambiarsi tali accuse. Certamente abbondarono atti e di ferocia e di magnanimità; e gran coraggio vi volle perchè con pochi fucili da caccia, gente da studj, da officine, da bottega per cinque giornate tenesse fronte a truppe disciplinate. Nè le armi che vantavansi apparecchiate, nè i fuorusciti o i Piemontesi o i campagnuoli che diceansi aspettar solo un cenno, comparvero; sebbene per via di palloni areostatici si diffondessero appelli e incoraggiamenti. Ma neppure il nemico era allestito a difesa; e le insufficienti e deteriorate sue munizioni, la concorde perseveranza de’ cittadini, il probabile dilatarsi dell’insurrezione nella campagna, l’incertezza di ciò che accadeva a Vienna, l’apprensione che i Piemontesi arrivassero, indussero il maresciallo Radetzky (22 marzo) a ordinare la ritirata. E Milano si trovò libera, con un’esultanza più viva quanto meno aspettata, compra con trecencinquanta vite, fra cui quaranta donne e trentaquattro fanciulli. Scene simili eransi rinnovate in altre città. A Como uscirono subito ajuti di rifuggiti dalla Svizzera, e con ostinata battaglia per le vie costrinsero i Croati a capitolare. Il lago, il Varesotto, la Brianza disarmano o cacciano gli stranieri, mandano prodi a soccorrere Monza e Milano: la Valtellina con poca fatica si libera anch’essa, le scarse truppe lasciando ritirarsi in Tirolo. A Bergamo un cappuccino col Cristo e la bandiera italiana chiama il popolo alla libertà, e a capo di risoluti move ad ajutar Milano; mentre in città erano prese le caserme e l’arciduca Sigismondo, al quale o generosità o abitudine servile concesse di ritirarsi, come pure ai Croati. A Brescia lasciasi passare il fuggiasco Raineri, ma si getta un petardo ai Gesuiti; poi appena proclamate le concessioni, il generale Schwarzenberg scorre la città applaudito: il reggimento Haugwitz ivi acquartierato era quasi tutto d’Italiani; onde credendo l’impresa finita, non si corse ad ajutar Milano, e si lasciò passare senza ostacolo l’arciduca Sigismondo, fuggente da Bergamo. I paesi della Franciacorta, della Riviera, delle Valli insorgono, e tutto è libero fino al Tirolo. Allora i Bresciani, accorti del vero, intimano a Schwarzenberg di cedere, e poichè resiste, cominciano la lotta, trucidano il suo ajutante Hohenlohe che veniva a esibir pace, e a gran fatica il generale stesso si sottrae; lasciossi partire con onorevole capitolazione e coll’armi la truppa, la quale postasi agli Orzi sull’Oglio, potè spalleggiare la ritirata di Radetzky. Questo, nottetempo staccatosi da Milano per porta Romana, a Melegnano incontrò qualche tentativo di resistenza, ma colla severità sbigottì a segno, che nessuno più gli si oppose su tutta la via, dove ogni pianta, ogni rivo, ogni ponte potea divenire un ostacolo funestissimo. Solo dopo passato l’esercito si gridava libera Lodi. In Cremona un reggimento d’Italiani fraternizzò cogl’insorgenti; sicchè il generale Schönhals capitolato partiva con quattrocento ulani e la cassa e le armi, lasciando alla città due battaglioni di fanti, una batteria da campagna. A Pizzighettone fu presa la fortezza con diciotto cannoni e settecento casse di munizioni, che furono trasferiti a Cremona, invece di raccorre colà anche gli altri e chiudere il passo dell’Adda, o ingrossare al ponte di Lodi e assalire Mantova. L’occupazione di questa fortezza sarebbe stata decisiva dei casi nostri; e Gorczkowsky che la comandava, seppe trastullare i cittadini colla guardia civica, in modo che non pretendessero la cittadella: intanto i savj e i vescovi raccomandavano la quiete, per timore che la fortezza fulminasse la città. Ed ecco giungere un indirizzo del municipio di Trento, esprimente il proposito di staccarsi dal Tirolo per far causa comune coll’Italia, esibendole persone e averi. Vi si risposero parole; si lasciò passare il duca di Modena; si accolsero soldati in ritirata, i quali presto furono bastanti ad assicurare la città agli Austriaci. Visto l’errore, si gridò tradimento quel ch’era stato difetto di sagacia e di coraggio. Dappertutto le Congregazioni municipali e l’alto clero aveano procurato rattenere da atti, dai quali non poteva ripromettersi altro che ruina; dappertutto fu risparmiato l’inutile sangue, contro la dominazione, protestando solo colla gioja del liberarsene. Venezia, scarcerati Tommaseo e Manin (17 marzo), li portò in trionfo, al proclamarsi la costituzione e la libertà della stampa, rimbombarono i _Viva_ all’imperatore; ma l’annunzio della insurrezione di Milano fece comprendere altre possibilità, e i civili stettero contro la forza. Venezia poteva essere bombardata dall’arsenale e dalla goletta del porto; ma Palfy governatore si peritò, nell’incertezza di quanto accadeva a Vienna, e alla magistratura municipale concesse d’armare la guardia civica. Intanto bucinavasi di tradimenti orditi dal nemico, e che Merinovich, odiato comandante all’arsenale, preparasse materie da incendio, quando i suoi dipendenti gli si avventarono e l’uccisero (22 marzo): l’avvocato Manin, postosi a capo de’ cittadini, tra la persuasione e la forza occupa l’arsenale; il governatore rassegna i suoi poteri a Zichy comandante militare, e questo fa colla municipalità una capitolazione, per cui possa menare via la truppa tedesca, con tre mesi di paga, lasciando la cassa, le armi, i soldati italiani a Venezia. Tredici persone furono spente: ai nemici nessun insulto; anzi la generosità arrivò a tale imprudenza, che volendosi mandare a Pola l’ordine alla flotta di venire all’obbedienza degli insorgenti, si affidò l’avviso al legno stesso che portava Palfy a Trieste. In conseguenza questo potè prevenirla, e Venezia restò paralizzata del suo braccio destro, la flotta. Però essa trovavasi libera legalmente; e il popolo espose la Madonna di San Marco, come poi fece in ogni gaudio e in ogni sventura: si elesse un Governo provvisorio (23 marzo) con Castelli, Tommaseo, Paleocapa, Camarata, Pincherle, Solera, Paolucci, Toffoli, e a capo Manin, e si proclamò la repubblica, estesa allora nulla più che la piazza San Marco. Ma le città di terraferma non tardarono ad imitarla, cacciando o disarmando i soldati; il generale d’Aspre è costretto abbandonar Padova; il forte di Malghera viene occupato dalle guardie civiche di Mestre, quello di San Felice dai Chiozzotti; quelli di Osopo e di Palmanova si arrendono, e n’è posto comandante il generale Zucchi, che dal 1831 vi rimanea prigioniero. A Verona stava il vicerè, il quale colle promesse tenne a bada i cittadini, e salvò così il nido dove l’aquila rinnoverebbe le penne. Tutte le città si diedero Governi proprj, che poi si fusero nel veneziano. L’esercito austriaco in quei giorni perdè quattromila morti, settemila prigioni e feriti, diecimila prigionieri, oltre i settemila di Venezia. Anche in Modena si leva rumore, e il duca, istituita una giunta, si ritira sul territorio austriaco, mentre il granduca occupa i territorj di Massa e Carrara. Il duca di Parma (10 marzo), udito la sollevazione di queste città ove combattendo i militari tedeschi, cinque cittadini ebbero morte e molti ferite, ma costrinsero i nemici a deporre le armi, non solo si rammorbidisce come tutti gli altri, e promette lo statuto, ma deplora d’aver subito l’influenza straniera, e dichiara rimettere i suoi destini a Pio IX, Carlalberto e Leopoldo, perchè facciano de’ suoi Stati quel che meglio comple all’Italia, pronto a ricevere egli quel compenso che crederanno conveniente; ed egli se n’andò in Romagna, suo figlio a Milano per offrirsi alla causa italiana, dove invece fu tenuto prigione. L’insurrezione di Milano erasi sentita dai Piemontesi (19 marzo) con tutto l’interesse di nazione e di vicinanza; e l’intera popolazione fremea perchè si corresse a sottrarre la vicina da uno sterminio inevitabile; già molti vi si spingeano volontarj, malgrado le guardie poste al confine, e vi si mandavano munizioni. Poco prima, Carlalberto, risoluto di mettersi francamente nelle norme costituzionali, aveva chiamati al ministero Sclopis, Franzini, Boncompagni, Desambrois, Revel e i genovesi Pareto e Ricci, sotto la presidenza di Cesare Balbo. La costoro popolarità, le conosciute intenzioni, i voti gridati, anzi intimati a loro dai Genovesi, li faceano scopo a smisurate speranze. E poichè in capo d’ogni speranza stava l’italianità, tutti chiedevansi se il Piemonte trarrebbe la spada per rivendicarla. Non era questo il lungo voto di Carlalberto? non teneva egli in piedi settantamila armati, e riboccanti gli arsenali, e pingue il tesoro, e uno stato-maggiore incomparabile, e tutta l’uffizialità anelante di provarsi cogli oppressori? Le realtà stavano a gran pezza dai discorsi. Il preconizzato sistema militare del Piemonte appariva disadatto a trasformarsi subitaneamente dal piede di pace in quello di guerra attiva; artiglieria e cavalleria eccellenti ma scarse; le riserve male esercitate, e avvezze al riposo e agli affetti domestici; i soldati coraggiosi personalmente, ma non altrettanto disciplinati tutti insieme; uno stato-maggiore più di comparsa che di valentìa; nessuno poi avea mai fiutato battaglie; nè in quel precipizio più di dodici in quindicimila uomini si potrebbero mettere in campo; e di questi un buon dato eransi spediti in Savoja per impedire un’irruzione dei Voraci, bande comuniste della Francia. Dell’Austria ignoravasi lo sfasciamento; poco si poteva ripromettersi dalla restante Italia, inavvezza all’armi; l’Inghilterra, che a consigliare e moderare l’italico movimento avea spedito lord Minto, non che attizzasse come si spargea, dichiarava essere la Lombardia assicurata all’Austria dai trattati medesimi che assicuravano Genova al Piemonte, e il toccar l’una comprometterebbe l’altra. I soccorsi della Francia metteano ribrezzo or ch’era repubblicana, potendo divenir rovinosi al principato; e il famoso motto attribuito a Carlalberto _Italia farà da sè_ era una protesta contro quegli ajuti sgraditi. D’altra parte i veggenti, persuasi che si consolidano più cause coi temperamenti della prudenza, che non se ne guadagnino colla furia, aveano sempre sconsigliato il Piemonte dalla guerra[65]; ai nuovi ministri era riuscito di consolazione l’accertarsi che l’Austria non minacciasse il Piemonte, il quale potrebbe tranquillamente assodare, svolgere, applicare la donatagli libertà. E in fatti il programma loro esprimeva: fare preparativi se mai l’Austria chiarisse guerra, ma non provocarla: riconoscere la Repubblica francese; allearsi coll’Inghilterra e cogli Stati costituzionali d’Italia purchè non rompessero a ostilità. Carlalberto, sempre fisso ad un fine, tentennava sui mezzi e sul tempo, e viepiù da che si sentì trascendere dal movimento. — Che si dice sottovoce al Congresso di Genova?» interrogava. — Si dice, _Viva Carlalberto_», gli si rispondeva. Ed egli: — Ma più basso si dice _Viva Mazzini_». In una delle più solenni festività di quel festivissimo tempo, tutte le comunità del regno vennero a solennizzare (25 febbr.) la promessa costituzione, e sfilarono tripudianti di bandiere, di inni, di _Viva_ innanzi al re, e soli mesti e abbruniti noi Lombardi, sfuggiti al carcere e alla legge marziale. Chi l’ha veduta non potrà mai più dimenticare quella giornata, d’accordi non anco turbati, di speranze potenti di tutto il prestigio, d’una libertà di cui nessuno erasi disamorato. Sarebbe stata la più bella della vita di Carlalberto; ma la sera giunse l’avviso della repubblica proclamata a Parigi, e noi gli udimmo dire: — Anche questa vicenda farà il giro d’Europa. Poco mi cale di me: duolmi de’ miei figliuoli; ma non importa purchè il mio popolo sia felice». Proposizioni a lui erano state rivolte da Lombardi prima della sollevazione; ma non le ascoltò egli direttamente, bensì un suo ajutante: pure, in iscritto confidenziale, ripetè la promessa mandata ai comizj di Casale, che, dato il caso, guiderebbe il movimento patriotico d’Italia. In Milano i proclami animavano alla difesa colla certezza degli ajuti piemontesi; da’ campanili speculavasi il loro arrivare; fin Radetzky vi credette: da cittadini ricchi e reputati si sottoscrisse un invito a Carlalberto perchè soccorresse e prendesse la Lombardia (20 marzo); eppure Carlalberto che l’avea chiesto, esitava ancora, e i ministri davano assicurazione di buona vicinanza all’ambasciadore austriaco. Ma la gioventù freme guerra; i portici di strada Po e la piazza della reggia formicolano di gridanti guerra; guerra vuole l’Università: e quelli che non sanno figurarsi la libertà se non a cavallo d’un cannone. Il re e i ministri sapeano che perde l’autorità chi la sottopone al tumulto: ma e se Milano soccombesse a un nuovo Uraja? qual onta pel vicino armato? E che farebbe Genova, la quale avea gridato _Con Milano, se no, no?_ la compassione non potrebbe prorompere contro il principe, e fino a gridare la repubblica? Mentre vacillavasi tra i consigli della prudenza ed i precipizj della generosità, ecco giunge (22 marzo) che Milano s’è liberata da sè; che i Tedeschi rotti e scompigliati vanno in pienissima fuga fra le strade rotte e le campagne inondate, incalzati dalle popolazioni, risolute a non lasciarne vivo uno, uno solo[66]. Carlalberto gettò la propria spada sulla bilancia dei ministri, e proclamò che coi suoi proprj figli si metteva a capo dell’esercito, portando alla Lombardia «i soccorsi di fratello a fratelli; di guiderdone non si parli: solo a guerra finita si deciderà delle sorti del paese». Ammirazione, gioja, affetti si rovesciano allora sopra Carlalberto, il migliore, il più grande dei re, la spada d’Italia; se ne dimenticano i torti, prima ch’egli dichiari dimenticati quelli de’ sudditi; egli si rassegna a venir ricevere sul balcone e per le strade le acclamazioni da cui sempre aveva aborrito; assiste al _Tedeum_ cantato dall’arcivescovo di Torino, a cui quest’atto non risparmia i fischi; passa in rassegna la plaudente guardia nazionale, contento che sui vecchi suoi giorni rifulga quel raggio di speranza, che aveva indorato i vigorosi. Gli altri paesi d’Italia rispondono a quel grido. A Roma Ciciruacchio mena la folla ad abbattere lo stemma del palazzo d’Austria, e occuparlo a nome della Dieta italiana, della quale s’intima a Pio IX di farsi capo, mentre le campane suonano, i cannoni bombano, il Masi improvvisa, il gigantesco padre Gavazzi bolognese predica, il marchese Patrizj, il principe Ruspoli offrono denaro, i figli, la persona alla causa comune: e Pio IX riconoscendo la mano del Signore in quella vittoria (30 marzo), rammemora che «d’ogni stabilità e prosperità è ragion prima la concordia, e che la giustizia sola edifica, mentre le passioni distruggono»; Leopoldo granduca intuona: — L’ora del risorgimento d’Italia è giunta improvvisa, nè chi ama questa patria comune può ricusarle soccorso. Figli d’Italia, eredi della gloria militare degli avi, non devono i Toscani rimanere in ozio vergognoso, mentre la santa causa dell’indipendenza si decide, ma volare al soccorso de’ fratelli lombardi». Il Ministero napoletano che aveva cercato tenersi saldo contro le dimostrazioni di piazza, fu da queste scomposto; si dovette promettere la guerra santa, capitanata da Pepe, esule da ventisette anni, e un Ministero preseduto da Carlo Troya, esule della stessa causa (aprile); e il re proclamava: — Le sorti della comune patria vanno a decidersi nei piani della Lombardia; ed ogni principe e popolo è in debito di accorrere a parte della lotta che deve assicurare l’indipendenza, la libertà, la gloria. Noi intendiamo concorrervi con tutte le nostre forze di terra e di mare, cogli arsenali, coi tesori della nazione; unione, abnegazione, fermezza, e l’indipendenza della nostra bellissima Italia sarà conseguita; e ventiquattro milioni d’italiani avranno una patria potente, un comune ricchissimo patrimonio di gloria, e una nazionalità rispettata». Tanto accordo di principi e di popoli che forti di risolutezza, invigoriti di lunghi patimenti anelano alla virile gioja delle battaglie, acciocchè l’Italia sia, non trofeo di altrui vittorie, ma redenta pel braccio dei proprj figliuoli; tutti dimenticando le antiche superbie e gli antichi rancori, e contando soltanto sulla fermezza del proposito, la temperanza delle passioni, la concordia delle volontà, i miracoli dell’entusiasmo. CAPITOLO CXCII. Guerra santa. Conquassi. La vittoria era assai meno facile che il trionfo. Sulle orme del nemico fuggente si cacciarono alquanti, di coraggio risoluto e intelligente; e deh come pareano belli que’ giovani, che alfine avevano qualcosa da fare! come ne’ loro atti sfavillava eroico, incitato, romanzesco il sentimento! Altrettanto deforme e scomposto era l’esercito austriaco; lacero, tutto mota e sangue, famelico, con impotente anelito di vendetta, e temendo da ogni siepe un assalto, sotto ogni ponte una mina, in ogni villaggio barricate e tegoli; che se davanti a quello, scompigliato da tante diserzioni, dall’insolita guerra delle vie, dalla privazione di riposo, dall’incertezza degli avvenimenti viennesi, si fossero abbattute le piante, recise le vie, diffuse acque, lanciata la morte, qual ritornava di là dai monti? Ma Radetzky ebbe ad avvedersi ben presto che il popolo non prendeva parte a quell’insurrezione; i campagnuoli non secondarono l’impulso delle città, nè la bassa rispose alla risolutezza dell’alta Lombardia; sicchè egli, neppure mai attaccato, potè giungere al Mincio, e dentro al formidabile quadro, formato dai monti, dal mare, dall’Adige colle fortezze di Verona e Legnago, dal Mincio con quelle di Peschiera e Mantova, rincorare le truppe, attenderne di nuove, e coi migliori uffiziali allestire la difesa e la riscossa. Nè alla Potenza austriaca restava allora altro appoggio che quell’esercito e quel capitano, il quale non lasciò di tenersi per guardie i granatieri italiani; mancante del denaro fin per vivere due giorni, pure affacciavasi al balcone a ricevere anch’egli applausi dal vulgo, cui buttava il poco resto de’ suoi quattrini. L’esercito piemontese si trovò scarso oltre ogni aspettazione e impreparato: i generali confessavano la propria inettitudine, e consigliavano a cercare un maresciallo ai Francesi[67]; ma questi erano sospetti a Carlalberto. Cuore intrepido con incerto consiglio, mancante di quell’attitudine impassibile del comando, che impone alle fantasie popolari e affascina le volontà col supporre nel comandante una profonda persuasione; perchè era spada d’Italia egli credette essere la mano che bastasse a maneggiarla, e ripetè l’ambiziosa parola _Italia farà da sè_, la quale[68], d’effetto drammatico in bocca di letterati e di preti, acquistava tremenda importanza ripetuta da un re che montava a cavallo per darvi realtà. L’esercito arrivò tardi (29 marzo), ed anzichè precipitarsi su Mantova, mal presidiata, e con cittadini disposti alla rivolta, entrò per Milano e Pavia, e a marcie regolari spintosi al Mincio, valore mostrò (8 e 9 aprile) ai ponti di Goito, Valleggio, Monzambano. Passato il fiume, coll’inutile assedio di Peschiera s’intepidì l’entusiasmo, aspettando il parco che arrivò solo il 15 maggio: e lungo l’Adige distesa una linea di trentasei miglia, cominciossi una guerra di posizioni. Ben presto sessantamila uomini si trovò Carlalberto. Vi si aggiunsero cinquemila Toscani fra volontarj e di ordinanza; diciassettemila Romani avvicinavansi al Po; e quattordicimila Napoletani, oltre innumerevoli volontarj; tremila Parmigiani e Modenesi stavano sul Mincio; cinquemila Lombardi verso il Tirolo; bande di Veneti alle alpi Carniche. Anfossi, Longhena, Griffini, Manara, Arcioni, Simonetta, Sorresi, Bonfanti, Tololti, Sedabondi, Torres.... capitanavano bande; bande di volontarj polacchi ci erano menate dal gran poeta e mistico Mickiewitz; napoletani dalla principessa Belgiojoso, siciliani da La Masa, altri dal belgio Thamberg, altri ancora dall’attore Modena, la cui moglie ne portava la bandiera, e di più serj dal famoso Garibaldi; nè mancavano preti, e l’eloquente Bassi barnabita, che nel 1836 avea tanto giovato a Palermo durante il cholera, e il padre Gavazzi parevano santificare la causa e meritarle il nome di crociata; i seminaristi medesimi si organizzarono per le armi: nobili impeti, a cui mancavano la disciplina e l’unione, che sole possono dare la vittoria. Ma improvvida fiducia in noi e improvvido disprezzo pel nemico fecero che, quando ognuno avrebbe dovuto offrire sin l’ultimo soldo e l’ultima stilla di sangue pel riscatto nazionale, si stiticasse sui sacrifizj, e si dissentisse sui mezzi. Come i Lombardi eransi lusingati di vincere democraticamente in tempo che ogni forza sta concentrata ne’ Governi, così i Piemontesi opponevano battaglia di fronte a un esercito di mirabile disciplina ed esperienza; mentre alla vittoria, unico scopo, sarebbe dovuto dirigersi l’impeto nazionale, non si seppe o non si volle effettuare la leva a stormo; si tennero in lieve conto i volontarj che, con ottima sentita, si portarono a difesa dei varchi alpini, benchè si vedesse il nemico avvantaggiarsi dei subitarj, corsi ad ajutarlo dalle scuole austriache o dalle fucine stiriane. Da cinquantamila uomini che si trovavano in Lombardia fra i ventotto e i trentott’anni, che aveano militato; e non furono richiamati istantanemente sotto le armi: seimila trecento ch’erano disertati dagli Austriaci, furono rejetti dall’onor militare, e coperti di quel sospetto che invita a tradire: invece di innestare subito i coscritti nell’esercito piemontese, con camerati esperti, sotto vecchi uffiziali, si volle formare un esercito lombardo, sciupando denaro e tempo, crescendo gli scioperi e quindi gl’intriganti, e non recando ajuto alla gran causa. Giovani baliosi non aveano vergogna di rimanersi a casa a pompeggiare nella guardia nazionale e nelle parate, e poeteggiare sui giornali e nelle canzoni quel coraggio che è si facile allorchè l’occasione è lontana. In quelle ore procellose dove sono gli avvenimenti che impongono i dittatori, d’ogni città presero il governo le persone che si trovarono o che vollero mettersi in una posizione di molti pericoli e di nessun vantaggio, e ripagata coll’impopolarità. Per accentrare la resistenza e i comandi, il Governo provvisorio di Milano faticò a vincere le gelosie, che sono brina ad ogni fiorire di speranze italiche, e fare che ciascuna provincia gli mandasse un deputato. Vennero scelti non coloro che aveano tramato o intrigato, forse neppure sperato; alcuni anzi già bersaglio della stampa demagogica[69]: sì poco era figlia di congiure quella sollevazione, che traeva nobiltà e forza dall’intento comune e semplice di rivendicare la nazionalità. Ogni Governo rivoluzionario si trova debole a fronte dei compagni di rivolta, ed esposto ai mille rischi della inesperienza, della precipitazione, del disordine. Il nostro poi, vacillante per inesperienza e incoerente per gli antecedenti, neppure cercossi la sanzione popolare, tanto facile in paese sistemato a municipj. Nei momenti sublimi in cui l’ispirazione viene dalle moltitudini, essa irradia taluni che, cessato quel lampo, devono ricadere nelle tenebre: e caratteri medj, i quali usano riguardo a tutti, carezzano il bene come il male politico, potrebbero mai condurre una rivoluzione, che vive di moto, d’azione, d’audacia? Alla nostra, mentre era nel primo lancio, imposero la formola delle società in riposo, conservare l’ordine; nè tampoco si seppe governare una gente, così facile a governare perchè così facile a illudere; quando tutto era straordinario, operavasi come in occorrenze consuete. I prestiti volontarj sono uno spediente che piace a leggersi ne’ vecchi repubblicani; si piange d’una fanciulla che offre l’anello di fidanzata, d’una vecchia che dona la tabacchiera d’argento, d’un prete che levasi le fibbie; ma che profittano ora che le forze e il denaro sono concentrati nei Governi. Si abolivano la gabella del sale e il testatico, mentre col sospendere i pagamenti del Monte sconcertavansi tante famiglie; si chiedeano le argenterie domestiche e gli spogli delle chiese, mentre tesori poteano cavarsi annunziando la suprema necessità del vincere. Pronte nubi offuscarono quel rosato, di cui si colora l’alba d’ogni rivoluzione. I sistemi corruttori pregiudicano l’avvenire col far che, al punto di cambiarli, non si trovino persone capaci a rappresentare la nuova età; e che i vulghi, lusingati di alleviamenti e beatitudini, ricusino gli stenti con cui bisogna conquistarli, e lo spostamento degl’interessi e delle abitudini. In società educate così, le qualità negative prevalgono, e guaj a chi trascende una mediocrità, palliata col nome d’eguaglianza! nome illustre, operosità, esaltazione di nobili sentimenti, influenza riconosciuta divengono pericolosi e denigrati. Se non bastava dunque il trovarci inesperti degli affari, delle armi, della vita politica; se non bastava che Tommaseo e Cattaneo, Gioberti e Rosmini, Cibrario e Brofferio, Carlalberto e Berchet si fossero palleggiati insulti, che poteano mettere in disparte ma non disfare, i generosi restavano elisi dal dispetto proprio o dal sospetto altrui, all’istante che più n’era bisogno. Gente irritabilissima gli scrittori! E alcuni di essi, che sulle prime esageravano l’eroismo per incitarlo, ripigliarono presto il riso sardonico; altri, che avevano aspirato ad essere primi, non soffersero di rimanere secondi, e sbracciavansi a rivelare gli errori di chi non faceva come loro, e autorizzavano le ire delle fazioni, che sempre gridansi tradite da chi non le serve come esse vogliono. Mentre il riuscire a cose straordinarie allucina in modo da far credere tutto possibile, i tentativi arrischiati cacciano indietro molti spiriti sbigottiti, compromettono ciò che esagerano, ruinando ciò che trascendono. Fra coloro dunque che, per moda o per primeggiare, aveano invocato la tempesta, molti sgomentaronsi al vederla scatenata; e dagli inconditi sussulti di Francia presagendo qui pure la ghigliottina o il comunismo, corazzavansi contro coloro che pur seguitavano a chiamare fratelli. Mentre tutti credeansi valevoli a proporre, nessuno volea la responsabilità del risolvere; il popolo male obbediva a governanti, dipintigli come spregevoli; e fra le canzoni e la proclamata fraternità nessuno avea fiducia in nessuno. Finchè trattavasi di bruciare in effigie Guizot o Metternich, e di mettere in caricatura Radetzky, molti faceano l’eroe; quando si trattasse di fatti, l’inerzia, che prima si crogiolava nell’impossibilità di affrontare il nemico, dappoi coglieva pretesto dalla facilità della vittoria, tutto asserendo finito colla cacciata de’ Tedeschi. Ai nuovi reggitori accalcavansi i servidori degli antichi, che cogli antichi non volendo cadere, chiedeano compensi di persecuzioni non sofferte; improvvisati statisti offrivano consigli; speculavasi sulle armi, sugli impieghi, sulla pubblicità, sulla fame; dilettanti del mestiere di delatore e di carceriero continuavano a vedere cospirazioni e delitti, e mentre sovrastava un esercito minaccioso, eccitavano schiamazzanti paure contro spie che non si trovavano, contro contadini che voleano soltanto far chiasso come i cittadini. Vaglia il vero, di que’ tumulti licenziosi che altrove metteano sdegno o terrore, danneggiando le persone e gli averi, qui non fu ombra; ma le dimostrazioni clamorose attestavano che freno d’autorità non v’avea, e i reggitori erano impotenti. Di fuori ci vennero anche ibridi innesti, e in paese ove il clero sempre era comparso nelle prime file, si urlò contro gli ecclesiastici; in paese che da ottant’anni non conosceva dell’aristocrazia se non la casualità dei natali, si seminò odio ai nobili, anche in ciò snervando col dividere. Quindi oberate le finanze nella pinguissima Lombardia, e sospesi i pagamenti del Monte; inettissimamente provveduto alla guerra; e nell’inazione si cominciò a disputare del come si governerebbe la nazione, prima d’essere certi che nazione saremmo. La repubblicana parea forma consentanea a paese ribattezzatosi col proprio sangue, dove nè dinastie da rispettare, nè aulica nobiltà da gonfiare; ciascuno avea contribuito alla redenzione, ciascuno conserverebbe la massima porzione di sovranità. I bei ricordi della Lombardia non erano repubblicani? ed ora questa forma dalla Francia iniziatrice non sarà diffusa a tutto il mondo? non ci procaccerebbe volonterosi ajuti da quella sorella? non allontanerebbe le gelosie degli antichi e le ambizioni dei principi nuovi? D’altra parte, gli avversarj più risoluti di essa aveano predicato che da Repubblica a Governo costituzionale poca o niuna differenza intercede[70]. Pure, nel supremo intento della liberazione, la Giovane Italia si era obbligata, già prima dell’insurrezione, a velare il suo vessillo, chè non turbasse i principi rigeneratori. Se Carlalberto al primo entrare in Lombardia avesse assunto poteri dittatorj, e concentrate tutte le forze allo scopo unico, chi avrebbe mosso lamento? Ma ed egli e il Governo provvisorio iteratamente aveano promesso, della forma di governo non si ragionerebbe che a causa vinta, quando liberi tutti, tutti deciderebbero. Or eccoli invece sollecitare il paese a dichiararsi; e nonchè gl’intraprenditori di dimostrazioni e di mozioni, il filosofo nel cui nome si era iniziato il movimento, uscì dai dignitosi suoi studj per vagare apostolando la fusione col Piemonte[71]; con ciò determinando un altro, in cui si personificavano le spasmodiche speranze di diciott’anni, a contrapporvi il grido di repubblica. Allora il paese restò scisso, e il dissenso offrì pretesti alle debolezze, alle avarizie, ai calcoli personali. I disordini della Francia svogliavano già molti dalla repubblica, perchè considerata come fine, mentre non è che mezzo alla libertà. Di coloro stessi che la vagheggiano come la pacificazione dell’avvenire, alcuni trovavano che il paese nostro non fosse abituato alla legale subordinazione, ch’è la prima virtù repubblicana, e bisognasse arrivarvi traverso alle alchimie costituzionali. D’altra parte, un sovrano, irradiato dall’aureola della libertà, e campeggiante per la causa comune, un Governo già stabilito il quale non avrebbe che ad estendersi, l’eroismo dei Piemontesi pugnanti pel nostro riscatto, la potenza che alla guerra verrebbe dall’unità del comando, inducevano a sovrapporre una corona al simbolo nazionale. Per queste ragioni, da non confondere colle servilità dei fiacchi che s’allietano qualora il caso loro manda un padrone, e degl’intriganti che, avendo l’accorgimento di voltarsi un quarto d’ora prima della fortuna, s’erano già ingrazianiti i cortigiani di Carlalberto, anche persone lealissime, anche tali che aveano imprecato al disertore del 1821, come Berchet, immolarono i rancori alla speranza ch’egli compirebbe la redenzione, e avvierebbe l’unità del paese. Gli adulatori, che furono i peggiori nemici suoi, svilivano il re magnanimo fino a supporre che subordinasse la nazionale alla quistione dinastica, e trovasse convenevole ad una gran nazione il disporre di se stessa in modo intempestivo e tumultuario; i dissolventi tacciavansi di venduti all’Austria, fossero pure di quelli che più aveano contribuito a cacciarla; e posta come alternativa «Carlalberto o l’Austria», proruppero le stomachevoli prepotenze dei deboli. Chè l’impulso venne dal basso. Il popolo di Modena, ripudiando la reggenza lasciata dal duca, avea creato un Governo provvisorio, preseduto da Malmusi: ma Reggio protestando ne formò uno a parte, e più d’un mese ebbe a contendersi prima d’unirli. Invece Parma stette contenta ai conti Luigi Sanvitale, Ferdinando Castagnoli, Girolamo Cantelli, e all’avvocato Ferdinando Maestri, designati dal duca stesso, e che formaronsi in Governo provvisorio, aggiunti il professore Pellegrini, Giuseppe Bandini e monsignor Carletti: ma i Piacentini esclamando contro il principe spergiuro, costituirono (1848 8 maggio) una reggenza separata, alla quale veniva l’avvocato Gioja; poi ben presto aperti registri, la fusione del ducato col Piemonte fu voluta senza restrizioni, com’era ad aspettarsi in paese piccolo e sconnesso. Brescia, col dichiarare proprietà della nazione bresciana i beni de’ Gesuiti, costrinse il Governo provvisorio a quelle persecuzioni di frati, da cui aborriva per indole, per politica, per rispetto a sè e alla libertà: dappoi la classe bassa e fiera cominciò a gridarvi la fusione col Piemonte. Bergamo assecondava; altre città minacciavano se indugiasse l’unione, la farebbero da sè; fin l’esercito divenne deliberante, e la legione Griffini mandò la sua adesione. Balbo, da che scese di carrozza a Milano fin quando vi rimontò, non sapea ripetere se non «Fondersi, e subito, subito»: Gioberti, ricevendovi le solite ovazioni, cercò far gridare a voce di popolo la fusione, promettendo Milano capitale dell’alta Italia[72]. Il Governo provvisorio chiamò dunque alla votazione, confessando che, «mentre avea proclamata la neutralità per poter essere un Governo unicamente guerriero ed amministratore, si trovava trascinato in mezzo alle distrazioni d’incessanti dispute politiche, e costretto a difendersi ogni giorno dall’insistenza delle più divergenti opinioni». Chi non può sottrarsi da condizioni repugnanti alla coscienza, abdica il potere. Essi invece aprirono registri in tutte le parrocchie, chiamando il popolo a votare su punti dove non era competente; e come avviene immancabilmente, a grande maggiorità fu chiesta l’immediata fusione della Lombardia col Piemonte. Il Piemonte nella dinastia di Savoja vede da un pezzo la gloria e la potenza, come l’interesse proprio; pure anche colà si cozzavano fazioni. La Savoja avea respinto una banda d’operaj, venuti di Francia proclamando la repubblica; ma dall’italianità non era infervorata agli aggravj impostile dalla guerra, sebbene li portasse con serena intrepidezza. Genova mirava altrove che il Ministero, e a surrogare il berretto alla corona, appena questa non paresse più necessaria alla causa nazionale. La coccarda tricolore, come fregiava il patrioto, così mascherava il brigante, che gettava nel fango il potere onde raccorne qualche brano; il sofisto, che preponeva la forma al fondo, l’espressione alla dottrina; l’intollerante, che la libera discussione strozzava cogl’insulti; il declamatore, amico e nemico prestabilito di qualunque siasi risoluzione; il pauroso che, portando al bottone Pio IX e tamburando Italia, non mirava che a sguizzare dal pericolo coll’adulare coloro che lo aveano cagionato. Ma da una parte quei che sempre eransi lamentati del troppo spendio nell’esercito, ora lamentavansi perchè a soldati e uffiziali nuovi mancassero le virtù di veterani; da un’altra si disapprovava come _lusso di sacrifizj_ il mandarne altri nella vincitrice Lombardia: un prestito di dieci milioni restringevasi a sei; interpellavasi il Ministero sulle provvigioni di guerra, sull’esito di alcune battaglie, su quel che intendeasi fare, quasi premesse d’informarne il nemico; tutti quelli che sentivano vergogna di non combattere in campo, la mascheravano col combattere nella Camera, aperta l’8 maggio, o nei caffè con motteggi, con articoli, con frivole mozioni, ora di sottoporre i chierici alla coscrizione, ora di espellere i Gesuiti e le dame del Sacro Cuore; onde vi ebbe chi esclamò: — Se perdiamo tempo a cacciare i frati, non cacceremo mai i Tedeschi». Le affollate tribune applaudendo, fischiando, urlando, vilipendevano la maestà della rappresentanza nazionale, e violentavano la coscienza de’ legislatori. A questi trambusti si gittò in mezzo la fusione colla Lombardia. A molti gradiva l’avere i Lombardi messa per patto un’assemblea costituente, colla quale speravasi introdurre nello statuto un più largo equilibrio fra il potere legislativo e l’esecutivo; ma un geloso antagonismo facea paurosi che Torino dovesse cedere il grado di metropoli a Milano, secondo l’avrebbero desiderato Genova, Novara e i ducati, e che i Piemontesi restassero in minorità nell’assemblea costituente[73]. In fine, si votò (13 giugno) che «la Lombardia cogli Stati sardi e coi ducati formerebbe un sol regno; e in assemblea generale si stabilirebbero le norme d’una nuova monarchia costituzionale, sotto la Casa di Savoja, coll’ordine di successione secondo la legge salica». Vale a dire che un Parlamento legislativo parziale imponeva limiti a un Parlamento costitutivo da eleggersi dalla intera nazione; e ch’è peggio, decretavasi la fusione di paesi già rioccupati. Perocchè fra questi maneggi le condizioni italiane erano ite alla peggio. Alla vittoria de’ Milanesi tutta la penisola era trasalita di libertà e di speranze, e il movimento già trasceso, non che lasciarsi regolare dai principi, torcevasi contro di loro: da Modena e da Parma sommosse i duchi partirono: il granduca dovette deporre i titoli austriaci, e scegliere ministri di minor suo gradimento. Il papa, che colla cara ed autorevole voce avea benedetto alle speranze italiche, deputò un prelato suo dilettissimo (monsignor Corboli Bussi) al campo italiano; alle sue truppe diede generale Giovanni Durando piemontese e l’ordine d’accordarsi con Carlalberto; sollecitò i principi a mandar deputati a Roma per conchiudere una lega (29 marzo): ora però dolevasi si tiranneggiasse la sua coscienza: eppure fu costretto estrudere i Gesuiti, mentre dichiaravali «instancabili collaboratori nella vigna del Signore»; ai consiglieri di sua confidenza surrogarne altri, che gl’imponevano e parole e generali e guerra. I suoi intimi gli mostravano come pericolasse non solo lo Stato ma la nave di Pietro: i nunzj da Vienna e da Monaco gli faceano temere che la Germania non si separasse da un papa, il quale mettevasi ostile ai cattolici tedeschi: poi vedendo che Carlalberto domandava un’alleanza guerresca, e che fervea la briga di riunire l’Italia ma sotto altri auspizj, Pio IX pronunziò non favorirebbe un principe a scapito degli altri: — Il nome nostro (rispondea all’indirizzo de’ deputati) fu benedetto in tutta la terra per le prime parole di pace che uscirono dal nostro labbro: non potrebbe esserlo sicuramente se quelle n’uscissero della guerra... L’unione fra i principi, la buona armonia fra i popoli della penisola, possono solo conseguire la felicità sospirata. Questa concordia fa sì che tutti noi dobbiamo abbracciare egualmente i principi d’Italia, perchè da quest’abbraccio paterno può nascere quell’armonia che conduca al compimento de’ pubblici voti». Inerme sacerdote, circondato da un concistoro cosmopolitico, sentendo tardi che la popolarità vuole schiavi i proprj feticci, lamentò che dalla diffusa voce della gran congiura si togliesse pretesto a perseguitare persone onorande e religiose[74]: poi come parvegli pericolare la nave che Dio gli affidò (29 aprile), disdisse ogni partecipamento colle rivoluzioni; non aver egli se non attuato quel che le Potenze già aveano suggerito a Pio VII e a Gregorio XVI, e ch’egli credea vantaggioso a’ suoi popoli; dolergli che questi non avessero saputo contenersi in fedeltà, obbedienza, concordia; non a lui doversi imputare le convulsioni italiche, a lui che aborriva la guerra, e repudiava coloro che parlavano d’una repubblica italiana, preseduta dal papa. Roma, che obbediva al papa a condizione che il papa obbedisse a lei, sobbolle a questi voci (1 maggio), e bestemmiando come si bestemmia colà, minaccia sommergere nel sangue il pretesco dominio; si levano dalla posta le lettere dirette a cardinali e prelati, esponendole pubblicamente colle più strane interpretazioni; la guardia civica occupa le porte e Castel Sant’Angelo; grida di morte si diffondono. Pio IX procura calmare con un proclama mansueto: ma ogni parola n’è presa a onta, come un tempo prendeasi a lode; i circoli fremono. Il filosofo Terenzio Mamiani, profugo sin dal 31, e che coll’ingegno, l’onestà, la cortesia erasi acquistato venerazione in Francia, era stato ricevuto benchè negasse sottoporsi alle condizioni e promesse che l’amnistia esigeva, e da cui la coscienza sua repugnava; e favorito dalle classi colte, ne profittava per insinuare miti consigli; sicchè rimaneva indicato a capo d’un nuovo Ministero, nel quale entrarono il cardinale Ciacchi, Massimo, Galletti, Marchetti, Lunati, Doria Pamfili, Pasquale Rossi. La onesta vacuità del Parlamento, dominata dalla melliflua parola di Orioli, dalla fulminante di Sterbini, dalla incessante del principe di Canino, rendea sempre più vacillante l’azione governativa, e cresceva lena alla sovversione ne’ circoli, ne’ giornali, sulle piazze. I liberali stessi scindeansi in centralisti e federalisti; quelli volendo metropoli di tutt’Italia Roma, questi conservando le prische capitali: ma ecco aspirar a questo onore anche Genova e Palermo: tutti poi nel concetto italico dimenticavano che un popolo non si amalgama come i diversi metalli per far una statua, e che l’unità nazionale è tutt’altro da quell’unità amministrativa e despotica, sciaguratamente trasmessaci dalla Rivoluzione francese. Il nuovo Ministero, debole come i buoni, non volea l’unità italiana, non la rivoluzione, bensì l’indipendenza italiana e la separazione dei due poteri; il Mamiani dichiarava che «dimorando nella serena pace dei dogmi, Pio IX prega, benedice, perdona, ma lascia gli affari all’assemblea»; col che elevandolo in cielo, lo svestiva d’ogni autorità terrena. Il papa protestò, come protestò contro gli Austriaci allorchè un loro corpo invase Ferrara per dissipare un branco di truppe pontifizie: ma l’efficacia di lui era passata, come altre mode; e la forza popolare abbandonò il papato, allora appunto che più importava sorreggerlo e spingerlo. Nè Pio aveva rinnegato la causa italiana; e quando il presidente della repubblica veneta gli raccomandava la sua città e «questa Italia, tempio magnifico del Dio vivente, nel quale la dimora dello straniero insultatore è una quotidiana bestemmia», esso, il 27 giugno, di proprio pugno rescriveva: — Iddio benedica Venezia, liberandola dai mali che teme»; al La Farina deputato siciliano, che gli faceva rimostranze, disse risentito: — Io sono più italiano di lei, ma lei non vuol distinguere in me l’italiano dal pontefice»; dal cardinale Antonelli fece scrivere al Farini, inviato suo a Torino, essere «volenterosissimo d’interporre la propria mediazione come principe di pace, sempre nel senso di stabilire la nazionalità italiana»; e il 3 maggio scriveva all’imperator d’Austria: — È stile che da questa santa Sede si pronunzii una parola di pace in mezzo alle guerre. Non sia dunque discaro alla maestà vostra che ci rivolgiamo alla sua pietà e religione, esortandola a far cessare le sue armi da una guerra, che, senza poter riconquistare all’Impero gli animi dei Lombardi e dei Veneti, trae funesta serie di calamità, certamente da lei aborrite. Non sia discaro alla generosa nazione tedesca, che noi la invitiamo a deporre gli odj, ed a convertire in utili relazioni d’amichevole vicinato una dominazione, che non sarebbe nobile nè felice quando sul ferro unicamente posasse. Quella nazione, onestamente altera della nazionalità propria, metterà l’onor suo in sanguinosi tentativi contro la nazione italiana? o non piuttosto nel riconoscerla nobilmente per sorella, come entrambe sono figliuole nostre e al cuor nostro carissime, riducendosi ad abitare ciascuno i naturali confini con onorevoli patti e con la benedizione del Signore?» Anzi, per mediar la pace non meno col nemico che fra i parteggianti, pensò trasferirsi a Milano; e quanto la sua presenza avrebbe rincorato i nostri! Ma già la diffidenza aveva ossesso gli spiriti; si sospettò che il Piemonte intisichisse in una mena dinastica la gran causa italiana; si sospettò che il Governo romano recuperasse il Polesine e le antiche ragioni sul Parmigiano e il Modenese; si sospettò del prelato che il papa deputava all’imperatore[75]; si sospettò del Ministero romano quando affidava a Carlalberto tutte le forze pontifizie; si sospettò della flotta che re Ferdinando spediva nell’Adriatico a rinforzare la sarda, i Siciliani al passaggio la cannoneggiarono, e nei proclami la insultavano ogni giorno; i capitani sospettavano dell’esercito napoletano, che ostinavasi a gridare «Viva il re»; l’esercito sospettava delle bande siciliane, contro cui avea combattuto nell’isola; Romagnuoli e Marchigiani sospettavano che i Napoletani volessero occupare Ancona, e prendere i loro paesi. E il sospetto mandava a precipizio le cose del Regno meridionale. Vedemmo come la Sicilia rompesse il concetto dell’unione italica col dichiararsi indipendente sotto la presidenza di Ruggero Settimo. Il re, che i tempi rendevano impotente a resistere, consentì (18 genn.) ogni loro domanda; ma i Siciliani non aggradirono come dono quel che già teneano conquistato; data a Napoli la costituzione, essi la ricusarono perchè importava «unico regno la Sicilia e il reame di Napoli, e unica la rappresentanza nazionale»[76]; solo aggiungendo «bramar di unirsi al regno con legami speciali, e formare insieme due anelli della bella federazione italiana». Il re, che i trattati impediscono dal separare i due regni, accorda alla Sicilia Parlamento distinto (10 febbr.), e un luogotenente generale con ministri, oltrechè terrà un ministro siciliano presso di sè: ma i Siciliani vogliono non s’intitoli più re del regno delle Due Sicilie, ma solo delle Due Sicilie; sia bandiera la tricolore, nè truppe napoletane nell’isola: il Comitato generale più domanda quanto più il re concede e via via infervorandosi, rifiuta i servigi de’ migliori perchè ne aveano prestato ai Borboni, e così obbliga a valersi dei ribaldi; in odio della centralità amministrativa scioglie i legami che congiungeano i Comuni collo Stato, onde non resta nè forza nè obbedienza. I trasmodati inviperivano contro i Napoletani, proclamando, — Che hai tu fatto, regno d’infingardi e di perfidi? «Fu la Sicilia che ti spinse; volesti che il nostro brando ti spezzasse le catene che amendue ci serrava, per divenire libero e offenderci. Mentre poltristi nella viltà, osi chiamar sorella la Sicilia, che non tenne la spada nel fodero mentre tu nel meglio ti ritratti, quasi sacrilegio avessi commesso. Il cuore ti trema, nè oseresti tentare ciò che con minori genti abbiam noi in un giorno compito. Non appellarci dunque fratelli, che mai fra noi non è stato nè sarà nulla di comune». Anche il padre Ventura, avvoltolatosi nella politica, commemorava gli storici patimenti della Sicilia, e quanto fosse giusta nelle sue domande, ingiusti i Napoletani nel negarle, e nel volerla unita con loro nei mali della guerra che intraprendevano e nei pericoli d’una libertà che non conserverebbero. Lord Minto, che avea girato l’Italia in condizione anfibia, supposto inviato dall’Inghilterra, e sparpagliatore di consigli di cui restava irresponsale, si offre mediatore; e tanto basta perchè l’isola credasi appoggiata dagl’Inglesi. Il re consente a tutto, fin a nominare suo luogotenente il Settimo; ma la Sicilia esige che il re risieda nell’isola, e le ceda metà dell’esercito e della flotta, protestando non farebbe «niuna essenziale modificazione a tali proposte, ed essere inutile qualunque forma di negoziazione». Il Ministero napoletano pubblica una protesta (22 marzo) contro pretensioni, «che turbano positivamente il risorgimento d’Italia, e compromettono l’indipendenza e il glorioso avvenire della patria comune, specialmente in questo momento supremo, in cui tutti gl’Italiani sentono potentemente il bisogno d’affratellarsi in un solo volere»; e i Siciliani per risposta convocano il Parlamento; aprendo il quale (25 marzo) Settimo dichiara che il Comitato generale operò sempre nella convinzione che la Sicilia non dovesse dipendere da verun altro Stato. Era allora sul crescere la marea de’ popoli; talchè Palmerston, il quale avea sconsigliato il re dal prender parte alla guerra d’Italia come repugnante ai trattati, allora lo esortava a rassegnarsi a qualsifosse condizione, giacchè nè Inghilterra vorrebbe, nè Prussia potrebbe ajutarlo a sottomettere l’isola[77]. E il re esibì perfino di trasmettere la corona di Sicilia a suo figlio minore, coll’unico patto che fosse ricevuto: e la risposta fu dichiarare scaduti i Borboni (13 aprile). Nel tempo che dappertutto parlavasi d’unità italiana, inestimabile danno recò questa scissura, che costrinse il re di Napoli a volgere contro Italiani una parte di sue forze. Le restanti furono avviate alla Lombardia sotto Guglielmo Pepe, caporione in tutte le sommosse dal 1796 in poi. La flotta erasi già spinta ad Ancona sotto l’ammiraglio De Cosa: ma neppure questo potentissimo ajuto doveva arrivare. Il nuovo Ministero, dov’erano entrati i liberali Poerio, Savarese, Carlo Troya, e come presidente il principe di Cariati, diplomatico esercitatissimo, nel suo programma professava che «le due Camere, d’accordo col re, avriano facoltà di sviluppare lo statuto, massimamente in ciò che riguarda la Camera de’ pari». Per attuarlo convocavasi a Napoli il Parlamento, proponendo ai deputati giurassero di «professare e far professare la religione cattolica; fedeltà al re del regno delle Due Sicilie; osservare la costituzione del 10 febbrajo». Nell’adunanza preliminare questa formola incontra gravi contraddizioni; «è da Sant’Uffizio cotesto inceppare le credenze: se riconosciamo il re, veniamo a giustificare la guerra fratricida di Sicilia: la fedeltà alla costituzione data sminuirebbe il diritto promesso alle Camere di modificarla»; si parlotta, si declama, più a baldanza si grida perchè si sa come il Governo è disposto a cedere. In fatto quella formola si tempera, riservando le modificazioni che allo statuto farebbero il re o il Parlamento: ma la concessione pare machiavellica sopraffina, tanto o le menti erano stemperate, o rese diffidenti da storiche perfidie: si ripete dover il Parlamento essere costituente, non costituito; il re esser uno, essi cento; il diverbio dal palazzo civico di Montoliveto echeggia di fuori, e ne nasce tumulto, che gli uni dissero eccitato dai repubblicani per trascendere, gli altri dai reazionarj per toglierne titolo a comprimere, e chi dai Piemontesi per trarre anche questo paese alla loro fusione; ciascuno solendo imputare agli avversarj o le imprudenze o i misfatti di cui soffre le conseguenze. E il re assentì altre domande (11 maggio) e un nuovo Ministero; onde alcuni deputati si diffusero fra la turba raccomandando di disfar le barricate dacchè l’oggetto della dimostrazione era conseguito: ma il movimento è facile ad imprimersi, non a regolarsi. Coloro che altrove si adulano col nome di popolo e quivi si vilipendono col nome di lazzaroni, presero parte pel re contro cotesti disputatori; gittatisi alle furie, incendiarono, uccisero; gli orrori che di quella giornata raccontano i liberali, si direbbero inventati per iscagionare i Croati. I deputati rimaneano raccolti senza prendere alcun partito, finchè da un uffiziale ebbero l’intimazione di ritirarsi; e fatta protesta, se n’andarono tra i fischi della popolaglia. La necessità del reprimere la rivolta restituì al potere gli arbitrj strappatigli dalla ragione; e il re, stretto fra la ribellione della Sicilia e la sommossa della capitale, richiamò l’esercito suo dal Po. Pepe, generale sfortunato della sommossa del 1821, esule d’allora in poi, era conosciuto nelle società segrete ma non da quei soldati, docili piuttosto ai particolari capitani, e devoti al re; sicchè egli rassegnò il comando al generale Statella: ma ecco i volontarj tumultuano contro l’ordine del re traditore; Statella, costretto a ritirarsi, in Toscana è insultato, mentre s’applaude a Pepe, che disobbedendo mena di là dal Po un battaglione di cacciatori e due di volontarj napoletani, uno di lombardi, uno di bolognesi, una batteria di campagna, e va a Venezia dov’è creato comandante supremo delle forze. Il resto dell’esercito diè volta; e quest’altro potentissimo e ben ordinato soccorso rimase sottratto alla causa nazionale, dolendosi il re di «non poter partecipare a sì nobile impresa, e dover soltanto ammirare le gloriose geste dell’esercito sardo, cui augura sollecita e lieta vittoria». Troya rinunzia al Ministero, che è ricomposto con Bozzelli, coi principi di Cariati, d’Ischitella, di Torella, col generale Carascosa e l’avvocato Ruggeri, in voce di liberali. Al 15 giugno si tolse lo stato d’assedio, e si rintegrò la libera stampa, che trascorse subito in eccessi, corretti solo dalla plebaglia o da’ militari, che istigati od offesi andavano a rompere i torchj. Rinnovate le elezioni, ricaddero quasi sulle persone stesse: ma alcune erano profughe, sgomentate altre; e quei che accettarono, davano indietro dalle dottrine testè proclamate, come la cittadinanza rimanea muta avanti al vessillo tricolore, che tornò a sventolare da Sant’Elmo. Il re, aprendo il Parlamento (11 luglio), ripeteva «l’inflessibile risoluzione di assicurare a’ suoi popoli il godimento d’una libertà saggiamente limitata; fidassero nella sua lealtà, nella sua religione, nel suo sacro e spontaneo giuramento». Ma i deputati diffidavano dei ministri e del re, il popolo diffidava dei deputati: e ciancie e reciproche recriminazioni furono l’unico frutto del senno ivi congregato. Si richiese di mandar ancora un esercito alla guerra santa; ma come farlo se nelle provincie ripullulavano sommosse e guerra civile, odj reciproci, reciproche paure di tradimenti? In Calabria Ricciardi, Mileti ed altri vollero considerarsi come una continuazione del Parlamento, sebbene gran parte dei deputati della nazione avesse accettato di sedere nel nuovo. Le truppe, reduci dalla guerra santa, repressero gl’insorti, invano sorretti da Sicilia: i costoro capi poco mancò non dessero lo spettacolo di accapigliarsi fra loro; perchè non riuscirono, ebbero taccia di traditori, e fin Ribotti non potè purgare il proprio nome, benchè sempre fosse comparso alla prima fila, e côlto dai Napoletani fosse sepolto nelle carceri. Francia repubblicana, Inghilterra istigatrice, il papa cattolico (diceasi) protesteranno contro gli abusi della vittoria regia, e vendicheranno i popoli. Ahimè! il papa era avviluppato in domestiche sciagure: Francia, svogliata della libertà, si contentò di domandare compensi pei danni patiti da Francesi in Napoli: Inghilterra e altre Potenze non credettero che Ferdinando avesse torto di usare d’una vittoria datagli da’ suoi avversarj. Perduto coi fatti, resta lo sfogo delle parole: e poichè in quei tempi nè l’odio nè l’ammirazione conoscevano misura, le imprecazioni contro Pio IX traditore, contro il Borbone assassino erano tante, quanti gli applausi a Carlalberto, dappertutto salutandolo re d’Italia; in tal senso faceansi prediche, intrighi, tumulti qua e colà; il principato di Monaco pronunziavasi per lui; il Parlamento siciliano, dopo una tumultuosa discussione, chiedeva re un figlio di esso (10 luglio). Era naturale che Roma, Toscana, Napoli ingelosissero di vedersi condotte a combattere, non più per la causa nazionale, ma per indossare ad un solo i proprj manti, e rinascesse l’inveterato capriccio del volere servire tutti, piuttosto che veder sovrastare uno de’ nostri. Cessato il buon accordo, il nicchiare de’ principi accanniva i popoli; e lo stesso Carlalberto, re che guidava una guerra d’insurrezione, soccombeva alle sconsigliate ammirazioni, e sentiva tentennarsi in mano la spada, che avea promessa redentrice d’Italia. I Tedeschi, a principio diffusi per tutto il regno, dovettero rimaner inferiori, sinchè non si concentrarono nelle loro fortificazioni. Carlalberto non si credette sicuro qualora non possedesse come base d’operazioni il Mincio e l’Adige; e mentre avrebbe dovuto confidare in Venezia, si ostinò davanti a fortezze, inespugnabili da soldati inavvezzi alle stragi del cannone. La cui prodezza non potea contro i terribili munimenti della natura e dell’arte? Nulla scoraggia quanto l’inutilità degli sforzi. I viveri erano mal distribuiti, e lasciavano affamare nel paese dell’abbondanza. Le bande de’ Crociati, inesperti, smaniosi di titoli e di comandare tutti, mostrarono eroismo allo Stelvio, al Tonale, a Curtatone, ma non l’accordo, l’obbedienza, la perseveranza che richiedonsi per vincere; vi si mescolava feccia di viziosi che disonoravano anche i buoni; e colle improvvide correrie nel Tirolo e a Castelfranco cagionarono ruine di paesi e infruttuosi supplizj. Una volta il Governo provvisorio mandò al colonnello Alemandi perchè sistemasse quelle squadriglie, ma ciò le scompose. Rimossi dalle battaglie, traviavano in giuochi e bagordi entro le case testè bombardate dai Tedeschi e testimonj di gloriosissime difese, o intrigavano di politica. Come avviene fra gente inusata alle imprese, prodigavansi lodi a costoro, o se le prodigavano da sè nei giornali; qualunque gran coraggio, qualunque lunga pazienza trovavansi qualità affatto ovvie nei soldati; trovavasi miracolo ogni minimo sforzo in questi subitarj, d’altra parte avuti in sospetto come democratici; laonde i tattici ripeteano: — A chi le fatiche, i patimenti, le morti? A noi; mentre quei che stanno a casa a far feste e banchetti ci lanciano vituperj, ci chiamano vili; ringrandiscono le geste de’ nemici, le nostre deprimono; noi più che gli Austriaci odiano; la nostra disfatta desiderano affinchè la repubblica trionfi. Oh, i nostri nemici non sono a Verona, ma a Milano, a Genova, a Torino; non sui campi e dietro le trincee, ma ne’ giornali e ne’ circoli, ove imbelli parlatori eccitano malevolenze nelle città, sedizioni nel campo, e credono mostrare libertà col disapprovare tutto, col gridare ai tradimenti perchè non vinciamo, non moriamo». Ciò svogliava il re dal valersi delle bande: eppure fu vero torto l’arrestarsi nella strategia precettiva, e repudiare la potente alleanza dell’insurrezione popolare; e per la sublime ambizione d’esser l’eroe dell’italico riscatto, non avere sofferto altre spade, meglio acconce ad una guerra che non era da re. Francia, briaca dei trionfi suoi e intormentita dalle proprie convulsioni, prendeva alla causa italica soltanto un interesse di ciarle; oltrechè se ne elidevano le simpatie col gridare _Italia farà da sè_. Gioberti avea detto di temere meno il dominio austriaco che l’ajuto francese. Mamiani ministro a Roma, proferiva: — Massima sventura della nostra nazione sarebbe la troppo fervorosa e attiva amicizia di alcun grande potentato» (giugno). Quando l’Austria, quasi non cercasse che la decenza dell’abbandono, mediante l’Inghilterra offrì di comporre Modena, Parma e la Lombardia fin all’Adige in un regno indipendente sotto un arciduca, poi persino di cedere questi paesi, non fu tampoco permesso di darvi ascolto; e il re medesimo, almeno in pubblico[78], trovava che alla guerra assunta per l’italianità non poteva convenirsi altro termine che l’intera emancipazione. È sempre degno del più forte il propor la pace; ma i linguacciuti non vi vedeano che un sintomo dello sfasciamento dell’Austria. E per verità le proposizioni erano state dirette dal ministro imperiale Fiquelmont nel momento che l’Austria, arietata dalle rivoluzioni rinascenti dappertutto e nella stessa sua metropoli, pareva sobbissare: ma ben tosto ella potè ripigliare il vantaggio; e dacchè l’impero non fu più che nel campo di Radetzky, l’onor nazionale si trovò impegnato a sostenerlo a ogni costo. Quelle Alpi, che sgomentano l’immaginazione e fanno bel giuoco alla poesia, non furono mai insuperabili ad eserciti forestieri da Ercole fin adesso, quando Nugent menò per le Carniche ventimila uomini a rinforzo di Radetzky. Invece di perder tempo intorno a Palmanova ed Osopo, come faceano i nostri a Peschiera, dissipando qualche resistenza delle città munitesi subitariamente e delle bande, egli passò il Tagliamento e la Livenza, e presa Udine (23 aprile) un mese appena dopo insorta, accampò a Conegliano presso la Piave. Giovanni Durando, generale de’ Pontifizj, dopo molto esitare fra gl’impulsi popolari e le renuenze del pontefice, era comparso; e il dover suo sarebbe stato d’accorrere nella Venezia, e impedire questa calata di rinforzi: e ve lo sollecitavano i Veneziani[79], ma così non la sentivano nè il Ministero romano nè Carlalberto; sol tardi giunse, e non impedì che fossero prese (5 maggio) Feltre, Belluno, Bassano. Oltre la non dissimulata avversione del papa a questa guerra, intrecciavansi i comandi suoi con quelli del generale Ferrari capo di volontari romagnuoli, e del generale Antonini capo di raccogliticci in Francia: gente mal disciplinata, e capitani gelosi perchè pari, gli uni credonsi traditi dagli altri perchè non si sussidiano a vicenda, e tutti pajono intenti più ch’altro a non pericolare i loro seguaci. Ferrari, non soccorso nel fatto di Cornuda da Durando ch’erasi ritirato alla Brenta, recede a Treviso: quivi accorre pure Durando, e il nemico ne profitta per assalire Vicenza: se non che la gagliarda resistenza dei cittadini basta a respingerlo. Nuovi rinforzi al nemico conducea Welden pel Tirolo; e Radetzky con un colpo arrischiato tentò girare alle spalle de’ Piemontesi, i quali senz’averne avviso trovaronsi assaliti a Goito (29 e 30 maggio): i soldati e i volontarj toscani a Curtatone e Montanara aveano sostenuto coraggiosi l’assalto di triplo numero di nemici, comandandoli Laugier; e dopo sei ore dovettero ritirarsi in rotta quei che non rimasero morti come il professore Pilla, o prigionieri come il Montanelli. Quanto fu il lutto della mal agitata Toscana, e quanto lamentarsi di madri e di fratelli, impreparati a tante perdite! Tardi giunse a soccorso Bava coi Piemontesi, o non informati della mossa, o lenti a ripararla: intanto però Carlalberto avrebbe potuto vantaggiare di quel soprattieni, e colla sua copiosa riserva involgere il corpo di Radetzky, e tagliarlo fuori delle sue fortificazioni: ma mentre tutta Italia solennizzava la resa di Peschiera, lasciò che il nemico, rifattosi e fidando nell’inesperienza di lui, abbandonasse le proprie posizioni per correre ad incalzare Vicenza, che difesa dai cittadini, dagli Svizzeri, dai Pontifizj sopraggiunti, pure dovette capitolare (11 giugno). Durando patteggiò di ricondurre di là dal Po i Romagnuoli, nè più combattere nella guerra santa; alquanti ricoverarono a Venezia con Ferrari e Antonini; Treviso, Palmanova, Osopo non tardarono ad essere occupate (13 giugno) dagli Austriaci, ai quali restò aperto il varco verso la Germania per la Ponteba e pel Tirolo, mentre Radetzky, compite le decisive operazioni, rientrava nelle inespugnabili bastite. Cessava la speranza del vincere, eppure le illusioni cresceano, e mostrando i disastri ripeteasi: — Nessun’altra salvezza che nel re e nel suo esercito». Ciò fece sollecitare la fusione della Lombardia: ma qual capitano avrebbe potuto condursi fra le ciarle di quattro Parlamenti, di centinaja di circoli, di migliaja di giornali? e Carlalberto che «era entrato in campo più per cancellare colpe vecchie che per acquistare glorie nuove» (RANALLI), era costretto rispettare quell’inesauribile retorica. Rinforzarsi sull’alture di Sommacampagna, che sono il baluardo della Lombardia, era il partito che unico gli restava, e lo prese: ma stanco dell’inazione, e spronato dalle lodi e dalle accuse, volle prendere l’offensiva col bloccare Mantova, e spinse quarantamila uomini sull’ala destra; col che assottigliò la linea, scoprì la sinistra, e aperse il varco di Rivoli, ch’egli erasi acquistato con tanto vanto. Allora Radetzky, sbucato da Verona, e con ardita mossa sfondando il sottile nemico, si spinse contro il centro (23 aprile), e prese Sommacampagna senza aver vinto una battaglia. Dov’io, sebbene schivi le particolarità de’ combatimenti, avvertirò come il nemico non esitasse ad abbandonare sguarnita persino Verona, tanto sentiva l’importanza di farsi grosso sopra un punto solo; e come la posizione decisiva di quella giornata fosse presa da ottocento volontarj viennesi, giovani nuovi alle armi, di cui soli cencinquanta uscirono illesi. Sono atti proprj della guerra insurrezionale, e li faceva il domatore. Tardi accortosi del fallo, il re diresse tutta la gagliardia a ricuperare la posizione, ma non potè celeremente concentrare truppe così disgiunte, e dalla inattesa celerità del nemico si trovò circuito; e il nome di Custoza (25 luglio), come altri, ricorda valori e sventure. Allora cominciano i disastri. I grossissimi magazzini cadono preda degli Austriaci; gl’invii di nuove provvigioni restano tagliati fuori, e l’esercito per due giorni difetta di cibo e di vino, mentre lo sferza un sole cocentissimo, e lo incalzano senza resta i nemici, ben pasciuti e incorati dalla vittoria. Il re, sconfitto prima d’essersi accorto dell’attacco[80], da Goito manda a cercare un armistizio; e Radetzky lo consente; purchè abbandoni tutte le fortezze, e si ritiri dietro l’Adda. A questi patti esorbitanti il re preferì piegare sopra Cremona per coprire questa città, dove giaceano i feriti. Giuntovi, e accortosi di non vi si poter reggere, ogni buona legge di guerra gli suggeriva di ricoverare per Piacenza ad Alessandria, sua base d’operazione: ma non l’avrebbero tacciato di combattere per sè, anzichè per l’Italia? Difilasi dunque sopra Milano (3 agosto), professandosi risoluto a difenderla, quasi sia possibile per una città sì estesa e sguarnita, e dopo che avea mandato di là dal Po il gran parco d’artiglieria. A Milano il Governo provvisorio, dopo la fusione, avea ceduto il potere ai commissarj regj generale Olivieri, Montezemolo, Strigelli. Giunsero allo stringere del pericolo; onde si pensò invigorire la resistenza mediante un Comitato di pubblica difesa[81], che pubblicò prestito, armamento, silenzio de’ giornali, inquisizione contro gli abbondanzieri, quella sfuriata d’editti che si fanno quando non si può far altro. Realmente nella città aveasi sufficienza di viveri, di polvere, di cartuccie, recente memoria d’eroismo, afflusso di profughi dalle città rioccupate; la guardia nazionale, messa al comando del generale Zucchi, potea valere a difesa, appoggiata dall’esercito che battesse di fianco il nemico: inoltre tutto l’alto paese era libero; le creste dell’alpi Retiche munite di cinquemila volontarj; Griffini con cinquemila altri presidiava Brescia; il temuto Garibaldi accorreva dal Bergamasco nella Brianza, sicchè poteasi minacciar le spalle del nemico con dodicimila volontarj, a dirigere i quali il re avea spedito Giacomo Durando, generale piemontese impratichito in Ispagna alla guerra di squadriglie. Se di ciò incoravansi gli animosi, i più disperavano, e torme lamentevoli e costernate fuggivano dalla città. Noi difendevamo l’Adda da Cassano in su, e i Tedeschi già la passavano (1 agosto) verso le foci sul ponte di Grotta d’Adda, lasciato sprovvisto; a gran pena evitasi nell’esercito il pieno scompiglio; le strade ingombre di carriaggi fanno penosissima la marcia, desolata anche da rovesci di pioggia; e di cinquantamila uomini, che eransi mossi in ritirata da Goito, venticinquemila appena avvicinavansi a Milano. Radetzky, lasciati tremila uomini a Cremona, diecimila avviatine verso Pavia, con trentacinquemila accampò nei prati di San Donato presso Milano, e battendo rincalzava i nostri verso la città. Molti cittadini sortirono a combattere, e il re vedemmo in mezzo a noi aspettare le palle nemiche, siccome chi più non ha nulla a perdere nè a sperare. Conosciuta irreparabile la rotta, ci diemmo di tutta forza a far risorgere le barricate: ahimè! l’entusiasmo era sbollito; e quei che bastarono a cacciare il Tedesco quando concordi, or non valeano a tenerlo fuori perchè disuniti: gli uffiziali ripetevano essere inutili quelle difese popolari quando cannoni s’aveano da spazzar le vie: il popolo supponea volessero difendere una città, sulla quale aveano attirato il nemico, e invece li vide sfilare verso la patria. La disgrazia rende ingiusti, e cessata la speranza della vittoria, parvero cessare le scuse della sconfitta. Si pretese che Carlalberto, vistosi incapace di restaurare la fortuna, patteggiasse con Radetzky d’aver libero il ritorno, consegnandogli una ad una le città cui passerebbe. Sempre il tradimento! ragione infingarda che dispensa dal cercare le vere. Unico suo torto fu l’essersi creduto buono a condurre una guerra, sol perchè la desiderava, e l’aver sino a quell’estremo dissimulata la miserabile condizione del proprio esercito, e con ciò dato lusinga d’una difesa, anche dopo aver capitolato. Avesse scoperto il vero, si fosse immediatamente ricoverato sotto Alessandria, risparmiava tanti patimenti al suo esercito e gli estremi sforzi ai Milanesi, che, delusi nell’aspettazione e non ancora ridotti alla rassegnazione di chi si trova sconfitto, proruppero in improperj; il grido di traditore fu lanciato di nuovo in volto al misero re, che aveva esposto la vita propria e de’ figli; e coloro che l’incensavano inorpellato di diademi, non seppero rispettarlo coronato dell’avversità, nè ricordare che ciò ch’è coraggio davanti alla tirannia, diviene viltà dinanzi alla sventura. La notte (6 agosto) egli usciva celatamente da Milano: il domani rientravano i Tedeschi in una città muta e vuota d’abitanti, che a migliaja rifuggivano in Piemonte o in Isvizzera[82]. L’armistizio (9 agosto) portava, che l’esercito vuoterebbe la Lombardia e le piazze forti di Peschiera, Osopo, Rôcca d’Anfo, gli Stati di Modena, Parma, Piacenza, e inoltre Venezia e la sua terraferma: nessuna parola dei popoli, e neppur delle bande volontarie. Non era firmato dal Ministero, bensì dal generale Salasco, al quale allora i ministri stranieri presero a rinfacciare d’aver con ciò rovinato i buoni accordi ch’essi erano in via d’ottenere, cioè che i due eserciti restassero nella relativa posizione, finchè si negoziasse una pace, fondata sull’indipendenza della Lombardia[83]; allora il Parlamento a imputarlo d’aver trasceso i poteri con un atto che teneva alla politica; allora il vulgo a insultarlo, poichè in ogni disgrazia vuolsi una vittima che cangi in ira la vergogna, e incolpasi chi fece quel che non potea tralasciare. Ma Salasco rispondeva: — Le insurrezioni si fanno dai popoli, le guerre si combattono dai soldati; e questa era guerra: e poichè i primi nè s’erano mossi nè accennavano di muoversi, e gli altri mostravansi e disordinati e ritrosi, unica salute rimaneva una sospensione d’armi». In fatto per allora i Tedeschi fermaronsi al Ticino, lasciando inviolato il Piemonte: i volontarj di Lombardia vi furono dal bravo Giacomo Durando ricondotti traverso a territorio occupato dai nemici, benchè di loro non parlasse la capitolazione, e dai repubblicanti fossero esortati a buttarsi ne’ monti e cominciare la guerra del popolo, il quale non si scosse: le milizie toscane lasciarono Piacenza, macchiandosi coll’assassinare il proprio colonnello Giovanetti. Ma i Tedeschi si stesero nei ducati, pretestando gli accordi, la parentela e le aspettative, e istituendovi Governi militari; passarono anche in Romagna, proclamando recar guerra non a Pio IX, ma ai fazionieri che, malgrado suo, gli avevano osteggiati. Pio protesta contro quel proclama, e non voler separare la sua dalla causa de’ popoli, e intima a Welden che sgombri: ma il sant’uomo avea perduto ogni efficacia, e i suoi ministri barcollavano, discordi e da lui e dalla nazione. Bologna con ammirato coraggio respinse gli aggressori (8 agosto), facendo tra il suono dei cannoni e delle campane a stormo echeggiare per l’ultima volta congiunti i nomi d’_Italia_ e _Pio IX_: l’eroismo soccombette, e se ne prevalsero i ribaldi, che abbrancate le armi, le disonorarono con ferocia di saccheggi e assassinj, continuati più giorni contro chicchefosse, col titolo di spia o di aver servito al Governo papale, o più veramente perchè aveano denari o un nemico; talchè la forza nazionale dovette ritorcersi contro costoro, i quali non tolsero che Bologna fosse ingloriata d’eroismo al par di Milano e Palermo. E un’altra volta l’alta Italia restava a discrezione degli Austriaci, eccetto Venezia. Vedemmo come questa legalmente acquistasse la propria libertà, ma parve dimenticare la necessità di difenderla; ed oltre l’errore che la privò della flotta, rimandò a casa i tremila capitolati italiani, e lasciò prendere a chi volle le munizioni dell’arsenale. Secondo le sue tradizioni, proclamossi repubblica, ottenne l’adesione delle città della terraferma, e fu riconosciuta dal Ministero del Piemonte, che vi mandò il generale Lamarmora affinchè sopravvedesse agli armamenti. Stavano a capo delle cose l’avvocato Manin e il dalmata Tommaseo, elevati perchè vittime, ma nuovi agli affari, e che ben presto discordarono fra sè. Apponeasi a Manin che restringesse le sue idee alle lagune, alle Potenze straniere parlasse di Venezia, non dell’Italia, non della liberazione della terraferma, le cui città presto dimenticarono l’adesione per torcersi a Carlalberto, il quale potea salvarle se avesse diretto parte di sue truppe alle alpi Carniche, o spintovi gli alleati di Romagna[84]. Se nol facea, davasene per ragione l’aver preferito la bandiera repubblicana alla regia; e il Comitato di Padova, ergendosi interprete anche delle altre città, intimò al Governo di Venezia di fondersi col Piemonte, o esse se ne staccherebbero. Decidere della patria per ischiamazzi di plebe o di giornalisti pareva indegno; onde si assegnò un’assemblea di deputati che risolvesse: ma le città neppure questo attesero, e sull’esempio della Lombardia si diedero al re, ne’ giorni appunto che i Tedeschi le rioccupavano. Venezia però era ancor salva, e per la sua posizione poteva difendersi. Sprecata l’occasione d’aver tutta la flotta, teneva due corvette e due brigantini sotto Brua, cui si unirono due fregate a vela e altrettante a vapore napoletane e tre brigantini a vapore, comandati da De Cosa, e quando gli uffiziali di essa vennero a visitare Venezia (22 maggio), fu la festa più splendida che da cinquant’anni si vedesse: il Piemonte avea spedito la sua flottiglia sotto l’ammiraglio Albini che comandava in capo; e così formavano il doppio dell’austriaca. Questa rincacciarono nella rada di Trieste, dove facilmente avrebbero potuto distruggerla, e sollevare quella città e l’Istria; ma per riverenza alle proteste germaniche non osarono; poi ben presto i Napoletani se ne staccarono, come dicemmo, per combattere non Tedeschi ma Italiani. Pepe, ridottosi a Venezia, fu eletto comandante supremo dell’esercito, che consisteva in diciottomila uomini, mal in monture, bene in armi e munizioni, privi d’esercizio, con un’infinità di uffiziali che il grado eransi dato da sè, o s’erano fatto dare dai soldati o dallo schiamazzo. Vero è che poco aveano a fare, poichè, sebbene Welden avesse occupato tutto il littorale, stendeva appena diecimila uomini su lunghissima linea; in fazioni parziali, massime alla Cavanella e a Malghera, esercitarono il valore, nulla decisero. Cessato di sperare da Napoli, non restava che Carlalberto, e a lui gridavansi i _Viva_, i _Mora_ a Manin e Tommaseo, da quei moltissimi che dal continente correano a cercarvi ricovero dalla paura, libertà di piazzate, apparenza d’eroismo. Raccolta l’assemblea (4 luglio), esposero i ministri la condizione delle cose; abbondarvi l’armi, bastevole la marina, ma occorrere due milioni e mezzo di lire al mese, mentre n’entravano appena ducentomila. Messasi allora in dibattimento la fusione, non mancò chi s’opponeva. Venezia, diceano, proclamando la repubblica, non avea che seguìto la sua storia; del resto capì la necessità di non disgiungersi dalla sorella Lombardia, e la imitò, asserendo si terrebbe neutra sulla forma politica fin a guerra finita. Tale neutralità erasi violata da coloro che primi l’aveano annunziata; ed avviatasi la fusione della Lombardia, le città venete blandite dai cortigiani, che usavano arti semiliberali, semipopolari, semimagnanime per farsi esibire il carciofo invece di ciuffarlo risolutamente, aveano rivolto indirizzi, poi deputazioni al re. Ripetono che il paese non è maturo a repubblica, e intanto lo fanno decidere da sè le proprie sorti colla più avanzata forma repubblicana, qual è il voto diretto universale, e senza previa discussione, e sopra gli affari in cui è meno competente, i politici. Che se il pericolo è urgente, forse si svia colla fusione? Se vi erano dissensi, non invelenirono con queste brighe? Perchè supporre al re la grettezza di rovinare la causa nazionale per aspirazioni dinastiche? Se bisognano soccorsi stranieri, ciò renderà men facile l’ottenerli. Discussioni superflue quando l’esito era prestabilito, e l’immediata fusione col Piemonte restò vinta a gran maggiorità. Manin, professando di pensare repubblicano ma di non ostare a quel che la necessità impone, non volle parte nel nuovo Governo, ed ebbe lodi e vituperj. Accettata dal Parlamento piemontese la fusione (7 agosto), vengono commissarj regj il generale Colli e lo storico Cibrario, proclamando che «chiamato dal loro libero voto, il re Carlalberto gli accoglie e li proclama eletta parte della sua grande rigenerata famiglia». Era il domani appunto della resa di Milano; e all’11 giunge l’avviso che Carlalberto nell’armistizio cede anche Venezia. Più non si rattiene la folla dei tanti colà ricoveratisi; e concitati dal lombardo Sirtori e dal toscano Mordini, costringono i commissarj a congedarsi; Manin, rialzato sull’aura popolare, quieta la sommossa, e dice: — Per quarantott’ore governo io: ora sgombrate la piazza, chè bisogna silenzio e calma per provvedere alle necessità della patria»; e il popolo si ritira (13 agosto), ed egli salva gli Albertisti dal furor demagogico: poi radunata l’assemblea, è gridato dittatore, mentre, per togliergli un emulo e un ostacolo, Tommaseo viene spedito a invocare gli ajuti di Francia; si decreta di resistere fin all’estremo; ed esulta la speranza che Venezia basti ancora una volta a ricovrare le reliquie della perduta Italia. Quel diroccamento delle fortune italiche, oltre eccitar dappertutto la riazione contro la violenta unità predicata dagli Albertisti, esacerba gli animi anche in Piemonte, e precipita i consigli. Il re, con un proclama mestamente dignitoso annunzia i disastri dell’esercito in cui stavano tutte le patrie speranze; «torna esso con onore di forte e bellicoso; vogliate accoglierlo con fraterno saluto che ne allevii il dolore: io co’ miei figli sto in mezzo a voi, pronti a nuovi patimenti per la patria». Ma che in quattro mesi l’esercito sì agguerrito non riportasse una vittoria, mentre tante n’avea avute il popolo inesperto a Milano, a Bologna, nel Cadore, dove sin le donne mostraronsi eroine, nel Vicentino; che centomila uomini, senza campale sconfitta nè gravi perdite, in pochi giorni cedessero un vastissimo territorio e tante città, le quali dianzi da se medesime aveano saputo liberarsi, pareva strano fin a quelli che la guerra aveano sempre sconsigliato: or pensate ai diversi! Da Torino vengono deputati a chiedere de’ misteriosi rovesci spiegazione al re, il quale in Alessandria celava quasi obbrobrio quella ch’era sventura; i Lombardi ivi rifuggenti sono accolti con aspreggio, dai retrogradi come incitatori d’una guerra che rovinò il paese, dai caldi come troppo pigri ai soccorsi, dai municipali come avversi al Piemonte; l’ingiuria baldanzeggia, quanto un giorno la fratellanza. Cesare Balbo che, dopo ventisette anni d’aspirazione, erasi trovato ministro, e avea potuto dichiarare guerra all’Austria e far decretare la fusione della Lombardia, ne esultava fin all’ebbrezza; un tratto volle esser anche ministro della guerra, pregò il re di chiamarlo quando s’avesse a combattere una battaglia, e assistette a quella di Pastrengo con cinque figli tutti militari. Ma i vortici della rivoluzione inghiottono le reputazioni più sode; e se il Ministero era parso facile tra gli applausi e i primitivi prosperamenti, divenne scabroso nelle traversie e in faccia alle Camere. Avea dunque dovuto scomporsi per formarne un nuovo con persone de’ varj paesi uniti, Casati e Durini milanesi, il piacentino Gioja, il veneto Paleocapa; oltre Rattazzi, Plezza, Lisio, Collegno, antichi perseguitati. Ma le stizze municipali inviperirono contro di essi, e il gridío non frenavasi se non all’autorevole voce di Gioberti. All’annunzio poi degli inaspettati disastri, il Parlamento decretò la dittatura a Carlalberto, ma non sapea che far declamazioni; e il Ministero si sciolse, protestando contro l’armistizio Salasco come conchiuso da autorità non competente: nell’intervallo restarono l’arbitrio e l’illegalità, finchè si rassegnarono ad assumere il portafoglio Alfieri, Pinelli, Revel, Merlo, Dabormida, Roncompagni, Perrone, Santarosa, sentendone il carico e le difficoltà. Qui una furia d’interpellanze sulle presenti, di recriminazioni sulle passate cose, e un sistematico avversare le proposte del Ministero, o snaturarle con emende; l’improperio peggiore era l’essere detto moderato, e dimostrazioni e minaccie e lettere anonime e fischi e insulti sui giornali e coi fatti lanciava ad essi quella turba di rifuggiti d’ogni paese, che si denotava col nome di Lombardi: al Balbo, costante nei consigli temperati, fu più volte minacciata la vita se tornasse alle Camere, e v’andava col pugnale; e quei che non voleano ingiuriarlo, il compativano come imbecillito dall’età. Fu duopo soddisfare agli schiamazzanti col punire Salasco autore dell’armistizio, Federici e Bricherasio che cedettero Peschiera e Piacenza: a Genova si assalì il generale Trotti, benchè sciorinasse la bandiera crivellata da palle nemiche: giunti poi in quella città il padre Gavazzi e De Boni, cinti da quei che cercavano ventura col predicare libertà sconfinata, procurano far proclamare la repubblica. Insomma il nemico comune, la plebe, dopo invasa la stampa, invadeva anche il Governo; e i guasti ne furono peggiori che quelli dell’Austriaco. Allora tornasi agli esercizj di chi non n’ha di migliori; e a Torino radunasi un Congresso Federativo italiano (10 8bre), preseduto da Gioberti piemontese, Mamiani romagnuolo, Romeo calabrese, cui si aggiungono presidenti di sezione, vicepresidenti, segretarj[85]; assistito dai più fervidi declamatori, e dall’irremissibile Canino, che voleano pensare qualche assetto alle cose italiane con vacuità di retorica e di applausi, come si soleva prima della rivoluzione, e col solito rito di credere e far credere ciò che non è. Ben presto si sfasciò. Il malcontento e il furore si erano sparsi principalmente nello Stato pontifizio e a Roma, che di tutta quella rivoluzione fu il centro vero. Dopo il 30 aprile la turba si separò dal papa, e viepiù da che tornarono i capitolati di Vicenza, i quali, col nome di Reduci, divennero istromenti alle turbolenze, e braccio dove non vi era nessun nemico e moltissimi declamatori. La rotta di Carlalberto riuscì tanto più dolorosa, quanto ch’erasi divulgata una portentosa vittoria: al dissiparsi della qual voce, il vulgo prorompe furioso; una gran dimostrazione notturna a fiaccole (30 luglio) minaccia l’autorità; il Parlamento decreta milioni, e di muovere la guardia nazionale, una legione straniera, un generale italiano, e sottomette al papa un indirizzo tanto più infervorato, quanto che tardo e inutile. Il papa vi risponde vagamente; onde il Ministero Mamiani si dimette, sottraendosi alle difficoltà per rovesciarle sul papa, il quale, abbandonato sopra un pendìo dove l’aveano issato a forza, fu costretto firmare tutti quei decreti, e ricostruire un Ministero sotto la presidenza del conte Fabbri. Le società di sollazzo e di ciancia erano divenute di intrigo e di cospirazione (1847): Ciciruacchio, Faccioti, Grandoni si posero capi di tre conventicole, che discordavano tra loro, e ciascuno spingeva agli eccessi con proposizioni distinte, tanto più violente perchè non toccava agli sbraitanti il metterle ad effetto, concordi solo nel domandare il secolarizzamento. Tra i sommovitori primeggiava Pietro Sterbini, capo del circolo popolare; fuori romoreggiavano giornalisti e piazzajuoli; chi cercasse reprimerli non poteva che essere esecrato, e principalmente Pellegrino Rossi. Questo carrarese (n. 1785), di buon’ora illustratosi a Bologna come avvocato e professore, nel 1815 avea caldeggiato la spedizione di Murat, sperando inoculare idee italiche alla forza materiale: in conseguenza costretto a migrare, non credette che l’esiglio l’obbligasse alle accidiose melanconie e ad aspettare dagli altri l’imbeccata; e postosi a Ginevra, allora ritrovo d’insigni persone, quali la famiglia di Staël, il duca di Broglie, Sismondi, Bonstetten, Bellot, Dumont, Pictet, De Candolle, De la Rive, italianizzò alcune poesie di Byron, mentre s’esercitava nelle scienze positive e nel francese, che adottò pei futuri suoi scritti. Presto ad una cattedra libera di giurisprudenza attirò e studiosi e curiosi in folla, col che si fece via ad un posto nell’Università, benchè cattolico, e dirugginò l’insegnamento della giurisprudenza e della storia romana. Fatto cittadino, intraprese con Sismondi, Bellot, Dumont, Meynier gli _Annali di legislazione e giurisprudenza_. Quando il paese ribollì per la rivoluzione del 1830, fu scelto a compilare una costituzione, conosciuta col nome di _patto Rossi_, che allora rifiutata, rivisse poi nello statuto unitario del 1848: ma egli ripudiava la radicale fusione, conoscendo quanti vantaggi porterebbe l’unione, quante violenze l’unità. Perduta con ciò la mutabile aura popolare, passò in Francia, e vi fu eletto professore di diritto costituzionale, malgrado i fischi scolareschi, e membro dell’Istituto, e cittadino, e presto pari e conte, molto ascoltato dal re, e bersagliato dall’opposizione come straniero e come nella pratica applicazione modificasse o, voleano dire, tradisse le sue dottrine economiche. Di rimpatto i dispensieri della fama lo eressero fra i primi pubblicisti con soverchia condiscendenza; giacchè di facoltà inventiva egli era scarso, quanto abile a giovarsi degli altrui trovati ed abbellirli, e nulla aggiunse alle dottrine, vuoi nella teoria del diritto penale, ove, disertando da Bentham col quale militava da principio, conobbe fondamento delle leggi e della penalità la giustizia assoluta; vuoi nelle economiche, dove ammette verità speculative, che poi la pratica può contraddire; dimostri principj, dei quali insegna diffidare. Erano difetti della scuola eclettica, alla quale s’era aggregato, e che in politica dicevasi dei Dottrinarj, coi quali opinando nella Camera dei pari, sosteneva spesso applicazioni che pareano repugnanti co’ suoi principj, mentre erano questi che lo rendeano capace di servire a qualsifosse partito. Tale esitanza di atti, e il fare burbanzoso e riservato che spesso acquista chi vagheggiò la popolarità e subì invece oltraggi, e che fa dispettare le arti colle quali essa vuol essere comprata, alienavano da lui e gli scolari e i fuorusciti italiani, accusanti questo rivoluzionario divenuto sostegno dei Governi, questo cittadino svizzero convertitosi in campione dei re. Luigi Filippo assai valevasi di esso, e quando la Francia trambustava contro i Gesuiti, lo deputò a Roma per indurre il papa a qualche provvedimento contro di essi. L’invio di un carbonaro, d’un semielvetico, d’uno che avversava la santa Sede come filosofista e come profugo, d’uno che alla vulgare paura de’ Gesuiti sagrificava la libertà dell’insegnamento, somigliò ad un insulto; pure egli seppe cattivarsi anche il ritroso Gregorio XVI, e non isgomentandosi a minaccie e ripulse, menava a fine i suoi intenti. Studiava intanto la situazione del paese e il valore degli uomini; e dopo incoronato Pio IX, procurò che il Ministero francese ne sorreggesse il coraggio, francamente cooperando coll’Inghilterra a rigenerare l’Italia; al che, sebbene vecchio, e persuaso non si potesse condurvisi che passo a passo, sperò che l’entusiasmo de’ popoli arriverebbe. Intanto i giornali lo insultavano come cosmopolito senza color nazionale, discepolo del Guizot che allora cadeva di moda, manutengolo di Luigi Filippo e di Metternich. Al ruinare di questi, il Rossi perdette gli onori e gli impieghi: ma rimase da privato in Roma[86], ove Pio IX ne apprezzò la pratica e le cognizioni amministrative e politiche, quanto più la marea montava, e un dopo l’altro assorbiva gli uomini su cui egli faceva conto; in questi ultimi frangenti poi, vedendosi imposte persone sgradite, chiamò il Rossi nel Ministero (1846 16 9bre), di cui lasciava capo nominale il cardinale Soglia. Accettò il Rossi quel grave incarico, non come un balocco o una onorificenza, ma come un grave dovere; si applicò a restaurare l’erario con imposte effettive, promuovere i lavori pubblici e le strade ferrate e i telegrafi, porre scuole d’economia pubblica e diritto commerciale, avviare una statistica: promesse solite d’ogni nuovo reggitore, ma fatte con più serio aspetto, in quanto egli subito diede sussidj ai volontarj reduci e alle vedove degli uccisi, e riordinò la milizia volendo compagno nel Ministero il modenese Zucchi (t. XIII, p. 396) che dal 1831 sepolto in una fortezza austriaca, n’era stato tolto dalla presente rivoluzione, e che allora fu spedito a quietare Bologna, sovvolta ancora da quei ribaldi e dal padre Gavazzi. Aborrente da un’unità che poteva solo attuarsi colla violenza, il Rossi desiderava un’unione sincera e reale de’ varj Stati, e perciò combinare la lega italiana, «della quale Pio IX era stato spontaneo iniziatore ed era assiduo promotore»; e — Noi abbiamo speranza di vederla fra breve posta ad effetto per l’onore d’Italia, per la tutela de’ suoi diritti e delle sue libertà, per la salvezza delle monarchie rappresentative testè ordinate, e che un sì splendido avvenire promettono agl’Italiani di vita civile e politica»[87]. Per trattare di questa lega, il Gioberti, allora anima del Ministero torinese, aveva spedito il filosofo Antonio Rosmini; opportunissima scelta d’uomo devoto alla santa Sede, venerato dall’Italia, e insieme perseguitato dai Gesuiti e sospetto all’alto clero, nel quale però possedeva ammiratori ed amici. I suoi avversarj già avevano promosso un’indagine intorno alle dottrine filosofiche e teologiche di lui: ora s’inacerbirono per un suo scritto sopra le _Cinque piaghe della Chiesa_, le quali erano, la separazione del popolo dal clero nel pubblico culto, specialmente in grazia della liturgia in latino; la insufficiente istruzione del clero; la disunione dei vescovi; l’essere la nomina di questi abbandonata al potere laicale; la servitù dei beni ecclesiastici, dove, propugnando le ragioni della Chiesa a fronte della podestà laicale, non dissimulava i disordini di quella, e confidava nel riparo «ora che il capo invisibile della Chiesa collocò sulla sedia di san Pietro un pontefice, che pare destinato a rinnovare l’età nostra, e dare alla Chiesa quel novello impulso che spinge per nuove vie ad un corso quanto impreveduto, altrettanto stupendo e glorioso». Il papa, non che condannare il Rosmini, appena ne conobbe quella sapiente dolcezza lo volle consultore alla Sacra Congregazione dell’Indice, e lo preconizzò futuro cardinale: intanto ch’esso filosofo spingeva alla lega che, «per dare unità di forza e di opera all’Italia, doveva essere una confederazione di Stati, con un potere centrale, cui primo officio fosse il denunciare la guerra e la pace, e prescrivere i contingenti de’ singoli Stati, necessarj, siccome all’esterna indipendenza, così alla tranquillità interna»[88]; regolare il sistema doganale e i trattati di commercio; a vicenda si garantirebbero gli Stati. Ma il turbine che allora imperversava, travolse ben presto il Gioberti; e il Ministero succeduto, avverso a tutto ciò che sapesse di piviale, disdisse quelle convenzioni già combinate fra Pareto e monsignor Corboli Bussi. E al punto ove stavano gli eventi, forse è vero che lo scopo reale della divisata lega si era nei principi l’impedire che troppa Italia si unisse sotto Casa di Savoja; mentre il Ministero piemontese, mirando al sommo ampliamento di questa, chiedeva prima di tutto gli si mandassero truppe onde rinnovare la lotta dell’indipendenza. Che tutt’Italia dovesse armarsi per estendere il regno sardo da Chambéry al Panaro, sembrava stravagante al Rossi: conveniva egli pregiudicare così la quistione nazionale? poteasi dimenticare a tal punto il regno di Napoli? il Piemonte stesso, coll’accettare la mediazione delle alte Potenze, non si mostrava propenso alla pace? nol mostrava coll’abbandonare indifesa Venezia? prima di domandare contingente ai collegati, canti chiaro a che cosa aspira, a quali limiti s’arresterà; «ogni Stato spedisca ambasciadori a Roma, e si delibererà de’ comuni interessi, sotto l’ala del pontificato, sola viva grandezza che resti all’Italia, e che le fa riverente ed ossequioso tutto l’orbe cattolico». E nel suo concetto stava che le varie Corti s’accordassero fra loro e con Napoli e coll’Austria per assicurare la libertà interna di ciascuno Stato; insomma impedire i mali irruenti, più che vagheggiare beni irraggiungibili. Fu nei destini di quegli anni che i trionfi e la ragione si attribuissero sempre al caduto: e la sventura aveva ora cresciuto le propensioni pel Piemonte e le smanie degli Albertisti. I quali allora colle mille voci de’ giornali denunziarono il Rossi per ostile all’unità italiana, sprezzante del valore piemontese, insultatore alle disgrazie nazionali, avverso all’ingrandimento della Casa di Savoja, il che allora e poi equivaleva a satellite dell’Austria. Il Rossi udiva, soffriva come avvezzo, e intanto navigando contr’acqua, imbrigliava gli stemperati de’ circoli e di piazza, non meno che la subdola riazione ne’ palazzi; e perchè avea spia di tutto, e nel reprimere parziali sommosse e nel cacciare perturbatori forestieri e le bande del Garibaldi avea spiegato forza, era esecrato dagli esuberanti: i preti, da lui colpiti di tasse al pari degli altri cittadini, lo denunziavano sacrilego; austriacante, quei che subodoravano ch’egli patteggerebbe anche coll’Austria vincitrice, dacchè non erasi saputo vincerla: il Congresso Federativo di Torino dichiarava la caduta di lui essere necessaria nell’attuamento delle speranze italiche: i declamatori, che in tutte quelle faccende ebbero un’importanza, di cui l’Italia dovrebbe eternamente ricordarsi per sua lezione, lo designavano al furore del vulgo, bisognoso d’esecrare spettacolosamente dopochè avea cessato di spettacolosamente amare Pio IX: Ciciruacchio sbraitava, — Per c..., lasciate fare a noi altri, e domani sarà finito tutto, e comanderemo noi»: sulle piazze e sui caffè gridavasi che non si rifà il mondo colle dimostrazioni e con applausi al papa; croci e incensieri valere al più in chiesa; una rivoluzione volersi, cioè riscattarsi dalla turpe servitù de’ preti e dell’aristocrazia, ricuperare i pieni diritti dell’uomo, nè ciò potersi che con colpi e sangue; volgansi pugnali e archibugi contro preti e frati, e se vengano col crocifisso o coll’ostensorio, il primo colpo a questo, il secondo a chi lo porta. Quando si trovano a fronte due partiti, entrambi scompaginatori, chi attiensi al mezzo legale è trascinato da due lati a rovina. Venne il tempo di aprire il Parlamento; e il Rossi, benchè avvertito che attentavasi ai suoi giorni, non vi badò, per quell’orgoglio con cui era avvezzo a sbraveggiare l’opinione, e perchè d’altra parte il suo dovere gl’imponeva d’andare all’adunanza, raccolta colta nel palazzo bramantesco della Cancelleria (16 9bre). Tutta la strada è accompagnato da’ fischi della plebe e della guardia nazionale; fiele mesciutogli prima della croce: come arriva, prorompono urli, ringhi, grida d’ammazza, fra cui alcuno s’accosta e lo trafigge. Un silenzio universale succede; la guardia nazionale assiste inerte al fatto; nessuno lo compassiona o soccorre, e un suo staffiere a fatica lo trascina in una camera ove spira. In quei tempi furono uccisi in simil modo a Vienna il ministro Latour, in Ungheria il Lamberg, a Francoforte il Lichnowsky: eppure quest’assassinio parve destare più orrore pel modo. Quando nel Parlamento fu annunziato l’occorso, la voce che incessantemente vi prevaleva, grida: — Cheti là, cosa c’importa. Forse è morto il re di Roma?» e non un atto di protesta nè di compassione si ardisce, soffogata l’indignazione dalla paura della plebaglia. Alla sera Ciciruacchio combina un’ovazione, urlando abominio quegli stessi che da due anni urlavano osanna; e cantano al Bruto terzo, e fino sotto le finestre della vedova benedicono quella mano che il trafisse, e col «Morte ai preti» alternasi «Viva la Costituente». Altra ciurma, la giornalistica, parte affettò silenzio o semplice enunciazione del fatto, parte applause all’assassinio «dell’aborrito avventuriero, causa di tanti mali ed anelante a spargere il sangue de’ cittadini dopo averne spenta la libertà: egli trovò la morte fra i primi cittadini che incontrò salendo la scala dei deputati e cadde spettacolo di sangue ai Governi d’Italia... Ci fa ribrezzo la necessità nel sangue; ma voi, uomini del potere, specchiatevi nella morte del ministro Rossi»[89]. Così i trionfi del mite pontefice rigeneratore finivano col trionfo per un assassinio, del quale si accettava la correità col festeggiarlo anche in altre parti d’Italia; a Livorno occasionò un’orgia, presente il governatore; altrove si pubblicarono pasquinate e canzoni, e da quel sangue riprometteasi politica nuova e il termine della servitù. Al domani il popolo si dirige al Quirinale chiedendo un ministero democratico: e il papa, non senza aver protestato, lo consente, preponendovi monsignor Muzzarelli con Sterbini, Campello, Mamiani, Lunati, Sereni, Galletti. Deplorabile spediente, ove conservavasi il principe, eppure si obbligava ad atti da cui aborriva; faceasi richiamo alla costituzione mentre la si violava coll’imporre al principe ministri ch’e’ non gradiva. Comandatogli d’intimare la guerra nazionale e l’assemblea costituente, il papa protesta non poter risolvere sotto la violenza: ma la folla abbranca le armi; gli Svizzeri non osano far fuoco, eppure si divulga che versano torrenti di sangue; si spara contro il palazzo del papa, il cui segretario rimane ucciso; tutte le vie verso Monte Cavallo sono serragliate; si prepara ogni occorrente per un assalto. Il mite papa, che s’era di cuore abbandonato alle manifestazioni plaudenti, dovette allora subire fino l’attacco personale dell’armi e delle bestemmie; e dall’ebrezza de’ battimani riscosso al tuono delle fucilate, trovandosi deserto dal vulgo ch’egli avea creduto popolo, si getta in braccio ai principi; e favorito da tutti gli ambasciatori forestieri e dalla figlia del comico Giraud, vedova di Dodwell e moglie di Spaur ministro di Baviera, fugge nel Napoletano (21 9bre), lasciando una lettera ove attestava che nessuno era complice della sua fuga; ai ministri raccomandava l’ordine, e di rispettare le persone e le robe. Da Gaeta poi, ove il re di Napoli lo ospitò coi sommi onori, destinò una commissione che reggesse in suo nome: ma il Parlamento, concitato principalmente dal Canino che senza posa ripetea la costituente italiana, dichiarò (11 xbre) o falso o surrettizio quel breve, e nominò un triumvirato col potere esecutivo, composto del principe Corsini senatore di Roma, Camerata gonfaloniere d’Ancona, e Galletti. Il rifuso Ministero dava buoni ordini, ne dava di cattivi; ma in ogni parte i magistrati laici o ecclesiastici abbandonavano il posto, lasciandovi lo scompiglio e lo smarrimento; i costituzionali cercavano che la Corte li sorreggesse, e restaurerebbero il principato, purchè garantisse le date franchigie; i diplomatici seguirono il papa a Gaeta; il popolo chiarivasi a favore di esso, e bisognava sottometterlo o punire, mentre vedeansi miracoli di crocifissi che grondavano sangue, di madonne piangenti. Bologna, dove Zucchi colla forza dava sopravvento ai costituzionali, volea staccarsi dalla tempestosa Roma che scarcerava i galeotti: i violenti speravano giunto il regno del saccheggio e del sangue: universale era lo scombussolamento, e i governanti doveano adulare la plebe colle condiscendenze che avevano disonorato la repubblica di Francia, e sollecitare qualche riordinamento contro la feccia che saliva a galla. A Roma affluiva quanto di più fermentoso v’avea nello Stato e per l’Italia, e mal poteanli frenare le parole di Mamiani e la guardia nazionale; i ricchi e i quieti fuggivano, e per giustificarsi esageravano le scapestratezze del popolo, che per verità su quelle prime fu a lodare per quello che non commise, anzichè a vituperare di quello che commise dopo rotto ogni freno; ma i pericoli prendeano gravezza e corpo dalle concitate fantasie. Nulla badando a proteste del papa, si convoca una Costituente per lo Stato romano (20 xbre), ma la legge elettorale «non che venisse dai Consigli accolta e decretata, non si potè pur discuterla per mancanza di numero legale»[90]. Anatemizzata dal papa, non poteanvi prender parte quelli che ancora serbavangli fede, e che sarebbero valsi a moderarla; mentre i circoli, governati dai veneti De Boni e Dall’Ongaro, faceanvi destinare i più impetuosi e intriganti, minacciando del coltello chi esitasse. La Costituente, adunatasi (1849 5 febb.) «per purificare la patria dall’antica tirannide e dalle recenti menzogne costituzionali», apre i suoi lavori sul Campidoglio «sotto gli auspicj di queste due santissime parole _Italia_ e _Popolo_»[91]; Armellini informa di quanto operò la commissione provvisoria, e come, dopo che era passata ai Cesari, poi ai papi, fosse tempo di ricostruire la Roma del popolo. Ben Mamiani avvertiva questo vizio d’Italia, di mettersi indosso gli abiti che altrove sono stati dismessi, e rialzare le insegne altrove cadute, invece di cogliere il tempo e l’occasione; che cosa sperare adesso che mancavano eserciti e ardore di plebi a sostenere la repubblica? Piemonte, Toscana, Napoli non le darebbero ajuto nè imitazione; Francia le si pronunzierebbe avversa, e prevalendo già dappertutto un genio di conservazione e di rassettamento, non sarebbe tampoco favorita dall’aura democratica; si rimettesse dunque la decisione alla Costituente italiana. Ma più sfringuellavano quelli destinati a tutto impacciare, e — Che importa l’appoggio altrui? faremo da noi. Francia repubblica sosterrà certo una repubblica; Napoli è troppo occupata in Sicilia; se Torino ricusa, ben si moverà Genova; è assurdo l’attendere dalla Costituente quello che possiamo darci da noi». Ed erano que’ dessi che predicavano l’unione italiana; che della Costituente faceano la panacea d’ogni piaga, il cardine della liberazione universale. Garibaldi propone di immediatamente proclamare la repubblica, senza pur la formalità di verificare i deputati; Canino esclama: — Sento fremere la terra sotto a’ miei piedi; sono l’ombre de’ grandi trapassati che gridano _Viva la repubblica romana_». In fatto si pronunzia scaduto il pontefice (10 febb.), nazionali i beni ecclesiastici, governo la democrazia pura col titolo di Repubblica romana; badando all’intrinseca eccellenza della cosa, più che all’opportunità. Mamiani che, partito il pontefice, avea consentito di ripigliar parte nel Ministero[92], vi rinunzia dacchè vede impossibile la riconciliazione: e fu giudicata debolezza d’uomo, che spinge fino agli estremi, poi si ritira; onde lo gridarono liberale rinnegato, speculativo ambizioso e infetto d’aristocrazia. Nel Ministero romano furono posti il vecchio Armellini, il sapiente Saliceti, il dovizioso Guíccioli, persone rispettate in generale, e lo Sterbini, ambizioso faccendiero che invidiava tutti, e tutti contrariava senza discernere mezzi e vie. Si levarono campane che il popolo avea in devozione; si molestava chi comparisse vestito da prete o frate; sciolto il Sant’Uffizio, de’ misteri di quello si fecero scene e spettacoli, e si fu ad un punto di mettere fuoco alla chiesa e al convento della Minerva. Smaniavasi di leggi contro i migrati, di confische, di penali feroci; provvedeasi al denaro coi decreti, alla politica colle millanterie rivoluzionarie, e beato chi di più severe ne portasse; chi vi contrariasse sottoponendo alle giunte arbitrarie ed eccezionali, di cui faceasi tanta colpa a Gregorio XVI, come concedeansi più grazie che mai non avessero fatto i preti: e intanto dappertutto gli assassinj politici «turbavano quel maraviglioso concorso d’un intero popolo nell’opera della sua redenzione, gittavano nel fango l’idea vergine e maestosa che si eleva sul Campidoglio, profanavano il nuovo patto d’amore e di perdono, giurato in Roma dai veri credenti nell’avvenire dell’umanità»[93]. Ma appena messo in istallo il Ministero, Haynau varcava il Po (2 febb.), occupava Ferrara e per punirla d’insulti recati, la tassava di dugentomila scudi, a favore però del papa. Il triumvirato, fatto inutile appello «a tutti i popoli della penisola» che non poteano badarvi, «a tutto il corpo diplomatico» da cui la repubblica non era riconosciuta, si avaccia a formar legioni: ma gli Svizzeri chiesero congedo; pochi e disvolenti erano gli altri soldati, numerosissimi e inesperti gli uffiziali, salvo nella legione che diceasi di Garibaldi, mescolanza d’ogni gente, risoluta a ogni estremo, sotto di un capo inesorabile e arrischiatissimo. Intanto il debito esorbitava; i tre milioni che giravano in carta moneta, bisognò accrescere di molto; faceasi ressa di adunare la Costituente italiana a commissione illimitata; ma nè Lombardia nè Napoli poteano concorrervi; Sicilia, gelosa dell’autonomia, non assentiva che ad una federazione; Venezia assediata disapprovava quel concetto; Toscana aborriva dalla fusione. Quando poi vi giunse Mazzini ad opera compita, esaltò con la colorata parola la Roma del popolo; e proclamato cittadino, poi triumviro, diceva: — Forse avremo a combattere una santa battaglia contro l’unico nemico che ci minacci, l’Austria; e la vinceremo. Gli stranieri non potranno più dire come oggi, che questa Roma è un fuoco fatuo fra i cimiteri: il mondo vedrà ch’è luce di stella eterna e pura». Ancora metafore e memorie e scene, sostituite alle metafore, alle memorie, alle scene che si erano abbattute; com’era eguale la servilità ai governanti, il petizionare, il trarre a privata fruizione la pubblica fortuna; anzi si vollero baccanali santi; e per la settimana santa e per pasqua si raddoppiarono le solennità, condite dalla prurigine della scomunica; e sulla loggia da cui il papa benediceva alla città e al mondo, Mazzini circondato da degni accoliti, fa benedire alla repubblica, e «se mancava il vicario di Cristo, rimanevano il popolo e Dio[94]. Il granduca, appena si sovvolsero gli Stati modenesi (1848), avea occupato quelli che confinano col Lucchese e il Pontremoli; accettò la chiesta unione della Lunigiana e Garfagnana, e di Massa e Carrara; mandò truppe alla guerra santa, ma non volea ricorrere ai robusti spedienti di fare denaro e soldati; il qual riguardo alle fortune e al sangue allora parea crimine di lesa nazione. I Toscani, che avrebbero voluta la libertà ma senza disagi, sfogavansi più volentieri in feste, in benedizioni di bandiere, in conviti ai crociati che passavano in _Tedeum_ a vittorie supposte; dichiaravano cittadini Gioberti e i membri del Governo provvisorio di Milano, e lo stemma di questa città si collocasse sotto la loggia dell’Orgagna: il principe trottolava (26 giugno) a queste benedizioni di bandiere, e a gridare viva all’Italia indipendente e confederata; ma raccoltosi anche qui il Parlamento, quasi tali passatempi fossero opportuni nelle gravi urgenze d’allora, cominciossi a trovare che il Ridolfi e gli altri ministri non rispondevano all’aspettazione concepita da quelli che gli aveano giudicati dai discorsi alle accademie o in piazza. Gravossi d’un terzo la tassa prediale, s’impose una straordinaria alla mercatura, si aperse un prestito di quattro milioni ducentomila lire, si tassarono le pensioni di tutti gli uffiziali civili, si ordinò l’affrancamento dei livelli dello Stato: ma di sei milioni presupposti, neppure si raccolse la metà. I deputati, lieti d’averne finalmente l’occasione, sfoggiavano quella dicacità ch’è sì comune e sì cara in bocca toscana. 1 borghesi sfoggiavano d’un’altra loro abilità, le arguzie e i motti, che risolveano in riso i provvedimenti e le controversie. Voleasi guerra; ma appena costasse sangue e denaro, prorompevano lamenti, richiami, piagnistei, e più veneravasi Carlalberto perchè combattendo dispensava essi dal combattere: i giornali[95] coll’esorbitante lodarlo metteano ombra al Governo, inasprivano i dissenzienti, producano subbugli e cozzi. Alcuni Fiorentini, massime il Salvagnoli, vennero predicatori d’albertismo a Milano, andò colà a predicarlo Gioberti, intanto che in senso diverso lo spettacoloso padre Gavazzi, dopo aver sovvertite le città romane e le lombarde, passeggiava il giorno fastosamente in cocchio, poi sulla bruna davanti a un popolo immenso, che piacevasi a quella voce tonante e a quei sensi energumeni, inveiva contro dei ricchi che non davano i loro cocchi per tirare i cannoni, de’ sacerdoti che non isventolavano la bandiera tricolore, di chiunque avea denaro perchè nol portasse nella cassa di guerra: così invelenendo gl’istinti dei poveri, avrebbeli spinti al saccheggio se il popolo non avesse inteso le cose differentemente dai cittadini, e sfogato con fischi o con arguzie una scontentezza, che qualificavasi di briga pretina e gesuitica. All’annunzio dei disastri del campo (30 luglio), gli strilloni levano rumore contro l’inerzia del Governo, sciorinano bandierone iscritte _Giù il Ministero_; fin si tenta in piazza far decretare esautorato il granduca, essendo capo del movimento il piemontese Trucchi. Nel dissenso dei moderati essendo cresciuti i demagoghi, e Guerrazzi rinfacciando le sconfitte di Custoza al Ministero, quasi a bell’arte fosse lento ai soccorsi, Ridolfi si dimise, dolendosi che, dopo essersi sempre mostrato italiano, dovesse ritirarsi fra’ sibili della disapprovazione; che la stampa, alla cui libertà tanto avea contribuito, non fosse mai venuta a sussidiarne il Governo, anzi il contrario. Scomposto il Ministero, crebbe il disordine interno; e intanto vedendo l’Italia invasa dagli Austriaci sin al confine, si dovè patteggiare con Welden che stava nel Bolognese, con Lichtenstein che stava nel Modenese, affinchè non invadessero la Toscana. Dopo molta fatica e il ricusare anche di persone null’altro che ambiziose, fu ricomposto un Ministero di Giorgini, Samminiatelli, Mazzei, Landucci, Marzucchi, Belluomini, preseduto da Gino Capponi (1848 16 agosto), che venerato dai temperanti non meno che dai democratici, affidò gli animi promettendo l’unione federale e nuova guerra, se buona pace non si potesse. Ma il tempo dei moderati era tramontato; la demagogia cresceva; i giornali disimparavano l’urbanità toscana; affluivano i profughi lombardi; Livorno addoppiava tumulti. Il padre Gavazzi, ch’era stato espulso, tornava di que’ giorni nella rada di Livorno; e sebbene fosse ordine di non lasciarlo sbarcare, una deputazione va a prenderlo, e fa accogliere ad applausi i discorsi suoi, dove accusa di traditori i principi, i ministri, i generali, e grida la guerra del popolo; e poichè il seppero messo ai confini, si prorompe a sollevazione. S’avea bel gridare che l’avversario comune era il Tedesco, e questo era a domare; non già i deboli soldati del granduca, e che tutti gl’Italiani sono fratelli: si prende la cittadella, s’imprigiona il governatore, si moltiplicano insulti e sangue, e s’istituisce un Comitato di salute pubblica. Guerrazzi aveva affascinato con que’ romanzi ebri di libertà e d’ira; e Livorno, che, tutta ai commerci e poco agli studj, s’inorgogliva di questo nome italiano, lo riguardò come si suole i grandi, con amore ed odio al paro stemperati; non vi fu calunnia di cui non si bruttasse il suo nome, nè speranza che in quello non si ponesse. Qual meraviglia s’egli ne contrasse ambizione? e cercò tutte le occasioni di mettersi oppositore al Governo, non foss’altro nelle cause che patrocinava. Uomo passionato ancor più contro o in pro delle cose che degli uomini, dispettoso di vedersi non adoperato, eppure affettando di non chiedere anzi di rifiutare; ingrandito dalla persecuzione di un Governo sì poco persecutore, poi via via erettosi col galleggiare sopra marosi che avea sollevati egli stesso, e che doveano poi rotolarsegli sul capo, privo di fede in qualsiasi cosa, professava «odio alle vecchie istituzioni, onta e martirio della specie umana», sicchè volgeva alle riforme radicali e alla repubblica; e con La Cecilia di Napoli, antesignano di tutti gli agitamenti, e con un Petracchi robusto braccio, e con altri ingloriati dall’avere combattuto in Lombardia, incitava a chiedere operosità nella guerra, armamento marittimo, sale a buon mercato. Tutto invelenivano i giornali, i circoli, l’abjetta condiscendenza al vulgo, che fu il peggiore nemico di quell’anno. Raccheti un tratto, i Livornesi si risollevano gridando al tradimento e a meditati macelli: le bajonette e le artiglierie non bastano contro il popolo, che costringe la fortezza a capitolare. Il granduca repugnava dalla guerra civile, eppure doveva allestirla: ma se disponesse le guardie nazionali, dicevasi che armava fratelli contro fratelli, e si scioglieano, come volonterose di pompeggiare non di fare davvero; i soldati non sapevano combattere; il Ministero, ingelosito del Piemonte, ricusò i soccorsi che questo offeriva. Giuseppe Montanelli, poeta elegiaco, era uno de’ molti che dalla religione aveano dedotto sensi e speranze repubblicane, ma colla placidezza toscana e sua propria; moderatore più che eccitatore, facendosi amare colle melate parole e coll’indistinta condiscendenza; venuta l’ora del fare, non istette a dire; combattè a Curtatone e fu pianto per morto, finchè si seppe prigioniero; e rilasciato dagli Austriaci, tornava circondato dall’aureola del coraggio e della sventura, pallido e con fasciate le ferite, accolto con applauso dappertutto, preteso da ciascun partito come gloria propria; sicchè il Ministero credette provvedere alla quiete mandandolo governatore a Livorno. Ivi trova la stampa scapestrata, la demagogia baccante; e quel desso che non avea temuto le palle austriache, allibì davanti alla paura di perdere la popolarità col lasciarsi sorpassare; e nella sua professione di _fede democratica, nazionale, cristiana,_ dichiara (12 8bre) che non s’ha a proclamare la repubblica _immediatamente_, però non basta la federazione, proposta dal Ministero d’accordo con quelli d’altri paesi, ma doversi recidere ogni trattativa, e divenire esempio agli altri col proclamare una Costituente di rappresentanti di tutta Italia, da convocarsi in Toscana. Da questa nuova parola resta eliso il Congresso di Torino; e in Toscana si eleva un’altra opinione a fronte al Ministero, il quale sotto le grida e i cartelli è forza che rovesci. A tanto riusciva in cinque soli giorni di governo il Montanelli, che sottentra ministro con Guerrazzi, col napoletano Ayala, e con Mazzoni, Adami, Franchini, gente che poneva da banda le antiche nimicizie; e senza slealtà proponeasi di frenare i trascendenti, i quali, avendoli elevati, erano altrettanto risoluti a dominare soli, e non correggere ma sovvertire. Avrebbero essi coraggio d’affrontare l’impopolarità, e fra gli scogli d’un Governo rivoluzionario, senza la fiducia del principe nè l’appoggio della nazione, salvare almeno l’onore della democrazia? Prima soddisfazione ai loro creatori fu l’amnistia ai Livornesi, e il mandare a governare l’aretino Pigli, persona estrema e balzana, inesauribile parlatore nei circoli o nella Camera: altri demagoghi furono posti in impieghi, e sciolte le Camere, benchè si prevedessero in egual senso le nuove elezioni. A chi portasse querela o domanda, diceasi o faceasi capire che «fin quando Leopoldo non se n’andasse, le cose non procederebbero in bene». Ma gli ambasciadori si volgeano alla Corte, non ad essi, de’ quali non capivano il fraseggiare nubiloso: denaro non s’avea; le perturbazioni cresceano, i ministri stessi, dopo sommosso il popolo per salire, ora lo sommoveano per conservarsi; ne’ circoli ogni partito si disonorava con laidi diverbj e impertinenti recriminazioni; quando s’accolgono i comizj per le nuove elezioni, le urne sono rovesciate, imposto il voto ai suffraganti, assalite le case di chi era infamato col titolo di moderato. Montanelli, desideroso di ordini larghissimi, pure la causa sua amava onestamente; sebbene fosse accontato col Canino nel predicare la Costituente, avea scritto al La Cecilia, «Da una repubblica romana Iddio ci guardi»[96]; e mal accordavasi col violento Guerrazzi, che odiando gli oppressori, disprezzava gli oppressi, e vissuto fin allora sol di rivolta, ora sapeva anche resistere, e a fini profondamente dissimulati voleva pervenire con qualunque fosse modo, anche colla forza. «Le cose del mondo (diceva in quel suo fare ghiribizzoso e pittoresco) quando non si possono fare come si vorrebbe, hanno a farsi come le si possono. Uniamoci tutti per creare un Governo, un qualcosa che difenda e assicuri; ottenuto questo, ci mandino al diavolo. Io, se non crepo, reggerò ogni cosa. Retrogradi e rossi subbugliano il paese; bisogna dare una zampata ad ambidue. Non più condiscendenze: chi rompe paghi. Che serve cotesto andare e venire de’ volontarj alla frontiera senza volere arrolarsi? Non è il moto della spola del tessitore che ogni volta aggiunge un filo; qui invece non si fa che logorare la trama dello Stato. Male il gridare vitupero ai nemici ne’ circoli; vincere si vogliono, non oltraggiare; chè l’insulto prima della vittoria è jattanza, dopo è codardia». Così fatto, egli non ispirava affezione ma paura: eppure più tardi confessò che tremava davanti ai tirannelli dell’opinione, a un Montazio, a un Niccolini, a simil pulla, portata dal vento negli occhi. Un circolo, formato principalmente di Lombardi (tal nome dinotava i vinti della guerra, di qualunque paese fossero) guidava sino ventimila cittadini a gridare la Costituente (1849). Guerrazzi non potea rassegnarsi a questo scolo d’Italia, e voleali sistemati in legione per combattere. E perchè il Ministero piemontese molestava il toscano per volere Livenza e altri cantoni, Guerrazzi facea temere che, quello Stato cresciuto, terrebbe vassalla la Toscana. Modificando il concetto di Montanelli, proclamava la Costituente italiana. Appoggiato all’esempio del re di Sardegna, il Ministero toscano propose che il voto universale valesse per la Costituente. Consentì il granduca si trattasse dell’eleggere rappresentanti toscani per quella: ma udendo il papa colpire di scomunica chi vi prendesse parte, ritira l’assenso, e non avendo forze da resistere, nè volendo offrire motivo a riazioni, ricovera a Siena (6 febb.), ricevuto fra le grida di «Viva il duca, morte alla Costituente». Era popolo anche questo? Ma vedendo crescere il bollimento, e che un corpo movea da Firenze per prenderlo, Leopoldo fugge a Gaeta. Il baccano di piazza decreta scaduto il granduca (20 febb.), e si demandano pieni poteri a Guerrazzi, Montanelli, Mazzoni, che svincolano dal giuramento, e lanciano violento proclama contro la menzogna e le scelleraggini di Leopoldo austriaco, dolendosi di avere creduto che principe e libertà di popolo potessero stare insieme; esecrano con formole poetiche il Laugier, che l’esercito conservava fedele al granduca; smentiscono che il Piemonte volesse «con fiumi di sangue italiano ristorare il trono di Leopoldo austriaco»; e annunziano che «la repubblica, dopo trecendiciott’anni, ritornerà a casa sua». Acclamato il Governo provvisorio a Firenze, tutti i rappresentanti stranieri dichiarano cessate le loro missioni, che concernevano solo il granduca. Quel giorno stesso, contadini corsero addosso a Firenze; dappoi a Empoli e altrove si tumultuava: i soldati del dato giuramento faceansi pretesto per lasciare le bandiere; rinascenti tentativi di controrivoluzione faceano empire le carceri, e istituire un tribunal militare. Da che parte stava il popolo? Non certo in que’ giornalisti e declamatori, che ingordi di posti e di missioni, insultavano ai più onorati cittadini perchè moderati, che toglievano di cattedra il Giorgini, mandavano via l’Azeglio ferito, celiavano sulla cecità del Capponi, calunniavano a tutti, e bruciavano le effigie e le scritture de’ dissenzienti; la Toscana sbigottivasi all’udir ragionare della necessità del sangue e di puntare i cannoni: il governatore Pigli a Livorno proclamava la repubblica, e — Popolo, compi i gloriosi tuoi destini; pensa che tua capitale è Roma, tua patria Italia; chi ti conferisce l’imperio è il tuo diritto, chi ti consacra è Dio»; e il grido di _Viva la repubblica_ fu ripetuto in molte città. Ma Guerrazzi diceva: — Da che volete repubblica, repubblica sia; patto che domani mi conduciate duemila giovani, disposti a combattere per quella. — Trentamila», risposero: ma neppure i duemila apparvero. Egli resisteva imperterrito a quella marea crescente, rinfrancato dagli ambasciadori di Francia e d’Inghilterra; imponeva silenzio agli strepitanti delle tribune, fin a chiamarli «scellerati e iniqui perturbatori»; non annuì al Mazzini, il quale, nel recarsi a trionfare in Campidoglio, donde diceva non essere uscite fin allora che «melensaggini arcadiche e suoni d’agonia di monarchie costituzionali», incaloriva a gridare la repubblica e unirsi alla romana. Giuseppe Giusti che con un riso adiraticcio aveva scassinato il vecchio Governo, visto il movimento del 1847, applause al duca che dava le riforme, e tanto bastò perchè fosse detto rinnegato: poi trovatosi sotto ai piedi, volse la stizza contro Guerrazzi; e quando poi vide i rivoluzionarj di tutt’Italia rifluire sopra la patria sua, diceva: «Le figure che passeggiano queste lastre, mettono ribrezzo e terrore. Figúrati ragazzi con pistole e stiletti alla cintola, vestiti a mille colori, parlanti un linguaggio turpe, provocante, rifiutandosi di pagare osti e vetturini, violando il domicilio del popolo minuto per commettere stupri e rapine; in somma un principio di casa del diavolo... Mentre i campi lombardi sono insanguinati, con che cuore si può vedere qui una gioventù numerosa di quel paese a vagabondare?... Son qua da cinque mesi a gridar guerra, e imperversare, e volgere il paese sottosopra; viene la guerra, e non si movono come se non toccasse a loro...». Il cadere del pontefice non può essere un fatto isolato nella cristianità; ed oltre la riverenza dei fedeli e le simpatie del mondo intero per Pio IX, nella rivoluzione romana, inaugurata da un assassinio e poi affidata all’incorreggibile cospiratore, vedeasi un atto della gran congiura europea contro ogni ordine, ogni subordinazione[97]. Già all’udire in pericolo il papa, il generale Cavaignac, il quale, represse le terribili sollevazioni della popolaglia ladra e assassina, che in una giornata erano costate la vita di quattordicimila persone e nove generali, era stato messo a capo della repubblica francese, ma ora sentiva la sua popolarità soccombere alla nuova di Luigi Buonaparte, cercò rincalorirla col favorir le idee d’ordine e di cattolicismo, rinascenti per ricolpo contro la sfrenatezza, e così inaspettatamente trionfanti per mezzo del voto universale; e decretò che tremila cinquecento uomini sbarcassero a Civitavecchia per proteggere il santo padre. Il Piemonte manda offrirgli tutte le sue forze, «fermamente risoluto a mantenere e difendere con ogni sforzo la causa dell’ordine e della monarchia costituzionale». Lord Palmerston, ministro inglese sopra gli affari esterni, dichiara[98], quantunque la Gran Bretagna sia antipapale, aver tanti milioni di sudditi cattolici, che pel proprio interesse deve desiderare il pontefice sia posto in situazione temporale da poter con intera indipendenza esercitare le spirituali sue funzioni; l’intervenzione di forze straniere doversi serbare per l’estremo; in tal caso gioverebbe affidarlo al Piemonte, per togliervi l’odioso carattere di straniero. Le novità romane dunque pericolavano. La Costituente ivi proclamata spiaceva al Piemonte non men che a Napoli, come quella che rimetteva in problema l’esistenza di tutti i Governi: spiaceva ai dittatori toscani, vogliosi di dominar soli, anzichè mettersi in coda ai romani; talchè fu indarno il comparire a Firenze dei più avventati Romani e dello stesso Ciciruacchio: spiaceva in Roma ai chiericanti non meno che ai costituzionali, i quali ultimi sudavano perchè il popolo ripristinasse Pio IX, però colla costituzione; spiaceva all’eretica Inghilterra non meno che alla cristianissima Francia; sicchè ai caporioni non rimaneva che di trescare coi democratici, allora vinti dappertutto, e così porgere nuovi titoli ai Governi regolari. In fatti l’Assemblea costituente di Francia (20 aprile) dichiarava voler rintegrare il papa nel dominio; Spagna, avida di ripigliar azione nella diplomazia europea, invita i potentati a un congresso per tale scolpo: il papa invoca l’Austria, Francia, Spagna e Napoli ad abbattere un’_orda settaria_ che teneva tiranneggiata la maggioranza de’ suoi sudditi. Lord Palmerston (1848), costante nell’uffizio di alternare al cavallo una fitta di sprone e una stretta di morso, avea sempre tergiversato la politica della Francia; quando questa inviò Bignon perchè temperasse i primi movimenti liberali, esso spedì lord Minto ad aizzarli; quando gl’italiani s’inebriavano al programma pindarico di Lamartine, egli gittò acqua sul fuoco; quando dappertutto fremeasi d’indipendenza, egli propose di formare del Lombardo-Veneto e dei ducati un regno sotto un arciduca autonomo. Ricusato perchè Carlalberto in quel momento vagheggiava il regno dell’Alta Italia, esso gli carezzò quest’idea, escludendo però dalle trattative la Francia, e imponendo per confine l’Adige. Entro questi limiti non l’avrebbe disapprovato neppur la Germania, che la linea di quel fiume pretendea necessaria alla propria integrità e strategicamente e politicamente. La spada di Radetzky troncò le discussioni; e Palmerston accettò l’uffizio di mediatore, e volle si adunasse a Brusselle un congresso per dar sesto alle cose d’Italia. Ma l’Austria non trovava più ragione di cedere nemmanco una lista del paese che avea rioccupato, ed asseriva che l’armistizio conceduto il 5 agosto sottintendesse l’interezza de’ prischi possessi. Ma queste conferenze divennero il tema d’infinite parole, in un anno di parole tante. Quei che aveano schiamazzato mentre gli altri combattevano, più schiamazzavano adesso che nessuno poteva interrogarli perchè non combattessero. Migliaja di rifuggiti in Piemonte dal paese vinto, s’agitavano nel desiderio della patria; s’agitavano i coraggiosi, cupidi di cimenti riparatori; s’agitavano i timidi per mascherare la paura col far paura; s’agitavano i repubblicanti, che attribuivano il disastro all’essersi fidati d’un re; s’agitavano i calunniatori, infamando i ministri, i generali, gli abbondanzieri, chiunque dubitasse del tradimento, o avesse esercitato qualche bricciolo di potere, per quante prove date avesse di patriotismo; ed erano creduti, come sempre si crede ciò che faccia torto ai nostri. Da un altro canto coll’affisso di democratici voleansi riprovare quei che gridavano il nome d’Italia: eppure la guerra del Piemonte all’Austria non era giustificata che dall’indipendenza italiana, e questa voleano i democratici; democraticamente erasi fatta decidere la fusione dal voto universale, e poichè questo avea proferito, chiedeano fosse mantenuta. Vero è che tal sillogismo era stato scomposto da un avvenimento, una guerra perduta; ma questa turbava il fatto non il diritto. — La patria non è stata vinta; solo il tradimento ha potuto ricondurre i Tedeschi in Lombardia», gridavano gl’Italianissimi. I Piemontesi, non potendo negare la sconfitta, ne imputavano l’inettitudine dei generali, lo scarso cooperare de’ Lombardi, la moderazione dei ministri, cento altre cause fuorchè le vere; ad ogni modo credevano potersene trarre esperienza per riparare colla vittoria il primo smacco. Ed è singolare che il paese ove la democrazia meno debaccò, fu quello ove portò maggior disastro, perchè si mescè agli atti guerreschi. Carlalberto credeasi in dovere di mantenere ai popoli la fusione; aveva udito rinfacciarsi d’aver rinnovato nel 48 i tradimenti del 21; la libertà della stampa e dei dibattimenti lasciava giungere fino a lui le accuse, delle quali più si struggeva di purgarsi quanto meno meritarle conosceva, e quanto più avea sorbito le lodi prodigategli come spada d’Italia; e invisibile nella reggia, masticava l’onta nuova che gravava l’antica, e risolvea gittarsi a capofitto in un nuovo tentativo. Ma un esercito sfasciato poteva assaltar vincitrice e munita quell’Austria, contro cui non era bastato quando scomposta, atterrita, sprovvista? Le grida dunque dei giornalisti e degli avvocati non avrebbero dovuto smoverlo; ma il fragor di essi lo stordiva, quasi in essi parlasse la nazione, nè vedea come far argine alla demagogia di cui giungevagli il ruggito. L’eterogeneo Ministero Casati si dimetteva (18 agosto), esponendo quanto avea fatto per riparare i disastri, e rendere capaci a ripigliar l’offensiva appena spirassero le sei settimane dell’armistizio, avendo anche chiesto i sussidj di quella Francia, che dianzi erasi repulsa. «Codardia (diceano), per dieci giorni di fortuiti disastri, deporre una fiducia ispirata da quattro mesi di prosperi ed eroici successi! qual impudenza il credere che una pace vergognosa assicuri più di una guerra onorevole gl’interessi e l’onore del Piemonte!» Tono indecente a chi lasciava altri nell’imbarazzo di mantenerlo: ma un più temperato non era possibile quando fomentava guerra la Consulta lombarda, formata dell’antico Governo provvisorio di Milano, Polonia e Ungheria, ribollenti contro i loro dominatori tenevano emissarj a Torino che prometteano ajuti e diversioni vigorose, bilione solito de’ rifuggiti, ma scontato come moneta fina dai giornali; nuova esca aggiungeano i movimenti di Sicilia, di Napoli, di Livorno, di Roma. In quest’uragano dovea navigare il nuovo Ministero, preseduto dal marchese Alfieri, coi generali Perrone e Dabormida, Revel, Boncompagni, Pinelli, allora autorato dall’amicizia di Gioberti. Questo filosofo nel suo studioso ritiro a Brusselle, quanto più gli era negata, più acquistò la passione della popolarità; la prese ispiratrice quando mestò politica; ma conoscendola mutabile, resistette un pezzo alla voglia di venir qui a godersi i grossolani applausi, che nel 1847 la folla profondea; e più venerato di lontano, dirigeva l’opinione ma col secondarla. Chiaritasi la rivoluzione, venne e s’inebriò dei trionfi, che ambiva più che il potere; girò Italia apostolo della fusione, ma formando piuttosto entusiasti che un partito; a Milano, dove avea detto non entrerebbe che a ginocchi, sperava far acclamare di primo achitto la fusione, e toccò fischi; a Roma credeva indurre Pio IX a’ suoi voleri, ed ebbe soltanto grida plateali, e il suo nome alle vie dove abitava, al caffè dove asciolveva; sparnazzava Carlalberto, eppure a Genova correva a venerare la madre di Mazzini, a Milano mutò alloggio per annidarsi nell’istesso albergo di Mazzini. Non compreso nel nuovo Ministero, accostossi ai democratici per sventarlo, e vi oppose quel fantasma suo del Congresso; nei circoli denunziava i ministri, che, mentre predicavano riscossa, indipendenza nazionale, in privato a lui diceano non essere possibile rinnovare l’esercito, e volersi cercare accomodamenti vantaggiosi al Piemonte; sicchè gl’improntò le stigmate di _ministero di due programmi_: e i più avanzati gridavano la subita ripresa delle ostilità. Dopo ciò oseremmo accusare quel Ministero di non avere saputo essere modesto, nè osato essere risoluto? In realtà il Ministero, non meno che gli oppositori, voleva la riscossa: ma quello, preparata convenientemente per vincere; questi, subitanea, ispirata, condotta, come dicea Brofferio, da ardimento, ardimento, ardimento. Saria stato imprudenza rivelare al mondo i reconditi preparativi: onde il Ministero chiese un consiglio secreto, avanti a cui scagionarsi: e quello proferì che non poteasi nè procurare una pace onorevole, nè amministrare una guerra felice. Intanto dalla Lombardia e dai ducati giungeano gli strilli degli aggravati sotto la dittatura militare, frementi tra il terror manifesto e la rabbia repressa; da Genova gli urli de’ raccogliticci, che tentavano fin subornare l’esercito, e qualificavano tirannia ogni provvedimento preso a reprimerli; soscrizioni, messaggi, chiassate sosteneano la minoranza oppositrice. Bisognava dunque rassegnarsi: e il baron Perrone ministro della guerra, che pure avea fatto avvertire «lo spirito guasto de’ soldati, i quali partono pel campo italiani, e ne ritornano tedeschi»[99], diceva essere impossibile a un Ministero resistere alla pubblica opinione e non ripigliar le ostilità «con tutto il furore d’una guerra nazionale, preferendo essere inghiottito nella catastrofe italiana, anzichè lasciar più a lungo torturare dal vandalismo austriaco la parte d’Italia ch’esso calpesta», assicurava essersi rinnovati l’esercito e la disciplina; ottantamila uomini pronti a entrar in campo, trentamila a mantenere la tranquillità nell’interno, oltre la guardia nazionale, e un parco d’assedio più numeroso che nella guerra precedente; trenta in cinquantamila uomini che la Francia prestasse, la bandiera tricolore sventolerebbe di campanile in campanile fin all’Isonzo: nè farebbero la guerra soli; avranno in ajuto l’insurrezione, i contingenti toscani e romani, e i diciottomila uomini chiusi in Venezia e la flotta; esser dunque risoluti a guerra, se non possono ottenere una pace onorevole, che assicuri l’indipendenza d’Italia[100]. Palmerston disapprovò questo dispaccio. Bastide, ministro della repubblica francese, annunziò non impedirebbe neppur l’invasione del Piemonte, se questo rompesse guerra all’Austria. Degli errori, delle esitanze, della disperazione altrui s’ingrandiva Gioberti, che divenuto nimicissimo al suo amicissimo Pinelli, riuscì alfine a sbalzarlo; e dopo essersi sempre professato nemico della democrazia, diveniva capo d’un Gabinetto (16 xbre) denominato _democratico_, con colleghi destinatigli dalle piazze, Rattazzi, Ricci, Sineo, Buffa, Cadorna, Tecchio, tutti tolti dal Circolo nazionale, aggiungendovi Sonnaz per le necessità della guerra. Il loro programma, quello di tutti i precedenti, allargare le libertà interne, procurare che tutt’Italia si costituisse a nazione: se non che Gioberti avea l’arte di tessellare le teorie più diverse, il che dicevasi conciliare. E subito le declamazioni e le mostre si diressero contro il Ministero democratico, che si trovava esso pure nell’impotenza di far quello che si desiderava. Realmente l’Italia sentiva integre le sue forze; da quella posizione, che per tutti era precaria, bramavano tutti uscire, quand’anche non si sapesse che i popoli sovente per bizzarria, per superbia agognano i tentativi più disperati. Il Congresso a Brusselle non dava un passo verso il riordinamento. L’Austria sperava assonnare l’Italia settentrionale col prometterle istituzioni liberali; e dopo ch’ebbe doma un’altra volta l’insorta Vienna, convocò una Dieta costituente a Kremsier, dove il ministro Schwarzenberg professava «accettare sinceramente la monarchia costituzionale; tenerne ferme le basi col separare rigorosamente il potere esecutivo riservato alla Corona, e il legislativo esercitato in comune dal principe e dai corpi rappresentativi; assicurare l’eguaglianza dei diritti, garantire il libero sviluppo di tutte le nazionalità, introdurre la pubblicità in tutte le parti della pubblica amministrazione, consolidare le libertà comunali, estendere nelle provincie l’indipendente gestione di tutti gli affari interni, e unificarle mediante un robusto poter centrale. Il regno Lombardo-veneto, conchiusa la pace, troverà nella sua unione organica coll’Austria costituzionale la miglior garanzia della sua nazionalità. I consiglieri responsali della Corona si terranno fermi sul terreno de’ trattati: essi nutrono speranza che un avvenire non lontano porterà il popolo italiano a fruire i benefizj d’una costituzione, la quale deve tener unite le differenti stirpi con parificazione assoluta di diritti». Era dunque risoluta a non cedere un palmo di terreno; l’Inghilterra aveva accettato qual base del Congresso, che nessun brano si staccherebbe dall’impero austriaco, neppur Venezia. Ma chi allora credeva alla verità? Intanto non poteano nè l’Austria prendere una risoluzione per rassettare la Lombardia e finirla con Venezia, nè il Piemonte disarmare e togliersi alla disastrosa incertezza. Adunque strepitavasi d’ogni parte; i giornali perseveravano nel tristo uffizio di denunziare ed inasprire quei che la sventura avrebbe dovuti conciliare e congiungere[101]; acclamavasi la rinnovazione delle ostilità, volerlo Dio, volerlo il popolo. Singolarmente il Circolo italiano di Genova, trascendendo i limiti costituzionali, vilipendeva il re: anzi Genova (18 xbre) sorse a tumulto; e il ministro Buffa speditovi con pien potere, invece di dar torto ai mestatori, proclamava saperne causa unica l’essersi voluto «seguitare una politica contraria alla dignità, agli interessi, all’indipendenza della nazione»; il presente Ministero volere «l’assoluta indipendenza d’Italia a costo di qualunque sacrifizio, volere la Costituente italiana e la monarchia democratica»; aggiungeva d’aver ordinato che le truppe partissero dalla città (1849), perchè «la forza vale cogli imbelli non coi Genovesi; i forti saranno presidiati dalla guardia nazionale, tutti o parte a sua scelta; tolta ogni apparenza di forza, farem vedere che in una città veramente libera basta la guardia nazionale; che quando il Governo batte la via della libertà e della nazionalità, Genova è tranquilla». Così i cittadini atteggiavansi come avversarj ai soldati, nell’atto che da questi bisognava tutto aspettare: i soldati protestano; la Camera disapprova; il Ministero è obbligato a un’altra scusa memorabile; cioè che «non bisogna misurare i proclami col regolo ordinario, contenendo per natura frasi che ai lontani pajono eccessive, mentre sono inevitabili ai vicini». Sciolta la Camera, la nuova, eletta sotto quelle esacerbazioni, abbandonò i moderati per gl’impazienti. Il ministero Gioberti dichiarava: «L’indipendenza italiana non può compiersi senza le armi; laonde a questo rivolgeremo ogni nostra cura, convinti che la sola monarchia costituzionale può dare alla patria nostra unità, forza, potenza contro i disordini interni e gli assalti stranieri». Dichiarava pure non potersi persistere in uno stato che era peggiore della guerra, poichè ne aveva tutti gli sconci e nessuna favorevole eventualità; voleva considerare ancora come effettiva la fusione, e lagnavasi che atrocemente fossero trattate dagli Austriaci provincie datesi al Piemonte. Il re medesimo, aprendo il Parlamento, manteneva il concetto della fusione, soggiungeva che «la fiducia è nei forti accresciuta, perchè all’efficacia dei nostri antichi titoli s’aggiunge l’ammaestramento dell’esperienza, il merito della prova, il coraggio e la costanza nella sventura. Le schiere dell’esercito sono rifatte, accresciute, fiorenti e gareggiano di bellezza, d’eroismo colla nostra flotta. Ma per vincere è duopo che all’esercito concorra la nazione; e ciò, o signori, sta in voi, sta in mano di quelle provincie che sono parte così preziosa dei nostro regno e del nostro cuore, le quali aggiungono alle virtù comuni il vanto proprio della costanza e del martirio». La risposta delle Camere ingagliardiva quell’attacco, e non parlava di guerra e d’indipendenza italica soltanto, ma degli Ungheresi da soccorrere; e che si disdicesse immediatamente l’armistizio. Le condizioni però del nemico quanto erano cambiate (1848)! La Germania, vogliosa di ringiovanirsi, erasi raccolta in Parlamento a Francoforte «per attuare una costituzione che comprendesse l’unità della nazione, colla varietà tradizionale de’ Governi. Ma la sapienza statuale ivi pure comparve scarsissima: variati i sentimenti, secondo il paese che prevaleva; e mentre negavansi soccorsi e fino approvazione all’esercito austriaco combattente in Italia, dichiaravasi che la linea del Mincio e le grandi fortezze erano necessarie all’integrità della Germania, e si considerava come intacco a questa l’avere i volontarj lombardi stimolato a insurrezione il Trentino. Al rompere della rivoluzione, la guerra di razze metteva a brani l’Austria, la quale potea dirsi ridotta nei tre eserciti di Radetzky in Italia, di Windischgrätz in Boemia, di Jellacich in Ungheria. La Corte imperiale, cacciata dalla devota sua città (15 maggio), erasi rifuggita a Innspruck, e blandiva la capitale col consentire un’Assemblea costituente; disapprovava Jellacich che acclamava il risorgimento delle stirpi slave: ma intanto i suoi eserciti vinceano a Praga le barricate, a Vicenza i popoli, a Custoza gli eserciti; la Dieta ungherese per bocca di Kossuth promettevale fino ducentomila uomini se bisognassero per domare l’Italia. Perocchè i Magiari parteggiavano coll’Austria onde tenere al giogo gli Slavi; ma ben presto volendo ella frenarne la prepotenza, le divennero ostili; e allora gli Slavi si posero coll’Austria e la sorressero, sempre per proprio vantaggio e scapito altrui. I cittadini di Vienna, stanchi del despotismo degli studenti impadronitisi del Governo, richiamavano l’imperatore (agosto), che rientrava nella sua capitale appunto quando Radetzky rientrava in Milano. Ma poco appresso i sommovitori rivalgono, sollevano sanguinosamente la città, e fra molt’altri trucidano un ministro. Windischgrätz vi accorre da Praga, vi accorre Jellacich, e da Boemi e Croati è presa la capitale (31 8bre), e terminata la rivoluzione, alla quale non avevano preso parte nè la campagna nè le provincie. Erasi fra ciò adunata un’Assemblea costituente, secondo la moda d’allora, per compilare la Statuto dell’impero austriaco; v’ebbero rappresentanti anche di paesi italiani, quali il Tirolo e Trieste; ma le rioccupate provincie lombardo-venete furono invitate invano a spedirvi i loro eletti «per garantire la propria nazionalità, e conciliarla col principio supremo dell’integrità della monarchia». Dall’irrequieta Vienna la Dieta erasi trasferita a Kremsier, ma rimaneva scissa fra l’unità dottrinale e la tradizionale individualità: nelle dispute, inconcludenti e di teoria nebulosa, perdeva tempo e credito, sicchè il Governo potè arrischiarsi a toglierle la mano. Già il 22 settembre l’imperatore Ferdinando avea proclamato piena perdonanza agli abitanti del Lombardo-Veneto, e la ferma sua intenzione che «avessero una Costituzione corrispondente alla loro nazionalità ed al bisogno del paese»: poi confessando la necessità di «forze più giovani per soddisfare il bisogno potente e irremissibile di un grande cambiamento, che abbracci e rifonda tutte le forme dello Stato», abdicava (2 xbre); e giacchè suo fratello Francesco Carlo vi rinunziò, lo scettro fu messo in mano al figlio di questo, al giovanetto Francesco Giuseppe, che aveva fatto le prime prove combattendo gl’Italiani. Egli «riconoscendo per proprio convincimento il bisogno e l’alto pregio delle istituzioni liberali e consentanee ai tempi, calchiamo (dicea) con fiducia la via che deve condurci ad una salutare riforma e al ringiovanimento di tutta la monarchia», e protestavasi «deciso di mantenere immacolato lo splendore della Corona e intatta la complessiva monarchia, ma pronto a dividere i proprj diritti coi rappresentanti de’ suoi popoli». Ben presto si proclama una costituzione (1849 8 marzo) che recida il nodo delle quistioni, statuendo l’unione organica di tutte le provincie, eguaglianza e indipendenza delle diverse nazionalità; unico Parlamento con due Camere; nella prima i deputati delle diete provinciali, nell’altra i deputati eletti dal popolo, uno ogni centomila abitanti; il potere legislativo viene esercitato dall’imperatore unitamente al Parlamento generale per le leggi di tutto l’impero, e alle Diete nazionali per le leggi particolari. Così l’imperatore trovasi capo delle varie nazioni e unificatore di tutte, e può opporre la forza attraente dello Stato alla centrifuga delle provincie. Anche la Dieta germanica si scredita colle metafisiche sottilità; e quando essa dichiara che paesi tedeschi non potranno confondersi con forestieri nello stesso dominio, l’Austria, che da tale partito sarebbesi veduta scomposta, vi oppone un franco niego, asserendo non voler menomare i proprj diritti, e che starà federata colla Germania, non una con essa. A questo colpo risoluto, la Dieta perde efficacia, e ben presto si scompone; la Prussia, ch’era parsa sul punto di afferrare l’egemonia della Germania, torna secondaria all’Austria, che s’accinge a riparare gli sdrucci lasciatile da un turbine, dove credeanla già subissata quei che ignorano la storia d’Europa. Come le umiliazioni di lei aveano dato spirito alle Potenze estere di sbraveggiarla, il rialzarsi le fece propense a sostenerla: ond’essa più sempre ferma dichiarava non avere altro da trattare colla Sardegna se non di ristabilire le relazioni amichevoli, interrotte per l’invasione del re, e di fissare le indennità per le spese di una guerra assunta in legittima difesa; per deferenza avere accettato la mediazione brussellese; «ma il pretendere di condurre l’Austria a cedere provincie che avea difese con torrenti di sangue, cederle come premio al perfido aggressore di cui ha trionfato, era giustamente vilipeso dalla pubblica opinione dell’Europa come una stravaganza degna della demenza dei demogoghi italiani, e di un re che, parlando dal trono, non dubitava incitare direttamente la provincie italiane dell’Austria all’insurrezione». Il Ministero imperiale interrogava dunque le Potenze, e nominatamente l’Inghilterra, se riconoscessero il regno dell’Alta Italia, e se fosse in arbitrio di Carlalberto il cangiare da solo la circoscrizione degli Stati, fissata dalle Potenze: conchiudeva che dal canto suo non romperebbe l’armistizio, ma le trattative essere superflue, e volere libertà d’azione[102]. Il Ministero inglese, che avea continuato quell’altalena micidiale all’Italia, lusingandone le speranze mentre rassicurava i nemici, allora pure all’austriaco rispondeva, considerare come non avvenuta la fusione, e dava _positiva_ e _formale_ assicurazione che nelle conferenze non pensava sostenere le _inqualificabili pretensioni_ del Gabinetto sardo, ma adottare per base della mediazione l’integrità de’ territorj circoscritti dai trattati[103]: conseguentemente, al re consigliava con istanza di non volersi avventurare ad irreparabile ruina. Queste cose sapeansi allora come adesso: ma, non che vi si credesse, il Circolo italiano a Torino non vide che «un obbrobrio ministeriale, che umiliazione, che oscillamento nelle parole che il Gabinetto, usurpante il titolo di democratico, poneva sulle labbra del principe; parole desolanti ad ogni buon patrioto»; e provocava una dimostrazione solenne, e mandava alla flotta sarda in Venezia per eccitarla «a non mancare all’appello di tutt’Italia», e giurare com’essi d’adoprare _tutti_ i mezzi per ottenere la Costituente italiana. Le parole del re e dei Comitati arrivavano in Lombardia, e rinfuocolavano le speranze tanto più, quanto più vi si soffriva sotto la dittatura militare. L’amnistia così piena e incondizionata, accordata ripetutamente dall’imperatore, non lasciava luogo a supplizj o processi per fatti della rivoluzione; ma da un lato s’imposero multe più o meno gravose, e dalle diecimila fino alle ottocentomila lire contro persone che v’aveano preso parte, foss’anche con soli scritti: pena che inviperiva inutilmente, giacchè dai più non si cercò mai nulla, alcuni se ne acquetarono con tenui versamenti. Più pesava lo stato d’assedio, che metteva ad arbitrio delle corti marziali le vite e gli averi; e i molti che erano fucilati o per possesso d’armi o per tentata subornazione o per rapine, consideravansi come del pari ingiustamente colpiti, secondo accade delle procedure sommarie e secrete. Alcuni casi sciagurati crebbero l’esacerbazione. Il 3 gennajo il feldmaresciallo andava ad assistere all’esperimento della scuola di ballo del teatro, e i Milanesi vollero vedervi un’insultante commemorazione del macello d’un anno prima. In occasione della nomina del nuovo imperatore celebrandosi dai militari un _Tedeum_, una femmina espose tappeti di colori ingrati; e perchè alcuno ne levò rumore, ecco uscire una mano di soldati, torre in mezzo chi primo primo, e menati in castello bastonarli, fra cui sin donne, e persone inoffensive per natura, età e pinguedine. I Lombardi poi perseveravano nella dimostrazione negativa, schivando di ravvicinarsi ai dominatori se non alla distanza d’una fucilata. Italia tutta fremeva, anche per moda, contro i Tedeschi; i ducati si credeano illegittimente occupati; illegittimamente Ferrara, donde però i Tedeschi, avuta soddisfazione, si ritirarono (18 febb.). In Piemonte il Ministero, pure col titolo di democratico resisteva alla democrazia. Quando seppe fuggito il granduca, espulso il papa, e che le Potenze vorrebbero ripristinarlo, Gioberti sbigottì; laonde, cercato invano che l’intervenimento fosse soltanto pacifico onde cansare l’obbrobrio di vedere di nuovo dagli stranieri rimaneggiare le sorti nostre, pensava opportuno che il Piemonte si togliesse l’assunto di ristabilire il granduca che l’invocava, e il papa che lo temea; forse la mostra basterebbe a dissipare la resistenza; intanto Italia si avvezzerebbe a vedere dalle proprie armi risolvere le interne quistioni; il Piemonte, col vincere il disordine, ricupererebbe importanza in faccia alle Potenze; e le menti sarebbero sviate dalla guerra contro l’Austria, che prevedeasi inevitabilmente disastrosa. Erano idee delle meno strane fra i delirj d’allora; le aveva egli pubblicate ne’ giorni di sua maggior popolarità[104], ma adesso repugnavano col titolo del suo Ministero, coll’intemperanza corrente, e colla guerra da esso fatta al Ministero precedente. D’altra parte, se teneasi valevole la votazione universale dei Lombardi per la fusione, perchè non anco quella dei Romani per la repubblica? La Camera, e più le loggie e le piazze che alla Camera imponevano, accolsero come un fratricidio quel progetto; i suoi partigiani rissavano cogli avversi per le vie: ond’egli, sommerso nell’onda, che lo avea sollevato, è costretto rassegnare il portafoglio (21 febb.), toccando il solito salario della popolarità, vilipendio e oblio; denunziato alle Camere, minacciato di processo, gridato traditore, e rinnegato con tanto impeto con quanto dianzi l’aveano divinizzato. Egli non subì l’oltraggio con dignità[105], e nel _Rinnovamento civile_, mutava d’amici e di nemici, benevolo fin a quelli che più n’aveano meritato il disprezzo (p. 351), e accannito contro gli autori della sua gloria, i fondamenti delle sue speranze. Colla profonda scienza e massime colla positività filosofica non può combinarsi quel suo voler riunire le cose e le idee più disparate, e sosteneva di non aver cambiato anche dopo mutatosi di punto in bianco: il che i suoi amici qualificavano come uno svilupparsi di concetti, che prima aveva solo in germe. Nel vortice de’ suoi libri invano cerchi una risposta precisa sulle capitali quistioni di letteratura, teologia, filosofia, politica, tanto egli le rinvolge in formole dubitative e cortesi e retoriche, o le professa differenti secondo i tempi. Carezzò nemici, disse per correggerli; osteggiò vecchi amici, disse perchè cambiarono; onde parve e incerto e non sincero: profuse lodi a mediocrissimi, mostrò bisogno d’appoggiarsi ad autorità comechè meschine, perciò scegliendo esempj a caso e immeritevoli, ignorando i più degni e meglio a proposito, e confessando d’avere scritto variamente secondo l’occasione. Ora di Pio IX non sa dir male che basti, e «parrìa che mi contraddica parlando in tal forma di un pontefice del quale a principio celebrai il valore: ma io posso fare una girata dello sbaglio a’ miei onorandi patrioti; perchè, essendo allora lontano e non _conoscendo altrimenti_ il nuovo papa, io fui semplice ripetitore in Parigi di quanto si diceva, si scriveva, si acclamava in Roma e per tutta Italia» (pag. 448). Dell’incensato Carlalberto diceva che «tutti errammo a confidare nella fermezza e sincerità di lui» (pag. 235); e che «quando il Balbo disdisse la lega sollecitato da Pio e dagli altri principi, il male non ebbe più rimedio, e prese corpo quella chimera dell’albertismo, che tanto nocque alle cose nostre: per acquistare Carlalberto si perdette Pio IX. Roma in ogni caso si sarebbe tirato dietro il Piemonte, dove che questo nè avrebbe incominciato senza Roma, nè vinte le sue repugnanze» (pag. 20). Narrando poi i fatti e divisando le opinioni di quei tempi, anch’egli, come fece il Guerrazzi, s’appoggia al fondamento più traballante, i giornali, che danno argomento per ogni partito come per ogni assurdità. Chi sente qual sia mortificazione per un’anima elevata il riconoscersi impotente al bene, geme vedendo offuscare se medesimo un uomo, la cui parola fu un tratto la parola dell’Italia tutta; cominciato con immensa gloria, finiva col rammarico d’avere tutt’altro che giovato la causa italiana, abbandonato il suo soldo da presidente del Ministero a soccorso di Venezia, ritiratosi senza ricchezze e senza titoli in Parigi all’operosa quiete degli studj, da repentina morte fu côlto in fresca età. Non v’è forse esempio moderno che maggiormente meriti essere meditato, e possa recare più grande istruzione. Il Ministero sottentratogli, senza alcun nome raccomandabile fuori del generale Colli che vi presedeva, punzecchiato dai Veneziani, dai rifuggiti, dai repubblicanti, dagli stessi costituzionali che di questo tema eransi fatto arma contro il Ministero democratico, dovè promettere anzitutto di rompere coll’Austria, e ne manifestò solennemente le ragioni, conchiudendo: «La guerra dell’indipendenza nazionale si riapre. Se gli auspizj non ne sono lieti come l’anno passato, la causa è pure sempre la stessa; santa come il diritto che hanno i popoli sul suolo in cui Dio gli ha posti; grande come il nome e le memorie d’Italia». Si precipitò l’assetto dell’esercito, il quale ricuperava la disciplina ma non l’entusiasmo; anzi, indispettito ai Lombardi, con uffiziali nuovi sconosciuti, mormorava del vedersi spinto ancora ai cimenti e alle sofferenze. I generali s’erano e mostrati e confessati inetti; sicchè, non potendo ottenerne uno francese, si chiamò comandante supremo il polacco Chrzanowsky, ignoto ai soldati, esoso agli uffiziali per la mortificante superiorità; e allestiti o no, si disdisse l’armistizio coll’Austria. I diplomatici stranieri non sapeano darsi pace di tanto accecamento; Francia, Inghilterra, nulla lasciarono d’intentato per dissuaderlo[106]: ma che valea la ragione rimpetto alla tiranna del tempo, l’opinione? De Ferrari, succeduto (12 marzo) al Colli qual presidente al Ministero, scriveva al Ricci, rappresentante presso il Congresso di Brusselle, non essere più possibile sopperire alle spese della guerra senza farla; la continua incertezza ed inquietudine poter suscitare gravi commozioni, nè la quistione potersi risolvere che col deporre le armi o adoperarle; il primo partito rompeva il vincolo coi Lombardo-Veneti, repugnava all’opinione, e avrebbe cagionato gravissimi sconcj, forse la guerra civile. E infatti che non poteano temere i principi allorchè l’incendio della media Italia lanciava faville anche nella settentrionale? Disapprovata dalla ragione e dalla diplomazia, questa intima di guerra ebbe dappertutto la sanzione del sentimento; Italia, ottenebrata da sospetti, da ire, da scomuniche, da assassinj, da riazioni, a un tratto si rifece baliosa nella concordia d’un sublime intento; parvero cessare il palleggiarsi delle ingiurie e gli ammazzamenti politici di cui era contaminata ogni contrada di Romagna; i Lombardi deporre quella disperazione, che fa vili quando non fa scellerati; e tutti, pur dianzi sbranati dalle quistioni di municipio, di costituente, di repubblica, di monarchia costituzionale, d’Italia una o d’Italia confederata, trovarsi unanimi nel grido dell’indipendenza. Da Aosta a Siracusa i cuori palpitarono, come un anno prima, di magnanima speranza; alla fiaccamente convulsa Toscana parve trasfondersi il sangue dei martiri di Curtatone; fino i repubblicanti sorrideano all’idea di acclamare l’impero d’Italia, e l’Assemblea romana, fastosamente garrula nella peristaltica inazione, intonava: — Tempo è di fatti, non di parole: dall’Alpi al mare non si dà indipendenza vera, non libertà finchè l’Austriaco conculchi la sacra terra. All’armi, e Italia sia». Schwarzenberg, ministro dell’Austria, versava la responsabilità di sì grave risoluzione sulla testa di colui che vi era spinto da funesti consigli; ed annunziò ai Governi amici il proposito di drizzare la marcia sopra Torino, e colà dettare la pace, ma non volere acquistare un palmo di territorio[107]. Radetzky, conculcando le abituali convenienze, nella grida di guerra insultava al re (12 marzo), che «un’altra volta stende la mano sulla corona d’Italia. Sleale, spergiuro, micidiale di se stesso, occupato solo a far dimenticare, adulando i rivoluzionarj e il vulgo, i tradimenti del 1821 e diciassett’anni di despotismo, Carlalberto, pari al ladro che coglie occasione dall’assenza del padrone per compiere il furto con sicurezza, invase il paese amico. Io disponevo ancora di forze bastanti a far pentire Milano. Se avessi presentito che la dignità regia doveva in Carlalberto cadere in tanto avvilimento, non gli avrei mai risparmiato l’onta di farlo prigioniero in Milano. La pace che da generosi gli offrimmo, la conseguiremo di forza nella sua capitale. Sarà l’ultima letizia della lunga mia vita il potere nella capitale d’uno sleale nemico fregiare il petto de’ miei prodi commilitoni colle insegne meritate col sangue. Avanti, soldati! A _Torino_ sia la nostra parola d’ordine: colà ritroveremo la pace per la quale combattiamo». Quest’imperiosa jattanza credeasi mascherasse la paura. Con fierissime minaccie a chi si movesse, abbandonò egli sguarnito il Lombardo-Veneto, fuorchè le fortezze; e con settantamila uomini in cinque corpi e abbondantissime artiglierie si difilò al Ticino (20 marzo), proclamando ai Piemontesi: — Me non anima spirito di conquista: vengo a difendere i diritti del mio imperatore e l’integrità della monarchia, minacciata dal vostro Governo, alleato colla ribellione». Di rimpatto la speranza degl’Italiani fondavasi sulla insurrezione. I giornalisti assicuravano che Radetzky, obbligato a mantenere l’assedio di Venezia, e vigilare ogni città, pregna di rivoluzione, e avendo migliaja di malati, di pochissime truppe potea disporre, talchè non difenderebbe la Lombardia, ma ritirerebbesi di là dal Mincio; ed annunziavano orrori, quasi tutti ripetendo le stesse frasi. La Consulta lombarda aveva presentato al re un indirizzo, ove, a nome de’ Lombardi accolti in Piemonte, «e di quelli che fremeano sotto il giogo dell’Austria o andavano ramingando nell’amaro desiderio della patria», lo benedivano e ringraziavano; e «I fatti risponderanno all’aspettazione vostra e d’Italia: all’apparire del valoroso vostro esercito liberatore, i Lombardi si sentiranno rinfiammati di quel coraggio che li sostenne nella sventura, e gli correranno incontro per secondarne le ardite mosse, per dividerne le magnanime prove». L’emigrazione lombarda annunziava: «Centoventimila uomini accorrono per salvare la Lombardia, per riconquistare l’indipendenza, che oramai per noi vuol dire il diritto di vivere. Dal tempo dei Romani in poi, il mondo non vide mai un esercito italiano più numeroso e agguerrito. Esso sterminerà dal sacro suolo della patria il nemico». Il Ministero facea decretare: «Tutti quelli fra i diciotto e i quarant’anni, che si trovano nelle provincie non occupate dal nemico, dovranno immediatamente presentarsi al comandante militare... Chiunque non si presentasse fra cinque giorni dalla promulgazione di questo decreto, sarà considerato come refrattario al servizio militare». Come non persuadersi che un’immensa voragine si aprisse sotto il passo dell’oppressore? Il Piemonte non pensò dunque a riparare le frontiere, nè preparare a quello un trabocco, a sè uno scampo se entrasse sul territorio sardo. Eransi intimate le ostilità prima d’avvertirne tutt’Italia, la quale non potè accingersi a soccorrere, se anche l’avesse voluto. Lamarmora fu spedito a occupare la Lunigiana, neppure avvertendo il Governo toscano, che indignato minacciò di far sollevare Genova. A Roma il proclama delle ostilità arrivò prima di colui che doveva annunziarle. Venezia non ebbe tempo di allestire tutti i suoi, che avrebbero potuto avvicinarsi a un’ala dell’esercito sardo, e circuire il nemico. Il generale piemontese ignorò, non solo gl’intenti, ma fin le mosse degli Austriaci; anzi sol cinque giorni dopo disdetto l’armistizio egli n’ebbe l’avviso. La maggiore importanza consistea nell’ammutinare la Lombardia, che rumoreggiasse alle spalle del nemico minacciando recidergli la ritirata: un Comitato, detto di lavori statistici, avea avuto l’incarico di prepararlo; Lamarmora dal Parmigiano, Solaroli da Oleggio darebbero mano agl’insorgenti: ma che? appena cencinquanta persone entrarono per Varese e Como, capitanate dal Camozzi, convogliando seimila cinquecento fucili e settemila lire, ma nè un soldato nè un uffiziale regolare che desse sanzione al movimento. Carlalberto fece una cavalcata di qua dal Ticino pel ponte di Buffalora, ma il paese che s’era mosso fuor di tempo nel marzo del 48, nel marzo del 49 stette quieto fuor di tempo, onde il re diede la volta indietro. Mentre lo sfidato procedea risoluto all’offesa, e invadeva il territorio con settantamila uomini e ducento cannoni, gli sfidatori che aveano bandita la guerra nazionale teneansi sulla difesa. Rinnovando gli errori della campagna precedente, erasi disperso l’esercito sopra lunghissima linea da Novara a Parma, talchè Radetzky conobbe facile il separarlo dalla sua base d’operazione che sono Alessandria e Genova, anzichè i Piemontesi separassero lui dalla sua che sono Verona e Mantova. E prima che soccorsi al Piemonte giungessero e neppure si apparecchiassero, una giornata nei piani di Novara (24 marzo) bastò a dare compìto trionfo agli Austriaci. Le truppe piemontesi disordinate buttansi a saccheggiare Novara: si sparge che Carlalberto tradì, che il Parlamento dichiarò scaduta Casa di Savoja, che Chrzanowsky mandò a morte i generali traditori, battè gli Austriaci, occupò Milano. Ma tutto era consumato. Carlalberto, invano desiderando che una palla il colpisse, abdica e fugge. Se, vinto un’altra volta, avesse subita la pace, rimanea vassallo dell’Austria, debitore di sua corona alla magnanimità del Radetzky, obbligato a espellere dal regno coloro, alle cui speranze avea dato tanti eccitamenti. D’altra parte, se la monarchia sarda fosse caduta, accorreva certamente, se non altro alla partigione della preda, la repubblica francese, portatrice o d’una guerra o d’un esempio che importava rimovere. Ecco perchè Radetzky non si fece difficile, e appena il figlio del re gli si presentò, concesse un armistizio (26 marzo), patto che l’esercito austriaco occuperebbe quant’è fin alla Sesia, e porrebbe presidio misto col piemontese in Alessandria; l’esercito sardo, congedati i corpi lombardi, si ridurrebbe in assetto di pace, e si solleciterebbe una conchiusione. A Torino s’ignora tutto, e si fantasticano trionfi: confusamente udite le male nuove, il Parlamento chiacchera, fa mozioni e arringhe e invettive; accertate, si cambia il Ministero; notificata poi la mutazione del re, fra gli urli di piazza si dichiara incostituzionale l’armistizio, si chiedono gli estremi sforzi, si vuol guerra, si accusano d’inetti, di traditori i capitani. È comune l’adoprare la parola _tradimento_ a coprire gli sbagli e impedire lo scoraggiamento; non è raro l’imputare ad uno le ruine sotto cui fu sepolto; ma perfino nella rabbia ripugna il credere a delitti inutili: eppure alcuni non esitarono a sanzionare que’ sospetti, in momenti ove sì facilmente il popolo li traduce in furore. Da tutti i municipj arrivavano accuse e messi contro del Ministero, contro dei generali, contro del Parlamento. A Genova, in italiani fremiti torcendo la rabbia municipale, si divulga che i Piemontesi sono d’intesa cogli Austriaci per abolire lo statuto, e che marciano insieme sopra Genova (31 marzo), talchè si vogliono le fortezze; vien affidata la città all’Avezzana, esule del 21, con altri eccessivi; si assalta l’arsenale, che con molto sangue è ridotto a cedere; si grida il Governo provvisorio della Liguria; s’invitano i militi lombardi a difendere quella città e lo statuto dai traditori; e ai nemici d’Italia fu nuovamente imbandito il piacere di vedere torcersi contro Italiani le armi che non erano valse contro le straniere. Il generale Lamarmora, accorrendo da Parma, sorprese i forti, e poichè l’avvicinarsi del corpo lombardo facea temere non ajutasse gl’insorti, si ricorse ai mezzi più terribili, lanciaronsi bombe, e Genova fu presa (11 aprile) per forza, trattata come nemica, principalmente dai soldati che vi stavano dapprima in guarnigione, e che voleansi vendicare degli oltraggi sofferti: sin le relazioni uffiziali confessano trattamenti peggiori di quelli che si attribuivano agli Austriaci: ma i caporioni eransi ritirati; agli altri ben presto si proclamò il perdono, cercando reciprocamente si obliassero «fatti che furono, si direbbe quasi superiori alla volontà umana»[108]. Ad altri gridatori di tradimento, che poteano anche trucidare i Lombardi imputandoli d’avere sagrificato Carlalberto, si diede una soddisfazione, e si declinò il sospetto di complicità, dopo incondito processo fucilando il generale Ramorino (10 aprile), reo non d’avere tradito, ma di inettitudine o disobbedienza, colpa comune a tropp’altri, pei quali egli cadeva vittima espiatoria. Insieme ordinaronsi scrutinj sulle cause del disastro, che ognuno rimbrottava all’altro; e al Ghrzanowsky fu decretato il gran cordone mauriziano[109]. La Lombardia non erasi mossa, o diffidasse, o attendesse gli eventi. Como e Bergamo che aveano preso le armi, lasciaronle cascare al sinistro annunzio. Non così Brescia. Che tante promesse, tante speranze fossero svanite in un battere d’occhio, che il Piemonte non notificasse ch’era impossibile il soccorrerla, parve improbabile: speriamo non fosse che illuso il Comitato di difesa allorchè ingannava il popolo con diversissime novelle di vittorie, per le quali entrò il furore di resistere. Nugent, che era accorso da Mantova, ed erasi già fatto ben volere dalla città, scese per dare le novelle certe, ma fu colpito a morte, e sul suo sepolcro leggesi: _Oltre il rogo non vive ira nemica_. Il terribile Haynau, venuto da Venezia, bombardò la città (31 marzo) che via per via si difese, e perpetuò col sangue e le lacrime la sua nominanza di prima amica del Piemonte. Nel qual regno le bestemmie si mutarono presto in commiserazione, poi in inni pel re, il quale alle grandi intenzioni ebbe sproporzionate la potenza del consiglio e l’energia della volontà; sfortunato però anche di lodatori, i quali, col negarne i demeriti, le virtù disabbellirono, mentre degli uni e delle altre faceansi ancora arma a fraterni abbaruffamenti. Era egli fuggito all’estremità occidentale d’Europa, ove fra breve soccombette alle memorie e al crepacuore (28 luglio). Alla deputazione mandatagli dal senato a Oporto, rispondeva: — La Provvidenza non ha permesso che per ora si compisse la rigenerazione italiana. Confido non sarà che differita, e non riusciranno inutili tanti esempj virtuosi, tante prove di generosità e di valore, date dalla nazione; e l’avversità passeggiera ammonirà i popoli italiani ad essere un’altra volta più uniti, se vogliano essere invincibili». Suo figlio Vittorio Emanuele II trattò della pace; e se era inevitabile quando persin gli amici non parlavano che de’ nostri errori[110], doleva il subire le esorbitanti condizioni che l’Austria imponeva, massimamente in denaro; le si ripeteva di non mettere il re ed i ministri in sospetto alle popolazioni, ma consolidare il principio monarchico, sventuratamente scassinato[111]: dopo lunghissime discussioni a Milano fu stipulata la pace (6 agosto), dove sono riconosciuti i limiti dei due paesi come erano avanti le ostilità, per linea di demarcazione presso Pavia fissando il filone del Gravellone, su cui si porrà a spese comuni un ponte; combinerassi al più presto un trattato di commercio, e per impedire il contrabbando; restano cassate la convenzione 11 marzo 1751, e il decreto aulico 1º maggio 1846 che rincariva il dazio de’ vini di Piemonte; questo pagherà settantacinque milioni per le spese di guerra all’Austria, la quale ritira dal regno le sue truppe. Parma e Piacenza, occupate dai Piemontesi, furono restituite al duca Carlo Lodovico, che ben presto le rinunziava al peggiore figlio Ferdinando Carlo: Modena tornò al giovane Francesco V. Il non essersi, nelle trattative e nella pace, fatto parola contro lo statuto, palesava il nuovo diritto internazionale, per cui nessuna Potenza deve mescolarsi dell’interno ordinamento dell’altra. I calorosi di tutta Italia s’accoglievano a Roma; i principi spodestati rifuggivano a Gaeta. Il re di Napoli aveva riconvocate le Camere (1848 1 luglio), sconvolte però dal manifesto dissenso de’ ministri, dai tumulti de’ piazzeggianti che gridavano «Abbasso la Costituzione», e dall’esercito che professavasi sostenitore della Costituzione, ma stanco di quei che ne misusavano[112]. Il Parlamento fu prorogato al 1º novembre; e a quell’annunzio le turbe di Santa Lucia prorompono in urli di gioja (8 7bre), ed insultano i deputati; mentre altri lazzaroni gridano «Viva la Costituzione»: la truppa è costretta fare fuoco sugli uni e sugli altri. Eppure il Governo fa rinnovare le elezioni; libere a segno, che il massimo numero sortì avverso alla Corte; nè i giornali la risparmiavano: poi il Parlamento (1849 8 febb.) espose gravami contro il Ministero, che non furono ascoltati; fece leggi che non furono sancite dal re, il quale ben presto lo sciolse, e assunse il governo personale. Non vi resse il ministro Bozzelli, che aveva compilato la costituzione, e che fu proclamato vile e traditore, come chiunque in quel tempo accostò le labbra all’assenzio del potere. Il re se ne rendeva sempre meno inclinato a condiscendere alle pretensioni de’ Siciliani, che mai non avea potuti sottomettere. Eransi essi tolto a presidente (1848 26 marzo) Ruggero Settimo, il quale si pose attorno i capi della rivoluzione, Mariano Stabile, Riso, Calvi, il principe di Butéra, l’avvocato Pisano, Michele Amari. Risoluti contro gli eccessi, chiudono i Circoli, valgonsi della guardia nazionale per ottenere quiete, mandano per farsi riconoscere dagli altri Governi, e lasciano partire La Masa con cento giovani per la guerra santa, i quali passarono come in trionfo dappertutto, bene accolti dai principi, regalati di filacce e bende dalla granduchessa, a Torino banchettati e arringati: allettati così a pellegrinare cantando anzichè combattere. Abbattute per decreto le statue regie, dichiararonsi scaduti i Borboni (1848 13 aprile); Inghilterra ed altri principi furono contenti dello stacco della Sicilia, purchè essa avacciasse a scegliersi un re, che forse riconoscerebbero; un re domandavano le soscrizioni e le guardie nazionali; e per poco che valesse una corona così incerta, trovava competitori. Era fra questi Luigi Buonaparte[113]. Ma non era ancora il suo giorno e il suo luogo; e poichè allora tutto ventava per Carlalberto, il Parlamento (10 luglio), seduta stante, proclamò Alberto Amedeo di Savoja, tacendo il suo nome usuale di Ferdinando per odio a quel di Napoli. Feste indicibili: ma fu un crescere i sospetti agli altri principi italiani; alfine, sopraggiunti i disastri, il duca di Genova ricusò. Frattanto surrogano un Ministero (13 agosto), preseduto dal marchese di Torrearsa; quando, caduta Milano, le Potenze suggerivano di riconciliarsi, i Siciliani persistettero al niego; onde il re, non vedendo altra via che le armi, le ingrossò, affidandole al generale Filangieri. Messina avea resistito sempre, in sette mesi mostrando una costanza e un valore, che duole non fossero adoperati alla rigenerazione nazionale. Palermo vi mandava ajuti; ma Filangieri, dopo fiero bombardamento, fu costretto prendere casa per casa in un combattimento durato trent’ore, ove de’ regj rimasero quarantasei uffiziali e mille trentatre soldati. Messina, invano difesa da 15 mila soldati e 150 cannoni, dopo tre giorni di bombardamento e 29 ore di combattimento, cadeva per opera di 6000 soldati, fra cui il 3º reggimento svizzero, con 10 pezzi da 4; con gravi perdite dalla parte dei realisti e poche de’ Siciliani[114]. In Messina tutto andava a fiamme ed eccidio (1849), se i consoli di Francia e Inghilterra non si fossero interposti, chiedendo e quasi imponendo sospensione d’armi, sinchè Francia e Inghilterra decidessero. Allora a torme, come i Lombardi da Milano, dalla desolata patria i cittadini si strascinano fin a Catania e a Palermo, dove il Parlamento rinforza di soscrizioni e decreti per vendicare Messina; ma scarso viene il denaro volontario, e forzarlo non si osa; cercansi gli argenti delle chiese, le cancellate, i candelabri, i tubi del gas, e prestiti forestieri; chiedonsi armati e generali stranieri. Ma le truppe mancano di uffiziali e di disciplina, ed essendo cernite sin dalle galere, sgomentano il paese con rapine ed assassinj; le finanze fanno pelo d’ogni parte; la discordia inviperisce fin tra l’alta e la bassa Camera; ciascun nuovo Ministero perde subito la fiducia, perchè o non reprime i colpevoli o vuole reprimere anche i non colpevoli, e riesce ben lontano da que’ titanici spedienti che ciascuno prometteva quando trattavasi soltanto di parole. Nè le Potenze straniere ajutavano. La Corte di Torino avea ricusato la corona offerta al duca di Genova[115]; Francia sgradiva il distacco dal regno; Palmerston conchiudeva che non per questo moverebbe guerra al re di Napoli, nè impedirebbe ch’egli la recasse alla Sicilia, ma con parole dissonanti dai fatti, davano lusinghe agl’insorgenti; e gli ammiragli di Francia e Inghilterra sospesero le operazioni militari dell’esercito napoletano, a titolo di umanità e tutto profitto dei sollevati, che poterono procacciarsi armi, vaporiere da guerra, e sistemare l’esercito. Il re mandò da Gaeta un _ultimatum_ (28 febb.), che portava piena amnistia, amplissima costituzione fondata su quella del 1812, salvo ad essi il poter modificarla; Parlamento a due Camere; necessaria la sanzione regia. Quegli ammiragli furono gridati traditori per averla diffusa lungo le coste, e il Ministero siciliano ricusò perfino presentarla al Parlamento «come emanante da un potere, non solo sconosciuto in Sicilia, ma condannato da solenni decreti del Parlamento medesimo»[116]; e «Guerra, guerra» fu l’unica risposta agli ammiragli. Si decreta la leva di quanti sono fra i diciotto e i trent’anni (19 marzo); si disdice l’armistizio, allora appunto che ricominciava la guerra in Lombardia; e cantari e amplessi e tripudj e fiori sugli arrolati; e cinquantamila braccia faticano a scavare un fosso attorno a Palermo. La guerra trovavasi capitanata ai due estremi d’Italia da due capitani polacchi, Chrzanowsky e Miaroslawsky, il quale sollecitava i preparativi, tenea ben animate le truppe: ma con settemila settecento uomini far fronte a ventimila regolari che assalivano, era impossibile, quand’anche egli non fosse apparso inetto. Vinti dappertutto, la guardia nazionale ricusa persistere nell’inutile resistenza, tanto più dacchè il tracollo del Piemonte restituiva l’Italia alla supremazia austriaca. Il Parlamento adunque declina dai propositi di sepellirsi sotto le ruine della patria; quei che più aveano soffiato nel fuoco, fuggono, per poi dall’esiglio accusare di viltà e tradimento coloro che rimasero; è accettata la mediazione offerta da Baudin ammiraglio francese (26 aprile): ma il re proferisce che «la sua condotta colle città che si assoggettarono, basta a garantire del come tratterà le altre». Pertanto il Governo rivoluzionario rassegna i poteri al municipio; le navi napoletane entrate in porto, intimano sommessione; ne seguono sanguinosi tumulti; chi vuole ammazzare i traditori, già con tal nome indicando i capi rivoluzionarj; chi ancora resiste scompigliatamente. Filangieri acqueta, promette amnistia, eccettuandone quarantatre che lascia partire; condiscende a molte altre domande; infine introduce le truppe regie in città; e l’anniversario appunto della sollevazione di Napoli, l’autorità regia è restaurata (15 maggio). Un maggiorasco di ducenquarantamila ducati premia il Filangieri; e peste, carceri, processi, esecuzioni tengono in freno l’isola come la terraferma. Piuttosto convulsa che febbricitante, la Toscana persisteva ribelle al granduca, ma il disordine invadeva ogni cosa: deplorabilmente povera la tesoreria; pochissime milizie e indisciplinate, confini indifesi; clero e nobiltà avversi, i democratici triumviri accapigliantisi fra loro; la plebe rompeva ai più insoliti eccessi, guastare la strada ferrata o i fili elettrici, buttare incendj; gli usuraj trafficavano sulle cedole di banco; la concessione comune dell’armi e le bande de’ profughi moltiplicavano prepotenze; intanto si temevano sollevazioni in senso principesco, al modo delle Aretine del 1799. Gli eroi del patriotismo sfogavanlo or calando le campane del bargello per fonderne un cannone; or levando dalla santissima Annunziata una lampada, perchè dono di re Ferdinando; ora minacciando il collegio delle figlie nobili come sconveniente a democrazia. Degli elettori, appena un decimo votarono a nominare i deputati alla Costituente: a Lucca neppur uno; Guerrazzi stesso non la voleva in quell’ampiezza, fosse antiveggenza de’ danni contingibili, fosse ambizione personale, come gli avversarj dicevano. E mentre Montanelli, tutto di Mazzini, volea si proclamasse la fusione colla repubblica romana, Guerrazzi vi si oppose risoluto, nè sì gravi decisioni pareangli da prendersi fra schiamazzi di plebe. La rotta di Novara dà nuova scossa; vuolsi una dittatura, ed è affidata al Guerrazzi, che arbitro di tutto, con proclami continui e ghiribizzosi opponeasi all’anarchia, frenò la vergognosa indisciplina del Parlamento, mostravasi operosissimo in preparare la difesa della patria, cassava le milizie inutili, spediva ai confini chiunque potesse portare le armi. Allora per accusa, dappoi per difesa si ripetè pensasse ripristinare il granduca: ma se così era, perchè nol fece quand’egli solo padrone? Realmente lo incalzava incessantemente la setta che voleva la repubblica e l’unione con Roma, o piuttosto voleva il disordine e profittarne. Morsicchiato virulentemente da que’ miserabili insetti che cacciansi nelle narici del leone, assalito in piazza con grida di morte, egli stesso nella sua _Apologia_ assicura ch’era ridotto a fare tutto ciò che imponeagli la turba, e singolarmente i Lombardi armati. Anche l’unico che mostrò vigore era dunque debole. D’una squadra di Livornesi erasi egli fatto una specie di guardia pretoriana, esecrata per prepotenze e licenze. Alcuni di quella avendo ingiuriata un’ostiera, sono assaliti (11 aprile); presi a fucili, sassate, coltelli, mazze. A grande fatica il Guerrazzi riuscì a metter calma; ma già quei che erano stanchi delle prepotenze, palliate col nome del dittatore, erano prevalsi, e gridavano — Noi vogliamo i galantuomini»; contadini armati, accorrono in città, abbattono gli alberi e le insegne repubblicane; il Municipio, preseduto dal Digny, assume la direzione degli affari, aggregandosi Gino Capponi, Bettino Ricasoli, Carlo Torrigiani, Cesare Capoquadri; e si rintegra il principato (12 aprile). Prima loro cura fu imbrigliare le vendette e salvare il Guerrazzi da morte: tratto in fortezza insieme co’ suoi, tutti vogliono un pelo del leone côlto nella rete. Se dall’indagine apparve che i reggitori democratici non aveano usato misura nè senno nello spendere, si chiarì pure ch’erano mondi da latrocinj e concussioni[117]. Il Municipio atteggiatosi a Governo, pronunziava avere colla restaurazione voluto «non solo redimere lo Stato dal despotismo d’una fazione, ma salvare il paese dal non meritato dolore d’un’invasione, e il principato rinascente dall’infausto battesimo d’una protezione straniera». E poichè nell’universale adesione della Toscana a gridar viva a chi vince, solo Livorno resisteva, fino a dichiarare interrotta ogni comunicazione colla terraferma, si spedisce a Torino per chiedere un soccorso: e viene risposto, l’avranno se domandato dal duca. Il quale duca, più fortunato di tutti gli altri principi perchè ristabilito dal proprio popolo, per mezzo di Luigi Serristori rimandava proclamando, — Stiano sicuri i Toscani, che porrò ogni studio a risarcirli delle sofferte calamità, e restaurare il regime costituzionale in modo, da più non temere si rinnovino i passati disordini». Ma la spontanea ed unanime restaurazione non rattenne gli Austriaci, coi quali già prima era concertata l’occupazione; il generale D’Aspre invade i confini (24 aprile), e da Massa, Carrara, Pontremoli occupa Pisa, professando venire a rimettere l’ordine, e quella sicurezza «alla cui ombra le istituzioni costituzionali date dal sovrano legittimo potranno gettar forti radici, portare frutti buoni». Livorno che resisteva, fu occupata a forza (22 maggio), coi danni e i micidj inseparabili da un’invasione violenta[118] e dall’impostovi stato d’assedio. E i Tedeschi rimasero nella Toscana in aspetto di conquistatori, fin quando la vergognosa convenzione del 22 aprile 1850 stabilì l’occupazione indeterminata del granducato, che durò fino al 1857. Poi D’Aspre occupava anche Firenze (15 maggio) «come amico, come alleato», ordinandovi il disarmo, e facendosi mantenere. Erasi sperato che le franchigie costituzionali spontaneamente largite dal granduca perchè _promesse_ e _meritate_ (pag. 117), sarieno mantenute a una gente fedele da un principe cui toccava la rarissima fortuna d’una restaurazione popolare; e in fatti quando al Serristori successe un Ministero composto di Baldasseroni, Landucci, Corsini, Capoquadri, Laugier, Boccella, annunziava, governo della Toscana essere la monarchia temperata dallo statuto 16 febbraio 1848, che il principe era risoluto mantenere, sebbene da altri audacemente violato (circolare 1º giugno); al 6 maggio 1852 veniva abolito lo statuto. Non dimenticato. Restava la Repubblica romana. Abbiamo storie che dicono come tutto vi procedesse con calma, dignità, moderazione, magnanimità, e «implorare la benedizione del cielo sulla guerra della nazionale indipendenza» (LA FARINA): n’abbiamo altre che denunziano come indescrivibile il disordine nella metropoli (27 genn.), e peggio nel restante paese. Negli uffizj era bisognato collocare persone o senza cervello o senza fama, ritirandosi i migliori; e alle Potenze estere deputare ambasciadori forestieri: il che non poco screditava la repubblica, mostrando i nuovi essere peggiori de’ funzionarj contro cui si era declamato. Parole, discorsi, indirizzi infiniti, ma scarsi atti, e improvvide deliberazioni, prese col sigaro in bocca e fra un andare e venire di giovinastri. Le relazioni degli agenti esteri parlano di continui assassinj commessi in pubblico, al cospetto de’ soldati, talvolta dagli agenti stessi della Polizia: orribili atrocità sarebbersi commesse anche freddamente a Roma, da gente facinorosa: gli atti stessi con cui si tentava reprimerli, ne provano la moltiplicità. Alla nuova della disfatta di Novara, crebbero qui pure l’impero e la risoluzione d’accorrere a ripararvi, a salvare coi repubblicani l’Italia tradita dai re; e si affidarono poteri dittatorj a Mazzini, Saffi, Armellini. Il vulgo intanto ne prendeva occasione a inferocire; insorto ad Ancona trucidò molti, e non v’era chi lo punisse: colà e a Macerata, ad Osimo, a Sinigaglia, dove principalmente si perseguitò la famiglia Mastai, una setta che s’intitolava _Infernale_, proponeasi di purgare lo Stato da tutte le persone avverse alla repubblica e che questa contaminassero coi vizj, e trucidò un cavaliere Baldelli, i marchesi Nembrini e Censolini, il capitano Del Pinto, il canonico Specchi ed altri «come inonesti ed immorali»[119]. L’indignazione arrivò al colmo da che si seppe avere il papa invocato gli stranieri. Il Ministero cercava modi di difesa; pose la guardia nazionale sotto alla commissione di guerra; creò altri ducencinquantamila scudi di boni del tesoro, iniquamente dichiarando infruttiferi quelli emessi dal Governo pontifizio; ingrossò del 25 per cento il prestito forzoso a coloro che fra sette giorni nol pagassero: ma le finanze erano nell’ultimo sconquasso, che naturalmente attribuivasi ai precedenti Ministeri. La Costituzione allora compilata (17 aprile), oltre le garanzie consuete, portava abolite la confisca e la pena di morte; il popolo fa le leggi mediante i suoi rappresentanti; il potere esecutivo è affidato a due consoli biennali; tutelano la Costituzione dodici tribuni quinquennali inviolabili e rieleggibili; il diritto di pace e guerra risiede nell’Assemblea, indissolubile, triennale, e dov’è elettore ed eleggibile ogni cittadino di oltre ventun anno; i consoli sono responsali anche l’uno per l’altro, hanno diritto di grazia e facoltà d’eleggere i funzionarj. Alle Potenze diramavansi manifesti, sfavillanti d’eloquenza, speciosi di ragioni; uditi, non ascoltati: e declamazioni contro il tradimento del Piemonte e le riazioni della Toscana. Di rimpallo da Gaeta protestavasi contro ogni atto della Repubblica, e singolarmente contro l’usurpazione de’ beni ecclesiastici, e l’arresto dei vescovi di Fermo, d’Orvieto, di Civitavecchia, accusati di tramare una controrivoluzione; di frati, supposti autori di scritture sommovitrici, e condannati alle galere. In fatto molte terre rivoltavansi gridando il nome del pontefice, altrove cozzavansi papalini con repubblicani. La rotta di Novara aveva elevate le pretensioni principesche, fin a domandare l’incondizionata rintegrazione del dominio papale; onde altro scioglimento non rimaneva che l’intervenzione forestiera. Ben merita si indaghi perchè, fra tanti troni scossi e principi sbalzati in quell’anno, solo il papa eccitasse l’universale interesse; scismatici ed eretici come cattolici, principi come repubbliche, Russia e Prussia come Spagna e Francia si offersero a ristabilirlo; da tutta Europa non solo, ma dalle altre parti del mondo, dalla Cina, dall’Oregon, vescovi, Governi, privati, spedivano condoglianze al pontefice ed esibizione di ricovero[120] e sussidj di denaro quando i consueti gli erano mancati. In Francia la rivoluzione romana vi avea perduto le simpatie appena trascese, tutti vedendovi operare colà gli stessi che aveano sovvertito Parigi; molti dipartimenti fecero indirizzi al pontefice; Avignone gli rammentò l’antica residenza; ed essendosi sparso che egli arrivava in Francia, l’Assemblea nazionale interruppe i suoi lavori per decretare i modi di riceverlo, e lasciare campo di corrergli incontro; Marrast, che vi presedeva, «assicura il nunzio che la Repubblica si terrebbe fedele alle tradizioni che palesarono la Francia ospitale ai grandi infortunj, e ossequiosa alle più nobili»; Thiers e Montalembert all’assemblea francese, Donoso Cortes al congresso di Spagna, lord Lansdowne al Parlamento d’Inghilterra eccitavano a sostenere la più santa e rispettabile debolezza, quella dell’oppresso e dell’innocente. Al primo annunzio della uccisione di Rossi, erasi in Francia pensato accorrere, e domandossi al Parlamento un milione e ducentomila lire. Che se Ledru-Rollin detestava questo spegnere una repubblica sorella, mentre l’articolo quarto della Costituzione portava: «La Repubblica francese rispetta le nazionalità forestiere, non adopera mai sue forze contro la libertà di verun popolo»; Thiers rispondeva essere follia sperar libera l’Italia senza guerra, e guerra non poteano assumersi i Francesi, tanto meno per una _nazione che non combatte_, e che sta in mano di ridicoli arruffapopolo. Odilon-Barrot ed altri in maggior fama di liberali incalorivano a una spedizione, non per istrozzare le istituzioni democratiche, anzi per consolidarle nella penisola, e farvi rispettare la sovranità del popolo, mettendolo in grado di governarsi da sè col sottrarlo a una fazione assassina, e per bilanciare coll’ingerenza francese l’illimitata austriaca[121]. Anzi il soccorrere o no l’Italia divenne occasione d’una nuova sommossa in Parigi, che vinta, crebbe solidità al Governo, e alla parte che, coll’affisso di cattolica, zelava il ricomponimento della quiete dentro e fuori. Il Buonaparte, munito dalle antiche aderenze di sua casa e da un nome storicamente famoso, ottenne col suffragio universale la presidenza della Repubblica francese; e professatosi restauratore dell’ordine e della pace, mandò assicurazioni ed offerte al papa, e propose d’intervenire coll’armi, unico modo d’assestare la media Italia, e impedire che ivi pure onnipotessero gli Austriaci. Questi, comandati da Wimpfen, entrano in Ferrara e in Bologna che di nuovo oppose resistenza, e postone a governo militare il Gorgowsky, dissipate una resistenza coraggiosa del Garibaldi e le inette del Zambeccari non secondate dalla popolazione, occupano senza fatica tutte le altre città di Romagna, ripristinandovi il dominio papale e la legge stataria: e il ministro d’Austria dichiarava proporsi unicamente di soddisfare ai voti del santo padre, identici con quelli del mondo civile, il quale non può soffrire che la libertà e indipendenza ne siano distrutte da una anarchica fazione. Il presidio d’Ancona resistette ben venticinque giorni, finchè la popolazione domandò la resa, stanca di vedersi insanguinata da civili assassinj. Altri Austriaci dalla Toscana, occupata senza difficoltà, accennavano ingrossarsi a Foligno, e per Val di Tevere congiungersi negli Abruzzi coi Napoletani. Questi avanzarono grossi verso Velletri, e se non era un duro cozzo opposto dalle bande di Garibaldi, arrivavano sopra Roma, munita solo di frasi. Gli Spagnuoli sbarcati a Fiumicino, mossero per l’Umbria superiore; ma nè questi nè quelli contarono nel decorso de’ fatti, tutti dovuti alla Francia. Questa conservava ancora il nome di repubblica, sicchè sapeva di strano che intervenisse a spegnere una Repubblica, e parve ella stessa vergognarsene col parlare benevolo mentre operava ostile. Oudinot, comandante la spedizione di solo ottomila uomini, da Marsiglia proclamava (20 aprile): «Il Governo, risoluto a mantenere dappertutto la nostra antica e legittima influenza, non ha voluto che i destini italiani possano essere in balìa d’una Potenza straniera, e d’una fazione in minorità. Soldati, inalberate la bandiera di Francia sul territorio romano, affinchè l’Italia deva a voi quel che la Francia seppe conquistare per se stessa, l’ordine nella libertà». E giunge a Civitavecchia (25 aprile), non dissimulando di volere stabilire il Governo pontifizio, rinettato come già era dagli abusi, e sbarca fra le grida miste di «Viva la Repubblica francese, viva la Repubblica romana»; ma subito dichiara non essere venuto a sorreggere un Governo non riconosciuto, bensì a rannodare tutti gli amici dell’ordine e della libertà: parole inefficaci, come le pompose con cui i repubblicani cercavano insinuare ai soldati francesi di far causa con loro, vedendo l’ordine e la felicità che regnava nello Stato. Qui un turpe intralcio di promesse e negazioni e contraddittorj manifesti, la cui necessità non iscagiona Oudinot, il quale mettea fuori un proclama. E cresciuto di truppe, batte la marcia su Roma (21 maggio). Ma dodicimila Romani irregolari affrontano i sedicimila Francesi, e per nove ore sostengonsi tanto, che questi «reputano prudente ritirarsi la notte». Tale vittoria di gente _che non combatte_, acquistò rispetto e migliorò la situazione del Governo[122]; nell’Assemblea di Francia si imprecò ai ministri, che i soldati di Francia mutavano in gendarmi dei despoti, e faceano esecrare la nazione quanto i Croati: ma i ministri trovarono scappatoje, e spedirono Lesseps a proporre che i Romani invocassero la protezione de’ Francesi, riservando al popolo libertà di risolvere sulla forma di governo, e garantendo da ogn’altra invasione straniera. L’Assemblea romana rispondeva, dolerle non sia ne’ suoi poteri di accettare i termini proposti; lunghi furono i parlari: Lesseps consentì forse più che non portasse il suo mandato; Oudinot disdisse gli accordi: perocchè quello teneva sue istruzioni dal Ministero, questo da Luigi Buonaparte[123]. Il quale l’8 maggio aveagli scritto: — Io sperava che gli abitanti di Roma, aprendo gli occhi all’evidenza, riceverebbero un esercito che veniva con una missione benevola e disinteressata. In quella vece i nostri soldati furono ricevuti nemicamente: l’onor nostro militare è impegnato, nè soffrirò che sopporti smacco». Così per punto d’onore la Repubblica francese impegnavasi in una guerra di popolo, deplorabilissima per l’Italia. Ben presto seppesi che una nuova Assemblea aveva approvato la spedizione di Roma, e detto di voler ripristinarvi il principato ecclesiastico. «Coll’uccidere la Repubblica romana vogliono farsi scala a uccidere la francese», gridarono i sommovitori, e spinsero il popolo di Parigi ad un subbuglio; ma assaliti senza pietà, resta affogato nel sangue l’ultimo grido che si levasse a favor di Roma. L’esercito francese presto ebbe occupato Monte Mario e la villa Pamfili, con cinque batterie di campagna, una d’assedio; ricevette rinforzi e minatori, sin a contare trentaseimila uomini, otto squadroni di cavalli, sessantasei bocche d’artiglieria. I Romani armavano quattromila novecento uomini di fanteria regolare, seimila settecento d’irregolare, ottocentottanta cavalli, centotto bocche d’artiglieria, ma molte inservibili e con esse doveano difendere una mura che gira venti miglia. Lisabe, Sterbini, Cernuschi, lepido e intrepido commissario delle barricate, non requiavano da ordini e decreti, demolire e munire, far dal popolo e dalla guardia civica giurare di morire piuttosto che cedere. Il padre Ventura, filosofo e religioso men accomodante del Gioberti, studiava le guise di conciliare la democrazia col papato, allegando che prima del 1796 il papa non era che patrono d’un aggregato di liberi municipj, talchè diceasi «La santa Chiesa di Dio e la Repubblica dei Romani»: ma il padre Gavazzi e l’abate Dall’Ongaro eccitavano alla difesa della Repubblica come ad opera santa; la principessa Belgiojoso allestiva spedali, a cui le monache somministravano filacce e bende; i declamatori, che allora diceansi missionarj, apostolavano la guerra di Dio e del popolo: e chi potrà ripetere quante si prodigassero parole e mozioni da que’ che non voleano combattere? quanto si spingesse a infocolar l’odio contro il papa? Ciciruacchio andava pei palazzi in cerca delle preziosità, anche di quelle che non poteano servire a fare moneta per Dio e il popolo; oggi progettavasi di bruciare tutti i confessionali; domani, a pretesto di difesa, correasi a disertar le ville, e nella Borghese abbattere quegli alberi secolari, sotto cui la plebe romana solea venire a ricrearsi a spese dell’odiata aristocrazia. Qual tripudio quando in una casa stanavasi un Gesuita, vestito d’altre divise perchè le sue erangli proibite! Fu volta che si colsero alquanti vignajuoli, e come gesuiti mascherati vennero dal popolo fatti in minuzzoli: un prete, per accusa d’avere sparato contro il popolo, fu trucidato a furia: ai vescovi era colpa il carteggiare con Gaeta, quasi là non fosse il loro capo spirituale: un Zambianchi forlivese arrestò nelle provincie quei che credeva avversi alla Repubblica, e chiusili nelle catacombe di San Calisto, ivi li processava e uccideva compendiosamente, finchè i triumviri mandarono a sospendere quel macello, e liberarne dodici frati e preti. Se gli uccisi fossero centinaia o soli sette è varia fama; ma basta pel vituperio suo, e di chi non sapea che «offrirlo all’esecrazione della patria». Senza esercito regolare nè sperimentati capitani nè buoni artiglieri, eroi improvvisati fecero costar caro l’acquisto della città eterna: fu ammirato uno stuolo di giovani lombardi, che, sebbene alieni dal dogma di Mazzini, pure credettero dell’onor nazionale il combattere e morire; e vi perirono Luciano Manara che li capitanava, il poeta Mameli genovese, il vicentino Zampieri, i milanesi Emilio Morosini, Enrico Dandolo, il cui fratello narrò le loro imprese con quella calma affettuosa che persuade e guadagna gli spiriti. Mentre questi faticavano, combattevano, morivano, i triumviri e l’assemblea, per far anch’essi qualche cosa, peroravano, decretavano, riformavano, faceano provvedimenti, che atteggiavansi da eroici anche quando insinuati da paura o adulazione della plebe tumultuante; come di dispensare i giovani da esami e studj per ottenere i gradi accademici, di spartire fra’ poveri tutti i beni ecclesiastici, di attenuare il prezzo del sale, di ricoverare la plebe ne’ conventi, restringendo in modeste abitazioni i frati e le monache, le cui masserizie erano date agli asili dell’infanzia; e al popolo dicevano: — Perseverate, voi difendete in Roma l’Italia e la causa repubblicana del mondo». Fra ciò anatemizzavano il papa, la Francia, i traditori, e proseguivano «con calma e dignità maravigliosa l’opera legislativa» (LA FARINA), come Dio sul Sinai dava la legge tra il fragore delle procelle. Oudinot, compiti i preparativi dell’assedio (13 giugno), invita ad accettare l’amicizia di Francia; ed ha per risposta «preferirsi la morte all’oppressione». Allora comincia il fuoco, e palle e bombe colpiscono i monumenti sacri all’arte ed alla religione, invano reclamando i consoli esteri, invano esclamando il Governo, — I giovani uffiziali, i nostri improvvisati militi, i nostri uomini del popolo cadono sotto il vostro fuoco gridando, _Viva la Repubblica!_ I prodi di Francia cadono sotto il nostro, senza grido, quasi disonorati; non uno che, morendo, non dica ciò che uno de’ vostri disertori ci diceva quest’oggi: _Proviamo in noi stessi qualche cosa, come se combattessimo contro fratelli_». Infervorata l’oppugnazione, la mura fu superata; eppure si continuò a combattere, pronunziando, «Roma rovini piuttosto, ma si difenda in Roma la dignità della stirpe italiana»[124]; poi fu dato l’assalto generale dopo trenta giorni d’assedio, ove i Francesi perdettero mille uomini (30 giugno), fra cui cinquantasei uffiziali, e forse il triplo noi. Il Triumvirato rassegnava i poteri all’assemblea: questa dichiarava cessare da una difesa divenuta impossibile, ma si radunò in Campidoglio a proclamare la allora compita Costituzione, ad ogni articolo urlando «Viva la Repubblica», intanto che i Francesi entravano (3 luglio), ricevuti dalle grida di «Morte a Pio IX! via gli stranieri! morte al _cardinale_ Oudinot!» Perocchè quel che cogli Austriaci non osavasi, qui si continuò, di far proteste e dimostrazioni e sciorinare bandiere: un prete che applause, fu lì lì ucciso e sventrato. Alfine vi è stabilito il governo militare e il disarmo di tutti, giacchè non finivasi di assassinare Francesi; insieme _Tedeum_, e panegirici a Oudinot «stromento della Provvidenza, che avea compito un’opera sociale e religiosa, liberalo Roma dalla tirannide straniera»[125]; e il titolo di cittadino romano per parte del Municipio, e una spada per parte degli amici dell’ordine, e il gran cordone dell’ordine Piano per parte del papa immortalarono il capitano, che le bandiere repubblicane sospese in Nostra Donna di Parigi. Colà l’Assemblea nazionale votava ringraziamenti all’esercito e ai capi di esso, che hanno saputo sì bene conciliare i doveri della guerra col rispetto dovuto alla capitale del mondo cristiano: e Luigi Buonaparte, inviando ricompense a Oudinot, l’incaricava di esprimere alle truppe com’egli «n’avesse ammirato la perseveranza e il coraggio nel conservare il prestigio della bandiera francese»: il ministro della guerra assicurava quei soldati che «i loro compagni rimasti in Francia invidiavano il posto d’onore che ad essi era toccato in sorte». I triumviri ritesserono il viaggio dell’esiglio e le lunghe trame: i conti della finanza trovaronsi limpidi; nelle casse cinquecennovantasettemila scudi; la carta rilasciata dal Governo repubblicano non sommava neppure alla metà di quella decretatagli. Anche gli altri capi passarono in Isvizzera, in Francia, in Inghilterra; Canino da principe romano ben presto mutavasi in principe imperiale: Garibaldi invitava a seguirlo chi fosse disposto a fame, stenti, battaglie per trasportare la guerra nella campagna; e formato un grosso corpo, tentò aprirsi la via per l’Appennino sino a Venezia; ma rincacciato in Toscana dagli Austriaci, sgomentava sin quei che l’amavano con quella banda d’ogni gente, età e figure, lacera, lorda, a colori e foggie strane, carichi d’armi, di pennacchi, di barbe; scioltala poi e travestitosi, fu assai s’egli riuscì a camparsi alla riviera genovese. De’ suoi, molti furono presi, com’anche il padre Bassi, che a Bologna fu passato per le armi, dicesi con segni di gran pentimento: e pare in quella ritirata perisse anche Ciciruacchio. Molti de’ congedati piantarono una colonia a Bahía Bianca fra i Patagoni, con una Roma e il Tevere e il Pincio e l’Aventino, e non senza i delitti della nascente Roma, perocchè assassinarono fin il loro capo Salvino Olivieri. Tu sola ormai, povera Venezia, tu sola reggevi; eppure, come all’altra tua caduta, t’insultarono, non già i nemici che appresero a rispettarti, ma i sedicenti amici d’Italia, perchè portasti il nome di repubblica senza contaminarlo, perchè meno di tutte le altre insorte avesti delitti e disordini: chi altro non potea rinfacciarti, t’apponeva d’esserti mostrata veneziana più che italiana, municipale più che nazionale. Ma in tempo di rivoluzione chi si cura d’appurare la verità? chi ancor meno di sostenerla? L’armistizio di Milano non faceva cenno di Venezia se non come di città appartenuta all’Austria; dimenticando che s’era redenta con regolare convenzione, poi liberamente fusa col Piemonte. Per questo abbandono proruppe il malcontento, e dichiarando rotto ogni legame colla Sardegna, un’altra volta Venezia si trovò libera di sè, e un’altra volta (20 agosto) scelse il Governo a repubblica; e Manin, assumendo i pieni poteri col colonnello Cavedalis e l’ammiraglio Graziani, proferiva non doversi avere alcun colore politico, ma occuparsi solo della quiete interna e della difesa esterna. Era dunque un Governo di mera conservazione; e Manin (21 agosto), in una memoria a Palmerston, capolavoro di limpida, calma e piena esposizione, annoverava il diritto storico di Venezia alla propria indipendenza, e come l’avesse acquistata nel marzo: «non avendo tradizioni monarchiche, non aristocrazia ricca, istrutta e possente, proclamò la repubblica democratica, cioè quel governo che legalmente esisteva quando l’iniquo trattato di Campoformio costituiva di fatto l’austriaca dominazione. Ma Venezia intendeva operare, non secondo interessi e ambizioni municipali, bensì per l’interesse comune di tutta Italia; perciò ripetutamente dichiarava che il reggimento da lei proclamato era affatto provvisorio, e che, finita la guerra d’indipendenza, i rappresentanti di tutte le popolazioni italiane avrebbero deciso sul compartimento territoriale e le forme governative, secondo che dal comune italiano interesse fosse richiesto». Ma oggimai il punto non stava nel liberare l’Italia, bensì nel tenersi a galla tra il naufragio universale, e forse aver buoni patti nelle conferenze di Brusselle. Bastide, il più liberale fra i ministri della Repubblica francese, avea preso appiglio dall’_Italia farà da sè_, per non soccorrerla, dicendo che, se fossero stati richiesti in tempo, i Francesi sarebbero accorsi, mentre non se n’era mostrato che paura[126]. Venezia invece era incolpata dagli Italianissimi d’avere fin dall’origine sperato nella Francia; ora essa Repubblica ricorreva ad una Repubblica; il Governo di Francia, sollecitato da Tommaseo e Mengaldo, vedea volentieri un’occasione di far contrappeso al funesto armistizio, e di mostrare che non era finito tutto, serbando così titolo d’interporsi[127]. Ma essendosi intanto suggerita la mediazione pacifica, si richiamarono i tremila uomini, de’ quali erasi ordinato l’imbarco. Il barone Wessenberg (6 7bre) al signor La Tour incaricato degli affari di Francia, mostrava il diritto che, malgrado l’armistizio, all’Austria competeva di sottomettere Venezia: pure prometteva che, se questa e qualunque altra parte del Veneto non ancor occupata ritornassero al dominio austriaco, avrebbero intera amnistia, e le istituzioni liberali, fondate e calcolate sulla nazionalità, che l’imperatore si obbligò di dare alle provincie lombardo-venete. E il 10 settembre insistendo presso il visconte di Ponsonby, ambasciadore inglese, perchè il Governo sardo cominciasse le trattative di pace, soggiunse: — L’Austria, limitando le proprie esigenze allo stretto diritto, allo stato di possesso garantitole dai trattati, e obbligandosi di dare alle sue provincie italiane le istituzioni più liberali, fondate sulla nazionalità della loro popolazione, offerse tutte le agevolezze che se le poteano chiedere per giungere alla pacificazione». A Venezia trovavano bel campo quelli che voleano fare l’eroe con poco rischio, sebbene i veri prodi sapessero cogliere occasioni di mostrare valore nelle sortite. Mentre questi mostravansi disposti a sostenere il giuramento di perire abbracciati all’ultimo cannone che sparasse contro lo stendardo giallo e nero, si arrabattavano gl’irrequieti e gli appaltoni di tumulti e dimostrazioni; moltiplicavano feste per tutte le vittorie che si sapeano o fingeano, feste per dedicare i vecchi caffè al nome del padre Bassi, del padre Gavazzi, dell’avvocato Zannini, feste pel vicino arrivo di centomila Ungheresi, che, sparpagliato l’esercito austriaco, accorreano a liberare l’Italia. Alcuni de’ più fervorosi, come i poeti Revere e Dall’Ongaro veneti, Maestri lombardo, Mordini toscano, clamorosamente insistevano perchè il Governo s’intitolasse lombardo-veneto; Correnti predicava il Piemonte. Proclamatasi la Costituente italiana, davasi aggravio al Manin di non secondarla, di comprimere, anzichè eccitare gli spiriti: cartelli sediziosi e giornali virulenti l’attaccavano: stanco de’ quali, il popolo gridava viva a Manin, e morte al Sirtori, animoso lombardo, che credeasi consigliatore di estremi: i caffè denunziavano come spie gli scalmanati; certo rendeano impossibile il governare, finchè Manin osò quel che nessun altro, mandarli via, e subirsi le taccie di tiranno, d’inquisitore di Stato. All’annunzio che il Piemonte tirava di bel nuovo la spada, Manin rispose lietamente, cercando accorressero al campo quei che inutilmente sbraveggiavano per piazza; Pepe proponeva che l’esercito sardo si dividesse in due, e mentre l’uno proteggeva da Alessandria i confini, l’altro volgesse a Padova, e si congiungesse col veneto, ch’egli in fatto dispose per raggiungerli a Rovigo, e prendere gli Austriaci di fianco: ma si seppe all’istante medesimo la mossa e la rotta. Haynau, grondante del sangue di Brescia, corse a intimare a Venezia che omai cessasse da un’inutile resistenza, quando ogni speranza era caduta; ma l’Assemblea decretò (2 aprile): — Venezia resisterà ad ogni costo. Manin è investito di poteri illimitati». Il decreto fu impresso in medaglie; e di fatto la Donna adriaca mostrò l’eroismo degli ultimi giorni, come Milano avea mostrato quello dei primi. Radetzky, vincitore del Piemonte, venne a posta a Mestre «per esortarvi un’ultima volta, coll’olivo in una mano se date ascolto alla voce della ragione, colla spada nell’altra per infliggervi la guerra sino allo sterminio se persistete nella ribellione»: ma il presidente non potè che notificargli il decreto dell’Assemblea. Perchè non fossero sole parole, bisognò pensare seriamente alla difesa. In ottocentomila lire consistea tutta la ricchezza della Repubblica quando fu proclamata, nè proventi offriva una città senza territorio, senza commercio: eppure tre milioni al mese voleansi per le spese. Si chiesero gli ori, e volenterosi li diedero i signori: nè fu mestieri di provvedimenti, quali fece la grassa Lombardia, di sospendere i pagamenti del Monte e toccare il deposito dei pupilli; si aperse un prestito di dieci milioni con ipoteca sui palazzi pubblici; ma sebbene per le terre italiche si facesse un gran parlarne in prosa e in versi[128], e un gran sottoscrivere centinaja di migliaja di lire, appena mezzo milione vi arrivò: stabilita una banca, che emise biglietti di corso forzato; il Comune venne a sussidio o garanzia, mentre i privati offrivano cambiali, letti, vesti, biancherie; dipoi il Piemonte vi decretò seicentomila lire al mese, ma presto dovettero cessare. Europa ammirava quella magnanima, pure non la soccorreva. Le difese di Venezia abbracciano da settanta miglia, divise in tre circondarj: il primo dalla città va a Fusina, poi per Malghera giunge alle Porte grandi del Sile, girasi a Treporti, finisce a Sant’Erasmo, con diciannove forti sopra quarantadue miglia: il secondo è la linea di Lido, dalla punta San Nicola a Malamocco, Alberoni e fin all’estremità de’ Murazzi di Palestrina, per venti miglia con tredici forti: il terzo abbraccia Chioggia e Brondolo sin alla foce della Brenta con sei porti. È dunque tenuta inespugnabile da chi non sia provveduto di buona flotta: il ponte meraviglioso, che con ducenventidue archi unisce Venezia al continente, opera appena finita l’anno avanti, fu rotto e fortificato[129]: i pozzi artesiani di recente trivellati, supplirono al difetto d’acqua. Trentamila Tedeschi, liberi omai da ogn’altro nemico, circondavano la laguna col generale Haynau e con tremendo materiale d’assedio, mentre la flotta austriaca si affacciava ai Murazzi. Il genio, l’artiglieria, gli zappatori austriaci ebbero a sostenere sforzi portentosi onde macchinare via via i mezzi di attacco: intanto che gli eroi improvvisati di Venezia profittavano della docilità della popolazione e della conoscenza dei luoghi per respingerli; e se la flottiglia avesse ella pure messo altrettanto d’ardore e di costanza, forse non bastavano i tesori e le ventimila vite che l’Austria dovette scialacquare per recuperare Venezia, a più caro prezzo che non le fossero costate le due campagne di Piemonte. Il forte di Malghera, difeso con perseveranza eroica, fu forza abbandonarlo (27 maggio): e rotte le trattative, e dissipata ogni speranza su forestieri, pure si volle resistere, sovrapponendo alla guerra il generale Ulloa napoletano, il Sirtori milanese, il veneto Baldisserotto. La nuova dittatura pareva elidere la prisca, ma l’amor patrio evitava gli urti, e Manin seppe imbrigliare gli scalmanati, affrontava non solo le bajonette, ma che, più costa, le ingiurie e i vituperj de’ falsi patrioti: egli solo fra i governanti dell’Italia conservossi non soltanto, ma ricuperò la devozione del popolo; i barcajuoli gettavano i berretti e se medesimi sotto a’ suoi passi quando andava all’arsenale; e mentre tutt’altrove il potere sbolzonavasi da una mano all’altra, egli il tenne fino all’estremo. Il ministro De Bruck, notissimo ai Veneziani perchè anima e testa della società triestina del Lloyd, venne a trattare[130]: e i nunzj di Venezia vollero conoscere la costituzione che l’imperatore d’Austria prometteva ai Lombardo-Veneti; e la dispettarono, perchè le cariche amministrative non erano tutte serbate a Italiani: perchè i diritti fondamentali poteano essere aboliti in tempo di guerra o sommossa; perchè la parte più importante della legislazione veniva riservata al Parlamento viennese, anzichè all’Italico; perchè non creavansi eserciti nè flotta italiani, nè si stabiliva rimarrebbero in paese. Così Venezia, incolpata allora e poi di municipalismo, fu la sola che, quantunque abbandonata dalla flotta sarda e dai sussidj fraterni, e bloccata sempre più strettamente, in quegli estremi trovasse coraggio per discutere sulle franchigie, promesse al regno lombardo-veneto. Ma il tempo dei patti era passato; e compresse tutte le rivolte e tutte le speranze, Radetzky intimava d’arrendersi a discrezione. Al 28 luglio arrivarono le palle fin presso la piazza, lanciate dalla distanza, fin allora insuperabile, di cinquemila ducento metri. Dal quartiere di là da Rialto si stivò allora la gente in quel di Castello, serenando sotto le procuratie, e principalmente ne’ giardini pubblici; la fame s’incrudiva, dovendo misurarsi a miccino un miserabile e schifoso alimento: poi più non restava un tozzo di pane, non un sacco di farina, e il mare era chiuso. Gli animi conservavansi tranquilli e fin sereni: ma nei corpi illanguiditi imperversò il cholera, che straziava i feriti nello spedale e la plebe accumulata, e in un mese seimila seicentrentaquattro persone colpì, n’uccise tremila ottocentrentanove. Di fuori giungevano notizie sempre più sconsolanti; caduta la Sicilia, caduta Roma, agonizzante la repubblica francese negli abbracci napoleonici: erasi sperato nell’Ungheria, poi, mentre s’aspettavano gli eserciti promessi da Behm e Kossuth, si seppe anche quella rivoluzione soccombuta alla fortuna dell’Austria e, solita canzone, ai tradimenti. Non era più costanza ma ostinazione il resistere, e l’Assemblea decretò si trattasse col nemico (22 agosto). Radetzky consentiva piena amnistia, solo obbligando alcuni a partire; si conserverebbe valore alla carta moneta comunale, spegnendola a carico della città stessa[131]; nessuna multa di guerra. I disfrenati che suscitavano tumulti quand’era bisogno di ordine e calma, cercarono insozzare quell’agonia col volgere l’ira del popolo e fin i cannoni contro Manin, gridato traditore; ma egli potè ancor una volta, mediante il popolo, imporre alla ciurma battagliera e scrivacchiante; e arringato dal solito balcone del palazzo ducale verso Piazzetta, scende colla spada in pugno, e dissipa i tumultuanti; essi rannodansi a Santa Lucia, ed egli con pochi gendarmi e Svizzeri, di cui erasi fatta una guardia, va a disperderli senza sangue. Allora, rassegnati i poteri, avviossi all’esiglio, dopo perduta una ricchissima clientela e i pochi averi suoi: ventimila lire gli furono decretate dal municipio, in benemerenza della mantenuta quiete; or vive di fare scuola, e gli eroi gli ammanniscono il pane dell’insulto. Il 28 agosto l’aquila bicipite sventolava ancora dai pili di San Marco. CAPITOLO CXCIII. Rassetto forzato. Moto ripreso. Adunque desiderj, concessioni, riforme, esplosione, anarchia, reazione si succedettero con rapida vicenda, questa volta come le altre, e nulla meglio istruendo delle altre volte. Delle quali abbiamo veduto riprodursi il decorso e gli errori, e sempre a chi citava il passato rispondersi, — Ma adesso è tutt’altra cosa, adesso l’idea è più diffusa, il popolo vi ha parte, la ragione è maturata»[132]. I fatti, e ancor meno i sentimenti si presumerebbe dedurre dai giornali, dai libercoli, dai manifesti d’allora, nè tampoco dalle dicerie alle Camere o dalle relazioni d’inviati e ministri, improntate della fisionomia personale, e sottomesse alla necessità o di attutire, o d’infervorare, o di sottrare se stessi all’insulto plebeo, o di ottenere applausi col blandire le vulgarità. Coloro che più tardi tolsero a parlarne con serietà e connessione, acquistano valore quando espongano atti, di cui furono testimonj o parte: ma poichè solo i grandi e i furfanti hanno coraggio di confessare i proprj falli, e i governanti di quel tempo non erano nè l’uno nè l’altro, i più si restrinsero ad apologie di sè, a requisitorie contro gli avversi, riboccanti di quell’individualità che rivela anima e intelligenza mediocre; e dove, non che aver appagata o assopita la propria coscienza, nè tampoco all’amor proprio soddisfecero, giacchè provocarono ricozzi fino alla calunnia, e finirono col rimpicciolirsi nell’esiglio e nella sventura che suole ingrandire. I forestieri ci pajono la più parte ingiusti e parziali; e fino i migliori, quelli che trattano d’arte militare, cascano nell’assurdo quando toccano al civile. De’ nostri i più scrissero ostilmente, perchè chi loda ha aria di adulatore, di franco chi maligna; oppure sistematicamente vantarono un partito e incriminarono l’avverso, a persone vive e onorate imprimendo stigmate d’infamia senza processo, coll’iniquità che si rimprovera alle corti statarie, supponendo uno onesto fin a un dato istante, e ribaldo e scellerato dopo quell’istante, senz’avvertire il perchè di tale mutazione[133]. Ve n’ha che, complici o godenti, ogni disgrazia spiegano col tradimento, stile da caffè; ovvero colla superiorità della forza, che è un precipitarsi nel fatalismo e umiliarsi in eterna inferiorità; o come il vulgo, incaricano di tutti i danni i Governi, riuscendo così insulsi giudici e assurdi maestri. Ve n’ha che non immolerebbero mai i rancori personali alla verità o alla patria; lodando o biasimando per proposito, per nomi e prevenzioni, gli scrittori municipali, restringono la morale e la politica a parziali aspetti, dando valore a fatti e aneddoti che immeschiniscono i concetti: mentre lo storico, siccome l’oratore, è fuoco fatuo, che brilla non riscalda, abbaglia non guida, e produce effetti talor perniciosi, sempre effimeri, ogniqualvolta non si palesi grave, convinto, disinteressato. Alcuni vivranno malgrado la passione, o forse a causa della passione, perchè generosa e sincera. Montanelli volle onestare la propria causa colla virtù e la gentilezza, e farla amare, mentre Guerrazzi alla sua sospinge a sferzate, colla rabbia di chi soccombette e non può dire senza colpa. Farini vale nell’esporre i i Governi, le cospirazioni, la diplomazia, e coll’intrepido pronunziare e con certa dignità retorica acquista autorità. Ranalli, anch’esso di stile accademico, approfonda le tresche de’ cospiranti e il vigore delle moltitudini, attribuisce le colpe anche di queste ai governanti; ma rifacendo il proprio lavoro, ebbe la lealtà troppo rara di ricredersi d’opinioni e di fatti. Appartengono alla polemica, quando anche assumano proporzioni di storia, i racconti di Cattaneo, Ricciardi, Anelli, La Farina, La Cecilia...: interesse di romanzo ispirano Dandolo, Ulloa, la Belgiojoso, i narratori della guerra di bande. La turba desidera situazioni e giudizj ricisi; e allettata al linguaggio delle passioni, vuole panegirici o imprecazioni sulle persone e sui fatti che o carpirono ammirazione ed amore, o attrassero odj e spregi, del pari subitanei ed esagerati, portanti il carattere violento della passione, e l’instabilità che della violenza è espiazione. Il crepuscolo avversa del pari e la notte e il sole, perchè al pari lo dissipano: laonde la limpida sposizione dei fatti, che scoprirebbe l’erroneità dei principj, è bestemmiata dalle plebi, che gridano morte a Cristo e salute a Barabba. Troppi attesero a contentarle; troppi rinnegarono quel serio e modesto pudore che riconosce e i falli proprj e i meriti degli avversarj, quella lealtà che fa preferire la sicurezza della propria coscienza al trionfo delle proprie idee, quella sana imparzialità che deriva dall’abbracciare molte cose, e che è di buona giustizia insieme e di buon gusto; trascurano di ponderare la verità e fin la probabilità degli avvenimenti, quand’anche abbiano la sincerità di palesarli. E questo mostrare retorica invece di convinzione, quest’arzigogolare di sentimentalità quando fa mestieri di fredda ragione e di riverenza ai fatti, questo pretendere col fumo delle chimere colmare l’abisso che separa la difettosa realtà delle cose dall’ideale perfezione, convincono che poco s’imparò, e che domani ricominciando inciamperemmo alle stesse pietre, avremmo le stesse ignoranze e, ch’è peggio, le stesse mezze cognizioni, che furono causa principale della mostrata inettitudine[134]. Decomporre con rispetto quella miscela di lagrime e di sangue, non a servigio d’un partito, ma per isvolgere quello spirito politico, che è l’intelligenza del ben pubblico e il coraggio di farlo prevalere, in modo da farsi udire alla posterità, non è a sperare si faccia mentre così recenti sono le impressioni personali, i rancori di parte, le permalosità di parentela, di paese, di classe; e per affrontarli vuolsi un coraggio ch’è raro, un’abnegazione ch’è eroica, perchè tocca a ciò che l’uomo ha più caro, la reputazione propria; perchè, fra tepidi amori ed ire bollenti, si è certi di spiacere a tutti i partiti, di vederci decretate le gemonie anche mentre ci benedicono le anime schiette. Chi (primo distintivo de’ pensatori) si sottragga alla tirannide di qualsiasi fazione, resista alle idee d’un’età anche lusingandole, risoluto di non mancare alle proprie convinzioni per paura d’essere mal inteso o mal giudicato; accetti le dure conseguenze de’ fatti compiuti, e, pur vedendo il meglio, contentisi del bene; avendo già fatta la propria rivoluzione, al giungere della pubblica sappia cercare temperamenti e transazioni fra le opinioni proprie e le necessità dei tempi: colla confidenza in sè che, appoggiata a forti studj, è la condizion necessaria allo schiudersi de’ grandi talenti, osi repulsare l’errore con tutta l’energia che permette la pulitezza, e per amore dell’umanità calpestar vipere che certo lo morsicheranno; si proponga di restaurare la facoltà che nelle rivoluzioni più deperisce, il buon senso; abbondi di quell’attitudine pratica che, come nelle procelle, non guarda indietro ma avanti, e senta la necessità di compatirci tutti ove tutti errammo, quello potrà divenire fisiologo, non patologo della rivoluzione. Della quale, chi attenuò il merito de’ cominciamenti perchè favoriti da opportunissime contingenze, confessi che per grandi sfortune essa fu precipitata dappoi, e per le condizioni generali dell’Europa. Intanto era la prima volta che si trovassero a fronte i tre poteri della società; principi, plebe, popolo: quel de’ primi espresso dall’esercito, dalle ordinanze, dallo stato d’assedio; quel dei secondi dalle grida, dai giornali, dalle dimostrazioni piazzesche; quel del popolo dal pensiero, dagli interessi, dalla morale. E chi ha mai veduto tirocinj senza errori? qual meraviglia se Governi radicali, sostituiti repente a Governi petrificati, nell’incessante barcollare non mostravano nè coerenza, nè decoro? Le doti che costituiscono un buon capo non sono quelle che fanno buoni amici; nè il suffragio delle moltitudini s’acquista colla severità, l’esattezza, il sentimento della propria dignità. Quei capi governavano a sproposito, con deliberazioni lente, con partiti medj, colla debolezza che fomenta l’insubordinazione dei governati: ma perchè non furono deposti? e perchè i surrogati non apparvero migliori? e perchè l’audacia, indispensabile nelle rivoluzioni, si manifestò soltanto ne’ piazzajuoli che cogli articoli o coi fischi insultavano a principi fuggiaschi o a governanti inermi? Era anche la prima volta che Italia affrontasse grandi Potenze con vera guerra; e i vilipendj consueti dovettero ammutolire quando, non solo eserciti disciplinati, ma gioventù inavvezza, popolazioni pacifiche, città aperte, sfidarono la morte, sia coll’impeto istantaneo, sia colla più difficile perseveranza, e fin dopo sconsolati dello sperare. Ma l’inesperienza bellica ci avea fatto credere bisognasse munire ciascuna città; quasi le piccole e particolari difese vagliano contro a grossi eserciti e al fulminar delle artiglierie; quasi da popoli civilissimi e in pingui contrade possa aspettarsi l’eroismo de’ semibarbari: nè tampoco comprendemmo che i pochi e novizj, sorti a combattere un esercito agguerrito, devono evitare gli scontri di fronte, moltiplicando invece gli urti di fianco, dove anche il coraggio inesercitato assai vale se diretto da buoni uffiziali; ma che in nessun caso possono oggi vincersi le guerre senza la grande strategia. Appunto in vista di tali difficoltà, da trent’anni i pensatori, fedeli alla dolorosa teoria delle proteste, adoperavano per rimutare la potenza dalle spade alla ragione, e sfuggire la rivoluzione, la quale impianta la forza sopra al diritto e al dovere; ammazza le libertà coll’opprimerle quando trionfi, col farle temere quando vinta le invochi; prepara i popoli alla tirannia col meritarla, e ve li fa rassegnare per paura di peggio; scalza quanto rimane di fermo nelle coscienze, di generoso nelle convinzioni; deprime i caratteri, induce il bisogno di stordirsi, disvia dalla legale resistenza, avvezza al provvisorio, a confidare nel caso e nell’imprevisto. Il movimento cominciò pacifico, e i moderati dicevano, «Badate di non porgere pretesto a snudare le spade, perchè in quel giorno perirete»: in fatto, ogni volta che col subbuglio si provocò la forza, noi fummo percossi, trucidati, sbanditi; nel 1848 sfidammo il nemico in campo, e dovemmo soccombere, come succede ogni volta che al desiderio non corrispondono le forze o alle forze la volontà. E la forza trionfò di nuovo; ma noi continuammo a credere che una nazione vale per quello che pensa, ancora più che non per quello che fa, e sono le grandi idee che menano alle grandi cose. Più dunque che imputare altri, noi credemmo obbligo di esaminare noi stessi; e questo ci condusse anzitutto a confessare che si procedette senza sincerità, anzi coll’aborrimento dalla verità; ed oltre che è natura delle fazioni ostentare un fine diverso dal reale, il sincerare i detti o gli atti dichiaravasi codardia e tradimento; si crearono fantocci ideali invece di persone; parole chiare e precise furono stiracchiate al senso delle passioni nostre; non uno dei mali accadutici arrivò senza essere predetto; predetto anche da voci ascoltate, ma che cessavano d’esserlo all’istante che diceano quello ch’era, non quel che si volea che fosse. Così tutti abusarono del principio, e traviarono nelle conseguenze. I politici dozzinali smarrironsi, perchè tenevano in veduta unicamente la nazione, mentre il mondo è invaso da idee, da interessi, da concetti, da fatti, che travalicano le angustie della nazionalità; e male attribuivano a persone singole quel ch’era sentimento della progrediente società, nel vortice della quale se vuolsi che non venga assorbito l’individuo è necessario accrescergli vigoria. I mutamenti riescono durevoli allorchè i più trovinsi d’accordo sopra un punto, e a questo convergano l’attenzione e le opere. Qui invece si volle innovare il tutto d’un colpo; modo di scontentare chi perde il goduto, nè ancora coglie lo sperato. Predicavasi l’affratellamento, e ciascun popolo o città o uomo adocchiava a convenienze particolari, dando agl’interessi privati il linguaggio e la maschera di interesse pubblico. Si ricantava la libertà, e s’impediva di fare, e nè tampoco pensare altrimenti, e dichiaravasi tirannide la repressione della licenza. Si tolse per iniziatore il papa, ma bestemmiandolo appena resistè alla corrente. Dai principi chiedeasi appoggio e spinta, e non si dissimulava di volerli sbattere appena cessassero di parer necessari. Era primo proposito l’emancipazione dagli stranieri, eppure quanto e più che da quelli si aborriva il dipendere uno dall’altro. Le grida di piazza doveano riscuotere assenso e lode a Torino e a Palermo, infamia a Napoli; parer sante come il martirio a Milano fino a un dato giorno, e dopo di quello sediziose. Ai soldati imponeasi di faticare, soffrire, vincere, e intanto se ne impacciavano gli atti e calunniavano i consigli, e moveasi querela del troppo che si facea per loro. Il suffragio universale dovea valere per fondere la Lombardia col Piemonte, non per istaccare la Sicilia da Napoli. La logica è più potente che non si creda. Ora è doloroso e istruttivo il confessare come le nazioni dalla nostra rivoluzione ritirassero le simpatie, che universali aveano concedute ai primi agitamenti. I Francesi del Governo parlavano di carpirsi la Savoja non solo, ma e il contado di Nizza; i Francesi avversi al Governo tentarono invadere e ammutinare la Savoja; mentre improperj ci erano lanciati dalle loro tribune, conforti ci venivano soltanto da pochi che voleano carezzare il vulgo fraseggiando la disapprovazione: la Dieta tedesca, attarantata di libertà, pure giudicò micidiale alla Germania lo staccare il Veneto dall’Austria: il demagogo Kossuth esibiva a questa ducentomila Ungheresi per reprimere l’Italia: a Radetkzy accorrevano studenti dalle Università austriache, crociati opposti ai nostri: da Inghilterra avemmo benevolenze, arringhe, libri; ma combattenti, prestiti, doni? Quegli stessi diplomatici che a suono di mani gridavano «Viva Italia», a noi dicevano all’orecchio, «Rassegnatevi e sottomettetevi»; e ai padroni, «Uccideteli pure, che n’avete diritto». E appena la cacciata del papa ne offrì un pretesto, sorse gara fra tutti gli stranieri nello spegnere questi incendj. Eppure anch’essi devono convenire che, se nel moto rimasero mediocri i mediocri di prima, se nei capi apparvero inettitudine e deficienza di senno civile e di militare educazione, in nessuno si videro le colpe dell’avidità, e onoratamente tornarono i più a guadagnarsi la vita faticando. Fra i deplorabili dissensi, tra l’urto di conservatori pusillanimi e di progressisti sovversivi, la nazionalità che dapprima era memoria, divenne affetto, e ne fu sentito più comunemente il bisogno, espresso da singhiozzi prima, dall’esultanza poi, infine dalle proteste. Verrà esso soddisfatto? Sì, purchè senza violare il diritto e la morale, senza persecuzioni: sì, qualora non si confonda l’unità nazionale coll’unità amministrativa: sì, qualora agl’inni non si surroghino elegie, cioè sempre lenocinj e sentimentalità laddove occorre robustezza d’abnegazione; qualora si cerchi come operare, più che non pretesti a non operare e lo sciocco onore di non essere nulla, non mescolarsi di nulla: nè si inglorii d’eroica astinenza quel dormiveglia di chi non sa cosa fare, e da cui appena tratto tratto riscuotono i bottoni di fuoco; qualora si assuma il coraggio di confessare i proprj sbagli, e nel ravvedimento ritemprarsi; qualora l’indipendenza la cominci ciascuno da se medesimo, fidando nell’energia personale, sviluppando le proprie facoltà, non questuando dallo Stato onori e profitti a scapito della dignità, che poi credesi di ricuperare col dir male e fare un’opposizione frivola e di calcolo. I giornalisti, la cui autorità è sempre grande in tempo e fra persone che non istudiano, e che, abdicando alla propria, si rassegnano a pensare colla testa altrui, erettisi tiranni dell’opinione, blandendo agli ignobili istinti col gettare l’oltraggio in faccia alle persone e alle cose che la nazione era abituata a venerare per scienza, per politica, per virtù, creavano abilità e virtù fittizie; inducendo a tremare di mali finti, accecavano sui veri, ch’essi non conosceano per imperizia o dissimulavano per pravità: quel baratto di lodi e strapazzi; quel farnetico ora di denigrare ora di esaltare senza nè verità nè riflessione, stillando il biasimo nelle lodi; quella baldanza di rancori servili, quella gelosia del bruto contro ogni merito che trascenda la mediocrità, quell’adulare alla ciurma illusa o vendereccia ch’essi intitolavano popolo, sbigottì i buoni, che di rado sono eroi, e ancora una volta il numero impose al merito, cioè la forza all’intelligenza; ed anche nel campo di questa restò la sovranità del vulgo, che fu il vero nemico in tutte quelle vicende. All’ombra di costoro vegetava la fungaja delle stemperatezze; una folla impressionabile, come i solfanelli, accesa al minimo attrito, spenta al minimo soffio, che cangia convinzioni a norma della gazzetta che legge o del buffone che la fa ridere: una furia di sollevare la inesperta democrazia al posto cui richiedonsi e abilità e pratica e stima e disinteresse; un’esuberante fede nell’attitudine dei novizj; una presunzione in sè, che fa ripudiare la mano del fratello; una dicacità, che può spingere a morire, ma non riesce a dar vittoria; un preferire il trionfo de’ concetti giornalieri al trionfo della coscienza; un ricusare il bene evidente per ismania d’un bene fantastico; un repudiare il tempo, il quale annichila le opere fatte senz’esso. Così ognuno vuole pagare la propria quota d’illusioni: così, sordi agli avvisi della sperienza, si attende solo ai colpi delle catastrofi. E s’altra volta mai apparve manifesto che, nell’individuo come nelle nazioni, il trionfo più difficile è quello sovra se stessi: giacchè molti seppero sacrificare la vita, non le passioni, che pure compromettevano il bene generale; pochi rinunziare a quella popolarità, che è l’appoggio e il pericolo delle anime fiacche; pochi mostrarono sapienza civile, robusta moderatezza, abilità riordinatrice, quel buon senso che, risolutamente volendo i beni essenziali, si rassegna agl’inconvenienti inseparabili; quella indipendente probità, che non vacilla secondo le tesi e antitesi della politica, tutte egualmente vere o false, perchè non hanno in sè la ragione dell’essere, ma sono spinte dal movimento sociale che sempre le alterna. Da ogni paese, oltre quelli che morirono d’angoscia od impazzirono, migliaja esularono, o costretti, o per moda, o motivi vergognosi mantellando di martirio. Il Piemonte principalmente ne riboccava; e mentre gli onesti e laboriosi vi trovarono onore e guadagno negli impieghi, nell’avvocatura, nell’istruzione, nella stampa, ne’ tanti lavori pubblici, e potentemente contribuirono a inoculare al paese ciò che di meglio offriva l’esperienza degli altri, la tempesta buttò sulla riva e schiuma e immondezze; e pretendendo pane, posti, potere, influenza, senz’abilità nè onoratezza nè fatica nè merito, sotto ai portici, nelle botteghe, ne’ circoli mantenevano una postuma convulsione galvanica; continuando i fischi anche dopo lo spettacolo; nè precedenti onorevoli nè nome illibato nè carattere venerando lasciavano immune; come in un incendio di cui i campati s’accusassero a vicenda, palleggiavansi ingiurie e oltraggi, persistendo nel satanico uffizio di rinfocolare le ire fraterne, di scagionare persino i tiranni col falsarne od esagerarne le colpe. Quelli che, stando in panciolle, aveano esclamato «vincemmo alle barricate, combattemmo a Pastrengo, repulsammo i Francesi da Civitavecchia», diceano poi «Carlalberto tradì Milano; Ruggero Settimo disertò dalla Sicilia; Mazzini e Brofferio fuggirono ad ogni approssimarsi del nemico»: e la calunnia tornò (come già Foscolo se ne lagnava nel 1816) il piatto che fra loro s’imbandivano i pazienti de’ medesimi dolori, stillando bava contro il partito o l’uomo avverso, colle reciproche incriminazioni diffondendo quella disamorevolezza che profitta soltanto agli oppressori. Insomma la rivoluzione aveva avuto per sola unità l’odio; si comprese ch’esso non basta alla riuscita, eppure sopravvisse, e da odio de’ dominanti divenne odio dei fatti. E se noi insistiamo su questi torti dei vinti, egli è perchè dilaniano il cuore più che le violenze dei vincitori; perchè le nuove speranze non possono fondarsi se non sopra le virtù che allora ci mancarono, o dai peccati d’allora saranno ruinate. Intanto da una parte ne derivava aborrimento del vero, spregio del santo, tentativi forsennati che bisognava mettere al bando militare; dall’altra a fiducie senza limite sottentrava uno scoraggiamento senza conforti, un disperare della vita morale e del progresso, dall’inettitudine de’ pochi arruffapopolo arguendo inetto il grosso della nazione; nessuno era contento della posizione propria, perchè nessuno credeasela imposta dal dovere, ma solo da un fatto che domani potrebbe cangiarsi, non essendosi che sospese le ostilità perchè v’era uno più forte; l’alleanza de’ principi co’ preti ingeriva l’idea che la religione sia maestra di servilità e complice d’oppressione; fra l’ancipite esagerare pervertivansi il senso comune e il concetto dell’onesto; il popolo, ingannato tante volte dalle idee, più a nessuna credeva, e spinto ad eccessi di cui soffriva le funeste conseguenze, rinnegava anche le massime sacrosante di cui quelli avevano usurpato il manto. Ciò rendea ben tristi i primi momenti della ristorazione. Eransi dissipate immense riserve, esaurite le finanze, cresciuti i debiti, buttato in corso moltissima carta monetata, gravati i Comuni, reso più costoso perchè più difficile il governare. I ristabiliti, non potendo impedire che si ricordasse e sperasse, dovettero premunirsi con quartieri incastellati, campi, truppe forestiere, eserciti ingrossati, sbirraglie, e lungo stato d’assedio che escludeva dalle condizioni normali d’ogni società incivilita, alla regolare azione de’ tribunali e dell’amministrazione surrogando l’arbitrio incondizionato del militare e le corti marziali, sciolte da quelle formalità che proteggono la vita e la sicurezza del cittadino. La commissione militare istituita a Este contro bande di ladri, dilatatesi con colore politico in quel confine della Venezia col Modenese e colla Romagna, dalle rivelazioni di alcuni ebbe appiglio a sempre nuovi processi, che portarono centinaja di supplizj[135]. In tre anni furono mandate a morte nel Lombardo-Veneto quattrocentrentadue persone, mentre non più che settantuna dal 1814 al 48: il che fatto conoscere all’imperatore, inorridito egli sospese quelle procedure eccezionali, e diminuì le pene portate dal feroce codice marziale di Maria Teresa. Con tanti fuorusciti e con tanti detenuti o vessati dalla rinascente Polizia, con tanti finiti per corda o polvere e piombo; colla fierezza inevitabile ad un potere costretto a pensare alla propria conservazione; colla tirannide o sistemata o abnorme, inducevasi ne’ popoli un erettismo convulso; la morale deteriorava peggio ancora che l’economia, giacchè le idee eccezionali presto si applicano anche in generale, per quanto assurde ed inique. Governanti reazionarj, mancanti della voglia o dell’attitudine di riconciliare la subordinazione colla libertà, l’ordine col progresso, vituperarono quanto erasi domandato dalla rivoluzione, smentirono quanto le aveano consentito; contro la petulanza plebea parve giustificata l’esuberanza clericale e soldatesca; dal traboccare delle esigenze trassero motivo a negare fin il giusto e il promesso; non credettero giovasse condiscendere alquanto ai soccombuti per conciliarseli, esaudire a ragionevoli domande per dare il torto alle inopportune, stringere in partito compatto tutti quelli che all’anarchia preferiscono l’ordine, persuadersi che ben governa soltanto chi si associa agli interessi, alle idee, ai sentimenti del popolo; che, quando i poteri rinunziano ad ogni iniziativa, perdono la cooperazione dei ben pensanti e dei ben volenti, e resta abbandonato il progresso a un’opposizione scarsa di logica e d’efficacia. Francia ha bisogno che alcuno faccia i suoi affari, riservandosi sempre di disapprovarlo: e l’accentramento fa che da Parigi parta l’ordine del come pensare e sentire, non meno che il cenno delle rivoluzioni. Luigi Buonaparte, che invano erasi provato in Italia, poi due volte ne’ dipartimenti, riuscì a Parigi a salire al maggior posto, cacciare in prigione o in esiglio chi si opponeva, e costituire un impero, che, sostenuto da rara abilità e da una irremovibile fermezza, prometteva i vantaggi del primo senza le rischiose glorie, e che cercava popolarità col mostrarsi premuroso degli interessi del popolo. Gli stessi che aveano improvvisato la repubblica per poter governare, invocarono la monarchia per essere governati; e siccome su Francia suol modellarsi l’Europa, caddero in discredito i Governi parlamentari. E questi furono aboliti in Italia, dove col lasciarli ineseguiti come a Napoli, dove con espressi decreti come nei paesi austriaci, nei ducati, in Romagna[136]. Il perdono del passato si proclamò dappertutto, ma con numerose eccezioni, e colla riserva di revocarlo ad ogni nuova ombra di colpa, e gravando di sospetti e d’esclusioni chi si sottraeva dalla forca. Forse unico nella storia fu il contegno del popolo lombardo ne’ primi tempi, a Governi senza ipocrisia ma senza raffinatezza, opponendo un’assoluta astinenza; non a teatri, non a feste, non a convegni, non badare ai soldati neppure per mitigarne la fierezza; pagare perchè costretti, e tenere sempre l’occhio fissato di fuori, come fosse uno stato precario e di mero fatto. Ma del silenzio e del non far nulla, si pretese lode come d’eroismo: quindi venerare ciecamente l’opinione vulgare, e amar ed aborrire una persona o una cosa sol perchè sgradita o benvoluta dai vincitori; vivendo cioè d’imprestito, e qui pure scomunando chi pensasse ed operasse non per moda ma per convinzione, impedendo così di formarsi un’opinione pubblica; e dimenandosi senza effetto, benchè non senza pericolo. Vigilava su tale situazione la stampa di fuori, e impediva anche atti innocenti col denunziarli, alterarli, malignarli: col qual modo al dignitoso contegno imprimevano aspetto di violenta obbligazione, attesochè al minimo declinarne infliggevano il marchio di fuoco e talora peggio. Anzi infliggevanlo a chi mai non disviò, sopra la diceria d’un frivolo, la lettera d’un malevolo; e convintisi d’avere accusato a torto, non aveano la lealtà di disdirsi; quand’anche ciò potesse valere in una società palustre, che trangugia le accuse a occhi bendati, e si nausea della più lampante discolpa. Venne a rincalzarsene anche l’armeggio delle società secrete, che scomparse al momento dell’azione, rinacquero dopo esauste le speranze; abbracciarono anzi tutt’Europa. Mazzini, benchè a Roma si fosse dimesso dal triumvirato, l’assunse di nuovo in Isvizzera, anzi la dittatura; e a nome del popolo romano, decretava, eleggeva ad impieghi, vietava di pagare le taglie, mentre esso ne imponeva per allestire nuove rivoluzioni, e rinfiancato dalle migliaja di profughi, spediva esploratori ed emissarj per tutto, e collegavasi all’unica fazione che stesse ancora in piedi, la comunista. Di là uscirono spesse condanne di morte che venivano eseguite fin nel mezzo di Milano, di San Marino, di Roma, di Bologna, di Ancona, e principalmente la Romagna fu contaminata di assassinj: orribile postumo della rivoluzione, che da una parte rese alla nazione quella taccia onde per due secoli era stata obbrobriosa alle genti civili; dall’altra anche fra gli educati offuscò il senso morale: fu anzi teoricamente sostenuto che sia necessario fra un popolo sprovvisto d’altri mezzi a punire i traditori; così agli assassini dando per complice la coscienza di tutta la nazione, alla quale interdicevasi fin il coraggio della pietà. Anche persone frementi di sdegni nazionali riconosceano inevitabili le eccezionali repressioni contro l’irrompere delle passioni brutali; e D’Azeglio, uno dei più moderati espresse, in un discorso ai proprj elettori, che l’Europa era stata salvata dagli eserciti e dalle corti marziali. Dalle particolari si passò anche ad uccisioni cumulative, non per iscoppio d’un popolo oltraggiato che spezza le sue catene e le pesta sul cranio degli oltraggiatori, ma sotterraneamente armando di stiletti un pugno di arrisicati o di venali, tutti delusi col mentire l’estensione della congiura e i mezzi di riuscita. Una commissione speciale a Mantova continuò lungo tempo un processo contro persone onorevoli, professori, parroci, dottori, perchè aveano diffuso cartelle del prestito mazziniano, e predisposto ad un’insurrezione. Di tempo in tempo se ne impiccavano alcuni, fra cui l’arciprete di Revere; e il giorno di sant’Ambrogio del 1852 si strozzò, con altri, don Enrico Tazzoli, professore di storia ecclesiastica nel seminario, raccomandatissimo per probità di costume, limpidezza d’ingegno, carità di opere[137]. Ebbe esacerbato il supplizio dalla sconsacrazione, fatta piangendo dal proprio vescovo per preciso ordine da Roma; dettò lettere che rimarranno testimonio del come le tenerissime affezioni non fiaccassero la sua intrepidezza; a’ suoi compagni somministrò le uniche consolazioni da quel gran momento: e ultimo abbandonossi al capestro. La Lombardia, che sperava cessati i supplizj dacchè quattro anni di compressione aveano rimosso i pericoli, si coperse di lutto: «Su quelle forche leggete, _Nessuna conciliazione! non più pace!_» diceano i cospiratori, e fidavano che l’indignazione si tradurrebbe in furore di rivolta al primo offrirsene il destro. Pertanto, senz’avervi predisposto il paese, quando tutt’il resto d’Europa tranquillavasi nell’obbedienza o nello spossamento, quando Milano si spensierava la domenica di carnevale (1853 6 febbrajo), ecco alcuni trafiggere a morte qualche soldato e uffiziale, sorprendere la gran guardia e qualche fucile, mentre la popolazione inconscia e aliena stordiva di quella temerità senza prendervi parte, e lasciò che la truppa agevolmente prevalesse. Il governatore militare, stupito non men dell’inatteso attentato che del facilissimo trionfo, e un pugno di masnadieri, incitati coll’oro e coll’alcoole, discernendo da un intero popolo quieto, agiato, bisognoso di tutelare la proprietà e d’avviare i traffici, rassicurava i cittadini a tornare alle loro cure, ai divertimenti; tutto essere finito. L’assassinio desta tale raccapriccio, tanto parve assurdo e scellerato il proclama che doveva accompagnare quel fatto, che le popolazioni non furono mai propense quanto allora a riconciliarsi co’ vincitori, che li campavano da tali eccessi; allorchè quelli, credendosi meglio informati sulla natura di quell’attentato, mutarono tono, inveirono contro tutto il paese, e lo misero in rigorosissimo stato d’assedio. Chiuse le porte, impedito il circolare delle carrozze, il sonare delle campane, gli uffizj solenni, percorsa la città da ronde coll’arma pronta, frugate case e persone, interrotti i carteggi, rotti i silenzj della notte dal _chi viva_, obbligato chiunque ad arrestarsi davanti al fucile inarcato delle frequentissime sentinelle, a subire la sospettosa indagine, l’insolente invettiva, gli schiaffi, quando ogni resistenza sarebbe stata caso di morte. Alcuni furono côlti a tentone, e compendiosamente impiccavansi al cospetto della città, certa dell’innocenza d’alcuni e compatendo agli altri, persone basse e sedotte dai veri rei, ai quali erasi lasciato tempo ed agio a sottrarsi. Non v’era autorità municipale, non fermezza sacerdotale, non rappresentanza di corpi che s’interponesse fra il soldato vendicatore e la popolazione flagellata. A lungo durò quella condizione; più a lungo alcuni rigori vessatorj introdotti allora; e quel colpo esacerbò gli animi peggio che non avvenisse dopo la rivoluzione: allora potevano dire «Tentammo e fallimmo»; qui erano puniti senza nè atto nè tentativo. Due gravissime conseguenze ne scaturirono. Nella persuasione che quel moto fosse ordito dai profughi lombardi, il Governo austriaco sequestrò i loro beni. Nell’armistizio col Piemonte erasi stipulata la libera partenza di chi volesse, talchè non poteva imputarsi il rimanere fuori; castigo speciale per questi attentati non poteva infliggersi se la colpa non risultasse da indagini e sentenze speciali; alcuni poi di que’ colpiti già erano regolarmente riconosciuti cittadini piemontesi; talchè quel Governo rimostrò a favore loro, e non ottenendo ascolto, ne crebbero le malevolenze e l’allontanamento. Ebbe pure il Governo militare a credere che i sicarj fossero venuti dal Canton Ticino, e colà ricoverassero dappoi: onde proferì il blocco contro quel paese, e fra tre giorni partissero quanti Ticinesi stavano in dominio austriaco. Per la vicinanza e il comune linguaggio e l’operosità, que’ paesani tengono vivissime comunicazioni colla limitrofa Lombardia: vinaj, caldarrostaj, facchini, spazzacamini, calderari, imbianchini, muratori, serventi ne affluiscono alle città lombarde; molte case di commercio, molti bottegaj, oltre quelli che popolano e spesso onorano le scuole, le accademie, i seminarj nostri. Fu spettacolo di desolazione il dovere, tutti a un tratto, andarsene forse 6000 dal paese ove erano nati o accasati da anni ed anni, per portarsi in un altro dove non teneano nè conoscenze nè parenti nè mestiere, dove molti non potrebbero vivere che della carità. Il Canton Ticino ne immiserì, per quanto il resto della Svizzera, e fin paesi stranieri mandassero soccorso a gente che, colpita in monte, doveva considerarsi come innocente[138]. Si presunse che l’amministrazione austriaca volesse con ciò punire il Governo del Canton Ticino, composto da alcun tempo di trascendenti, o a dire meglio in arbitrio d’un corpo di carabinieri che impongono il loro volere ai comizj elettorali, ai giudici, agli amministratori, ai cittadini. La Costituzione unitaria, che accentrò a Berna il Governo dello Stato, minorò la potestà de’ Cantoni, e perciò l’influenza di costoro e dei capoparte da cui dipendono, ma l’esercitavano sempre negli oggetti riservati all’amministrazione paesana. I Lombardi che vi rifuggirono dopo il 1848, aggiuntisi a quelli del 21 e del 31, preponderavano nel paese, anche perchè superiori in denaro, ingegno, operosità; e spinsero ad ordinamenti conformi al loro liberalismo: tal fu l’abolire ogni frateria, espellendo anche alquanti Cappuccini lombardi; tale il volgere all’istruzione laicale e militare i seminarj d’Ascona e Poleggio, per istituzione dipendenti dall’arcivescovo di Milano; e a questo e al vescovo di Como impedire d’esercitare la loro autorità diocesana. Ne vennero nell’interno scismi e persecuzioni, dolendosi i padri di vedersi tolta la libertà di fare educare i figli da chi volessero; dolendosi i parrocchiani di vedersi imposti pastori riprovati dal superiore ecclesiastico e fino scomunicati; dolendosi il Governo austriaco dell’ingiuria fatta a quei Cappuccini suoi; dolendosi Roma della conculcata sua autorità. Intanto brigavasi per tenere in posto gli eccessivi; per isbalzarli brigavasi da altri; e ne seguirono processi, insurrezioni, violenze, assassinj. Sotto la pressione del blocco e della conseguente miseria, credeasi che il popolo abbatterebbe il Governo che n’era cagione, e surrogherebbe i moderati, e che a tale intento l’Austria lo prolungasse; quando, pochi giorni prima delle elezioni, s’udì ch’era sciolto. Chi non osava credere l’Austria complice de’ rivoluzionarj, persuadevasi che ne’ suoi consigli avessero peso quelle società secrete, alle quali taluni imputano tutti i fatti che altrimenti non si sanno spiegare, quasi immensa ne sia l’efficacia per sovvertire la società. Ma quest’Austria, che erasi creduta perita, dalla caldaja di Medea, ov’era stata buttata a pezzi emergeva ringiovanita; la politica attiva diretta da Buol, facea migliore prova che non la conservatrice di Metternich (1773-1850); le finanze e il commercio trovarono in De Bruck un accorgimento e una pratica, che speravasi camperebbero dal naufragio; e il Ministero, composto di persone nuove, e interessate a impedire il ritorno dell’antico assetto anche per conservare se medesime, diè spinta insolita a una macchina, che erasi lasciata arrugginire. A quel rinnovamento parve sconvenire la Costituzione, promessa dal cessato, ratificata dal sottentrato imperatore; e questo annunziò ai ministri che non doveano più conto se non a lui. Essi avranno sottinteso «ed alla propria coscienza». L’impero più operò in tre anni che non avesse in trenta; fu dei primi a coprirsi di telegrafi elettrici, estese le strade ferrate, le tariffe daziarie via via alleggerì, strinse convenzioni doganali coi ducati vicini, sciolse la stampa dalla censura preventiva, pose in esperimento un sistema d’istruzione, nel nuovo Codice penale introdusse la pubblicità de’ processi e la difesa; ma delle riforme capitali, come il parificare le eterogenee popolazioni, l’abolire le giurisdizioni baronali, i servigi di corpo, le servitù agricole e i moltissimi vincoli alla proprietà, la formazione de’ Comuni, ed altre provvidenze con cui rigenerò le sue provincie ungheresi, slave, tedesche, non risentirono le italiane, che già n’erano al possesso. Solo nel Veneto è memorabile la cessazione del _pensionatico_, per cui le pecore poteano mandarsi a pascere sulle proprietà altrui. Nella pubblica amministrazione si tolse quell’arcano che prima la disonorava. Poco a poco quello stato eccezionale, di cui profitta chiunque ha un diritto da conculcare o un dovere da negligere, andò cessando; si rimetteano in atto le autorità civili; ma poichè si coglieva quell’occasione onde riformarle, ne derivava una lentezza che noceva sì pel disordine che lasciava prolungarsi, sì per le speranze che quello stato d’aspettazione alimentava. La venuta dell’imperatore (1857 febbrajo), l’oblìo incondizionato delle colpe di Stato, il riparo addotto a moltissimi disordini dacchè la presenza offrì modo a conoscerli, la ricostituzione d’un Governo generale, la liberalissima norma pei passaporti, le numerose grazie concedute, i sequestri levati, l’invio d’un arciduca benevolo, il proposito ostentato di volere il bene del paese e il debito rispetto a una nazionalità permalosa e ad un paese incastonato fra la Svizzera e il Piemonte, ravviarono gli spiriti all’operosità. Ma nè lealtà e giustizia nè intelligente proposito del meglio riparavano all’irreconciliabile rancore contro la dominazione tedesca. Fatto rilevantissimo fu il concordato che, dopo lunghissime trattative, l’Austria conchiuse colla santa Sede nel 1855. La Chiesa avea prevalso nello Stato finchè vi stette unita; lo Stato invigoritosi volle sottrarsene; ma errò nel credere di potersela ridurre dipendente. Fu il grande sbaglio de’ rivoluzionarj, e la causa di ingiustizie e di un’anarchia, che durerà finchè l’esperienza non abbia condotto l’equilibrio fra due potestà di natura differente. Nell’Austria specialmente, da Giuseppe II in poi, la Chiesa era tenuta in un assoggettamento, che le dava l’odiosità di dominante e i mali di oppressa. Parve indecoroso a Francesco Giuseppe, il quale solennemente riconobbe la supremazia papale nelle cose ecclesiastiche, e concordò (a tacere gli oggetti che poco a noi riguardano) che la Chiesa resterebbe libera in tutti i suoi atti interni, e di pubblicare scritti, eleggere vescovi e parroci, erigere o restringere ordini monastici, comunicare col capo supremo e coi fedeli, statuire di tutto ciò che concerne i sacramenti, la sua disciplina, i suoi possessi. Non per questo si torrebbe quell’eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, ch’è considerata il migliore acquisto del secolo; pei delitti, anche l’ecclesiastico rimarrebbe passibile de’ tribunali ordinarj; se non che, nei casi d’esecuzione capitale, dovrebbe ai vescovi comunicarsi il processo. Ai vescovi pure lasciasi l’ispezione sopra le cose stampate, e libertà di proibire ciò che offenda il costume e il dogma. Di tal modo era stabilito, non il segregamento, ma la distinzione delle due potestà, non l’antagonismo ma l’armonia: e ne derivò esultanza a quei pochi che sono capaci di ravvisare come si connettano tutte le libertà fra loro, e di conoscere quanto valutabili sieno le ecclesiastiche; ne fecero elegie ed epigrammi quei che hanno paura dei preti. E la paura parve giustificata allorchè qualche vescovo voleva che verun’opera si stampasse senza l’approvazione curiale. Questa da un secolo era disusata qui; dopo il 1850 era tolta anche la censura politica preventiva: sicchè coloro che, invece di lasciarsi ammusolare celiando, vigilano seriamente all’acquisto e alla conservazione delle giuste franchigie, donde che esse vengano, opposero la legalità a quella pretensione, la quale in fatti restò ridotta entro limiti ragionevoli e legittimi. In Toscana rimase abolita la Costituzione e occupato per sei anni il paese da Tedeschi, che nel 1855 si restrinsero alla guarnigione in Livorno. Quanto minori v’erano i ribaldi feroci, più apparivano quelle dimostrazioni, che, se possono aver un senso preparativo, sono futili dopo il fatto. Gli anniversarj dei disastri e delle vittorie celebravansi; gli avvocati cercavano occasioni di dicerie; nessuno voleva le cariche municipali, e si bersagliavano quei che le tenessero. Vuolsi celebrare l’anniversario della battaglia di Curtatone, supponendo intrigare il Ministero col costringerlo ad opporsi. Questo nol fa, ma crede doverne avvertire il comandante austriaco, perchè non se ne tenga offeso; e questo invece risponde, onorar il valore, e andrebbe egli stesso ai funerali se non sapesse che a molti spiacerebbe; onde allora si grida che il Ministero è più tedesco dei Tedeschi. Domandavasi sempre la Costituzione, e intanto si dice impossibile l’attuarla, presenti i Tedeschi. Il sistema comunale fu rimesso qual prima della rivoluzione, cioè all’elezione surrogando ancora l’estrazione a sorte delle borse. Il Codice penale fu modificato, crescendo i rigori; nel Codice penale militare s’introdussero la fustigazione e la bastonatura. In un paese dove le libertà ecclesiastiche fanno paura più che le principesche tirannie, e dove gran parte del liberalismo consistette sempre nell’osteggiare la Curia romana, si temeva sempre che un concordato infirmasse le leggi leopoldine «fondamento e palladio della civiltà e della prosperità toscana», e lentasse i rigori contro il clero e le manimorte. Neppur nell’entusiasmo per Pio IX eransi voluti mitigare: ma nel 1849 fu annunziato dal ministro Mazzei che stavasi per conchiudere un concordato. I vescovi esultanti si raccolsero per consigliarne i modi; l’opinione si sgomentò a segno, che il ministro dovè cedere il portafoglio; Baldasseroni (1795-1876) assicurò che nella _convenzione_ conchiusa in fatto con Roma il 25 aprile 1851, le prerogative sovrane non sarebbero toccate, che le spiegazioni tranquillanti fatte circolare non erano un sotterfugio del Ministero, ma veramente concertate con Roma, e che le leggi del 1751 e 1769 contro i nuovi acquisti di manomorta non sarebbero toccate, nè accettata la bolla _Auctorem Fidei_. Ciò importava ai pensatori toscani. Gli spaventi rinacquero allorchè, nel 1857, Pio IX visitò Firenze: e i vescovi gli sottoposero un indirizzo perchè impetrasse l’abolizione delle restrizioni leopoldine; e di nuovo il _Monitore officiale_ dovette uscire a rassicurare i sudditi che di nulla sarebbe rallentata la tutela dello Stato sopra la persona e i beni della Chiesa[139]: paventandosi non assorbito tutto il territorio dall’_ingordigia clericale_. Quando poi importava sopire gli scandali e le ire, e in quattro anni (1852) si erano dimenticate le ingiurie e mutato scopo agli odj, si volle condurre a termine il processo del dittatore Guerrazzi e di quarantasette correi, di cui trentuno erano fuggiaschi. Ben diceva il regio procuratore «che causa più solenne mai era stata sottoposta a’ tribunali toscani, e che offrisse maggior copia di documenti e di testimonj, d’avvenimenti strepitosi, di commozioni di popoli, di passioni anco individuali poste in azione e in contrasto, di nomi d’accusati, alcuni già noti per dottrina ed abbondanza di quel dono superiore, che, come bene adoperato dà modo di più meritare, così espone, quando s’isterilisca o si abusi, a maggior responsalità». Doveva inevitabilmente esservi implicato il principe; ragione di più ad evitare quel processo: il quale invece, tratto in lunghissimo, fu poi esposto al pubblico sia ne’ dibattimenti, sia negli atti di accusa e nelle apologie stampate, nelle difese, nelle discussioni de’ giornali; dove piena la libertà della difesa; dove molti testimonj, dopo sì lungo tempo, si riducevano, o per paura della pubblica opinione adombravano il vero; infine il Guerrazzi fu condannato ai ferri, che il principe commutò, a lui come agli altri, in esiglio. Questo famoso, che avea sminuita la propria grandezza col mostrare nella _Apologia_ come fosse zimbello de’ più audaci o delle grida plebee, nel lungo carcere condensò l’antico suo livore contro la società, della quale e dell’umanità vendicossi sputandole in faccia la _Beatrice Cenci_. Giusta il conto reso da una Giunta al ristaurato Governo, le entrate della Toscana ammonterebbero a circa ventisette milioni: ma spendendo in proporzione di quel che fece il Ministero democratico dal 26 ottobre 1848 al 7 febbrajo seguente, in un anno si sarebbero erogati quarantatre milioni; e cinquantacinque in proporzione di quel che spese il Governo provvisorio dall’8 febbrajo all’11 aprile; ne’ quali due periodi la finanza fu deteriorata di nove milioni e mezzo. Gravi sciagure crebbero i danni del paese. Il cholera, già micidiale nel 1835 e ne’ due anni seguenti, infierì di nuovo nel 54 e 55, colpendo sessantamila persone, uccidendone trentunmila ottocensessanta. Poi cominciò la scarsezza dei cereali: i geli del 1847 e 49 guastarono gli ulivi; la raccolta delle patate fu perduta dalla cancrena, dall’oidio l’uva, dall’atrofia i bachi da seta, benchè meno d’altrove. I tremuoti del 46 aveano già sovvertito le colline pisane e volterrane. Poi dopo nevi e pioggie stemperate, nel febbrajo del 1855 tremò il val d’Arezzo: il poggio di Belmonte si scoscese sopra Pieve Santo Stefano, arrestando il Tevere che la valle inondò fino ventitrè braccia elevandosi. Altri guaj portarono le inondazioni nel Casentino, e nel Valdarno inferiore. In vista di tanti mali, nel 1854 il Governo perdonò un milione sull’imposta, ma le penurie dello Stato non permisero di rinnovare la largizione quando ne cresceva il bisogno. Aumentarono invece i delitti contro la proprietà e in conseguenza i carcerati, il cui numero giornaliero medio nel 1850 era di mille cinquecento, e nel 1856 di duemila settecensettantaquattro. Nel mite paese non mancarono però assassinj politici; si attentò alla vita del ministro Baldasseroni, e bisognò ristabilire la pena di morte, da infliggersi però solo quando i voti cadano unanimi. Al disagguaglio delle spese dovette sopperirsi col ripristinar tasse sul macello, sulla pastorizia, sui contratti e la successione; aggravare le dogane, a costo di diminuire con ciò l’introduzione delle merci; la lega doganale tentata coll’Austria fu avversata dalla pubblica opinione[140]. I lavori pel prosciugamento della Maremma grossetana, che dal 1829 al 1856 costarono venti milioni vennero rallentati, sicchè laghi e paludi ristagnarono ove erano poco prima fecondate le campagne. Nè meglio riuscì l’essiccamento della palude di Biéntina. Si provvide di nuovo porto Livorno, ma il disegno datone dal francese Poirel riuscì infelice, e la spesa di otto milioni, doppia della predestinata, è ben lontana dal rendere frutto degno. Si estesero le strade ferrate, ma finora servono solo alla circolazione interna non attaccandosi a quelle di veruno Stato vicino. Si cercò il prosperamento dell’agricoltura, sì da privati quali il Ridolfi, il Lambruschini, il Ricasoli, Digny, Bichi Ruspoli, Cuppari, Ginori...; sì dalla società dei Georgofili e dalla Agraria: il Governo pose scuole tecniche, e accademie di arti e manifatture; istituì un archivio generale di Stato, un uffizio di statistica generale. Il ducato di Modena continuò nelle tradizioni patriarcali, in mano d’un giovane principe, sul quale non posavano nè tradizioni tiranniche, nè memorie di sangue, nè patti d’abjezione; e che sentivasi e talento e forza più di quelli che lo circondavano. Il ducato di Parma, che avea patteggiato coll’Austria alleanza difensiva contro i nemici esterni ed interni, fu da questa restituita a Carlo III Borbone, la cui gioventù disonestata non apparve corretta dalla sventura e dal matrimonio colla virtuosa Luigia di Francia. Un giorno ch’egli tornava dal passeggio pomeridiano, gli si accostò uno e lo trafisse, e benchè fosse in mezzo al popolo, niuno volle conoscerlo nè arrestarlo, nè tampoco soccorrere al ferito, che poco dopo spirò (1854 26 marzo). Si trovarono trecento lire in cassa. La duchessa, come reggente del fanciullo Roberto, ai ministri impopolari surroga Lombardini, Pallavicino, Salati, Cattani, ritira l’ordine del prestito forzato, supplendovi con uno spontaneo che ella garantisce col pubblico patrimonio; l’esercito riduce da sei a duemila uomini, la lista civile da due milioni a seicentomila lire; riordina i tribunali che già erano a modo francese; affida cattedre anche a professori compromessi nella rivoluzione. Parvero pegni di riconciliamento, eppure i momentanei applausi presto si conversero in disapprovazione; il paese non tardò a divenire teatro di turbolenze ed assassinj, al punto che la duchessa dovè chiamare capo della Polizia un suddito austriaco, e i processi furono assunti dal conte di Crenneville comandante della guarnigione tedesca, in forza dello stato d’assedio. Per accordi derivanti fin dal trattato d’Aquisgrana, poi modificati in quel di Vienna e nel segreto del 28 novembre 1844, se si estinguesse la linea ducale quello Stato sarebbe riversibile all’Austria, ed una piccola porzione al Piemonte. Il popolo sapendo questo colla solita inesattezza, credeva il ducato dovesse ricadere legittimamente a Casa di Savoja, e aspirava ad accelerarne l’istante: l’Austria, come a sè riversibile, pretendeva esercitarvi un’alta ispezione; altrettanto pretendeva il Piemonte per la vicinanza. Da principio i Francesi restarono arbitri di Roma, e i soldati faceano da soldati, quantunque senza ferocia; ed erano perseguitati a stiletti e contumelie al pari dei preti, e questi e quelli ripudiati dalla popolazione, mentre fra loro guardavansi in sinistro. L’ambasciatore signor di Courcelles cercava che il pontefice largisse ordini liberali, e si circondasse di buoni amministratori; ma quelli aveano fatto troppo mala prova, questi sempre fu difficile trovare in Romagna, difficilissimo allora che tanti erano resi inservibili pei fatti precedenti. Luigi Buonaparte allora diventato presidente della Repubblica francese, volendo cattivarsi gli animi od almeno i voti col mostrarsi restauratore dell’ordine, eppure amico della libertà, diresse una lettera (1850 18 agosto) al suo ajutante Ney, ove esprimeva che l’esercito repubblicano non era ito a schiacciare la libertà italiana, bensì a regolarla, preservandola dagli eccessi proprj; disapprovava i comporti della Commissione riordinatrice, e diceva di compendiare il Governo temporale del papa in questi atti, amnistia, secolarizzamento dell’amministrazione, Codice Napoleone, Governo liberale. La lettera levò gran rumore, eppure mancava di carattere uffiziale: il papa ebbe assicurazione che trattavasi d’una mera mostra, e mandò da Gaeta un motuproprio, pel quale istituiva un Consiglio di Stato e uno di finanze, prometteva riforme amministrative e giudiziali; di costituzione o di secolarizzamento non più parola: e i Francesi si affrettarono a magnificare le concessioni, le quali dicevano avere essi suggerite anzi imposte al papa, per sodare la libertà d’Italia. Abrogati gli ordini del Governo repubblicano, rimessi i tribunali colle variatissime loro giurisdizioni, e persino il Sant’Uffizio, di nome spaventoso, ma che si limita a preparare le decisioni ecclesiastiche in fatto di matrimonj misti, digiuni, astinenze, e nelle cui carceri nel 1849 si era trovato un solo prete per falsificazione di carte private; dall’amnistia faceansi esclusioni eccessive, che guastavano in apparenza il benefizio, mentre nel fatto nessuno ne’ primi sei mesi fu arrestato o punito per atti politici; nessuno de’ tanti amnistiati, che aveano accettato incarichi rivoluzionarj, lasciando che l’autorità francese li munisse di passaporti per andarsene. Pure la Polizia molestava fino alcuni de’ liberali che più si erano opposti alle trascendenze; spiaceva il veder ripristinati abusi, della cui distruzione tutt’Europa aveva applaudito Pio IX; dacchè poi gli onesti aveano gustate le attrattive del vivere libero, del licenzioso i ribaldi, riusciva difficilissimo il rintegrare lo stato primitivo. La censura impediva ogni manifestazione franca, eppure non potea togliere la sovversiva stampa clandestina; processavasi, ma colla fiacchezza che colpisce il subalterno mentre non osa il forte e subornatore; disarmati tutti i cittadini, viepiù imbaldanzivano le orde, che infestavano principalmente i paesi settentrionali, malgrado l’inesorabile giustizia che ne faceano gli Austriaci. Gli assassinj continuanti obbligarono a severe procedure sommarie, e ventiquattro persone furono mandate al supplizio nella sola Sinigaglia. Si tessè il processo dell’assassinio di Rossi, e, cosa nuova ne’ fasti giudiziarj, il reo più aggravato non si osò indicare che col nome di _un tale, quel signore_. Solo quando si sentì sicuro che l’indipendenza del suo potere non sarebbe menomata, Pio IX tornò a Roma fra l’ossequio dei Francesi e dei diplomatici, e il silenzio della moltitudine. I provvedimenti furono ancor meno delle promesse, e tutto rimase all’arbitrio del segretario di Stato cardinale Antonelli (1806-76), divenuto scopo all’odio comune, benchè dapprima fosse stato consigliatore degli ordini più liberali, ed ora tenesse testa agli esagerati reazionarj. I succedutisi Governi aveano cresciuto il debito pubblico a settanta milioni; le sêtte fremeano; audace il contrabbando, spudorata la corruzione, moda il cospirare, disimparato l’obbedire; rinterzata la insulsaggine di compromettenti miracoli colla stizza di ripullulanti insurrezioni e d’incessanti assassinj politici; liberalità l’avversare la religione, involgendo l’autorità spirituale nell’aborrimento della temporale: e alle piaghe gravissime trovandosi impossibili i palliativi, rendeasi necessaria la forza, la forza! Perciò i Tedeschi continuavano ad occupare le Legazioni[141], i Francesi ad occupare Roma e Civitavecchia, intanto che si provvede ad allestire reggimenti nazionali, e crescere la marina, che oggi conta 1893 navi fra grandi e piccole, portanti 31,637 tonnellate, e su di esse 9711 persone. Più appropriato al gran sacerdote è l’avere ravviato le opere pubbliche e la cura delle arti belle. Nel che notevole è lo sterro dell’antica Via Appia, donde quantità sempre nuova di monumenti e di anticaglie, di cui altre vengono in luce nei ripigliati scavi di Vulci e di Canino. Fu ordinata una statistica generale, che dà a conoscere i bisogni e gli spedienti; la riduzione de’ pesi e delle misure a decimali; e il censimento, pel quale i Gesuiti rimisurarono per undicimila metri la base della triangolazione fatta da Boscowich, di cui era perduto un termine. Si compì ad Aricia un viadotto di trecentundici metri, a triplice fila d’archi, elevantisi fino a sessanta metri per superare la frapposta valle. Il Tevere è percorso da vaporiere, e tutti i fiumi vigilati e provveduti[142]. A Viterbo si fabbricano il vitriolo tanto cercato, e ferri agricoli: Spoleto è ricca di pastorizie, e di mandorle e ghiande il paese alto: bellissime selve ha Frosinone, donde si trae scorza per le concerie: agrumi, fichi, pistacchi, carrubi, castagni, cristalli arricchiscono Ascoli: Fermo i cappelli e i crivelli da grano: Forlì il ricino, Fabriano le cartiere, Gubbio il bestiame, Faenza le majoliche: la pineta di Ravenna è delle migliori foreste: dal Bolognese si hanno venticinque milioni di libbre di canape, e corami, carta, aceto, acque odorose. Con ingenti opere ora si sanano le paludi d’Ostia e Ferrara. Le strade ferrate pigliarono colà pure incremento; e già si posero telegrafi elettrici, e con quelli s’istituì la corrispondenza metereologica. Il 24 ottobre 1850 fu emanata la legge comunale, abbastanza ampia e fondamento al resto del Governo, ma non si vede eseguita. Per instaurare l’autorità, Pio IX ricorse ai mezzi che s’adoprano per abbatterla, e dai Gesuiti fece intraprendere un giornale, la _Civiltà Cattolica_, «collo scopo di proclamare la riverenza del suddito all’autorità, e del superiore ad ogni diritto dei sudditi, subordinazione alla forza della legge morale, unità di morale sotto l’insegnamento della Chiesa cattolica, unità della Chiesa sotto il Governo del vicario di Cristo». Grandiosissimo esercizio sopra punti irrefragabili: ma se il rissarsi intorno alle dispute di ciascun giorno profitti meglio che il sodare cardinali verità, da cui si sillogizzino poi le applicazioni; se l’esporre i supremi canoni della fede o dell’autorità al senso comune e ai dibattimenti dei caffè e de’ circoli; se il pronunziare nelle opinioni politiche coll’asseveranza e l’esclusività che solo è propria dei dogmi religiosi; se il moltiplicarsi avversarj col ghermire corpo a corpo scrittori e attori, e con ciò provocare ricolpi dove l’ingegno può prestare aspetto di ragione, e la violenza di difesa incolpata; se l’intolleranza de’ minimi dissensi, d’ogni minor precisione di linguaggio, delle condiscendenze forse necessarie, spesso opportune, del sussidio secolaresco nel trarre dalla pietra dell’altare la favilla che sola può ridonare la luce e il calore; se l’accettare l’ultima abjezione degli odierni giornali, le corrispondenze anonime, donde un malvagio tira a sicurtà sopra l’onest’uomo, portino al trionfo la causa del vero, ne appello alle migliaja d’associati di quel giornale, redatto con un talento, un accordo, una costanza, che nessuno degli avversi raggiunse mai. Strepitoso rincalzo alla suprema potestà diede Pio IX, dichiarando il dogma dell’Immacolata Concezione. Più volte dibattuto ne’ secoli precedenti, era già vietato il metterlo in disputa. Esule a Gaeta, quasi le tempeste politiche neppure scotessero la nave di Pietro, Pio IX mandò un’enciclica a tutti i vescovi del mondo, interrogandoli sull’opinione di essi e delle loro Chiese intorno a quell’asserto, e se gioverebbe definirlo dogmaticamente. Nella credenza la cattolicità si trovò d’accordo; ad alcuni sembrava inopportuno il rimescolare questione antica, causa già d’interni dissidj. Pio IX convocò a Roma alquanti vescovi per pronunziarne; e poichè quelli di Francia, quasi ad espiazione delle antiche reluttanze gallicane, pei primi neppur vollero discutere sui termini, riportandosi interamente al supremo gerarca, egli definì come dogma la concezione di Maria senza peccato originale. Se ne fecero feste in tutta la cristianità; e fu un grande incremento all’autorità pontifizia quel bisogno d’una sommessione figliale al papato, che definendo da solo un dogma, veniva a stabilire l’infallibilità personale del pontefice: come fu edificante quel riconoscere universalmente la fondamentale eppure negletta fede del peccato originale. Concordati fece colla Spagna, coll’Austria, colla Toscana, colla Costarica, col Guatemala. Così non cessò di combattere la Chiesa orientale, la russa, l’olandese, la gallicana, dalla quale un’importantissima adesione ottenne, l’abbandono dei riti particolari per adottare il romano. Casa di Savoja precipitò i sudditi nel pericolo, ma lo divise con essi, talchè viepiù se ne consolidò il legame che a questi la unisce. Vittorio Emanuele II, re nuovo e che non s’era compromesso con lusinghe, a capo d’un esercito disgustato d’innovamenti che tanto gli erano costati, col paese occupato dagli Austriaci, con un Parlamento screditato dalla ciarla, con Ministeri che si succedeano un all’altro per attestare l’impotenza di tutti, potea facilmente cancellare le istituzioni date da suo padre, e vedersene applaudito, quanto questo nel concederle. Al contrario egli cominciò il regno (1849 3 luglio) annunziando con mesta fermezza le sventure che anticipatamente lo portavano al trono, assicurava che le franchigie del paese non correano rischio; le traversie abbattono le vulgari anime, alle generose possono tornare in profitto; gli ordini politici non li stabilisce nè li acconcia a’ veri bisogni d’un popolo il decreto che li promulga, bensì il senno che li corregge, e il tempo che li matura; e questo lavoro, unico dal quale può sorgere la vigoria e la felicità d’uno Stato, si conduce coll’azione calma e perseverante del raziocinio, non coll’urto delle passioni; si conduce procedendo a gradi per le vie del possibile, e non gettandosi a slanci inconsiderati per sentieri che da secoli l’esperienza ha dimostrato impraticabili; i popoli, maturando alle dure prove, imparano a distinguere il vero dall’illusorio, il praticabile dall’ideale, e ad usare la migliore delle pubbliche virtù, la perseveranza. Insieme rammentava la necessità della pace esterna non meno che dell’interna, e del discuterne con senno e prudenza, per procurare i tre supremi vantaggi di quiete civile, progresso d’istituzioni, risparmio delle pubbliche fortune; e così d’accordo conformando gli ordini che soli possono recare vera e durevole libertà, si avrebbe la gloria di evitare le esorbitanze e de’ licenziosi e de’ tiranneschi. Ottenere questa temperanza era difficile tra lo sguinzagliamento de’ rifuggiti e la concitazione degli avvenimenti di Roma, con un Parlamento che mettea gloria nell’osteggiare la Corona, e dignità nel ricusare gli accordi inevitabili; tanto che, «per salvare la nazione dalla tirannia de’ partiti», il re sciolse la Camera (1849 20 9bre) e ne convocò un’altra, che senza discussione accettò il trattato coll’Austria. D’allora Vittorio Emanuele non si affannò troppo negli affari, come glielo permette la qualità di re costituzionale; mostrossi sempre rispettoso dello Statuto. Duro uffizio quel de’ ministri a fronte di passioni sopreccitate, e de’ partiti che colà andavano non a fondersi ma a cozzarsi! Massimo D’Azeglio, un tempo disapprovato e perseguìto dagli stagnanti quale attizzatore di rivoluzioni, come avea difesa la libertà contro i vanti dell’ordine, così l’ordine sostenne dappoi contro i vanti della libertà, capitanando l’opinione moderata, poi chiamato a capo del Ministero, con integra fama, sostenuto da’ nobili fra cui era nato, da’ letterati e artisti fra cui s’illustrava, dai popolani con cui era vissuto, persuaso che nei trambusti si fa meno quanto più si ha apparenza di fare, imitò il medico che confida nelle forze riparatrici della natura, poco operando, poco discorrendo fra l’universale sproloquio, guadagnando così il tempo che è tutto, rimettendo a galla lo Stato, non esitando spiacere agli esorbitanti che si decorano col titolo di democratici. Poi venuta l’ora degli uomini d’affari, a Cavour rinunziò il potere prima di perdere la popolarità, e tornò agli studj e a ridere della commedia umana. Il Piemonte era l’unico paese d’Italia ove sopravvivesse una rappresentanza. Dapprima non v’era stato bene che non s’aspettasse dai Governi parlamentari, i quali suppongono una convivenza da tutti acconsentita, avente per base l’eguaglianza dei diritti e dei doveri, la cooperazione di tutti al vantaggio di tutti; esonera il Governo da infinite minuzie e da tanta responsabilità; non forza nessuno, e nessuno trascura; anche in mezzo alle emozioni rapide e contagiose de’ popoli che da sè occupansi degli affari proprj, fa valere di più chi più sa e più ha, lascia libera la manifestazione de’ desiderj e delle proposte, e l’esercizio delle facoltà tutte, coll’elemento del progresso avendo in sè quello della conservazione. Ma la Francia dopochè se ne disfece, ripetè che in siffatti Governi si surroga alla morale la sentimentalità, alla fede la declamazione di oratori, simili a palloni areostatici che si elevano perchè nulla li contrasta, attirano gli sguardi di tutti ma non arrivano a nulla, e tornano alla terra dond’eransi alzati; intanto sviluppansi la superbia umana, l’infatuazione della parola, e la persuasione che la dottrina possa regolare il mondo; sicchè i talenti e i semitalenti acquistano maggiore credito che non il carattere; per l’idolatria dell’ingegno si abbandona il culto della verità; misurando la libertà dal numero de’ giornali e dalla lunghezza dei dibattimenti, rimettonsi in disputa tutti i principj; si toglie l’energia d’azione al Governo, quasi non si desideri di meglio che l’inettitudine; e così si affievolisce l’autorità qualunque sia; i ministri s’avventurano in una politica declamatoria e imprevidente, che talora vuole i mezzi senza il fine, talora il fine senza i mezzi; anzichè consolidarsi sulla giustizia e la bontà, devono ondeggiare coll’opinione, e però rinnegare se stessi, o cedere il posto ad altri, che effettuino ciò che in quel giorno è voluto dalla pluralità. Eppure quelle discussioni, quella responsabilità dei ministri, quella pubblicità di tutti gli atti, quell’accontentamento della classe più loquace e faccendiera recavano facilmente a considerare il Piemonte qual simbolo della nazione e nucleo della futura Italia. Queste aspirazioni, nelle quali si accentrava qualsiasi desiderio di cambiamento, lo rendeano sospetto al potente vicino; e i partiti che vi si dibatteano, lo esponeano alle diatribe de’ reazionarj di fuori. È però vanto che, mentre ogni giorno una stampa sguinzagliata diffondea sin nel villaggio e tra il popolo operoso il fomite dell’invidia e dell’insubordinazione, colà men che altrove essa prorompeva e soprattutto non si sfogava in quegli assassinj, che rimasero la più orrenda coda della nostra rivoluzione. Le sorti d’un paese non si regolano cogli epigrammi e i sarcasmi, nè la politica si attua con articoli di giornali e con dispetti e puntigli. Molti Ministeri si succedettero, ma sarebbe severità l’esigere che procedessero regolari mentre sono combattuti da contrarj venti, e costretti a vivere di ripieghi; lodevoli se non sagrificano l’utile sodo alla prurigine di popolarità, se non transigono colla dignità per conservarsi, se non riducono l’idea dello Stato e il fine della convivenza umana a mera tutela degl’interessi materiali. Gli oppositori a due punti principalmente si appigliavano; il dissesto delle finanze, e gli affari religiosi. Mentre al rompere della rivoluzione l’erario non era gravato che di quaranta milioni, allora di oltre seicento: il bilancio delle spese annue, che nel 1847 si valutò a ottantaquattro milioni, nel 56 giunse a cenquarantatre e mezzo: tutte le imposte vennero esagerate e aggiuntene delle nuove, la cui minutezza infastidiva ancora peggio che non impoverisse[143]. Ma oltre il dover pagare i disastri di due campagne sfortunate e settantacinque milioni all’Austria, in questo mezzo si spigrì l’amministrazione, fu dotato il paese di tante istituzioni di cui mancava, e singolarmente d’una rete di strade ferrate, che tutti i punti congiunge col centro, e questo colla restante Italia e colla Francia. Poco prima della rivoluzione, Carlalberto avea conchiuso un concordato col pontefice, il quale recedette da alcune pretensioni antiche per assodarne altre. Dato lo Statuto, nel quale la prima clausola e la più voluta dal re fu il dominio della religione cattolica, i fragorosi, che non sanno mostrare libertà se non col perseguitare, vollero si ponesse la mano sui beni clericali e si sopprimessero le fraterie, incamerandone i possessi, togliendole l’istruzione; e levò un rumore trascendente, anzi fu eternata con obelisco la proposta del Siccardi, per la quale si stabilì quel che già gli Stati vicini godeano, che anche gli ecclesiastici fossero sottoposti al fôro comune, nè tampoco i vescovi eccettuati. Ciò ledeva il contratto stabilito col papa; ma arguivasi che, cambiata la forma di governo, anche quello dovesse cessare, benchè concernesse una Potenza forestiera. Nuove commozioni cagionò dappoi la legge sul matrimonio civile. Roma protestò di questo mancare ad accordi espressi, e assicurati dallo Statuto; le replicate proposizioni di amichevole componimento, portate anche da persone rispettabili, quali Cesare Balbo e Antonio Rosmini, non sortirono effetto: intanto la lite si inasprì; qualche vescovo, e nominatamente quel di Torino reluttarono, e furono perseguitati e spinti in bando, donde ritraggono aria di vittime essi, e di persecutore il Governo; restrizioni alla libertà ecclesiastica attirarono nuove proteste del pontefice, e infine la scomunica a chi le avesse sancite. Da qui strazj di coscienza; cercossi ipocritamente di mettere in contrasto i preti coi vescovi; le popolazioni conservavano devozione ai loro pastori benchè rimossi; sacerdoti ricusavano i sacramenti a deputati o ministri incorsi nella censura; e di qua e di là vantavansi di martirio atti che spesso erano di ostentazioni di amor proprio. Tale deplorabile conflitto, che forse è un sagrifizio di debolezza al rombazzo della plebe letteraria, infuse baldanza a un partito, che si propone di staccare l’Italia dalla fede popolare. Come nel 1847 l’apoteosi di Pio IX avea lusingato che tutta cristianità si ridurrebbe cattolica, così, dacchè egli mancò alla causa italiana, con lui si esecrò la religione di cui è capo, e per poco il Dio di cui tien vece in terra. Fervè allora l’opera del nuovo vangelo; i liberi politici si incapricciarono di mostrarsi anticattolici; il papato si considerò di nuovo come peste d’Italia non solo, ma della fede; e a qualunque miglioramento della patria si pose per fondamento la depressione del cattolicismo. I Valdesi, che nel 1848 aveano ottenuto l’eguaglianza civile, poterono erigere un tempio a Torino; stampare secondo la loro credenza, e la _Buona Novella_ annunciava (1855 12 8bre) che «tutti i giornali del Piemonte obbediscono ad una direzione più o meno protestante, e non si stancano di proclamare che la coscienza deve essere libera, e che nessuna Potenza sulla terra ha il diritto di regolare le nostre attinenze con Dio». Vanti consueti a tutte le sètte, ma che metteano i brividi ai buoni Cattolici. Intanto si divulgavano libri di quel sentimento e Bibbie tradotte, di cui ventitremila stamparonsi a Londra e diecimila Testamenti Nuovi, destinati principalmente alla Toscana e Romagna: sette dispensieri ne giravano in Piemonte, e quando l’esercito campeggiò in Crimea, ben quindicimila copie se ne diffusero tra esso. Forse qualcheduno passò alla confessione protestante: in Toscana si teneano circoli ove leggere e commentare la Bibbia, e in esecuzione delle antiche prammatiche fu punito chi lo fece, rinviandolo se forestiero, mandandolo a viaggiare se nazionale. Ma il pericolo venne esagerato, e tanto più pel Piemonte, chi veda quanto morale sia il popolo, frequentate le chiese e i confessionali, riveriti i curati. Ben più che i delirj della fede è a temersi la indifferenza in questa, la scarsezza di cognizioni religiose, che rende possibile l’assurdo apostolato di giornali, luridi quanto ignoranti e sfacciati. Come protestantizzare gente che non crede nè conosce i proprj dogmi, nè sa in che punto divergano da quei di Lutero e Calvino, e che, se al papa negano obbedienza, tanto meno vorrebbero prestarla a un ministro? Si confessi più francamente che l’orgoglio, la meno filosofica delle passioni, dice «Come può essere la tal cosa mentre io non la intendo?» Si confessi di volere piuttosto compiere l’opera sociale della Riforma, quale fu di distruggere il carattere teocratico, dileguare la sovrumana aureola dell’autorità, sottoponendo l’uomo immediatamente alla propria coscienza; e che trovasi più acconcio alla vulgarità l’insegnare unico Dio essere l’uomo, unica potenza il numero, unica legge gl’istinti, unico intento il godere più che si può; donde una smisurata superbia, un satollarsi all’albero della scienza, un invidiare chiunque sa o può di più, riponendo il liberalismo nel prostrare quanto è più alto, non nell’elevare quanto è più basso; un invidiarsi a vicenda i godimenti, e l’oro che può comprarli; e nell’accidia e nella voluttà stordirsi e godere finchè il corpo si dissolva ne’ chimici componenti. È da compiangere il re di Napoli d’avere dovuto colla forza e coi processi reprimere la rivoluzione, e principalmente le cospirazioni per la così detta Unità Italiana; onde grandissimo numero di fuorusciti, gente d’opera, d’ingegno, di penna, che empirono l’Europa di accuse contro di lui, le quali trovarono uno straniero (Gladstone), che le accolse e ripetè in una lingua diffusissima, e dandovi l’autorità del proprio nome e della libera sua nazione. Benchè smentita, si può credere la miserrima condizione di quelle carceri: ma quello che ancora più serra un cuore italiano, è la bassa turpitudine di non pochi di coloro, che come testimonj o delatori o agenti provocatori comparvero in que’ processi di Stato. I quali però vuolsi non dimenticare che furono pubblici, con difesa, con stampa; e che, risparmiando le vite, il re non volle togliersi la possibilità di ridonare alla società qualunque de’ condannati all’istante che ciò gli sembri o generosità non improvvida o giustizia. Carlo Poerio è come la personificazione di quei martirj e di que’ lamenti; e più volte fu promessa la grazia a lui e ad altri purchè la domandassero[144]. Nessun atto cassò la costituzione, e Ferdinando II poteva da oggi a domani convocare il Parlamento, restituire la responsabilità ai ministri. Ma coloro che, per giustificare il dissenso che v’incontrarono, piacevansi a ricantare l’immoralità di quel popolo, l’avidità delle classi medie, l’ignoranza superstiziosa delle infime, non s’accorgeano che davano ragione al re del non volere affidar la quiete e l’andamento dello Stato ai consigli e alle discussioni di così fatti. L’esercito non ebbe bisogno di venire ricomposto: l’erario continuò prospero, e quando negli altri Stati erano all’abisso, qui le iscrizioni del gran libro eccedevano in valore il pari. Non furono intermesse le opere pubbliche; estese le vie ferrate, aperta una da Napoli a Bari traverso a due montagne; uniti al mare i laghi Lucrino e Averno, così ridotti a porto. Eppure non venne meno il troppo solito corredo delle pubbliche sciagure; e a tacere il cholera, spaventosi tremuoti sconvolsero nel 1852 la Basilicata, propagandosi anche nella Romagna. Sanguina poi la piaga della Sicilia. Le entrate di questa erano state regolate soltanto sopra donativi fino al 1810, quando si ordinò un censimento, fondato sui riveli spontanei. Per correggere questi e migliorare l’estimo si moltiplicarono disposizioni e prammatiche: i lavori furono spesso interrotti dalle scosse pubbliche, infine compiti nel 1853. La rivelata rendita dell’isola, sommante a ducati 10,872,063, fu rettificata in 16,658,634, de’ quali appartengono al Demanio 41,339, a manimorte 1,261,974, ai Comuni 213,290, a diversi 15,142,031: laonde al dieci per cento si avrebbe una contribuzione di 1,665,863 ducati, e al dodici e mezzo di circa due milioni. Tutta l’isola, uscente quell’anno, contava 2,231,000 abitanti[145]. La chiesa di Sicilia era una delle più ricche del mondo, non avendo subito le perdite cagionate dalla Rivoluzione. Lo stato d’attività e passività pubblicato dal clero nel 1852 gli attribuisce la rendita di tre milioni di ducati, che indicano estesissimi possessi in paese tanto male andato d’agricoltura e di comunicazioni. Dicemmo che la rendita imponibile delle manimorte nell’isola fu estimata ducati 1,261,974: ma ignoriamo il rapporto di essa col possesso effettivo: oltre che su queste cifre di possessi ecclesiastici v’è sempre esagerazione. Le rivoluzioni non distruggono il potere, ma ne alterano il carattere scemandogli fermezza e maestà; non alleviano l’obbedienza, ma le tolgono il decoro; lasciano in chi sofferse scontentezza e prurito di vendetta; in chi trionfò, brama di rappresaglie inutili dopo le violenze necessarie; pochi comprendendo che prima cura dev’essere il far dimenticare, il calmare le diffidenze e i risentimenti, fondere gli uomini e gl’interessi, riconciliare il soccombuto col rialzarlo, anzichè punire colpe a cui un popolo intero ha preso parte in momenti, dove, e principi e sudditi barcollando sopra una nave in tempesta, nè questi nè quelli possono rendere conto ragionevole di quel che fecero o dissero o promisero. Nulla è più facile nè più triviale che il sistematicamente censurare tutti questi Governi, i quali non seppero sinora far paghi i sudditi, ricondurre la pace, tranquillare gli spiriti: ma suggerire i rimedj è più arduo quando si veda disapprovare gli uni, appunto perchè fanno quello che gli altri ricusano. Deploriamo i Governi cattivi, condannati a diffidare e punire, quanto i deboli che non osano o non vagliono a resistere; i ribaldi che si appoggiano sull’immoralità; quelli che non comprendono come la libertà sia il cavallo che ci porta verso l’avvenire, ma sfrenato precipita, troppo ritenuto ricalcitra e s’impenna, procede sol quando è moderato da mano esperta; quelli sprovvisti d’iniziativa di spirito e di volontà, che lasciano unico partito l’assopirsi con dignità; quelli materiali, che riducono la scienza statistica a speculazioni e gendarmi; e quelli che non si persuadono il disordine poter essere vinto soltanto da chi lo rinnega, non da chi ad esso ricorre per reggersi momentaneamente. La classe colta smaniava di partecipare al Governo; i Governi pretendeano intrigarsi della famiglia, dell’istruzione, della religione, dell’industrie individuali: reciproca illegittimità d’ingerenze, da cui un necessario scontento. Il popolo, che poco bada a ciò che non tocca l’individuo, la famiglia, la città, non intendeva gran fatto di coteste Costituzioni, versanti sull’esterno non sull’essenza della libertà, e capiva che anche i re possono tutelare le persone, le case, l’industria, il commercio. E davvero di tante Costituzioni nate e morte in questo mezzo secolo, quale è che abbia distinto le attribuzioni dello Stato da quelle della famiglia e dell’individuo? qual principe osò di dare utile pascolo alla smania governativa della classe media coll’abbandonarle i giudizj, l’istruzione, la sicurezza pubblica, l’ispezione domestica, riservando pel Governo la sovranità, i pubblici lavori, le finanze, l’esercito? Fra un medio ceto che non sapea bene che cosa chiedesse, un vulgo che niun vantaggio scorgeva in mutazioni che erano soltanto di persone; e principi che, vincolati da un’autorità che gli umiliava, non sapeano bene che cosa concedere, poteva egli trovarsi quella fede che ingagliardisce le opere, quella sicurezza che va diritto a un fine ben determinato? Da alcuni anni, ma più nei due ultimi, il parossismo del rumore avea simulato l’attività della gloria, e sfogavasi colla sonora ciancia e con quel vago di concetti che rende insulsi alla pratica. Fattisi alla declamazione, costoro declamarono anche quando bisognava operare; ridondanti in parole come chi manca di idee, cominciarono litigi dove il vero vinto era il buon senso; e trascinando i migliori non a giudizio ma a supplizio, nei caffè, sui fogli, e dovunque fosse da adoperare la lingua non il braccio, volendo far qualche cosa e non valendo ad altro, faceano strepito; e in giornali, caricature, affissi, imponevano all’autorità, svilivano i magistrati, dettavano provvedimenti sconsigliati, e inventavano mozioni. L’opinione di questi parabolani si era modellata sopra i giornali di Francia, e come quelli, riponeva il liberalismo nell’opposizione sistematica; l’aveano fatta quando portava pericolo; vollero continuarla quando non era più che gazzarra, quando l’arma proibita era divenuta arma d’onore. Amatori antichi della libertà, la accolsero con austero culto; mentre quelli che balzavano dall’idolatria dell’assolutismo all’idolatria dell’individualità, la accostavano come una meretrice; per bisogno di far dimenticare prische bassezze, affettavano altezzosa indignazione nell’insolentire contro i valenti, e in una stampa spudorata dare sul capo a tali che, mentr’essi genufletteano, ritti in piedi affrontavano i martirj della persecuzione pubblica e privata quando nulla aveano da sperare, neppure l’applauso, neppure d’essere riconosciuti dai proprj partigiani; e col titolo d’uomini di talento indicandoli per teste false e inetti alla pratica, li dichiaravano disacconci alle emergenze nuove; e a rincalzo di frasi convincevano che, gran pezza meglio degli antichi ed esperti, valeano quei neonati, che metteano la coccarda perchè altra prova di patriotismo non potevano dare alla folla, solita a scambiare l’emblema per l’idea. Alcuni, sbigottiti dalle trascendenze, vedendo il guasto che le commozioni politiche recano nei costumi e negli intelletti, l’indifferenza de’ principj, l’assurdità degli odj e degli amori, il bruciare oggi gli idoli di jeri, il credere segno di libertà l’arroganza e la calunnia, affrettaronsi d’abjurare come errori anche le verità che soccombeano; e vergognati d’avere troppo sperato di sè, e d’essersi creduti degni della libertà, si sbracciarono in rimpedulare alla vecchia i Governi e le opinioni; o in sussulto svegliati dai sogni d’una coscienza connivente, e vedute le conseguenze inattese di principj mal posati, buttaronsi all’intolleranza persecutrice, biascicando i nomi d’ordine e di religione, la quale, dopo essersi da alcuni, come fatto individuale, adoprata qual mezzo d’indipendenza fino alla rivolta, da altri come fatto sociale, volevasi strumento di potere fino all’assolutismo. I tentativi temerarj fanno indietreggiare gli spiriti sgomentati: ma fra i reazionarj, que’ che vantansi della forza è poi giusto che invochino la ragione? Alcuni, non ravvisando la ricomposizione se non come quiete, condannano fino le oneste libertà e le prudenti garanzie, a foggia di chi bestemmiasse le macchine a vapore pel rumore che fanno; pigliano paura della filosofia anche quando viene in appoggio al senso comune; paura della storia anche quando non giustifica i fatti, ma solo li sincera e li racconta; paura d’ogni aspirazione al meglio, vedendovi un irrompere della demagogia; paura dei sapienti, e perciò privilegiano l’istruzione a tali in cui ha fiducia il Governo, ma non la gioventù, la quale rimane svogliata dallo studio, e discrede fino alla verità perchè bandita da gente screditata; computano il crescere dei delitti, delle carceri, dei trovatelli, quasi non vi fossero ribaldi anche prima della stampa e delle Costituzioni. Altri volsero le mani a strapparsi i capelli, anzichè ajutarsene nel naufragio per salvare almeno le convinzioni: poco migliori di quegli impotenti, che, senza l’audacia del male nè il coraggio del bene, si vantano di star neutrali nell’ora ch’è mestieri di decisioni risolute, e forbendosi s’accontentano di dire «Io l’avea predetto». Altri denunziano di codardia il non perseverare negli errori, e impossibile ogni ricomponimento, e viltà il pensarvi e l’avviarvi; simili al nocchiero che, battuto dalla procella, giurasse eroicamente di non volere più esporsi al vento finchè non l’abbia richiuso nelle otri di Eolo. Altri s’ammantano del titolo di moderati: ma la moderazione non ha merito se non palesi forza; nè quella di Pilato che lascia uccidere Cristo piuttosto che mettere sè in pericolo, vuolsi confondere con quella dei martiri che si lasciano uccidere piuttosto che offendere la propria coscienza. Altri invece non considerano quei disastri se non come effetto dell’altrui moderazione, e reclamano i procedimenti avventati e radicali, che sono sintomo d’irritazione, quanto di marasmo il non provare quel desiderio, ch’è tormento e dignità dell’uomo. Chi tese l’orecchio alla voce di Dio, il quale, traverso alle folgori e al tuono, parla per mezzo degli eventi; chi medita sugli errori proprj e gli altrui, e scandaglia quanta virtù si trovi in fondo ai cuori, onde comprendere quanta libertà si meriti, conosce che la tempesta sconvolge il naviglio ma lo caccia avanti, purchè il piloto, deviando, orzeggiando, retrocedendo anche, s’affissi però sempre alla stella. In tempi sì turbinosi, sotto sferze sì laceranti, la libertà e la dignità naufragarono, ma poi dai marosi furono spinte s’una riva assai più avanzata, e donde non potrebbe rincacciarle se non una nuova procella. Anche in Italia i Governi si svecchiarono, la rivoluzione, operando a guisa della pietra caustica che, passando sull’ulcera, ne modifica la superficie e sollecita il granulamento e la guarigione; molte fasce furono levate, che al bambino voleansi conservare anche fatto adulto; l’industria e il benessere fisico procedettero a passi giganteschi; e sebbene gl’interessi materiali pajano prevalere, fino a voler ridurre la società ad una accomandita, l’uomo a un mulino, dove ai motori intellettuali e morali sono surrogati il calcolo e i contrappesi, noi crediamo che rimedj non ultimi sieno i materiali, e la cura di crescere la ricchezza nazionale e di ben ripartirla. L’Italia contava ventisei milioni di abitanti, tutti cattolici, tutti quasi d’una lingua, eppure divisi in quindici Stati, di cui sette forestieri[146]. Possiede eccellenti linee geografiche militari, fortezze inespugnabili, buoni porti, canali e fiumi non mai gelati; il ferro dell’Elba, il rame d’Àgordo e della Toscana, la canapa del basso Po, le selve dell’Alpi e degli Appennini potrebbero fornire d’eccellente marina lei che siede fra due mari, e che dalle sue coste vede la Francia, l’Algeria e la Grecia. Pure, malgrado i progressi dei due regni estremi, la sua marina è insufficiente, nè da noi direttamente ricevono gli olj, le sete e le frutte i lontanissimi consumatori. Nella Lombardia aumenta l’operosità agricola e la popolazione, mentre scarseggia nelle parti meridionali, ove troverebbero asilo e lavoro que’ tanti, che dai laghi superiori e dalla vicina Svizzera migrano ad ingrate lontananze. Ora poi che il Mediterraneo recupera l’importanza antica, e che si matura il taglio dell’istmo di Suez, presto si sentì come là consisterebbe la vita o la morte dell’Italia: l’Austria favorì quest’impresa in ogni modo, presagendone un immenso incremento alla navigazione di Trieste: il Municipio di Venezia nominò una Commissione che divisasse e proponesse i modi di meglio vantaggiarne il commercio veneto, e promuoverlo con società commerciali; e l’Istituto pose a concorso un’indagine sulle probabili conseguenze che ne verranno al commercio in generale e a quel di Venezia in particolare, e come provvedere che il continente europeo diriga pel porto di questa le spedizioni: si propone d’ingrandire i porti di Genova e di Civitavechia, perchè diventino pari alla estensione che al commercio darà quella nuova via. Le Due Sicilie stanno all’antiguardo, sporgendosi quasi in atto di provvedere alle vaporiere l’acqua, il legname, i grani, e di competere nella comunicazione coi mari dell’Arabia e dell’India. Insomma vorrebbesi che l’Italia si trovasse allestita in modo di non lasciar preoccupare da altri le nuove comunicazioni, che offrirebbero un opportuno campo all’attività di essa, e un modo di conseguire que’ nobili vantaggi, che mai non saranno per gl’infingardi. Intanto fra terra si sollecitano le vie ferrate, che non solo, superando gli Appennini, congiungeranno fra loro i disuniti fratelli d’Italia, ma traverso alle Alpi avvicinandoci ai forestieri, ci mostreranno che la nazionalità non può essere esclusiva e repellente nè come sentimento nè come istituzione. Fra queste utili cure e le meste sollecitudini del rinascente cholera, dello scarseggiante grano, e di nuovi micidj alle viti e ai bachi da seta, parevano gli animi staccarsi dalla politica, quando un nuovo miraggio fu spiegato agli occhi dalla guerra rottasi fra i grossi Stati. CAPITOLO CXCIV. Aspirazioni e preparativi piemontesi. Il Piemonte era divenuto la mira per tutti i nemici dell’Austria e de’ Governi tormentatori degli Italiani; l’appoggio dei vinti del 1848. Il Parlamento, per quanto scarmigliato, parea voce di tutta l’Italia, e a quella davasi ascolto; i ministri, che si sbalzavano a vicenda, erano considerati come rappresentanti di idee, e ne avevano, certo non tali da bastare al grande concetto nazionale. Stavano dalla destra Revel, D’Azeglio, Balbo, altri illustri per nobiltà e carattere, per posizione e precedenti, che credeano essersi fatto abbastanza per allora, e tremavano non giungessero al potere i rivoluzionarj, nati nel 48. Dei quali oratore era Camillo conte di Cavour, variamente giudicato mentre visse, sistematicamente ammirato dopo morte. Egli stava coi conservatori, anzi coi clericali dapprima, e collaborava al giornale _Il Risorgimento_, mentre Rattazzi conduceva la sinistra, irrequieta, impaziente, che voleva un’altra riscossa. I due capi s’unirono, e formossene quel che si disse il connubio, transazione per unire le forze de’ varj partiti. Il colpo di Stato del 2 dicembre in Francia parea far prevalere la riazione; e poichè il nuovo imperatore domandava si frenassero le cospirazioni e la stampa, fu proposta una legge per regolarla (1852 2 febbrajo). Il Menabrea la sostenne con fortissimo discorso, ma con violenza gli si opposero Rattazzi e Cavour. Quest’ultimo, entrato nel ministero D’Azeglio, veduto che a nulla approdava la parte che dicevasi moderata, se ne staccò; e ito col Rattazzi a Parigi per intendersi coll’imperatore, presto ebbero abbattuto D’Azeglio. E alla politica moderata e timida sottentrava la bellicosa e aggressiva, che diceasi virile, e che dichiarava passato il tempo degli iniziatori. Ne parve manifestazione e frutto l’attentato milanese del 6 febbrajo 1853. E cominciando dagli ordinamenti interni, furono aboliti gli stabilimenti religiosi, pochi eccettuandone; colla legge Siccardi si cassò il fôro ecclesiastico e la personalità giuridica delle corporazioni; si dichiarò distrutto il concordato del 1841 col papa; si escluse dalle scuole laiche ogni ingerenza di ecclesiastici; ai beni di manomorta s’impose una tassa particolare. Roma protestò; le popolazioni si divisero di parere, altre approvando, altre disapprovando i mutamenti introdotti. Nei sei anni del Ministero Cavour il Piemonte si ravvivò, giacchè Paleocapa spingeva le strade di ferro; Lamarmora ricomponeva l’esercito; Rattazzi riformava l’amministrazione e la legislatura; Cavour inaugurava la nazionale politica a danno dell’Austria. Ingegno vivace e pronto; efficacia a persuadere meravigliosa, comechè infelice parlatore; colla prudenza e l’imprudenza d’un politico; fino conoscitore degli uomini, dei quali valevasi come di stromenti; destro a mescersi fra le parti più esaltate, e a scompigliarne le trame; sapendo per mille esperienze quanto le sublimi declamazioni nascondano vilissimi pensieri; persuaso intimamente che tutto si compra nelle moderne società, conoscendo la propria abilità e confidando in quella; ridendo in cuor suo delle forme e dei formalisti, guardando nei fatti e nella realtà; le dicerie al Parlamento ascoltava sempre col sogghigno sulle labbra e rispondeva coll’ironia pungente e sprezzante, ch’era tanta parte del suo talento oratorio. «I fischi (diceva alla Camera) non mi muovono; li disprezzo altamente e proseguo». Nell’intento di sbrattare l’Italia dai principi indigeni e stranieri, sempre avea cerco appoggio dall’Inghilterra, amica dei paesi turbolenti e nemica del papa. Ma allorchè Palmerston cedette al Ministero conservatore di Derby, meno condiscendenza vi trovò Cavour, chè si accostò di più alla Francia. Dopo che il 1848 ebbe rotte le alleanze del 1815, non si era mai riuscito a costituirne di tali, che assodassero l’equilibrio in Europa. Col pretesto di attentati della Russia, Inghilterra e Francia si allearono (1854 marzo) a sostegno della Turchia e procurarono trarre nella propria lega le altre Potenze europee. La Prussia si tenne in disparte; l’Austria, sul cui territorio sarebbesi dovuto passare per attaccare la Russia, esitò lungamente; alfine, sentendo i pericoli d’un incendio europeo, lo prevenne col chiarirsi neutra. Ne ebbe dispetto la Russia, che nel 1848 aveale dato mano a salvarsi: più n’ebbero le due alleate, che giurarono vendetta; ma fu merito di essa se così la guerra non divenne generale e se i combattenti dovettero restringere le orribili loro stragi nella penisola della Crimea. Fu certo una delle guerre più micidiali e forse delle meno ragionevoli che la storia ricordi: ma con essa rinacquero tutte le speranze dei popoli oppressi, fidenti in una conflagrazione universale; e come la Grecia, così l’Italia ribollì. Quando la guerra fu ridotta marittima, importava alle due alleate d’avere un appoggio in Italia, e lo ricercarono dal re di Napoli. Questi avea sempre tenuto relazioni amichevoli coll’imperatore di Russia, e avutolo anche ospite, per lo che ricusò. Vi diede ascolto Cavour. Benchè i timidi trovassero strano questo andare in sostegno del Turco, per una causa in cui non s’aveva interesse alcuno, lasciando il paese sguernito ed esposto agli Austriaci, che potrebbero valersi dell’opportunità; altri riflettè s’aprirebbe un’occasione di riparare le ultime sconfitte, di trovar posto fra le grandi Potenze, d’addestrare sulla Cernaja i soldati per poi adoprarli sul Po o sull’Adige, dopo fattesi amiche Inghilterra e Francia. Si mandarono infatti 20,000 uomini sotto il generale Lamarmora, e ben si disse che da Torino s’andò a Milano per la via della Cernaja. Perocchè, presa Sebastopoli, si fece la pace colla Russia, e per trattarne si radunò un Congresso a Parigi (1856 30 marzo). Il Piemonte, come avea combattuto colle grandi Potenze, domandò di poter sedere con esse nel Congresso, e per quanto altri contraddicessero, e massime l’Austria, lo ottenne. I liberali speravano in quell’occasione si sarebbero levate di mezzo le differenze che esistevano coll’Austria; si torrebbero via, mediante un concordato, le irregolarità delle relazioni col papa e l’inquietudine delle coscienze timide; s’indurrebbe l’Austria a levare i sequestri de’ Lombardi, a rimpatriare i banditi, a far buoni trattati di commercio, a concedere qualcosa alle aspirazioni nazionali. Destinavasi a rappresentare il regno Massimo D’Azeglio, ma poichè la condizione sua privata l’avrebbe reso inferiore agli altri inviati, risolse d’andarvi lo stesso ministro Cavour. Non si aveva alcun programma determinato; al più cercavasi ottenere qualche compenso pel tanto denaro e pel sangue versato, ma presto furono introdotte quistioni estranee allo scopo proposto. L’imperatore dei Francesi, da un lato volea vendicarsi dell’Austria, la cui neutralità armata aveva impedito una guerra che portasse un totale rimpasto dell’Europa, dall’altro avea più volte domandato al re o al ministro che cosa potesse fare a vantaggio dell’Italia. Spinse egli il Cavour a cacciare in mezzo qualche proposito, ed egli, scostandosi affatto da ciò che vi si trattava e dagli interessi delle Potenze intervenute, tolse a deplorare la condizione sregolata in cui si trovava l’Italia, e principalmente gli Stati meridionali e il Pontifizio: rimaner la penisola parte in guardia de’ Tedeschi, parte dei Francesi; da ciò un fomite di scontentezza e disordine, che rendeva impossibile qualsiasi assetto regolare: e proponeva si secolarizzasse il governo papale, surrogando al diritto canonico il Codice Napoleone, e staccando le Legazioni, che si porrebbero sotto un vicario pontifizio laico decennale, con truppa indigena: si mettesse anche un limite all’Austria, richiamandola ai trattati del 1815, mentre ora si fortificava a Piacenza, si era estesa a Parma, in Toscana, nelle Romagne, divenendo minacciosa all’indipendenza de’ varj Stati. Alcuno dei congregati protestò contro l’oratore italiano; d’altro qui trattarsi; mancarvi i rappresentanti delle Potenze accusate: i Greci sotto la Turchia stavano ben peggio: eppure si era fatto guerra perchè la Russia avea voluto mescolarsene: or qual diritto di mescolarsi degli Stati italiani? ciò contrastare alla non intervenzione negli affari interni d’un altro paese, sancita nel 1830 qual dogma politico, e per la quale appunto erasi fatta la spedizione di Crimea. Ma Cavour, animato dall’imperatore, stende una lunga memoria sui casi d’Italia: spinge i giornali a parlare nell’egual senso: tornato a Torino, nella Camera, prorompe più violento, vantandosi che «la situazione anormale e infelice d’Italia fosse stata denunziata all’Europa non più da demagoghi e rivoluzionarj, ma dai rappresentanti delle prime Potenze europee»: agli smoderati soddisfaceva coll’assicurare che la politica della Sardegna rimaneva ostile all’Austria più che non fosse stata giammai. Così la guerra fattasi in Crimea a favore dei Turchi, riuscì in realtà contro l’Austria: la pace di Parigi che la chiudeva, diveniva «semenza di denti di drago»; e mentre garantiva la conservazione della Turchia, preparava la distruzione dei principati tra cui era divisa l’Italia; ed il rinnovamento italiano, fino allora commesso all’iniziativa de’ particolari, diventava impresa di un Governo. Pertanto in tutti i modi secondare gli Italiani nel riluttare contro gli invisi regnanti e massime contro l’austriaco; e cercarvi adesioni all’estero. In Inghilterra si moltiplicarono scritture, discorsi, _meeting_ contro dei Governi italiani, e massime del Pontifizio. Ma poichè non più in là che nel 1849 aveano tutti i Potentati attestato la necessità del dominio temporale, non sarebbe puerilità il voler abbatterlo adesso? pertanto le ire si addensarono piuttosto contro il Governo di Napoli. Già nel 1854 Mazzini avea esibito a Garibaldi d’andare a conquistare la Sicilia; questi ricusò: l’accettò Giovanni Interdonati, che scoperto fuggì. Dai ripetuti tentativi restavano eccitate le speranze e fomentate le ire dei rivoluzionarj; mentre si asseriva che il movimento dovea fondarsi, non più su congiure e sollevazioni, ma sulla diplomazia, e sul proposito di costituire un regno dell’Alta Italia. Manin, già dittatore di Venezia, che fermo nell’amore dei Governi repubblicani, non si era rifuggito in Piemonte a godere, ma in Parigi a stentare, il 19 settembre 1855 aveva emanato una lettera, consigliando una società che mirasse all’indipendenza e unificazione dell’Italia, fosse monarchica o federativa; poi riponendo affatto la sua bandiera, il 6 gennajo 1856, pubblicò un indirizzo, dove eccitava a concorrere colle forze popolari a sostenere il Governo sardo, e vi poneva in testa: Partito nazionale italiano. _Indipendenza. Unificazione._ «Convinto che, anzitutto, bisogna _fare l’Italia_, che questa è la quistione precedente e prevalente, io dico alla Casa di Savoja: «Fate l’Italia e sono con voi; se no, no». Dico ai costituzionali: «Pensate a fare l’Italia e non ad ingrandire il Piemonte; siate Italiani e non municipali, e sono con voi; se no, no». Dico infine ai repubblicani: «Sparisca ogni denominazione di partiti accanniti a concordanza e discrepanza, piuttosto sopra quistioni secondarie e subalterne che non sopra la quistione principale e vitale: fate voi per primi nuovo atto d’abnegazione e sacrifizj alla causa nazionale. La vera distinzione è in due campi. Il campo dell’opinione nazionale vivificatrice, e il campo dell’opinione municipale separatista. Io repubblicano pianto pel primo il vessillo vivificatore. Vi si rannodi, lo circondi, lo difenda chiunque vuole che l’Italia sia, e l’Italia sarà». Altro nemico a combattere diceva essere la teoria dell’assassinio politico; mentre la morale in atti e in teorica costituisce la forza viva e vera. «È vergognoso l’udire ogni giorno raccontare accoltellamenti atroci in Italia. Le nostre mani debbono essere nette; il pugnale lasciamolo ai Sanfedisti». Erano dottrine vaghe; parole prolisse e condite colla solita prurigine d’insulti a chi diversamente pensasse: ma gli avversarj del Mazzini andarono superbi di opporgli un nome illustre, e così, a fronte della _Giovane Italia_, restò la _Società Nazionale_. Nella nuova via si posero molti anche repubblicani, e Torino divenne il centro dell’azione italiana, e fattore principale Giuseppe La Farina, profugo siciliano, di pronto ingegno e di forte volere, che da repubblicano risoluto volgeasi allora a sostenere la monarchia, personificata nel re di Sardegna. Mentre Manin da Parigi proclamava _Agitatevi ed agitate_, Mazzini da Londra ripeteva: «Non libri ci vogliono, ma cartuccie». Ordironsi dunque nuove cospirazioni. Un pugno d’uomini, partito da Sarzana, invase le terre di Massa (1856 agosto), ma non vi trovò rispondenza. Un altro pugno sollevossi a Cefalù e Girgenti in Sicilia; nel tempo stesso che a Napoli scoppiavano la polveriera e una fregata: e un Milano, soldato, in una festiva rivista al Campo di Marte, avventava un colpo di bajonetta al re. Costui fu mandato a morte, e così il barone Bentivegna, capo di sollevati siciliani; e furono celebrati in versi e in prosa come eroi e martiri e «i migliori de’ figli d’Italia». Anche Pisacane salpava da Genova per isbarcare nel regno, ma sbarcato fu ucciso, e sequestrato il legno. Cavour ne levò rumore come di violato diritto delle genti, e l’Europa lo sostenne: l’Inghilterra mandò in quelle acque una flotta; si minacciò richiamare gli ambasciadori: e il re, malgrado la sua fermezza, dovette restituire il vascello portatore di guerra. Dalle Legazioni fu mandata al Cavour una medaglia col motto «Che fan qui tante peregrine spade?» e un’altra come al «Solo che la difese a viso aperto», e una spada al Lamarmora col motto «L’antico valore negli italici cor non è ancor morto»: si aprì una soscrizione per munire Alessandria con cento cannoni, un’altra per dare diecimila fucili a quel qualunque paese d’Italia che primo insorgesse. Ad ogni sobbuglio tentato contro gli altri paesi rinfacciavasi la sicurezza che godeva il Piemonte, senza reazioni, senza corti marziali, senza violazione dello Statuto; garantito unicamente dalle libertà costituzionali e dalla fiducia nel proprio re. Ma ecco appunto in quei giorni scoprirsi in Genova un complotto. La notte 30 giugno 1857 si tenta occupare i forti, incendiare le caserme, uccidere i capi; al tempo stesso che sollevavasi Livorno, e che una nave portava l’insurrezione in Calabria. Il tentativo fu represso colla forza su tutti i punti; ma le indagini d’allora, e più i vanti di poi, rivelarono come una mina fosse preparata sotto tutti i Governi della penisola, non eccettuato quello che stava all’ombra del vessillo tricolore. Felice Orsini, uno dei più zelanti atteggiatori delle idee mazziniane, nel maggio del 1854 avea tentato una spedizione alle foci della Magra. Entrato poi al servizio dell’Austria, forse per corrompere le truppe, era stato carcerato a Mantova, donde fuggito passò in Inghilterra, e quivi preparò, con altri Italiani, una macchina infernale (1858 gennajo), che lanciò a Parigi sotto la carrozza dell’imperatore mentre andava al teatro. Molte persone innocenti ne restarono uccise o ferite; l’imperatore ne andò illeso: Orsini preso e processato, professò avere operato per amore dell’Italia, che credeva tradita da Napoleone, e morendo la raccomandava a questo, come fosse del dover suo il redimerla. Vuolsi che questo fatto operasse sull’animo dell’imperatore, il quale viepiù si fissò nel concetto di fare qualcosa per l’Italia, oppure di sostituirvi all’influenza austriaca l’influenza francese. Chiamato Cavour alle acque di Plombières, vi concertò che la Francia ajuterebbe il Piemonte a sbrattare dagli Austriaci il regno Lombardo-Veneto; questo, coi piccoli ducati e l’Istria e il Trentino verrebbe annesso alla Corona sarda, che in compenso cederebbe alla Francia Savoja e Nizza. Dicono si convenisse pure che il Reame toccherebbe a Murat, la Sicilia a un secondogenito di Savoja, a un Buonaparte la Toscana, cresciuta colle Legazioni; tutti legati in federazione, avente a capo il pontefice, il quale modificherebbe il suo Governo sul modello francese. Tutto stava nel trovare un’occasione, un pretesto di romper guerra all’Austria, e d’allora tutte le mire furono volte a ciò. S’incalorì quindi la stampa, furibonda in Italia, in Francia alternantesi fra ingiurie violente e ipocrite disdette. Quivi, sotto il nome di Lagueronnière, uscì un opuscolo ove, commiserate le condizioni d’Italia, proponevasi un rimpasto di essa in federazione: nessuno degli Stati presenti verrebbe alterato, salvo dare un incremento alla Toscana, che diverrebbe quasi il punto d’appoggio al bilanciarsi dei due maggiori Stati della settentrionale e della meridionale Italia: il papa capo della federazione italica, gran cancelliere di essa, come della germanica era un tempo l’arcivescovo di Colonia. Di ciò tutto, più o meno apertamente discutevasi nei giornali, che a centinaja erano pullulati in Italia. Il La Farina cominciò a pubblicare il _Piccolo Corriere d’Italia_, in fogli sottilissimi, che spedito in lettere negli altri paesi d’Italia, ajutatane la diffusione dai tanti comitati, v’era accolto come un oracolo perchè proibito, e le notizie e i sentimenti n’erano ricevuti senza disputa nè critica, e servivano di materia e di testo agli altri giornali tutti. Ebbe quindi un’influenza estesissima, divisa pure colla _Corrispondenza litografata_, per cui lo Stefani, profugo veneto, mandava le notizie da ripetere a tutti i giornali d’Italia; mezzi onde far echeggiare da mille organi la verità o menzogna qualunque che si volesse. Cavour se ne servì a oltranza; se ne servirono i cospiratori di ciascun paese per mandarvi informazioni, le quali, fossero pure false e assurde, acquistavano fede dall’essere ripetute. Se ne servirono tutte le ignobili passioni per isfogarsi in lodi o in calunnie, che esaltavano mediocri e ribaldi, deprimevano e minacciavano i meglio onorati e pensanti, e destinavano i posti e incombenti futuri, secondo un’idoneità convenzionale. Di tal passo i migrati divennero i veri padroni dei paesi; nessuno poteva operare se non secondo le loro prescrizioni, sotto pena di essere denigrato: un libro, uno scritto era levato a cielo con lodi, o sepolto col silenzio: davasi la parola d’ordine, fuori della quale non v’era che oscurantisti, austriacanti, spie: nessuno fu più se non quello che il giornale lo faceva: chi avrebbe osato contraddirvi per l’amore infruttifero e pericoloso della verità e della giustizia? Se n’agitava viepiù il Lombardo-Veneto. Quando vi venne l’imperatore, erasi preparato il terreno in modo, che guai a chi non solo l’avesse festeggiato, ma pur lasciato di mostrargli avversione. Il giorno che questi entrava in Milano, a Torino s’inaugurava con gran solennità e davanti al palazzo del Senato un monumento, che i Lombardi facevano erigere in glorificazione dei vinti del 1848. Ogni atto, ogni passo dell’imperatore era accompagnato di beffe, caricature, minaccie. Questa scherma fu seguitata contro l’arciduca Massimiliano, destinato governatore del Lombardo-Veneto, e che cercava tutti i modi di farsi perdonare l’essere straniero. Acquistò così una popolarità che dava ombra, come un ostacolo alla meditata annessione: e perciò fu scalzata in tutte le maniere. Fra le quali scaltrissimo fu il divulgare che alcuni ordissero di farlo re del Lombardo-Veneto; arma a due tagli che lo faceva sospetto alla Corte viennese, e insieme bestemmiare dagl’Italiani come un impedimento all’emancipazione. Tutto ciò aveva accumulato materie incendiarie, quando, al ricevimento del Capodanno 1859, l’imperatore de’ Francesi, invece de’ soliti complimenti, disse all’Hübner, ambasciatore austriaco: «Duolmi che le nostre relazioni col vostro Governo non sieno più così buone». Conturbossi l’Europa a quel motto, scaddero le azioni pubbliche: ne trasalirono di gioja gl’italiani, come ad intimazione di guerra: guerra fu il grido generale; l’Austria credette doversi munire movendo in qua il terzo corpo d’armata: il Piemonte raddoppiò i preparativi, e sollecitò la fuga dei coscritti e la migrazione de’ giovani lombardi; lo che divenne una moda, alla quale il sottrarsi costava insulti e peggio: il generale Garibaldi preparavasi, e domandò denari per procacciare un milione di fucili. Il re di Piemonte, nell’aprire le Camere a Torino, professava di «non essere insensibile alle grida di dolore che da tante parti d’Italia si levavano verso di esso», col che costituivasi centro de’ lamenti e oggetto delle speranze. Vi si aggiunse il matrimonio del principe Napoleone, cugino dell’imperatore, colla figlia del re di Sardegna, celebrato nel gennajo. Il Governo fece dal Parlamento autorizzare un prestito di 50 milioni per resistere alle minaccie dell’Austria, e dirigeva una Nota alle Potenze (4 marzo), assicurandole che tutti i provvedimenti non erano che difensivi. L’Austria anch’essa diramò Note (5 e 29 marzo) mostrando com’essa non desiderasse di meglio che di essere lasciata tranquilla negli Stati garantitile dai trattati, e di poter effettuarvi miglioramenti, i quali però erano stati cento volte promessi, e cento volte falliti. E le Potenze rispondeano assicurazioni di pace e la conservazione delle _cose esistenti_; i liberali sinceri temeano questa guerra, persuasi che dal conflitto di principi con principi non può uscire se non il despotismo. Russel disapprovando il contegno del Piemonte, assicurava che all’Italia niuna cosa gioverebbe meglio che le trattative diplomatiche. Una nuova Nota del Cavour (7 marzo) alle intimazioni del Governo inglese rispondeva, i suoi provvedimenti non essere che difensivi, nè farebbe se non «una propaganda pacifica onde viemeglio illuminare l’opinione italiana, e preparare gli elementi ad una soluzione, sì tosto l’Austria disarmando rientrasse nei limiti assegnatile da formali accordi.» Lord Malmesbury alle Camere inglesi protestava (28 marzo) che nè l’Austria al Piemonte, nè il Piemonte all’Austria avrebbe mosso attacco. E pareva aver ragione, poichè l’Austria mostravasi disposta anche a ritirare le sue guarnigioni dai luoghi occupati, e il papa, con Nota espressa, domandò che sì la Francia, sì l’Austria revocassero le truppe che teneano a Roma e a Bologna, volendo egli «affidarsi alla Provvidenza, che certo non l’avrebbe abbandonato». La Società Nazionale invece pubblicò un programma ove organizzava il paese per la guerra. Garibaldi, rappresentante le forze vive della nazione, parea non volesse adoprarsi dal Governo; pure il saperlo venuto più volte a Torino bastò perchè molti giovani dalla Toscana, e più dal Lombardo-Veneto accorressero a prendere servizio in Piemonte, ove si formò a Ivrea un’Accademia militare per formare uffiziali. Questo concorso, più che i parziali conflitti prorompenti qua e là, agitava gli spiriti, poichè non poteva omai sottrarsene alcun giovane che non volesse insulti dagli uomini, sprezzo dalle donne. Il carnevale riesce chiassoso a Torino quanto cupo a Milano: ogni fatto è occasione di dimostrazioni: i giornali attizzano, e non solo divulgano qualunque errore dell’Austria, ma ne inventano; il Governo piemontese chiama sotto le armi tutti i contingenti, e manda fuori un _Memorandum_, in cui si dicevano all’Austria le più severe parole che mai in diplomazia si fossero formulate, pur confessando che il possesso di essa in Italia era conforme ai trattati e legale. E l’Austria, stanca della situazione, irritata dalle provocazioni, prevedendo che alle parole minacciose terrebbero dietro i fatti, risolse uscire dal sistema d’aspettazione, pel quale era sempre stata famosa, e mandò un _Ultimatum_ (26 aprile), domandando che la Sardegna sciogliesse i corpi franchi, come condizione preliminare all’accettare il proposto congresso. Era tardi. Se avesse voluto invadere il Piemonte, dovea averlo fatto nel gennajo: ora aveagli lasciato quattro mesi per prepararsi, e alla Francia per ingrossare verso le Alpi: tre giorni dava ancora per rispondere all’intimazione: due altri fece perdere l’Inghilterra per rappiccare accordi; intanto Cavour fa decretare tra immensi applausi la dittatura; e proclama che scopo della guerra dev’essere l’indipendenza d’Italia. Tirata l’Austria _nella rete tesale_, l’esercito passò il Ticino l’ultimo d’aprile 1859, capitanato dal generale Giulay, che non godeva la fiducia nè dell’esercito nè del paese. Perchè mai non si procedette colla maggiore rapidità, in modo da trovarsi sopra Torino e sotto Alessandria nel minor tempo possibile? Ben gl’Italiani avevano munito la sponda del Po con opere improvvisate, ma che valeano solo contro chi non le affrontasse; aveano rotte strade, allagate campagne; ma ciò intercettava alcuni, non tutti i passi. Appena dichiarata guerra, il Piemonte alzò il grido d’allarme, e tosto l’imperatore dei Francesi dichiarò muovere in soccorso di re Vittorio, suo parente, aggredito dall’Austria. Ma l’esercito non era pronto; le strade del Moncenisio in quella stagione ancora ingombre di neve, e quasi inaccessibili alla cavalleria: il trasporto per mare lungo e faticoso. Il Piemonte potea disporre di non più di 64,000 soldati, 9400 cavalli e 120 cannoni; talchè, se grave era il pericolo, maggiore apparve il coraggio. Ma gli Austriaci stettero accampati fra il Ticino e il Po, coi disgusti e i danni che reca inevitabilmente un esercito, massime di nemici, e nessuna importante fazione fu tentata. Alcuni Francesi erano giunti a Genova sino dal 26 aprile; il 10 maggio si mosse da Parigi l’imperatore, il 12 sbarcò a Genova, in persona volendo per la prima volta capitanare una guerra, nella quale spiegò tutti i mezzi che danno le nuove invenzioni. Qual tripudio fu a Torino allorchè v’arrivò l’esercito francese! era non solo la salvezza, ma la vittoria: e uniti procedettero verso il Ticino. Ognun capisce come la Lombardia stesse in febbrile ansietà, mentre combattevansi le sue sorti così davvicino; sebbene però se ne fossero ritirate tutte le truppe, non fece verun movimento. Ma il generale Garibaldi, a capo di un corpo franco, cominciò a volteggiare sulle rive del Ticino e del Lago Maggiore, lasciate scoperte dai Tedeschi, e varcatolo prese il forte di Laveno e s’avanzò verso Varese e Como (23-26 maggio), donde contava pel Lario spingersi a Bergamo e Brescia, e sollevando dappertutto le popolazioni, tagliare la ritirata agli Austriaci. L’esercito, continuando in avanti e fatta una stupenda conversione, presentò battaglia al nemico (3 giugno); il quale già era in ritirata per ripararsi alla sua linea militare, il Mincio e l’Adige. Il ponte di Boffalora minato, non saltò quanto bastasse per sospendere la marcia degli alleati, i quali, non misurando i sacrifizj d’uomini, potettero passare, e dare la battaglia di Magenta (4 giugno), ove restarono feriti o morti cinque generali tedeschi, 276 ufficiali, 5432 soldati; e dei Francesi perirono i generali Espinasse e Cler, feriti 246 ufficiali, 4598 soldati. I Milanesi, come videro gli Austriaci difilare, in ordine sì ma in ritirata, vuotando il castello e la città, proruppero in esultanze e in quei disordini a cui gettasi una città abbandonata. Presto v’arrivarono commissarj regj; il Municipio proclamò re Vittorio Emanuele; i più destri s’accalcarono attorno a chi poteva largire posti, speranze, vendette, mentre i chiassoni facevano alzare barricate quando niun bisogno ve n’era, e i buoni studiavano ad allestire ospedali ove ricoverare le migliaja di feriti che giungeano dal campo. Da Magenta l’imperatore scrisse un memorabile proclama, ove diceva l’onore e gl’interessi della Francia avergli imposto di soccorrere l’assalito Piemonte; cercare egli gloria non da conquiste materiali, ma nel far libera una sì bella parte d’Europa: il suo esercito non avrebbe atteso che a combattere il nemico e mantenere l’ordine interno, senza porre ostacoli alla libera manifestazione dei voti legittimi, e concludeva esortando a volare sotto la bandiera di Vittorio Emanuele e non essere «oggi che soldati, per domani trovarsi liberi cittadini d’un gran paese». Era un evidente appello alla insurrezione generale, ad armarsi tutti per l’acquisto dell’indipendenza dall’Alpi all’Adriatico. L’esercito austriaco, nel cui comando a Giulay era succeduto Schlick, ritiravasi con tutti i suoi armamenti verso il Mincio, e l’aveva anche passato. Nel tempo stesso che l’esercito francese scendeva pel Cenisio, un altro corpo, sotto la direzione del principe Napoleone, era stato spedito per mare a Livorno, che (tacendo per ora l’intento politico) dovea per la Toscana risalire verso il Po, prendendo così di fianco gli Austriaci, stanziati a Bologna, a Ferrara, a Piacenza. Questi, forse nell’intento di serbarsi grossi per le battaglie decisive, abbandonarono quei posti, distruggendo i forti; talchè il principe Napoleone, senza ferir colpo, potè congiungersi all’imperatore sul Mincio. Il generale Canrobert era stato spedito verso Mantova. Il re di Sardegna col suo esercito formava l’ala sinistra, mirando alla fortezza di Peschiera: il centro era tenuto in linea estesa dai Francesi. In tali condizioni avvenne la battaglia di Solferino (24 giugno), ove si combattè l’intera giornata al sole bruciante; sul tardo, un’orrida procella parve crescere lo sgomento d’una delle maggiori stragi che la storia delle più accannite battaglie ricordi. L’imperatore d’Austria si credette vinto, e ordinò la ritirata, abbandonando non più che una ventina di cannoni al nemico, e ripiegossi ancora dietro al Mincio. Gli alleati ben tosto passarono quel fiume (26 giugno), colla baldanza della vittoria e colla fiducia di nuove. In questo mezzo gravi fatti erano succeduti. Il clero francese credette minacciata la podestà pontifizia; fu dunque mestieri chetarlo con esplicitamente assicurare che non era la rivoluzione che passasse le Alpi, bensì lo stendardo di san Luigi; e l’imperatore diramò una circolare ai vescovi promettendo che «il papa sarebbe rispettato in tutti i suoi diritti di governo temporale». Ma appena gli Austriaci lasciarono Bologna, le Legazioni si sollevarono, e vi si dichiarò la dittatura di Vittorio Emanuele. Appena l’esercito francese toccò il suolo toscano, Firenze tumultuò (27 aprile); il popolo cominciò a schiamazzare perchè si accettasse la bandiera tricolore: gli aristocratici intimarono a Leopoldo che abdicasse: il quale sentendosi circumvenuto, preferì partire, mentre sonavano le grida di Viva la guerra, Viva l’indipendenza, Viva Vittorio Emanuele. Buoncompagni dal verone della legazione sarda annunziò che il granduca avea abbandonato il paese, e il suo re provvederebbe alle sorti toscane e fece nominare un Governo provvisorio, e offrire la dittatura a Vittorio Emanuele. Anche la duchessa di Parma si ritirò, lasciando una reggenza che governasse a nome di suo figlio Roberto, e andava a ricoverarsi in paese neutro, e subito i Parmigiani alzavano le insegne italiane. A Massa e Carrara levasi rumore, e le occupano le milizie italiane, subito dichiarando la dittatura di Vittorio Emanuele; il duca protesta contro tale slealtà, e il Piemonte dichiara accettarne la responsabilità e tenersi in guerra col duca. Questi, istituita una reggenza, si ritira (11 maggio). Così il moto si propaga più di quello che avessero sperato coloro che gli aveano dato l’impulso. Ma l’Europa si adombrava dell’immensa influenza che la Francia veniva ad acquistare nella penisola. Credeasi necessario alla Confederazione Germanica che l’Austria restasse padrona della linea del Mincio; e dieci giorni dopo la battaglia di Magenta, la _Gazzetta Prussiana_ annunziò che si mobilizzavano sei dei nove corpi dell’armata prussiana. Potea dunque credersi che la Germania si movesse tutta a soccorrere l’Austria, che fino allora aveala indarno richiesta. In Francia pure stavasi inquieti, sì perchè vedeasi dilatare la rivoluzione, sì perchè spiaceva il combattere a fianco di quel Garibaldi che tanti Francesi aveva uccisi nel 1849; e mentre a Plombières si era convenuto che la Sardegna guerreggebbe solo con truppe organizzate, esclusi i corpi franchi, or vedeasi il nome di lui ne’ bollettini a fianco a quelli di Niel, di L’Espinasse, d’altri luogotenenti d’Oudinot. Rimostranze di vario genere arrivavano dunque al campo dell’imperatore. D’altra parte, egli era rimasto sbigottito dalla strage di Solferino: incerte essere le sorti della guerra, ed egli affrontando le fortezze, dovrebbe combattere non più colle bajonette ma coi cannoni, e sapeva che gli Austriaci aveano intero l’esercito, preparavansi a una nuova battaglia, non meno fiera e pericolosa: e in ogni modo rinserrandosi nel quadrilatero, erano certi di resistere. Mandò dunque esibire all’imperatore d’Austria un armistizio (8 luglio), e invitatolo a sè, conchiuse con esso un accordo (12 luglio). Davasi egli la parte migliore, offrendo pace dopo la vittoria: l’imperatore d’Austria l’accettava come abbattuto dalla sventura, non privato di forze. Le condizioni ne erano: l’Austria cedeva la Lombardia all’imperatore de’ Francesi, che la donava al re di Sardegna. L’imperatore d’Austria conserva la Venezia, la quale entra in una confederazione italiana, preseduta dal papa; non s’impedirà la ristaurazione dei principi: s’aumenteranno i possessi del granduca di Toscana. Tutto ciò erasi combinato senza farne motto agl’Italiani, e perciò il ministro Cavour, vedendo falliti gli accordi fatti a Plombières, gittò via il portafoglio, e quindi, ritiratosi alla sua villa di Leri (12 giugno), disse col solito sogghigno: «Or ricominceremo a cospirare». E così fece, affaticandosi ad eludere la firma del suo re come avea già eluso l’Austria. Il portafoglio fu raccolto da Rattazzi, sul quale pesò dunque tutta l’impopolarità di quel trattato. La Lombardia restava, con tutte le regole dell’antica diplomazia, acquistata al Piemonte. Il Parlamento aveva concesso i pieni poteri al Governo, valendosi dei quali, il nuovo paese venne ridotto all’assetto piemontese. Ne derivarono infiniti malcontenti; e dovendo allora confessare molti e sentire tutti che l’amministrazione in Lombardia era assai superiore, più pronto ed esatto il servizio delle casse, più regolari la finanza e i protocolli, più indipendente l’organizzazione comunale e la giudiziaria, più liberale il Codice civile, meno fiero il criminale, pareva che il Piemonte potesse imparare e adottare assai. Ma la ragion politica induceva a tutto rovesciare, sì per prevenire ogni idea di ristabilimento del dominio antico, sì per rimuovere le aspirazioni di parità e d’autonomia: e tanto più quando credevasi la conquista del Piemonte si fermerebbe a questo punto. Gli Austriaci avevano portata con sè la corona ferrea, e conservato al paese rimasto il nome di Regno Lombardo-Veneto, benchè del Lombardo non ritenessero che parte del Mantovano. Neppure il Po restava esatto confine, giacchè serbavano parte di territorio anche sulla destra in modo da poter varcarlo a loro voglia. Ma già il Piemonte, elevato a Regno dell’Alta Italia, grandezze maggiori agognava. La pace di Villafranca non era per anco ratificata, come fu poi a Zurigo, e già tutto era disposto a violarla. Nei Ducati e nelle Legazioni si protestò non voler più gli antichi principi. Clamorose deputazioni da tutte le parti venivano a fondersi col nuovo regno; ma poichè ne mostrava alta disapprovazione l’imperatore, il re non volle che «accogliere i loro voti», fece protestare dai giornali contro l’illegalità d’un pugno di cospiratori che esprimevansi a nome delle popolazioni; intanto però lo stemma di Savoja s’alzava dappertutto, e i dittatori dichiaravano governare in nome del re Vittorio (24 7bre). Quando vennero i deputati delle Romagne, il re accolse parimente i loro voti. Meno agevole fu il sollevarsi dell’Umbria e delle Marche; ed essendo insorta Perugia, fu presa dagli Svizzeri pontifizj. Il Governo aveva mandato governatori Farini a Modena, Pallieri a Parma, a Bologna Azeglio, poi Lionetto Cipriano per tutte le Romagne. E subito si fecero prestiti per 33,380,000 lire, oltre le anticipazioni avute di lire 4,733,039: e 500,000 lire dal re, e 300,000 dal Ministero. Poi Farini fu acclamato dittatore a Modena e Parma, dove promulgò lo Statuto e i Codici piemontesi, e cercò far detestare i caduti col far pubblicare le loro carte, anche domestiche. Stabilita la legge militare fra i quattro Stati, ne veniva conferita la capitananza a Garibaldi, che vi sostituì il generale Fanti. Un’Assemblea costituente accoltasi in Firenze il 10 agosto decretava decaduta la Casa di Lorena. Poca fatica durò per conservare in quiete il popolo toscano, che non aveva preso parte al tumulto; e per soddisfare ai voti di coloro che volevano si concorresse alla guerra dell’indipendenza, pregò il re di Piemonte ad assumere la dittatura militare del paese. Il napoletano Ulloa diede spinta agli ordinamenti militari, negletti in paese. I triumviri Danzini, Malenchini e Peruzzi in tredici giorni fecero più leggi e provvedimenti che altri in molti anni, poi rassegnarono i poteri in mano al Buoncompagni. Egli creò un Ministero, preseduto da Bettino Ricasoli, e tutti si diedero a riformare a pressa pressa, cercando soprattutto creare istituzioni che rimarrebbero al paese quand’anche venisse annesso al nuovo regno. Con fermezza moderarono l’interno, e repressero così coloro che volevano portar la rivolta nel Napoletano e negli Stati Pontifizj, così i fiacchi tentativi degli affezionati al prisco Governo, i quali si limitavano a guajolare, tener il broncio, far epigrammi e lanciare qualche petardo. Ma poichè realmente in mano della Toscana stava il decidere se la federazione pattuita fosse possibile, colà si diressero tutti gli sforzi e gl’intrighi. E scopo comune era sofisticare il trattato di Villafranca, e ridurlo a parola morta, atteso che l’imperatore dei Francesi ripeteva assolutamente volerlo osservato, ma non permetterebbe mai che altri s’intromettesse nelle sorti italiane, neppure i Napoletani che pur sono italiani. Capirono il linguaggio i realisti, e solo vedeano che bisognava accelerare, prima che la riflessione sottentrasse. Così l’idea della confederazione diveniva ognor meno possibile. Come il papa sarebbe potuto essere a capo d’un’unione che aveagli già tolto metà del dominio? Come il re di Napoli, che pur sentivasi minacciato? e come non vedere che l’Austria vi ricupererebbe quel primato, per abbattere il quale erasi versato tanto sangue? Inoltre la confederazione tende al repubblicano, mentre ora l’Europa è foggiata alla monarchia, o alle varie forme dell’assolutismo democratico, troppo avverse all’assoluta libertà. Benchè dunque ripetuta nella pace di Zurigo, conchiusa il 17 ottobre, e giurata da Francia e Piemonte, la confederazione metteasi sotto i piedi, vagheggiando l’unità geografica, il regno forte, il pesar sulla bilancia europea. Un opuscolo parigino _Il papa e il congresso_, scritto o consentito dall’imperatore, asseriva la necessità del dominio pontifizio, ma ristretto a Roma e suo circondario; e parve un sagrificare alla nazionalità i diritti pattuiti. Cavour, che opportunamente erasi ritirato, ritornò al Ministero (1860 14 gennajo) con propositi nuovi, quali erano di tentare l’acquisto non più soltanto dell’Alta Italia, ma di tutta. Osare molto è il modo di riuscire. L’imperatore de’ Francesi cercò ancora fermar quella valanga delle annessioni con consigli e proteste; e proponeva al regno d’Italia s’annettesse Parma e Piacenza: la Toscana tornasse nella sua autonomia politica; le Romagne avessero un’amministrazione laica col vicariato di Vittorio Emanuele in nome del pontefice. Ma queste interposizioni non si credettero mai sincere, o si pensò poterle sorpassare francamente. In fatto stabilivasi che l’Emilia e la Toscana col suffragio universale dicessero sì o no sulla formola, «Annessione al regno costituzionale di Vittorio Emanuele, o dominio separato». Compita la votazione colla inevitabile superiorità del _sì_, il Farini e il Ricasoli recavano a Torino (22 marzo) gli omaggi di quelle provincie, che restavano dichiarate parte integrante del regno italico. Alle Potenze europee non poteva piacere questa infrazione dei trattati del 1815, che alle stipulazioni diplomatiche surrogava il suffragio popolare. «Attesi questi incrementi» Napoleone reclamò la cessione alla Francia di Nizza e della Savoja. Cavour poco esitava su questo patto, del resto già consentito a Plombières. La facilità con cui erano riuscite l’Emilia e la Toscana, e gli applausi che vi si alzavano, doveano essere stimolo al resto d’Italia ad imitarle. In fatto l’Umbria e le Marche erano sommosse dagli impazienti, viepiù dacchè parea la Francia voler rimettere l’accordo tra il papa ed il regno. La politica romana era diretta dal cardinale Antonelli, ed era venuto ministro delle armi monsignor De Mérode, figlio di quel che fu capo e martire della rivoluzione, per cui nel 1880 il Belgio cattolico si sottrasse all’Olanda protestante. Per un drammatico accidente da soldato fattosi prete e cameriere di Sua Santità, con ingegno brillante e attività instancabile si fece campione della causa del papa, e con ardito concetto pensò dar alla santa Sede una forza propria. Chiese a ciò un generale di grand’abilità nell’organizzare, il Lamoricière, onestissimo uomo quanto prode soldato, vincitore di Costantina e di Abdel-Kader, popolarissimo per aver creato il corpo degli zuavi, poi ritiratosi malcontento dagli affari e dalle armi quando alla repubblica successe l’impero. Egli accettò, sia per devozione alla santa Sede, sia per esercitare la propria attività, e l’imperatore, cui dovea piacere questo modo di trarsi d’impaccio, gli consentì l’andata. Si fece appello a tutti i Cattolici come a nuova crociata; e vi accorsero molti della nobiltà francese e belga, non ricevendo soldo; molti giovinetti usciti dai collegj di Francia vennero a schierarvisi come un tempo alle crociate, poi alla guerra d’America; taluni accompagnati dai loro parenti. Ma il Lamoricière capiva che gente sì fatta è eccellente per colpi di mano, all’uso di Garibaldi, mentre qui si trattava di tener l’ordine interno, e seriamente imporre a un nemico che si presentasse. Ai rivoluzionarj spiaceva questa possibilità di difesa, onde accaloravano le esclamazioni esterne e le irrequietudini interne; formavansi bande; cresceano i delitti, tantochè il Governo italiano spediva un’intimata a Roma che le bande d’avventurieri formatesi sotto un capitano straniero si licenziassero, se no, l’esercito italiano invaderebbe le provincie pontifizie. Prima che la risposta potesse giungere, il generale Fanti invadeva la Romagna (1860 11 settemb.): Cialdini penetrava nelle Marche, Della Rocca nell’Umbria. Lamoricière, scorgendo non poter resistere, cercò guadagnare Ancona, ma raggiunto a Castelfidardo, fu disfatto (18 settemb.), e a stento potè giungere soletto ad Ancona, che per nulla preparata, dopo breve assedio cedeva. Così le Marche e l’Umbria entrarono a far parte della famiglia italica. Non minore sentivasi l’agitazione nelle Due Sicilie, commosse dai tanti esuli, che non erano voluti rimpatriare malgrado l’amnistia. Morto Ferdinando II (1859 maggio), succedeva il giovane figlio Francesco. Col mandar via novantun cittadini sgombrò le carceri politiche. Del prender parte alla guerra dell’indipendenza sentiva il pericolo. Mancatane l’occasione per la pace di Villafranca, moltiplicaronsi le imputazioni contro il re, che aveva lasciato decidere le sorti italiane senza di lui. In Sicilia s’indussero a sollevarsi alcuni, ed ora si gridavano decaduti i Borboni, ora si acclamava Vittorio Emanuele. Da ciò il dover adunarsi truppe a difesa dell’isola, e l’occhieggiarla tutti i rivoluzionarj come opportuno appoggio. Infatti a Genova si preparava una spedizione; tutti sapevano che il 5 maggio Garibaldi s’imbarcherebbe co’ suoi; e infatti quel giorno, occupati con finta violenza due legni della società Rubattino, costeggiavano raccogliendo da ogni proda uomini e armi. Tutta Italia si scosse all’annunzio di questo fatto e all’incertezza della destinazione. Quei mille ardimentosi sbarcarono a Marsala, dove legni inglesi ne agevolarono la discesa, impedendo che le navi napoletane potessero bombardare i battelli se non quando furono vuoti. Garibaldi (1860 12 maggio), avuti pochi seguaci e cavalli, procedette verso Milazzo, il fascino del successo accrescendogli seguaci e applausi: egli si proclama dittatore a nome di Vittorio Emanuele (14 maggio); superata a Calatafimi una piccola resistenza, giunge a Palermo, che fu presa via per via, poco mescolandovisi i cittadini: al 6 giugno soscrivevasi la convenzione, per cui 30,000 buoni soldati cedevano a un pugno di ragunaticci, e parte arrolavansi con questi, parte salpavano pel continente. Già il resto dell’isola erasi sollevato. A Palermo sistemavasi un Governo, ma Garibaldi non consentì l’immediata annessione al regno d’Italia, avria potuto farsi o re o capo di repubblica. Facile è immaginarsi lo scompiglio di Napoli, ben prevedendo che la rivoluzione, ormai padrona dell’isola, si appiglierebbe al continente; per condiscendenza a chi credeva così rimuovere il pericolo si richiamò in vigore la Costituzione del 1848, mettendo a capo del Ministero lo Spinelli, in voce di liberale; si mandarono Manna e Winspeare a Torino per far lega offensiva e difensiva. A questi temporeggiava le risposte il Cavour, col pretesto di voler rispettare il voto dei popoli e non conoscere le intenzioni di Garibaldi, al quale il re dirigeva una lettera consigliandolo a non più conturbare il regno. Il tentennare del Governo napoletano, come succede in ogni rivoluzione, lasciava sfrenare le passioni, onde delitti e cozzi, e tumulti e rivolte contro i rappresentanti o del popolo o del Governo o delle Potenze. La flotta, che unica poteva riparare un’invasione, diveniva sempre più sospetta. E già Garibaldini sbarcavano qua e là: Garibaldi stesso scende a Reggio; le provincie insorgono; il re, veduta vana la resistenza, lascia la capitale per non esporla a un assalto, e per concentrarsi a Capua e Gaeta, dopo protestato contro quanto avveniva. Liborio Romano, suo ministro fin a quel giorno, mandò subito invitar Garibaldi, dicendolo aspettato come un liberatore: Garibaldi entrava senza seguito come senza ostacolo: e padrone qui pure faceva atti sovrani, e consegnava la flotta al Persano ammiraglio piemontese, e la Corona a Vittorio Emanuele. Le truppe italiane entravano nel regno per Pescara, e unitesi a Garibaldi che sul Volturno era dovuto arrestarsi, attaccavano Capua che s’arrendeva. Re Vittorio mosse alla volta del Napolitano «per rassodare l’ordine» e fermare e spegnere la rivoluzione; e alle Camere domandava il voto di approvazione alla politica fin là seguita, e di poter unire allo Stato le nuove provincie; e n’ebbe 296 voti con 6 contrarj. Proclamavasi in Napoli il plebiscito che annetteva anche quel regno (3 novembre). Chiuso in Gaeta, il re di Napoli doveva aspettare o che il popolo si riavesse dalla sorpresa, o lo soccorressero i re, i quali comprendessero che nel trionfo dell’insurrezione trattavasi la propria loro causa, e volessero far rispettare o la dignità regia, o il diritto delle genti, o le loro promesse. Il generale Cialdini presto raccolse quanto era duopo a un serio assedio di Gaeta, mentre l’ammiraglio Persano disponeva la flotta per mare: e l’imperatore di Francia, che aveva dichiarato non permetterebbe l’attacco da quella parte, recedendo da tal proposito, fece dalle sue navi abbandonare la rada, e così fu intimato il blocco. La difesa fu degna di miglior sorte, e lunghissima sarebbe durata se non intervenivano o casi o arti inattese. Il 5 febbrajo scoppiava in Gaeta (non si sa bene se per accidente o per altra cagione, dice la relazione officiale) un deposito di polveri, onde moltissimi morti e feriti, e, aperta larga breccia, era impossibile di più resistere. Il 13 febbrajo si capitolò. La famiglia reale s’imbarcava per Civitavecchia, accolta dal papa coll’amorevolezza ond’egli n’era stato accolto nel suo esiglio. La cittadella di Messina, tenuta dal maresciallo Fergola con 4000 uomini, negò lungo tempo rendersi, finchè Cialdini la prese. Da tutto ciò nacquero scontenti, e viepiù nella Sicilia, per molti mesi in mano dei prodittatori, che non essendo d’accordo sulle sorti future dell’isola, variarono d’intenti, patendone e le finanze, e la sicurezza pubblica, e la libertà. I volontarj stavano ancora sotto la mano di Garibaldi, vogliosi di lanciarsi contro gli Stati Pontifizj, dacchè vedevano che l’imperatore dei Francesi era disposto a lasciar fare. Di ciò s’inquietavano le Potenze, che unanimemente avevano considerata l’indipendenza del pontefice come reclamata dal mondo cattolico, e non credevano opportuno restasse in tutela della sola Francia; ma l’imperatore le rassicurava: aver veduto mal volentieri la caduta del regno delle Due Sicilie, e violate le stipulazioni di Zurigo, ma i fatti compiuti non potersi non riconoscere. Garibaldi domandava sino in Parlamento un milione di fucili, e non dava pace al Ministero, e massime al Cavour, «il cattivo genio d’Italia», quasi gli avesse guasta l’impresa di Napoli coll’introdurvi le truppe regie, e credeva poter gettarsi contro l’imbelle Roma come contro l’armato quadrilatero, e di là avventare la rivoluzione in Austria, in Boemia, in Ungheria, e rassettare tutta Europa nell’ordine nuovo. E il re di Sardegna mutava il titolo con quello di re d’Italia (1861 27 marzo); e la Camera accettava un ordine del giorno pel quale si riconosceva l’Italia una e Roma sua capitale. Le Potenze ne protestarono e Russia e Prussia richiamarono l’ambasciatore: lo stesso imperatore dei Francesi ricusava di riconoscere il nuovo regno. Tutto ciò rese amari gli ultimi giorni di Cavour, che spirava il 6 giugno a cinquantun anno; ogni bene che accadde da poi, si disse conseguenza del preparato da lui; ogni male, conseguenza dell’essere egli mancato. Tanto era morto a tempo. Il succeduto Ministero Ricasoli durò nel proposito di voler Roma e Venezia, o almeno di dirlo: e se Cavour lo sperava dalla Francia, Ricasoli confidava nell’Inghilterra. La Francia, quasi a consolazione della perdita del gran ministro, riconobbe il nuovo regno, o piuttosto il titolo di re d’Italia assunto da Vittorio Emanuele II, «declinando qualunque solidarietà in imprese atte a turbare la pace dell’Europa» (_Moniteur_ 25 giugno): frasi elastiche, malgrado le quali adoprò anche in appresso perchè altre Potenze lo riconoscessero, siccome hanno fatto. Ma dacchè erasi costituito un Governo, doveva cessare la rivoluzione; bisognava tornare a qualche calma gli spiriti, a qualche ordine la sovvertita Italia, ricostituire l’esercito, risanguare le finanze, ridurre le nuove provincie ad abbandonare e le pretensioni e le abitudini per uniformarsi ad unità: tutto ciò fra le esorbitanze dei rivoluzionarj, e l’ebbrezza di successi che nulla lasciavano credere impossibile. Garibaldi, creazione del pensiero popolare, acquistava le proporzioni non d’un eroe ma d’un dio. L’amor proprio gli fu solleticato dalle immense lodi profusegli da un secolo meticoloso, debole, egoista, cui parve fenomeno un uomo che non ha esitanze o riguardi, non cerca impieghi, decorazioni, stipendj. Bisognò conchiudere che l’ambizione sua era più elevata, e trovava soddisfazione nel servir la nazione, sebbene talvolta siasi messo fin sopra di essa, esclamando: «L’Italia l’ho fatta io; posso disfarla». Sciaguratamente trovossi a lato settarj egoisti, inetti al Governo perchè formati nelle società segrete, e che davano consigli personali, gretti, irosi; cortigiani, che sono ben lungi dal suo disinteresse, talvolta gl’insinuarono ch’e’ sia l’apostolo dell’umanità, l’iniziatore di tutte le rivoluzioni da farsi, di tutte le nazionalità da costituirsi. Cavour, maneggiatore di giornali, e abile a scassinare il credito altrui nei caffè o alla tribuna, avea saputo dargli il gambetto dopo le imprese nell’Italia meridionale, e surrogare a lui il re, ai volontarj il Parlamento; non volle lasciargli vincere neppure i più innocenti puntigli, come la medaglia di cui volea decorare i Garibaldini; concitò contro di questi le gelosie dell’esercito. Ricasoli sottentrato, restituì a Garibaldi l’iniziativa, sebbene si trovasse costretto a dichiarazioni e concessioni intempestive. I Garibaldini erano scontenti che la conquista da essi vantata del Napolitano fosse attribuita ai regj: i Mazziniani disapprovavano l’aver consolidata la monarchia; molti tornavano verso l’unione federale. Per satollare tutti non v’era che offrir in pascolo Roma, e tutti speravano da oggi a domani vederla occupata. Ricasoli, che l’invasione di Roma sentiva impeditagli dalla cattolicità, diresse al papa una lettera (10 settemb.) per persuaderlo ad una transazione, per cui, rinunziando al potere temporale, s’assicurerebbe ampie facoltà spirituali. Suggeriva insomma che il papa conservasse l’alto dominio sopra gli Stati toltigli, e la sovranità assoluta di Roma e del Patrimonio di san Pietro, formanti uno Stato autonomo, con governo laico: il re d’Italia pagherebbe un tributo, ma governerebbe le provincie come parte integrale del regno: le Potenze garantirebbero il trattato, e si obbligherebbero ad un sussidio al pontefice. Col titolo di solennizzare la canonizzazione di martiri del Giappone, il papa convocava a Roma grandissimo numero di prelati da tutta la cristianità; i quali in tal occasione dichiararono che, per l’indipendenza spirituale della Sede pontifizia, credevano, ora più che mai necessaria la conservazione del potere temporale. Ne fremettero gli esagerati: e costituivasi un’_Assemblea nazionale italiana_ per promuover arrolamenti di volontarj, con comitati dappertutto. Ne crescevano la baldanza dei sommovitori e le apprensioni del Governo, che prima parea secondarli; sicchè Ricasoli, soverchiato dalla sinistra, abbandonato dalla destra, dovette rassegnar i poteri il giorno appunto (2 marzo) che Garibaldi sbarcava a Genova. Rattazzi, richiamato alla presidenza del Ministero, Garibaldi mostrò aggradirlo, e s’intese con lui per portar la rivoluzione in Grecia, in Albania, nel Montenegro, poi nell’Ungheria; di là prendere alle spalle l’Austria, e strapparle la Venezia. A Genova intanto tenevasi un’adunanza (9 marzo), diretta a collegare in un’_Associazione emancipatrice_ tutte le associazioni democratiche del regno, collo scopo di compiere il plebiscito 21 ottobre 1860; con Roma capitale; eguaglianza de’ diritti politici in tutte le classi; concorso delle armi civiche a promuovere e assicurare l’unità e la libertà della patria. Per quanto i capi temperassero i discorsi e le risoluzioni, appariva il costituirsi d’un potere estralegale, che esautorerebbe il Governo, e lo trascinerebbe ai fini, che sono rappresentati da Garibaldi e Mazzini: sol come una necessità o un atto di gratitudine accettando la monarchia, finchè i casi europei portassero ad altro principio più razionale. Di fatto Garibaldi passa in Lombardia, e in tutte le città inaugura i tiri nazionali, con feste e con discorsi che dicevano assai, e pur lasciavano intendere di più: proclamavasi l’êra dei popoli; l’apoteosi della carabina: «Donne, sospendete al capoletto la santa carabina»; ed ogni ovazione dovea finire con un improperio a Roma, una provocazione contro i preti, scabbia d’Italia, vermi da calpestare. Per moderare la trascendenza, il Governo credette opportuno fondere coll’esercito antico il meridionale, qual erasi costituito sotto Garibaldi e con volontari. Provvedimento che disgustò e i tanti ufficiali garibaldini dimessi, e quei dell’antico esercito che si vedeano sorpassati da gente subitaria. Si pensò pure di mandar il re a Napoli, tristissima essendo la condizione delle Due Sicilie. Moltissimi erano gl’interessi guastati in un paese che cessava d’esser autonomo, in una gran città decaduta da capitale, in un regno dove le imposte venivano più che triplicate; tolte le istituzioni più lodate, fra cui il Banco di San Giacomo che tanto era prosperato. Per effettuare la coscrizione, il Governo doveva colà applicar le sue leggi, e poichè i natii vi repugnavano, ne nascea la trista necessità di rigori. A Licata si tolse l’acqua in punizione; si cacciarono in carcere madri e spose lattanti perchè i figli o i mariti erano contumaci; altri eccessi erano consigliati dallo zelo de’ nuovi impiegati. Nella tornata 5 dicembre 1863 della Camera dei deputati si dovette fremere all’esposizione che amici e nemici fecero dello stato della Sicilia. Gli abitanti di Girgenti progettavano di migrar tutti insieme; Palermo fu messo in istato d’assedio, e la popolazione era unanime contro i forestieri; sessantaquattro carabinieri in un anno furono assassinati. Il ministro Pisanelli esclamava: «Se un uomo di Stato s’inchinasse verso le popolazioni napoletane come un medico sul morente per esplorarne i dolori, udrebbe: «Noi ci sentiamo feriti, ci sentiamo umiliati». Da ciò orribile incremento del brigantaggio. Sono strani e sin feroci i modi con cui venne combattuto: si vuol mostrarsi zelanti e si diventa feroci; si sveglia lo spirito di calunnia e di denunzia; cadono sotto le stesse reti e liberali e retrivi, e la coscienza pubblica si sgomenta. Fu votata una legge, che prese il nome del deputato Pica, ove metteasi che almeno i côlti fossero sottoposti a qualche forma di giudizio, e non solo la morte, ma potesse infliggersi o la prigionia o la relegazione; pur si ricorreva fino alla taglia, come ne’ tempi più calamitosi. Garibaldi intanto continuava la sua corsa trionfale per la Lombardia: fermatosi ai bagni di Trescorre fra Bergamo e Brescia, ivi accorreano come a santuario i suoi devoti, e i giovani che seco aveano combattuto, e quei che speravano combatter seco; e formavasi un battaglione di volontarj, a titolo di voler andare nelle provincie meridionali a sconfiggere i briganti, meglio che nol sapessero le truppe regie. Insomma voleasi per forza di popolo compire ciò chela diplomazia non permetteva agli eserciti regolari; e dal Tirolo non men che dalla Dalmazia metter fuoco al Lombardo-Veneto. Il Governo pensò impedirlo seriamente, attesochè gli Austriaci avrebbero potuto prendere il passo innanzi, e difendersi nel modo migliore, cioè attaccando. Si fa qualche arresto, ma Garibaldi protesta altamente, aver egli stesso raccolti a Sárnico quei giovani, smaniosi di servire un’altra volta la patria. Ciò impediva i tribunali dal giudicarli secondo la legge. Diminuivasi dunque anche la giustizia, onde l’Italia potea trovarsi gettata in quelle annuali insurrezioni militari, di cui sono tormentate da sì lungo tempo la Spagna e le antiche sue colonie. Che il Governo avesse intelligenze con Garibaldi non v’è dubbio; ma mentre esso parlava di Grecia e di Albania, Garibaldi intendeva Roma, e forse credea realmente che il Gabinetto non facesse che dissimulare la meta vera. Come aveva voluto nel 1860 che fosse cassato di ministro Cavour, così ora il voleva di Rattazzi, e che si rinnegasse l’alleanza di Francia e si assalisse Roma, e non cessava di lagnarsi gli si fosse interrotto il progetto di provocar l’Austria, e costringerla a rompere ella stessa le ostilità, nelle quali infallibilmente soccomberebbe. Nel Parlamento (sbigottito dall’esposizione finanziaria che attestava pel 1862 uno squilibrio di 432 milioni) le interpellanze imbarazzavano il Ministero, mentre non sollevavano che un lembo del velo che tutto offuscava: ma parve la vittoria rimanesse al Ministero, poichè la maggioranza gli raccomandava di tener illese le prerogative della Corona e del Parlamento; e alle Potenze estere mandava attestando essere e risoluto e forte abbastanza per reprimere qualunque turbamento, senza riguardi a persona qual si fosse. Garibaldi sbarcò a Palermo, accolto con frenetici applausi come venuto a liberarli da questi, siccome già dai Borbonici. L’entusiasmo propagavasi a tutta l’isola; attruppamenti; grida sediziose; raccoglievansi volontarj e denari; la guardia nazionale vi teneva mano; il prefetto denunciava mene del partito borbonico e de’ clericali, e scontentezza per le nuove tasse del registro e bollo. Cresceva la persuasione che Garibaldi operasse d’accordo col Ministero, e poichè questo non avea dato nessuna istruzione ai prefetti, avea rimesso in libertà i sollevati di Sárnico, neppur impedendo partissero per la Sicilia, supponeansi intenzioni nascoste, che le autorità locali dovessero ignorare, ma non contrariare. Garibaldi stesso (10 luglio) passando in rassegna la guardia nazionale davanti alle autorità civili e militari, svelenivasi contro Napoleone che impediva all’Italia di occupar Roma: e cinquantamila spettatori applaudivano a furia, e la stampa diffondeva per tutto il mondo ingiurie contro l’autore della emancipazione italiana, come fosse ostacolo alla italiana unità: le dimostrazioni di piazza prorompevano in altre città e notabilmente a Milano, fin a insultare la casa del console di Francia. Le autorità municipali connivevano se non eccitavano; anzi a Milano emisero esse prime il motto di _Roma o morte_, che subito, con tutta la frenesia dell’imitazione e della paura, fu scritto su tutti i cappelli, e si propagò a Genova, a Brescia, dappertutto, urlando contro la Francia, e dalle bandiere tricolori levando le strisce azzurre che soleano accompagnarle. Il Governo più non potea starsi quieto: mandò in Sicilia il generale Cugia, con otto reggimenti di truppe e quattro battaglioni di bersaglieri; e facea fare dal re un proclama (3 agosto), ove riprovava quei «giovani inesperti e delusi, che faceano segno di guerra il nome di Roma»; si guardassero dalle colpevoli impazienze e dalle improvvide agitazioni; ogni appello che non fosse il suo era «ribellione e guerra civile». Si arrivò a creder finzione anche ciò. Garibaldi leggeva a’ suoi sdegnoso il proclama reale, asserendolo opera dei ministri, mentr’egli col re aveva altre intelligenze. E diviso il suo esercito in tre colonne, una dirigeva a Messina, una verso Girgenti, una menava egli stesso per Caltanisetta, e ricevendo continui rinforzi, giungeva a Catania. Se toccasse il continente, la guerra civile era inevitabile; già erano disposti novemila uomini a Castelpucci per entrar nell’Umbria, altri verrebbero da Bologna, seimila dal mare, convergendo sopra Roma; la demagogia concentrerebbe tutti i suoi sforzi con quelli dell’eroe. Il quale, fidato nella sua stella e nell’insurrezione, su due vapori francesi imbarcava i suoi, e traverso alla flotta regia, sbarcava a Melito in Calabria. Il Governo dichiara in istato d’assedio e l’isola e la terraferma napolitana, affidando pieni poteri al generale Lamarmora, che procede risolutamente, impedisce ogni moto della Basilicata e della Calabria. Garibaldi respinto a Reggio, guadagna le alture di Aspromonte, divisando di là sparger bande alle sottoposte marine che propaghino la rivoluzione. Ma Cialdini manda il colonnello Pallavicini che lo attacca e ferisce: duemila Garibaldini sono fatti prigioni da milleduecento soldati regolari, e la campagna è terminata. Dell’inaspettato trionfo non osò gloriarsi il Ministero: contro cui le imprecazioni tonarono dappertutto, come i vanti al percosso: e Rattazzi restò esecrato perchè aveva prevenuto la guerra civile e l’onnipotenza delle armi. Il vero vinto era la giustizia, poichè sottraevasi un cittadino al suo giudice, nessuno osando processare l’idolo del popolo. All’azione di Garibaldi mescolavasi quella di Mazzini, che ricominciò quella sua agitazione da impotente; mandò fuori proclami; moltiplicossi sui giornali; infine chiarì guerra al Ministero, e chiese i fondi necessarj a ravvivare l’impresa; ma mentre Garibaldi domandava un milione di fucili, cioè trenta milioni in dono, Mazzini contentavasi di trecentomila lire, e raccomandava di raccoglierle anche dai più poveri, dirigersi specialmente ai centri industriali, alle manifatture! La cospirazione rinterzò le fila; si diffusero gli stili; si protestò contro il Piemonte come erasi fatto contro l’Austria; nuova bufera gittata in un paese che già navigava in mare burrascoso. Con intenti più vasti operava la massoneria. Colle loggie italiane corrispondevano quelle di altri paesi, principalmente per congratulare del trionfo della nazionalità e unità, e delle idee massoniche. In appresso moltiplicaronsi; e quaranta funzionavano nel 1863: nel 1864 il grand’Oriente di Torino n’avea dipendenti settantasei, di cui dieci fuor d’Italia; oltre le irregolari che dipendono o da nessuno o dal grande Oriente di Palermo. A questo avea cercato Garibaldi, dopo un famoso viaggio a Londra, incardinare le loggie tutte italiane, ma non riuscì, e invece s’adunarono a Firenze il 21 maggio 1864, dove si ripristinò l’unione fra le trenta del grand’Oriente di Torino e le altrettante di quel di Palermo sotto Garibaldi, coll’unità massonica consolidando l’unità nazionale: il grand’Oriente fu composto di venti membri del rito italiano, eguale al francese, e venti dello scozzese: appena Roma sarà divenuta capitale d’Italia, verrà proclamata sede dell’Ordine, e vi si convocherà un’assemblea generale[147]. Le loggie nel 1865 erano cresciute a cenquindici, ed operarono efficacemente nelle elezioni di quell’anno. Loro principale obiettivo è Roma, centro dell’unità cattolica. Pertanto Pio IX pensò premunire coloro che si illudessero col credere la massoneria solo occupata ad ajutare i poveri e sollevare i sofferenti. Un riso beffardo si levò perchè il papa, minacciato d’ogni parte e già prossimo a perdere il suo dominio temporale, avesse tirato fuori una predica dal cassone, e coi luoghi comuni fulminato quell’associazione di trastullo o di beneficenza. Ma i sinceri accertano, essere efficacissimi gl’intendimenti secreti della massoneria, nella quale sono venute a colare tutte le società ch’eransi formate dapprima per abbattere i principi antichi, poi riunite per usufruttare il regno nuovo. L’opera provvidenziale di formare la nazione fra tanti disordini di popoli e inettezza di governanti, apparve singolarmente nella serie di ministeri che sbalzaronsi a vicenda, e che compromisero l’onore e l’orgoglio del paese, e lasciarono, quanto fu da loro, soffogare la coscienza pubblica, il sentimento del diritto, il discernimento del bene e del male, mediante l’indisciplina espressa da atti o violenti o avidi e da una stampa vendereccia o piazzajuola, che sovverte l’opinione arrogandosi d’esprimerla. Costoro fomentavano il mal essere, e in parte lo creavano mettendo a nudo o anche esagerando i pubblici sofferimenti; il debito pubblico andar più sempre ingrossando; durare tuttavia i briganti: non nata l’industria: spento il commercio sotto gl’improvvidi trattati esteri e la mancanza di capitali; dimezzato il valore de’ beni fondi; nessun ostacolo alle dilapidazioni e prevaricazioni degl’impiegati; scontenti le migliaja di frati e monache, continuamente minacciati di soppressione; spinta alla manìa la voglia dei godimenti e l’intolleranza dei doveri: il Governo non sapere altro se non vendere, far debiti, mettere imposizioni: mezzo suo la corruzione: teoria il distruggere: circondarsi di nullità: comprare i piazzajuoli perchè applaudissero e ingannassero, deprimendo la probità e la capacità: invece di dare vita indipendente ai Comuni, vi si fomentava la febbre dello spendere e indebitarsi: lo sgoverno era eretto a sistema; non rivoluzione, non riordinamento: il Parlamento disonoravasi non solo coll’ignoranza, ma con bassezza di calunnie, d’ingiustizie. Infatto i delitti crebbero a segno, che dovettero moltiplicarsi le prigioni, destinandovi principalmente i conventi, e spendendovi venti milioni l’anno, oltre i bagni: nel 1865 non meno di 60,360 arresti furono fatti dalla sola arma de’ carabinieri, mentre internamente i costumi si sbrigliavano, lettere e scienze giacevano, a dir poco, neglette, a vergogna de’ ministri che ogni tratto piantavano e spiantavano nuovi metodi di istruzione quando nè la gioventù nè i professori aveano voglia di studiare: onde non riuscivano che ad incepparla pedantescamente fra ispettori, presidi, provveditori. Mentre si minacciava continuamente al vicino esoso, non si preparavano i modi onde rapidamente trasformare le truppe dallo stato di pace a quello di guerra. Fra ciò lo Stato teologizzava; premiava e decorava i preti meno meritevoli; si arrestarono alcuni che soscrissero un indirizzo al papa; proibivasi l’obolo di san Pietro, mentre raccomandavasi la soscrizione al giornale e all’indirizzo d’un padre Passaglia. Così, non potendo trarre Roma all’Italia, scalzavasi il principio cattolico, calpestavasi colla religione ogni sentimento d’autorità. L’emigrazione crebbe a proporzione elevatissima. Onde era uno scontento di tutti, eccetto quel milione di persone che rosica alla greppia del Governo. Alle accuse contrapponeasi la consolazione di vedere il regno riconosciuto dalla Spagna, dalla Baviera, dalla Sassonia, dopo che l’avevano fatto e la Russia e la Prussia, sempre tutte protestando accettare il fatto, senza ledere il diritto di nessun pretendente; contrapponeasi la gloria dell’essere nazione, del sentirsi grandi. Pure confessavasi troppo pesante la dipendenza dal forestiero. Il Ministero, quasi a sua discolpa, dichiarò che «da Torino non si potea governare». Ma a tai detti pochi s’accorsero di ciò che si tramava. In fatto improvvisamente si annunziò che, il 15 settembre 1864, il Governo avea conchiuso colla Francia una convenzione, per la quale otteneva Roma all’Italia, col patto di trasferire la capitale a Firenze. La prima parte faceva tollerare la seconda; ma come si scoprì ch’era bugiarda, proruppe lo sdegno de’ Torinesi, il quale fu interpretato per ribellione, e domato con una strage, qual mai non erasi fatta in nessuna delle città ribelli, quasi a provare che si sapea reprimere ogni rivolta, fin sulla città più fedele e iniziatrice, sul popolo più soldatesco. In quel sangue scivolò il Ministero Minghetti-Peruzzi, e al nuovo fu messo a capo il generale Lamarmora al solo scopo di dare effetto a quella convenzione. Essa portava che fra due anni i Francesi usciranno d’Italia: il regno promette rispettare il dominio papale, nè adoprare verso di esso che mezzi morali: si assumerà la parte di debito che compete alle provincie da esso occupate: la capitale sarà da Torino trasportata entro sei mesi a Firenze. Se di alcuna cosa fosse ancora possibile meravigliarsi nella politica odierna, sarebbe la diversa interpretazione che diedero i due contraenti alla convenzione. L’ambasciadore di Francia a quel ministro degli affari esteri dichiarava: «Noi, firmando la convenzione del 15 settembre, avevamo inteso assicurare la coesistenza in Italia di due sovranità distinte: quella del papa nei limiti odierni e quella del regno d’Italia; 2º «che mezzi morali significano per noi la persuasione, lo spirito conciliante, l’influenza degl’interessi morali e materiali, l’effetto del tempo che, calmando le passioni, dee fare scomparire gli ostacoli che fino ad oggi si opposero alla riconciliazione d’una Potenza cattolica col capo della cattolicità; 3º «che finalmente, per le eventualità non prevedute dalla convenzione, la Francia si riservò formalmente la più assoluta libertà d’azione, senza qualsiasi restrizione». In una memorabile nota 18 novembre 1865, il cardinale Antonelli, detto come fosse strano il fare una convenzione senza tampoco informarne la parte più interessata, riprova la condotta delle Potenze verso la santa Sede, lasciandola spogliare di tutti quasi i suoi possessi. Ed ora che il papa è minacciato in quel poco che gli resta da coloro che lo circondano da ogni parte, eccolo abbandonato, senz’altra garanzia che la promessa di chi ha pronunziato, sua necessaria capitale essere Roma. Rammenta poi come la libertà dell’apostolico ministero non appartenga alla sola Roma o al suo sovrano, bensì riguardi tutti gli Stati cattolici o che hanno sudditi cattolici: essere ironico parlare «dei felici cambiamenti del Governo piemontese rispetto a Roma, mentre il sacrilego voto di Roma per capitale non fu mai ritirato, anzi ogni tratto ridestasi; mentre si assicurò, volersi adoprare tutti i mezzi morali per raggiungerlo; cioè, al partire delle truppe francesi vi si susciterà la rivoluzione, e col pretesto di calmarla si occuperà il rimasto territorio». Tristissima restava la condizione delle provincie pontifizie, minacciate tuttodì dalla cospirazione interna e dalle mene esterne. Il papa, prevedendo quel che succederà al levarsi di colui che si era assunto di essere unico a difenderlo, benedicendo gli uffiziali prossimi a partire diceva: «Se Dio ci conserverà la tranquillità lo benedirò: se mi mandi disastri, lo benedirò ancora». Con nobile iniziativa Pio IX avea scritto al re d’Italia, invitandolo a trattare seco per provvedere alle sedi vescovili del regno, di cui ben ottanta trovavansi vacanti, sia per morte, sia per incarceramento o esiglio dei titolari. Il re spedì a Roma con carattere confidenziale il commendatore Vegezzi, che facilmente potè venire a un accordo, ma nuove pretensioni del Ministero impedirono ogni conclusione, lasciando incancrenire la piaga delle ostilità che contro le credenze della maggioranza esercitava il Governo, «spaventato da un’opinione pubblica del tutto artificiale». Trasferita la capitale con tutto il disordine della fretta, lo crebbero e l’attuazione dei Codici improvvisati e la rinnovazione della Camera elettiva. Il Ministero era stato modificato, e il Parlamento sciolto e intimate le nuove elezioni per la fine d’ottobre, dove il Ministero, impaurito dall’apparire di tanti cattolici, che poteano impedire le soppressioni e gl’incameramenti, voluti dagl’intolleranti e dai finanzieri, pose tutto in opera per attraversarli, laonde restò il sopravvento al partito d’azione, che secondato dalla frammassoneria, potè (come fu scritto) mostrare la sua ostilità non solo per gli uomini d’ordine, ma per gl’ingegni limpidi e i caratteri fermi. Nel discorso d’apertura, al re faceasi tacere ogni rimpianto o saluto per la capitale abbandonata, ogni parola allusiva a Venezia, eppure domandare nuovi sagrifizj; applaudirsi d’avere interrotte le trattative col papa, e annunziare non solo la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento de’ beni ecclesiastici, ma la segregazione dello Stato dalla Chiesa. Erasi voluto con ciò dare un’esca al partito ormai prevalente, ma questo agognava al potere, e ben tosto il disaccordo apertissimo fra la Camera e il Ministero portò la caduta di questo. CAPITOLO CXCV. Acquisto di Venezia e di Roma. Cominciava l’anno 1866 fra uno scontento maggiore, quanto più fantastiche erano state le speranze. Nel Governo sentivasi mancanza di pratica, di politica, di cognizione vera dello stato pubblico, d’un deciso programma. E come averlo quando bisognava conformarsi alla diplomazia estera? e come conoscere l’opinione vera quando questa non arriva che traverso a giornali, ligi alle passioni, alle avidità, ai partiti? E i partiti stessi non si pronunziavano deciso, aspirando soppiantare chi tiene il potere senza sapere quel che faranno succedendogli. Delle finanze sempre maggiore si manifestava la piaga, e si asserì ufficialmente che ogni giorno si avea lo scapito di un milione. Si fecero prestiti grossissimi: dal Cavour per 720 milioni, dal Minghetti per 1000, dal Sella per 725, nè si passò pur un anno senza contrarre un nuovo debito. Riepilogando trovasi che i varj Ministeri dal 1860 al 1866, prima dell’ultima guerra, spesero 7000 milioni; de’ quali 2700 trascendono le entrate e costituiscono il disavanzo, coperto con prestiti, con alienazioni di rendita, con anticipazioni e vendite. Contro tale condizione di cose sclamava la pubblica coscienza e tramestava la politica. Venuta la Prussia in rotta coll’Austria pel possesso dei ducati dello Schleswig e dell’Holstein, e per l’antico desiderio di quella di predominare nella Germania, cominciarono ad armarsi. L’Austria, dalle cui supposte minacce il Governo italiano avea tolto pretesto per armarsi, parve non attendere più che a difendersi entro il quadrilatero, fra Peschiera, Legnago, Mantova inespugnabile nel suo lago, Verona, munita di 500 pezzi in batteria, comunicante pel Tirolo con Vienna, e che accoglie le munizioni e le riserve; con una guarnigione di 30,000 uomini: e dappertutto forti e trincee. Chi poteva mai lusingarsi di cacciarnela, per quanto si vantasse il fornitissimo esercito e la formidabile flotta del regno? Se in ciò v’era fatuità di vanti, cosa degna di storia è l’ardore col quale, appena brillò la possibilità d’una guerra coll’Austria, la gioventù da ogni parte accorse ad arruolarsi sia nell’esercito regolare, sia nell’esercito dei volontarj. Allora riapparve uno di quei momenti solenni, in cui un popolo sente che i suoi interessi sono vivamente impegnati, che trattasi dell’onor suo, d’un gran pericolo o d’una grande speranza: sicchè ogni altro sentimento si tace, le preoccupazioni quotidiane cadono davanti al patriotismo, esaltato di dolore o di gioja, d’orgoglio o d’indignazione. Non è qui luogo di divisare i piani preparati: tutti speravano che la guerra, lunga, difficile e di successi alternati, ritemprerebbe gli animi, farebbe prevalere i coraggiosi agli intriganti, i devoti ai gaudenti; eleverebbe qualche uomo sopra la fecciosa mediocrità; torrebbe la direzione delle cose ai pennajuoli per darla a gente d’azione. — S’ingannavano. Non era una guerra, ma un dramma diplomatico. Veduto a segni troppo evidenti che governare la Venezia le era impossibile, l’Austria era disposta o rassegnata a farne il sagrifizio, e tanto più quando, venuta in rotta coi Prussiani pel primato nella Germania, sentì che avrebbe sempre alle spalle nemica l’Italia. Per mezzo dunque di Napoleone fece proporre al regno una alleanza o almeno la neutralità, cui compenso sarebbe la cessione di quel che ancora chiamavasi regno Lombardo-Veneto. Ma il Ministero italiano aveva già concordato altri patti colla Prussia, e il 10 aprile del 1866 stipulato che l’Italia farebbe contro l’Austria tutti gli sforzi suoi, in modo da pigliarla fra due fuochi, e assicurare così la prevalenza dei Prussiani, i quali dal canto loro non verrebbero a pace se non assicurando al regno d’Italia il Veneto. Così, pace o guerra, inazione o sacrifizj, il Veneto era accertato. L’Europa sentì che accendeasi una guerra che divamperebbe dappertutto, sicchè cercò interporsi mediante una conferenza, a cui invitò i Potentati. L’Italia vi aderì, asserendo ch’erasi armata unicamente per difendersi e protestando non comincerebbe essa le ostilità contro l’Austria, ma che non sarebbe quieta finchè non possedesse la Venezia. L’Austria accettò pure il convegno, ma con queste riserve: 1º che nessuna delle Potenze intervenienti dovesse chiedere aumento di territorio; 2º che per trattare di cose italiane dovesse essere invitato anche un rappresentante del papa, giacchè Roma vi era interessata non men che Firenze; 3º che per punto di partenza delle trattative dovesse prendersi il trattato di Zurigo. Ciò fu preso come un deciso rifiuto, nè l’Austria poteva più fare una cessione che cessava di parere spontanea, se prima non avesse salvato l’onore delle armi, come, nel linguaggio diplomatico, si chiama l’assassinio di migliaja di vite, e lo sperpero delle fortune d’un paese. Un manifesto reale del 20 giugno dichiarò che le «provocazioni guerresche dell’Austria sui nostri confini e le ingiuste e improvvise minaccie d’aggressione» costringevano il regno ad armare per «compiere il programma nazionale, stato interrotto dalla pace di Villafranca, e liberarsi da una Potenza che, col suo contegno ostile e minaccioso, impediva di costituirsi all’interno, e costringeva agli incompatibili sacrifizj d’una pace armata». Dell’alleanza colla Prussia nessun atto ufficiale fe motto, per parte nè nostra nè di quella, come neppure di 150 milioni di denaro effettivo che dicesi essa mandasse all’Italia. Allora i giornali più non seppero che gridare alle armi; l’Italia, che non avea ravvisato salvezza alle finanze se non nel ridurre l’esercito suo, lo crebbe sterminatamente, e vi aggiunse 40,000 volontarj che opererebbero sotto Garibaldi; si accelerò la confisca dei beni ecclesiastici, sorpassando a tutte le forme parlamentari; si diedero al Ministero estesissimi poteri, dei quali si valse per ordinare il corso forzoso della carta e per gettare un prestito forzato di 400 milioni. In aggiunta si lanciò la legge dei sospetti, nominata dal Crispi, principalmente diretta contro del clero, di cui moltissimi e rispettabili membri furono imprigionati o deportati; e si istituì in ogni paese una giunta che denunziasse i sospetti. I discorsi erano che, non essendo possibile prendere con assalto diretto il formidabile quadrilatero, si farebbe lo sforzo maggiore per mare, dove la formidabile nostra flotta era immensamente superiore all’austriaca: questa certo si ritirerebbe nel porto di Pola, ove le nostre bombe la incendierebbero; allora si porterebbe un grosso sbarco di volontarj sulle coste della Dalmazia, mentre la flotta prenderebbe Venezia, donde si assalirebbero a rovescio le fortezze; l’esercito, di oltre 400,000 uomini, superiore non solo di numero ma di abilità all’austriaco, coll’ala destra entrerebbe nel Veneto pel Basso Po e fino alle alpi di Bassano, mentre i volontarj per le alpi del Bresciano e della Valtellina invaderebbero il Tirolo, congiungendosi coll’ala destra per dare mano ai Prussiani in Baviera, e occupare Vienna, ove dettare la pace all’Austria. Questa d’altro lato riposava sulle inespugnabili fortezze del Mincio e dell’Adige: ed era creduta superiore alla Prussia, marciando prontamente contro della quale, occuperebbe la Slesia, anticamente da essa toltale, e proporrebbe di tenersi questa conquista in compenso della Venezia che cederebbe. Tutto andò al rovescio. La Prussia, non aborrendo dalla guerra civile, e con una strategia qual nessuno sospettava, assalse i piccoli Stati germanici, incapaci di resisterle, poi prevenuto l’esercito austriaco, sgomentato dai rapidissimi movimenti, coltolo in posizioni sfavorevoli, e ajutata dalle nuove manovre de’ fucili a spillo, lo ruppe principalmente nella battaglia di Sadowa, una delle più micidiali del nostro secolo micidiale. Occupata anche la Boemia, la Prussia si trovò alle porte di Vienna, e ottenuti i suoi intenti, propose la pace, purchè si sciogliesse la Confederazione Germanica, e si riformasse sotto la sua primazia, escludendone l’Austria, che resterebbe ancora intatta, eccetto il Veneto. All’Italia i gridi dei giornali non avevano lasciato aspettare questi eventi. L’esercito spiegato sul Mincio, lo passò il 24 giugno, e i giornali che ve l’avevano spinto prima, non ebbero parole sufficienti per vituperare i generali che non riuscirono a vincere. Sebbene la giornata di Custoza fosse nelle alte sfere considerata come decisivo disastro, e annunziata a Garibaldi come disfatta irreparabile, fin a sospendere le mosse delle due ale, e ritirarsi a difesa dietro l’Oglio, presto si vide che, come mal concertato erasi l’attacco, così esagerato o artifiziale era lo spavento. Ma l’Austria, salvato l’onore delle armi, mandò a cedere il Veneto all’imperatore dei Francesi, come nel 1859 aveagli ceduto la Lombardia. Ciò accettato, avrebbe potuto trasportare il suo esercito a difendere Vienna, e forse prendere la rivincita sui Prussiani. La Francia tripudiò di quest’atto, che dava ad essa tutti i frutti d’una guerra dov’erasi tenuta neutrale, ma in Italia i giornali misero un urlo concorde contro di esso. Rassegnandosi al qual grido, il Ministero, con dispendj e pericoli nuovi, fece dall’ala destra passare il Po: la quale, senza più incontrare nemici, occupò tutto il Veneto fuor delle fortezze. I volontarj, che a tante migliaja, e male armati e peggio pasciuti, eransi accumulati in gole, dove pochi e subitarj bastavano, a viva forza occuparono alcuni paesi del Tirolo italiano, e già Trento era vicina ad esser presa in mezzo dalle nostre forze. I giornali, che creano gli idoli ad immagine propria, non rifinivano di gridare contro la flotta perchè non isgominasse l’austriaca, e non occupasse Trieste e l’Istria. Si dovette dunque dare lo spettacolo d’una battaglia navale, e il 20 luglio a Lissa toccò un altro disinganno alle nostre immaginazioni. Quei che avevano provocata la battaglia si sfogarono allora, tacciando di tradimento o d’inettitudine l’ammiraglio, come faceano di parecchi generali di terra e di quanti, invece di stare a scrivere e a ragionacchiare, si erano messi alla prova della fortuna. Come si devano intitolare questi massacri, fatti per casi di cui era prestabilita la risoluzione, lo pronunzierà la coscienza pubblica. Intanto la Prussia avea combinata la pace, per cui Italia accettò un armistizio, in forza del quale i volontarj dovettero uscire dal Tirolo, l’esercito abbandonare le sue posizioni del Tagliamento e dell’Alpone. Non è a dire lo scontento che ne sorse, perocchè una guerra motivata unicamente dal bisogno di difendersi, ora si voleva che acquistasse al regno, non solo tutto il Lombardo-Veneto, ma il Tirolo italiano, Trieste, l’Istria, la Dalmazia, escludendo così affatto la Germania dal Mediterraneo, e prendendo per nostri confini _naturali_ le Alpi Retiche e le Carniche. Non bastavano però esclamazioni di giornali o fremiti di volontarj a spingere i ministri a una nuova guerra, ove ci saremmo trovati soli rimpetto a 350,000 soldati dell’Austria, padrona delle fortezze, e non solo sciolta dal suo nemico, ma forse ajutata da questo. Bisognò accettare la pace di Vienna, per la quale l’Austria cede alla Francia e la Francia al regno d’Italia tutto il Lombardo-Veneto. Questa mostra di guerra costò al regno 555 milioni. L’Austria restava così esclusa affatto dall’Italia e compita l’indipendenza: ma doleva l’aver dovuto riconoscere l’inferiorità dell’esercito e della flotta nostra: l’accettare la Venezia come un dono dalla Francia, la quale anzi volle la superflua formalità del plebiscito: il non essersi giovati di tale acquisto per correggere molti difetti dell’amministrazione, e per sistemare meglio la quistione religiosa. Questa anzi venne esacerbata, e mentre gli Austriaci aveano sempre considerato il clero come ostile alla loro dominazione, contro di esso si sfogavano i nuovi padroni: ed oltre l’invasione di predicanti e di chiese protestanti e valdesi nel Veneto, il Ministero si valse de’ pieni poteri per effettuare la soppressione delle corporazioni religiose e la confisca de’ beni ecclesiastici. Volle credersi conseguenza di ciò la sollevazione di Palermo (17 settemb. 1866), ove lo scontento proruppe alla prima occasione, tanto da veder minacciata la perdita della Sicilia, quando si acquistava la Venezia. In un tratto la sollevazione si trovò padrona della città, ma forti truppe la sedarono. Ne seguirono carcerazioni e bandi, e la subita distruzione degli antichissimi conventi. Intanto, per la legge Crispi, in ogni provincia si erano istituite giunte per indicare le persone sospette da mandare a domicilio coatto, e ne venne una persecuzione, degna dei peggiori tempi rivoluzionarj: applicata a 4171, la più parte parrochi e monsignori. L’eccesso portò a pensare qualche conciliazione fra la Chiesa e lo Stato: si spedì a trattare col papa per la nomina degli 80 vescovi, che mancavano alle diocesi, ma contemporaneamente si spingeva alla confisca di tutti i beni ecclesiastici e alla abolizione di tutti gli enti morali. Restava poi sempre il proposito di occupare Roma, e mentre i ministri lo dissimulavano, gli avventati pensarono effettuarlo, appena ne partisse il presidio francese. Una Giunta nazionale, diretta da Garibaldi, d’intesa col Comitato romano, mandò fuori un proclama (24 luglio) eccitando alla sollevazione; e Garibaldi moveva per invadere, quando fu arrestato a Sinalunga e portato in fortezza, ma subito rilasciato fra trionfi. Ben presto egli è di nuovo a capo de’ suoi, e profittando della caduta del ministro Rattazzi, creduto connivente a questi tentativi, moltiplica comitati, processioni, _meeting_, eccita tumulti nelle varie città. Tutta Italia n’era sossopra, commossa la Francia che manda truppe da Tolone a Roma; a Mentana Pontifizj e Francesi sconfiggono i Garibaldini; e il Ministero italiano dà l’amnistia ai sollevati, pur protestando che Roma dev’essere «la sede più sicura del pontefice, e che l’Italia saprà difenderlo e circondarlo di tutta la venerazione che gli è dovuta, e farne rispettare l’indipendenza e la libertà». Ma il Comitato romano preparava attivamente l’insurrezione, e una banda si spinse pel Tevere fin a Monte Rotondo, mentre in Roma faceasi saltare in aria la caserma de’ zuavi pontifizj; ma ancora i Pontifizj riuscirono a respingere gli aggressori (1867 23 ottobre). Questi avvenimenti aveano obbligato i Francesi a non ritirarsi da Roma. Il malcontento del paese era grande, mentre le finanze andavano in deplorabile deperimento. Nell’Italia meridionale e nella centrale, nel Veneto era fermento contro le sempre crescenti imposte, e la ridestata del macinato. Di fuori la Francia s’agitava verso una nuova rivoluzione; domandava che l’imperatore coronasse l’edifizio, cioè desse forme costituzionali, ed egli si vide costretto ad eleggere un Ministero responsabile, dal quale fu spinto a muovere guerra alla Prussia. Vi si accingeva con mezzi imperfettissimi, mentre la Prussia vi si era preparata con finissima arte e lungo proposito, in modo che essa ebbe ben presto invasa la Francia, sconfitti gli eserciti, fatto prigione l’imperatore, assediato Parigi, e imposte le condizioni più gravose e più umilianti. Francia erasi lusingata d’esser soccorsa dall’Italia, per la quale avea tanto fatto e tanto lasciato fare; ma nel pericolo che la piccola guarnigione che ancora teneva a Civitavecchia fosse fatta prigioniera dal nemico, la richiamò. Restava così di nuovo lo Stato Pontifizio senza difesa, e l’esercito italiano lo invase, e presa Roma ridusse il papa entro il palazzo vaticano. Ben presto da Firenze si trasportò il Governo a Roma, compiendo così, sotto al doppio impulso della rivoluzione e della volontà imperiale, l’assunto del Mazzini, assunto che non tutti credono il più conducente nè alla gloria nè al ben essere della patria comune. Di fatto nel marzo 1876, sconfitto il Ministero Minghetti, saliva al potere la sinistra, ed era un concerto quasi unanime di disapprovazione per quanto erasi fatto nei 16 anni da che il regno esisteva, condannando e atti e persone, peggio che mai non avessero fatto i nemici e i detrattori. Se quel noviziato fu veramente infelice, possano i nuovi amare sinceramente la patria, riconoscere che i mali suoi vengono da scarsezza di virtù, la quale non consiste nell’ostentare patriotismo intollerante, o nell’orzeggiare fra il bene e il male verso un esito che discolpa i mezzi; o nell’alleare il sentimento religioso ad un partito od a un nome; bensì nell’anteporre il bene pubblico all’individuale, e sapersi rendere superiore alle lusinghe dell’oro e degli onori e alla paura dei giornali. A raddrizzare il buon senso, la facoltà che peggio deteriora nelle rivoluzioni, molto varrebbero gli scrittori, ma neppure essi vi prestarono grand’opera: e mentre dopo il 1830 erasi tanto fidato nell’efficacia dei libri sul popolo, oggi si riducono sempre più a schermaglia letteraria o arraffamento d’associati; mai non si sono edite tante scritture buffe, pubblicati tanti giornali da ridere; che se anche non fossero un insulto alle pubbliche sciagure, nel ghigno perpetuo e sistematico vi ha qualcosa di scimmiesco e di stupido che cagiona disgusto e ribrezzo; com’è assassinio della patria il risolvere col riso le grandi quistioni. Continuò la sensibilità pei paroloni, che ci deriva dall’abitudine retorica e teatrale; confondendo la parola ch’è comune a tutti, coll’arte del bene usarla che è di sì pochi, ogni pusillo vi si credette capace, aggravando la mediocrità col non volere istruirsi, quasi il lavoro s’addica solo a chi manca d’ingegno: povero ingegno che serve di velo all’inerzia, e consiste solo in un poco d’immaginazione senza sicurezza di giudizio, in una concezione subitanea che non si consiglia colla riflessione, in una facilità d’esprimersi, caroleggiante sopra qualunque primo pensiero, senza quel secondo che lo matura e perfeziona. Compilazioni, dizionarj, manuali, enciclopedie, con poco tempo e poco denaro portano a minuto la dottrina e in digrosso la presunzione, e quel falso sapere ch’è peggio dell’ignoranza, dispensando dal lungo e forte tirocinio intellettuale, alla memoria attribuendo tutta la parte della riflessione, con replezione di cibi superflui impedendo la digestione de’ necessarj; e mentre importerebbe tesorizzare cognizioni assolute, verificarle, operare su di esse, ricomporle, discernere, concludere, si va allucinati alle immagini, al movimento, alle impressioni, ricevute colla passività di specchi. Il galante e la signora, che conciliarono il sonno con libri siffatti, cianciugliano di tutto, e trattano da pedante chi parla seriamente di ciò che faticosamente apprese; sempre più diminuendo quella classe di lettori assennati e indipendenti, i cui giudizj costituirebbero un’opinione pubblica, e mentre una volta i pensatori credeano poter creare l’opinione, ora si piegano a subirla; mentre chiedeasi che ne direbbero coloro che si stimavano, oggi si ha paura di quello che diranno la piazza e i folliculari che si disprezzano. Di qua il bello spirito surrogato allo spirito buono, e quella leggerezza vivace ch’è ormai l’unico vanto della coltura nostra, a micidio della forza e della profondità: di qui il preferire i moti convulsivi alle forze regolari, i giornali ai libri. I quali giornali, frivoli, venderecci, di consorteria (colle debite eccezioni), quasi perenne insulto alla morale, al retto sentire, a chi nel meglio confida, si ostinarono a proscrivere ogni indipendenza morale, a calunniare le persone e le cose che menomamente sovrastino alla loro bassezza, e tolgansi dall’oscurità a cui essi sono condannati. Una critica, come prima, negativa, stizzosa, oppositrice, deleterica, sconobbe che la situazione nuova imponeva altri doveri; neppure la seria, colla calma nelle dispute mostrò fiducia nell’esito, ma rassegnossi a blandire gl’ignobili istinti dell’invidia e della denigrazione, svogliando della generosità col calunniarla, e immaginando che bisogna avvilire gli uomini per attaccarseli. Garzoncelli appena usciti di collegio strascinano al loro predellino i veterani, e credono muovere e dilettare il mondo con un articolo che inseriscano in una gazzetta; sprovvisti di canoni sintetici e di nozioni positive, disprezzano i classici per dispensarsi dal conoscerli, i filosofi per non faticarsi a comprenderli. Introdotti il genio meccanico e la soffice sapienza, poco s’ascolta, nè si giudica pure quel poco; più scrive chi ha men cose a dire, non mettendo intervallo fra l’ideare un articolo e stenderlo e pubblicarlo; moltiplicando opuscoli senza riflessione per lettori senza calma. E per verità, qual bisogno di sperdere cure per libri che devono morire nell’anno o gazzette nel giorno? per convinzioni che anche prima dell’anno l’autore avrà cambiate? Audacia e basta. Ma chi si briga di discutere il pro e il contro, discernere, conchiudere? chi sa scovare un sofisma? chi trovare il vizio d’un’argomentazione? Così il paradosso viene tollerato non meno che una dimostrazione, anzi invade il dominio della ragione, la quale non è più individuale, ma appiccicata; e si reputa franchezza il mettere eguaglianza fra l’errore e la verità. Tra questo fragore di mulini, destinati a triturare anche quando più non si produce grano, deperisce la vera letteratura, e pochi autori camminano scrupolosi dove altri ballonzano presuntuosi; pochi credono al buono e al bello rimanere luogo anche fra il vortice delle passioni. A questi toccherebbe combattere il dubbio, l’illusione, la bassezza mascherata d’eroismo; non lasciarsi togliere la mano dai pregiudizj vulgari, ma disporre alle grandi riforme col creare una opinione pubblica, risultante di sentimenti e d’interessi, ma che si fondi su compita e accertata cognizione della morale pubblica e privata in chi comanda, su giusto sentimento dei proprj diritti in chi obbedisce. Il mondo li bestemmierà, ma gli avrà uditi; e di mille semi che il vento sparpaglia, ve n’è pure qualcuno che germoglia e prospera a vantaggio delle generazioni future. Di questa o scarsa o infelice fecondità ci si allegava per causa il non avere unico centro: ma forse l’ebbero i Greci o le età di Dante e dell’Ariosto? e i concetti della divinità, della morale, della natura, della nazione, non sorvolano alle combinazioni politiche? La mancanza di regj favori salva la dignità e l’indipendenza, nè questa è la pietra ove da noi più s’inciampi. Ben è scarsezza di patriotismo quest’adottare qualunque cosa venga di fuori, e più che altro i giudizj sugli uomini e le cose; privandoci così d’originalità, e contristando i pensatori sinceri col continuo raffaccio delle opinioni di forestieri, o a meglio dire di Francesi, voltabili secondo la moda, eppure imposte con sordida intolleranza, fino a turbare la borsa, l’onore, la vita di chi non le accetta. Persone che sanno chi sia, cosa abbia fatto, cosa prepari qualunque mediocre oltramontano, ignoreranno, affetteranno d’ignorare le produzioni d’insigni compatrioti, o le conosceranno solo a detta. Di rimpatto viene vergogna quando vediamo qui intitolare scienziati e geologi e chimici e antiquarj e orientalisti persone che appena reggerebbero il confronto d’un laureando di altri paesi. E appunto la mancanza di cultura generale fa che all’esercizio della propria facoltà di sentire e giudicare si rinunzii per chiedere le sentenze già belle e fatte dai giornalisti; titolo davanti il quale l’arte cede il campo al mestiero. Ristrettissimi nel secolo precedente, scarsi e inconcludenti nell’êra napoleonica, dappoi sembrarono una protesta contro l’inazione, desiderata se non prescritta; e poco a poco estendendosi, massime dopo il 1825, gli scrupoli dell’arte e le abitudini serie e di gusto, proprie d’un pubblico ristretto, immolarono alle basse pratiche dello scrivere senza cancellature, senza pentimenti, senza riflessione. Miopi per proposito, svaporando in particolarità come incapaci di sintesi, petulanti a vicenda e servili, la franchezza separando dalla dignità, prendendo quale segno di superiorità la sicurezza fragorosa e scortese; risoluti a vivere colla penna, la intingono a vicenda nel vero e nel falso, nel generoso e nel vigliacco, secondo il vento che in quella giornata muove il mulino; perciò adulatori nella lode come nel vitupero. Nè dico dell’adulazione che ravvisa tutte le virtù nei gaudenti e denigra la generosità de’ soffrenti, compito d’un servidorame brigante, che sarebbe sacrilegio chiamare letterato; bensì dell’adulare l’opinione che quel giorno impongono i circoli, i caffè, i chiaccheroni; adulare la turba che, col ricevere i giudizj belli e fatti, vuole dispensarsi dal pensare e ragionare; adulare la patria affinchè non senta il dolore e la vergogna rigeneratrice; adulare la forza per istordire il pensiero; adulare la mediocrità perchè aduggi il genio; adulare i primaticci perchè non s’ostinino a migliorarsi; adulare il sofisma acciocchè soffoghi il vero; adulare la libertà acciocchè s’infami coll’eccesso; adulare, se niun altro li vuole, i pregiudizj e gl’istinti ingenerosi. Fu a Milano che primamente si vide un folliculare giudicare di otto, dieci opere in ciascun numero di gazzetta; poi la gramigna si propagò al Piemonte, indi al resto d’Italia. Il vedere schiaffeggiati autori o cattivi o mediocri, che fino allora aveano soprusato ai novizj, piacque; e le fischiate a quelli parvero applausi ai loro giustizieri, che presto si eressero proscrittori, a norma della paura e dell’invidia: quell’invidia che trapela meno nella brutalità del vitupero che nella parsimonia delle lodi, o nel profonderle a mediocri, le cui idee non eccedono le vulgari, il cui spirito non urti nessuno. Nè questo era un male necessario, ma piuttosto un abuso del bene, giacchè una critica dignitosa, che tolleri l’impavida manifestazione, che rispetti la libertà della scienza e l’autorità della ragione, che temperi gli applausi con appunti assennati e il biasimo col riconoscere i meriti, si farebbe stromento primario d’educazione, affratellando ragionamento e simpatia, poesia e dottrina. Alcuni in fatti pensarono dirigerla a vantaggio delle lettere e della nazione, e qualche giornale rimase in buona nominanza: ma i migliori ne disperarono, e si ascrissero a gloria il non avervi mai collaborato; a differenza de’ forestieri, di cui non v’è illustre che non vi cooperi, e dove forse è altrettanta la petulanza de’ saputi, ma i critici recano, se non maggiore lealtà, maggiori cognizioni e rispetto del pubblico. Così oltr’Alpi la critica si collocò in posto elevato, studiando le manifestazioni del genio ne’ varj paesi e sotto forme diverse; calcolando le influenze subite dagli autori e il carattere particolare di ciascun popolo e di ciascun secolo e i sentimenti e le passioni; dando risalto al lato morale nella letteratura. Critica siffatta richiede e ingegno e ragione docili e splendidi, e avvicina il giudice all’autore, quand’anche, come tra i Francesi, sia più storica che filosofica, non s’elevi a scienza, nè risalga ai principj delle sue decisioni, come suole fra i Tedeschi e gl’Inglesi. Ma chi guardi, per dire d’un solo, i commenti che a Shakspeare posero Schlegel, Gervinus o Guizot, deplora che da noi si scrivano tuttodì note ed appunti a Dante, al Tasso, ad altri vecchi e recenti, con una analisi di deplorevole leggerezza, cui mancano e la premessa assoluta e la conclusione necessaria, cioè l’insegnare come avrebbesi a fare. Eppure anche in que’ paesi lo strato che giace sotto a quello del merito vero, è composto di ciarlatani, intriganti, corridori di diplomi, di congressi, d’accademie; ivi pure in teste concave ogni oggetto si dipinge esagerato e ingrossito, talchè non mentiscono, ma danno a tutto proporzioni false, forme antisimmetriche: e se i più nominati, sono i più impacciosi come fra noi, se colla flessibilità dell’arco dorsale ottengono titoli e posti e lodi, ciò non toglie che si trovi del merito vero e solido, tanto più commendevole quanto che sboccia fra la gramigna della falsa scienza e la zizzania della carpita reputazione. Ma giacchè tanto s’imitano i Francesi, e copiansi anche quando non si traducono, almeno si facesse com’essi, che ogni vanto patrio ricantano al mondo, e presentano al pubblico applauso tutto quanto giovi alla gloria e alla potenza nazionale. Qui invece le arti sotterranee della denigrazione sormontano al rispetto e alla benevolenza; con censure alle quali non è permesso rispondere, si cerca deprimere l’ingegno finchè si può, poi il carattere, poi le intenzioni; si critica col silenzio se non si osa coll’ingiuria; si accanniscono i piccoli contro i fratelli migliori, e si fa considerare liberalità l’impacciare i passi generosi, l’istigare la plebe ricca e patrizia contro persone che il giorno di loro esequie sublimerà. Chi salì in onoranza senza le costoro scarificazioni? a quanti feticci non diedero essi qualche anno di gloria, solo perchè servissero di nuvola al sole? Sta bene che la democrazia non soffra idoli; ma l’eguaglianza pareggiasi a ingratitudine quando d’ogni testa che sa star dritta si fa sagrifizio alla plebe, dilettantesi del sarcasmo e della depressione. Da ciò deriva che fra noi rimangano municipali le glorie, e gl’illustri di Napoli vengano vilipesi in Toscana, ignorati a Milano e viceversa; i libri letti siano diversi dai lodati, e in generale siano letti pochissimo. E mentre ad autori di trenta opere nate morte si procura una galvanica longevità con applausi semestrali al sempre nuovo volume, fu dichiarato scrittoraccio l’autore forse più letto; eretico spregevole un sommo filosofo; ipocrito e innajuolo il tipo dell’odierna letteratura[148]. Qual meraviglia se i buoni stizziscono del vedersi non solo defraudato quello che più si brama, la quiete, l’amore de’ concittadini, la compiacenza nazionale, ma impediti nel bene che desiderano, nel giovare alla nazione col fervore delle opere, colla dignità dell’opposizione, col valore d’un nome che, rispettato dagli oppressi, non potrebbe essere conculcato dagli oppressori? se irritati da questo sistematico ferire di sotto in su, persino uomini nati ed educatisi all’amore ed all’armonia finiscono col sarcasmo e col furore? Cotesti a taluni pajono fastidj da nulla, e s’impone all’autore che, come il fanciullo spartano, si lasci rodere il ventre dalla volpe senza strillare: ma introdotti in questo campo la prepotenza e l’assurdo, si prende l’abitudine di tollerarli nella vita, nella filosofia, ne’ Governi. E noi, ai colpi esponendoci più francamente siccome abituati, credemmo dover nostro il battere, non men delle altre, questa tirannia; perchè, se alle altre si piega il collo come ineluttabili, questa è sordida, giacchè a fiaccarla basta che la nazione ripigli il buon senso, non infeudi il proprio giudizio a chi ha meno diritto di imporlo perchè manca di convinzioni, e non creda a un presuntuoso detrattore o ad un compro panegirista più che all’opera stessa, più che alle azioni, più che al proprio convincimento. Intanto i veri libri divengono sempre più rari, cessato quel vivo anelito che trasforma in idea il fatto dell’uomo; se anche si serba qualche sentimento della melodia, mancano la passione e l’affetto; immolando la logica al rispetto umano, si associano il luogo comune e il paradosso, che pure pajono opposti; prendendo per principale l’accessorio; numerando le voci in luogo di pesarle, per modo che l’uomo costumato non conta nulla meglio che il novizio; non scrutando le cause; non salendo da sbricciolata analisi a una sintesi efficace; ciascuno tenendo per vero ciò che opina, per buono ciò che preferisce, per diritto ciò che desidera; pronto poi, al primo infierire della tempesta, a far getto delle proprie convinzioni. Uomini del dubbio! e pretendete sapere dove consiste la verità, e sentenziate al fuoco chi non crede quella che voi oggi dichiarate tale e che domani avrete rinnegata; e distrutta l’autorità, volete distruggere la libertà; abbattuta la fede, abbattere la ragione. Il giudicare le scritture de’ vivi è sempre più difficile a chi scriva egli stesso; e quand’anche l’ignoranza di esso o la dimenticanza non fossero imputate d’invidia, insorgerebbe sempre l’amor proprio di quelli che credono avere merito assoluto o relativo. Ed ora chi non scrive? chi non può far lodare un suo scritto? Nè alla storia letteraria compete rammentare tutti i libri, bensì l’attestarne il profluvio, e la discordanza dei giudici sul merito loro e fra i lettori e i giudici, vale a dire la leggerezza della pubblica opinione. Alcuni arcigni si ergono vindici del savio gusto contro ogni novità, ignorando che, anche nel senso estetico, le rivoluzioni dipendono da tutt’altro che dalla volontà degli scrittori. Alcuni, credendo riservate ai classici e alla sonnolenza l’unità, la deduzione, il legame, sproloquiano in uno stile che, col pretesto del volo lirico, surroga fantasia, immagini, capricci alla logica, ch’è pure bisogno del secolo; talchè riesce vago senza verità, oscuro senza profondità, di colorito brillante ma falso, di contorni senza rilievo. Da accademici sudacchianti una frase e il rancidume e la trasposizione e l’enfiamento del nulla e la laboriosità de’ luoghi comuni, ed affoganti il buon senso in un mare di parole; da misantropi ostentanti vilipendio pei presenti e sdegni a freddo e stizze d’imitazione, disposte a conchiudersi in panegirico per chi le careggi; da predicatori che pompeggino di declamazione e di arrogante eloquenza davanti alla semplice maestà dell’altare, da deputati che rinnegano la logica per avere applauso dalle tribune e dai giornalisti, quali frutti possono attendere la patria e la moralità? L’espressione di un sentimento che non si ha, cercasi invano; e in questa ricerca si contorce lo spirito, e così lo stile. Per fuggire sino questa fatica, i più fanno getto del carattere nazionale per tradurre e copiare; scrivesi molto e infranciosato, poi si freme di non essere letti dai nostri e di non vederci tradotti nè conosciuti dai forestieri. Ma perchè avrebbero a tradurre libri, che sono pasta di loro farina? o quale Francese leggerebbe un suo nazionale che non sapesse la propria lingua? Agli arditi che spasimano di novità, bisogna ripetere che il fondo del talento letterario non è l’immaginativa ma il buon senso, la ricca intelligenza vestita di felice espressione e temperata da logica costante; e soltanto così la letteratura può divenire stromento primario di quell’educazione che infonde le abitudini di benevolenza reciproca e di tolleranza, le quali fra i cittadini traduconsi in giustizia ed armonia, proponendosi di dar ragione dei diritti, norma ai doveri, lume alle dubbiezze, impulso alla volontà, per tradurre i nobili pensieri in nobili azioni. Ben sono a lodare quelli che dirigevansi alle applicazioni, a migliorare le carceri, istruire ed occupare i detenuti e gli scarcerati, volere la salubrità delle case e delle officine. Molto si parlò di popolo: ed è lodevole l’attività applicata alla educazione di esso da ingegni capaci di comprendere che, per essere intesi da quello, non bisogna improvvisare nè secondare l’ispirazione del momento, ma pesare ogni parola, poichè ogni parola gettata in quelle menti può essere seme di torti giudizj e d’atti perversi. Alcuni scrittori siffatti riescono triviali per l’affettazione più disgustosa, quale è quella della naturalezza; altri sotto forme cercate mascherano concetti particolari, due qualità le più disopportune a farsi capire alla moltitudine: molti ripongono tutta l’educazione nel dare idee di macchine, di storia naturale, e nozioni statistiche, secondando già ne’ fanciulli la propensione della nostra società verso ciò ch’è sensuale, denaro, godimento: troppi credono merito il tenersi alla gretta analisi, ignorando che questa riesce facile a chi tiene la sintesi d’una scienza, mentre è faticosissimo l’elevarsi a questa dall’analisi, dalle particolarità all’insieme, e che nell’educazione giova posare quelle verità complessive, da cui l’uomo in tutta la sua vita deduca verità e intellettuali e operative. Non abbastanza ricordando che per imparare si richiede la difficoltà, e che la coltura, non la semenza, è quella che feconda il campo, si propaga un’educazione enciclopedica, per cui a quindici anni i giovani già sanno tutto, ma a quarantacinque sanno come a quindici. Fanno compassione certi giornali educativi, stesi coll’irriverente leggerezza con cui stendesi un articolo di politica o di teatro. Fanno orrore quelli che pongono da banda la religione, e vogliono fino dalla tenera età, fino nella classe più buona spargere le aridità d’una filosofia, indipendente da credenze superiori[149]. Si moltiplicarono e asili per l’infanzia, e scuole di metodo ed elementari: in generale parve progresso l’escluderne gli ecclesiastici, benchè eccellente prova e bonissimi libri dessero i Padri delle Scuole Pie e i Fratelli della Dottrina Cristiana. Certo chi paragona le teorie del Lombardelli, del Sadoleto, dell’Antoniani con quelle del Lambruschini, della Ferrucci, del Tommaseo, e le pratiche del Soave, del Taverna, del Giudici con quelle del Parravicini, del Thouar, dell’Aporti, del Rosi, del Fava,.... deve riconoscere un notevole miglioramento, e desiderare che divenga vanto principale delle nostre scuole il dirigersi, qualunque ne siano i metodi, al libero svolgimento della ragione personale dei giovani, al rispetto del dovere, ad estendere fra il vulgo quell’istruzione, che persino alla fisionomia imprime maggior dolcezza, come la maggiore agiatezza dà più posato operare e più dolci costumanze: progressi veri che avvicinano le differenti classi sociali per arrivare a costituire una sola famiglia. A peggior danno poi, il bello e il vero non si cercarono più indipendenti e per sè, ma si subordinarono alle passioni e all’idea politica: principalmente in libri che si presumevano popolari, ed erano vulgari, dimenticando che delle scienze bisogna servirsi per accrescere e perfezionare la pubblica ragione. E noi, credenti all’alleanza del genio che crea col buon gusto che conserva, vorremmo che la critica tornasse un albero del bene, insegnasse a studiare il libro per mezzo dell’uomo, l’uomo per mezzo del libro, ravviasse a quell’arte antica di cui sono carattere la serenità, e scopo l’addolcire le passioni e tranquillar l’animo; diffondesse il buon gusto, che è il fiore del buon senso; non che sconfortare, spingesse all’azione, suscitasse l’entusiasmo della verità e della virtù; vorremmo si cercasse raggiungere finalmente una forma unica di stile, che sia la più precisa, la più fedele; chiara come il buon senso, poetica come la fantasia; traducendo l’idea vera in forma bella, con sintassi ferma, lingua comune, impronta individuale; e portando la semplicità ad essere un’originalità audace. Alcuni guatansi attorno, e non vedendo insigni uomini, strepitosi fatti, stupende mutazioni, dichiarano meschino il tempo, degradata la razza. Eppure quanti fatti da confortare anche i meno pazienti! quanto progresso per chi valuti non l’individuo ma questa moltitudine che tutta ingrandì, che tutta contribuisce agli avanzamenti cui un tempo bastavano i principi; chi badi a tanti svolgimenti e applicazioni delle scienze, alle arti raffinantisi ogni giorno, alle rapide comunicazioni, ai mezzi d’istruzione molteplici e agevolati, alle comodità diffuse, al benessere crescente! L’applicare la scienza al Governo diminuisce allo Stato amministratore e centralizzante gli arbitrj di Corte e di Ministero; ai monopolj e ai privilegi sociali surroga un’economia meglio intesa; cassa i decreti umilianti e le massime inette, sia del cesaresco arbitrio, sia dei moderni sovvertitori: sebbene sia vero che troppo si restringe in valutazioni materiali, al contrario de’ nostri vecchi attribuendo la suprema importanza al corpo, una accidentale all’anima; così scambiando per grand’uomo il buon amministratore, l’applicatore d’una macchina, quel che seppe arricchirsi. Ne deriva un inebriamento dell’oggi, che acceca sul domani, un rinnegare la storia per avventarsi nelle ipotesi, un coricarsi nell’ironica indifferenza della gaudente ciurma cittadina. Compiuta poi la unità territoriale, cioè l’esclusione del dominio straniero, tolta ogni probabilità di restaurazione dei principi antichi, ridotta quella di Roma ad una questione di famiglia, i governanti potrebbero omai procedere al riordinamento interno, all’assetto delle finanze, alla trasformazione dell’esercito, alla estinzione del brigantaggio, al rispetto dei sentimenti religiosi, all’ascoltare i bisogni del popolo, finora impediti dall’interpretazione o d’una bugiarda rappresentanza, o d’una perfidiata opinione. Il naturale separamento delle nazioni all’esterno, e nell’interno i più larghi accordamenti politici colla libertà di famiglia, di provincia, di Comune, di religione, d’insegnamento, sono i due scopi, a raggiungere i quali ha perduto vigore la formola de’ principi d’anni fa e dei sovvertitori d’oggi, «Tutto pel popolo, niente per mezzo del popolo». Ma nell’universale appello allo spirito dei tempi, chi è che comprende la libertà e l’autorità doversi avvicinare, non per combattersi ma per ponderarsi e limitarsi: che il modo di sminuire il contrasto fra la situazione sociale e le aspirazioni della civiltà, fra le opposte esagerazioni della democrazia e del principato assoluto, di non pericolare la libertà coll’eccesso dell’eguaglianza, nè l’eguaglianza cogli sfrenamenti della libertà, si è il discernere precisamente le attribuzioni dello Stato, del Municipio, della Chiesa; il ridurre i Governi alle elevate loro attribuzioni, sbarazzandoli dall’amministrare, regolare, sindacare l’azione di tutti; e nell’impossibilità di dirigere il movimento sociale, restringersi a mantenere l’ordine materiale? Avanti la rivoluzione, lo Stato poco s’immischiava delle faccende private, nè svogliava i cittadini dal curarle coll’impacciarveli. Gli statisti, a quella libertà senz’eguaglianza volendo surrogare un’eguaglianza senza libertà, presero in veduta soltanto il modello francese, dove si bersaglia l’autorità, eppure vuolsi che a tutto ella intervenga, in nome dell’emancipazione proclamando quello che già i cortigiani più servili; smaniando di mutare la forma de’ Governi e le persone, l’essenza mantiensi sempre dispotica senz’altro limite che la ribellione, nè a questa sapendosi rimediare che col despotismo. Intanto dimenticarono l’Inghilterra, dove abbonda la libertà personale; non guardarono donde venga la possa della stirpe slava, e qual sarà l’elemento che essa rifonderà nel mondo se mai è destinata a scomporre la società romano-germanica; rinnegarono tutta la storia patria, garrendo come piaga e ostacolo quel municipalismo, che è antico quanto l’Italia e che potrebb’essere il nocciolo della nazionale rigenerazione; nè pensarono che la democrazia consiste, non nel sovvertire Governi e nel sistema unitario, bensì nel restituire all’uomo, alla famiglia, al Comune la natura propria, i proprj diritti, la libera attività. Il popolo non giunge a comprendere che cosa importi il cambiare le persone che governano, e maggior interessamento prende al cambiare del curato. Quello di che sente bisogno è sicurezza della persona, della roba, della reputazione, dell’industria, della casa; e a ciò meglio arriva, e con migliore persuasione quel Governo che, riservando a sè la direzione suprema e il rimuovere gli ostacoli e impedire l’ingiustizia, lascia quella libertà che sola può ridurre le azioni in armonia coi fini: e alla naturale intelligenza, alla morale attività de’ cittadini lascia la cura delle faccende proprie, i giudizj, l’istruzione, l’incremento dell’industria, la tutela della tranquillità interna. Perocchè avvi un liberalismo, che crede esistere al mondo qualch’altra cosa che la politica; repubblica e indipendenza non essere libertà, come non è ordine la monarchia; tirannide essere quella d’Ezelino come quella de’ Ciompi, quella del Passatore come quella d’una ciurma cittadina plaudente o fischiante, e l’uomo essere qualcosa più e prima che cittadino. Questo liberalismo, quando gli manchi vigore sovra i grandi centri della forza, della ricchezza, della legalità, non trovasi ridotto nè ad accidiosa impotenza, nè a subdole combriccole, nè a sofistica predicazione di teoriche ineffettibili: ma persuaso della potenza di ciascuno e dell’obbligo di adoprarla, se non può riformare lo Stato, pensa a riformare se stesso e la famiglia e la patria mediante i costumi; fida nell’energia sua personale, anzichè nei soccorsi dello Stato, sviluppando il sentimento della propria indipendenza, piuttosto che questuare dallo Stato impieghi e dignità che sono catene e abjezione; non fa della politica una casa di industria, dove accorre chi ha fame; porta soccorso al fratello coll’associamento delle forze e dell’intelligenza, anzichè col cospirare; e così insinua quello spirito che è garanzia dell’ordine e tutela della libertà, e che agevola la buona riuscita rattenendo la speranza entro i limiti del possibile; rettifica le idee, invigorisce i caratteri, sana i costumi, per essere padroni di sè quando non s’avranno altri padroni. E già la democrazia prevale dappertutto, fino nelle azioni di coloro che la reprimono. A ripristinare l’immoralità dei privilegi e delle esclusioni o i vincoli feudali, nessuno più pensa, dacchè l’eguaglianza civile tornò giovevole a quegli stessi che più pareano scapitarne: la facilità delle comunicazioni mescolò le genti, intanto che la folla degli esuli, non rattenuti da riguardi, pareggiati dalla sventura, bisognosi delle moltitudini, connessi a quei d’ogni altro paese, diffondevano le idee democratiche: l’avidità de’ godimenti fa che tutti s’arranchino a salire: l’arrogante durezza ch’è carattere della gioventù odierna, ostenta eguaglianza col rinnegare e il merito e l’esperienza: la letteratura, sacrificando a bisogni triviali la raffinatezza dell’arte, fra una plebe di mediocri confonde i pochi ottimati. Nè i mali che ci credemmo in dovere di svelare alla patria perchè l’amiamo, non sono mali necessarj della libertà, ma forse un inevitabile noviziato, nel quale giova che sentinelle, austere forse ma benevole, tengano desti contro i pericoli; anzichè imitare il despotismo, ove il male e il bene dormono sullo stesso capezzale. Ma l’onesta opposizione fa noja a coloro che s’impinguano ne’ pubblici disordini, e che, avvedendosi come poco frutti la pesca quando lo stagno non è turbato, urlano ancora guerra e sovversioni per obbligare così ai disastri della pace armata, delle finanze diroccate, delle arti perdute, di sterili delitti e inutili virtù. E questo intitolano amore di patria! ubriachezza di testa non poesia di cuore, che indignandosi contro ogni cosa che senta di uomo, denunzia come traditori d’Italia quei caldi e sinceri amatori di essa, che di tutti questi danni osano incolpare la mancanza di virtù. Vero è che il nome di virtù viene inteso diversissimamente dai varj partiti. I ciarlieri lo ripongono solo nell’ingloriare il paese. I moderati, nell’orzeggiare fra il bene e il male verso un esito che assolve dalla iniquità dei mezzi: i consortieri nel reggersi l’un l’altro alla borsa, al Parlamento, alla mangiatoja: i politici nell’esclamare con Azeglio, «Facciamo punto e da capo». I veri cristiani, cioè buoni cittadini, lo ripongono nel credere e praticare i principj d’un diritto eterno, che può rassegnarsi alle incoerenze d’un diritto nuovo, ma non approvarle; ed essi pei primi, non urlano, ma esclamano, «Dio benedica l’Italia indipendente». A tale intento sono necessarie la coscienza autonoma, la ragione non impacciata da congegni amministrativi, nè da prepotenze d’un partito, d’un giornale, d’una società secreta, bensì fidente nel popolo. Chi il vero popolo non vede in quel che tumultua sulle piazze, ciarla nei caffè, fuma sotto i portici, denigra ne’ giornali, s’ubriaca nelle bettole, non dirà mai che il nostro popolo è ateo, e che non è ancora maturo a libertà; bensì che gli arzigogoli moderni vorrebbero renderlo incapace di libertà. La sana natura di questo popolo sente bisogni meno ignobili che l’ira e le impotenti rampogne e le vendette; non la frenesia di continui sbaragli, non il pescare al fondo d’una rivoluzione un impiego e un padrone, ma vuole la calma domestica e civile, ed amare, lavorare, migliorare da sè la propria posizione. A questo popolo date non il pane quotidiano, ma il modo di guadagnarlo con fatiche, le quali non avviliscono se condite di pace e di rassegnazione: dategli dei libri, non quali li raffazzona cotesta letteratura o speculatrice o pedantesca o sovversiva, che, portando congestione nel cervello, cagiona paralisi alle braccia; bensì quella che, se non può dire tutto, insegna a riflettere su tutto: dategli la conoscenza de’ suoi diritti, non iscompagnata dal sentimento de’ suoi doveri: dategli quella dignità, che, gradendo i freni necessarj, ripudia gli arbitrarj, da qualunque parte vengano: dategli lo spirito d’associazione, con cui, migliorando la condizione sua particolare, migliori quella di tutto il paese: dategli la passione pel vero, cercato con lealtà, professato con intrepidezza: dategli il rispetto verso quegli eroi d’una carità che il vulgo liberale non conosce tampoco, i quali soli possono assodarvi quel potere delle coscienze, che rende superfluo il potere della Polizia, e infondervi il sentimento religioso, l’unico che esso intenda perfettamente, e che può servire di temperamento agli altri, come è il migliore avviamento alla libertà. A questo popolo insegniamo ch’è assurdo voler riformare il paese prima di riformare se stessi; nè ottenere libertà e progresso senza il mutuo rispetto, la tolleranza, l’abnegazione; che quanto meno inceppati si vogliono gli atti esterni, più vien necessaria la disciplina, la quale è insieme sapienza e verità; innamoriamolo della libertà, che consiste nel diritto limitato dal dovere; innamoriamolo dell’ordine, che è la libertà collettiva della società: insinuiamogli quella politica, franca nell’opposizione non meno che nell’assenso, che aborre le frasi, che, tra le impotenze e i dolori del secolo, assume la responsabilità de’ proprj atti e ne accetta le conseguenze, ma allo scetticismo dissolvente surroga la fede in qualche cosa, in qualche persona; sa amare, sa lodare fino i nemici, e sagrificare fin le invidie; vuole la benevolenza e la stima, ma non a prezzo delle proprie convinzioni. Sciagurati i cospiratori che al popolo disabbelliscono le gioje della vita e della natura collo spargervi il fiele dell’iracondia e il sospetto contro ogni superiorità di posizione o di merito, lo ingannano colla promessa di panacee politiche; e dopo infarcitogli d’ira e di calunnia la parola, arrivano ad armargli il pugno di coltello o di fiaccole. Sciagurati i Governi che, per fare contrasto a’ ricchi riottosi, non sanno altro che esacerbare il rancore contro chi possiede, e irritare il plateale sentimento dell’ingiusta distribuzione degli averi! Sciagurati gli scrittori che adulano bassamente alla plebe, come un tempo faceasi ai re, ridendo, beffando, mirando a dissolvere anzichè unire, solleticando gli istinti vulgari, e fra piccolezze, vanità, immoralità clandestine, fatuità compromettenti, perfide gelosie, pérdono di vista che, per essere utile alla nazione, bisogna conoscere essa e i vicini e gli avversarj, i fondamenti del suo passato, la realità del presente, la probabilità dell’avvenire; e questi comparando, al vago sentimentalismo surrogare massime concrete e positive, abituare a conoscere le cause e le conseguenze, il carattere e le ispirazioni, in modo che dall’esito non si prenda nè vanità nè scoraggiamento ma istruzione, e il convincimento che solo dall’unione degli spiriti può derivare l’unione degli Stati. Così anche le quistioni di politica si risolvono in quistione di morale; e non crederemmo avere gettata la lunga nostra fatica se questa unica verità avessimo fatta penetrare nella persuasione e negli atti de’ nostri cari fratelli italiani: e siccome nessuno avrà amato questi più di noi, così vorremmo che nessuno potesse apporci d’averli men sinceramente e meno legittimamente o applauditi o imputati. _FINE, il marzo 1877._ CRONOLOGIA ITALICA § 1. — Re di Sicilia. Fra gli antichi re di Sicilia si annoverano Cocalo, v. 1295 a. C.; Siculo, 1289; figliuoli d’Eolo, 1173. _Siracusa_. _Governo aristocratico_ 735 a. C. 485 Gelone, re di Gela 491, s’impadronisce di Siracusa 484 478 Gerone I 478 467 Trasibulo 467 466 _Democrazia_ 466 — 405 Diocle v. 412 Dionigi il vecchio 405 368 Dionigi il giovine 368 356 Dione 356 354 Callippo 354 353 Ipparino 353 350 Nipsio 350 347 Dionigi il giovine _di nuovo_ 347 343 Timoleone 343 337 Sosistrato v. 320 Agatocle 317 289 _Democrazia_ 289 — 266 Iceta, stratego della repubblica 289 280 Tinione e Sosistrato 280 278 Pirro 278 276 Gerone 276 269 Gerone II re 269 215 Geronimo 215 214 _Democrazia_ 214 210 Andranodoro e Temistio; Epicide e Arpocrate; morte d’Archimede 212 Ridotta in provincia romana 210 _Agrigento_. _Governo aristocratico_ 582 a. C. 566 _Tiranni:_ Falaride 566 534 Alcmane e Alcandro 534 488 Terone 488 480 Trasideo 480 470 _Reggimento democratico_ 470 § 2. — Re del Lazio. Giano v. 1451 Saturno 1415 Pico 1382 Fauno 1335 Latino 1301 Enea 1250 Ascanio 1175 Silvio Postumo 1136 Enea Silvio 1107 Latino Silvio 1068 Alba Silvio 1018 Episto Silvio 979 Capi Silvio 953 Carpento Silvio 925 Tiberio Silvio 912 Archippo Silvio 904 Aremulo Silvio 863 Aventino Silvio 844 Proca Silvio 817 Amulio Silvio 796 § 3. — Re di Roma. Romolo 753 a. C. 715 Numa Pompilio 714 671 Tullo Ostilio 671 639 Anco Marzio 639 614 Tarquinio Prisco 614 578 Servio Tullio 578 534 Tarquinio il Superbo 534 509 Seguono consoli annui. § 4. — Imperatori romani. Augusto 31 a. C. 14 d. C. Tiberio 14 d. C. 37 Caligola 37 41 Claudio I 41 54 Nerone 54 58 Galba, Ottone, Vitellio 68 69 Vespasiano 69 79 Tito 79 81 Domiziano 71 96 Nerva 96 98 Trajano 98 117 Adriano 117 138 Antonino 138 161 Marco Aurelio e Lucio Vero 161 169 Marco Aurelio _solo_ 169 180 Comodo 180 192 Pertinace, Didio Giuliano, Nigro, Albino 193 Settimio Severo 193 211 Caracalla e Geta 211 212 Caracalla _solo_ 212 217 Macrino 217 Eliogabalo o Elagabalo 217 222 Alessandro Severo 222 235 Massimino I 235 237 I due Gordiani, Massimo e Balbino 237 238 Gordiano III _il Pio_ 238 244 Filippo _l’Arabo_ 244 249 Decio 249 251 Gallo e Volusiano 251 253 Emiliano 253 Valeriano 253 260 Gallieno; i Trenta tiranni 260 268 Claudio II _il Gotico_ 268 270 Quintilio 270 Aureliano 270 275 Tacito 275 276 Floriano 276 Probo 276 282 Caro 282 284 Carino e Numeriano 285 Diocleziano 285 abd. 305 Massimiliano Erculeo associato a Diocleziano 286 abd. 305 Costanzo { succeduti } 306 Cloro { a } 305 Galerio { Diocleziano } 311 Massenzio 306 312 Massimino II Daza 307 313 Costantino I 306 337 Licinio 307 323 Costantino II 337 340 Costante I 337 350 Costanzo II 337 361 Giuliano _l’Apostata_ 361 363 Gioviano 363 364 Valentiniano I _in Occidente_ 364 375 Valente _in Oriente_ 364 378 Graziano _in Occidente_ 375 383 Valentiniano II _in Occidente_ 383 390 Teodosio I _in Oriente_ 379 395 _Impero romano d’Occidente_. Onorio 395 423 Valentiniano III 423? 455 Petronio Massimo 455 Avito 455 456 Magioriano 457 461 Libio Severo 461 465 _Interregno di 20 mesi_ 465 — 467 Antemio 467 472 Olibrio 472 Glicerio 473 474 Giulio Nepote 474 475 Romolo Augustolo 475 476 Fine dell’impero d’Occidente. Odoacre _erulo_, re d’Italia 476 493 § 5. — Papi. Anno Durata dell’elezione del pontificato _a. m. g._ S. Pietro, galileo, principe degli Apostoli 32 25 » » Risedè prima in Antiochia, quindi dall’anno 42 in Roma, ove morì nel 67? dopo i venticinque anni, che la _Cronaca_ d’Eusebio assegna al suo pontificato. S. Lino, di Volterra in Toscana, martire 67? 11 » » S. Anacleto o Cleto, di Atene, martire 78 12 » » S. Clemente I, romano, martire 91 9 » » S. Evaristo, di Betlem, martire 100 9 » » S. Alessandro I, romano 109 10 » » S. Sisto I, romano della gente Elvidia, martire 119 9 » » S. Telesforo, di Turio nella Magna Grecia, martire 127 11 » » S. Igino, ateniese, martire 139 4 » » S. Pio, di Aquileja, martire 142 15 » » S. Aniceto, d’Ancisa in Siria, martire 157 11 » » S. Sotero, di Fondi in Campania 168 9 » » S. Eleuterio, di Nicopoli, martire 177 16 » » S. Vittore, africano, martire 193 9 » » S. Zefirino, romano, martire 202 17 » » S. Calisto I, romano della gente Domizia, martire 219 4 » » S. Urbano I, romano, martire 223 7 » » S. Ponziano, romano della gente Calpurnia, martire 230 5 » » S. Antero, di Policastro nella Magna Grecia, martire 235 » 1 » S. Fabiano, romano, della gente Fabia, martire 236 14 » » *Novaziano, primo antipapa 251 » » » S. Cornelio, romano, martire 251 1 3 10 S. Lucio I, romano, martire 253 » 5 » S. Stefano, romano della gente Giulia, martire 255 4 6 » S. Sisto II, ateniese, martire 257 » 11 » S. Dionisio, di Turio nella Magna Grecia, martire 259 10 5 » S. Felice I, romano, martire 269 5 » » S. Eutichiano, toscano, martire 275 8 11 » S. Cajo, di Salona in Dalmazia, martire 283 12 4 17 S. Marcellino, romano, martire 296 8 » » S. Marcello I, romano, martire 304 4 7 20 S. Eusebio, di Cassano in Calabria 310 » 4 » S. Melchiade o Milziade, africano 311 2 6 » S. Silvestro I, romano 314 21 11 » S. Marco, romano 336 » 8 » S. Giulio I, romano 337 15 2 15 S. Liberio, romano dei Savelli 352 14 4 2 S. Felice II, romano, durante l’esiglio di Liberio, o come vicario di lui, o creato papa, forse illegittimamente; poi si ritirò a vita privata 355 2 » » S. Damaso I, da Vimarano in Portogallo 366 18 2 » *Ursicino 366 » » » S. Siricio, romano 384 14 » » S. Anastasio I, romano 398 3 » 10 S. Innocenzo I, albanese 401 15 » » S. Zosimo, di Mesuraca nella Magna Grecia 417 1 9 9 S. Bonifazio I, romano 418 3 8 7 *Eulalio 418 » » » S. Celestino, campano 422 10 » » S. Sisto III, romano 432 8 » » S. Leone I _Magno_, romano o toscano 440 21 1 4 S. Ilaro o Ilario, di Cagliari 461 6 » » S. Simplicio, di Tivoli 467 15 » » S. Felice III, romano 482? 9 » » S. Gelasio I, africano 492 4 9 » S. Anastasio II, romano 496 2 » » S. Simmaco, sardo 496 15 8 » *Lorenzo 498 » » » S. Ormisda, di Frosinone in Campania 514 9 » 11 S. Giovanni I, toscano, martire 523 2 9 » S. Felice IV, fimbrio, di Benevento 526 4 2 » Bonifazio II, di Roma, goto d’origine 530 2 » » Giovanni II, Mercurio, romano 532 2 4 » S. Agapito I, romano 535 » 10 19 S. Silverio, di Frosinone, martire 536 2 » » Vigilio, romano, eletto vivente ancora Silverio: poi riconosciuto come legittimo 538 16 6 » Pelagio I Vicariano, romano 555 4 10 18 Giovanni III, romano 560 13 » » Benedetto I, romano 574 4 1 28 Pelagio II, romano 578 12 2 10 S. Gregorio I Magno, romano degli Anicj 590 13 6 10 Sabiniano, di Volterra 604 3 3 9 Bonifazio III, romano 607 » 8 22 S. Bonifazio IV, di Valeria ne’ Marsi 608 6 8 13 S. Diodato, romano 615 3 » » Bonifazio V, napoletano 618 6 10 » Onorio I, della provincia Campania 625 2 11 16 Severino, romano 640 » 3 4 Giovanni IV, dalmatino 640 1 9 18 Teodoro I, greco, di Gerusalemme, oriondo greco 642 6 2 9 S. Martino I, di Todi, martire 649 6 2 12 Eugenio I, romano, creato col consenso del predecessore vivente 654 2 8 42 S. Vitaliano, di Segni in Campania 657 14 6 » Adeodato, romano 672 4 2 » Dono I, romano 676 1 5 11 S. Agatone, di Reggio nella Magna Grecia 678 3 6 15 S. Leone II, da Piana di San Martino nella Magna Grecia 682 » 10 17 S. Benedetto II, romano 684 » 10 12 Giovanni V, di Antiochia 685 1 » 10 *Pietro e Teodoro 686 » » » Conone, siciliano, oriondo trace 686 » 11 » S. Sergio I, palermitano, oriondo d’Antiochia 687 13 8 24 *Teodoro e Pasquale 687 » » » Giovanni VI, greco 701 3 2 13 Giovanni VII, di Rossano 705 2 7 17 Sisinnio, siro 708 » » 20 Costantino, siro 708 7 » 12 S. Gregorio II, romano de’ Savelli 715 15 8 24 S. Gregorio III, siro 731 10 8 » S. Zaccaria, di Santa Severina nella Magna Grecia 741 10 3 14 Stefano II, romano 752 » » 3 Morì d’apoplessia il terzo giorno dopo la sua elezione, e prima d’essere consacrato, onde presso alcuni cronologi non fa numero tra i papi di questo nome. Stefano III (o II), romano 752 5 » 20 S. Paolo I, romano 757 10 1 » *Teofilatto, Costantino, Filippo 767 » » » Stefano IV (o III), di Reggio nella Magna Grecia 768 3 5 27 Adriano I, romano dei Colonna 772 23 10 17 S. Leone III, romano 795 20 5 16 Stefano V (o IV), romano 816 » 7 » S. Pasquale I, romano 817 7 » 17 Eugenio II, romano 824 3 » » *Zizimo 824 » » » Valentino, romano 827 » 1 10 Gregorio IV, romano 827 16 » » Sergio II, romano 844 3 » » S. Leone IV, romano 847 8 3 6 Benedetto III, romano 855 2 6 10 *Anastasio 855 » » » S. Nicola I, romano 858 9 6 20 Adriano II, romano 867 4 11 » Giovanni VIII, romano 872 10 » 2 Marino I, di Gallese nel Patrimonio di San Pietro 882 1 4 » Adriano III, romano 884 1 4 » Credesi il primo che cambiasse nome. Prima si chiamava Agapito. Stefano VI (o V), romano 885 6 » » Formoso 891 5 » » Già vescovo di Porto; ed è il primo trasferito da sede vescovile alla papale. *Bonifazio VI, toscano 896 » » 15 Fa numero fra i pontefici di questo nome. Stefano VII o (VI), romano 896 1 2 » Romano, di Montefiascone? 897 » 4 » Teodoro II, romano 898 » » 20 Giovanni IX, romano 898 2 » 15 Benedetto IV, romano 900 3 » » Leone V di Ardea 903 » 1 9 Cristoforo, romano 903 » 6 » Sergio, romano 904 7 » » Già eletto nell’898. Anastasio III, romano 911 2 2 » Landone, sabino 913 » 6 10 Giovanni X, romano 914 14 2 » Leone VI, romano 928 » 7 5 Stefano VIII (o VII), romano 929 2 1 12 Giovanni XI, romano de’ conti di Tuscolo 931 4 10 » Leone VII, romano 936 3 6 10 Stefano IX (o VIII), dei duchi di Lorena 939 3 4 15 Marino II o Martino III, romano 942 3 6 » Agapito II, romano 946 9 7 » Giovanni XII, de’ Conti 956 8 » » *Leone VIII, romano 963 » » » Fa numero tra i pontefici omonimi. Benedetto V, romano 964 1 » » Giovanni XIII, romano 965 6 11 6 Benedetto VI, romano 972 1 3 » *Bonifazio VII (_Francone_) 974 » » » Dono II, romano, per breve tempo 974 » » » Benedetto VII, de’ Conti 975 8 8 » Giovanni XIV, Pietro Canepanova, di Pavia 983 » 9 » Privato della vita da Bonifazio VII, che per la seconda volta invase la Sede apostolica. Giovanni XV, romano, per pochi mesi o giorni 985 » » » Giovanni XVI, romano 985 10 » » Gregorio V, figlio di Ottone duca di Carinzia 996 2 9 12 Nel 997 Giovanni Filagato calabrese, vescovo di Piacenza, fu da Crescenzio tiranno di Roma collocato violentemente sul soglio pontifizio col nome di *Giovanni XVII 997 » » » Silvestro II, Gerberto, d’Orillac in Alvernia 999 4 1 9 Giovanni XVII, Sicco, romano 1003 » 5 25 Giovanni XVIII, Fasano, di Rapagnano presso Fermo 1003 5 4 22 Sergio IV, romano 1009 3 » » Benedetto VIII, de’ Conti 1012 11 9 » *Leone Gregorio 1012 » » » Giovanni de’ Conti 1024 9 » » Benedetto de’ Conti 1033 10 7 » Rinunziò. Nel 1043 *Silvestro III, poi *Giovanni XX, deposti nel 1046 da un concilio radunato a Sutri dall’imperatore Enrico III. Gregorio VI, Graziano, romano 1044 2 8 » Clemente II, dei signori di Marcsleve ed Horneburg in Sassonia 1046 » 9 15 Damaso II, Poppone, di Baviera 1048 » » 23 Creato dopochè Benedetto IX di nuovo abdicò il pontificato, che avea invaso alla morte di Clemente II. S. Leone IX, Brunone, dei conti d’Egesheim in Alsazia 1049 5 2 18 Vittore II, dei conti Xew in Svevia 1055 2 3 » Stefano X (o IX), dei duchi di Lorena 1057 » 9 » *Benedetto X, de’ conti di Tuscolo, detto Mincio 1058 » 10 18 Da alcuni riputato legittimo, e fa numero tra i pontefici di questo nome. Abdicò il 18 gennajo 1059. Nicola II, Gerardo, di Borgogna 1058? 2 6 25 Alessandro II, da Baggio, milanese 1061 11 6 21 *Cadaloo (vescovo di Parma), detto Onorio II 1061 » » » S. Gregorio VII, Ildebrando, di Soana nel Senese 1073 12 1 4 *Guiberto (arcivescovo di Ravenna), detto Clemente III 1080 » » » Vittore III, Epifani di Benevento (già Desiderio abate di Montecassino) 1086 1 3 24 Urbano II, de’ signori di Châtillons, da Reims 1088 11 4 18 Pasquale II, Ranieri, di Bleda presso Viterbo 1099 18 5 11 *Alberto, Teodorico e Maginulfo, detto Silvestro IV, dopo Guiberto nel 1100 » » » » Gelasio II, Giovanni di Gaeta 1118 1 » 5 *Maurizio Burdino, detto Gregorio VIII 1118 » » » Calisto II, de’ conti di Borgogna 1119 5 10 13 Onorio II, Fagnani, bolognese 1121 5 » 20 Innocenzo II, romano, de’ Papi o Papereschi, che si reputa essere la famiglia Mattei 1130 13 7 15 *Pier di Leone, col nome di Anacleto II 1130 » » » *Gregorio, col nome di Vittore IV 1138 » » » Celestino II, di Città di Castello 1143 » 5 13 Lucio II, Caccianemici dall’Orso, bolognese 1144 » 11 14 Eugenio III, Paganelli, di Montemagno nel Pisano 1145 8 4 10 Anastasio IV, romano 1153 1 4 23 Adriano IV, Breakspeare, di Langley nel contado di Hartford 1154 4 8 29 Alessandro III, Bandinelli, di Siena 1159 21 11 23 *Ottaviano, Guido di Crema, Giovanni di Strum, e Landò Sitino, successivamente, coi nomi di Vittore III, Pasquale III, Calisto III, ed Innocenzo III. Lucio III, Ubaldo Allungoli, lucchese 1181 4 2 23 Urbano III, Uberto Crivelli, milanese 1185 1 10 25 Gregorio VIII, Alberto di Morra, beneventano 1187 » 1 28 Clemente III, Paolino Scolari, romano 1187 3 3 9 Celestino III, Giacinto Orsini, romano 1191 6 9 10 Innocenzo III, Lotario dei conti di Segni, da Anagni 1198 18 6 9 Onorio III, Cencio Savelli, romano 1216 10 8 1 Gregorio IX, de’ conti di Segni 1227 14 5 » Celestino IV, Goffredo Castiglioni, milanese 1241 » » 17 Innocenzo IV, Sinibaldo Fieschi, genovese 1243 11 5 14 Alessandro IV, Rinaldo de’ conti di Segni 1254 6 5 14 Urbano IV, Giacomo Pantaleon, di Troyes 1261 3 1 4 Clemente IV, Guido Fulcodi o Foulques, linguadochese 1265 3 9 20 B. Gregorio X, Tibaldo Visconti, piacentino 1271 4 4 10 Innocenzo V, Pier di Tarantasia 1276 » 5 2 Adriano V, Fiesco, genovese 1276 » 1 8 Giovanni XXI, Pier Giuliano, di Lisbona 1276 » 3 5 Nicola III, Giangaetano Orsini, romano 1277 2 8 27 Martino IV, Simone di Brion, sciampagnese 1281 4 1 4 Onorio IV, Giacomo Savelli, romano 1285 1 » 2 Nicola IV, Girolamo Musei, di Lisciano presso Ascoli 1288 4 1 14 Celestino V, Pier Morone, d’Isernia 1294 » 5 9 Rinunziò. Bonifazio VIII, Benedetto Cajetani, di Anagni 1294 8 9 18 Benedetto XI, Nicola Boccasini, trevisano 1303 1 8 » Clemente V, Bertrando di Goth, di Villandraut presso Bordeaux 1305 8 10 15 Giovanni XXII, Giacomo d’Euse, di Cahors 1316 18 3 28 *Pietro di Corberia negli Abruzzi, detto Nicola V 1328 » » » Benedetto XII, Giacomo Fournier, da Saverdun nella contea di Foix 1334 7 4 6 Clemente VI, Pietro Roger, di Maumont presso Limoges 1342 10 7 » Innocenzo VI, Stefano d’Aubert, di Mont presso Limoges 1352 9 8 26 Urbano V, Guglielmo di Grimoard, del Gevaudan 1362 8 1 23 Gregorio XI, Pietro Roger, dei conti di Belford e Turenne, da Maumont 1370 7 2 20 Urbano VI, Bartolomeo Prignano, napoletano 1378 11 6 8 *Clemente VII (Roberto di Ginevra) eletto a Fondi va a sedere in Avignone, e comincia il grande scisma d’Occidente. Nè questo nè i suoi successori contano nel catalogo dei pontefici 1378 Bonifazio IX, Pierino Tomacelli, napoletano 1389 14 11 » *Pietro di Luna, col nome di Benedetto XIII 1394 » » » Innocenzo VII, Cosimo Meliorati, di Sulmona negli Abruzzi 1404 2 » 21 Gregorio XII, Angelo Correr, veneto 1406 » » » Il suo pontificato se si fa terminare nella sess. XV del concilio di Pisa, durò anni due, mesi sei e giorni quattro; se si prolunghi fino alla sess. XIV del concilio di Costanza, nella quale rinunziò, durò anni otto, mesi sette e giorni quattro. Alessandro V, Pietro Filargo, di Candia 1409 » 10 8 Giovanni XXIII, Baldassare Cossa, napoletano 1410 5 » 13 Martino V, Ottone Colonna, romano 1417 13 3 9 *Clemente VIII (Gilles di Muñoz) eletto in Aragona dai cardinali di Pietro di Luna, dopo la costui morte 1424 » » » Eugenio IV, Gabriele Condulmer, veneto 1431 » » » *Felice V (già Amedeo VIII duca di Savoja), eletto dal concilio scismatico di Basilea. Rinunziò dopo 10 anni 1439 » » » Nicola V, Tommaso Tarentucelli, di Sarzana 1447 » » » Calisto III, Alfonso Borgia, di Valenza in Ispagna 1455 3 3 29 Pio II, Enea Silvio Piccolomini, di Corsignano (Pienza) 1458 5 11 » Paolo II, Pietro Barbo, veneto 1464 6 11 26 Sisto IV, Francesco Della Rovere, nato in una villa presso Savona 1471 13 » 4 Innocenzo VIII, Giambattista Cybo, genovese 1484 7 10 27 Alessandro VI, Rodrigo Lençol Borgia, di Valenza in Ispagna 1492 11 » 8 Pio III, Francesco Todeschini Piccolomini, sienese 1503 » » 27 Giulio II, Giuliano Della Rovere, d’Albissola presso Savona 1503 9 3 20 Leone X, Giovanni de’ Medici, fiorentino 1513 8 8 12 Adriano VI, Adriano Florent van Trusen, di Utrecht 1522 1 8 6 Clemente VII, Giulio de’ Medici, fiorentino 1523 10 10 7 Paolo III, Alessandro Farnese, romano 1534 15 » 29 Giulio III, Gianmaria Ciocchi, di Monte San Savino 1550 5 1 16 Marcello II, Marcello Cervini, di Montepulciano 1555 » » 21 Paolo IV, Gianpietro Caraffa, napoletano 1555 4 2 27 Pio IV, Gianangelo Medici, milanese 1559 5 11 15 S. Pio V, Michele Ghislieri, di Bosco presso Tortona 1566 6 3 24 Gregorio XIII, Ugo Buoncompagni, bolognese 1572 12 10 28 Sisto V, Felice Peretti, di Montalto presso Ascoli 1585 5 4 3 Urbano VII, Giambattista Castagna, romano 1590 » » 13 Gregorio XIV, Nicola Sfondrati, milanese 1590 » 10 10 Innocenzo IX, Gianantonio Facchinetti, bolognese 1591 » 2 » Clemente VIII, Ippolito Aldobrandini, di Fano 1592 13 1 3 Leone XI, Alessandro Ottaviano de’ Medici, fiorentino 1605 » » 27 Paolo V, Camillo Borghese, romano 1605 15 7 13 Gregorio XV, Alessandro Ludovisi, bolognese 1621 2 5 » Urbano VIII, Maffeo Barberini, fiorentino 1623 21 » » Innocenzo X, Giambattista Panfili, romano 1644 10 3 23 Alessandro VII, Fabio Chigi, sienese 1655 12 1 16 Clemente IX, Giulio Rospigliosi, di Pistoja 1667 2 5 19 Clemente X, Emiliano Altieri, romano 1670 6 2 24 Innocenzo XI, Benedetto Odescalchi, comasco 1676 12 10 23 Alessandro VIII, Pietro Ottoboni, veneto 1689 1 4 » Innocenzo XIII, Antonio Pignatelli, napoletano 1691 9 2 16 Clemente XI, Gianfrancesco Albano, di Pesaro 1700 20 3 25 Innocenzo XIII, Michelangelo Conti, romano 1721 2 10 » Benedetto XIII, Pierfrancesco Orsini, romano 1724 5 8 23 Clemente XII, Lorenzo Corsini, fiorentino 1730 9 6 25 Benedetto XIV, Prospero Lambertini, bolognese 1740 17 8 6 Clemente XIII, Carlo Rezzonico, veneto 1758 10 6 28 Clemente XIV, Gianvincenzo Antonio Ganganelli (già fra Lorenzo), di Sant’Arcangelo presso Rimini 1769 5 4 3 Pio VI, Gianangelo Braschi, di Cesena 1775 24 6 14 Pio VII, Barnaba Chiaramonti, di Cesena 1800 23 5 6 Leone XII, Annibale della Genga, di Spoleto 1823 5 4 13 Pio VIII, Francesco Saverio Castiglioni, di Cingoli 1829 1 8 » Gregorio XVI, Mauro Capellari, di Belluno 1831 15 4 » Pio IX, Gianmaria dei conti Mastai-Ferretti, di Sinigaglia 1846 § 6. — Imperatori e re d’Italia. Carlo Magno re dei Longobardi 774 incoronato imperatore 800 o 799 25 xbre 914 _Pepino_ re d’Italia 781 810 _Bernardo_ re d’Italia 810 818 Luigi o Lodovico _il Pio_ associato all’impero 813, re 818 840 Lotario associato dall’817 820 855 Luigi II associato dall’849 855 875 Carlo _il Calvo_ imperatore e re 875 877 Carlomanno re d’Italia 877 879 _Impero vacante_ 877 — 881 Carlo _il Grosso_ re 879, imperatore 881 887 Guido da Spoleto re 889, imperatore 891 894 Berengario I re 888, imperatore 915 924 Lamberto imperatore e re 894 898 Arnolfo imperatore e re 896 899 Luigi III re 899, imperatore 901 903 o 905 Rodolfo di Borgogna re 922 926 Ugo re 926 947 Lotario associato dal 931, re 947 950 Berengario II e Adalberto, re 950 961 Ottone I re 961, imperatore 962 973 Ottone II imperatore 973, re di Germania 962 983 Ottone III imperatore 996 983 1002 Enrico II imperatore 1014 1002 1024 Corrado II _Salico_ imperatore 1027, re di Borgogna 1032 1024 1039 Enrico III imperatore 1046 1039 1056 Enrico IV imperatore 1053 1056 1106 Enrico V imperatore 1111 1106 1125 Lotario II imperatore 1133 1125 1137 Corrado III di Hohenstaufen 1138 1152 Federico I _Barbarossa_ imperatore 1155 1152 1190 Enrico VI imperatore 1191 1190 1197 _Filippo di Svevia_ 1198 1208 Ottone IV imperatore 1209 1198 1218 Federico II imperatore 1220 1212 1250 Corrado IV 1250 1251 _Grande interregno_ 1254 — 1273 _Guglielmo d’Olanda_ 1247 1256 _Ricardo di Cornovaglia_ 1257 m. 1272 _Alfonso di Castiglia_ 1257 1273 Rodolfo I d’Habsburg 1273 1291 Adolfo di Nassau 1292 1298 Alberto I d’Austria 1298 1308 Enrico VII di Luxemburg imperatore 1312 1308 1313 Luigi V _il Bavaro_ imperatore 1328 1314 1347 _Federico III il Bello_ 1314 abd. 1325 Carlo IV di Boemia imperatore 1355 1347 1378 Venceslao 1378 dep. 1400 m. 1419 Roberto 1400 1410 Josse 1410 1411 Sigismondo imperatore 1433 1410 1437 Alberto II, d’Austria come i successivi 1438 1439 Federico III imperatore 1452 1439 1493 Massimiliano I 1493 1519 Carlo V 1519 abd. 1556 m. 1558 Ferdinando I 1556 1564 Massimiliano II 1564 1576 Rodolfo II 1576 1612 Mattia 1612 1619 Ferdinando II 1619 1637 Ferdinando III 1637 1657 _Interregno di 15 mesi._ Leopoldo I 1658 1705 Giuseppe I 1705 1711 Carlo VI 1711 1740 _Interregno di 6 mesi._ Carlo VII d’Hannover 1742 1745 _Maria Teresa_ e Francesco I di Lorena 1745 1765 Giuseppe II 1765 1790 Leopoldo II 1790 1792 Francesco II 1792 1835 che nel 1806 rinunzia al titolo d’imperatore romano, e così l’impero si scioglie. § 7. — Re ostrogoti. Teodorico 493 526 Atalarico 526 534 Teodato 534 536 Vitige 536 dep. 540 m. 543? Eldibaldo o Teodebaldo 540 541 Erarico 541 Totila (_Baduilla_) 541 552 Teja 552 553 I Greci, guidati da Narsete, rimangono padroni dell’Italia nel 554. § 8. — Esarchi di Ravenna. Narsete, duca d’Italia 554 568 Longino, primo esarca 568 584 Smaragdo 584 590 Romano 590 597 Callinico 597 602 Smaragdo _di nuovo_ 602 611 Lemigio 611 616 Eleuterio 616 619 Isacco 619 638 Platone 638 648 Teodoro I Calliopa 648 649 Olimpio 649 652 Teodoro Calliopa _di nuovo_ 652 666 Gregorio 666 678 Teodoro II 678 687 Giovanni Platino 687 702 Teofilace o Teofilatto 702 710 Giovanni Rizocopo 710 711 Eutichio 711 713 Scolastico 713 727 Paolo 727 728 Eutichio _di nuovo_ 728 752 Astolfo longobardo pon fine all’esarcato nel 752. § 9. — Re longobardi. Alboino, vincitore de’ Gepidi, chiamato da Narsete in Italia 568 573 Clefi 573 575 Governo dei 30 duchi 575 584 Autari 584 590 Agilulfo 591 615 Adaloaldo 615 dep. 625 m. 626 Ariovaldo 625? 636 Rotari 636 652 Rodoaldo 652 653 Ariberto I 653 661 Gondiberto e Pertarito 661 662 Grimoaldo 662 671 Garibaldo 671 Pertarito _rimesso in trono_ 671 686 Cuniberto il Pio, associato dal 678 686 700 Luitperto o Liutperto 700 701 Ragimperto 701 Ariberto II 701 712 Ansprando 712 Liutprando o Luitprando 712 744 Ildebrando, assoc. dal 736 744 Rachi 744 abd. 749 Astolfo 749 756 Desiderio 756 Adelchi o Adelgiso associato v. 759 m. 788 Carlomagno s’impadronisce del regno dei Longobardi nel 774. § 10. — Duchi del Friuli. Grasolfo I 568 590 Gisulfo 590 611 Grasolfo II 611 621 Tasone e Cacone 621 635 Grasolfo II _di nuovo_ 635 651 _Alcuni cronologi mettono_ Gisulfo 568 615 Tasone e Cacone suoi figli 615 635 Grasolfo fratello di Gisulfo 635 651 Agone 651 663 Lupo 663 666 _Varnefrido_ 664 Vettari 666 678 Laudari 678 Rodoaldo, Ansfrido, Adone 694 Ferdolfo _ligure_ 694 706 Corvolo 706 Pemmone bellunese 706 737 I suoi figli Rachi e Astolfo re dei Longobardi 737 749 Anselmo, loro fratello 749 abd. 751 m. 803 Pietro 751 775? Rodgaudo 775 776 Marcario (Marquard) 776 — Unrico (Hurok) I — 799 Cadaloaco 799 819 Bodrico o Balderico 819 846 Everardo 846 868? Unrico II suo figlio 868 874 Berengario (_re d’Italia_, 888) 874 878 m. 924 Gualfredo 878 895 Grimoaldo 895 922 Enrico III, fratello di Ottone Magno 922 952 Non appajono più duchi del Friuli. § 11. — Duchi di Spoleto. Faroaldo I 570 601 Ariulfo 601 602 Teodolapio 602 650 Attone 650 665 Trasimondo I 675 703 Faroaldo II 703 724 Trasimondo II 724 740 Ilderico 740 741 Ansprando 741 746 Lupo o Lupone 746 757 Alboino 757 758 Gisulfo 759 763 Teodorico o Teodicio 763 773 Ildebrando 773 789 Vinigiso 789 822 Suppone I 822 824 Adalardo, Mauringo, Berengario 824 838 Guido I 838 866 Lamberto I 866 871 Suppone II 871 879 Guido II 879 880 Guido III (_re d’Italia_, 889) 880 891 m. 894 Lamberto II 891 898 Guido IV 898 Agiltrude, _Anonimo_, Alberico 898 926 Teodobaldo I 926 935 Anscario 935 940 Sarilone 940 943 Umberto 943 946 Bonifazio I e Teodobaldo II 946 959 Trasimondo III 959 967 Pandolfo _Testa di ferro_ 967 981 Trasimondo IV 982 989 Ugo I _il Grande_ 989 1001 Bonifazio II 1001 1012 Giovanni, Ugo II 1012 1030 I duchi di Spoleto diventano governatori, mutabili ad arbitrio degli imperatori e re d’Italia. § 12. — Duchi, poi principi di Benevento. Zottone 571 o 589 591 Arigiso o Arechi I 591 641 Ajone I 641 642 Rodoaldo 642 647 Grimoaldo I (_re de’ Longobardi_ 662) 647 667 m. 671 Romoaldo I 667 683 Grimoaldo II 684 686 Gisulfo I 686 703 Romoaldo II 703 729 Gisulfo II 729 731 Andela 731 733 Gregorio 733 740 Godescalco 740 741 Gisulfo II _ristabilito_ 741 747? Liutprando 747 758 Arigiso II, _principe nel 774_ 758 787 Grimoaldo III (o I) 787 806 Grimoaldo IV (o II) 806 827 Sicone 827 833 Sicardo 833 840 Radelgiso I 840 851 Radelgario 851 853 Adelgiso 853? 878 Gaideriso 878? 881 Radelgiso II 881 884 Ajone (II) 884 890 Orso 890 894 Guido (IV _duca di Spoleto_) 894 896 Radelgiso II _ristabilito_ 896 900 Atenolfo I 900 910 Landolfo I e Atenolfo II 910 943 Landolfo II e Landolfo III 943 961 Pandolfo I 961 981 Landolfo IV 981 982 Pandolfo II 982 1012 Landolfo V 1012 1033 Pandolfo III 1033 1053 _Landolfo VI_ 1038 1053 Rodolfo 1053 1054 Pandolfo III e Landolfo VI _di nuovo_ 1054 1077 Pandolfo abdica, e Landolfo gli sostituisce suo figlio Pandolfo IV 1059 1074 Fine de’ principi longobardi di Benevento. § 13. — Conti e duchi di Puglia e Calabria. Guglielmo I _conte_ 1043 1046 Drogone 1046 1051 Umfredo 1051 1059 Roberto Guiscardo _duca_ 1059 1085 Ruggero 1085 1111 Guglielmo II 1111 1127 § 14. — Conti e re delle Due Sicilie. Ruggero I conte di Sicilia 1061 o 1074 1101 Ruggero II 1101 s’impadronisce della Puglia 1127 re di Puglia e Sicilia col nome di Ruggero I 1130 1154 Guglielmo I _il Malo_ 1154 1166 Guglielmo II _il Buono_ 1166 1189 _Tancredi_ conte di Lecce 1189 1194 Guglielmo III 1194 1195 Enrico VI (o I) di Hohenstaufen 1194 1197 marito di Costanza, morta nel 1198. Federico I, II come imper. 1197 1250 Corrado 1250 1254 Corradino 1254 1258 Manfredi 1258 1266 Carlo I d’Anjou 1266 1285 perde la Sicilia nel 1282. _Re di Sicilia._ Pietro d’Aragona 1282 1285 Giacomo 1285 1295 Federico I (o II) _re di Trinacria_ 1296 1337 Pietro II 1337 1342 Lodovico 1342 1355 Federico II (o III) _il Semplice_ 1355 1377 Maria 1377 1402 Martino I 1392 1409 Martino II 1409 1410 Ferdinando I di Castiglia 1412 1416 Alfonso I d’Aragona, ottiene anche il regno di Napoli 1416 1458 Giovanni I 1458 1479 Ferdinando II _il Cattolico_, anche re di Napoli come Ferdinando III 1479 1516 _Re di Napoli contemporanei a quelli._ Carlo II _il Zoppo_ 1285 1309 Roberto (II) _il Savio_ 1309 1343 Giovanna I 1343 1381 _Luigi_ di Taranto 1352 1362 Carlo III[150] 1381 1386 Ladislao 1386 1414 Giovanna II 1414 1435 _Renato_ d’Anjou 1435 1442 Alfonso I d’Aragona 1442 1458 Ferdinando I 1458 1494 Alfonso II 1494 1495 Ferdinando II 1495 1496 Federico II 1496 1501 Ferdinando III (già II di Sicilia) 1504 1516 Carlo V come imperatore, IV di Napoli, II di Sicilia, I di Spagna 1516 1554 Filippo I, II di Spagna 1554 1598 Filippo II, III di Spagna 1598 1621 Filippo III, IV di Spagna 1621 1665 Carlo V di Napoli, III di Sicilia, II di Spagna 1665 1700 Filippo IV, V di Spagna 1700 1707 _Re di Sicilia._ Vittorio Amedeo di Savoja 1713 Carlo d’Austria, VI di Napoli nel 1707 e come imperatore 1720 o 1721 _Re delle Due Sicilie della Casa di Borbone._ Carlo di Borbone figlio di Filippo V, III di Spagna, VII di Napoli 1735 1759 Ferdinando IV di Napoli, III di 1759 dep. 1798 Sicilia ristabilito 1802 dep. 1805 Giuseppe Buonaparte re di Napoli e Sicilia, 30 marzo 1806 Gioachino Murat, 15 luglio 1808 ucciso 1815 Ferdinando suddetto è ristabilito col titolo di Ferdinando I re del regno delle Due Sicilie 1815 1825 Francesco I 1825 1830 Ferdinando II 1830 1859 Francesco II, 20 marzo 1859 spod. 1860 § 15. — Duchi di Parma e Piacenza. Questi paesi formarono parte del ducato di Milano, fin quando papa Paolo III li diede a suo figlio naturale Pier Luigi Farnese, primo duca 1545 1547 Ottavio 1547 1585 Alessandro 1585 1592 Ranuccio I 1592 1622 Odoardo 1622 1646 Ranuccio II 1646 1694 Francesco 1694 1727 Antonio 1727 1731 Estintasi coi tre precedenti fratelli la casa Farnese, Elisabetta, figlia di Odoardo e moglie di Filippo V di Spagna, seppe far toccare quel dominio a suo figlio don Carlo di Borbone 1731 1748 Don Filippo 1748 1765 Ferdinando 1765 1802 Luigi I 1802 1803 cede Parma e Piacenza alla Francia, ed ottiene la Toscana sotto il titolo di _re d’Etruria._ Carlo Luigi II 1803 dep. 1807 Maria Luigia d’Austria, imperatrice dei Francesi, _duchessa di Parma_ 1815 1847 Carlo Luigi suddetto 1847 abd. 1849 Carlo III 1849 1854 Roberto (_Luigia di Borbone reggente_), 27 marzo 1854 spod. 1859 § 16. — Marchesi, duchi e granduchi di Toscana. Bonifazio I (o II) marchese di Toscana 828 845 Adalberto I _il Ricco_ 845 890 Adalberto II 890 917 Guido 917 929 Lamberto 929 931 Bosone 931 936 Umberto 936 961 Ugo _il Grande_ 961 1001 Adalberto III 1001 1014 Riniero 1014 1027 Bonifazio II (o III) 1027 1052 Federico 1052 1055 Beatrice 1055 1076 Matilde 1076 1115 morendo, fa donazione alla santa Sede; ma Enrico V imperatore ne occupa i beni, e mette al governo della Toscana presidi e marchesi amovibili, che durano 1116 — 1133 Enrico _l’Orgoglioso_, investito duca di Toscana dall’imperatore Lotario II 1133 Ingelberto, eletto vicario del duca Enrico dal concilio Pisano, poi scacciato dai Lucchesi 1134 o 1135 ristabilito da Lotario II 1137 Ulderico, creato marchese di Toscana dall’imperatore Corrado III 1139 1153 Welfeste, fratello del duca Enrico, creato marchese dall’imperatore Federico Barbarossa 1153 1195 Filippo, quintogenito del Barbarossa, eletto marchese dall’imperatore Enrico VI 1195 Cominciano le fazioni dei Guelfi e Ghibellini 1198 La Toscana si regge a repubblica fino al 1530 Allora Carlo V soggiogatala, vi pone _duca_ Alessandro de’ Medici 1531 1537 Cosimo I de’ Medici 1537 ha il titolo di _granduca_ di Toscana 1569 1574 Francesco Maria Medici 1574 1587 Ferdinando I 1587 1609 Cosimo II 1609 1621 Ferdinando II 1621 1670 Cosimo III 1670 1723 Gian Gastone 1723 1737 Estinta la linea medicea, vi è surrogato Francesco Stefano di Lorena 1737 1765 Un atto di Francesco I imperatore del 14 luglio 1765 stabilì che il granducato sarebbe una secondogenitura della Casa d’Austria. Perciò gli succede il secondogenito Leopoldo 1765 Essendo questo eletto imperatore di Germania nel 1790, succede nel granducato il suo secondogenito Ferdinando III 1790 Nella pace di Luneville 1801, il granducato è dato alla infante Luigia di Parma. Elisa Buonaparte è creata granduchessa di Toscana 1807 Ferdinando III ritorna 1814 1824 Leopoldo II 1824 che, per abdicazione del duca Carlo Luigi di Lucca (1847) acquista anche questo ducato. È espulso nel 1859. § 17. — Duchi di Ferrara, Modena e Reggio. La Casa longobarda dei principi d’Este si divise in due rami 1097; uno con Guelfo si stabilì in Germania, ove dominò il Brunswik-Luneburg, e salì al trono inglese; l’altro con Folco stette in Italia. Borso, discendente da questo, fu da Federico II imperatore fatto duca di Modena e Reggio 1453 1471 Ercole I 1471 1505 Alfonso I 1505 1534 Ercole II 1534 1559 Alfonso II 1559 1597 Cesare d’Este 1597 1628 che nel 1598 perde il ducato di Ferrara. Modena, come feudo imperiale, è data ad Alfonso III figlio di Cesare 1628 abd. 1629 m. 1644 Francesco I 1629 1658 Alfonso IV 1658 1662 Francesco II 1662 1694 Rinaldo 1694 1737 Francesco III 1737 1780 Ercole III Rinaldo 1780 dep. 1797 m. 1803 la cui unica figlia Maria Beatrice nel 1771 sposa Ferdinando Carlo _arciduca d’Austria_ 1803 1806 Francesco IV 1806 entra in possesso 1814 succede a sua madre Maria Beatrice nel ducato di Massa e principato di Carrara, e diviene ceppo d’una nuova Casa d’Este 1829 1846 Francesco V, 2 gennajo 1846 sposs. 1859 § 18. — Dogi di Venezia. Paoluccio Anafesto, primo doge 697 Marcello Tegagliano 717 Orso Participazio 726 _Maestri della milizia_ 737 — 742 Deodato Orso, doge 742 Galla 755 Domenico Monegario 756 Maurizio Galbajo 764 Giovanni Galbajo 784 Obelerio 804 Angelo Participazio 810? Giustiniani Participazio 827 Giovanni Participazio I 829 Pietro Tradonico o Gradenigo 837 Giovanni (_figlio e collega_) Orso Participazio II 881 Pietro, poi Orso (_fratelli e colleghi_) Pietro Candiano I 887 Giovanni Participazio II Domenico Tribuno (_da alcuni_) Pietro Badoero Tribuno 888 Orso Participazio II (o III) 912 Pietro Candiano II 932 Pietro Participazio o Badoero 939 Pietro Candiano III 942[151] Pietro Candiano IV 959 Pietro Orseolo I 976 Vitale Candiano 978 Tribuno Memmi 979 Pietro Orseolo II 991 Ottone Orseolo 1009 Pietro Centranigo 1026? Orso Orseolo _patriarca_ Domenico Flabanico 1032 Domenico Contarini 1043 Domenico Silvio 1071 Vitale Faliero 1084 Vitale Michiel I 1096 Ordelafo Faliero 1102 Domenico Michiel 1117 Pietro Polano 1130 Domenico Morosini 1148 Vitale Michiel II 1156 Sebastiano Ziani 1172 Orso Malipiero 1179 Enrico Dandolo 1192 Pietro Ziani 1205 Jacopo Tiepolo 1229 Marino Morosini 1249 Renier Zeno 1252 Lorenzo Tiepolo 1268 Giacomo Contarini 1275 Giovanni Dandolo 1279? Pietro Gradenigo 1289 Marino Giorgi 1311 Giovanni Soranzo 1312 Francesco Dandolo 1328 Bartolomeo Gradenigo 1339 Andrea Dandolo 1343? Marino Faliero 1354 Giovanni Gradenigo 1355 Giovanni Delfino 1356 Lorenzo Celsi 1361 Marco Cornaro 1365 Andrea Contarini 1367 Michele Morosini 1382 Antonio Venier 1382 Michele Steno 1400 Tommaso Mocenigo 1414 Francesco Foscari 1423 Pasquale Malipiero 1457 Cristoforo Moro 1462 Nicola Tron 1471 Nicola Marcello 1473 Pietro Mocenigo 1474 Andrea Vendramin 1476 Giovanni Mocenigo 1478 Marco Barbarigo 1485 Agostino Barbarigo 1486 Leonardo Loredano 1501 Antonio Grimani 1521 Andrea Gritti 1523 Pietro Lando 1539 Francesco Donato 1545 Marcantonio Trevisan 1553 Francesco Venier 1554 Lorenzo Priuli 1556 Girolamo Priuli 1559 Pietro Loredano 1567 Luigi Mocenigo 1570 Sebastiano Venier 1577 Nicola Da Ponte 1578 Pasquale Cicogna 1585 Marino Grimani 1595 Leonardo Donato 1606 Marcantonio Memmi 1612 Giovanni Bembo 1615 Nicola Donato 1618 Antonio Priuli 1618 Francesco Contarini 1623 Giovanni Cornaro 1624 Nicola Contarini 1630 Francesco Erizzo 1631 Francesco Molin 1646 Carlo Contarini 1655 Francesco Cornaro 1656 Bernuccio Valier 1656 Giovanni Pesaro 1658 Domenico Contarini 1659 Nicola Sagredo 1675 Luigi Contarini 1676 Marcantonio Giustiniani 1684 Francesco Morosini 1688 Silvestro Valier 1694 Luigi Mocenigo 1700 Giovanni Cornaro 1709 Sebastiano Mocenigo 1722 Carlo Ruzzini 1732 Luigi Pisani 1735 Pietro Grimani 1741 Francesco Loredano 1752 Marco Foscarini 1762 Alvisio Mocenigo 1763 Paolo Renier 1779 Luigi Manin, ultimo doge 1789 1797 § 19. — Genova. Questa repubblica è successivamente governata da consoli, podestà e capitani del popolo; incomincia ad aver dogi con Simone Boccanegra 1339 Giovanni De-Murta 1344 Giovanni De-Valenti 1350 Genova si dà al signore di Milano 1352 e ristabilisce il dogato con Simone Boccanegra 1356 Gabriele Adorno 1363 Domenico Fregoso 1370 Antoniotto Adorno, deposto 1378 Nicolò Guarco 1378 Leonardo Montaldo 1383 Antoniotto Adorno 1384 Giacomo Fregoso 1390 Antoniotto Adorno 1391 Antonio Montaldo 1392 Clemente Promontorio 1393 Francesco Giustiniani 1393 Nicolò Zoagli, Antonio Guarco e Antoniotto Adorno 1394 Genova si dà alla Francia 1396 poi al marchese di Monferrato 1409 Giorgio Adorno, doge 1413 Barnaba Giano 1415 Tommaso Campofregoso 1415 Genova si arrende al duca di Milano 1421 e dopo quindici anni nomina doge Isoardo Guarco 1436 Tommaso Campofregoso 1436 Battista Fregoso 1437 Tommaso Campofregoso 1437 Rafaele Adorno 1443 Barnaba Adorno e Giovanni Fregoso 1447 Luigi Fregoso 1418 Pietro Fregoso 1450 Genova si dà alla Francia 1458 Prospero Adorno, doge 1461 Spinetta Fregoso e Luigi Fregoso 1461 Paolo Fregoso, arcivescovo 1463 Genova soggetta al duca di Milano 1464 Prospero Adorno 1478 Battista Fregoso 1478 Paolo Fregoso, arcivescovo 1483 Genova soggetta al duca di Milano 1487 poi alla Francia 1499 Paolo da Novi, doge popolare 1507 Giovanni Fregoso 1512 Ottaviano Fregoso 1513 il quale dal 1515 al 1522 è governatore regio Antoniotto Adorno 1522 Cacciati i Francesi, Genova adotta il governo dei dogi biennali Oberto di Lazzaro Cattaneo 1528 Battista Spinola 1531 Giambattista Lomellino 1533 Cristoforo Grimaldo-Rosso 1535 Giambattista Doria 1537 Gianandrea Giustiniani 1539 Leonardo Cattaneo 1541 Andrea Centurione-Pietrasanta 1543 Giambattista Fornari 1545 Benedetto Gentile 1547 Gaspare Bracelli-Grimaldo 1549 Luca Spinola 1551 Giacomo Promontorio 1553 Agostino Pinelli 1555 Pier Giovanni Cybo-Chiavari 1557 Gerolamo Vivaldi 1559 Paolo Battista Calvi-Giudice 1561 Battista Cicala-Zoagli 1561 Giambattista Lercaro 1563 Ottavio Gentile Oderico 1565 Simone Spinola 1567 Paolo Moneglia-Giustiniani 1569 Gianotto Lomellino 1571 Giacomo Durazzo-Grimaldo 1573 Prospero Fattinanti-Centurione 1575 Giambattista Gentile 1577 Nicola Doria 1579 Girolamo De-Franchi 1581 Girolamo Chiavari 1583 Ambrogio De-Negro 1585 David Vaccaro 1587 Battista Negrone 1589 Gianagostino Giustiniani 1591 Antonio Grimaldo Cebà 1593 Matteo Senarega 1595 Lazzaro Grimaldo-Cebà, morto doge 1597 Lorenzo Sauli 1599 Agostino Doria 1601 Pietro De-Franchi, già Sacco 1603 Luca Grimaldo 1605 Silvestro Invrea, morto doge 1607 Girolamo Assereto 1607 Agostino Pinelli 1609 Alessandro Giustiniani 1611 Tommaso Spinola 1613 Bernardo Clavarezza 1615 Giangiacomo Imperiali 1617 Pietro Durazzo 1619 Ambrogio Doria, morto doge 1621 Giorgio Centurione, che rifiutò la dignità 1623 Federico De-Franchi 1623 Giacomo Lomellino 1625 Gianluca Chiavari 1627 Andrea Spinola 1629 Leonardo Torre 1631 Giovanni Stefano Doria 1633 Gianfrancesco Brignole 1635 Agostino Pallavicino 1637 Giambattista Durazzo 1639 Gianagostino De-Marini, morto doge 1641 Giambattista Lercaro 1642 Luca Giustiniani 1644 Giambattista Lomellini 1646 Giacomo De-Franchi 1648 Agostino Centurione 1650 Girolamo De Franchi 1652 Alessandro Spinola 1654 Giulio Sauli 1656 Giambattista Centurione 1658 Gianbernardo Frugone, morto doge 1660 Antoniotto Invrea 1661 Stefano Mari 1663 Cesare Durazzo 1665 Cesare Gentile 1667 Francesco Garbarino 1669 Alessandro Grimaldo 1671 Agostino Saluzzo 1673 Antonio Da-Passano 1675 Giovannettino Odone 1677 Agostino Spinola 1679 Luca Maria Invrea 1681 Francesco Imperiali-Lercari 1683 Pietro Durazzo 1685 Luca Spinola 1687 Oberto Torre 1689 Giambattista Cattaneo 1691 Francesco Invrea 1693 Bendinelli Negrone 1695 Francesco Maria Sauli, morto doge 1697 Girolamo Mari 1699 Federico De-Franchi 1701 Antonio Grimaldo 1703 Stefano Onorato Ferretto 1705 Domenico Maria Mari 1707 Vincenzo Durazzo 1709 Francesco Maria Imperiali 1711 Gianantonio Giustiniani 1713 Lorenzo Centurione 1715 Benedetto Viale 1717 Ambrogio Imperiali 1719 Cesare De-Franchi 1721 Domenico Negrone 1723 Girolamo Veneroso 1726 Luca Grimaldo 1728 Francesco Maria Balbi 1730 Domenico Maria Spinola 1732 Stefano Durazzo 1734 Nicolò Cattaneo 1736 Costantino Balbi 1738 Nicolò Spinola 1740 Domenico Canavero 1742 Lorenzo Mari 1744 Gianfrancesco Brignole 1746 Cesare Cattaneo 1748 Agostino Viale 1750 Stefano Lomellino, che abdicò 1752 Giambattista Grimaldo 1752 Gian Gioachino Veneroso 1754 Giacomo Grimaldo 1756 Matteo Franzoni 1758 Agostino Lomellino 1760 Rodolfo Brignole-Sale 1762 Francesco Maria Rovere 1765 Marcello Durazzo 1767 Giambattista Negrone, morto doge 1769 Giambattista Cambiaso, morto doge 1771 Ferdinando Spinola, che abdicò 1773 Pietro Francesco Grimaldo 1773 Brixio Giustiniani 1775 Giuseppe Lomellini 1777 Giacomo Maria Brignole 1779 Marcantonio Gentile 1781 Giambattista Ajrolo 1783 Giancarlo Pallavicini 1785 Rafaele Deferrari 1787 Alerame Pallavicini 1789 Michelangelo Cambiaso 1792 Giuseppe Maria Doria 1793 Giacomo Maria Brignole 1793 Giacomo Maria Brignole, nominato dal generale Buonaparte a Montebello 1797 Francesco Cattaneo, per un mese e mezzo 1802 Girolamo Durazzo, 30 luglio 1802 Girolamo Serra, presidente del Governo 1811 Genova è unita al regno di Sardegna 1815 § 20. — Signori e duchi di Milano. DELLA TORRE Martino 1257 1263 Filippo 1263 1265 Napoleone 1265 1277 m. 1283 VISCONTI Ottone 1275 1295 Matteo I 1295 abd. 1322 m. 1323 _Guido_ 1302 1311 Galeazzo I 1322 1328 Azzone 1328 1339 Luchino 1339 1349 Giovanni 1349? 1354 Matteo II 1354 1355 Galeazzo II 1354 1378 Bernabò 1354 1385 Gian Galeazzo succ. a Galeazzo II 1378 poi a Bernabò, ed è fatto _duca_ 1395 1402 Gianmaria 1402 1412 Filippo Maria 1412 1447 SFORZA Francesco, duca nel 1450 1447 1466 Galeazzo Maria 1466 1494 Gian Galeazzo 1476 1494 Lodovico _il Moro_ 1494 dep. 1500 m. 1510 Luigi XII _re di Francia_ 1500 1512 Massimiliano Sforza 1512 dep. 1515 m. 1530 Francesco I _re di Francia_ 1515 1521 Francesco II Sforza, ultimo duca 1521 e 1525 1535 § 21. — Mantova e Monferrato. Luigi di Gonzaga, _signore di Mantova_ 1328 1360 Guido di 1360 1369 Luigi II 1369 1382 Francesco 1382 1407 Giovanni Francesco, _marchese_ nel 1433 1407 1444 Luigi II 1444 1478 Federico I 1478 1484 Giovanni Francesco II 1481 1519 Federico II, duca nel 1530 1519 1540 Francesco III 1540 1550 Guglielmo, _duca di Monferrato_ nel 1573 1550 1587 Vincenzo I 1587 1612 Francesco IV 1612 Ferdinando _cardinale_ 1612 1626 Vincenzo II _cardinale_ 1626 1627 Carlo di Nevers 1627 1637 Carlo II 1637 1665 Carlo III 1665 dep. 1703 m. 1708 § 22. — Savoja. Cronologia incerta; la più probabile pare questa: Umberto _Biancamano_ 1003 Amedeo I 1056? Odone 1045 1060? Pietro I e Amedeo II 1060 1078 e 1080 Umberto II _il Rinforzato, conte di Savoja_ 1080 1103 Amedeo III 1103 1148 Umberto III _beato_ 1148 1188 Tommaso 1188 1233 Amedeo IV 1233 1253 Bonifazio 1253 1263 Pietro II 1263 1268 Filippo I 1268 1285 Amedeo V 1285 1323 Edoardo 1323 1329 Aimone 1329 1343 Amedeo VI (_il Conte Verde_) 1343 1383 Amedeo VII (_il Conte Rosso_) 1383 1391 Amedeo VIII, _duca_ nel 1417 1392 abd. 1440 m. 1451 Lodovico 1440 1465 Amedeo IX _beato_ 1465 1472 Filiberto I 1472 1482 Carlo I 1482 1489 Carlo II 1490 1496 Filippo II 1496 1497 Filiberto II 1497 1504 Carlo III 1504 1553 Emanuele Filiberto 1553 1580 Carlo Emanuele I _il Grande_ 1580 1630 Vittorio Amedeo I 1630 1637 Francesco Giacinto 1637 1638 Carlo Emanuele II 1638 1675 Vittorio Amedeo II 1675 che nel 1713 pel trattato di Utrecht ottiene la Sicilia, e nel 1720 la cambia colla Sardegna, avendone il titolo di _re_ abd. 1730 m. 1732 Carlo Emanuele III 1730 1773 Vittorio Amedeo III 1773 1790 Carlo Emanuele IV 1790 abd. 1802 m. 1819 Il Piemonte è riunito alla Francia Vittorio Emanuele I 1814 abd. 1821 m. 1824 Carlo Felice, ultimo della Casa di Savoja 1821 1831 Carlo Alberto della Casa di Savoja-Carignano 1831 abd. e m. 1849 Vittorio Emanuele II, 23 marzo 1849 nel 1860 dichiarato re d’Italia. INDICE CAPITOLO CLXXXIX. Principi e popoli dal 1830 al 46. Aspirazioni e trame _Pag._ 1 CXC. Pio IX. Le Riforme. Le Costituzioni » 79 CXCI. Le insurrezioni » 116 CXCII. Guerra santa. Conquassi » 142 CXCIII. Rassetto forzato. Moto ripreso » 261 CXCIV. Aspirazioni e preparativi piemontesi » 314 CXCV. Acquisto di Venezia e di Roma » 354 CRONOLOGIA ITALICA » 383 NOTE: [1] A credere vere queste parole c’induce il lutto che noi stesso vedemmo in Firenze alla malattia e morte d’una giovane figlia del granduca Leopoldo II. Stavamo a colloquio una sera con esso, quando ci chiese di poter correre un istante a vedere quella morente; e ritornato, ce ne parlava con tutto l’affetto, ch’è troppo naturale in un padre, ma che i grandi non osano palesare. [2] Pietro Giordani al 16 dicembre 1824 scriveva: — A dir bene di questo Governo non si finirebbe mai. Dirò solo una cosa recentissima. Un amico mio aveva letto ai Georgofili una dissertazione affatto economica. Piacque molto, e volle subito leggerla un ministro di Stato. La lodò molto; ma perchè lo scrittore aveva detto essere poco discrete e poco prudenti le brame di molti che vorrebbero diminuite le imposte, il ministro lo fece avvertire che anzi dicesse (poichè la dissertazione si stampa) le tali e tali ragioni (e suggeriva le vere e buone) per cui le imposte si devono sempre restringere quanto si può. Questo ministro non è un plebeo, non un giacobino, un carbonaro, un liberale; è don Neri Corsini. I Georgofili sono una società reale: eppure nello stesso giorno spontaneamente nominò socj l’esule Poerio, l’esule Colletta, l’esule Giordani». [3] A Londra verso il 1770 si erano stabilite varie compagnie dei Muns, dei Tityre-tus, dei Mohocks, che si dilettavano a fare del male pel male stesso; coglievano donne e le voltavano colla testa in giù; rompeano il naso agli uomini; li faceano _sudare_, cioè metteano il primo che capitasse in un circolo, e quello a cui esso volgesse il sedere glielo punzecchiava colla spada, e ognuno ripeteva il giuoco, poi lo davano da strigliare ai valletti, e lo faceano ballare pungendone i polpacci: e malgrado ordini ripetuti, durò fino al fine del regno di Giorgio I. A Milano verso il 1820 erasi pure introdotta una _Compagnia della Teppa_ che andava facendo simili tiri. E quando il Gualterio dà questa e la _Compagnia Pantenna_ come sintomi ed effetti del liberalismo, vien da piangere al vedere come le belle cause sieno insozzate dai loro adulatori. [4] Gioberti asserisce che alla _Gazzetta Piemontese_ «era interdetto lodare gli uomini celebrati dalla pubblica opinione»; _Gesuita moderno_, tom. V, p. 22. Il Gualterio dice che Fossombroni pagò trenta scudi un articolo contro Niccolini. In Lombardia, oltre i sistematici attacchi della _Gazzetta_ e della _Biblioteca Italiana_, si sono poi trovate le commissioni date per denigrare taluno (il Cantù) su giornali forestieri, e perfino le bozze di tali articoli spedite alla _Allgemeine Zeitung_, e le aggiunte postevi dagli affidati della Polizia. [5] Il più smottato panegirista di Carlalberto (Gualterio) asserisce che metà del ministero di esso era «venduto allo straniero, non che aggregato alla Cattolica»; ed esso il sapeva e non sapea congedarli! Di qui «quella che chiamossi oscitanza, ed era accorta prudenza», pag. 620. Il medesimo asserisce che l’Austria avea comprato _tutte_ le persone che lo circondavano, e che per mezzo di queste lo trasse in tanti errori, e in quella abituale ascetica debolezza. Così per isgravare il principe, si taccia tutta una nazione, che pure è tanto lodevole per dignitosa morale. Costui anche sa «per documenti certi che ebbe in mano» ma che non produce, che fino dal 1832 Carlalberto bramava l’amnistia degli esuli del 1821, e che la concesse «spontaneamente con gioja sincera nel 1842»! [6] Secondo il conto pubblicato dal conte Revel al 4 marzo 1848, le rendite del Piemonte erano fr. 84,282,216 L’uscita » 80,966,372 Il debito » 95,714,392 cioè poco più dell’entrata di un anno. [7] Questo avvenne alle edizioni di questa nostra storia, contro le quali protestiamo, non dall’aspetto mercantile, ma dal morale. [8] «Per selvaggia incuria del Governo», dice La Farina. [9] Bianchini, nella _Storia delle finanze del regno di Napoli_, dice che il viaggio di Francesco I in Ispagna per condurvi Maria Cristina costò allo Stato 692,705 ducati, che sono tre milioni e mezzo. [10] Del marchese Giovanni D’Andrea (1776-1841) elogio ben più splendido che non i gonfj panegirici fanno gli stati discussi, pubblicatisi nel 1848, ov’è divisato come nel decennale suo ministero restaurasse le finanze, scassinate dal ministero Medici, spegnesse il debito fluttuante ed altri, imprendesse opere pubbliche, attivasse i fondi dell’ammortizzamento; «pagò con esattezza i pesi dello Stato, tolse talune imposizioni, procurò i fondi per varie opere pubbliche, non contrasse alcun nuovo debito, ritrovò il corso delle iscrizioni del debito pubblico consolidato al 68, lo lasciò al 106; lasciò ducati 2,200,000 di deposito nella tesoreria». Vuolsi ricordare come, essendo magistrato allorchè si attuò il codice Napoleone, egli rinunziò all’impiego per non dover applicare la legge del divorzio, da cui la coscienza sua repugnava. Dopo il 1830 fu insieme ministro delle finanze e delle cose ecclesiastiche, e potè compiere il concordato del 10 settembre 1859, e mantenere in armonia le due potestà. [11] Nel 1853, i ducentundici battelli che faceano la pesca del corallo sulle coste di Bona e della Cala, quasi tutti erano napoletani, e raccolsero trentacinquemila chilogrammi di corallo, che vendesi a sessanta lire il chilogramma. [12] La sola Inghilterra nel 1840 consumò un milione di quintali di solfo: nel 1833 se ne erano tratti dalla sola Sicilia quintali 676,413, del valore di ducati 1,952,067. [13] La prima informazione delle condizioni della Lombardia venne data da noi nel libro _Milano e suo territorio_, pubblicato in occasione del Congresso scientifico del 1845. Una commissione municipale s’incaricava di ottenere di qua, di là risposta ai differenti quesiti che noi le presentavamo; e su ben pochi punti le venne negata. Fu quel libro la fonte a cui attinsero poi i liberali di partito; e vi si riferivano tanto più sicuramente in quanto che, dicevano, era _ufficiale_. Talmente ignoravano la distinzione del Municipio dal Governo quegli stessi che si ergeano maestri e riformatori del governare. Ci dispiace dover soggiungere che _ufficialmente_ venne aperta un’indagine contro l’autore: ma tale stitichezza dell’elemento deleterico di quel Governo non rende meno vera la possibilità di avere e di pubblicare notizie positive, se da queste non fossero stati allora e adesso aborrenti lo spirito di fazione e il sentimentalismo. [14] Memorabili sono le inondazioni del Po nell’ottobre 1839, in conseguenza di dirottissime pioggie. Ai 17 ottobre presso Torino l’acqua sorgeva metri 5,80 sopra il pelo ordinario, e metri 6,96 presso Lagoscuro alli 8 novembre. Ne furono allagate moltissime parti del Piemonte, ove franò la grossa terra di Solagni nel Tortonese; e più il Mantovano, il Polesine, il Modenese; ed essendosi rotto, forse ad arte, un argine sulla destra a tre miglia sotto Revere, furono allagate da quattrocento miglia quadrate di terreno fra il Po e il Panáro. Nuove piene nel settembre del 1842 ingrossarono ancora più i fiumi, e il Modenese e le Legazioni n’ebbero danni incalcolabili. Nel 1844 l’Arno guastò tutta la valle e Firenze stessa. [15] Il De Bruck, dappoi ministro in Austria, indi suicida. La società del Lloyd fu autorizzata nel 1836; col capitale di mille cinquecento azioni da mille fiorini nel 1837 fece ottantasette corse con cinque piroscafi; e in quell’anno tragittò ottomila passeggeri, ed ebbe l’introito di censessantatremila trecenquattordici fiorini, ma la spesa di ducentrentaduemila. Nel 1846 aveva venti piroscafi, fece settecenquattro viaggi con cendiciotto mila passeggeri; trasportò denaro e preziosità per venticinque milioni e mezzo, ducenventisettemila lettere, centrentacinque mila settecentrentatre botti, ducentrentasettemila centinaja di Vienna di merci; facendo l’introito di fiorini un milione e quattrocenventimila quattrocencinquanta, di cui trecentrentaseimila erano guadagno netto. La crescente importanza dell’Oriente, i viaggi della valigia dell’Indie, lo sperato taglio dell’istmo di Suez sono felicissime opportunità per quella compagnia, la quale per altro ebbe a soffrire sia dalla rivoluzione, sia dalla guerra di Crimea. Nel 1854 avea cresciuto il suo fondo a tredici milioni di fiorini, e colla spesa di trecensessantamila fiorini avea l’entrata di seicentrentaquattromila. È divisa in tre sezioni: l’una per le assicurazioni; l’una pel servizio de’ battelli a vapore, e ha costituito fucine, arsenali, tiene uffiziali, marinaj, studia le nuove linee d’aprire: la sezione artistico-letteraria sarebbe come la mente di quel corpo, attenta a ricevere le notizie che comunica subito alla borsa, e diffonde per via di giornali; inoltre ha stamperia e calcografia, gabinetto di lettura, e giornali. [16] È la più bella pagina d’un’arguta _Storia degli ultimi trent’anni_, quella ove sono descritte le conseguenze dell’obbligo di denunziare i colpevoli di Stato, e dello spionaggio. «Il pensiero (traduciam compendiando) che alla lunga viene a prevalere sotto tale giurisprudenza, è la paura; paura di commettere una viltà, paura di parere d’averla commessa, paura d’esporsi a guaj per non commetterla. La paura più forte la vince; e da tale proporzione dipende spesso l’onore o l’ignominia d’una vita intera. Il prudente non vede altro scampo che evitare una via, da cui non si esce che coll’infamia e colla condanna; ma il farlo è fatica di tutti i momenti, e d’una incessante vigilanza. S’imbatte per via in uno di cui non bene conosce le opinioni politiche? deve mostrare di non conoscerlo. Un amico gli si accosta per chiedergli un consiglio? il prudente deve pregarlo di astenersene, di dirigersi a tutt’altri; attesochè quell’amico potrebbe voler consultarlo sul come rispondere a un emissario dei nemici del Governo. Se suo figlio si mostra pensoso e abbattuto, si guarderà dal chiedergliene il motivo; chè potrebb’essere scontentezza politica. Ogni colloquio gli pesa, giacchè può di tratto volgersi a cose di governo. Uomini sì fatti non sono rari, e sono i più onesti fra i vili: ma se un di questi fosse arrestato o interrogato alla Polizia, e s’avvedesse che tante cautele non gli bastarono, non s’ha a temere ch’egli rinunzierebbe all’onore, anzichè alla propria salvezza? Se tale è la prudenza delle persone allevate sotto allo spionaggio austriaco, come meravigliarsi dell’universale diffidenza? Basta che un uomo di genio amabile, insinuante, compagnevole, frequenti molti crocchj, per essere battezzato spia. Zelanti officiosi corrono a tutte le case, aperte all’amabile persona, e susurrano le voci che corrono sul conto di lui. E con che facilità non si credono questi ragguagli! Il padrone di casa, quasi illuminato da subito lampo, — Di fatto (esclama) che vien egli a fare in casa mia? perchè vi si mostra tanto amabile? Da me non ha nulla a sperare. E quando mi arrivò una sventura, quando le sorde persecuzioni della Polizia mi avevano condannato alla solitudine, perchè egli pure non s’allontanò da me? non temeva egli dunque per se stesso? Alla larga da quest’uomo pericoloso». Se un altro si apparta, e stringesi a vivere in angusto circolo, dicono che ha fatto la spia lungo tempo, e che scoperto, cela la propria vergogna. Chi si palesa amico dell’Austria, è naturalmente cansato dagl’Italiani; ma chi biasima il Governo, cade in sospetto di agente provocatore e di tendere insidie. Colui è ricco: sarebbesi impinguato con servigi resi alla Polizia? Colui è povero: resisterà alle tentazioni della miseria? Nessuno insomma è sicuro di simili sospetti; nè si dà Lombardo che possa vantarsi di non temer nulla... e di cui la fiducia nei più intimi amici non abbia vacillato più d’una volta. [17] L’amnistia fu data il marzo, e i carcerati allo Spielberg nè tampoco la conobbero fino al novembre. Allora non ottennero se non di poter andare in America. Giunta la coronazione, e ripetutasi l’amnistia, chiesero di rimpatriare, e non n’ebbero licenza. Solo nel 1840 il padre di Federico Confalonieri, trovandosi in fin di morte, chiese di veder il figlio; e pare che allora soltanto il buon Ferdinando sapesse com’erano perfidiate le sue intenzioni, poichè senz’altra domanda fu permesso a tutti il ritorno. [18] Nella raccolta di _Lettere di fisica sperimentale_ di Serafino Serrati, Firenze 1787, è descritta una barca che correa sull’Arno mossa a vapore, e c’è anche la figura. Il primo battello a vapore costruito da una società napoletana il 1818, navigò da Napoli a Marsiglia; ma presto fu abbandonato. Un altro se ne pose nel 1820 sul laghetto di Pusiano in Lombardia, per mero sperimento, o piuttosto per velo alle intelligenze de’ Carbonari, coi quali terminò. Nel 1824 una società, preseduta dal principe Butéra siciliano, ne comprò uno in Inghilterra, che navigò le coste d’Italia. [19] Nel _Gesuita moderno_, tom. III. pag. 484. [20] Per ciò, essendo addetto all’ambasceria francese in Toscana, dovette venir a duello con Gabriele Pepe. [21] Un Boccheciampe, condannato solo a cinque anni per «aver fatto parte della banda, ma non essersi trovato nei due conflitti», fu tenuto come traditore. Ce n’era bisogno? Chi vuol saperne di più intorno a queste mosse veda ANDREINI, _Cronaca epistolare dal 1843 al 45_. Chi racconta a lungo le mene delle società segrete senza disapprovarle, non viene con ciò a giustificare le procedure di cui incolpa i Governi? [22] Il papa nel 1845 comprò quei beni per 3,750,000 scudi (lire 20,250,000) in obbligazioni di debito pubblico al cinque per cento; poi li vendette per 3,880,000 a una società Rospigliosi, Fedi, De Dominicis, che li rivendette a privati in ritaglio. [23] Un Mazziniano scriveva, a proposito delle scritture dei moderati, ch’egli intitola soffiafreddo: «Bene o male, il sentimento della dignità nazionale e l’odio dello straniero crescevano; e noi dovevamo confessare che, in quindici anni, non eravamo riusciti che a propagare nella gioventù studiosa la passione politica, ma nel vero popolo mai». _Archivio triennale_, tom. 1. pag. 491. [24] _Ricordi ai giovani_. [25] Tal quistione fu introdotta dal Cantù: riprodotta poi a Venezia, fu causa di fatti significativi. _Gli Editori._ [26] Del neoguelfismo in Italia le prime manifestazioni sono a rintracciare (chi il crederebbe?) in Ugo Foscolo. Durante il regno d’Italia, malgrado mille ostacoli, potè pubblicare un articolo in lode di Gregorio VII, e sta fra le opere sue. Nel 1815 preparava un discorso a Pio VII per mostrare «la necessità che il pontefice rimanga in Italia difeso dagl’Italiani». Nel discorso II _sulla servitù dell’Italia_ dice: «Noi Italiani vogliamo e dobbiamo volere, volerlo fin all’ultimo sangue, che il papa sovrano, supremo tutore della religione d’Europa, principe elettivo e italiano, non solo sussista e regni, ma regni sempre in Italia, e difeso dagl’Italiani». E nel III si lagna che si fossero «obliate la sovrumana fortezza e la sapienza politica di quel grande pontefice (Gregorio VII) che vedeva consistere la temporale dignità della Chiesa nell’indipendenza delle nostre città, e quindi nella loro confederazione la più fidata difesa de’ suoi pastori». [27] Una lega de’ principi italiani era stata proposta dall’Austria fin dal 1821, e si dicea che tale fosse lo scopo d’un congresso dell’imperatore col granduca di Toscana. La Corte romana sentì quanto varrebbe sulle sorti italiche, e rifiutò aderirvi. [28] Ivi lo trovammo noi quando finiva il _Primato_, e ci lesse quell’ultimo capitolo, ove parla degl’illustri viventi; e ci chiese i nomi de’ migliori, ch’esso ignorava: eppure ne fece una tale mescolanza, da vergognarsi della compagnia. Egli stesso poi stampò che le lodi da lui sparpagliate erano sulla fede d’amici, alle cui relazioni aveva dovuto attenersi. È naturale che dappoi tutto il merito fosse dato a lui, e niuno a coloro di cui egli professavasi seguace. Tra gli scrittori efficaci sull’opinione italiana, il Gualterio (_Ultimi rivolgimenti italiani_) nè tampoco nomina Manzoni. [29] Asserisce unica e quasi necessaria alle scienze, alle lettere, alle gentili arti la censura preventiva, e ne magnifica retoricamente i pregj, sol chiedendo non sia esercitato da un uomo solo, ma da un corpo. [30] _Storia d’Italia_; e passi inediti, addotti dal Ricotti nella _Vita e scritti del conte Cesare Balbo_. [31] Dedica seconda delle _Speranze_. [32] «Ridotta ai principi la decisione del passare o no a un Governo deliberativo, sarebbe egli utile passarvi? Parliamo schietto: anche presa dai principi, può esser decisione piena di pericoli, feconda di disunioni, distraente dall’impresa d’indipendenza, nociva dunque». Cap. X. p. 121. [33] «Confondeasi il gesuitismo colla Compagnia di Gesù, e credeasi che, cacciati i padri da una città o da uno Stato, la peste gesuitica fosse rimossa, e i popoli fatti sicuri. Or i padri Gesuiti non sono che la milizia più attiva ed astuta del gesuitismo, il quale, con altro nome preesisteva ad Ignazio di Lojola». LA FARINA, _Conclusione_ del lib. III. [34] Nell’_Introduzione alla filosofia_, pag. 32 scriveva: «Dichiaro espressamente ch’io non intendo di far allusione a nessuna persona in particolare, parendomi che il costume di ferire i vivi non sia da uomo civile nè da uomo onesto nè da cristiano». [35] _Storia del Piemonte_. [36] E altre volte diceva: «Quando ad un libro si dà l’impronta di satira e di caricatura, l’effetto è vulgare e non durevole. Per esser efficace bisogna saper produrre il bello e il giusto, e non secondare i vulgari. Miro con rispetto le oneste confutazioni, ma anche le oneste mi pajono di poco o niun frutto. Aspettando l’azione del tempo si guadagna lo stesso, e non si perde inutilmente la pace. Di qui a qualche anno Gioberti medesimo arrossirà d’avere ceduto all’impulso de’ falsi amici, di avere pubblicato come pretesi documenti cose che non sono; d’aver macchiato la bella fama ch’ei godeva». Quelle sopra il Gioberti sono forse le uniche parole acerbe che si lasciasse sfuggire la colomba dello Spielberg. E diceva anche: «Gioberti è uomo d’impeto, ma sincero. Un giorno s’accorgerà del suo torto. Preghiamo per lui e per gli animi così disposti all’ira. Con questa passione si possono fare quadri orribili d’ogni istituto e d’ogni umana società. L’eloquenza arrabbiata non è mai giusta, ed è sempre stimata dai soli intelletti che poco riflettono». [37] Quantunque ad essi ostilissimo, dice: «L’Austria non ignorava che, fra i discendenti dagli uomini della Lega Lombarda, il neoguelfismo è una specie di virtù cittadina e di passione generosa; poichè trovandosi i Lombardi faccia a faccia col prepotente e col rappresentante del ghibellinismo, si recherebbero a viltà il cedere all’oppressione presente senza la sola protesta che loro sia consentita, quella cioè di resistere intellettualmente, associandosi ai principj che guidarono l’antica loro indipendenza contro Germania. Ciò spiega, parmi, onorevolmente come i più forti ingegni del Lombardo-Veneto inclinino più o meno apertamente alle idee guelfe», pag. 108. Onore al militare leale, che cerca nobili spiegazioni perfino a idee che disapprova. Non è lo stile dei liberalastri; nè egli il conserva quando opinioni, vere o no, ma discusse e ponderate, attribuisce «a monomania di scrittore e cecità di partito», pag. 133. Perchè però non si dica che l’idea repubblicana nacque dopo le barricate, si avverta ch’egli stesso gl’intitolava fin d’allora _neo-guelfo repubblicani_, pag. 394, e dice che «si gettano il monarcato sotto le calcagna». Del resto, tutti sanno quali Lombardi direttamente trattassero tale quistione; onde il concetto dell’anticipato repubblicanismo lombardo egli non potea dedurlo che da un’opera sola, attesa la sua diffusione, cioè la nostra _Storia Universale_. [38] Leone XII avea stabilito riedificarla, assegnando dalla Camera apostolica cinquantamila scudi annui; trentamila ne diedero i cardinali dimoranti in Roma; gl’impiegati lasciarono parte del loro soldo; i re stranieri contribuirono, sebbene non cattolici; onde dai sudditi pontifizj s’ebbero cencinquantanovemila scudi, seicendiciottomila dall’erario, cenventissettemila dal resto del mondo in quindici anni. [39] Secondo i conti pubblicati da monsignor Morichini nel 1848, lo Stato Pontifizio nel 1814 incassò meno di tre milioni di scudi, e nel 45 più di dieci; nel 15 spese due milioni trecentomila scudi, e nel 45 dieci milioni seicentomila; fino al 27 si fece sempre avanzo, eccetto il 21; dappoi continuò lo spareggio. [40] La società detta Ferdinandea a Bologna, di cui fu imputato il Castagnoli nel 1841, diceasi diretta a porre le Legazioni sotto l’Austria. [41] Di fatti si vantarono per novità, e noi gli avevamo prodotti in tutte le varie ristampe che femmo della _Storia universale_ del Cantù. (_Gli Editori_). [42] Vedi la nostra _Storia universale_, ediz. 3ª tom. XX, p. 66. Fummo tacciati allora d’avere lodato Gregorio XVI, nè abbastanza esaltato Pio IX. Chiamiamo ad appello quella sentenza dopo trent’anni. [43] Più tardi il poeta Montanelli si lodò d’aver egli incoato queste stampe clandestine, e per mezzo di esse l’agitazione dell’Italia e del mondo. [44] BROFFERIO; e lo stesso dice RANALLI, _Le Storie ital_., lib. IV. [45] Ne’ riti della massoneria è conosciuta la cerimonia del brindisi. A invito del Venerabile si caricano i cannoni e dispongonsi sulla tavola; poi egli dice: «Facciamo un brindisi a persona a noi preziosa; faremo un fuoco, buon fuoco, fuoco il più vivo e sfavillante di tutti i fuochi. Fratelli, la destra alla spada — Alto la spada — Evviva la spada — La spada alla sinistra — La destra alle armi — Alto le armi — Al viso — Fuoco — Ancora fuoco — Basso l’arma — Avanti l’arma — Seguiamoci coll’arma — Giù l’arma»; e l’arma è il bicchiero, e la manovra un bevere. Venivano a mente nei pasti d’allora. [46] Un Lombardo (Cantù), campatosi dagli sgherri, arrivava a Torino nel maggior fragore del movimento preparativo; ed uno degl’infervorati gli chiedeva — E voi, non avete voi scritto nulla sulla crisi attuale?» Cesare Balbo gli rispose: — Che? non scrive egli la storia universale?» Pellico la prendea coi guastamestieri, non credea una gran cosa i festeggiamenti popolari e gli schiamazzi, e le magnanime azioni degli eroi, consistenti nello scrivere ingiurie sui muri e spargere calunnie, mentre credeva fosse necessaria la virtù, ben inteso fra le virtù contando il valore in caso di guerra. _Lettere_, 266, 267. [47] Per devozione alle libertà, alieni dalle società segrete che la legano ad un’obbedienza irragionata, noi fummo in situazione di conoscerle in patria e fuori, nelle prigioni e ne’ trionfi, e di poterne parlare con autorità. Ben ci meravigliammo di non avere, in tante scritture, veduto accennarsi le mene con cui la Russia cercavasi amici nelle persone di denaro, d’intelligenza, di cariche. Venezia principalmente deve ricordarsene. [48] _Liberalisirend._ Credenziale di Metternich a Radetzky pel conte di Fiquelmont, 22 agosto 1847. [49] Dubitavasi che le dimostrazioni fossero provocate dall’Austria per aver occasione d’intervenire. Palmerston ad Abercromby ambasciadore a Torino, il 23 marzo 1847 scriveva: _I have to request that you will report how for your information lead you to give credit to certain reports which prevail that those manifestation have been in some places secretly encouraged by Austrian agents, in order that they may furnish a pretext for active interference in the internal affairs of some of the independent States of Italy_. I successivi dispacci tornano spesso a questo senso. Vedasi la raccolta più interessante intorno agli avvenimenti di quegli anni, cioè: _Correspondence respecting the affairs of Italy, presented to the House of lords by comand of her majesty_, 1851. [50] Dispaccio 18 settembre 1847 del ministro Guizot all’ambasciadore Bourgoing a Torino. [51] Dispaccio 11 settembre 1847 del ministro Palmerston. Guizot, al 17 settembre, scriveva, la Francia rispetterebbe e farebbe rispettare l’indipendenza degli Stati, e in conseguenza il diritto di regolare essi da sè i proprj affari interni; al buon esito delle riforme importare si facciano d’accordo fra principi e popoli, regolari, progressive; il papa mostrare un profondo sentimento de’ suoi diritti come sovrano, laonde otterrebbe l’appoggio e il rispetto di tutti i Governi europei; e gli esempj di esso e la condotta intelligente de’ suoi sudditi eserciterebbero salutare influenza sui principi e i popoli della restante Italia. Nelle istruzioni che Palmerston dava a lord Minto il 18 settembre 1847, era che portasse assicurazioni d’amicizia in ogni incontro; spiacergli le minaccie dell’Austria d’occupare una parte degli Stati sardi, caso che il re desse concessioni ad essa spiacevoli, e lo considerava come una violazione de’ diritti internazionali; applaudisce all’esibizione fatta dal re al papa di difenderlo; a Roma secondi le buone intenzioni del pontefice, e prenda per base il _memorandum_ del 1832. Ma pare che coteste minaccie dell’Austria fossero un sogno, e il conte Solaro della Margherita, allora ministro della Sardegna, le smentisce affatto, nè aver ricevuta alcuna nota relativa all’interna amministrazione del paese (dispaccio 3 settembre). Lo stesso Metternich al 23 settembre scriveva: — Non è da parte dell’Austria che l’indipendenza del re di Sardegna potrebb’essere minacciata. Ben lungi da ciò, contando questo sovrano fra suoi alleati, il Governo imperiale, qualora richiesto, non tarderebbe a porsi accanto alla Gran Bretagna per difenderlo contro ogni esterna aggressione. Unito alla Corte di Roma con vincoli, la cui doppia origine non può che crescerne la solidità, l’imperatore d’Austria crederebbe derogare alla dignità e alla religione sua difendendosi dal sospetto di voler intaccare l’indipendenza d’un sovrano, che alla potenza temporale congiunge l’augusto carattere di capo della Chiesa cattolica, della quale l’imperatore è naturale difensore. Nulla è chiaro e positivo come l’attitudine dell’Austria rimpetto al santo padre; essa non può che fare voti per la prosperità degli Stati della Chiesa, e pel buon esito delle riforme amministrative che sono reclamate dal loro meglio, e che, dalla pace generale in poi, fu spesso la prima a consigliare; mentre in eventi particolari le proprie armi adoprò ad assicurare l’autorità sovrana del papa». [52] Come avea scritto a Carlalberto appena re, Mazzini volle scrivere a Pio IX, e usava questi termini: — Per opera del tempo, affrettata dai vostri predecessori e dall’alta gerarchia della Chiesa, le credenze sono morte, il cattolicismo si è perduto nel despotismo, il protestantismo si perde nell’anarchia: guardatevi attorno, troverete superstiziosi o ipocriti, non credenti; l’intelletto cammina nel vuoto; i tristi adorano il calcolo, i beni materiali; i buoni invocano e sperano; e nessuno crede». [53] Apertesi le Camere di Francia nel gennajo del 1848, Montalembert si lagnò che nel discorso del trono non fosse fatta menzione del movimento d’Italia e del papa; questo essersi mirabilmente posto in una via, nella quale avea bisogno d’appoggio; mentre esso e i principi che cominciavano a imitarlo, trovavansi dolorosamente isolati fra un partito di vecchi abusi, e le violenze degli esaltati; qualificarsi già di retrograda la politica di Pio IX all’istante che, protestando contro l’occupazione di Ferrara, compiva i suoi sforzi per la dignità e indipendenza d’Italia; essere tempo che gli uomini del progresso in Italia si separassero da quei del disordine, e il Governo cessasse d’essere nella strada; l’indipendenza temporale del papa essere condizione indispensabile per la regolare esistenza e la sicurezza della Chiesa cattolica nel mondo intero; indipendente dover essere il papa non solo dal giogo straniero, ma dal giogo delle fazioni e delle sommosse; doversi al popolo romano infondere coraggio contro l’Austria, ma insieme contro coloro che vorrebbero speculare su questo movimento italiano e disonorarlo, contro le denunzie de’ proscritti di jeri, che vogliono divenire proscrittori domani; coraggio per mostrare al mondo cosa sia una rivoluzione pura, onesta, insomma cristiana. Meritano essere letti i discorsi fatti in quell’incontro da Saint-Aulaire, Dupin, Hugo, Cousin, più liberali di quelli pronunziati nell’assemblea repubblicana. Guizot ministro rispondendo, mostrò che il trono era d’accordo nel favorire le libertà italiane, il miglior fondamento delle quali era il papa. [54] Vedi il n. 34 dell’_Italia_, giornale di Pisa, scritto o ispirato dal Montanelli. «Da lungo tempo erano a Livorno manifesti gl’indizj d’una setta, la quale rinchiusa in una solitudine astiosa e codarda, non seppe intendere la grandezza del presente movimento italiano, la semplicità delle origini, la maestà del progresso, la sicurezza del fine; non comunicare colla nuova vita che si dilatava d’intorno a lei, nè accogliere nel suo cuore il battito di migliaja di cuori, in un punto rinati alle speranze ed all’amore. «L’inaspettato amicarsi della ragione colla fede, dei principi coi popoli, degli Stati cogli Stati italiani; questo improvviso risorgere d’un popolo oppresso, per lo spontaneo ma necessario ricomporsi delle opinioni, degli interessi, delle forze nel principio dell’unità nazionale; questo magnifico disegno della Provvidenza che si svolge sotto i nostri occhi, l’abisso che divide i primi dagli ultimi mesi del 1846, e l’aura divina che vola su quell’abisso, Pio IX e la lega doganale furono un nulla per lei. «Non sapendo che le vie della Provvidenza sono assai più di quelle dell’uomo, si ostinò a non riconoscere il nostro risorgimento in un fatto che, sebbene ne avesse i caratteri evidenti, per l’autore, il modo e l’effetto era così diverso da ciò ch’ella aveva fantasticato, predetto, promesso come il solo vero, il solo possibile risorgimento nostro. Indurita dal pregiudizio, credè che l’Italia non sarebbe giunta alla meta per la via segnata da Pio IX, corsa da Leopoldo II, e fatta sicura da Carlalberto; e si dolse con puntiglio superbo che vi giungesse per una via qualunque diversa da quella mostrata da lei, e nella quale ella non fosse duce, mettendo il suo credito e la sua influenza sopra la considerazione del bene comune». [55] Rubieri, nello _Spettatore_ di Firenze, rivendicò la reputazione di Giovanni da Procida, sopra documenti non nuovi, ma di cui l’Amari non volle trarre tutte le conseguenze. La quistione dura ancora. [56] Il Gualterio asserisce che l’umiliazione del re nell’affare de’ solfi vi fu gratissima. Noi ci trovammo nel regno in quel tempo, e ci apparve tutt’altro. [57] La Farina dice che il Comitato napoletano era d’accordo sulla forma che sarebbe gridata in Sicilia: ma quando si fece, trattenne la gioventù dal sollevarsi, lasciò spedire le truppe ecc., e riprova i regnicoli d’essersi perduti in suppliche e applausi, e ne incolpa «coloro che di quei moti aveano assunto la direzione, alcuno de’ quali col tempo chiarironsi traditori, altri inettissimi e che per perfidia o per fiacchezza rovinarono Napoli, Sicilia e Italia tutta»; vol. III, p. 170. Così anche le belle intelligenze possono dalla passione essere tratte alle vulgarità. [58] Lo attesta l’ammiraglio Napier in lettera a Palmerston del 31 gennajo, nella citata _Correspondance_. [59] Era la quinta costituzione che si proclamava in mezzo secolo per quel paese: nel 1799 quella della Repubblica Partenopea; nel 1808 quella del re Giuseppe; nel 1815 quella di Murat; nel 1820 quella di Ferdinando. [60] Al 21 febbrajo, la _Réforme_, unico giornale repubblicano, stampava: «Uomini del popolo, guardatevi domani da ogni temerario abbandono, non presentate al potere l’occasione cercata d’una vittoria sanguinosa». [61] Ne’ carteggi diplomatici compajono una lettera del console britannico a Milano, che assicura non essere quivi società segrete; e una del Pareto ministro del Piemonte, che assicura esservi potentissime le società secrete. [62] Il conte Giacomo Melerio. _Ils chantent, ils payeront_, diceva Mazarino a’ suoi tempi. [63] Nel libro _Palmerston et l’Autriche_ il conte di Fiquelmont descrive quel Congresso colla sicurezza di chi era presente. Egli attribuisce ogni colpa a Cesare Cantù, invocando le vendette su lui, come quello da cui originò il movimento rivoluzionario in quella città, tranquilla fin allora. Fiquelmont stampò quel libro nel 1853; quando il Governo militare poteva facilmente adempiere quel voto di vendetta. Richiamato ai fatti, il Fiquelmont ebbe la lealtà di riconoscere (ma solo in lettera diretta all’offeso) che avea detto il falso, e che il Cantù non era stato (espressione di lui) se non «la sfera che avea segnato l’ora della rivoluzione, siccome a Milano l’arcivescovo». Intanto la parte primaria ch’e’ gli assegna, dà il diritto al Cantù di attestare, che al Congresso di Venezia non ci furono intelligenze settarie di veruna sorta; che nulla v’avea di preparato in quegli applausi o in que’ silenzj; che l’unico accordo preso fu con Manin e Tommaseo per domandare, non la libertà della stampa, ma l’esecuzione delle leggi intorno a questa, violate dall’arbitrio di censori, che nuociono ai Governi più che i leali avversarj. [64] Il generale Hess, capo dello statomaggiore, il 18 gennajo 1848 da Vienna scriveva al colonnello Wratislaw a Milano: — Se l’imbecillità del governatore e del vicerè e la nullità del loro spirito non fossero da tempo conosciute, ora apparvero in tale evidenza, che bisogna tosto rimoverli, e sostituire un governatore che, d’accordo col feldmaresciallo, ristabilisca l’ordine vigorosamente, e i noti rei di tali scandali mandi ad essere processati a Palmanova. Io non sarò tranquillo finchè non siansi raccolti attorno a Milano venticinquemila uomini, e venticinque mila nelle guernigioni alle spalle, giacchè solo il timore delle bajonette può imporre a costoro». E il 31 al maresciallo Radetzky: — Sedici fortini attorno a Milano, ciascuno con cinquecento uomini, e moltissime feritoje dirette al duomo, deciderebbero in ultimo appello la quistione italiana fra l’Austria e il Piemonte; e questo tornerebbe all’antica, come che simulata, umiltà. Quali le cose sono, credo che la tranquillità non si ripristini senza forti salassi e sciabolate tedesche». [65] «Qual è la paura dell’Austria? forse che Carlalberto o qualche altro principe italiano impugni il ferro e faccia l’impresa di Lombardia? oibò! ella sa quant’altri e meglio d’altri che tal tentativo non è oggi possibile, e che i concetti di questo genere non possono entrare nè capire nella mente di un principe così savio come il re di Sardegna». GIOBERTI, _Gesuita moderno_, 1847, vol. III, p. 577. Il Balbo, nelle _Speranze_, rimoveva affatto l’idea d’un attacco. Il Durando, nella _Nazionalità italiana_, posava tutte le combinazioni sue strategiche sovra il supposto della guerra difensiva. Il _Risorgimento_, organo ministeriale, al 18 marzo scriveva: — Chi primo bandirà la guerra in Italia, avrà gettato le sorti del mondo, avrà sconosciuto i santi incrollabili principj che ci assicurano piena, infallibile, vicina vittoria... Sorda è l’Austria alle minaccie come alle blandizie, non si scuote, avvisa il suo tempo e il suo vantaggio con impassibil consiglio. Or di tutti i desiderj suoi il più ardente, il più sicuro si è quello di vedersi da noi assalita. Questo solo potrebbe ravvivarla, ecc.». Nel _Mondo illustrato_, pag. 723, è scritto dal grande panegirista di Gioberti: — Chi grida _Morte all’Austria, Viva il re d’Italia_, è nemico di Pio IX, e quindi scismatico; è nemico di Carlalberto, e quindi ribelle; è nemico della civiltà italiana, e quindi barbaro traditore». [66] Balbo assicurava l’ambasciadore inglese Abercromby sapere di buona fonte che «se il Governo indugiasse a soccorrere i Lombardi, sovrasterebbe al Piemonte una rivoluzione repubblicana; onde, riconoscendo impossibile reprimere l’entusiasmo delle popolazioni sarde, avea soddisfatto alle domande dei deputati di Milano: Pareto diceagli, per poco che s’indugiasse, Genova sarebbesi sollevata, e scissa dagli Stati regj: a Vienna pure scriveasi dovere temere che le numerose società politiche di Lombardia e la prossimità della Svizzera non facessero proclamare un Governo repubblicano, disastroso alla causa italiana e a Casa di Savoja. _Correspondance_, ecc. Lettera di Abercromby a Palmerston del 23 e 24 marzo: — Il pericolo della monarchia di Sardegna divenne così imminente agli occhi de’ ministri, che furono costretti ad accondiscendere alle domande di ajuto presentate dai capi dell’insurrezione milanese, e appigliarsi a una linea di politica che non avrebbero adottata spontaneamente». «Supposto un principe il più schivo del nome e delle cose di guerra, il più freddo per la causa della nazionalità italiana, certo è, che suo malgrado, ei sarebbe stato trascinato dal torrente dell’opinione pubblica a recare soccorso ai Lombardi, salvo che amasse meglio vedere ribellati i sudditi e Genova repubblicana». CIBRARIO, _Ricordi d’una missione a Carlalberto_. [67] Il generale Franzini, dopo la sconfitta, diceva in Parlamento d’avere prima della guerra rappresentato in iscritto al re «la poca attitudine sua e degli altri generali, avendo brevissima esperienza, con gradi poco elevati. Il re mi disse che l’Italia doveva far da sè, e che non accettava la proposta d’un maresciallo francese, ch’io proponeva come valente a raddoppiare il valore della sua armata». E più tardi Massimo d’Azeglio diceva ai suoi elettori: «In Italia nulla era preparato negli animi, nei costumi, nelle abitudini militari». [68] Questo sentimento è da un pezzo in cuore degli Italiani, e la scuola liberale lo professò apertamente dacchè Ciro Menotti, spirando sul patibolo di Modena, ci gridò: — Italiani, non fidatevi a promesse di forestieri». Ma la frase crediamo siasi formolata primamente nell’opuscolo di Giacomo Durando sulla _Nazionalità italiana._ Poi il cardinale Ferretti, visitando la guardia civica di Roma, contento di quella tenuta esclamò: «L’Italia farà da sè». [69] Presidente Casati: membri Vitaliano Borromeo, Giuseppe Darmi, Pompeo Litta storico, Strigelli, Beretta, Giulini, e Guerrieri per Mantova, Anelli per Lodi, Rezzonico per Como, Turoni per Pavia, Carbonera per Sondrio, Grasselli per Cremona, Moroni per Bergamo. [70] «Non vedo gran differenza tra le due forme di Governo. Che cos’è un principe costituzionale se non un capo ereditario di repubblica? e un presidente di repubblica, che un principe elettivo?» GIOBERTI, _Lettera del_ 26 _febbr_. 1848. Molti giornali del Piemonte asserivano essere forte e temuto in Lombardia un partito che voleva _sminuzzare l’Italia in centinaja di repubblichette come nel medioevo_. Per cercare, noi non ne trovammo orma; e gli scrittori non meno che gli atti uffiziali parlavano sempre di repubblica italiana, più o meno estesa. A tacere Venezia, di cui tanto generosi furono i proclami, il popolo di Padova nell’inaugurare il suo Governo provvisorio diceva al 26 marzo: — Il popolo che oggi vi ha costituito, ha un unico voto, l’unione italiana. Bando ai municipalismi. La repubblica delle città d’Italia, qualunque sia per essere la sua estensione, deve intitolarsi italiana. Stringetevi con Venezia e colle altre città italiane che si sono dichiarate o stanno per dichiararsi libere, onde operare con quelle di fraterno consenso. Viva la repubblica italiana!». [71] «Il grande ingegno... ama il popolo, ma non i suoi favori; aspira al suo bene, non alle lodi; e sta ritirato dalla turba per poterla beneficare». GIOBERTI, _Introduz. alla storia della filosofia_, pag. 219. E a pag. 183: «Il Governo rappresentativo è ottimo in se stesso, attissimo a felicitare una nazione, e si assesta mirabilmente a tutti i progressi civili, purchè non si fondi sulla base assurda e funesta della sovranità popolare». [72] La più bella esposizione e apologia di quell’intrigo è nei cenni di Antonio Casati su _Milano e i principi di Savoja_. Raccontata la venuta di Gioberti a Milano, e come dall’albergo del Marino si trasferisse a quello della Bella Venezia «che, per la piazza che vi sta davanti, era atto alle ovazioni popolari», dice che «la folla giunse e si accalcò sotto le finestre della locanda: ma questa volta era folla di costituzionali plaudenti all’apostolo della fusione; e quell’occupazione loro della piazza San Fedele, fin allora tenuta in dominio esclusivo (?) dai repubblicani, preconizzava il trionfo del partito moderato». [73] «Il partito liberale (a Torino) e il ministro dell’interno che vi appartiene, temono che il suffragio universale non metta sotto l’influenza de’ sacerdoti e del partito aristocratico»: preziosa confessione, che troviamo nella lettera 16 maggio dell’incaricato lombardo al Governo provvisorio. E al 26 maggio scriveva, che il ritorno del ministro Ricci da Lombardia coll’annunzio della fusione «ha contribuito a far rinascere quella simpatia in Torino, che era da più di un mese morta, e quasi sepolta per sempre». [74] _Hujus falsissimæ conjurationis prætextu inimici homines eo spectabant, ut populi contemptum, invidiam, furorem contra quosdam lectissimos quoque viros, virtute, religione præstantes, et ecclesiastica etiam dignitate insignes nefarie commoverent atque excitarent_. Allocuzione 20 aprile 1848. [75] Pillersdorf, allora ministro dell’Austria, nel ragguaglio che dappoi pubblicò sopra la rivoluzione viennese, espone: «Mentre Inghilterra e Francia facevano ragione delle nostre pratiche di conciliazione, un ambasciatore della Corte romana (monsignor Morichini) al ministero fece senza riguardi la proposta di rinunzia a tutte le provincie italiane, dicendolo unico mezzo per l’Austria d’evitare pericoli maggiori...; i trattati antichi non avere nissun valore». [76] Il Comitato generale ai rappresentanti del Governo britannico, il 3 febbrajo. — «La nazione siciliana, che il despotismo si lusingava avere cancellato dal novero delle nazioni, ha rivendicato col suo sangue il suo diritto»; Atto di convocazione del Parlamento, 24 febbrajo 1848. [77] Dispaccio 24 aprile. [78] Dico almeno in pubblico, giacchè Abercromby scriveva al Ministero inglese, aver lettera autografa del re, del 7 luglio, ove mostrasi disposto accettare come base di pace il territorio fino all’Adige; pace che, attesa la forza relativa della Sardegna e dell’Austria, non potrebbe dalle Camere e dalla Nazione esser considerata che onorevole e gloriosa. _Correspondance_, part. III, pag. 62. La _Gazzetta di Vienna_ 1º luglio 1848 riferiva come, per amore della pace, fosse stato proposto un armistizio, durante il quale si tratterebbe sopra la base dell’indipendenza della Lombardia, salvo alcuni accomodamenti finanziarj e commerciali; il Governo provvisorio aveva ricusato trattare, perchè la questione non era lombarda ma italiana; in conseguenza non restar all’Austria che appellarsi al giudizio del mondo, e raddoppiare di sforzi per sottomettere il paese insorto. Infatti Wessemberg, il 5 giugno, da Innspruck avea scritto al Casati tali proposizioni e Hümelauer le avea portate a Palmerston, che credette non vi s’acconcerebbero gli animi, sopreccitati in Lombardia. [79] A mezzo aprile 1848, il Governo provvisorio di Venezia insisteva presso Carlalberto e il generale Durando perchè mandassero truppe a soccorso del Veneto: «Dell’onore del nome piemontese e pontifizio, dell’onore del nome italiano si tratta. Ogni indugio potrebbe far perdere il merito de’ sacrifizj, la lode della vittoria. Noi, che da secoli siamo dissuefatti dalle armi, legati il braccio e il pensiero, noi non ci vergogniamo di tendere la mano a fratelli più agguerriti di noi, a fratelli che ci obbligarono la sacra lor fede; di tendere la mano dopo aver fatto ogni possibile per armarci, munirci, ordinarci, rinnovare a un tratto noi stessi». [80] Un lodatore esclama: _Que dire d’un chef d’armée, se trompant si longtemps sur sa position, continuant à si mal évaluer les forces qui sont dévant lui, alors que dépuis trois jours l’ennemi a combattu de tous côtés à Rivoli, à Sona, à Salionze, à Staffalo, qu’il est en ce moment à si peu de distance, et qu’on vient de lui faire tant de prisonniers?_ [81] Dottore Maestri, avvocato Restelli, generale Fanti. [82] Nella Cronistoria dell’_Indipendenza Italiana_ il Cantù ha descritta a minuto quella trista giornata. (_Gli Editori_). [83] Dispaccio 15 agosto di Abercromby a Reiset. [84] Il Governo provvisorio di Venezia, dando annunzio di sè a quel della Repubblica francese, scriveva: _Le temps des interventions est passé; et ce ne serait pas un secours dangereux qui nous viendrait d’un pays, où Lamartine est ministre_. Bisogna vedere come i giornali piemontesi s’avventarono contro questa invocazione degli stranieri! [85] Articolo 1º: «Un’assemblea costituente è convocata per tutti gli Stati italiani, la quale avrà per unico mandato di compilare un patto federale, che, rispettando l’esistenza de’ singoli Stati, e lasciando inalterata la loro forma di governo, valga ad assicurare le libertà, l’unione e l’indipendenza assoluta d’Italia, ed a promuovere il ben essere della nazione». [86] Crederei del Rossi l’articolo della _Gazzetta di Roma_ 20 aprile, che fra altre cose diceva: «Il più grave pericolo per gl’Italiani non è mai venuto dallo straniero. Le armi nostre lo hanno sempre disfatto quando sono state concordi: e la nostra civiltà ha sempre trionfato della sua quando si è potuta sviluppare liberamente. Il più grave pericolo degl’Italiani è sempre stato nell’abuso de’ più grandi doni che Iddio abbia loro fatti, di questa varietà di caratteri, di questa ricchezza d’intelligenza, di questo rigoglio di volontà, di quest’abbondanza di vita: fa mestieri pertanto, se non vogliamo ricadere negli errori e nelle sventure de’ nostri maggiori, guardarci da questo pericolo e da questo abuso, subordinando ad un principio solo tutte le nostre volontà...». Egli allora scriveva ad una signora come i fatti di Milano l’avessero commosso al pianto, ma non osava sperare fossero principio d’un risorgimento durativo e glorioso, anzichè causa di una caduta più irreparabile. Nè tanto lo spaventava la forza dell’Austria, ridotta a tale che potrebbe essere cacciata quando l’Italia veramente e solennemente il volesse. «Non sono io di quelli stolti, che della possanza e del valore austriaco parlano e scrivono leggermente. So che la vittoria non può ottenersi che con molto sangue; ma so pure che ove gl’italiani tutti siano pronti a spargerlo, come già molti fanno, da valorosi assennati ad un tempo, mostreranno all’universo che è impossibile incatenare un gran popolo che voglia assolutamente essere libero e donno di sè. «Ma saranno essi ad un tempo valorosi ed assennati? Valorosi, ne sono certo; assennati, dubito. «Tre moti diversi agitano l’Italia; giusto l’uno, santo l’altro, pazzo il terzo, e che porrà tutto in rovina se nol si reprime. L’Italia non vuol più Governi assoluti, paterni o no; chè anche i più paterni sono stupidi ed iniqui se assoluti. Questo primo moto, se l’Italia fa senno, è omai compiuto; le costituzioni hanno ricondotto nella penisola la libertà politica; l’Italia, schiava jeri, è oggi libera quanto l’Inghilterra, e la vince in eguaglianza civile. Che vuole di più? «Ma tal articolo della costituzione ci spiace, tale o tal mutamento ci sembra opportuno. Miserie! Chi impedirà, dopo maturo studio, sufficiente sperienza e regolari discussioni, di variare in alcun che gli statuti, e di meglio adattarli alle condizioni morali e politiche? E che? ancora siete nuovi nell’arringo, avete appena allacciata la corazza e brandite le armi, e già prima di farne la prova volete sputar sentenze da censori, e dare al mondo insegnamenti di tattica costituzionale? E che? il sangue italiano scorre gloriosamente sull’Adige e sulla Piave, i vostri fratelli minacciati dal ferro austriaco implorano soccorso; e voi, invece di correr all’armi, di chiedere, di gridare soltanto armi, vi state disputando, chiaccherando, scribacchiando di statuti e di leggi, e ponete la somma delle cose nel sapere se avrete qualche elettore di più o di meno, una o due Camere, categorie più o meno larghe! «Che direste del padrone d’una casa che, vedendola sul punto d’essere preda alle fiamme, si stesse arzigogolando coll’architetto sul modo di correggerne la scala e di addobbarne le stanze? Chiunque preoccupa oggi le menti con sì fatte questioni, o è cieco, o è segreto nemico dell’indipendenza italiana, o è un fanatico che tenta tutto sovvertire e porre a soqquadro l’Italia, come i settarj suoi confratelli hanno messo a soqquadro la Francia. «Il Governo rappresentativo può senza fatica stabilirsi e lodevolmente procedere, a poco a poco perfezionarsi, e, se sia duopo, allargarsi per tutto in Italia; chè di ciò m’assicurano l’ingegno italiano, la crescente civiltà di questi popoli, e più ancora la loro politica condizione. Servi erano tutti in Italia, piccoli e grandi, poveri e ricchi; e quindi tutti gli ordini dello Stato devono portare l’istesso amore alla libertà. Qui non v’ha antiche gare, vecchi odj, acerbe reminiscenze, desiderj di vendetta fra un ordine e l’altro. I privilegi de’ signori erano tal fumo, che non può lasciare, dissipandosi, nè profondi rancori, nè pericolosi desiderj. Fruisca l’Italia di questo singolare benefizio, e non guasti, per stolta impazienza e vane ambizioni, un’opera ad essa più agevole, che non è stata a qualsivoglia altra nazione. «Solo lo Stato Pontifizio, per le sue peculiari condizioni, sembra opporre ostacoli di qualche rilievo al sincero stabilimento del Governo costituzionale. Giova sperare che, quel che non si è fatto da prima, si farà poi. Il cuore del principe è ottimo, l’animo de’ sudditi moderato; volesse Iddio non vi fosse a Roma altra difficoltà a vincere in questi difficilissimi tempi! «Il secondo moto italiano è quel che vuolsi chiamare nazionale; quest’impeto santo della risorgente Italia, che la spinge a scuotere qualsiasi giogo straniero, a spezzarlo coll’armi. Questi due moti non sono da confondere uno coll’altro: il primo poteva separarsi dal secondo, come il secondo dal primo. Anzi, se i grandi avvenimenti delle civili società dovessero essere governati dall’umano giudizio, agevol cosa sarebbe il dimostrare che in via meno breve ma forse più sicura sarebbe entrata l’Italia, ove, prima di por mano alle armi contro l’Austria, avesse avuto agio sufficiente a svolgere e rassodare in ciascuno Stato italiano i nuovi ordinamenti politici. Il sentimento nazionale sarebbesi fatto per la nuova vita politica più veemente ancora, e al tutto universale; le armi sarebbero state pronte, la milizia educata a servirsene. Ma che giova fermarsi in queste supposizioni? L’opportunità politica s’è offerta inaspettata, e più bella che desiderare non osavasi; Italia l’ha afferrata con animo fervido e mano gagliarda; il fervore ha supplito agli apparecchiamenti. La prima vittoria può essere meno facile, ma più gloriosa; la seconda meno pronta, ma più durevole; chè più cari e più sacri sono i conquisti che costarono lunghe fatiche e molto sangue. Inviolabile e santo è ad animi ben nati il suolo che ricopre le ossa de’ valorosi; e l’Italia vorrà essa soffrire che piede straniero le insulti e le calpesti? Ma se l’amore della patria è fiamma divina, non vuolsi però scambiarla co’ sogni di fantasie sregolate, e, peggio ancora, co’ precipitosi giudizj di menti leggiere... «L’impero austriaco, sconvolto ed infiacchito, non è spento; un nuovo esercito ha potuto scendere dall’Alpi e manomettere il suolo veneto. Chi ne assicura che un forte Governo non sia per sorgere a Vienna dalle rovine di quel vecchio e putrido? «Riassumo. L’Austria nemica, gagliarda ancora ed ostinata, Russia non amica, Germania ed Inghilterra neutrali, ma per cagioni diverse attente e sospettose. E Francia? Voi avete sorriso, come tutti hanno dovuto sorridere, udendo il Lamartine provare lungamente, minutamente, che gli Italiani non vogliono a nessun patto i soccorsi francesi, e che neppure le armi francesi si addensino alla frontiera italiana? — Che vuolsi! diceva l’illustre poeta: in Polonia non possiamo andare; in Italia non ci desiderano». E come gongolava di gioja del poter provare che gli Italiani nè punto nè poco pensano a chiamare le armi di Francia! «Giova pertanto attentamente considerare in quali condizioni si trovi l’Italia, volendo fare da sè, siccome essa desidera e si è proposto. Desiderio e proponimento che i buoni diranno santi, nobilissimi, generosi, se all’altezza del pensiero rispondono i fatti, i sacrifizj, il senno. Ove ciò non fosse, il desiderio sarebbe giudicato vanagloria, il proponimento presunzione e follia...». [87] Vedi il foglio del Governo 2 ottobre 1848, e la dichiarazione del Rossi nella _Gazzetta di Roma_ 4 novembre, ove tende a mostrare che gli ostacoli venivano dal Piemonte, il quale voleva acquistare _magnifiche accessioni_ coll’armi e col denaro degli alleati. [88] Lettera al Gioberti 30 ottobre. [89] _L’Epoca_ al 16 novembre. — Nel _Contemporaneo_ al 17 novembre: «Jeri cadde sotto i colpi della pubblica indignazione il ministro Rossi, che per continue provocazioni con parole inserite nella _Gazzetta_, e con fatti mal pensati in politica aveva talmente esacerbati gli animi del popolo romano, che ognuno ambiva a cooperare alla sua caduta... S’illuminavano i balconi, le finestre, le loggie, e uscendo dai quartieri le truppe fraternizzavano col popolo; e i carabinieri, ch’erano stati più degli altri presi in sospetto per la comparsa di più centinaja di loro nella capitale, giravano con bandiere tricolori in mezzo al popolo, giurando fedeltà». — E nell’_Alba_ di Firenze: «Nella fucilata che ha avuto luogo per tre ore circa, è morto monsignor Palma e alcuni Svizzeri... L’esterno del palazzo del papa è crivellato dalle fucilate... Di Rossi non si parla più. Jeri sera il popolo andò per il corso con torcie e bandiere cantando _Benedetta quella mano che il tiranno pugnalò_». [90] Decreto di convocazione, 29 dicembre. [91] Discorso dell’Armellini. [92] Appena avvenuta la fuga di Pio IX, Mamiani mandava una circolare ai diplomatici, scagionando il Ministero di quei mali, e soggiungeva: «Di tutto quello che di più duro e violento è succeduto negli ultimi tempi in Roma e nelle provincie, è stato cagione perpetua il problema difficilissimo di convenientemente accordare il temporale dominio collo spirituale, desiderando i popoli tutti, con unanimi voti, che fra i due poteri intervenga una divisione profonda e compiuta, salva rimanendo l’unità d’ambidue nella stessa augusta persona, laddove dall’altro lato si è voluto e sperato ostinatamente di tenerli, come per addietro, strettamente congiunti e confusi. Alla soluzione quieta e durevole di tanto problema occorreva un mutuo spirito di tolleranza, di conciliazione e di longanimità, e soprattutto occorreva la lenta azione del tempo e la forza degli abiti nuovi, e di nuovi interessi. Ma le passioni di ambidue gli estremi partiti, e quella fiera impazienza, che spinge in ogni parte d’Europa e del mondo le presenti generazioni a rompere tutto ciò che non vagliano a piegare, condussero in Roma la resistenza e il conflitto, e le subite e forse immature trasformazioni; e poi aggiuntò asprezza e impetuosità al conflitto il sentimento nazionale soddisfatto, e il credersi in questi ultimi tempi che venisse a contesa colla politica nuova italiana la vecchia politica della romana curia, la quale ha pensato troppe volte di scampare sè sola nel naufragio delle nazioni». [93] «Odio e fama grave procacciavano gli assassinj politici, dacchè la vendetta dalle sêtte nudrita in animi selvatici prorompeva traditrice con impeto tale, che i sicarj erano tiranni di alcuna città. Dirò d’Ancona, ove uccidevano di pien meriggio nelle piazze, negli atrj privati, nei pubblici ridotti, al cospetto delle milizie che lasciavano misfare: dirò che vi erano uffiziali di Polizia, i quali, sgherri, giudici e carnefici ad un tempo, davano morte ai cittadini, cui per ufficio dovevano sicurare dalle offese. Felice chi potesse coll’oro comperare la vita, o camparla colla fuga, tanto gli animi erano dal terrore signoreggiati, tanto caduta nell’abjezione ogni autorità, tanto profligata la tirannide. La libertà diserta dalle terre contaminate dall’assassinio, la civiltà rinega, e Dio castiga oggi con dura servitù le scellerate costumanze! Gl’impuniti delitti d’Ancona giunsero a tale, che i consoli stranieri ne fecero doglianza al Governo, e ne mandarono fuori la fama orribile. Alcuni deputati anconitani, il Baldi, il Pollini, il Berretta domandavano risolute opere di repressione, ed il Baldi si offeriva andare commissario per compierle. Ma essi avevano reso il partito contrario alla proclamazione della repubblica, ed erano in voce di moderati; il perchè non ebbero tanto d’autorità che il Mazzini volesse fare a fidanza con loro. Invece mandò commissarj il Dall’Ongaro ed un Bernabei di Sinigaglia, i quali, vili cortigiani degli scatenati carnefici e della bordaglia principe, accrebbero la fama odiosa del Governo». FARINI, _Lo Stato romano_, vol. III. [94] _Pro Deo et populo_ era stata la divisa anche di Giuseppe II. [95] «Quel che i giornali toscani fossero in quei mesi di giugno e di luglio, vietami il pudore di riferire». RANALLI, lib. XII. [96] Lettera 6 ottobre. [97] Ajutò a crederlo l’essersi nel giorno medesimo mosse a tumulto Parigi, Vienna, Berlino, Cracovia. Così all’insurrezione di Milano erano state contemporanee quelle di Berlino, di Monaco, d’altri paesi di Germania, e fino di Stoccolma. [98] _Correspondence_, 9 marzo 1849. * La Camera legislativa francese voleva intervento rispettoso e Touqueville ministro degli affari esteri diceva: «Per correggere gli abusi nello Stato Pontifizio cos’abbiam noi a fare se non supplicare il S. Padre stesso di seguitar a camminare nella via dov’era entrato da solo per generosa e gloriosa iniziativa; a ricordarsi de’ proprj esempj, e del felice esito de’ suoi primi atti?» 8 agosto. [99] «Eppure nessuno volle prestar fede alle dolorose rivelazioni, perchè gli uomini da cui erano fatte non ispiravano confidenza (!). _Ove ciò non fosse stato_, chi avrebbe persistito nel proposito della guerra con un esercito che a nessun patto la voleva?» BROFFERIO, _Storia del Piemonte_, part. III, c. 3. [100] Dispaccio al marchese Ricci, 11 dicembre 1848. [101] Nell’_Opinione_ del novembre 1848, si legge: «Signor ministro dell’interno, sapete voi che un vivajo di spie Radetzkiane e Pachtiane formicola per Torino, e a Genova e dappertutto?... perchè non ne fate impiccar alcuna a mo’ di esempio? (qui seguono indicazioni affatto vaghe, e conchiude) E noi non faremo fucilare nessuna spia? _proh dolor!_» Nelle Camere, il 17 novembre, si prendeva a ribattere tali asserzioni, assicurando che i Lazzaroni sanfedisti di Lombardia erano rimasti tutti di là dal Ticino. [102] Dispaccio di Schwarzenberg, 12 febbrajo 1849. [103] Dispaccio 14 marzo di Palmerston a Ponsonby. [104] GIOBERTI, negli _Scritti varj intorno alla quistione italiana_, stampati nel 1847, pag. 47. Nella tornata del 21 febbrajo 1849, egli, accusato di questa intervenzione, diceva non essere intervenzione l’entrare in uno Stato qualunque con uomini armati, quando si è chiesti dal principe e dal popolo. Ecco scagionata l’Austria. [105] Alla vigilia della riscossa, fondava il _Saggiatore_ con trenta pagine di prefazione, e tra un profluvio di parole diceva: «Una mano di forsennati testè sconvolgeva la Toscana, e faceva sì che questo giardino d’Italia, già meta gradita de’ più lontani peregrinatori, divenisse intollerabile a proprj figli... Ministri subdoli, spergiuri e traditori, portati al seggio da un tumulto, fecero forza al Parlamento col terrore, lo costrinsero a votare contro coscienza una legge distruttiva dei patti giurati; aggirarono, carrucolarono, strascinarono l’ottimo principe nel precipizio, necessitandolo infine a fuggire... E chi è questo principe? il medesimo che timoneggiò sempre i suoi popoli con benigni e mitissimi reggimenti, che spontaneo li privilegiava di libere istituzioni ecc.... Tutti gli statisti convengono che l’intervento a rigore di lettera sia lecito quando viene comandato dalla suprema legge della necessità e della propria salvezza, ecc.». I triumviri di Toscana ristamparono questo passo, anteponendovi parole ove diceano che «Dio volle umiliare questo non degno suo sacerdote colla perdita della ragione». [106] Normanby scriveva a Palmerston l’11 marzo: «Il signor Mercier fu spedito da Parigi a Torino per mostrare nella più stringente maniera al re di Sardegna il _suicidale effetto_ della sua condotta nel provocare in questo momento la rinnovazione delle ostilità, e assicurarlo non s’aspetti verun sostegno dalla Francia se con ciò provocasse un’invasione de’ suoi dominj per l’esercito vincitore». Palmerston, al 19 marzo, ricevuta la denunzia dell’armistizio, incaricava di esprimere quanto gli dispiacesse la strada in cui metteasi il Gabinetto di Torino; sperava ancora non si comincierebbero le ostilità; in ogni caso si procurasse cessarle ove fossero cominciate. Mercier presentavasi a Novara al re, in nome del Governo francese, per dissuaderlo dal cominciare le ostilità (_Edwards a Palmerston, 24 marzo_). Abercromby faceva altrettanto (dispaccio 21 marzo), dopo che al 14 aveva scritto dolergli senza fine che il re, malgrado i ripetuti consigli delle Potenze mediatrici, esponesse la pace universale e il proprio paese con un attacco non provocato contro un vicino. [107] Lettera a Colloredo 18 marzo 1848, e dispaccio di Edwards a Palmerston 23 marzo. Io non credo possa trovarsi romanzo che pareggi la commozione del leggere adesso gli scritti e i giornali che uscirono dal 18 al 30 marzo 1849. Vero è che, a differenza dei romanzi, bisogna conoscere prima la catastrofe. [108] Di pagine che straziano il cuore per la continua immagine d’occulte mene, di trame liberticide, di corruzione diffusa, tali da far vergognare d’essere italiani, può raccogliersi lo stillato in queste poche righe: «Udito il disastro di Novara, che tutti giudicarono tradimento, udite le condizioni dell’armistizio che a tutti parvero disonorevoli, Genova alzò il capo fieramente, e non volle sottoporsi nè al croato che invadeva, nè al Ministero che pareva essere di così buona intelligenza coll’invasore, ma difendere la città, come essi dicevano, dagli Austriaci di Vienna e da quelli di Torino... Per poco che il Governo avesse voluto essere umano, nulla era più facile che ridurre Genova a obbedienza senza lacrime e senza sangue. I soldati di Lamarmora, volendo emulare gli esempj di Novara, s’abbandonarono a deplorabili eccessi contro le proprietà e le persone... Partivano gl’infelici in traccia di men crudeli spiaggie sulle rive dell’Ellesponto sotto la protezione della mezza luna. Più infelici ancora quelli che rimasero... Nè le ire si spensero colle tolte sostanze, coll’oltraggiata onestà, col versato sangue». BROFFERIO, _Storia del Piemonte_, tom. III, p. 116-120. [109] Un uffiziale polacco amico del generale Chrzanowsky, e un uffiziale piemontese, nelle _Considerazioni sugli avvenimenti militari del marzo 1849_, gettarono tutte le colpe sul Ministero. Chiodo, Cadorna, Tecchio cessati ministri vi risposero, mostrando con documenti che il generale fu istruito a tempo dell’armistizio disdetto, e aveva assentito. [110] _Le prompt accomplissement de la régénération de l’Italie a pu être empêché par de _grandes fautes_ commises à Turin_, scriveva lord Minto a Massimo D’Azeglio. _La France ne permettra jamais que la Sardaigne fût, _malgré ses fautes_, réduite à un état voisin de l’anéantissement_, diceva Drouyn de Lhuys al Gallina. Ma l’avrebbero professato prima dell’esito? Tocqueville, nuovo ministro in Francia, diceva: _Après une guerre qu’a justifié et accru la juste renomée de bravoure dont jouit dans le monde l’armés piémontaise, mais qui c’est terminée par de très-grands revers, il était peut-être difficile d’espérer des meilleures conditions._ «Arrossisco pel mio paese de’ tanti inni di guerra cantati al tempo addietro; nè certo io mi resi mai complice di siffatte ciarlatanerie». D’AZEGLIO, _Dispaccio_ 19 maggio 1819 al conte Gallina. [111] _Si l’Autriche veut une paix solide et durable, il faut qu’elle se montre généreuse; il faut qu’elle aide le roi à surmonter les immenses difficultés qui l’entourent._ Il ministro De Launay al generale Dabormida, 13 aprile. [112] _Giornale militare_, al 3 settembre 1848. [113] Il console Goodwin a lord Napier, 1848. [114] Le imprese degli Svizzeri nelle Due Sicilie furono raccontate dal R. De Steiger nella _Revue contemporaine_, gennaio e marzo 1861, da soldato senza passione e in tono ben altro da quello consueto. Loda assai la moderazione del Filangieri e dei vincitori. [115] 19 gennajo 1849 il ministro Gioberti richiamava il proprio ministro a Napoli per «l’indegna calunnia spacciata in Francia dal principe di Cariati, colla quale ci attribuiva l’offerta di togliere al papa le Legazioni». Spero che il sospetto di tanta infamia non anniderà per un solo istante nell’animo del pontefice. [116] Il principe Butéra al viceammiraglio Parker, 17 marzo 1849. [117] Vedansi il rapporto di Ferdinando Tadini e Leopoldo Galeotti sul Ministero democratico e il triumvirato, stampato nel 1850, e i _Ricordi_ di L. G. De Cambray Digny sulla Commissione governativa del 1849, stampato nel 1853. [118] Pochi uccisi nel breve assalto; fucilati dopo non meno di sessanta, fra cui un rumoroso prete Maggini. [119] LA FARINA. E vedansi i dispacci di Moore nella citata _Correspondence_. Ranalli divisa a lungo que’ micidj e soggiunge: «Non è improbabile che secretamente vi dessero mano i settarj della tirannide, mascherandosi da repubblicani, e co’ più licenziosi della democrazia accontandosi, per interesse d’infamare la repubblica». Lib. XXIII. Insinuazione gratuita, che ricorre di spesso. Vedi anche _Fatti atroci dello spirito demagogico negli Stati romani_; racconto estratto dai processi originali, Firenze 1853. [120] _L’orbe cattolico a Pio IX p. m. esulante da Roma_, 1848-49. Napoli 1850. [121] Vedasi Drouyn de Lhuys ministro, al sig. La Cour ambasciadore a Vienna il 17 aprile. [122] Freeborn a lord Palmerston. [123] Nelle istruzioni a Oudinot leggessi: «Tutte le informazioni ci fanno credere che sarete lietamente ricevuto a Civitavecchia, dagli uni come liberatore, dagli altri come mediatore contro i pericoli della riazione. Se però contro ogni verosimiglianza si pretendesse impedirvene l’entrata, voi non dovreste arrestarvi per la resistenza oppostavi in nome d’un Governo che nessuno ha riconosciuto in Europa, e che a Roma si mantiene contro il voto dell’immensa maggioranza della popolazione». [124] Seduta del 2 giugno 1849. [125] Vedi _Giornale di Roma_, 16 luglio 1849; e il discorso del cardinale Tosti. [126] Più tardi Bastide stampò _La République française et l’Italie en_ 1848, _récits et documents_ (Bruxelles 1858), dove mostra come il re e il Ministero di Piemonte avessero soprattutto paura della Francia perchè produrrebbe un movimento repubblicano, pericoloso alla Casa di Savoja; come Pareto non meno che Brignole ripetessero che Italia voleva far da sè; come di rimpatto gli Ungheresi e Kossuth specialmente riguardassero la lotta come fosse tra l’Austria e Carlalberto, e perciò convenisse sostenere quella. [127] Nei carteggi diplomatici dell’agosto appare evidente questo pensiero, che basta a giustificare il Governo veneto. Beaumont, ambasciadore francese a Londra, scriveva in tal senso a Palmerston, e conchiudeva: «Certo la Francia non può dispensarsi dal portar prontamente soccorsi a Venezia, salvo il caso d’una mediazione pacifica conforme alla politica sua: ma per questa è duopo che cessi subito ogni ostilità». 29 agosto 1848. Nell’indirizzo di Manin ai ministri d’Inghilterra e Francia, del 4 aprile 1849, è detto: _Si d’autres Etats italiens ont jadis rejété le secours de la France, Venise était, en revanche, accusée, du contraire: les journaux du temps en font foi... La durée de la résistance est elle-même un titre, puisqu’elle démontre que ce n’est pas une ivresse turbulente, mais une volonté réfléchie. Tout en recommandant à V. E. l’Italie toute entière, dont les intérêts sont solidaires, et dont la pacification, c’est-à-dire l’affranchissement est devenu la condition indispensable de la paix de l’Europe, nous devons vous supplier de prendre dès l’abord en considération notre Etat, qui, faute de moyens économiques, ne saurait se prolonger sans donner gain de cause à nos ennemis. Ses délais sont calculés... Venise affranchie ne saurait donner de l’ombrage; Venise autrichienne serait une honte et un embarras._ Palmerston rispondea il 20 aprile, che Venezia appartiene all’Austria pel trattato di Vienna, e che «il componimento proposto dai Governi inglese e francese a quello d’Austria nell’11 agosto 1848 come base della negoziazione, non alterava in ciò il trattato di Vienna: nessun cangiamento può essere fatto nella condizione politica di Venezia se non col consenso e l’opera del Governo imperiale; e questo ha già annunziato la sua intenzione a tal riguardo». Simile, ma più ipocrito era quello di Drouyn de Lhuys: _Si la liberté italienne eût été partout défendue ainsi, elle n’aurait pas succombé, ou de moins, en recourant à temps, après une honorable résistance, à la négociation, elle eût obtenu des conditions, qui lui eussent assuré une partie des bénéfices de la victoire. Il en a été autrement. Des fautes irréparables ont été commises, et les Vénitiens qui n’ont pas à se le reprocher, _doivent_ aujourd’hui, par la force des choses, en supporter les conséquences_. [128] È singolarmente memorabile la canzone del Mameli: Fra le lagune adriache Giace una gran mendica.... Date a Venezia un obolo ecc. [129] Agostino Stefani muratore si offre al colonnello Cosenz d’andare a mettere fuoco al ponte ove il nemico s’accalcava. I difensori lo vedono, lo credono una spia, e a furore lo ammazzano. [130] «Il ministro dalle prime ci disse tenessimo un franco linguaggio: l’Austria del passato non è quella d’oggi; gli uomini che al presente dirigono, sono di liberali principj, e comprendono avere gl’Italiani avute poche garantigie, e queste pure talvolta non rispettate ecc.» _Relazione di Foscolo a Calucci_. [131] Ne fu poi graziata alla venuta dell’imperatore nel 1857. Manin morì a Parigi nel 1857, e mentre l’aveano vilipeso governante, insultato o negletto esule, il divinizzarono come precursore delle idee che dappoi trionfarono. [132] Chiudendo la _Storia Universale_ nel dicembre 1847, noi dicevamo: «Ognun vede che la rivoluzione odierna è ben diversa dalle precedenti; non si parla d’assassinj, ma si canta l’affratellamento; non si bestemmiano i preti, ma si va sui loro passi alla conquista di sempre nuovi vantaggi; non si sbalzano i regnanti, ma si chiedono da loro quelle concessioni, a cui gl’invita un grande esempio. Come finirà? Possano i nostri evitare almeno il ridicolo, se non potranno evitare un’altra volta la commiserazione! Ma se Dio li prospera, abbiano a mente che non dalla guerra viene la libertà, bensì dalla pace, e che facile è la rivoluzione, mentre è difficile il far da essa uscire _una società che si difenda, si ordini, si governi da sè_». [133] Ho studiato questo modo principalmente in uno che, come negli atti così nel libro, affettò lealtà. Or vi ritrovi sempre «i faccendieri pontifizj o imperiali», e «gente venduta e perversa» e quei che servono al potere, e simili frasi; mentre gli ambasciadori della repubblica, i capi de’ movimenti, i periti nei processi o nelle battaglie o nelle sollevazioni sono «anime d’oro, spiriti incontaminati, fedeli dalla cuna alla tomba alla moralità e alla patria». Se Carlalberto rinnova la guerra, sono i nemici occulti di esso che ve lo accelerano: se i sommovitori fanno tumulto e sangue, è «grave disdoro della pubblica autorità, che nulla fece per prevenire lo scandalo e reprimerlo»: se sono arrestati o repressi colla forza, ecco «imitati gli esempj dell’Austria, rinnovate le commissioni di Romagna e i supplizj di Napoli»: i principi e il papa fingono di cedere alla violenza», hanno «pretesti ridicoli», simulazione sono i loro atti migliori. In lui frequentissime ricorrono frasi somiglianti a queste: «Nome tanto in quel dì gradito, quanto aborrito dappoi. — Personaggio fino allora incontaminato. — Ministro della più nobile reputazione, che poi tradì — Correnti, segretario che poco potè giovare alla pubblica causa, e molto nocque alla propria reputazione, perdendo il favor popolare e gli amici». [134] Dal libro del Bava appare che s’ignoravano interamente la natura del suolo lombardo, e fino i monti e i fiumi suoi da quell’esercito «che da un quarto di secolo si preparava a cacciarne un altro» istruttissimo d’ogni siepe, d’ogni ridosso. Nel carteggio dell’incaricato di Lombardia a Torino al 5 giugno 1848 leggiamo: «Si desidera che la Commissione che sarà spedita (per combinare la fusione), sia composta di persone al fatto del nostro ordinamento amministrativo e finanziario, essendochè nessuno dei ministri è al fatto di queste cose». [135] Lo asserì il _Corriere italiano_ di Vienna al 17 aprile 1855. [136] Schwarzenberg scriveva al conte Colloredo 17 giugno 1849: «I principi che primi avevano accordato ai loro paesi garanzie costituzionali, furono le prime vittime delle vicende della popolarità. In compendio la storia d’Italia negli ultimi due anni provò un’altra volta che, per far godere a un popolo i frutti della libertà non basta dotarli di istituzioni liberali, ma bisognerebbe anzitutto possedere l’arte d’ispirargli quel profondo rispetto delle leggi e dell’autorità, e quello spirito pubblico che costituiscono la potenza dell’Inghilterra, e che ne fanno l’oggetto dell’invidia e dell’ammirazione dell’altre nazioni». [137] «Uno dei capi del comitato rivoluzionario mantovano, le cui _tendenze_ erano di far scoppiare una sommossa popolare, onde conseguire la violenta separazione del regno lombardo-veneto dall’Austria e la di lui repubblicanazione». Così la sentenza 7 novembre. Prima ch’io imparassi a conoscerlo ebbe egli la bontà e la pazienza di togliere in minuto esame la mia _Storia Universale_, appuntandovi ciò che di men esatto vi fosse, principalmente nella parte ecclesiastica e nella riverenza al dogma e all’autorità pontificale. Alla memoria sua ho tributato il miglior omaggio, cioè la verità. [138] Di tutto ciò, e delle vicende del Canton Ticino parliamo a disteso nella 2ª edizione della _Storia della città e diocesi di Como_; Firenze 1856. Il Canton Ticino, quinto in estensione fra i cantoni Svizzeri, e formante una 14ª parte dell’intera Confederazione elvetica, ha la maggior lunghezza di miglia 70 da Chiasso al confine di Uri poco oltre l’ospizio del Sangotardo, e la superficie di circa 780 miglia geografiche quadrate. È in otto distretti; e il Governo, colla vicenda di sei anni, siede a Lugano, Bellinzona, Locarno. Cenquindicimila sono gli abitanti, occupantisi del traffico, e gran parte n’esce come muratori, capomastri, architetti. La costituzione fu riformata nel 1830 in senso liberale. Scarsissime finanze, l’entrata valutandosi di un milione e mezzo di franchi. Spettano ai Grigioni la valle Bregaglia che sbocca a Chiavenna, la doppia valle Mesolcina e Calanca che riesce presso Bellinzona, e la valle di Poschiavo che finisce a Tirano in Valtellina. Dipendono nell’ecclesiastico dal vescovo di Como, e sono composte di comunità, che ponno riguardarsi altrettante repubbliche, debolmente legate ad altre del Cantone. Hanno circa dodicimila abitanti italiani. [139] Secondo lo Zobi, gli ecclesiastici nel 1858 erano 17,505: e di lire 2,909,650 la rendita affetta alla causa pia ecclesiastica; mentre la totale del granducato era di 49 milioni. [140] Lo Stato era diviso nelle prefetture di _Firenze_, _Lucca_, _Pisa_, _Siena_, _Arezzo_, _Grosseto_, e i governi di _Livorno_ e dell’isola d’_Elba_. Il conto del 1858 batte sui 38 milioni di lire. La forza armata consiste in 17,000 uomini. La marina ha 184 legni a vele quadrate, 779 a vele latine, 959 bastimenti. Nel bilancio di previsione pel 1849 si calcolava un disavanzo di 9,761,290 lire. L’occupazione straniera può essere costata 30 milioni. Il debito nazionale nel 1847 non eccedeva i 42 milioni e mezzo. Nel 49 creavasi un prestito di 30 milioni al 5%, da redimere in trent’anni mediante il canone del tabacco. Un altro si contrasse col banchiere Bastogi di 12 milioni, dandogli in garanzia la miniera di ferro dell’Elba. Un terzo, detto consolidato, si fece nel 1852, vendendo 3 milioni di rendita consolidata al 65%. Al fine del 1856 i debiti fruttiferi e infruttiferi giungeano a 124,873,256 lire, portanti sul bilancio l’annua passività di lire 6,117,185. Inoltre le comunità si caricarono di debiti che arrivano a 40 milioni. Ultimamente la spesa del tesoro fu preveduta in 39 milioni, e la rendita in 38, col disavanzo di 934,140 lire. Firenze verso il 1550 aveva 22,000 maschi, 29,880 femmine, fanciulli e vecchi 9120; prima della morte nera nel 1438 contava 100,000 abitanti, che furono ridotti a 60,000; ancor meno rimasero dopo le peste dell’anguinaja nel 1450; nel 1490 erano 70,500; nel 1530 già 85,500: adesso 112,500. Ora ha 103,000 abitanti: in tutto lo Stato la popolazione nel 1820 era di 1,172,342, salita nel 1831 a 1,365,705, si trovò nel 1851 a 1,761,140 col maggiore incremento negli ultimi cinque anni che fu del 2,50 per cento all’anno. La popolazione del 1853 era composta di _famiglie_ _individui per famiglia_ Cattoliche 323,272 5 52 Eterodosse 442 4 53 Israelite 1443 5 33 ———————— —————— In tutto 325,157 5 12 Si contavano 31 accademie letterarie, 25 casse di risparmio, 114 uffizj postali da cui si ricavavano 1,211,475 lire: 939 bastimenti mercantili, di tonnellate 55,631. Un terzo del paese è maremme; il resto floridissimo. A Volterra son le cave d’alabastro e del sale per quasi tutta Toscana, e i lagoni del borace. [141] Nel novembre 1856 si restrinsero a Bologna e Ancona. Nel tempo dell’occupazione quel comando inviò a morte censessantasette persone. [142] Vedi _Sulle barche a vapore e sul Tevere_, dissertazione di Alessandro Cialdi, che s’è posto fra’ migliori idraulici co’ recenti _Cenni sul moto ondoso del mare e sulle correnti di esso_. [143] Secondo il bilancio di previsione del 1859, le spese sarebbero state di 150 milioni e mezzo; le rendite di 141 milioni. Dal 1848 al 58 si contrassero debiti per 571,152,133, portanti l’interesse di 25,837,339, sicchè nel 1858 il debito era di 720,600,000 lire, pel cui servizio si stabilirono 40 milioni e mezzo. Dappoi la previsione della guerra fe contrarre un altro debito. Il _Regno Sardo_ comprende l’isola di _Sardegna_ e i dominj di Terraferma. La Sardegna ha la superficie di 23,920,34 chilometri quad.; la Terraferma 51,402,85: perciò tutto il regno chilom. quad. 75,323,19, pari a miglia geogr. quadr. 21,964; o a miglia geogr. ted. quadr. 1372. La maggiore larghezza della Sardegna è di miglia geogr. 77-4/5, e la maggior lunghezza di miglia 144-1/4, e il circuito di miglia geogr. 800: dei dominj in Terraferma la larghezza maggiore è miglia 148, la lunghezza 176. Secondo il censimento del 1838, la Sardegna contiene 524,633 abitanti, la Terraferma 4,125,735, in totale 4,650,368. L’isola di Sardegna, già ripartita ne’ due capi di _Cagliari_ e di _Sassari_, è ora divisa in tre intendenze generali o divisioni amministrative, _Cagliari_ (30,000), _Sassari_ (22,000) e _Nuoro_ (4200); e suddivisa in 11 provincie, 85 mandamenti, e 367 Comuni. Ebbe già un Ministero speciale _per gli affari di Sardegna_, e legislazione e ordinamento particolare; finchè la Costituzione del 1848 agguagliò tutti i paesi e tutti i cittadini. Gli Stati di Terraferma sono in undici divisioni amministrative, suddivisi in 39 provincie, 409 mandamenti, e 2709 Comuni. L’esercito si recluta per coscrizione, a cui sono sottoposti tutti i giovani giunti che sieno al ventunesimo anno d’età, e che annualmente possono valutarsi a 18,000. Di questi, i primi 9000 tirati a sorte formano il contingente di prima categoria, il quale viene immediatamente incorporato nell’esercito, con l’obbligo di servire cinque anni attivamente, e sei in congedo illimitato; i rimanenti 9000 formano il contingente di seconda categoria, il quale nel primo anno viene istruito per cinquanta giorni in campo, e rimane di poi a disposizione del Governo sino al ventesimoquinto anno d’età. Di maniera che, oltre gli uomini in congedo illimitato deputati a riempire immediatamente i quadri in tempo di guerra, v’hanno cinque contingenti di seconda categoria per la formazione de’ quinti battaglioni di deposito. Per le forze marittime si hanno: Bastimenti a vela Nº 10 con 270 cannoni Vapori a ruote » 7 » 38 » 1600 cavalli Fregate miste ad elice » 4 » 200 » 2080 » Trasporti a vela e a vapore » 5 » — » — —— ——— ———— 26 508 3680 Lungo il mare tiene le fortezze di _Sant’Albano_, che assicura le alture di Nizza; _Villafranca_, che legasi colla precedente in linea difensiva; _Ventimiglia_, che copre la strada della Riviera ed assicura la sinistra della Roja; _San Remo; Finale; Vado_, antemurale di Savona; _Savona_, antico castello, che assicura il porto e difende il passo della Riviera; _Genova_, coi varj forti e doppio circuito, che domina il golfo; _Spezia_ e _Sarzanello_, antico castello che copre il passo della Magra. Entro terra il forte di _Bard_ chiude il passo per la valle d’Aosta; _Fenestrelle_ per la valle del Chisone al Monginevra in Francia; _Exilles_ per la valle d’Oulx al Monginevra; _Lesseillon_ in valle di Morienna, domina il corso dell’Arc, e copre il passo del grande e del piccolo Moncenisio; _Gavi_, antico forte, difendeva il passo per la Bocchetta ligure; la cittadella d’_Alessandria_ protegge le vie provenienti da Genova e dal ducato di Parma per Torino; _Vinadio_ chiude il passo dell’Argentiera, e copre l’entrata nella valle di Stura. Vi sono poi nell’interno varie piazze di difesa e cittadelle, come Torino e Casale, oltre quelle dell’isola di Sardegna. [144] Fu poi concessa nel gennajo 1859. [145] L’amministrazione comunale è composta da un decurione, un sindaco e due magistrati, eletti da ciascun Comune. Per le cause civili vi sono 11 tribunali di prima istanza, 4 corti alte e la suprema a Napoli; per le criminali 15 corti alte. Il reame divideasi in dominj _di qua dal Faro_ e _di là dal Faro_, e in 22 provincie, aventi miglia geogr. quadr. 31,460. Di qua sono: 1 Abruzzo Ulteriore; 2 Secondo Abruzzo Ulteriore; 3 Abruzzo Citeriore; 4 Molise; 5 Terra di Lavoro, dove Caserta, stupenda residenza reale, e _Montecassino_ dal celebre convento, culla de’ Benedettini; 6 Napoli, colla più grande città d’Italia, in vista del Vesuvio, e per situazione non comparabile che a Costantinopoli; 7 Principato Ulteriore; 8 Principato Citeriore con _Salerno_; 9 Capitanata, con _Foggia_; 10 Terra di Bari, con porto sull’Adriatico attivissimo; 11 Terra d’Otranto, cl. _Lecce_, ove _Brindisi_ ha perduto affatto la sua importanza; 12 Basilicata, la più povera provincia del regno; 13 Calabria Citeriore, cl. _Cosenza_; 14 Seconda Calabria Ulteriore; 15 Prima Calabria Ulteriore, con _Reggio_ sullo stretto di Messina. Secondo il censimento del 1849, la città di Napoli avea 416,499 abitanti, di cui 204,010 maschi, non contando i forestieri, la guarnigione e i carcerati: nacquero 14,667 persone, morirono 14,535; vi furono 2757 matrimonj, e allo stabilimento dell’Annunciata si ricevettero 2227 projetti. Di là dal Faro le provincie sono nominate dal capoluogo. 16. Palermo con 200 mila abitanti e crescente commercio; 17 Messina sullo stretto; 18 Catania a piè dell’Etna; 19 Siracusa con piccolo porto: 20 Caltanisetta; 21 Girgenti; 22 Trapani. Secondo le statistiche del 1856, la popolazione di qua dal Faro era di 6,886,000 anime: il conto bilanciavasi su 32 milioni di ducati: il debito in 139 milioni di ducati. La flotta a vela e a vapore, di 12 legni, porta 746 cannoni: l’esercito ha 65 mila uomini di fanteria, 6736 di cavalleria; 6322 di artiglieria, 2880 del genio; oltre 51 mila uomini di riserva. La tavola pubblicata dalla direzione centrale di statistica per la Sicilia dà che nell’isola al fine del 52 eran anime 2,208,392 — 53 — 2,231,020 di cui i maschi 1,101,248 [146] Dall’_Annuario_ togliamo questo specchio della popolazione italiana. STATI |Ultimo censimento | |Abitanti | | |Presunti | | |al 1º gennajo 1857 | | | |Superficie in | | | |chil. | | | |quadrati | | | | |Abitanti | | | | | ogni | | | | |chilom. ——————————————————————————————————————————————————————————————————————— |1 genn.| | | | Due /Continente | 1854 | 6,843,355| 6,986,906| 79,233 00| 88 18 Sicilie \Isola | 1854 | 2,231,020| 2,294,373| 25,393 50| 90 35 Lombardo- /Lombardia | 1855 | 3,009,505| 3,037,765| 21,585 45| 141 66 Veneto \Venezia | 1855 | 2,493,968| 2,526,606| 23,831 59| 105 80 Stati /Continente | 1848 | 3,785,160| 3,997,607| 40,161 09| 99 54 Sardi \Sardegna | 1848 | 547,112| 568,098| 24,096 06| 23 58 Stati Romani | 1849 | 3,019,359| 3,127,027| 41,434 63| 75 17 Toscana | 1856 | 1,779,338| 1,794,658| 22,082 76| 81 27 Modena | 1855 | 609,139| 616,883| 6,019 66| 102 47 Tirolo italiano | 1851 | 538,524| 551,882| 15,741 65| 35 06 Trieste, Istria, | | | | | Gorizia | 1851 | 527,539| 549,311| 8,524 46| 64 44 Parma | 1854 | 508,784| 514,083| 6,201 13| 82 90 Corsica | 1852 | 236,251| 243,982| 8,746 91| 27 89 Malta | 1851 | 123,496| 129,207| 374 67| 433 80 Ticino | 1850 | 117,759| 119,955| 2,675 05| 44 84 Grigioni italiani | 1850 | 14,506| 15,037| 853 91| 17 61 Monaco | 1848 | 7,627| 7,915| 23 15| 341 90 San Marino | 1852 | 5,700| 5,844| 57 15| 102 26 | |__________|__________|__________|_______ Totale regione | | | | | italica | |26,398,142|27,107,139|327,085 82| 82 87 STATI |Tedeschi | |Slavi | | |Francesi | | | |Valacchi | | | | |Albanesi | | | | | |Greci | | | | | | |Catalani | | | | | | | |Arabi | | | | | | | | |Ebrei | | | | | | | | | |Zingari | | | | | | | | | | |Totale ———————————————————————————————————————————————————————————————————————— Illiria | | | | | | | | | | | italiana| | | | | | | | | | | (Litor.)|12000|190000| ...|320| 300| 2500| ...| ...| 3200|100|208420 Lombar.-| | | | | | | | | | | Veneto |40000| 20000| ...|...| ...| 3100| ...| ...| 7530| 60| 70690 Regno | | | | | | | | | | | Sardo | 6430| ...|78000|...| ...| 100|8000| ...| 6820|100| 99450 Ducato | | | | | | | | | | | di | | | | | | | | | | | Parma | ...| ...| ...|...| ...| ...| ...| ...| 680|...| 680 Ducato | | | | | | | | | | | di | | | | | | | | | | | Modena | ...| ...| ...|...| ...| ...| ...| ...| 2710|...| 2710 Toscana | ...| ...| ...|...| ...| 2000| ...| ...| 7060|...| 9060 Stati | | | | | | | | | | | Pontif. | ...| ...| ...|...| ...| 150| ...| ...|12790| 80| 13020 Due | | | | | | | | | | | Sicilie | ...| ...| ...|...|88410|18000| ...| ...| 2000|150|108560 Canton | | | | | | | | | | | Ticino | 350| ...| ...|...| ...| ...| ...| ...| ...|...| 350 Malta | ...| ...| ...|...| ...| ...| ...|140000| ...|...|140000 ———————————————————————————————————————————————————————————————— Totale |58780|210000|78000|320|88710|25850|8000|140000|42790|490|652940 [147] La tesi di Barruel sulla massoneria fu molto meglio e più scientificamente sviluppata da Edoardo Haus, _Le Gnosticisme et la Franc-maçonnerie_. Bruxelles 1876. [148] Cantù, Rosmini, Manzoni. [149] L’abate Antonio Scoppa messinese, passato in Francia, vi scrisse molti libri didascalici, e principalmente sostenne essere la lingua francese non meno atta alla poesia che l’italiana, purchè i poeti volessero adattarsi a certe regole che suggeriva per l’accento e pel ritmo. Prediligeva il mutuo insegnamento, e dopo la restaurazione dei Borboni fu chiamato a introdurlo a Napoli. Questo metodo, proclamato per alcun tempo fra i liberali, ben presto fu abbandonato come quello che, rendendo materiale l’educazione, la riduce sensualistica. [150] _Seconda casa d’Anjou._ Luigi I, adottato da Giovanna I 1380 1384 Luigi II 1386 1417 Luigi III 1417 1434 Renato 1434 1442 Carlo del Maine, spogliato da Luigi XI re di Francia. [151] Fin qui la serie comune dei dogi varia da quella data dalla _Cronaca Altinate_ e da Martin da Canale. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 14 (DI 15) *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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