The Project Gutenberg eBook of Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 Author: Karl Marx Author of introduction, etc.: Friedrich Engels Release date: July 29, 2023 [eBook #71295] Language: Italian Original publication: Italy: Critica Sociale Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE LOTTE DI CLASSE IN FRANCIA DAL 1848 AL 1850 *** BIBLIOTECA DELLA CRITICA SOCIALE CARLO MARX LE LOTTE DI CLASSE IN FRANCIA dal 1848 al 1850 _Ristampa dalla NEUE RHEINISCHE ZEITUNG_ RIVISTA POLITICA-ECONOMICA, AMBURGO, 1850 CON PREFAZIONE DI FEDERICO ENGELS MILANO Uffici della CRITICA SOCIALE _Portici Galleria N. 23_ 1896 PROPRIETÀ LETTERARIA Tipografia degli Operai (Soc. coop.), corso Vittorio Emanuele 12-16. PREFAZIONE Il lavoro, che oggi viene nuovamente alla luce, è il primo tentativo fatto da Marx di spiegare, adoperando il suo metodo di concezione materialistico, un periodo storico colle condizioni economiche corrispondenti. Nel Manifesto comunista questa teoria è adattata, a grandi contorni, a tutta la storia più recente; negli articoli di Marx e miei, della _Neue Rheinische Zeitung_, essa era stata ripetutamente applicata all’interpretazione di avvenimenti politici contemporanei. Qui, all’incontro, si trattava di provare l’intimo nesso di causalità nel corso di una evoluzione durata più anni e che fu altrettanto critica quanto tipica per tutta l’Europa, e quindi, nel concetto dell’autore, di ricondurre gli eventi politici all’azione di cause che sono, in ultima analisi, economiche. Tornerà sempre impossibile risalire fino alle ultime cause economiche quando si prendano a giudicare avvenimenti e serie d’avvenimenti contemporanei. Oggi ancora, mentre pubblicazioni speciali offrono un materiale così ricco, non sarebbe consentito, nemmanco in Inghilterra, di seguire giorno per giorno il cammino dell’industria e del commercio nel mercato mondiale ed i cangiamenti introdotti nei metodi di produzione, in guisa da poter tirare, per ogni momento determinato, la risultante definitiva di questi fattori multiformi, complessi, e in continua mutazione, dei quali poi, inoltre, i più importanti esercitano, generalmente durante lungo tempo, una azione latente, prima che all’improvviso erompano alla superficie. La visione netta della storia economica di un dato periodo non è mai contemporanea; essa non può formarsi che successivamente, quando sia già radunato e studiato il materiale. La statistica è qui l’ausiliare necessario, ed essa non ci vien dietro che zoppicando. Per il periodo storico in corso sarà quindi, anche troppo spesso, inevitabile considerare cotesto fattore, sovra ogni altro decisivo, come costante, considerare cioè la situazione economica, trovata agli inizî d’un dato periodo, come fissa ed immutabile pel periodo intero, o tutt’al più fermarsi a quelle mutazioni di essa, le quali, emergendo dall’evidenza degli avvenimenti che vanno svolgendosi, si presentino alla lor volta evidenti. Il metodo materialistico, pertanto, dovrà troppo frequentemente limitarsi a ravvisare nei conflitti politici lotte di interessi delle classi sociali e delle frazioni di classi, la cui esistenza, dipendente dall’evoluzione economica, è di già constatata ed a considerare i singoli partiti politici come l’espressione politica, più o meno adeguata, delle medesime classi o frazioni di classi. S’intende da sè che tale inevitabile trascuranza delle mutazioni contemporanee nella situazione economica, della vera base cioè di tutti gli avvenimenti presi ad esaminare, deve di necessità essere una fonte di errori. Ma questo vale per tutti gli elementi di una esposizione sintetica della storia contemporanea; il che non trattiene però alcuno dallo scriverla. Allorchè Marx intraprese il presente lavoro, l’accennata fonte d’errori era ancora più inevitabile. Era semplicemente impossibile seguire, durante il tempo della rivoluzione dei 1848-49, le correnti economiche contemporanee od anche solo abbracciarle con uno sguardo generale. Lo stesso dicasi pei primi mesi del suo esilio a Londra, nell’autunno e nell’inverno del 1849-50. Ora questo fu appunto il tempo in cui Marx incominciò il lavoro. E, malgrado tali circostanze sfavorevoli, la precisa comprensione, che egli aveva, sia della situazione della Francia prima della rivoluzione di febbraio, sia della sua storia politica dopo quella rivoluzione, gli permise di dare un’esposizione degli avvenimenti, che rivela l’intima loro connessione in un modo anche dipoi non raggiunto e che ha luminosamente sopportata la duplice prova, a cui egli stesso più tardi la sottopose. La prima prova è dovuta alla circostanza che, a partire dalla primavera del 1850, Marx ebbe agio di nuovamente attendere agli studi economici degli ultimi dieci anni. In tale occasione, i fatti stessi gli fornirono la completa dimostrazione di ciò ch’egli, sino allora, aveva ricavato per induzione quasi aprioristica da materiali imperfetti: che, cioè, la crisi del commercio mondiale nel 1847 era stata la vera madre delle rivoluzioni di febbraio e di marzo, e che la prosperità industriale, ricomparsa successivamente dopo la metà del 1848 e giunta al suo apogeo nel 1849 e 1850, era la forza vitale della reazione europea, nuovamente rinvigorita. Ciò era decisivo. Mentre infatti nei primi tre articoli (apparsi nei fascicoli di gennaio, febbraio e marzo della _Neue Rheinische Zeitung_, rivista politico-economica, Amburgo, 1850) traspare ancora l’attesa d’una prossima risurrezione d’energia rivoluzionaria, l’illusione è rotta una volta per sempre dalla rassegna storica, scritta da Marx e da me nell’ultimo fascicolo doppio (maggio-ottobre) pubblicato nell’autunno del 1850: «Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito ad una nuova crisi. Quella però è altrettanto certa quanto questa.» Ma questo era altresì l’unico mutamento sostanziale che si dovette introdurre. Quanto al significato attribuito agli avvenimenti nei capitoli anteriori e al loro nesso causale ivi posto in sodo, nulla era assolutamente da mutare, come è provato dalla continuazione del racconto dal 10 marzo all’autunno del 1850, pubblicata nella medesima rassegna e ch’io perciò inserii, come quarto articolo, nella presente ristampa. La seconda prova fu ancor più decisiva. Tosto dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone del 2 dicembre 1851, Marx rifece la storia di Francia dal febbraio 1848 fino a quell’avvenimento, che provvisoriamente chiude il periodo rivoluzionario (_Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte_, 3.ª edizione tedesca, Amburgo, Meissner, 1885). In quell’opuscolo è nuovamente trattato, sebbene più succintamente, il periodo svolto nel nostro scritto. Si confronti la seconda esposizione, scritta sotto la luce di quel fatto decisivo avvenuto un anno più tardi, colla presente e si troverà che l’autore aveva ben poco da cangiare. Ciò che al nostro scritto dà un’importanza affatto speciale, è il trovarvisi per la prima volta enunciata la formula, in cui consentono i partiti operai di tutti i paesi del mondo per esprimere sinteticamente la nuova forma economica da essi reclamata: l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte della società. Nel secondo capitolo, a proposito dei «diritto al lavoro», che viene definito «la goffa formula, in cui primitivamente si concentrano i reclami rivoluzionari del proletariato», è detto: «ma dietro ai diritto al lavoro sta la presa di possesso del capitale; dietro alla presa di possesso del capitale, _l’appropriazione dei mezzi di produzione_, il loro assoggettamento alla classe lavoratrice associata, e conseguentemente la abolizione del lavoro salariato, come pure dei capitale e del loro rapporto di scambio.» Qui adunque — per la prima volta — si rinviene formulata la proposizione, che distingue nettamente il moderno socialismo operaio così da tutte le varie tinte del socialismo feudale, borghese, piccolo-borghese, ecc., come pure dalla confusa comunanza di beni del comunismo operaio utopistico e primitivo. Se più tardi Marx estese la formula all’appropriazione altresì dei mezzi di scambio, tale amplificazione, che d’altronde si imponeva da sè dopo il Manifesto comunista, non esprimeva che un corollario della proposizione principale. Recentemente, in Inghilterra, alcuni saggi uomini vi appiccicarono eziandio l’assegnazione alla società dei «mezzi di distribuzione». Sarebbe difficile per questi signori il dire quali siano siffatti mezzi di distribuzione economici, diversi dai mezzi di produzione e di scambio, quand’anche vogliano alludere ai mezzi politici di distribuzione, come imposte, assistenza dei poveri, e compresa la tenuta di Sachsenwald ed altre dotazioni. Ma, in primo luogo, questi sono già anche ora mezzi di distribuzione in possesso della collettività, dello Stato o del Comune; ed, in secondo luogo, noi vogliamo appunto la loro abolizione. * * * Allorchè scoppiò la rivoluzione di febbraio, tutti noi ci trovavamo, quanto ai nostri criterî sulle condizioni ed il corso dei moti rivoluzionari, sotto l’influenza dell’esperienza storica passata, ed in ispecialità di quella della Francia. Era quest’ultima appunto, che dal 1789 aveva dominato tutta la storia europea e da essa era nuovamente partito anche ora il segnale del rivolgimento generale. Cosicchè era naturale ed inevitabile che le nostre elucubrazioni sulla natura e sul corso della rivoluzione «sociale», proclamata in Parigi nel febbraio del 1848, della rivoluzione cioè del proletariato, fossero sensibilmente colorite dalle rimembranze dei modelli del 1789-1830. Poi, allorchè l’eco della sollevazione di Parigi si ripercosse nelle rivolte vittoriose di Vienna, di Milano e di Berlino; allorchè tutta l’Europa, fino alla frontiera russa, fu travolta nel movimento; allorchè indi, nel giugno, s’ingaggiò a Parigi la prima grande battaglia pel potere tra proletariato e borghesia; allorchè persino la vittoria della propria classe scosse talmente la borghesia di tutti i paesi, da indurla a rifugiarsi di bel nuovo nelle braccia della reazione monarchico-feudale, pur appena abbattuta, non poteva sussistere per noi, date le condizioni d’allora, alcun dubbio che la gran lotta decisiva fosse scoppiata e dovesse venir combattuta in un unico, lungo e fortunoso periodo rivoluzionario, ma potesse chiudersi solamente colla definitiva vittoria del proletariato. Dopo le sconfitte del 1849, noi non partecipavamo affatto alle illusioni della democrazia volgare, aggruppata intorno ai governi provvisori _in partibus_ dell’avvenire. Questa calcolava sovra un’immediata e decisiva vittoria del «popolo» sugli «oppressori»; noi sovra una lunga lotta, dopo eliminati gli «oppressori», fra gli elementi antagonistici, che si celavano appunto in questo «popolo». La democrazia volgare attendeva la novella esplosione dall’oggi al domani; noi dichiaravamo già nell’autunno del 1850 che almeno il primo atto del periodo rivoluzionario era chiuso e che nulla era da aspettare fino allo scoppio di una nuova crisi economica mondiale. Per la qual cosa noi fummo posti al bando come traditori della rivoluzione da quegli stessi, che più tardi, quasi senza eccezione, fecero la loro pace con Bismarck — in quanto Bismarck trovò che ne valesse la pena. Anche a noi però la storia diede torto, svelandoci l’illusione dei nostri criteri d’allora. Andò anzi più in là; non solo demolì il nostro passato errore, ma sconvolse interamente anche le condizioni entro le quali il proletariato è chiamato a combattere. Il metodo di combattimento del 1848 è in oggi antiquato sotto tutti gli aspetti ed è questo un punto che merita di venire più davvicino esaminato, poichè se ne presenta l’occasione. Tutte le passate rivoluzioni ebbero per effetto lo spodestamento d’una determinata dominazione di classe per mezzo d’un’altra; senonchè, sino ad oggi, tutte le classi dominanti non erano che piccole minoranze in relazione alla massa popolare dominata. Così, rovesciata una minoranza dominante, un’altra la sostituiva, impadronendosi del timone dello Stato e modellava le istituzioni di questo a seconda dei propri interessi. Era, costantemente, il gruppo della minoranza maturo al potere e chiamatovi dalle condizioni dell’evoluzione economica; ed appunto perciò, ed unicamente perciò, avveniva che la maggioranza sottomessa o parteggiasse nel rivolgimento a favore di quella, o per lo meno vi si acconciasse tranquillamente. Ma, ove si prescinda dal contenuto concreto di tutte codeste rivoluzioni prese singolarmente, la loro forma comune consisteva in ciò, che erano tutte rivoluzioni di minoranze. Anche allorquando la maggioranza vi prendeva parte, ciò accadeva — coscientemente o no — solamente a servigio d’una minoranza, la quale, approfittando di tal fatto, od anche approfittando dello stesso contegno passivo della maggioranza, riesciva a darsi l’aria di rappresentare tutto intero il popolo. Dopo il primo grande successo, la minoranza vittoriosa di regola si scindeva; una metà si teneva soddisfatta dell’ottenuto, l’altra voleva andare ancor più innanzi ed elevava nuove pretese che erano, almeno in parte, anche nell’interesse reale od apparente della gran massa popolare. Codeste rivendicazioni più radicali ebbero anche, in taluni casi, effetto pratico, spesso però solo per il momento; chè il partito più moderato ripigliava il sopravvento e ciò ch’erasi appena guadagnato ritornava a perdersi od in tutto od in parte; i vinti gridavano allora al tradimento, od imputavano la sconfitta al caso. La realtà però consisteva per lo più in questo, che le conquiste della prima vittoria venivano assicurate solamente dalla seconda vittoria del partito più radicale; raggiunta la quale e soddisfatta con essa la necessità del momento, i radicali ed i loro successi si eclissavano di bel nuovo dalla scena. Tutte le rivoluzioni dell’età moderna, a cominciare dalla grande rivoluzione inglese del secolo XVII, presentavano questi tratti, che sembravano inseparabili da ogni lotta rivoluzionaria. E sembravano altresì adattabili alle lotte del proletariato per la sua emancipazione; tanto più che precisamente nel 1848 ben pochi erano coloro che, almeno in certa misura, comprendessero qual era la direzione in cui questa emancipazione si potesse cercare. Persino le stesse masse proletarie della stessa Parigi, e anche dopo la vittoria, erano perfettamente all’oscuro circa la via da battere. Eppure quivi il movimento era istintivo, spontaneo, irresistibile. Non era appunto una situazione cotesta in cui una rivoluzione doveva riescire, condotta com’era bensì da una minoranza, ma, questa volta, non nell’interesse della minoranza, ma nel più genuino interesse della maggioranza? Se in tutti i periodi rivoluzionarî più lunghi, le grandi masse popolari si lasciavano con tanta facilità guadagnare semplicemente con speciosi miraggi dalle minoranze che le spingevano avanti, come spiegarsi ch’esse fossero meno accessibili ad idee, che non erano se non il preciso riflesso della loro situazione economica, se non la chiara, ragionata espressione dei loro bisogni, tuttora incompresi e solo vagamente da loro sentiti per la prima volta? In ogni modo cotesto spirito rivoluzionario delle masse aveva quasi sempre, e per lo più in brevissimo tempo, lasciato il posto allo spossamento e persino al rinculo nella via opposta, non appena, svanita l’illusione, era subentrato il disinganno. Ma qui non si trattava di miraggi, sibbene di soddisfazione degli interessi più speciali alla grande maggioranza; interessi dei quali certamente questa non aveva allora per nulla un criterio chiaro, ma che dovevano nettamente saltarle agli occhi nel corso dell’azione pratica. E se ora, com’è provato da Marx nel terzo articolo, nella primavera del 1850 lo sviluppo della repubblica borghese, sorta dalla rivoluzione «sociale» del 1848, concentrava il potere effettivo nelle mani della grande borghesia — d’opinioni per giunta monarchiche — e, viceversa, aveva raggruppato tutte le altre classi sociali, contadini come piccoli borghesi, intorno al proletariato, in guisa che durante e dopo la vittoria comune, non la grande borghesia, ma il proletariato, ammaestrato dall’esperienza, avrebbe dovuto divenire l’elemento decisivo — non si affacciava forse senz’altro la prospettiva che la rivoluzione della minoranza avesse a convertirsi in rivoluzione della maggioranza? La storia diede torto a noi ed a tutti coloro che pensavano egualmente. Essa mostrò chiaramente che lo stato dell’evoluzione economica nel continente era tuttora troppo immaturo per la soppressione della produzione capitalistica; e lo provò colla rivoluzione economica, che nel 1848 avvolse tutto il continente e naturalizzò davvero, per la prima volta, la grande industria in Francia, Austria, Ungheria, Polonia e da ultimo in Russia, facendo della Germania un paese industriale di primo ordine — e tutto ciò su base capitalistica e capace quindi nell’anno 1848 di ben maggiore espansione. Fu però precisamente cotesta rivoluzione industriale, che cominciò a spargere ovunque la luce sui rapporti delle classi, che eliminò una moltitudine di esistenze intermedie, provenienti dal periodo della manifattura e nell’Europa orientale anche dalle corporazioni di mestiere, che creò una vera borghesia ed un vero proletariato della grande industria, sospingendoli alla testa dell’evoluzione sociale. Ciò fu però causa che la lotta di coteste due grandi classi, svoltasi nel 1848, fuori dell’Inghilterra, solamente a Parigi, tutt’al più in qualche grande centro industriale, si estendesse per la prima volta su tutta l’Europa, raggiungendo un’intensità, quale nel 1848 non poteva ancor concepirsi. Allora, i numerosi ed oscuri evangelii di setta colle loro panacee; oggi l’unica teoria universalmente riconosciuta, di chiarezza diafana, formulante con precisione gli ultimi fini della lotta, la teoria di Marx. Allora le masse a seconda dei luoghi e degli Stati, distinte e diverse, legate solo dal sentimento dei comuni dolori, mancanti affatto di sviluppo, sbalestrate qua e là in lor propria balìa, tra l’entusiasmo e la disperazione; oggi l’unico grande esercito internazionale di socialisti, che si avanza irresistibilmente, e cresce ogni giorno di numero, di organizzazione, di disciplina, di sagacia, di certezza della vittoria. Se adunque questo possente esercito del proletariato non ha tuttora raggiunta la mèta, se, ben lungi dall’ottenere la vittoria da una sola grande battaglia, deve in una lotta rude e tenace avanzarsi adagio di posizione in posizione, ciò dimostra, una volta per sempre, l’impossibilità nel 1848 di far dipendere la trasformazione sociale da un semplice colpo di sorpresa. Una borghesia, divisa in due frazioni dinastico-monarchiche, la quale però reclamava, avanti ogni cosa, quiete e sicurezza pei suoi affari pecuniarî; e, di fronte ad essa, un proletariato vinto sì, ma pur sempre minaccioso, intorno a cui andavano ognor più aggruppandosi piccoli borghesi e contadini, — pericolo permanente d’uno scoppio violento, senza la prospettiva per di più di una soluzione definitiva — tale era la situazione quasi predisposta pel colpo di Stato del pretendente pseudo-democratico, del terzo Luigi Bonaparte. Coll’aiuto dell’esercito, costui pose fine, nel 2 dicembre 1851, a questa situazione così tesa, ed assicurò all’Europa la tranquillità interna, per beatificarla, in compenso, con una nuova èra di guerre. Il periodo delle rivoluzioni dal basso era provvisoriamente chiuso; seguì un periodo di rivoluzioni dall’alto. Il colpo di reazione imperialista del 1851 fornì una novella prova dell’immaturità delle aspirazioni proletarie in quell’epoca. Ma da esso appunto stavano per sorgere le condizioni, che dovevano portar quelle a maturanza. La quiete interna assicurò un pieno sviluppo al nuovo slancio dell’industria; la necessità di dare occupazione all’esercito e di respingere le correnti rivoluzionarie dal di fuori diede vita alle guerre, colle quali Bonaparte, sotto il pretesto di far prevalere il «principio di nazionalità», arraffava annessioni per la Francia. Il suo imitatore, Bismarck, adottò egual politica per la Prussia, facendo il suo colpo di Stato, la sua rivoluzione dall’alto, nel 1866, contro la Confederazione germanica e l’Austria, non meno che contro la Camera prussiana, con cui trovavasi in conflitto. Ma l’Europa era troppo piccola per due Bonaparte e così volle l’ironia della storia che Bismarck abbattesse Bonaparte e che re Guglielmo di Prussia ristabilisse non solo l’impero piccolo-tedesco, ma anche la repubblica francese. Il risultato generale fu però che l’indipendenza e l’unità interna delle grandi nazioni in Europa, ad eccezione della Polonia, divennero un fatto. Certo entro limiti relativamente modesti, ma sempre, ad ogni modo, fino al punto di togliere ormai allo sviluppo della classe lavoratrice il principale imbarazzo: quello che veniva dalle complicazioni nazionali. I becchini della rivoluzione del 1848 erano divenuti i suoi esecutori testamentari. E accanto ad essi sorgeva digià minaccioso l’erede del 1848, il proletariato, nell’_Internazionale_. Dopo la guerra del 1870-71, Bonaparte scompare dalla scena ed a Bismarck, compiuta la sua missione, non rimane che ritornarsene semplice _Junker_. La chiusura del periodo, tuttavia, è rappresentata dalla Comune di Parigi. Un tentativo malevolo di Thiers di privare dei fucili la guardia nazionale di Parigi provocò una rivolta vittoriosa. Ancora una volta fu dimostrato che a Parigi non è più possibile rivoluzione, che non sia proletaria. Il potere cadde in grembo alla classe operaia, dopo la vittoria, affatto spontaneamente, senza la menoma opposizione. E fu dimostrata di bel nuovo, vent’anni dopo l’epoca illustrata nel presente scritto, l’impossibilità, pur allora, del dominio della classe operaia. Da una parte la Francia lasciò Parigi nell’impiccio, stando a vederla sanguinare sotto le bombe di Mac-Mahon; dall’altra la Comune si consumò nella lotta infeconda dei due partiti che la scindevano, e cioè dei Blanquisti (maggioranza) e dei Proudhonisti (minoranza), ignari ambidue del da farsi. E, come nel 1848 il colpo di mano, così rimase infeconda nel 1871 la gratuita vittoria. Colla Comune parigina si credeva definitivamente sepolto il proletariato combattente. Ma, tutt’all’opposto, è dalla Comune e dalla guerra franco-germanica che data il suo slancio più poderoso. La completa rivoluzione dell’arte guerresca, avvenuta coll’arruolamento di tutta la popolazione atta alle armi in eserciti, numerosi oramai di milioni d’uomini, e con le armi da fuoco, i proiettili e le materie esplosive di efficacia straordinaria, sollecitò in primo luogo la fine del periodo delle guerre bonapartiste, assicurando l’evoluzione pacifica dell’industria, mentre rende impossibile ogni altra guerra, che non sia una guerra mondiale d’inaudito orrore e di conseguenze assolutamente incalcolabili. In secondo luogo, grazie alle spese militari elevantisi in progressione geometrica, spinse le imposte ad un’altezza spaventosa e, come conseguenza, le classi popolari più povere nelle braccia del socialismo. L’annessione dell’Alsazia-Lorena, la più immediata causa della folle gara negli armamenti, poteva istigare sciovinisticamente la borghesia francese e la tedesca l’una contro l’altra; per gli operai dei due paesi essa divenne invece un nuovo legame della loro unione. E l’anniversario della Comune di Parigi fu il primo giorno di festa generale per tutto il proletariato. La guerra del 1870-71 e la disfatta della Comune avevano, giusta la predizione di Marx, spostato, pel momento, il centro di gravità del movimento operaio europeo dalla Francia in Germania. Alla Francia occorrevano, come si comprende di leggieri, anni ed anni per rifarsi del salasso del maggio 1871. In Germania, all’incontro, dove l’industria, appunto allora sbocciata come in una serra calda sotto la benedizione dei miliardi francesi, si sviluppava sempre più intensivamente, la democrazia socialista crebbe con maggiore intensità e resistenza. Grazie all’intelligenza, con cui gli operai tedeschi seppero usare del suffragio universale introdotto nel 1866, si manifestò a tutto il mondo in cifre inoppugnabili il portentoso incremento del partito: 1871: 102.000, 1874: 352.000, 1877: 493 000 voti democratico-socialisti. Venne poscia la superiore sanzione di cotesti progressi, sotto forma della legge contro i socialisti; il partito fu momentaneamente disperso, il numero dei voti cadde nel 1881 a 312 000. Ma la decisa rivincita non tardò, ed ecco, sotto la pressione della legge eccezionale, senza stampa, senza organizzazione pubblica, senza diritto di associazione e di riunione, ecco incominciare davvero l’enorme scala ascendente: 1884: 550.000, 1887: 763.000, 1890: 1.427.000 voti. Allora il pugno del governo fu preso da paralisi. La legge contro i socialisti scomparve, il numero dei voti socialisti si elevò a 1.787.000, ad oltre un quarto, cioè, dei voti complessivi. Il governo e le classi dirigenti avevano esaurito tutti i loro mezzi, senza vantaggio, senza scopo, senza successo. Le prove palpabili della loro impotenza, che i funzionari, dal guardiano notturno al cancelliere dell’impero, avevano dovuto subirsi, e ciò da parte degli spregiati operai! — codeste prove si traducevano in cifre di milioni. Lo Stato si trovava alla fine della sua musica, gli operai appena alle prime battute della loro. Ma, gli operai tedeschi avevano reso alla loro causa ancora un secondo gran servizio. Il primo l’avevano dato collo stesso fatto di esistere qual partito socialista, il più forte, il più disciplinato, il più rapido nell’espansione. Essi avevano poscia munito i compagni di ogni paese, d’una nuova arma, delle più affilate, indicando loro in qual modo si maneggia il suffragio universale. Il suffragio universale esisteva in Francia già da lunga pezza, ma era caduto in discredito, per l’abuso che ne aveva fatto il regime bonapartista. Dopo la Comune non era apparso un partito operaio che se ne giovasse. In Ispagna il suffragio universale esisteva pure dal tempo della repubblica, ma l’astensione dal voto vi era stata sempre la regola di tutti i partiti serî di opposizione. Anche le esperienze del suffragio universale nella Svizzera erano tutto, fuorchè un incoraggiamento per un partito operaio. Gli operai rivoluzionarî dei paesi latini avevano preso l’abitudine di considerare il diritto di voto quale una mistificazione, una trappola del governo. In Germania fu tutt’altro. Già il Manifesto comunista aveva proclamato essere la conquista del suffragio universale, ossia della democrazia, uno dei primi e più importanti compiti del proletariato militante, e Lassalle aveva nuovamente raccolto codesta rivendicazione. Ora, vistosi Bismarck costretto ad introdurlo, perchè trovava in esso l’unico mezzo per interessare le masse popolari ai suoi disegni, i nostri operai lo presero tosto sul serio ed inviarono Augusto Bebel nel primo _Reichstag_ costituente. E da quel giorno utilizzarono il diritto di voto in un modo, che tornò loro di straordinario profitto e che servì di esempio agli operai di tutti i paesi. Il diritto di voto venne da essi, giusta le parole del programma marxista francese, _transformé, de moyen de duperie qu’il a été jusqu’ici, en instrument d’émancipation_, — trasformato da istrumento d’inganno, qual era stato sin qui, in istrumento d’emancipazione. E quand’anche il suffragio universale non avesse presentato altro vantaggio che la possibilità di contarci ogni tre anni; che di essere divenuto il miglior nostro mezzo di propaganda (poichè all’inaspettato e rapido salire del numero dei voti, periodicamente constatato, corrisponde in pari misura l’aumentare della fede nella vittoria da parte degli operai e lo sgomento nei nemici); che di averci dato una precisa idea della nostra forza come di quella di tutti i partiti avversarî, munendoci così del miglior regolatore della nostra azione, in modo da preservarci sia da pusillanimità, sia da temerità intempestive, — sarebbe già un grande vantaggio. Ma esso fece assai di più. Nella propaganda elettorale ci fornì un mezzo, non secondo ad alcun altro, di venire a contatto colle masse là, ove esse si trovano ancor lunge da noi, di costringere tutti i partiti a difendere le loro opinioni e le loro azioni di fronte ai nostri attacchi, davanti a tutto il popolo; ed insieme aprì ai nostri rappresentanti nel _Reichstag_ una tribuna, donde è loro concesso di parlare contro i loro avversarî del parlamento ed alle masse di fuori con ben altra autorità e libertà di quelle consentite alla stampa e nelle riunioni. Di qual aiuto fu mai al Governo ed alla borghesia la loro legge contro i socialisti, se l’agitazione elettorale ed i discorsi socialisti nel _Reichstag_ continuamente la battevano in breccia? Ma i successi ottenuti dall’esercizio del suffragio universale dischiusero al proletariato un metodo affatto nuovo di lotta, che andò sviluppandosi sempre più rapidamente. Si trovò che le istituzioni dello Stato, nelle quali si organizza il dominio della borghesia, offrono altra presa ancora alla classe operaia per combattere le istituzioni stesse. Si partecipò alle elezioni di singoli _Landtag_, municipî, tribunali industriali; si contrastò alla borghesia ogni posto, alla cui conquista potesse concorrere sufficientemente numeroso il proletariato. E per tal modo avvenne che borghesia e governo giunsero a sgomentarsi assai più della azione legale che non dell’illegale del partito operaio, assai più dell’esito delle elezioni, che non di quello delle ribellioni. Perocchè anche qui le condizioni della lotta avevano subito una sostanziale mutazione. La ribellione di vecchio stile, la battaglia delle barricate sulle strade, da cui, fino al 1848, dipendeva dappertutto la decisione definitiva della lotta, era singolarmente invecchiata. Non facciamoci illusione: una vera vittoria dell’insurrezione sull’esercito nella battaglia delle strade, una vittoria come quella d’un esercito su un altro esercito, è uno dei casi meno frequenti. Gli insorti stessi del resto vi contarono sopra ben di rado. Per lo più essi miravano unicamente a paralizzare le truppe con influenze morali, con quelle influenze, cioè, che in un incontro di due eserciti belligeranti non entrano in gioco affatto, o in lievissima misura. Se la cosa riesce, le truppe rifiutano obbedienza, od i comandanti perdono la testa e l’insurrezione è vittoriosa. Se non riesce, la superiorità d’un armamento più perfetto, d’una migliore educazione militare, dell’impiego sistematico delle forze combattenti e della disciplina, tiene alta la prevalenza dell’esercito, anche se inferiore per numero. Il massimo successo, veramente tattico, a cui possa giungere un’insurrezione, sta nell’impianto e nella difesa razionali di ciascuna barricata. Verranno poi a mancare del tutto od in gran parte l’appoggio coordinato, la disposizione ed il movimento delle riserve, in breve la cooperazione e coesione di ogni singola parte, così indispensabili alla difesa, non pur d’un intera grande città, ma d’un semplice suo quartiere; per non parlar poi della concentrazione delle forze combattenti sovra un punto decisivo. In questo caso prepondera nel combattimento la forma della difesa passiva, riducendosi l’offensiva qua e là, e solamente in via d’eccezione, a qualche assalto d’avamposti od a qualche attacco di fianco, e limitandosi sempre unicamente all’occupazione di posizioni abbandonate dalle truppe nella loro ritirata. Si aggiunga che l’esercito ha a propria disposizione l’artiglieria e corpi di genio completamente equipaggiati ed esercitati; mezzi di guerra, di cui gli insorti, in quasi tutti i casi, difettano del tutto. Niuna meraviglia, perciò, se persino le lotte delle barricate, condotte col più grande eroismo — a Parigi nel giugno 1848, a Vienna nell’ottobre 1848, a Dresda nel maggio 1849 — si chiusero colla disfatta dell’insurrezione, quante volte i comandanti delle forze venute a combatterla si mantennero immuni da riguardi politici, agendo con criterî meramente militari e potendo contare sui loro soldati. I numerosi successi degli insorti fino al 1848 sono dovuti a cause molto varie. Nel luglio 1830 e nel febbraio 1848 a Parigi, come pure nella maggior parte delle battaglie di strada spagnuole, tra gli insorti e l’esercito eravi una guardia civica, che o prendeva direttamente le parti dell’insurrezione, o col proprio contegno tiepido ed irresoluto comunicava pari indecisione anche alle truppe, fornendo, per di più, armi all’insurrezione. Là, ove codesta guardia civica si decideva senz’altro contro l’insurrezione, come a Parigi nel giugno 1848, la sconfitta di quest’ultima era certa. A Berlino nel 1848, la vittoria del popolo fu dovuta parte al ragguardevole aumento di nuove forze combattenti durante la notte ed il mattino del 19, parte all’esaurimento ed al cattivo vettovagliamento delle truppe, parte infine al rilassamento del comando. Ma in tutti i casi in cui si vinse fu perchè le truppe si rifiutarono di obbedire, o perchè entrò nei capi militari la indecisione, o perchè essi ebbero le mani legate. Persino adunque nel periodo classico delle battaglie della strada, la barricata aveva un’azione assai più morale che altro. Era un mezzo per scuotere la resistenza dell’esercito e, quando si riesciva a tener duro fino a tal risultato, la vittoria non mancava; se no, era la sconfitta. Le eventualità favorevoli si trovavano, del resto, già nel 1849, discretamente in ribasso. La borghesia si era gettata dappertutto dalla parte dei governi; erano la «coltura e la proprietà», che salutavano ed ospitavano l’esercito diretto contro le insurrezioni. La barricata aveva perduto il suo potere magico; il soldato non vedeva più dietro ad essa «il popolo», ma ribelli, mestatori, saccheggiatori, gente che voleva «spartire», la feccia della società; l’ufficiale aveva col tempo acquistato esperienza della tattica per le battaglie della strada, non marciava più spensierato ed alla scoperta contro l’improvvisata trincea, ma la girava attraversando giardini, cortili e case. E, con un po’ d’abilità, vi riesciva nove volte su dieci. Ma da quel tempo ad oggi si verificarono moltissimi altri cangiamenti e tutti a vantaggio della milizia. Se le grandi città s’ampliarono notevolmente, questo avvenne in una maggior misura per gli eserciti. Non si sono quadruplicate dal 1848 ad oggi Parigi e Berlino, ma si sono più che quadruplicate le loro guarnigioni, le quali, per mezzo delle ferrovie, possono raddoppiarsi in meno di ventiquattr’ore, e in quarantott’ore possono diventare eserciti giganteschi. L’armamento di codesta enorme massa di soldati divenne senza confronto più micidiale. Nel 1848 il fucile non rigato, a percussione e caricato a bacchetta; oggi il fucile a retrocarica di piccolo calibro, che tira a distanza quadrupla, ed è dieci volte più preciso e dieci volte più rapido di quello. Allora le palle da cannone massiccie, ed i cartocci a mitraglia; oggi le granate a percussione, di cui una sola basterebbe a mandare in aria la miglior barricata. Allora l’ascia dei pionieri per abbattere i ripari; oggi la cartuccia di dinamite. Dai lato degli insorti, al contrario, le condizioni divennero completamente peggiori. Una sollevazione, che attiri le simpatie di tutti gli strati della popolazione, è difficile che ritorni; nella lotta di classe non è probabile che tutti i ceti medî si raggruppino così esclusivamente intorno al proletariato da far quasi scomparire il partito reazionario schierato intorno alla borghesia. Il «popolo», conseguentemente, si mostrerà sempre diviso, e verrà quindi a mancare quella leva potente, che fu tanto efficace nel 1848. Si unissero pure ai rivoltosi dei soldati usciti di servizio, il loro armamento riesce cosa ancor più difficile. I fucili da caccia e di lusso degli armaiuoli — dato pure che la polizia non li abbia in precedenza resi inservibili coll’asportazione degli ordigni essenziali — non reggono assolutamente al confronto, anche nella lotta da vicino, coi fucili a retrocarica dell’esercito. Fino al 1848 con polvere e piombo ciascuno poteva procurarsi da sè la munizione necessaria; oggi la cartuccia d’ogni fucile è diversa ed ha dovunque sol questo di comune, che è un prodotto della grande industria e quindi impossibile ad improvvisarsi; onde i fucili divengono in grandissima parte inutili senza le munizioni loro specialmente adatte. Finalmente, i nuovi quartieri delle grandi città, costruiti dopo il 1848, che si stendono in vie lunghe, diritte e larghe, paion fatti apposta per dar agio di funzionare ai nuovi cannoni ed ai nuovi fucili. Folle il rivoluzionario che scegliesse di sua volontà, per una lotta di barricate, i nuovi quartieri operai al nord od all’est di Berlino! Comprende ora il lettore per qual motivo le classi dominanti ci vogliono ad ogni costo trascinare colà, dove il fucile spara e fende la sciabola? E perchè ci si accusa oggi di vigliaccheria, quando non scendiamo senz’altro nelle strade, dove siamo in precedenza sicuri della sconfitta? E perchè con tanta insistenza si invoca da noi, che abbiamo una buona volta a prestarci a far la parte di carne da cannone? Questi signori vanno sciupando i loro inviti e le loro provocazioni; no, non siamo così grulli. Potrebbero, con egual ragione, pretendere dal loro nemico nella prossima guerra, ch’ei si allinei secondo i precetti del vecchio Fritz, ovvero a colonne di intere divisioni ad uso Wagram e Waterloo, munito per di più di fucili a pietra. Se le condizioni si mutarono per le guerre popolari, non si mutarono meno per la lotta di classe. È passato il tempo dei colpi di mano, delle rivoluzioni condotte da piccole minoranze coscienti, alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta della completa trasformazione dell’organismo sociale, è necessario avere con sè le masse, già conscie di che si tratti e del perchè del loro concorso. Questo è ciò che la storia degli ultimi cinquant’anni ha insegnato. Ma perchè le masse comprendano ciò che devono fare, è necessario un lungo ed assiduo lavoro, quel lavoro appunto che noi andiamo compiendo con un successo che spinge gli avversarî alla disperazione. Anche nei paesi latini si incomincia sempre più a consentire che l’antica tattica ha d’uopo d’una revisione. Dappertutto si copia l’esempio tedesco dell’esercizio del voto, della conquista delle posizioni che sono alla nostra portata. In Francia, dove pure il terreno è tuttora, dopo oltre cento anni, minato da rivoluzioni sopra rivoluzioni, dove non havvi partito, che non sia rotto alle cospirazioni, alle sollevazioni, ad ogni altra sorta d’azioni rivoluzionarie; in Francia, dove perciò l’esercito del governo è tutt’altro che sicuro, e dove sopratutto le condizioni per le vie di fatto insurrezionali si presentano assai più propizie che in Germania, anche in Francia i socialisti si convincono sempre più che non è loro possibile alcuna vittoria durevole, insino a che non abbiano preventivamente guadagnata la gran massa del popolo, che ivi è costituita dai contadini. Anche in Francia si venne a riconoscere che l’immediato compito del partito è il lavoro lento della propaganda e l’azione parlamentare. Ed i successi non si fecero attendere. Non solamente venne occupata un’intera serie di municipî; ma nella Camera siedono cinquanta socialisti, dai quali furon già abbattuti tre ministeri ed un presidente della repubblica. Anche nel Belgio gli operai conquistarono l’anno scorso il diritto di voto e vinsero in un quarto dei collegi elettorali. In Isvizzera, Italia, Danimarca, persino in Bulgaria e Rumania, i socialisti hanno rappresentanti nei parlamenti. In Austria i partiti sono unanimi nel riconoscere che l’accesso al _Reichsrath_ non può più a lungo esserci conteso. Che vi entreremo è certo; si discute ancora solamente da qual porta. E persino in Russia, allorquando si radunerà il famoso _Zemskij Sobor_, l’assemblea nazionale, contro la quale il giovane Nicolò resiste così inutilmente, anche là possiamo contare con certezza che noi avremo la nostra rappresentanza. S’intende da sè che i nostri compagni dell’estero non rinunciano al loro diritto alla rivoluzione. Il diritto alla rivoluzione è anzi, sovratutto, l’unico vero «diritto storico», l’unico, su cui riposano, senza eccezione, tutti gli Stati moderni, compreso il Meklemburgo, la cui rivoluzione aristocratica fu compiuta nel 1755 con quella «convenzione ereditaria», che ancor oggi costituisce la gloriosa carta del feudalismo. Il diritto alla rivoluzione è così inconcusso nella coscienza universale, che persino il generale von Boguslawski ritrae unicamente da codesto diritto del popolo il diritto al colpo di Stato, da lui rivendicato al suo sovrano. Checchè però accada negli altri paesi, la democrazia socialista tedesca si trova in una situazione speciale ed ha conseguentemente, almeno per ora, un compito speciale. I due milioni d’elettori, ch’essa manda alle urne, col seguito dei non elettori, giovani e donne, formano la massa più numerosa e compatta, il nucleo più decisivo dell’esercito proletario internazionale. Questa massa fornisce già ora oltre un quarto dei voti; e, come è mostrato dalle singole elezioni pel _Reichstag_, pei _Landtag_ dei varî Stati, pei Consigli comunali e pei tribunali industriali, è in continuo aumento. E questo processo si svolge in modo spontaneo, costante, irresistibile ed insieme tranquillo, come un processo naturale. Tutti gli attacchi del governo si palesarono impotenti contro di esso. Già oggi possiamo contare su due milioni e mezzo d’elettori. Avanzando di questo passo, per la fine del secolo avremo conquistato la maggioranza dei ceti sociali medî, dei piccoli borghesi ed altresì dei piccoli proprietarî delle campagne, raggiungendo nel paese il potere preponderante, di fronte al quale dovranno piegarsi, loro buono o malgrado, tutti gli altri poteri. Fare che codesto incremento cammini per la sua via senza interruzioni, insino a che per forza propria sopraffaccia il regime attuale, ecco il nostro compito precipuo. E v’ha un solo mezzo, con cui in Germania potrebbe momentaneamente arrestarsi e forse per alcun tempo sospingersi indietro questo continuo accrescimento delle forze militanti della democrazia socialista: un conflitto in grandi proporzioni coll’esercito, un salasso come quello di Parigi nel 1871. Quand’anche ciò avvenisse, noi riusciremmo, pur sempre, a lungo andare, i vincitori: poichè non basterebbero i fucili a retrocarica di tutta quanta l’Europa e dell’America presi insieme a spazzare dal mondo un partito, che si conta a milioni. Ma l’evoluzione normale sarebbe inceppata, il momento decisivo sarebbe ritardato e ci costerebbe più gravi sagrificî. L’ironia della storia mondiale capovolge ogni cosa. Noi, i «rivoluzionarî», i «sovversivi», noi caviamo ben maggior profitto dai mezzi legali che dagli illegali e dalle vie di fatto. I partiti dell’ordine, com’essi si chiamano, trovano il loro abisso in quello stesso ordinamento legale, che si son dati. Ridotti alla disperazione, gridano con Odilon Barrot: _la légalité nous tue_, la legalità è la nostra morte; la legalità, che invece a noi tende i muscoli e ravviva il sangue, quasi promettitrice di vita eterna. E se noi non commetteremo l’insigne follía di lasciarci trascinare in una guerra nelle strade per dar loro piacere, non rimarrà ad essi da ultimo che spezzare colle proprie mani questa legalità loro così fatale. Frattanto vanno facendo nuove leggi antisovversive. Di nuovo tutto è capovolto. Codesti odierni fanatici dell’antisovversione, non sono essi i sovvertitori di ieri? Fummo forse noi che evocammo la guerra civile nel 1860? Fummo noi a cacciare il re d’Annover, il principe d’Assia, il duca di Nassau dai loro aviti e legittimi dominî, annettendoceli? E codesti sovvertitori della Confederazione germanica e di tre corone per la grazia di Dio osano ora lagnarsi della sovversione? _Quis tulerit Gracchos de seditione querentes?_ Chi può tollerare che gli adoratori di Bismarck scherniscano la sovversione? Pongano in opera del resto, i loro progetti anti-sovversivi, li peggiorino anche, riducano di gomma elastica il Codice penale, e non otterranno che una prova di più della loro impotenza. Per mettere sul serio alle strette la democrazia socialista, dovranno rivolgersi a ben altri espedienti. Colla sovversione democratico-socialista, alla quale appunto oggi torna così bene di osservare le leggi, essi non possono misurarsi se non colla sovversione del partito dell’ordine, a cui la vita è resa impossibile s’ei non viola le leggi. Il sig. Rossler, il burocratico prussiano, ed il generale prussiano von Boguslawski indicarono loro l’unica via, su cui forse potranno ancora misurarsi cogli operai, che non si lasciano assolutamente adescare alla lotta di strada. Violazione della costituzione, dittatura, ritorno all’assolutismo, _regis voluntas suprema lex_! Coraggio, adunque, signori; non giovano le chiacchiere; qui bisogna far sul serio! Ma non vogliate dimenticare che l’impero tedesco, come anche tutti i piccoli Stati ed in generale tutti gli Stati moderni, è un prodotto del contratto; del contratto in primo luogo dei principi tra loro, poi dei principi col popolo. Se una delle parti lo rompe, esso cade nella sua totalità e l’altro contraente non vi è più vincolato. Sono oramai quasi 1600 anni, e l’impero romano aveva egualmente, ospite incomodo, un pericoloso partito sovversivo, il quale minava la religione e tutti i fondamenti dello Stato; negava per l’appunto che la volontà dell’imperatore fosse la suprema legge; era senza patria, internazionale; si diffondeva per tutte le provincie, dalla Gallia all’Asia, ed anche oltre le frontiere dell’impero. Aveva macchinato lungo tempo sotterra, in segreto, pur sentendosi da un pezzo abbastanza forte per affrontare la luce. Codesto partito sovversivo, noto col nome di cristiano, era altresì fortemente rappresentato nell’esercito; intere legioni erano cristiane. Allorchè erano comandati a far atto d’omaggio alle cerimonie religiose della Chiesa nazionale pagana, i soldati sovvertitori spingevano la temerità sino a piantare speciali distintivi di protesta, delle croci, sui loro elmi. Anche le usuali vessazioni di caserma da parte dei superiori rimanevano senza frutto. L’imperatore Diocleziano non potè più a lungo tollerare in pace che l’ordine, l’obbedienza e la disciplina venissero poste in non cale nel suo esercito. E fece un atto d’energia, poichè non era ancor troppo tardi. Emanò una legge contro i socialisti, intendevo dire contro i cristiani. Furono vietate le riunioni dei sovvertitori, i loro locali di adunanze chiusi od addirittura demoliti, i simboli cristiani, croci, ecc., proibiti, come in Sassonia i fazzoletti rossi. I cristiani vennero dichiarati incapaci a coprire impieghi dello Stato; non potevano nemmanco diventare vicecaporali. E siccome a quel tempo non si avevano a disposizione giudici così bene addomesticati alla «considerazione delle persone» come li presuppone il progetto anti-sovversivo del signor von Köller, si vietò senz’altro ai cristiani di andare ai tribunali a pretendere il loro diritto. Anche codesta legge eccezionale rimase senza effetto. I cristiani la strappavano dalle muraglie per ludibrio; essi anzi avrebbero, in Nicomedia, appiccato il fuoco al palazzo, ove se ne stava l’imperatore. Questi allora si vendicò colla grande persecuzione dei cristiani dell’anno 303 della nostra êra. La quale fu l’ultima di tal genere. Ma fu così efficace, che diciassette anni dipoi l’esercito era composto in gran maggioranza di cristiani ed il successivo autocrate dell’universo impero romano, Costantino, detto dai preti «il grande», proclamò il cristianesimo religione dello Stato. _Londra, 6 marzo 1895._ F. ENGELS. I. DAL FEBBRAIO AL GIUGNO 1848. (_DAL FASCICOLO I_). Ad eccezione d’alcuni pochi capitoli, non v’ha periodo importante degli annali rivoluzionari dal 1848 al 1849, che non porti l’intitolazione: Disfatta della rivoluzione! Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionarî, risultati di rapporti sociali non peranco acuiti in netti antagonismi di classe, — persone, illusioni, fantasie, progetti, da cui non era libero il partito rivoluzionario avanti la rivoluzione di febbraio e da cui non la vittoria di febbraio poteva liberarlo, ma solamente una serie di disfatte. In una parola: il progresso rivoluzionario non si fe’ strada colle tragicomiche sue conquiste immediate ma, al contrario, col sorgere d’una controrivoluzione serrata, possente, col sorgere d’un avversario, nel combattere il quale unicamente fu dal partito dell’insurrezione raggiunta la maturità di partito davvero rivoluzionario. Dimostrare ciò è il tema delle pagine che seguono. _I. La disfatta del giugno 1848._ Dopo la rivoluzione di luglio, accompagnando il suo compare, il duca d’Orléans, in trionfo all’Hôtel-de-Ville, il banchiere Laffitte lasciava cadere questo detto: «D’ora innanzi regneranno i banchieri». Laffitte aveva svelato il mistero della rivoluzione. Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietarî di miniere di carbone e di ferro e proprietarî di foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi; insomma la cosidetta aristocrazia della finanza. Era essa che sedeva sul trono, che dettava leggi nelle Camere, che dispensava i posti governativi, dal ministero fino allo spaccio di tabacchi. La borghesia veramente industriale formava una parte dell’opposizione ufficiale; era cioè rappresentata nelle Camere solo come minoranza. Tanto più decisiva se ne presentava l’opposizione, quanto più netto era lo sviluppo del dominio esclusivo dell’aristocrazia finanziaria e quanto più essa medesima, soffocate nel sangue le sommosse del 1832, 1834 e 1839, immaginava d’avere assicurato il proprio dominio sulla classe operaia. Grandin, fabbricante di Rouen, il portavoce più fanatico della reazione borghese, sia nell’Assemblea nazionale costituente, sia nella legislativa, era nella Camera dei deputati il più violento avversario di Guizot. Leone Faucher, noto più tardi pei suoi impotenti sforzi di elevarsi a Guizot della controrivoluzione francese, conduceva, negli ultimi tempi di Luigi Filippo, una guerra letteraria per l’industria contro la speculazione ed il suo caudatario, il governo. Bastiat agitava, in nome di Bordeaux e di tutta la Francia viticola, contro il sistema imperante. La piccola borghesia, in ogni sua gradazione, ed egualmente la classe dei contadini, erano del tutto escluse dal potere politico. S’incontravano finalmente nell’opposizione ufficiale, oppure affatto al di fuori del _pays légal_, i rappresentanti ideologi e gli oratori delle accennate classi, i loro scienziati, avvocati, medici, ecc.; in una parola, le loro così dette «capacità». Le necessità della propria finanza ponevano la monarchia di luglio all’intima dipendenza dell’alta borghesia; dipendenza, che divenne la sorgente inesauribile d’un crescente disagio della finanza. Impossibile subordinare l’amministrazione dello Stato all’interesse della produzione nazionale, senza ristabilire l’equilibrio nel bilancio, l’equilibrio tra le uscite e le entrate dello Stato. Ed in qual modo ristabilire quest’equilibrio, senza limitare le spese dello Stato, ossia senza vulnerare interessi, ch’erano altrettanti sostegni del sistema dominante, e senza riordinare la ripartizione delle imposte, ch’è quanto dire senza addossare all’alta borghesia stessa una parte ragguardevole del peso delle imposte? L’indebitamento dello Stato era ben piuttosto un interesse diretto della frazione della borghesia, governante e legiferante per mezzo della Camera. Il deficit dello Stato: ecco propriamente il vero oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Dopo ciascun anno, un nuovo deficit. Dopo il decorso di quattro o cinque anni, un nuovo prestito. Ed ogni nuovo prestito forniva all’aristocrazia finanziaria nuova occasione a truffare lo Stato, tenuto artificiosamente sospeso nelle ansie della bancarotta ed obbligato così a contrattare coi banchieri nelle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito offriva una seconda occasione a svaligiare il pubblico, che impiega i suoi capitali in rendita dello Stato, con operazioni di Borsa, al cui mistero erano iniziati governo e maggioranza della Camera. Erano sovratutto la situazione oscillante del credito dello Stato ed il possesso dei segreti di Stato, che davano ai banchieri, non meno che ai loro affiliati nelle Camere e sul trono, la possibilità di provocare straordinarie, improvvise oscillazioni, il cui risultato costante doveva essere la rovina d’una massa di capitalisti più piccoli e l’arricchimento favolosamente rapido dei giocatore in grande. L’essere il deficit dello Stato un diretto interesse della frazione dominante della borghesia, spiega come gli stanziamenti ordinarî dello Stato negli ultimi anni del regime di Luigi Filippo superassero di gran lunga il doppio di quelli sotto Napoleone, raggiungendo annualmente la somma di ben quasi 400 milioni di franchi, mentre la media esportazione complessiva della Francia elevavasi a 750 milioni di franchi. Le enormi somme, che per tal modo scorrevano per le mani dello Stato, davano oltracciò origine a loschi appalti, a corruzioni, a frodi, a bricconate d’ogni specie. Lo svaligiamento dello Stato, quale avveniva in grande coi prestiti, si ripeteva al minuto nei lavori dello Stato. Il rapporto tra la Camera e il governo si ramificava in rapporti tra le singole amministrazioni ed i singoli imprenditori. Al pari degli stanziamenti dello Stato e dei prestiti dello Stato, la classe dominante sfruttava le costruzioni ferroviarie. Allo Stato le Camere addossavano i pesi principali, assicurandone i frutti d’oro all’aristocrazia finanziaria speculatrice. Si accumulavano gli scandali nella Camera dei deputati, allorchè il caso fe’ venire a galla che tutti quanti i membri della maggioranza, alcuni dei ministri compresi, partecipavano come azionisti a quelle medesime costruzioni ferroviarie, ch’essi facevano poi, in qualità di legislatori, intraprendere a spese dello Stato. Non v’era, all’incontro, piccola riforma finanziaria, che non naufragasse di fronte all’influenza dei banchieri. Così, ad esempio, la riforma postale. Rothschild protestò. Poteva lo Stato assottigliare cespiti d’entrata, donde doveva ricavare gli interessi del suo debito sempre crescenti? La monarchia di luglio non era altro se non una Compagnia d’azioni per lo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, i cui dividendi si ripartivano fra ministri, Camere, 240.000 elettori ed il loro seguito. Luigi Filippo era il direttore di questa Compagnia, vero Roberto Macaire sul trono. Commercio, industria, agricoltura, navigazione, questi interessi della borghesia industriale, dovevano, sotto tal sistema, trovarsi esposti permanentemente a pericolare e intisichire. _Gouvernement à bon marché_, aveva essa scritto nei giorni di luglio sulla propria bandiera. Mentre l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, guidava l’amministrazione dello Stato, disponeva di tutti i pubblici poteri organizzati, dominava la pubblica opinione coi fatti e colla stampa, andava ripetendosi in ogni sfera, dalla Corte al _Café-Borgne_, l’identica prostituzione, l’identica frode svergognata, l’identica libidine di arricchire non mediante la produzione, ma mediante la rapina dell’altrui ricchezza già creata; erompeva cioè alla superficie della società borghese la tolleranza più sfrenata, più insistentemente in attrito colle stesse leggi borghesi, degli appetiti malsani ed abbietti, nei quali trova la sua natural soddisfazione la ricchezza scaturita dal gioco, e il godimento diventa _crapuleux_, e denaro e lordura e sangue scorrono insieme. L’aristocrazia finanziaria, e nel suo modo di acquisto o nei suoi godimenti, non è che la risurrezione del proletariato dei pezzenti sulle altezze della società borghese. E le frazioni non dominanti della borghesia francese gridarono: Corruzione! Il popolo gridò: _à bas les grands voleurs! à bas les assassins!_, allorchè nel 1847 s’impiantarono pubblicamente sulle più elevate scene della società borghese quegli stessi spettacoli, che sono di regola rappresentati dal proletariato dei pezzenti nei bordelli, negli stabilimenti dei poveri e dei pazzi, dinanzi al giudice, nei bagni e sul patibolo. La borghesia industriale vide in pericolo i proprî interessi; la piccola borghesia trovavasi urtata nella sua morale, la fantasia popolare si rivoltava, Parigi era inondata da libelli, — _la dynastie Rothschild, les juifs rois de l’époque, etc._, — nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria veniva, con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato. _Rien pour la gloire!_ La guerra non rende nulla! _la paix partout et toujours!_ La guerra fa abbassare il corso del tre e quattro per cento!; così aveva scritto sulla sua bandiera la Francia degli ebrei di Borsa. La sua politica estera andò per tal modo a smarrirsi in una serie di mortificazioni del sentimento nazionale francese, la cui irritazione divenne acutissima quando, coll’incorporazione di Cracovia all’Austria, venne consumato l’assassinio della Polonia e Guizot entrò attivamente nella guerra del _Sonderbund_ svizzero, a favore della Santa Alleanza. La vittoria dei liberali svizzeri in questo simulacro di guerra sollevò l’amor proprio dell’opposizione borghese in Francia; la sanguinosa insurrezione del popolo a Palermo agì come una scossa elettrica sulla massa popolare paralizzata e ne risvegliò i grandi ricordi e le passioni rivoluzionarie.[1] Due avvenimenti economici mondiali accelerarono finalmente l’esplosione dell’universale disgusto e fecero maturare il malcontento in rivolta. La malattia delle patate ed i cattivi raccolti del 1845 e 1846 avevano sovreccitato nel popolo il generale fermento. La carestia del 1847 aveva chiamato sulla Francia, come sul resto del continente, conflitti sanguinosi. Ed ecco, di fronte alle orgie svergognate dell’aristocrazia finanziaria, la lotta del popolo pei mezzi primi di sussistenza! Ecco a Buzançais i rivoltosi della fame giustiziati ed a Parigi gli scrocconi satolli strappati ai tribunali dalla famiglia reale! Il secondo grande avvenimento economico, che affrettò lo scoppio della rivoluzione, fu una crisi generale del commercio e dell’industria in Inghilterra; crisi che, già preannunciata nell’autunno del 1845 dalla disfatta in massa degli speculatori d’azioni ferroviarie, e contenuta durante il 1846 da una serie di incidenti, quale l’imminente abolizione dei dazî sui cereali, eruppe finalmente nell’autunno del 1847 colle bancarotte dei grandi commercianti in coloniali di Londra, alle quali tennero immediatamente dietro i fallimenti delle Banche di provincia e la chiusura delle fabbriche nei distretti industriali inglesi. Non erasi ancora avvertita l’influenza di questa crisi nel continente, allorquando scoppiò la rivoluzione di febbraio. La devastazione del commercio e dell’industria, operata dall’epidemia economica, rese ancor più insopportabile l’egemonia dell’aristocrazia finanziaria. In tutta la Francia, la borghesia d’opposizione bandì l’agitazione dei banchetti per una riforma elettorale, la quale doveva conquistarle la maggioranza nelle Camere ed abbattere il ministero della Borsa. A Parigi la crisi ebbe ancora questo speciale effetto di gettare sul commercio interno una massa di fabbricanti e di grandi negozianti, cui le condizioni d’allora chiudevano gli affari sul mercato estero. Essi eressero grandi stabilimenti, la cui concorrenza rovinò in massa droghieri e bottegai. Donde innumerevoli fallimenti in questa parte della borghesia parigina; donde la sua apparizione rivoluzionaria nel febbraio. È noto come Guizot e le Camere risposero ai progetti di riforma con una sfida spoglia d’equivoci, come Luigi Filippo si decise troppo tardi per un ministero Barrot, come si venne al conflitto tra il popolo e l’esercito, come il contegno passivo della guardia nazionale disarmò l’esercito, come la monarchia di luglio dovette cedere il posto ad un governo provvisorio. Il governo provvisorio, sorto sulle barricate di febbraio, rispecchiava, di necessità, nella sua composizione i differenti partiti, che si erano divisa la vittoria. Esso non poteva essere altro che un compromesso delle diverse classi, che unite avevano rovesciato il trono di luglio, ma i cui interessi si trovavano in rapporto ostile tra loro. La gran maggioranza ne era formata da rappresentanti della borghesia: la piccola borghesia repubblicana era rappresentata da Ledru-Rollin e Flocon, la borghesia repubblicana dagli uomini del _National_, l’opposizione dinastica da Cremieux, Dupont de l’Eure, ecc. Due soli rappresentanti possedeva la classe lavoratrice: Luigi Blanc ed Albert. Quanto infine a Lamartine, egli nel governo provvisorio non impersonava alcun vero interesse, alcuna classe determinata; egli era la stessa rivoluzione di febbraio, la collettiva insurrezione colle sue illusioni, la sua poesia, il suo contenuto chimerico e le sue frasi. Del resto, sia per la sua posizione, sia per le sue idee, l’oratore della rivoluzione di febbraio apparteneva alla borghesia. Se Parigi domina la Francia grazie all’accentramento politico, sono gli operai che nei momenti di convulsioni rivoluzionarie dominano Parigi. Primo atto di vita del governo provvisorio fu il tentativo di sottrarsi a tale influenza preponderante con un appello da Parigi ubbriaca alla Francia digiuna. Lamartine contestò ai combattenti delle barricate il diritto di proclamare la repubblica; a ciò era autorizzata solo la maggioranza dei francesi, il cui voto conveniva attendere; non istava al proletariato parigino di macchiare la propria vittoria con un’usurpazione. La borghesia permetteva al proletariato una sola usurpazione — quella del campo di battaglia. Al mezzodì del 25 febbraio, la repubblica non era ancora proclamata, mentre all’incontro tutti i ministeri erano digià ripartiti tra gli elementi borghesi del governo provvisorio ed i generali, i banchieri e gli avvocati del _National_. Senonchè gli operai erano risoluti a non tollerare questa volta una mistificazione del genere di quella del luglio 1830. Erano pronti a riprendere la lotta ed a strappare colla forza delle armi la repubblica Tale fu il messaggio recato da Raspail all’Hôtel-de-Ville. In nome del proletariato parigino, egli intimò al governo provvisorio di proclamare la repubblica; ove l’intimazione non fosse eseguita entro due ore, egli sarebbe ritornato alla testa di duecentomila uomini. Non erano ancora freddi i cadaveri dei caduti, non ancora rimosse le barricate, gli operai non ancora disarmati e l’unica forza che loro si potesse opporre era la guardia nazionale. In tale situazione di cose, sbollirono immediatamente le savie considerazioni di Stato e gli scrupoli giuridici di coscienza del governo provvisorio. Non era trascorso il termine di due ore, e già su tutte le muraglie di Parigi brillavano le storiche parole gigantesche: _République française! Liberté, Egalité, Fraternité!_ Colla proclamazione della repubblica sulla base del suffragio universale, si spegneva perfino la memoria degli intenti e dei motivi ristretti, che avevano spinto la borghesia nella rivoluzione di febbraio. Non più alcune poche frazioni della cittadinanza; erano tutte le classi della società francese, che improvvisamente si trovavano rovesciate nella cerchia del potere politico, costrette ad abbandonare i palchi, la platea e la galleria e a recitare tutte insieme sul palco scenico rivoluzionario! Col regno costituzionale, anche il simulacro d’una potenza di Stato autocrate, in antagonismo alla società borghese, veniva a svanire e con esso tutta la serie di lotte secondarie, provocate da quella potenza speciosa! Il proletariato, mentre imponeva al governo provvisorio, e per mezzo del governo provvisorio, alla Francia, la repubblica, si affacciava d’un subito come partito autonomo al proscenio, ma nello stesso tempo si chiamava addosso il giudizio di tutta la Francia borghese. Ciò ch’esso conquistò, fu il terreno alla lotta per la propria emancipazione rivoluzionaria, non certamente quest’emancipazione stessa. Ben piuttosto era destinata la repubblica di febbraio a portare, innanzi tutto, a compimento il dominio della borghesia, mentr’essa lasciava entrare nella cerchia del potere politico, accanto all’aristocrazia della finanza, tutte le classi possidenti. La maggioranza dei grandi proprietarî fondiarî, i legittimisti, venne estratta dal nulla politico, in cui l’aveva relegata la monarchia di luglio. Non invano la _Gazette de France_ aveva agitato in comune coi fogli d’opposizione; non invano Larochejacquelin aveva abbracciato, nella seduta della Camera dei deputati del 21 febbraio, il partito della rivoluzione. Mediante il suffragio universale, i proprietarî nominali costituenti la grande maggioranza dei francesi, i contadini, furono investiti arbitri dei destini della Francia. La repubblica di febbraio lasciò finalmente avanzarsi risoluto il dominio della borghesia, mentre foggiavasi la corona, dietro cui si teneva celato il capitale. Come gli operai nei giorni di luglio avevano combattuto la monarchia borghese, così combatterono nei giorni di febbraio la repubblica borghese. Come la monarchia di luglio era costretta a proclamarsi monarchia circondata da istituzioni repubblicane, così la repubblica di febbraio a proclamarsi repubblica circondata da istituzioni sociali. Il proletariato parigino aveva strappato anche questa concessione. Un operaio, Marche, dettò il decreto, con cui il governo provvisorio appena costituito obbligavasi ad assicurare col lavoro l’esistenza dei lavoratori, a provvedere di lavoro tutti i cittadini, ecc. Ed allorquando, pochi giorni più tardi, esso dimenticò le promesse e sembrò aver perduto di vista il proletariato, una massa di 20.000 operai marciò sull’Hôtel-de-Ville, al grido di: Organizzazione del lavoro! Costituzione d’uno speciale ministero del lavoro! Riluttante e dopo lungo dibattito, il Governo provvisorio nominò una Commissione speciale permanente, incaricata di scogitare i mezzi pel miglioramento delle classi lavoratrici! Questa Commissione venne composta da delegati delle corporazioni di mestiere di Parigi e presieduta da Luigi Blanc ed Albert. Il Lussemburgo le fu assegnato a sede per le adunanze. Così i rappresentanti della classe operaia venivano banditi dal seggio del Governo provvisorio, la parte borghese del quale tenne esclusivamente in sue mani l’effettivo potere dello Stato e le redini dell’amministrazione; ed accanto ai ministeri delle finanze, del commercio, dei lavori pubblici, accanto alla Banca ed alla Borsa, sorse una sinagoga socialista, i cui sommi pontefici, Luigi Blanc ed Albert, avevano la missione di scoprire la terra promessa, di annunciare il nuovo evangelo e di dare occupazione al proletariato. Quasi a distinzione da ogni potere profano dello Stato, non veniva messo a loro disposizione alcun bilancio, alcun potere esecutivo. Era colla testa ch’essi dovevano dar di cozzo nei pilastri fondamentali della società borghese. Mentre il Lussemburgo cercava la pietra filosofale, nell’Hôtel-de-Ville si batteva la moneta avente corso. Eppure, le pretese del proletariato parigino, in quanto soverchiavano la repubblica borghese, non potevano concretarsi altrimenti che nella nebulosità del Lussemburgo. In comune colla borghesia gli operai avevano fatto la rivoluzione di febbraio; a fianco della borghesia cercarono essi di attuare i loro interessi, allo stesso modo con cui anche nel governo provvisorio avevano installato accanto alla maggioranza un operaio. Organizzazione del lavoro! Ma il lavoro salariato, è l’attuale organizzazione borghese del lavoro. Senz’esso, nè capitale, nè borghesia, nè società borghese. Uno speciale ministero del lavoro! Ma i ministeri delle finanze, del commercio, dei lavori pubblici, non sono forse i ministeri borghesi del lavoro? Accanto ad essi un ministero proletario del lavoro non sarebbe stato che un ministero dell’impotenza, un ministero dei pii desiderî, una commissione del Lussemburgo. Come gli operai credevano d’emanciparsi a fianco della borghesia, così ritenevano di poter compiere una rivoluzione proletaria a fianco delle altre nazioni borghesi, entro le pareti nazionali della Francia. Ma i rapporti di produzione francesi sono subordinati al commercio estero della Francia, alla sua situazione nel mercato mondiale ed alle leggi di questo. In qual modo poteva la Francia spezzarli, senza una guerra europea rivoluzionaria, che si ripercuotesse sul despota del mercato mondiale, sull’Inghilterra? Una classe, nella quale si concentrano gli interessi rivoluzionarî della società, non appena si è sollevata, trova immediatamente nella sua stessa situazione il contenuto ed il materiale della propria attività rivoluzionaria: abbatte nemici, adotta le misure suggerite dalla necessità della lotta; poi le conseguenze dei suoi proprî atti la spingono oltre. Essa non subordina il suo còmpito a ricerche teoriche. La classe operaia francese non si trovava a quest’altezza di vedute; ell’era ancora incapace di portare a compimento la propria rivoluzione. Lo sviluppo del proletariato industriale è sovratutto subordinato allo sviluppo della borghesia industriale. È appena sotto il dominio di questa ch’esso incomincia ad acquistare una consistenza diffusa su tutta la nazione, la quale gli permetta di dare un carattere nazionale alla propria rivoluzione; è anzi appena allora ch’esso crea i moderni mezzi di produzione, destinati appunto ad essere altrettanti mezzi della sua redenzione rivoluzionaria. È appena il dominio della borghesia industriale che strappa le radici materiali della società feudale, spianando il terreno, sul quale solamente è possibile una rivoluzione proletaria. L’industria francese è più progredita e la borghesia francese più rivoluzionariamente sviluppata di quelle del restante continente. Ma la rivoluzione di febbraio non era essa diretta immediatamente contro l’aristocrazia finanziaria? Da questa circostanza s’ebbe la prova che non era la borghesia industriale la dominatrice in Francia. La borghesia industriale può dominare solo là, ove l’industria moderna foggia a propria immagine tutti i rapporti di proprietà, e l’industria può raggiungere un simile potere solo là, ov’essa stessa abbia conquistato il mercato mondiale. Ma l’industria francese assicura, in gran parte, a sè medesima il mercato nazionale solo per mezzo di un sistema proibitivo più o meno modificato. Se il proletariato francese, per conseguenza, possiede, nel momento d’una rivoluzione a Parigi, un potere di fatto ed un’influenza, che lo spronano ad uno slancio eccessivo pei suoi mezzi, nella restante Francia esso si trova rinserrato in singoli centri industriali isolati, quasi inavvertito in mezzo al numero preponderante di contadini e piccoli borghesi. La lotta contro il capitale nella sua forma moderna d’evoluzione, nel suo momento d’efflorescenza, la lotta del salariato industriale contro il borghese industriale, è in Francia un fatto parziale, che dopo i giorni di febbraio poteva tanto meno dare un contenuto nazionale alla rivoluzione, in quanto la lotta contro i metodi secondarî di sfruttamento capitalistico, la lotta dei contadini contro l’usura dell’ipoteca, del piccolo borghese contro il grande commerciante, il grande banchiere ed il grande fabbricante, in una parola contro la bancarotta, queste varie forme di lotta trovavansi tuttora inviluppate nell’insurrezione contro l’aristocrazia finanziaria in generale. Nulla di più spiegabile adunque del tentativo da parte del proletariato di attuare il proprio interesse di fianco all’interesse borghese, anzichè farlo valere quale interesse rivoluzionario della società stessa, — e del lasciare cadere la bandiera rossa dinanzi alla tricolore. Gli operai francesi non potevano muovere passo in avanti nè torcere un capello all’ordine borghese prima che il corso della rivoluzione sollevasse la massa della nazione, ch’è tra il proletariato e la borghesia, contadini e piccoli borghesi, contro quest’ordine, contro il dominio del capitale, e li costringesse ad unirsi ai proletarî come a loro avanguardia. Solamente coll’enorme disfatta del giugno potevano gli operai guadagnarsi questa vittoria. Alla Commissione del Lussemburgo, a questa creatura degli operai parigini, rimane il merito d’aver svelato dall’alto d’una tribuna europea il segreto della rivoluzione del secolo decimonono: l’emancipazione del proletariato. Il _Moniteur_ era furibondo quando dovette propagare ufficialmente le «selvagge stravaganze», che sino allora giacevano sepolte negli scritti clandestini dei socialisti e solo di tempo in tempo percuotevano gli orecchi della borghesia, quali leggende lontane, metà paurose, metà ridicole. L’Europa si levò di soprassalto dal suo torpore. Nell’idea dei proletarî, adunque, i quali scambiavano l’aristocrazia finanziaria colla borghesia in generale; nella chimera di valentuomini repubblicani, i quali negavano l’esistenza stessa delle classi, o tutt’al più l’ammettevano come conseguenza della monarchia costituzionale; nelle frasi ipocrite delle frazioni borghesi sin qui escluse dal dominio, il dominio della borghesia era abolito in forza della proclamazione della repubblica. Allora tutti i realisti si metamorfosarono in repubblicani e tutti i milionarî di Parigi in lavoratori. La parola, che corrispondeva a quest’artificiale soppressione dei rapporti di classe, era la _fraternité_, l’universale affratellamento, l’universale fratellanza. Questa bonaria astrazione dall’antagonismo di classe, questo livellamento sentimentale degli interessi contradditorii di classe, questo estatico elevarsi al di sopra della lotta di classe, la _fraternité_, era il vero motto della rivoluzione di febbraio. Ciò che divideva le classi, era un semplice malinteso, e Lamartine battezzava il governo provvisorio nel 24 febbraio: _un gouvernement qui suspende ce malentendu terrible qui existe entre les différentes classes_. Il proletariato parigino gavazzava in questa magnanima ubbriacatura di fraternità. Il governo provvisorio, dal canto suo, una volta costretto a proclamare la repubblica, fe’ di tutto per renderla accetta alla borghesia ed alle provincie. Si rinnegarono i sanguinosi terrori della prima repubblica francese coll’abolire la pena di morte pei delitti politici; si lasciò libertà di stampa a tutte le opinioni; l’esercito, i tribunali, l’amministrazione rimasero, salve poche eccezioni, nelle mani dei loro antichi titolari; nessuno dei grandi colpevoli della monarchia di luglio fu tratto in giudizio. I repubblicani borghesi del _National_ si davano lo spasso di barattare nomi e costumi monarchici con antichi repubblicani. Per essi la repubblica non era che un nuovo abbigliamento da ballo per la vecchia società borghese. Il merito principale cercato dalla giovane repubblica non consisteva nello spargere terrore, sibbene piuttosto nello star continuamente essa medesima sotto l’impressione della paura, conquistandosi l’esistenza cogli adattamenti e colle cedevolezze e disarmando così ogni opposizione. Alle classi privilegiate nell’interno, alle potenze dispotiche all’estero venne solennemente dichiarato che la repubblica aveva carattere pacifico. Vivere e lasciar vivere era la sua divisa. Si aggiunse che, poco dopo la rivoluzione di febbraio, i tedeschi, i polacchi, gli austriaci, gli ungheresi, gli italiani, ciascun popolo a seconda della sua momentanea situazione, si rivoltarono. Russia ed Inghilterra, l’ultima sebbene già internamente agitata, l’altra intimidita, erano impreparate. La repubblica, adunque, non trovossi di fronte alcun nemico nazionale; così pure nessuna complicazione estera rilevante, che potesse attizzare la forza d’azione, accelerare il processo rivoluzionario, spingere in avanti il governo provvisorio o gettarlo a mare. Il proletariato parigino, che nella repubblica riconosceva la propria creatura, acclamò naturalmente ad ogni atto del governo provvisorio, che alla repubblica preparava più facile il posto nella società borghese. Da Caussidière esso si lasciò volontariamente adibire a servizî di polizia, per difendere la proprietà a Parigi, come lasciava accomodare da Luigi Blanc le contestazioni di salario tra operai e padroni. Era un _point d’honneur_ per esso di mantenere intatto davanti agli occhi dell’Europa l’onore borghese della repubblica. La repubblica non trovò resistenza, nè all’estero nè all’interno. Con ciò essa era disarmata. Il suo còmpito non consisteva più nella trasformazione rivoluzionaria del mondo, ma solo nel proprio adattamento alle condizioni della società borghese. Del fanatismo, con cui il governo provvisorio si sottopose a tale còmpito, niun testimonio più eloquente delle sue misure finanziarie. Il credito pubblico ed il privato erano, naturalmente, scossi. Il credito pubblico riposa sulla fiducia che lo Stato si lasci sfruttare dagli ebrei della finanza. Ma il vecchio Stato era scomparso e la rivoluzione era diretta avanti ogni cosa contro l’aristocrazia finanziaria. Non erano peranco cessate le oscillazioni dell’ultima crisi del commercio europeo; le bancarotte si succedevano tuttora alle bancarotte. Il credito privato trovavasi adunque paralizzato, la circolazione impedita, la produzione arenata, prima che scoppiasse la rivoluzione di febbraio. La crisi rivoluzionaria rese più acuta la commerciale. E, dacchè il credito privato riposa sulla fiducia che la produzione borghese in tutto l’àmbito dei suoi rapporti, ch’è quanto dire l’ordinamento borghese, rimanga intatta ed intangibile, in qual modo poteva agire una rivoluzione, da cui era posta in questione la base della produzione borghese, la schiavitù economica del proletariato, e la quale in faccia alla Borsa drizzava la sfinge del Lussemburgo? L’avvento del proletariato è l’abolizione del credito borghese, poichè è l’abolizione della produzione borghese e del suo ordinamento. Il credito pubblico ed il privato sono il termometro economico, che dà la misura dell’intensità d’una rivoluzione. Di quanto essi precipitano, di altrettanto si eleva l’entusiasmo e la forza creatrice della rivoluzione. Il governo provvisorio voleva spogliare la repubblica dell’apparenza antiborghese. Doveva a tal uopo cercare anzitutto di assicurare il valore commerciale di questa nuova forma dello Stato, il suo corso alla Borsa. Col salire della repubblica sul listino di Borsa, si rialzò necessariamente il credito privato. A fine di allontanare anche il sospetto ch’essa non volesse o non potesse sobbarcarsi alle obbligazioni assunte dalla monarchia, a fine di dar credito alla morale ed alla solvibilità borghesi della repubblica, il governo provvisorio ebbe ricorso ad una millanteria non meno indignitosa che puerile. Prima del termine legale di pagamento, sborsò ai creditori dello Stato gli interessi del 5, 4 ½ e 4%. La sfacciataggine borghese, l’orgoglio dei capitalisti si ridestarono d’un tratto, vedendo la precipitazione angosciosa, con cui si cercava di comperare la loro fiducia. L’imbarazzo pecuniario del governo non fu naturalmente menomato da un colpo di scena, che gli toglieva di tasca la riserva di danaro sonante. Il disagio delle finanze non poteva più a lungo dissimularsi, e furono piccoli borghesi, domestici, operai che dovettero pagare la gradita sorpresa offerta ai creditori dello Stato. Fu dichiarato che i libretti delle casse di risparmio eccedenti l’importo di 100 franchi non potessero più cambiarsi in danaro. Le somme depositate nelle casse di risparmio vennero confiscate e convertite con decreto in un debito di Stato non redimibile. Fu il modo di esasperare contro la repubblica il piccolo borghese, già tormentato anche senza di ciò. Dandogli in luogo dei suoi libretti di risparmio titoli di debito dello Stato, lo si costringeva ad andare alla Borsa per venderli ed a consegnarsi così direttamente nelle mani degli ebrei della Borsa, contro i quali egli aveva fatto la rivoluzione di febbraio. L’aristocrazia finanziaria, che aveva dominato sotto la monarchia di luglio, aveva la sua cattedrale nella Banca. Come la Borsa regge il credito dello Stato, così la Banca quello del commercio. Minacciata direttamente dalla rivoluzione di febbraio, non solamente nel proprio dominio, ma nella propria esistenza, la Banca cercò d’allora di screditare la repubblica, col rendere generale la mancanza di credito. Ai banchieri, ai fabbricanti, ai negozianti sospese d’un tratto il credito. Tale manovra, mentre non provocò una sùbita controrivoluzione, si ripercosse di necessità sulla Banca stessa. I capitalisti ritirarono il denaro da essi depositato nei sotterranei della Banca. I possessori di banconote si rovesciarono, per cambiarle contro oro e argento, sulle sue casse. Senza immischiarvisi colla violenza, per via legale, il governo avrebbe potuto costringere la Banca al fallimento; bastava ch’esso adottasse un contegno passivo, abbandonando la Banca al suo destino. La bancarotta della Banca — ecco il diluvio universale, che avrebbe, in un batter d’occhio, spazzato via dal suolo francese l’aristocrazia finanziaria, la più potente e pericolosa nemica della repubblica, il piedestallo d’oro della monarchia di luglio. Ed una volta fallita la Banca, la borghesia stessa sarebbe stata costretta a considerare come ultimo e disperato tentativo di salvamento la creazione da parte del governo d’una Banca nazionale e la sommissione del credito nazionale al controllo della nazione. Il governo provvisorio, invece, diede ai biglietti di Banca il corso forzoso. E fece di più. Convertì tutte le Banche provinciali in istituti succursali della _Banque de France_, alla quale lasciò coprire tutta la Francia colla sua rete. Più tardi die’ le foreste dello Stato a garanzia d’un prestito, che contrasse con essa. Così la rivoluzione di febbraio consolidava ed allargava direttamente la bancocrazia, cui era chiamata ad abbattere. Frattanto il governo piegava sotto l’incubo d’un _deficit_ crescente. Invano andava mendicando sacrifici patriottici. Soli gli operai gli gettavano la loro elemosina. Si dovette ricorrere ad un mezzo eroico, alla creazione d’una nuova imposta. Ma chi tassare? I lupi di Borsa, i re della Banca, i creditori dello Stato, i reddituarî, gli industriali? Questo non era affatto il modo di cattivare alla repubblica la borghesia. Ciò significava mettere a repentaglio da una parte il credito dello Stato o del commercio, mentre dall’altra si cercava di redimerlo con tanti sacrifici ed umiliazioni. Ma qualcuno doveva pagare. E chi fu sacrificato al credito borghese? Fu _Jacques le bonhomme_, il contadino. Il governo provvisorio inscrisse un’imposta suppletiva di 45 cent. per franco sulle quattro imposte dirette. Agli occhi del proletariato parigino la stampa governativa fece balenare che tale imposta cadesse precisamente sulla grande proprietà fondiaria, sui detentori dei miliardi concessi dalla Ristorazione. In realtà però ne era colpita a preferenza la classe dei contadini, ossia la gran maggioranza del popolo francese. Furono essi a dover pagare le spese della rivoluzione di febbraio; da essi trasse il coefficiente più decisivo la controrivoluzione. L’imposta dei 45 centesimi era una questione di vita pel contadino francese, il quale ne fece una questione di vita per la repubblica. La repubblica, pel contadino francese, era, da questo momento, l’imposta dei 45 centesimi; e nel proletariato parigino egli ravvisava il dissipatore, che s’era accomodato a sue spese. Mentre la rivoluzione del 1789 era incominciata collo sgravare i contadini dai pesi feudali, la rivoluzione del 1848, per non arrecare pregiudizio al capitale e per tenere in carreggiata la sua macchina dello Stato, si annunciò alla popolazione rurale con una nuova imposta. Un solo mezzo avrebbe avuto il governo provvisorio per eliminare tutti questi inconvenienti e spingere lo Stato fuori del vecchio binario: la dichiarazione della bancarotta dello Stato. Si rammenta come Ledru-Rollin, più tardi, nell’Assemblea nazionale, recitò la commedia della virtuosa indignazione, con cui egli respinse un eccitamento di questo genere venuto dall’ebreo di Borsa, Fould, l’attuale ministro delle finanze. Era il pomo dell’albero della sapienza che Fould gli offeriva. Mentre il governo provvisorio riconosceva la cambiale tratta dalla vecchia società borghese sullo Stato, questa veniva a scadenza. Il governo provvisorio era diventato il debitore incalzato dalla società borghese, anzichè incomberle qual creditore minaccioso, che ha da incassare titoli di credito rivoluzionarî di parecchi anni. Esso si trovava costretto a consolidare i vacillanti rapporti borghesi a fine di adempiere obbligazioni eseguibili solamente entro questi rapporti. Il credito diviene condizione della sua esistenza e le concessioni e le promesse fatte al proletariato divengono altrettante catene, ch’esso era forzato a spezzare. L’emancipazione dei lavoratori — anche come semplice frase — rappresentò per la nuova repubblica un pericolo insopportabile, poich’era una permanente protesta contro il ristabilimento del credito, che riposa sul riconoscimento incontestato e tranquillo degli esistenti rapporti economici di classe. Cogli operai si doveva adunque farla finita. La rivoluzione di febbraio aveva cacciato l’esercito fuori di Parigi. La guardia nazionale, ossia la borghesia nelle varie sue gradazioni, costituiva l’unica forza armata. Solamente, essa non si sentiva fatta per misurarsi col proletariato. Oltre ciò era stata costretta, per quanto tenacemente resistesse, sollevando cento diversi ostacoli, ad aprire, a poco a poco e di tempo in tempo, le proprie file, lasciandovi entrare proletarî armati. Non rimaneva adunque che una via d’uscita: opporre una parte dei proletarî all’altra. A tal fine il governo provvisorio formò 24 battaglioni di guardie mobili, ciascuno di mille uomini, giovani dai 15 ai 20 anni. Questi appartenevano, per la maggior parte, a quel proletariato di pezzenti, che in tutte le grandi città compone una massa nettamente distinta dal proletariato industriale; un posto di reclutamento per ladri e delinquenti d’ogni specie, alimentato dai rifiuti della società, da gente senza un mestiere definito, da vagabondi, _gens sans feu et sans aveu_, diversi secondo il grado di civiltà della loro nazione, che non smentiscono mai la loro natura di lazzaroni; perfettamente indicati per l’età giovanile, in cui il Governo provvisorio li arruolava, agli atti più eroici ed ai più esagerati sacrificî, come ai più volgari brigantaggi ed alla più sporca venalità. Il governo provvisorio li pagava con 1 franco e 50 cent. al giorno; ossia li comperava. Diede loro una speciale uniforme, distinguendoli cioè esteriormente colla _blouse_. A comandanti ebbero ufficiali in parte loro assegnati dell’esercito regolare, in parte nominati da essi stessi, giovani figli di borghesi, le cui rodomontate del morir per la patria e del votarsi alla repubblica li stuzzicavano. Così il proletariato parigino si trovava in faccia ad un esercito di 24.000 uomini pieno di forza giovanile e d’audacia, cavato dallo stesso suo ambiente. E gridò evviva! alla guardia mobile che marciava attraverso Parigi. In essa riconosceva i suoi condottieri delle barricate e la considerò come la guardia proletaria in opposizione alla guardia nazionale borghese. Era un errore perdonabile il suo. Accanto alla guardia mobile, il governo deliberò di circondarsi altresì d’un esercito industriale d’operai. Centomila operai, gettati sul lastrico dalla crisi e dalla rivoluzione, vennero arruolati dal ministero Marie entro i così detti _ateliers_ nazionali. Questo nome così pomposo non celava se non l’applicazione degli operai a lavori di sterro noiosi, monotoni, improduttivi, per un salario di 23 soldi. _Workhouses_ inglesi all’aria aperta: altro non erano questi _ateliers_ nazionali. Con essi, il governo provvisorio credette d’aver messo in piedi un secondo esercito proletario contro gli stessi operai. Questa volta la borghesia s’ingannava sugli _ateliers_ nazionali, come gli operai s’ingannavano sulla guardia mobile. Era un esercito per la sommossa, ch’essa aveva creato. Ma uno scopo era raggiunto. _Ateliers_ nazionali: non era questo il nome dei laboratorî popolari, predicati da Luigi Blanc al Lussemburgo? Gli _ateliers_ di Marie, lanciati in diretta opposizione al Lussemburgo, diedero, in forza della comune firma, il motivo ad un intrigo di _qui pro quo_ degno della spagnuola «commedia dei servitori». Dallo stesso governo provvisorio venne diffusa, sottomano, la diceria che gli _ateliers_ nazionali fossero la trovata di Luigi Blanc, il che sembrò tanto più credibile in quanto Luigi Blanc, il profeta degli _ateliers_ nazionali, era membro del governo provvisorio. E nell’equivoco, metà ingenuo, metà intenzionale, della borghesia parigina, nell’opinione artificiosamente mantenuta della Francia e dell’Europa, quei _workhouses_ erano la prima attuazione del socialismo, che con essi veniva messo alla berlina. Non pel contenuto, ma pel titolo, gli _ateliers_ nazionali erano la protesta incarnata del proletariato contro l’industria borghese, il credito borghese e la repubblica borghese. Sovr’essi, per conseguenza, riversavasi tutto l’odio della borghesia. In essi ella aveva trovato, in pari tempo, il punto d’attacco per avventurarsi, non appena sufficientemente rafforzata, a rompere apertamente colle illusioni di febbraio. Non v’era malessere, non malcontento dei piccoli borghesi, che non si dirigesse simultaneamente contro questi _ateliers_ nazionali, come contro un comune bersaglio. Con vero furore calcolavano le somme inghiottite dai proletarî fannulloni, mentre la loro propria situazione diveniva ogni giorno più intollerabile. Una pensione dello Stato per un simulacro di lavoro; ecco il socialismo! andavano borbottando. Gli _ateliers_ nazionali, le declamazioni del Lussemburgo, le marcie degli operai attraverso Parigi; qui cercavano essi l’origine della loro miseria. E contro le pretese macchinazioni dei socialisti, niuno era più fanatico del piccolo borghese, pencolante, senza difesa, sull’abisso della bancarotta. Così nel conflitto imminente tra borghesia e proletariato, tutti i vantaggi, tutti i posti decisivi, tutti i ceti medî della società si trovavano in mano alla borghesia, nel medesimo tempo che le onde della rivoluzione di febbraio coprivano tutto il continente ed ogni nuovo corriere portava un nuovo bollettino di rivoluzione, ora dall’Italia, ora dalla Germania, ora dall’estremo sud-est d’Europa, alimentando la generale ebbrezza del popolo, col recargli queste continue testimonianze d’una vittoria, ch’esso aveva di già compiuta. Il 17 marzo ed il 16 aprile furono le prime avvisaglie della gran lotta di classe, che la repubblica borghese nascondeva sotto le sue ali. Il 17 marzo rivelò la situazione equivoca del proletariato, incapace di qualunque atto decisivo. Lo scopo originario della dimostrazione da esso fatta, era di risospingere il governo provvisorio sul cammino della rivoluzione, di ottenere, secondo i casi, l’esclusione dei suoi membri borghesi e di strappare una proroga del giorno fissato alle elezioni dell’Assemblea nazionale e della guardia nazionale. Ma, il 16 marzo, la borghesia rappresentata nella guardia nazionale, aveva fatto una dimostrazione ostile al governo provvisorio. Al grido di _à bas Ledru-Rollin!_, essa aveva invaso l’Hôtel-de-Ville. Ed il popolo si trovò costretto, il 17 marzo, a gridare: viva Ledru-Rollin!, viva il governo provvisorio! Si trovò costretto ad abbracciare, contro la borghesia, il partito della repubblica borghese, che gli sembrava messo in questione, e per tal modo consolidò il governo provvisorio, anzichè sottometterselo. Il 17 marzo svampò in una scena da melodramma e, se il proletariato parigino in quel giorno portò ancora una volta il suo corpo di gigante in mostra, tanto più aumentò nella borghesia, entro e fuori del governo provvisorio, la risoluzione di abbatterlo. Il 16 aprile fu un malinteso, messo in piedi dal governo provvisorio insieme alla borghesia. Gli operai eransi radunati in gran numero sul Campo di Marte e nell’Ippodromo, a fine di preparare le loro elezioni per lo stato maggiore della guardia nazionale. D’un tratto si sparge la voce in tutta Parigi, da un capo all’altro, con rapidità fulminea, che gli operai s’erano raccolti armati nel Campo di Marte, sotto la direzione di Luigi Blanc, di Blanqui, di Cabet e di Raspail, per muovere di là sull’Hôtel-de-Ville, abbattere il governo provvisorio e proclamare un governo comunista. Si suona a raccolta (Ledru-Rollin, Marrast, Lamartine si contesero più tardi l’onore di tale iniziativa); in un’ora ecco 100.000 uomini sotto le armi; l’Hôtel-de-Ville è in ogni suo punto occupato da guardie nazionali; il grido di: abbasso i comunisti! abbasso Luigi Blanc, Blanqui, Raspail, Cabet! tuona attraverso tutta Parigi; ed un’enorme quantità di deputazioni, pronte tutte a salvare la patria e la società, va a rendere omaggio al governo provvisorio. Allorchè infine gli operai compaiono dinanzi all’Hôtel-de-Ville per rimettere al governo provvisorio una colletta patriottica, da essi raccolta al Campo di Marte, apprendono stupiti che la Parigi borghese, in una finta battaglia di sublime accorgimento, ha battuto la loro ombra. Il terribile attentato del 16 marzo diede il pretesto al richiamo dell’esercito a Parigi (era questo il vero intento della commedia goffamente messa in iscena) ed alle reazionarie dimostrazioni federaliste delle provincie. Il 4 maggio si adunò l’Assemblea nazionale, uscita dal suffragio universale diretto. Il suffragio universale non possedeva la forza magica, che i repubblicani d’antico stampo gli avevano attribuito. In tutta la Francia, o per lo meno nella maggioranza dei francesi, essi ravvisavano de’ _citoyens_ con interessi identici, vedute identiche, ecc. Era questo il loro «culto del popolo». In luogo del loro popolo immaginario, le elezioni portarono alla luce del giorno il vero popolo, cioè i rappresentanti delle diverse classi, in cui esso è diviso. Noi abbiamo veduto la ragione, per cui contadini e piccoli borghesi dovettero votare sotto la direzione della borghesia impaziente di combattere e dei grandi proprietari fondiarî anelanti alla Ristorazione. Ma, pur non essendo la miracolosa bacchetta magica dei valentuomini repubblicani, il suffragio universale possedeva però il merito ben maggiore di scatenare la lotta di classe, di far svanire rapidamente le illusioni e gli errori nei varî ceti medî della società borghese, di slanciare d’un colpo tutte le frazioni della classe sfruttatrice al culmine dello Stato, strappando loro così la maschera ipocrita, mentre la monarchia col suo sistema del censo lasciava che si compromettessero solamente determinate frazioni della borghesia, tenendo nascoste fra le quinte le altre, ch’essa circondava coll’aureola d’un opposizione collettiva. Nell’Assemblea nazionale costituente, che si adunò il 4 maggio, erano in prevalenza i repubblicani borghesi, i repubblicani del _National_. Legittimisti ed anche orleanisti non s’avventuravano sulle prime a mostrarsi che sotto la maschera del repubblicanismo borghese. Solamente in nome della repubblica borghese poteva inaugurarsi la lotta contro il proletariato. È dal 4 maggio, non dal 25 febbraio, che data la repubblica, cioè la repubblica riconosciuta dal popolo francese. Non è la repubblica imposta dal proletariato parigino al governo provvisorio, non la repubblica con istituzioni sociali, non il sogno che passava davanti agli occhi dei combattenti sulle barricate. La repubblica proclamata dall’Assemblea nazionale, la sola repubblica legittima, è la repubblica che non è affatto un’arma rivoluzionaria contro l’ordinamento borghese, ma ben piuttosto la ricostituzione politica di questo, la restaurazione politica della società borghese, in una parola: la repubblica borghese. Questa fu l’affermazione, che risuonò dalla tribuna dell’Assemblea nazionale, trovando un’eco in tutta quanta la stampa borghese, repubblicana ed antirepubblicana. E noi abbiamo veduto come la repubblica di febbraio non fosse nè potesse essere in realtà altro che una repubblica borghese; come però il governo provvisorio, sotto l’immediata pressione del proletariato, si trovasse costretto ad annunciarla quale una repubblica con istituzioni sociali; come il proletariato parigino fosse tuttora incapace di elevarsi al disopra dell’illusione e delle chimere circa la repubblica borghese; com’esso agisse dovunque in suo servizio, allorchè si trattava realmente di venire all’azione; come le promesse fattegli divenissero un pericolo insopportabile per la nuova repubblica; come pel governo provvisorio tutto il processo della sua vita si riassumesse in una permanente lotta contro le rivendicazioni del proletariato. Nell’Assemblea nazionale, tutta la Francia sedeva a giudizio sul proletariato parigino. Essa ruppe tosto colle illusioni sociali della rivoluzione di febbraio, proclamò netto e tondo la repubblica borghese, null’altro che borghese. Subito escluse dalla Commissione esecutiva da essa nominata i rappresentanti del proletariato, Luigi Blanc ed Albert; rigettò la proposta d’uno speciale ministero del lavoro; accolse con rumorose grida d’approvazione la dichiarazione del ministro Trélat: «trattarsi ancora unicamente di ricondurre il lavoro alle sue antiche condizioni.» Ma tutto ciò non bastava. La repubblica di febbraio era stata una conquista degli operai, coll’aiuto passivo della borghesia. A ragione i proletari si consideravano i vincitori del febbraio, elevando orgogliosamente pretese da vincitori. Si doveva vincerli sulla strada, si doveva mostrar loro che soccombevano, non appena combattessero non più insieme alla borghesia, ma contro la borghesia. Come la repubblica di febbraio, colle sue concessioni socialistiche, aveva avuto bisogno d’una battaglia del proletariato alleato alla borghesia contro la monarchia, così era necessaria una seconda battaglia per liberare la repubblica dalle concessioni socialistiche, allo scopo di foggiare ufficialmente il dominio della repubblica borghese. Colle armi alla mano, la borghesia doveva respingere le pretese del proletariato. E la vera culla della repubblica borghese non è già la vittoria del febbraio, è la disfatta del giugno. Il proletariato accelerò la soluzione allorchè, il 15 maggio, penetrò nell’Assemblea, cercando invano di riconquistare la propria influenza rivoluzionaria, mentre non riescì che a consegnare i suoi energici capi ai carcerieri della borghesia. _Il faut en finir!_ Questa situazione deve avere una fine! Tale fu il grido, con cui l’Assemblea diede aperto sfogo alla risoluzione di costringere il proletariato alla lotta decisiva. La Commissione esecutiva emanò una serie di decreti provocanti, quale il divieto degli attruppamenti popolari, ecc. Dall’alto della tribuna dell’Assemblea costituente, gli operai furono direttamente sfidati, ingiuriati, dileggiati. Ma il vero fianco all’attacco lo prestavano, come vedemmo, gli _ateliers_ nazionali. Ad essi l’Assemblea rivolse imperativamente l’attenzione della Commissione esecutiva, la quale altro non aspettava che di vedere manifestato il proprio piano come un’imposizione dell’Assemblea nazionale. La Commissione esecutiva incominciò col rendere più difficile l’accesso agli _ateliers_ nazionali, col convertire il salario a giornata in salario a fattura, coll’esiliare gli operai non nativi di Parigi nella Sologne, in apparenza per l’esecuzione di lavori di sterro. Questi lavori di sterro non erano che una formula retorica per palliare la loro cacciata, com’ebbero a riferire al loro ritorno gli operai ingannati ai loro compagni. Finalmente, il 21 giugno, comparve nel _Moniteur_ un decreto che ordinava l’espulsione colla forza di tutti gli operai non coniugati, ovvero il loro arruolamento nell’esercito. Non rimaneva via di scelta agli operai: o morir di fame o cedere. Essi risposero il 22 giugno colla terribile insurrezione, in cui s’ingaggiò la prima grande battaglia tra le due classi, che dividono la moderna società. Era la lotta per la conservazione o la distruzione dell’ordinamento borghese. Il velo che avviluppava la repubblica era squarciato. È noto con quale valore e genialità senza esempio gli operai, privi di capi, privi d’un piano comune, privi di mezzi, per la maggior parte privi d’armi, tenessero in iscacco, durante cinque giorni, l’esercito, la guardia mobile, la guardia nazionale di Parigi e la guardia nazionale ivi riversatasi dalla provincia. È noto come la borghesia si rifacesse dell’incorso pericolo con brutalità inaudita, massacrando oltre 3000 prigionieri. A tal punto i rappresentati ufficiali della democrazia francese trovavansi dominati dall’ideologia repubblicana che solamente dopo qualche settimana incominciarono a intravedere il significato della lotta di giugno. Erano come storditi dal fumo polveroso, in cui andava dileguandosi la loro repubblica fantastica. L’immediata impressione apportataci dalla notizia della disfatta di giugno, ci permetta il lettore di riferirla colle parole della _Neue Rheinische Zeitung_: «L’ultimo rimasuglio ufficiale della rivoluzione di febbraio, la Commissione esecutiva, è svanito davanti alla gravità degli avvenimenti, come uno scenario di nebbia. I fuochi artificiali di Lamartine si sono tramutati nei razzi incendiarî di Cavaignac. Della _fraternité_ delle classi antagoniste, di cui l’una sfrutta l’altra, di questa _fraternité_ proclamata in febbraio, scritta a grosse lettere sui frontoni di Parigi, su ogni carcere, su ogni caserma, la vera, la non adulterata, la prosaica espressione è la guerra civile, la guerra civile nella sua forma più terribile, la guerra del lavoro e del capitale. Questa era la fratellanza, che fiammeggiava su tutti i davanzali delle finestre di Parigi la sera del 25 giugno, allorchè la Parigi della borghesia illuminava, mentre la Parigi del proletariato bruciava, grondava sangue e gemeva. Fratellanza, ch’era durata precisamente fino a tanto che l’interesse della borghesia trovavasi affratellato coll’interesse del proletariato. — Pedanti dell’antica tradizione rivoluzionaria del 1793; socialisti sistematici, mendicanti presso la borghesia a pro del popolo ed ai quali erasi permesso di tener lunghe prediche e di compromettersi durante il tempo, in cui occorreva ninnare nel sonno il leone proletario; repubblicani che volevano tutto il vecchio ordinamento sociale borghese, con esclusione della testa coronata; oppositori dinastici, ai quali il caso aveva cacciato sotto i piedi, al posto d’un cambiamento di ministero, la rovina d’una dinastia; legittimisti, che intendevano non già buttar da un canto la livrea, ma mutarne il taglio; erano questi gli alleati, coi quali il popolo aveva fatto il suo febbraio. — La rivoluzione di febbraio era stata la «bella» rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale, dappoichè gli antagonismi che in essa erano scoppiati contro la monarchia, sonnecchiavano non ancor sviluppati, concordi l’uno accanto all’altro, e la lotta sociale, che ne costituiva il substrato, aveva acquistato un’esistenza puramente aerea, resistenza della frase, della parola. La rivoluzione di giugno è la rivoluzione più odiosa, la rivoluzione più antipatica, dappoichè al posto della frase si affacciava la cosa, e la repubblica spogliava essa stessa il capo del mostro, mentre ne abbatteva la corona, che lo proteggeva e lo copriva. — Ordine! era il grido di battaglia di Guizot. Ordine! sclamava Sebastiani, il _Guizotin_, allorchè Varsavia diventò russa. Ordine! esclama Cavaignac, quest’eco brutale dell’Assemblea nazionale e della borghesia repubblicana. Ordine! tuonano le sue mitraglie, mentre lacerano il corpo del proletariato. Delle numerose rivoluzioni della borghesia francese a partire dal 1789, niuna era stata un attentato all’ordine, poichè tutte avevano lasciato sussistere il dominio di classe, la schiavitù dei lavoratori, l’ordinamento borghese, per quanto sovente anche la forma politica di questa schiavitù mutasse. Il giugno attaccò quest’ordine. Guai al giugno!» (_Neue Rheinische Zeitung_, 29 giugno 1848). Guai al giugno! ripercuote l’eco europea. All’insurrezione di giugno il proletariato era stato trascinato dalla borghesia. Già in ciò stava la sua sentenza di condanna. Nè un bisogno immediato confessato lo aveva spinto a voler ottenere colla forza la rovina della borghesia, nè esso aveva attitudine a tal còmpito. Il _Moniteur_ dovette ufficialmente spiegargli ch’era passato il tempo, in cui la repubblica vedevasi impegnata a render gli onori alle sue illusioni, e ci volle la sua disfatta per convincerlo della verità che il più meschino miglioramento della sua situazione rimane un’utopia entro la repubblica borghese, un’utopia, che diventa delitto, non appena vuole attuarsi. Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate quanto alla forma, piccine e persino ancora borghesi quanto al contenuto, delle quali esso voleva strappare la concessione alla repubblica di febbraio, entrò in iscena l’ardito motto di guerra rivoluzionario: Distruzione della borghesia! Dittatura della classe operaia! Nel tempo stesso in cui il proletariato faceva della propria bara la culla della repubblica borghese, esso costringeva questa a mostrarsi nella sua forma genuina: come Stato, cioè, il cui fine confessato è di perpetuare il dominio del capitale, la schiavitù del lavoro. Il dominio borghese, nella continua contemplazione del nemico coperto di cicatrici, irreconciliabile, invincibile (invincibile nemico, perchè la sua esistenza è la condizione di vita di quello stesso dominio), doveva, una volta sciolto da ogni catena, degenerare ben tosto nel terrorismo borghese. Allontanato provvisoriamente il proletariato dalla scena, la dittatura borghese riconosciuta ufficialmente, ai ceti medî della società borghese, piccola borghesia e classe dei contadini, a misura che la loro situazione diveniva più insopportabile ed il loro antagonismo verso la borghesia più aspro, s’imponeva la necessità di attaccarsi sempre più al proletariato. Come già nel suo sorgere, così ora nella sua disfatta, essi dovevano trovare la ragione della loro miseria. Se l’insurrezione di giugno, dappertutto sul continente, sollevò nella borghesia la coscienza di sè stessa, facendola entrare in alleanza aperta colla monarchia feudale contro il popolo, chi fu la prima vittima di tale alleanza? La stessa borghesia continentale, costretta dalla disfatta di giugno a rafforzare il proprio dominio ed a contenere sull’infimo gradino della rivoluzione borghese il popolo, metà pacificato, metà malcontento. La disfatta di giugno, da ultimo, svelò alle potenze dispotiche d’Europa il segreto dell’obbligo, che aveva la Francia, di mantenere, ad ogni patto, la pace coll’estero, a fine di poter condurre la guerra civile nell’interno. Per tal modo i popoli, che avevano incominciato la lotta per la loro indipendenza, venivano abbandonati in balìa della prepotenza della Russia, dell’Austria e della Prussia; ma, nello stesso tempo, il destino di queste rivoluzioni nazionali, subordinato al destino della rivoluzione proletaria, era spogliato della sua apparente autonomia, della sua indipendenza dalla grande trasformazione sociale. L’ungherese non può essere libero, non il polacco, non l’italiano, insino a che l’operaio rimane schiavo! Finalmente, in seguito alle vittorie della Santa Alleanza, l’Europa prese una forma, per cui ogni nuova insurrezione proletaria in Francia coincide direttamente con una guerra mondiale. La nuova rivoluzione francese trovasi costretta ad abbandonare immediatamente il terreno nazionale ed a conquistare il terreno europeo, sul quale unicamente potrà svolgersi la rivoluzione sociale del secolo decimonono. Solo adunque la disfatta di giugno creò le condizioni, entro cui la Francia può prendere in pugno l’iniziativa della rivoluzione europea. Solo tuffata nel sangue degli insorti di giugno, la tricolore diventò la bandiera della rivoluzione europea — la bandiera rossa. E noi gridiamo: La rivoluzione è morta! — Viva la rivoluzione! II. DAL GIUGNO 1848 AL 13 GIUGNO 1849. (_DAL FASCICOLO II_). Il 25 febbraio 1848 aveva regalato alla Francia la repubblica; il 25 giugno le impose la rivoluzione. E rivoluzione significava dopo il giugno: rovesciamento della società borghese, laddove prima del febbraio aveva significato: rovesciamento della forma dello Stato. La lotta di giugno era stata diretta dalla frazione repubblicana della borghesia; a questa toccò necessariamente, colla vittoria, il potere. Lo stato d’assedio aveva messo ai suoi piedi, senz’opposizione, Parigi imbavagliata; nelle provincie poi regnava moralmente lo stato» d’assedio e la minacciosa e la brutale arroganza dei borghesi e lo sfrenato fanatismo dei contadini per la proprietà. Dal basso, adunque, nessun pericolo! Insieme alla forza rivoluzionaria degli operai era infranta, nello stesso tempo, l’influenza politica dei repubblicani democratici, ossia dei repubblicani nel significato della piccola borghesia, rappresentati nella Commissione esecutiva da Ledru-Rollin, nell’Assemblea nazionale costituente dal partito della Montagna, nella stampa dalla _Réforme_. Accanto ai repubblicani borghesi, essi avevano cospirato il 16 aprile contro il proletariato; nelle giornate di giugno accanto a loro avevano combattuto. Per tal modo si erano scavata essi stessi la fossa, entro cui sprofondò la potenza del loro partito, imperocchè la piccola borghesia non possa sostenere una posizione rivoluzionaria contro la borghesia, se non in quanto abbia dietro sè il proletariato. Fu dato loro il congedo. L’alleanza speciosa con essi, stretta con riluttanza e ripugnanza durante l’epoca del governo provvisorio e della Commissione esecutiva, venne apertamente rotta dai repubblicani borghesi. Dispregiati e reietti come confederati, essi decaddero a satelliti subordinati dei tricolori, ai quali non potevano strappare alcuna concessione, ma il cui dominio furono costretti a difendere, quante volte questo, e con esso la repubblica, sembrava posto in questione dalle frazioni borghesi antirepubblicane. Tali frazioni infine, orleanisti e legittimisti, si trovavano sin dall’origine in minoranza nell’Assemblea nazionale costituente. Prima anzi delle giornate di giugno non s’avventuravano a reagire se non sotto la maschera del repubblicanismo borghese; la vittoria di giugno fe’ sì che per un momento la Francia borghese tutta quanta salutasse in Cavaignac il suo salvatore, ed allorquando, poco dopo le giornate di giugno, il partito antirepubblicano riacquistava la propria indipendenza, la dittatura militare e lo stato d’assedio di Parigi non gli permisero di spiegare le antenne se non molto timidamente e con precauzione. Dal 1830 la frazione repubblicana borghese, coi suoi scrittori, coi suoi oratori, colle sue capacità, colle sue ambizioni, coi suoi deputati, generali, banchieri ed avvocati, erasi raggruppata intorno ad un giornale, il _National_. Nelle provincie possedeva proprie gazzette filiali. La consorteria del _National_ non era che la dinastia della repubblica tricolore. Bentosto essa s’impadronì di tutte le cariche dello Stato, dei ministeri, della prefettura di polizia, della direzione delle poste, dei posti di prefetto, dei più alti posti, divenuti liberi, d’ufficiale nell’esercito. Alla testa del potere esecutivo stava il suo generale, Cavaignac; il suo redattore capo, Marrast, divenne il presidente in permanenza dell’Assemblea nazionale costituente. Egli faceva, in pari tempo, nei suoi saloni, come maestro delle cerimonie, gli onori della repubblica _honnête_. Per una specie di timidità di fronte alla tradizione repubblicana, anche scrittori rivoluzionarî francesi rafforzarono l’erroneo concetto che i realisti abbiano dominato nell’Assemblea nazionale costituente. Ben piuttosto l’Assemblea costituente rimase, fino dalle giornate di giugno, l’esclusiva rappresentante del repubblicanismo borghese, e con tanta maggior risolutezza proseguiva essa a battere questa via, quanto più l’influenza dei repubblicani tricolori andava sgretolandosi fuori dell’Assemblea. Trattandosi di difendere la forma della repubblica borghese, essa disponeva dei voti dei repubblicani democratici; trattandosi di difenderne il contenuto, neppure la foggia d’esprimersi la separava ormai dalle frazioni borghesi realiste, imperocchè gli interessi della borghesia e le condizioni materiali del suo dominio di classe e del suo sfruttamento di classe costituiscano appunto il contenuto della repubblica borghese. Non il realismo adunque, ma il repubblicanismo borghese s’avverava nella vita e nelle azioni di questa Assemblea costituente, che, in definitiva, non morì, nè manco fu uccisa, ma si putrefece. Per l’intera durata del suo dominio, insino a che ella rappresentò sul proscenio la parte principale e di Stato, nel sottoscena si pronunciavano, olocausto solenne, le incessanti condanne statarie degli insorti di giugno prigionieri, oppure la loro deportazione senza sentenza. L’Assemblea costituente ebbe il tatto di confessare che negli insorti di giugno essa non giudicava dei delinquenti, ma schiacciava dei nemici. Primo atto dell’Assemblea nazionale costituente fu la creazione d’una Commissione d’inchiesta sugli avvenimenti del giugno e del 15 maggio e sulla partecipazione dei capi dei partiti socialista e democratico a quelle giornate. L’inchiesta mirava direttamente a Luigi Blanc, Ledru-Rollin e Caussidière. I repubblicani borghesi bruciavano d’impazienza di sbarazzarsi di questi rivali. Lo sfogo dei loro rancori non poteva da essi affidarsi ad un soggetto meglio adatto del signor Odilon Barrot, già capo dell’opposizione dinastica, a questo liberalismo fatto carne, a questa _nullité grave_, a questa profonda fatuità, che non aveva solo una dinastia da vendicare, ma altresì una presidenza di ministero mancata, di cui chiedere conto ai rivoluzionari: sicura guarentigia della sua inflessibilità. Questo Barrot, adunque, venne nominato presidente della Commissione d’inchiesta, e da lui fu costruito un processo completo contro la rivoluzione di febbraio, che può riassumersi così: 17 marzo, manifestazione; 16 aprile, complotto; 15 maggio, attentato; 23 giugno, guerra civile! Per qual motivo non estese egli le sue dotte ricerche criminaliste fino al 24 febbraio? Rispose il _Journal des Débats_: Il 24 febbraio, questo è la fondazione di Roma. L’origine degli Stati si perde in un mito, a cui si deve credere e che non si deve discutere. Luigi Blanc e Caussidière vennero abbandonati ai tribunali. L’Assemblea nazionale aveva compiuto l’opera della propria epurazione, incominciata il 15 maggio. Il piano, creato dal governo provvisorio, ripreso da Goudchaux, d’un’imposta sul capitale — sotto forma d’imposta ipotecaria — fu rigettato dall’Assemblea costituente, la legge che limitava il tempo del lavoro a 10 ore abrogata, l’arresto per debiti ristabilito, dalla rimessione al giurì esclusa quella gran parte della popolazione francese, che non sa nè leggere, nè scrivere. Perchè non escluderla anche dal diritto di voto? La cauzione pei giornali fu rimessa in vigore. Il diritto d’associazione limitato. Senonchè, nella precipitazione di restituire agli antichi rapporti borghesi le loro antiche guarentigie e di cancellare ogni traccia lasciata indietro dall’ondata rivoluzionaria, i borghesi repubblicani incapparono nella minacciosa resistenza d’un pericolo inatteso. Niuno aveva combattuto nelle giornate di giugno pel salvataggio della proprietà ed il ristabilimento del credito con maggior fanatismo dei piccoli borghesi — caffettieri, trattori, mercanti di vino, piccoli negozianti, merciaioli, artigiani, ecc. La bottega aveva ripreso fiato ed era marciata contro la barricata, a fine di ristabilire la circolazione, che mena dalla strada nella bottega. Ma dietro la barricata stavano i clienti ed i debitori, dinanzi ad essa i creditori della bottega. Ed allorquando, atterrata la barricata, schiacciati gli operai, i guardabotteghe, briachi di vittoria, si rovesciarono indietro nelle loro botteghe, ne trovarono barricato l’ingresso da un salvatore della proprietà, da un agente ufficiale del credito, che agitava loro in faccia i precetti esecutivi: Cambiale scaduta! fitto scaduto! obbligazione scaduta! bottega fallita! bottegaio fallito! Salvataggio della proprietà! Ma la casa in cui abitavano non era loro proprietà, la bottega che custodivano non era loro proprietà, le merci che vendevano non erano loro proprietà. Non la loro azienda, non il piatto su cui mangiavano, non il letto in cui dormivano apparteneva oramai ad essi. Era contro essi appunto che si trattava di salvare questa proprietà pel padrone di casa che l’aveva data in affitto, pel banchiere che aveva scontato la cambiale, pel capitalista che aveva fatto anticipazioni a denaro sonante, pel fabbricante che aveva affidato le merci per la vendita a questi bottegai, pel grosso negoziante che aveva dato a credito la materia greggia a quegli artigiani. Ristabilimento del credito! Ma il credito nuovamente rafforzato si manifestava appunto quale un dio vivo e zelante, mentre cacciava fuori dalle sue quattro mura il debitore insolvente colla donna e coi figliuoli, e dava in preda al capitale i suoi averi illusorii e gettava lui medesimo nella prigione dei debitori, che nuovamente si estolleva minacciosa sui cadaveri degli insorti di giugno. I piccoli borghesi constatarono con terrore ch’essi, vincendo i proletarî, eransi consegnati senza resistenza nelle mani dei loro creditori. La loro bancarotta, trascinantesi cronica sin dal febbraio ed ignorata in apparenza, fu pubblicamente dichiarata dopo il giugno. Erasi lasciata incolume la loro proprietà nominale fino a che trattavasi di spingerli sul campo di battaglia in nome della proprietà. Ora, poich’era regolato il grand’affare col proletariato, si poteva regolare anche il piccolo affare col droghiere. In Parigi la massa delle sofferenze ammontò ad oltre 21 milioni di franchi, nelle provincie ad oltre 11 milioni. Da esercenti di più di 7000 ditte parigine non era stata pagata la pigione dal febbraio. Dacchè l’Assemblea nazionale aveva stabilito un’inchiesta sul debito politico fino al limite del febbraio, così, dal canto loro, i piccoli borghesi esigevano ora un’inchiesta sui debiti borghesi fino al 24 febbraio. Si radunarono in massa nell’atrio della Borsa, chiedendo minacciosamente una proroga del termine di pagamento mediante sentenza del Tribunale di commercio e la costrizione del creditore alla liquidazione del proprio credito verso esborso d’una moderata percentuale, a favore d’ogni negoziante, che fosse in caso di dimostrare che il suo fallimento era derivato solo dalla stagnazione prodotta dalla rivoluzione mentre il suo commercio era andato bene fino al 24 febbraio. Questa domanda venne trattata come progetto di legge nell’Assemblea nazionale, sotto la forma dei _concordats à l’amiable_. L’Assemblea pencolava; quand’ecco giungerle la notizia che, in quel momento stesso, alla porta St. Denis, migliaia di donne e di fanciulli degli insorti stavano preparando una petizione a favore dell’amnistia. Vedendo risorgere lo spettro di giugno, i piccoli borghesi allibirono e l’Assemblea riacquistò la sua inesorabilità. I _concordats à l’amiable_, l’accordo amichevole fra creditore e debitore, venne rigettato nei suoi punti sostanziali. Dopochè, adunque, entro l’Assemblea nazionale già da lunga pezza i rappresentanti democratici dei piccoli borghesi erano stati ributtati indietro dai rappresentanti repubblicani della borghesia, tale rottura parlamentare rivestì il suo significato borghese effettivamente economico, allorquando i piccoli borghesi, debitori, vennero abbandonati alla mercè dei borghesi, creditori. Molta parte dei primi andò in completa rovina; ai rimanenti fu concesso di continuare i loro affari, ma sotto condizioni tali, che ne facevano altrettanti servi incondizionati del capitale. Il 22 agosto 1848 l’Assemblea nazionale respingeva i _concordats à l’amiable_; il 19 settembre 1848, in pieno stato d’assedio, venivano eletti il principe Luigi Bonaparte ed il prigioniero di Vincennes, il comunista Raspail, a rappresentanti di Parigi. La borghesia però elesse il banchiere ebreo ed orleanista Fould. Da ogni parte, in un tempo solo, adunque, aperta dichiarazione di guerra contro l’Assemblea nazionale costituente, contro il repubblicanismo borghese, contro Cavaignac. Non è mestieri esporre come la bancarotta in massa dei piccoli borghesi parigini doveva spingere innanzi i suoi effetti ulteriori molto al di là dei direttamente colpiti e dare una nuova scossa al traffico borghese, mentre il deficit dello Stato ritornò ad ingrossare per le spese dell’insurrezione di giugno e l’entrata dello Stato si mantenne in costante oscillazione, causa l’arresto della produzione, la limitazione del consumo e l’importazione diminuita. Non v’era altro mezzo, a cui Cavaignac e l’Assemblea nazionale potessero far ricorso, che un nuovo prestito, che li cacciasse ancor più sotto al giogo dell’aristocrazia finanziaria. Mentre i piccoli borghesi avevano raccolto, come frutto della vittoria di giugno, la bancarotta e la liquidazione giudiziale, i giannizzeri di Cavaignac, le guardie mobili, trovarono, all’incontro, il loro premio fra le molli braccia delle _lorettes_ e ricevettero, essi, «i giovani salvatori della società», omaggi d’ogni sorta nei saloni di Marrast, di questo _gentilhomme_ della tricolore, che faceva la parte d’Anfitrione ed insieme di trovatore della repubblica _honnête_. Frattanto una siffatta preminenza sociale ed il soldo sproporzionatamente più elevato delle guardie mobili irritavano l’esercito, mentre svanivano nel tempo stesso tutte le illusioni nazionali, con cui, sotto Luigi Filippo, il repubblicanismo borghese aveva saputo avvincere a sè una parte dell’esercito e della classe dei contadini, mediante il suo giornale, il _National_. Bastò l’opera di mediazione, che Cavaignac e l’Assemblea nazionale fecero nell’Italia settentrionale, per tradirla uniti coll’Inghilterra e consegnarla all’Austria —, bastò questo unico giorno di dominio per annientare diciott’anni d’opposizione del _National_. Niun governo meno nazionale di quello del _National_, niuno più dipendente dall’Inghilterra, — e sotto Luigi Filippo il giornale viveva quotidianamente ricantucciando il catoniano: _Carthaginem esse delendam_; — niuno più servile verso la Santa Alleanza, — e da un Guizot il giornale aveva reclamato si lacerassero i trattati di Vienna. L’ironia della storia aveva fatto di Bastide, ex-redattore dei fatti esteri nel _National_, un ministro degli affari esteri di Francia, affinch’egli confutasse ciascuno dei suoi articoli con ciascuno dei suoi dispacci. Per un istante l’esercito e la classe dei contadini avevano creduto che, contemporaneamente alla dittatura militare, sarebbero state poste all’ordine del giorno della Francia la guerra all’estero e la _gloire_. Ma Cavaignac non era affatto la dittatura della spada sulla società borghese: era la dittatura della borghesia mediante la spada. E del soldato essa aveva bisogno ancora, ma solo come gendarme. Sotto i rigidi tratti di una rassegnazione da repubblicano antico, Cavaignac nascondeva un’insipida sommissione alle più umili condizioni del suo ufficio borghese. _L’argent n’a pas de maître!_ Il danaro non ha padrone! Questa vecchia divisa del _tiers-ètat_ era da lui idealizzata, come lo era dall’Assemblea costituente, mentre ambidue la traducevano in linguaggio politico: la borghesia non ha re; la vera forma del suo dominio è la repubblica. E perfezionare tal forma, portare a compimento una Costituzione repubblicana, ecco in che consisteva la «grande opera organica» dell’Assemblea nazionale costituente. Lo sbattezzamento del calendario cristiano in uno repubblicano, di san Bartolomeo in san Robespierre, non cangia la pioggia nè il bel tempo più che non cangiasse o dovesse cangiare la società borghese per questa Costituzione. Dov’essa faceva qualche cosa più che mutar vestito, erano fatti compiuti che metteva a protocollo. Così registrò solennemente il fatto della repubblica, il fatto del suffragio universale, il fatto d’un’unica Assemblea nazionale sovrana in luogo delle due Camere costituzionali limitate. Così registrò e regolò il fatto della dittatura di Cavaignac, sostituendo la monarchia ereditaria stazionaria ed irresponsabile con una monarchia elettiva, ambulante e responsabile, con una presidenza quadriennale. Così elevò a legge costituente il fatto dei poteri staordinarii, di cui l’Assemblea nazionale, dopo i terrori del 15 maggio e del 25 giugno, aveva, nell’interesse della propria sicurezza, cautamente investito il suo presidente. Il resto della Costituzione era questione di terminologia. Dal macchinismo dell’antica monarchia si strapparono le etichette realiste, incollandovene sopra delle repubblicane. Marrast, già redattore capo del _National_, ora redattore-capo della Costituzione, se la cavò da questo compito accademico non senza talento. L’Assemblea costituente rassomigliava a quell’impiegato chileno, che voleva dare assetto più stabile ai rapporti della proprietà fondiaria mediante una misurazione catastale, proprio nel momento in cui il rombo sotterraneo aveva già preannunciato l’eruzione vulcanica, che doveva togliergli la terra sotto ai piedi. Mentr’essa in teoria tracciava la linea delle forme, che al dominio della borghesia avevano dato la sua espressione repubblicana, in realtà si affermava unicamente colla soppressione di tutte le formole, colla violenza _sans phrase_, collo stato d’assedio. Due giorni avanti di mettersi all’opera colla Costituzione, essa proclamò la propria continuazione. Prima d’allora si facevano e si approvavano le Costituzioni non appena il processo dell’evoluzione sociale aveva raggiunto uno stadio di quiete, e i nuovi rapporti di classe si erano consolidati, e le frazioni cozzanti della classe dominante si erano rifugiate in un compromesso, che loro permetteva di proseguire la lotta interna, da cui era esclusa in pari tempo la massa del popolo. Questa Costituzione, all’opposto, non sanzionò alcuna rivoluzione sociale; sanzionò la momentanea vittoria della vecchia società sulla rivoluzione. Nel primo progetto di Costituzione, elaborato avanti le giornate di giugno, si trovava tuttora il _droit au travail_, il diritto al lavoro, questa goffa formula, in cui primitivamente si riassumono i reclami rivoluzionarî del proletariato. Lo si trasformò nel _droit à l’assistance_, nel diritto alla pubblica assistenza; e quale Stato moderno non sostenta in una od altra forma i suoi poveri? Il diritto al lavoro è nel senso borghese un controsenso, un meschino, un pio desiderio; ma dietro al diritto al lavoro sta la presa di possesso del capitale, dietro alla presa di possesso del capitale l’appropriazione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe lavoratrice associata e conseguentemente l’abolizione del lavoro salariato, del capitale e del loro rapporto di scambio. Dietro al «diritto al lavoro» stava l’insurrezione di giugno. L’Assemblea costituente, che aveva posto di fatto il proletariato rivoluzionario fuor dalla legge, doveva per ragion di principio espellerne la formula dalla Costituzione, dalla legge delle leggi; doveva lanciare il suo anatema sul «diritto al lavoro». Ma qui non si fermò essa. Come Platone aveva bandito dalla sua repubblica i poeti, essa bandì dalla sua, in perpetuo, l’imposta progressiva. E l’imposta progressiva non è solamente una misura borghese, attuabile, su maggiore o minor scala graduatoria, entro i rapporti esistenti di produzione; essa era l’unico mezzo per legare i medi ceti della società borghese alla repubblica _honnête_, per ridurre il debito dello Stato, per dar scacco alla maggioranza antirepubblicana della borghesia. Nell’occasione dei _concordats à l’amiable_, i repubblicani tricolori avevano di fatto sacrificato la piccola borghesia. Questo fatto isolato venne da essi elevato a principio, mediante l’interdizione legale dell’imposta progressiva. Essi posero la riforma borghese allo stesso livello della rivoluzione proletaria. Ma quale fu la classe, che poi rimase a sostenere la loro repubblica? La grande borghesia. E la massa di questa era antirepubblicana. Se essa sfruttava i repubblicani del _National_ per dar nuova solidità ai vecchi rapporti della vita economica, non dimenticava però di sfruttare per altra via i rapporti sociali nuovamente consolidati, a fine di ristabilire le forme politiche corrispondenti ad essi. Già sul principio d’ottobre, Cavaignac si vede costretto a far ministri della repubblica Dufaure e Vivien, già ministri di Luigi Filippo, per quanto i puritani acefali del suo stesso partito fremessero e strepitassero. Nel mentre rigettava qualsiasi compromesso colla piccola borghesia, nè riesciva ad incatenare alla nuova forma dello Stato alcun nuovo elemento della società, la Costituzione tricolore s’affrettò, all’incontro, a restituire l’intangibilità tradizionale ad un corpo, in cui l’antico Stato trovava i suoi difensori più accaniti e fanatici. Elevò, cioè, l’inamovibilità dei giudici, che il governo provvisorio aveva posto in forse, a legge costituente. Il re unico, ch’essa aveva rimosso, risuscitava in questi inamovibili inquisitori della legalità. La stampa francese analizzò da molti lati le contraddizioni della Costituzione del signor Marrast; ad esempio la coesistenza di due sovrani, l’Assemblea nazionale ed il presidente, ecc., ecc. La contraddizione, che involge tutta quanta questa Costituzione, sta però in ciò, che le classi, la cui schiavitù sociale essa deve eternare, proletariato, contadini, piccoli borghesi, sono messe da lei, mediante il suffragio universale, nel possesso del potere politico, mentre alla classe, il cui antico potere essa sanziona, alla borghesia, esso sottrae le guarentigie politiche di questo potere. Essa ne costringe il dominio politico entro condizioni democratiche, le quali facilitano, ad ogni momento, la vittoria alle classi ostili e pongono in questione le basi stesse della società borghese. Dalle une essa esige che non avanzino dall’emancipazione politica alla sociale, dalle altre che non retrocedano dalla ristorazione sociale alla politica. Poca pena si davano di tali contraddizioni i repubblicani borghesi. A misura che avevano cessato d’essere indispensabili — ed indispensabili erano stati solamente quali paladini della vecchia società contro il proletariato rivoluzionario — poche settimane dopo la loro vittoria, essi erano precipitati dalla posizione di partito a quella di consorteria. E la Costituzione veniva da essi trattata come un grande intrigo. Ciò che doveva costituirsi con essa era, avanti ogni cosa, il dominio della consorteria. Il presidente doveva essere un Cavaignac prolungato, l’Assemblea legislativa una Costituente prolungata. Il potere politico delle masse popolari essi speravano di degradarlo a un potere d’apparenza, facendolo però giocare in modo da riescire a tenere in permanenza sospeso sulla maggioranza della borghesia il dilemma delle giornate di giugno: Regno del _National_, oppure regno dell’anarchia. L’edificio della Costituzione, inaugurato il 4 settembre, fu terminato il 23 ottobre. Il 2 settembre la Costituente aveva deliberato di non sciogliersi, insino a che non venissero emanate le leggi organiche a complemento della Costituzione. Cionullameno essa si decise ora a chiamare in vita la sua creatura più legittima, il presidente, e questo il 10 dicembre, molto prima cioè che il ciclo della propria azione fosse chiuso. Tanto essa era certa di salutare nel bamboccio della Costituzione il figlio di sua madre! Per precauzione, si era trovato l’espediente che, ove nessuno dei candidati raggiungesse due milioni di voti, l’elezione avesse a passare dalla nazione alla Costituente. Vane misure! Il primo giorno dell’avvenimento della Costituzione fu l’ultimo giorno del dominio della Costituente. Nel fondo dell’urna elettorale giaceva la sua sentenza di morte. Essa cercava il «figlio di sua madre»; fu il «nipote di suo zio» che trovò. Saulle Cavaignac battè un milione di voti, ma Davide Napoleone ne battè sei. Saulle Cavaignac era sei volte battuto. Il 10 dicembre 1848 fu il giorno dell’insurrezione dei contadini. È solo da questo giorno, che datò il febbraio pei contadini francesi. Il simbolo, che esprimeva la loro entrata nel movimento rivoluzionario, goffamente astuto, furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione calcolata, farsa patetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata di storia mondiale, geroglifico inesplicabile per l’intelletto dei civilizzati, — questo simbolo portava incontestabilmente la fisionomia della classe, che entro la civiltà rappresenta la barbarie. La repubblica erasi annunciata ad essa coll’esattore delle imposte; essa si annunciò alla repubblica coll’imperatore. Napoleone era l’unico uomo, che avesse esaurientemente rappresentato gli interessi e la fantasia della classe dei contadini, sorta primivamente nel 1789. Mentre scriveva il nome di lui sul frontespizio della repubblica, essa dichiarava all’estero la guerra, all’interno la constatazione del proprio interesse di classe. Napoleone non era affatto, pei contadini, una persona, ma un programma. Colle bandiere, a suon di musica, essi eransi recati alle sezioni elettorali, al grido: _plus d’impôts, à bas les riches, à bas la république, vive l’Empereur!_ Non più imposte, abbasso i ricchi, abbasso la repubblica, viva l’imperatore! Dietro l’imperatore nascondevasi la guerra dei contadini. La repubblica contro la quale avevano votato non era che la repubblica dei ricchi. Il 10 dicembre fu il colpo di Stato dei contadini, che rovesciò il governo vigente. E da questo giorno, in cui essi avevano tolto e dato alla Francia un governo, i loro occhi stettero fissati su Parigi. Eroi attivi, per un momento, del dramma rivoluzionario, non si poteva più ridurli alla parte inattiva ed indifferente del coro. Le restanti classi contribuirono a render compiuta la vittoria elettorale dei contadini. L’elezione di Napoleone era pel proletariato la destituzione di Cavaignac, la rovina della Costituente, l’abdicazione del repubblicanismo borghese, la cassazione della vittoria di giugno. Per la piccola borghesia, Napoleone era il dominio del debitore sul creditore. Per la maggioranza della grande borghesia, l’elezione di Napoleone era l’aperta rottura colla frazione, di cui essa aveva dovuto, per un istante, servirsi contro la rivoluzione, ma che le era divenuta intollerabile non appena ell’aveva cercato di dare alla situazione del momento la solidità d’una situazione costituzionale. Napoleone al posto di Cavaignac era, per essa, la monarchia al posto della repubblica, l’inizio della ristorazione realista, degli Orléans timidamente annunciati, il giglio nascosto fra le viole. L’esercito, infine, aveva votato per Napoleone contro la guardia mobile, contro l’idillio della pace, a favore della guerra. Per tal modo, accadde, com’ebbe a dire la _Neue Rheinische Zeitung_, che l’uomo più limitato della Francia acquistasse il significato più complesso. Appunto non essendo nulla, egli poteva significar tutto, fuorchè sè medesimo. Per quanto vario, del resto, suonasse il significato del nome di Napoleone presso le varie classi, ciascuna, scrivendolo sulle proprie schede, scriveva: abbasso il partito del _National_, abbasso Cavaignac, abbasso la Costituente, abbasso la repubblica borghese. Lo dichiarò pubblicamente il ministro Dufaure nella Assemblea costituente: Il 10 dicembre è un secondo 24 febbraio. Piccola borghesia e proletariato avevano votato in blocco per Napoleone allo scopo di votare contro Cavaignac e di sottrarre, mediante l’unione dei voti, alla Costituente la conclusione decisiva. Intanto la parte più progressiva d’ambedue le classi poneva i proprî candidati. Napoleone era il nome collettivo di tutti i partiti coalizzati contro la repubblica borghese. Ledru-Rollin e Raspail i nomi proprî, della piccola borghesia democratica il primo, del proletariato rivoluzionario l’altro. I voti per Raspail — lo avevano dichiarato altamente i proletarî ed i loro oratori socialisti — non dovevano essere più che una dimostrazione, che altrettante proteste contro qualsivoglia presidenza, ossia contro la Costituzione stessa, che altrettanti voti contro Ledru-Rollin, che il primo atto con cui il proletariato, quale partito politico autonomo, si emancipava dal partito democratico. Questo partito, all’incontro — la piccola borghesia democratica e la sua rappresentante parlamentare, la Montagna — aveva trattato la candidatura di Ledru-Rollin con tutta la serietà, con cui esso è solennemente abituato a mistificare sè stesso. Fu del resto l’ultimo suo tentativo d’esporsi quale partito autonomo contro il proletariato. Il 10 dicembre, non il solo partito borghese repubblicano, anche la piccola borghesia democratica e la sua Montagna erano state battute. La Francia possedeva ora accanto ad una Montagna un Napoleone; prova questa che ambidue non erano se non le caricature inanimate delle grandi realtà, di cui portavano i nomi. Col cappello imperiale e l’aquila, Luigi Napoleone non parodiava meno miserabilmente l’antico Napoleone, di quello che la Montagna non parodiasse l’antica Montagna colle sue frasi tolte a prestito al 1793 e colle sue pose demagogiche. Il bigottismo tradizionale pel 1793 si sfatò così insieme al bigottismo tradizionale per Napoleone. L’opera della rivoluzione non poteva dirsi compiuta insino a che questa non avesse conquistato il suo nome proprio, il suo nome originale; il che non erale possibile prima che la moderna classe rivoluzionaria, il proletariato industriale, non si fosse avanzata, come dominatrice, al suo proscenio. È lecito dire che, anche per tale riguardo, il 10 dicembre abbindolò la Montagna, facendo sì che venisse fuorviata nella sua propria coscienza, giacchè esso, ridendo, spezzò la classica analogia coll’antica rivoluzione, mediante un impertinente frizzo contadinesco. Il 20 dicembre Cavaignac depose il suo ufficio e l’Assemblea Costituente proclamò Luigi Napoleone presidente della repubblica. Il 19 dicembre, ultimo giorno del suo dominio assoluto, essa aveva rigettata la proposta d’amnistia degli insorti di giugno. Revocare il decreto del 27 giugno, con cui, passando oltre il giudizio dei tribunali, aveva condannato 15.000 insorti alla deportazione, non importava forse revocare la stessa battaglia di giugno? Odilon Barrot, l’ultimo ministro di Luigi Filippo, fu il primo ministro di Luigi Napoleone. Luigi Napoleone, come non datò il giorno del suo regime dal 10 dicembre, ma da un Senatus-consulto del 1806, così trovò un presidente di ministri, che datò il suo ministero non dal 20 dicembre, ma da un regio decreto del 24 febbraio. In qualità di legittimo erede di Luigi Filippo, Luigi Napoleone rese più mite il cangiamento di regime, mantenendo l’antico ministero, che del resto non aveva avuto il tempo di sciuparsi, dacchè non aveva trovato il tempo per entrare in vita. Quella scelta gli era stata consigliata dai capi delle frazioni borghesi realiste. Il condottiero dell’antica opposizione dinastica, il quale aveva inconsapevolmente procurato il passaggio ai repubblicani del _National_, era ancor più indicato a procurare, con piena consapevolezza, il passaggio dalla repubblica borghese alla monarchia. Odilon Barrot era il capo dell’unico antico partito d’opposizione che, avendo lottato sempre inutilmente pel portafoglio ministeriale, non si fosse ancora logorato. Con rapida vicenda, la rivoluzione aveva lanciato tutti i vecchi partiti d’opposizione al culmine dello Stato, affinch’essi avessero, non solo nel fatto, ma nella stessa frase, a rinnegare e confutare le loro vecchie frasi, venendo alla fine, tutti insieme riuniti in uno schifoso ibrido corpo, lanciati dal popolo sullo scannatoio della storia. Ed a niuna apostasia venne risparmiato questo Barrot, quest’incarnazione del liberalismo borghese, che per diciott’anni aveva celato la meschina vacuità dello spirito sotto un corretto contegno del corpo. Se, in qualche momento, egli stesso era sgomentato dal contrasto troppo stridente fra le spine attuali e gli allori del passato, un semplice sguardo entro lo specchio gli rimandava l’effigie ministeriale e l’umana ammirazione di sè medesimo. Ciò che lo specchio gli riproduceva, era Guizot, da lui sempre invidiato e che gli aveva sempre fatto da maestro, era Guizot stesso, ma Guizot colla fronte olimpica di Odilon. Ciò ch’egli non vedeva, erano gli orecchi di Mida. Il Barrot del 24 febbraio venne a manifestarsi solamente nel Barrot del 20 dicembre. Con lui, orleanista e volteriano, faceva il paio, quale ministro del culto, il legittimista e gesuita Falloux. Pochi giorni più tardi, il ministero dell’interno venne affidato a Leone Faucher, il malthusiano. Il diritto, la religione, l’economia politica! Tutto questo capiva in sè il ministero Barrot e, per giunta, un accordo tra legittimisti ed orleanisti. Non mancava che il bonapartista. Bonaparte dissimulava tuttora la cupidigia di significare il Napoleone, poichè Soulouque non faceva ancora la parte del Toussaint l’Ouverture. Il partito del _National_ venne tosto sbalzato da tutti i più alti posti, in cui erasi nicchiato. Prefettura di polizia, direzione delle poste, procura generale, _mairie_ di Parigi, tutto fu occupato da antiche creature della monarchia. Il legittimista Changarnier ottenne i supremi comandi riuniti della guardia nazionale del dipartimento della Senna, della guardia mobile e delle truppe di linea della prima divisione militare; l’orleanista Bugeaud venne nominato comandante in capo dell’esercito delle Alpi. Questo cangiamento di funzionarî continuò ininterrotto sotto il governo Barrot. Primo atto del suo ministero fu la ristorazione dell’antica amministrazione realista. In un attimo mutò la scena ufficiale, — quinte, costumi, linguaggio, attori, figuranti, comparse, suggeritori, posizione delle parti, motivi del dramma, contenuto dell’intreccio, situazione complessiva. Sola la preistorica Assemblea costituente trovavasi ancora al suo posto. Ma nell’ora in cui l’Assemblea nazionale aveva installato Bonaparte, e Bonaparte Barrot, e Barrot Changarnier, la Francia passava dal periodo della repubblica costituenda nel periodo della repubblica costituita. Ed in repubblica costituita che stava mai a fare un’Assemblea costituente? Creato il mondo, al creatore non era rimasto che rifugiarsi nel cielo. L’Assemblea costituente era risoluta a non seguirne l’esempio; l’Assemblea nazionale era l’ultimo asilo del partito dei repubblicani borghesi. Se le erano stati strappati tutti i congegni del potere esecutivo, non le restava forse la sua onnipotenza costituente? Far valere, in qualunque circostanza, la posizione sovrana ch’essa occupava, e giovarsene per riconquistare il perduto terreno, fu il suo primo pensiero. Sloggiato il ministero Barrot da un ministero del _National_, ed ecco il personale realista obbligato a sgomberare tosto dai palazzi dell’amministrazione ed il personale tricolore rientrarvi trionfante! L’Assemblea nazionale aveva deliberato la caduta del ministero ed il ministero stesso offerse l’occasione dell’attacco, quale la Costituente non avrebbe potuto trovare più adatta. Si rammenterà che Luigi Napoleone significava pei contadini: non più tasse! Eran sei giorni dacchè sedeva sullo scanno presidenziale e nel settimo, nel 27 settembre, il suo ministero propose il mantenimento dell’imposta sul sale, di cui il governo provvisorio aveva decretato l’abolizione. L’imposta sul sale divide coll’imposta sul vino il privilegio di essere il capro espiatorio del vecchio sistema finanziario francese, particolarmente agli occhi della popolazione delle campagne. All’eletto dei contadini il ministero Barrot non poteva porre sulle labbra epigramma più mordace pei suoi elettori di queste parole: ristabilimento dell’imposta sul sale! Coll’imposta sul sale, Bonaparte perdette il proprio sale rivoluzionario; — il Napoleone dell’insurrezione dei contadini evaporò quale uno scenario di nebbia non lasciando dietro a sè altro che la grande incognita dell’intrigo realista. E non era stato senz’intenzione che il ministero Barrot di un atto di mistificazione così grossolano e così privo di tatto aveva fatto il primo atto di governo del presidente. La Costituente, dal canto suo, afferrò avidamente la doppia occasione di abbattere il ministero e di mettersi innanzi, contro l’eletto dei contadini, quale tutrice degli interessi dei contadini. Respinse la proposta del ministro delle finanze, ridusse l’imposta sul sale ad un terzo del suo primitivo ammontare, aumentando così di circa 60 milioni un deficit dello Stato di 560 milioni, ed attese tranquillamente che il ministero, dopo questo voto di sfiducia, si ritirasse. Così poca era la sua intuizione del nuovo mondo, che la circondava, e del mutamento della propria posizione. Dietro al ministero stava il presidente e dietro al presidente stavano sei milioni, che avevano deposto nell’urna elettorale altrettanti voti di sfiducia contro la Costituente. La Costituente rimandò indietro alla nazione il suo voto di sfiducia. Ridicolo baratto! Essa dimenticava che i suoi voti avevano perduto il corso forzoso. Il rigetto dell’imposta sul sale non ebbe altro effetto che di spingere a maturanza la risoluzione di Bonaparte e del suo ministero di «farla finita» colla Assemblea costituente. Incominciava quel lungo duello, che riempie l’intera seconda metà della vita della Costituente. Il 29 gennaio, il 21 marzo, il 3 maggio sono le _journeés_, le grandi giornate di questa crisi; sono altrettanti precursori del 13 giugno. I francesi, come ad esempio Luigi Blanc, ravvisarono nel 29 gennaio l’apparire d’una contraddizione costituzionale, della contraddizione tra un’Assemblea nazionale sovrana, indissolubile, escita dal suffragio universale ed un presidente, responsabile verso lei secondo la lettera, ma secondo la realtà egualmente sanzionato dal suffragio e concentrante nella propria persona tutti i voti divisi e sminuzzati nei singoli membri dell’Assemblea nazionale, e oltre a ciò, tuttavia, nel pieno possesso dell’intero potere esecutivo, sopra il quale l’Assemblea incombe unicamente come potere morale. È questa un’interpretazione, che scambia la forma letterale della lotta nella tribuna, nella stampa, nei clubs col suo reale contenuto. Luigi Bonaparte contro l’Assemblea nazionale costituente non era già un potere costituzionale contro l’altro, non era già il potere esecutivo contro il legislativo, — era la stessa repubblica borghese costituita contro gli stromenti della sua costituzione, contro gli intrighi ambiziosi e le rivendicazioni ideologiche della frazione borghese rivoluzionaria, la quale l’aveva fondata ed ora, sorpresa, trovava che la sua repubblica costituita rassomigliava ad una monarchia ristorata e voleva colla forza tener fermo il periodo costituente, tenerlo fermo nelle sue condizioni, nelle sue illusioni, nel suo linguaggio, nelle sue persone, impedendo alla repubblica borghese omai matura di affacciarsi nella sua forma completa e specifica. Come l’Assemblea nazionale costituente aveva assunto le parti di Cavaignac ricadutole addosso, così Bonaparte assunse quelle dell’Assemblea nazionale legislativa, da lui non per anco dispersa, cioè dell’Assemblea nazionale della repubblica borghese costituita. L’elezione di Bonaparte potè spiegare i suoi effetti solo in quanto al posto d’un unico nome mise innanzi i suoi significati molteplici, solo in quanto si ripetè nell’elezione della nuova Assemblea nazionale. Il mandato della vecchia era stato cassato dal 10 dicembre. Chi adunque entrò in iscena nel 29 gennaio, non furono già il presidente e l’Assemblea nazionale di una medesima repubblica, ma furono l’Assemblea nazionale della repubblica futura ed il presidente della repubblica attuale, due forze che incarnavano periodi affatto diversi nel corso della vita della repubblica; furono la piccola frazione repubblicana della borghesia, che sola poteva proclamare la repubblica, strapparla al proletariato rivoluzionario con una lotta nelle strade e col dominio del terrore e tratteggiare nella Costituzione i propri principî ideali e, dall’altra parte, tutta la massa realista della borghesia, che sola poteva dominare in questa repubblica borghese costituita, sopprimere nella Costituzione gli ingredienti ideologici e dar vita, con una propria legislazione ed una propria amministrazione, alle condizioni indispensabili per l’assoggettamento del proletariato. Durante tutto il mese di gennaio eransi raccolti gli elementi, che fecero scoppiare l’uragano del 29 gennaio. La Costituente aveva voluto, col suo voto di sfiducia, forzare il ministero Barrot a dimettersi. Il ministero Barrot, all’incontro, propose alla Costituente di dare a sè stessa un voto di sfiducia, e di deliberare il proprio suicidio, decretando il proprio scioglimento. Rateau, uno dei deputati più oscuri, fu quegli che avanzò, dietro comando del ministero, tale proposta alla Costituente, a quella medesima Costituente, che già nell’agosto aveva risoluto di non sciogliersi insino a che non avesse emanato un’intera serie di leggi organiche, che dovessero completare la Costituzione. Il ministeriale Fould le dichiarò che il suo scioglimento era necessario appunto «pel ristabilimento del credito scosso». Ed, infatti, non iscuoteva essa il credito, prolungando il provvisorio e ponendo nuovamente in questione con Barrot Bonaparte e con Bonaparte la repubblica costituita? L’olimpico Barrot, divenuto un Orlando furioso dinanzi alla prospettiva di vedersi sfuggire di nuovo, dopo appena due settimane di godimento, la presidenza dei ministri, che gli era riescito finalmente di afferrare e che i repubblicani gli avevano prorogato già una volta per un decennio, ossia per dieci mesi, Barrot agì nel modo più tirannico contro questa miserabile Assemblea. Il termine più mite da lui usato era che «con essa non era possibile alcun avvenire». E davvero essa non rappresentava oramai che il passato. «Ell’era incapace», soggiungeva ironicamente, «di circondare la repubblica delle istituzioni necessarie al suo consolidamento.» Ed infatti, tolto di mezzo l’antagonismo esclusivo contro il proletariato, veniva in pari tempo ad infrangersi la sua energia borghese, e coll’antagonismo contro i realisti veniva a rivivere la sua energia repubblicana. Per tal modo ell’era doppiamente incapace a consolidare la repubblica borghese, che più non intuiva, mercè convenienti istituzioni. Insieme alla proposta di Rateau, il ministero complottò l’inondazione per tutto il paese di petizioni, e giornalmente, da ogni angolo della Francia, piovvero sulla testa della Costituente palle di _billets doux_, in cui, più o meno categoricamente, le si chiedeva di sciogliersi e di far testamento. La Costituente, a sua volta, provocò delle contropetizioni, colle quali si faceva intimare di rimanere in vita. La lotta elettorale fra Bonaparte e Cavaignac si riproduceva in lotta di petizioni pro e contro lo scioglimento dell’Assemblea nazionale. Le petizioni dovevano essere il commento supplementare del 10 dicembre. Durante tutto il gennaio continuò quest’agitazione. Nel conflitto tra la Costituente ed il presidente, la prima non poteva riferire la propria origine all’elezione universale, dacchè si faceva appello appunto contro essa al suffragio universale. Nè poteva cercare appoggio in un potere regolare, dacchè trattavasi di lotta contro il potere legale. Nè poteva abbattere il ministero con voti di sfiducia, come aveva nuovamente tentato nel 6 e 26 gennaio, dacchè il ministero non esigeva la sua fiducia. Un’unica possibilità le rimaneva, quella dell’insurrezione. Le forze combattenti dell’insurrezione erano la parte repubblicana della guardia nazionale, la guardia mobile ed i centri del proletariato rivoluzionario, i clubs. Le guardie mobili, questi eroi delle giornate di giugno, formavano nel dicembre la forza combattente organizzata delle frazioni borghesi repubblicane, allo stesso modo che, prima del giugno, gli _ateliers_ nazionali avevano formato la forza combattente organizzata del proletariato rivoluzionario. Come la Commissione esecutiva della Costituente aveva diretto il suo attacco brutale sugli _ateliers_ nazionali, allorquando volle farla finita colle pretese, divenute intollerabili, del proletariato; così il ministero di Bonaparte diresse l’attacco sulla guardia mobile, allorquando volle farla finita colle pretese, divenute intollerabili, delle frazioni borghesi repubblicane. Esso ordinò lo scioglimento della guardia mobile. Una metà ne fu congedata e gettata sul lastrico; l’altra ricevette un’organizzazione monarchica in sostituzione della democratica ed ebbe ribassato il soldo al livello del soldo comune delle truppe di linea. La guardia mobile venne a trovarsi nella situazione degli insorti di giugno, e quotidianamente comparivano stampate nei giornali pubbliche confessioni, in cui essa riconosceva la propria colpa di giugno e ne implorava dal proletariato l’assoluzione. Ed i clubs? Non appena dall’Assemblea nazionale venne posto in questione Barrot, ed in Barrot il presidente, e nel presidente la repubblica borghese costituita, e nella repubblica borghese costituita la repubblica in generale, strinsero di necessità le loro file intorno ad essa tutti gli elementi costituenti della repubblica di febbraio, tutti i partiti da cui volevasi sovvertire la repubblica esistente e foggiarla, mediante un violento processo d’involuzione, a repubblica dei loro interessi e dei loro principî di classe. L’accaduto diveniva non accaduto, le cristallizzazioni del movimento rivoluzionario ritornavano allo stato fluido, la repubblica, per la quale erasi combattuto, era di bel nuovo l’indeterminata repubblica delle giornate di febbraio, dalla cui determinazione ogni partito rifuggiva. I partiti ripresero per un momento le loro antiche posizioni del febbraio, senza tuttavia partecipare alle illusioni del febbraio. I repubblicani tricolori del _National_ si appoggiarono nuovamente sui repubblicani democratici della _Réforme_, spingendoli come avanguardia nelle prime file del campo di battaglia parlamentare. I repubblicani democratici si appoggiarono nuovamente ai repubblicani socialisti — nel 27 gennaio un pubblico manifesto annunciò la loro riconciliazione ed alleanza — e si prepararono nei clubs il terreno insurrezionale. A ragione la stampa ministeriale trattava i repubblicani tricolori del _National_ da insorti del giugno risuscitati. Per sostenersi al vertice della repubblica borghese, essi posero in questione la stessa repubblica borghese. Nel 26 gennaio il ministro Faucher propose una legge sul diritto d’associazione, il cui primo paragrafo suonava: «I clubs sono vietati.» Egli presentò la mozione che questo progetto di legge venisse immediatamente portato a discussione, stante la sua urgenza. La Costituente rigettò la proposta dell’urgenza e il 27 gennaio Ledru-Rollin depose una proposta di messa in istato d’accusa del ministero per violazione della Costituzione, sottoscritta da 230 firme. La messa in istato d’accusa del ministero nel momento, in cui un simile atto non era che un’inabile rivelazione dell’impotenza del giudice, cioè della maggioranza della Camera, oppure una protesta impotente dell’accusatore contro la maggioranza medesima, — questo fu il gran colpo rivoluzionario, giocato d’allora in poi dalla postuma Montagna ad ogni punto culminante della crisi. Povera Montagna, schiacciata dal peso del proprio nome! Blanqui, Barbès, Raspail, ecc., avevano cercato, il 15 maggio, di disperdere l’Assemblea nazionale, penetrando, alla testa del proletariato parigino, nella sala delle sue sedute. Barrot preparava alla stessa Assemblea un 15 maggio morale, mentre voleva dettarle l’autoscioglimento e chiuderne la sala delle sedute. Era la stessa Assemblea, che aveva affidato a Barrot l’inchiesta contro gli accusati di maggio e che ora, nel momento che egli le appariva di fronte quale un Blanqui realista e che essa di fronte a lui cercava i propri alleati nei clubs, presso i proletarî rivoluzionarî, nel partito di Blanqui, in questo stesso momento era torturata dall’implacabile Barrot colla proposta di sottrarre i prigionieri di maggio al giudizio dei giurati e di assegnarli al giudizio supremo, inventato dal partito del _National_, alla _haute cour_. È cosa stupefacente come l’angoscia irritata d’un portafoglio ministeriale riescisse a cavar fuori dalla testa d’un Barrot frizzi degni d’un Beaumarchais! L’Assemblea nazionale, dopo aver tentennato a lungo, accolse la sua proposta. Di fronte agli attentatori di maggio, essa rientrava nel suo carattere normale. Come la Costituente era spinta contro il presidente ed i ministri all’insurrezione, così il presidente ed il ministero erano spinti contro la Costituente al colpo di Stato, non possedendo essi alcun mezzo legale per scioglierla. Ma la Costituente era la madre della Costituzione e la Costituzione la madre del presidente. Col colpo di Stato, il presidente lacerava la Costituzione e ne cancellava il titolo giuridico repubblicano. Per tal modo egli era forzato a tirar fuori il titolo giuridico imperialista; senonchè il titolo giuridico imperialista veniva a risvegliare l’orleanista; ambidue poi impallidivano dinanzi al titolo giuridico legittimista. La caduta della repubblica borghese non poteva che far scattare in alto il suo estremo polo contrario, la monarchia legittimista, in un momento in cui il partito orleanista era ancora nulla più che il vinto del febbraio e Bonaparte nulla più che il vincitore del 10 dicembre, in un momento in cui ambidue non potevano ancora opporre all’usurpazione repubblicana altro che il loro titolo monarchico egualmente usurpato. I legittimisti erano coscienti dell’opportunità del momento e cospiravano alla luce del sole. Nel generale Changarnier potevano sperare di aver trovato il loro Monk. L’avvento della «monarchia bianca» venne annunciato nei loro clubs con eguale pubblicità, come in quelli proletarî l’avvento della «repubblica rossa». Con una sommossa felicemente schiacciata, il ministero sarebbe sfuggito a tutte le difficoltà. «La legalità ci uccide!» esclamava Odilon Barrot. Una sommossa avrebbe permesso di sciogliere la Costituente sotto il pretesto del _salut public_ e di violare la stessa Costituzione. La brutale apparizione di Odilon Barrot nell’Assemblea nazionale, la proposta di scioglimento dei clubs, la rumorosa deposizione di 50 prefetti tricolori e la loro sostituzione con de’ realisti, lo scioglimento della guardia mobile, i maltrattamenti dei suoi capi da parte di Changarnier, la reinstallazione di Lherminier, il professore impossibile già sotto Guizot, la tolleranza delle millanterie legittimiste, — erano altrettante provocazioni alla sommossa. Ma la sommossa rimase muta. Essa attendeva il segnale dalla Costituente e non dal ministero. Giunse finalmente il 29 gennaio, il giorno, in cui dovevasi decidere sulla proposta di Mathieu (de la Drôme) pel rigetto incondizionato della proposta di Rateau. Legittimisti, orleanisti, bonapartisti, guardia mobile, Montagna, clubs, tutti cospiravano in quel giorno, ciascuno non meno contro il supposto nemico che contro il supposto alleato. Bonaparte, dall’alto del cavallo, passò in rivista parte delle truppe sulla piazza della Concordia, Changarnier si metteva in scena, sfoggiando una manovra strategica; la Costituente trovò l’edificio delle sue sedute occupato militarmente. Essa, il centro, in cui s’incrociavano tutte le speranze, i timori, le attese, le agitazioni, i dissidî, le cospirazioni, essa, l’Assemblea dal cuor di leone, non ebbe un istante di esitazione, trovandosi, allora più che mai, vicina a riconfondersi collo spirito dell’universo. Era simile a quel combattente, che non solo aveva paura di adoperare le proprie armi, ma si sentiva altresì obbligato a conservare intatte le armi del nemico. Con disprezzo della morte, firmò la propria sentenza di morte e votò contro il rigetto incondizionato della proposta di Rateau. Stretta d’assedio essa stessa, pose così un termine a quell’attività costituente che aveva avuto per cornice necessaria lo stato d’assedio di Parigi. Essa si vendicò in modo degno di sè, stabilendo, nel giorno successivo, un’inchiesta sullo spavento, che il ministero le aveva cacciato in corpo nel 29 gennaio. La Montagna dimostrò la sua mancanza d’energia rivoluzionaria e d’intelligenza politica col lasciarsi sfruttare dal partito del _National_, quasi da banditore della pugna, in questa grande commedia d’intrigo. Il partito del _National_ aveva fatto l’ultimo tentativo per continuare a tenere il monopolio del dominio posseduto durante il periodo di formazione della repubblica borghese. Ed era naufragato. Se nella crisi di gennaio si trattava dell’esistenza della Costituente, nella crisi del 21 marzo si trattò dell’esistenza della Costituzione; là delle persone del partito nazionale, qua del suo ideale. Non era mestieri d’alcuna dichiarazione che i repubblicani _honnêtes_ sacrificavano più a buon mercato l’elevato sentimento della loro ideologia che non il godimento mondano del potere governativo. Il 21 marzo stava all’ordine del giorno dell’Assemblea nazionale il progetto di legge di Faucher contro il diritto d’associazione: la soppressione dei clubs. L’articolo 8 della Costituzione guarentiva a tutti i francesi il diritto d’associarsi. Il divieto dei clubs era adunque una violazione non equivoca della Costituzione e la Costituente medesima era chiamata a canonizzare la profanazione dei suoi santi. Senonchè i clubs erano i punti di riunione, le sedi di cospirazione del proletariato rivoluzionario. La stessa Assemblea nazionale aveva proibito la coalizione degli operai contro i loro borghesi. E che altro erano i clubs se non una coalizione del complesso della classe dei lavoratori contro il complesso della classe borghese, che la formazione d’uno Stato di lavoratori contro lo Stato borghese? Non erano essi altrettante Assemblee costituenti del proletariato ed altrettante divisioni dell’esercito della rivolta, pronte al combattimento? Ciò che la Costituzione doveva anzitutto costituire era il dominio della borghesia. Evidentemente, adunque, sotto il diritto d’associazione la Costituzione poteva considerare quelle sole associazioni, che si trovavano in consonanza col dominio della borghesia, ossia coll’ordinamento borghese. Se essa, per uno scrupolo teorico, usava espressioni generiche, non eran qui governo ed Assemblea nazionale per interpretarla ed applicarla nel caso speciale? E se nell’epoca primitiva della repubblica i clubs erano in fatto vietati dallo stato d’assedio, non dovevano essi, nella repubblica regolare, nella repubblica costituita, essere vietati dalla legge? A questa prosaica interpretazione della Costituzione, i repubblicani tricolori nulla avevano da obbiettare, fuorchè la frase eccessiva della Costituzione. Parte d’essi, Pagnerre, Duclerc, ecc., votò pel ministero, procurandogli così la maggioranza. L’altra parte, coll’arcangelo Cavaignac ed il padre della chiesa Marrast alla testa, dopochè l’articolo pel divieto dei clubs era passato, si ritirò, unitamente a Ledru-Rollin ed alla Montagna, in una sala particolare d’ufficio, e «tennero consiglio». La Assemblea nazionale era paralizzata: non aveva più il numero legale. In buon punto si rammentò dal signor Crémieux, nella sala dell’ufficio, che di qui il cammino conduceva direttamente sulla strada e che non s’era più nel febbraio 1848, ma si contava marzo 1849. Improvvisamente illuminato, il partito del _National_ ritornò nella sala delle sedute dell’Assemblea nazionale e dietro ad esso la Montagna ancora una volta abbindolata, poichè, nel suo costante tormento d’appetiti rivoluzionarî, si attaccava con pari costanza ad opportunità costituzionali e si sentiva sempre ancor meglio a suo posto dietro ai repubblicani borghesi che non davanti al proletariato rivoluzionario. Così la commedia era recitata. E la Costituente stessa aveva decretato, che la violazione della lettera della Costituzione fosse l’unica attuazione conforme al suo spirito. Un solo punto rimaneva ancora da regolare: il contegno della repubblica costituita verso la rivoluzione europea: la sua politica estera. Un’insolita animazione regnava l’8 maggio 1849 nell’Assemblea costituente, la cui vita doveva cessare tra pochi giorni. L’attacco di Roma da parte dell’esercito francese, la sconfitta di questo da parte dei romani, l’infamia politica ed il biasimo militare del fatto, l’assassinio della repubblica romana per opera della repubblica francese, la prima campagna italiana del secondo Bonaparte, ecco quanto stava all’ordine del giorno. La Montagna era nuovamente escita fuori colla sua gran giocata: Ledru-Rollin aveva deposto sul tavolo presidenziale l’inevitabile atto d’accusa contro il ministero ed anche, questa volta, contro Bonaparte. Il motivo dell’8 maggio si ripetè più tardi come motivo del 13 giugno. Ma spieghiamoci sulla spedizione romana. Già, a mezzo novembre 1848, era stata spedita da Cavaignac a Civitavecchia una flotta di guerra, a fine di proteggere il papa, prenderlo a bordo e sbarcarlo in Francia. Il papa doveva benedire la repubblica _honnête_ ed assicurare l’elezione di Cavaignac a presidente. Col papa, Cavaignac voleva pigliare all’amo i preti, coi preti i contadini e coi contadini la presidenza. Pel suo fine prossimo di _réclame_ elettorale, la spedizione di Cavaignac era nello stesso tempo una protesta ed una minaccia contro la rivoluzione romana. V’era in essa in germe l’intervento della Francia a favore del papa. Tale intervento a pro del papa insieme all’Austria e a Napoli contro la repubblica romana venne deliberato nella prima seduta del Consiglio dei ministri di Bonaparte, il 23 dicembre. Falloux nel ministero significava il papa in Roma e nella Roma del papa. Bonaparte non aveva più bisogno del papa per diventare il presidente dei contadini, ma aveva bisogno dei conservatori del papa per conservare i contadini del presidente. Era alla dabbenaggine di questi ch’egli doveva la sua presidenza. Colla fede se ne sarebbe andata anche la loro dabbenaggine e la loro fede se ne andava col papa E gli orleanisti ed i legittimisti coalizzati, che dominavano in nome di Bonaparte! Prima di restaurare il re, era d’uopo restaurare il potere che consacra i re. Prescindendo dal loro realismo — senza l’antica Roma, soggetta al suo dominio temporale, non più papa; senza il papa, non più cattolicismo; senza il cattolicismo, non più religione francese; e senza religione, che sarebbe avvenuto della vecchia società francese? La ipoteca, posseduta dal contadino sui beni celesti, guarentisce l’ipoteca posseduta dal borghese sui beni del contadino. La rivoluzione romana era, per conseguenza, un attentato contro la proprietà, contro l’ordinamento borghese, temibile quanto la rivoluzione di giugno. Il ripristino del dominio borghese in Francia sollecitava la ristorazione del dominio papale in Roma. Insomma, nei rivoluzionarî romani si colpivano gli alleati dei rivoluzionarî francesi; l’alleanza delle classi controrivoluzionarie nella repubblica francese costituita venne a completarsi necessariamente nell’alleanza della repubblica francese colla Santa Alleanza, con Napoli ed Austria. La deliberazione del Consiglio dei ministri del 23 dicembre non era un mistero per la Costituente. Già l’8 gennaio Ledru-Rollin aveva interpellato sovra essa il ministero; il ministero aveva negato, l’Assemblea era passata all’ordine del giorno. Era fiducia nelle parole del ministero? Noi sappiamo ch’essa s’era data lo spasso, durante tutto il mese di gennaio, di votargli la sfiducia. Ma se ad esso era propria la parte del mentire, la parte di lei era di simular fede alle sue menzogne, salvando con ciò i _déhors_ repubblicani. Frattanto il Piemonte era battuto, Carlo Alberto aveva abdicato, l’esercito austriaco bussava alle porte di Francia. Ledru-Rollin interpellò violentemente. Il ministero dimostrò che nell’Italia settentrionale esso non aveva fatto che proseguire la politica di Cavaignac e che Cavaignac non aveva fatto che proseguire la politica del governo provvisorio, cioè di Ledru-Rollin. Questa volta esso raccolse dall’Assemblea nazionale nientemeno che un voto di fiducia e venne autorizzato ad occupare temporaneamente un’opportuna posizione nell’alta Italia a fine di preparare con ciò un agguato alle pacifiche trattative coll’Austria sull’integrità del territorio sardo e sulla questione romana. È noto che il destino d’Italia viene deciso sui campi di battaglia dell’alta Italia. Alla caduta della Lombardia e del Piemonte sarebbe adunque seguita la caduta di Roma, ovvero la Francia sarebbe stata obbligata a dichiarare la guerra all’Austria e, per conseguenza, alla controrivoluzione europea. Pigliò l’Assemblea d’un tratto il ministero Barrot per l’antico Comitato di salute pubblica? O sè stessa per la Convenzione? A che adunque l’occupazione militare di una posizione nell’alta Italia? Sotto questo velo trasparente si celava la spedizione contro Roma. Il 14 aprile 14.000 uomini salpavano, sotto Oudinot, alla volta di Civitavecchia; il 16 aprile l’Assemblea nazionale accordò al ministero un credito di franchi 1.200.000 per mantenere durante tre mesi una flotta, che intervenisse nel Mediterraneo. Per tal modo essa diede al ministero tutti i mezzi per intervenire contro Roma, mentre aveva un contegno come di chi gli accordasse l’intervento contro l’Austria. Essa non vedeva ciò che il ministero faceva; udiva solamente ciò ch’ei diceva. Tanta fede mai non si sarebbe trovata in Israello; la Costituente era caduta in tale situazione, da non permettersi di sapere quanto la repubblica costituita dovesse fare. Finalmente l’8 maggio si rappresentò l’ultima scena della commedia: la Costituente invitò il ministero a pronte misure, che riconducessero la spedizione italiana allo scopo tenutole nascosto. Bonaparte, nella sera stessa, fece inserire nel _Moniteur_ una lettera, in cui prodigava ad Oudinot la massima riconoscenza. L’11 maggio l’Assemblea nazionale rigettò l’atto di accusa contro il medesimo Bonaparte ed il suo ministero. E la Montagna che, in luogo di lacerare questo tessuto d’inganni, pigliava in modo tragico la commedia parlamentare, per recitarvi essa stessa la parte di Fouquier Tinville, non tradiva essa, sotto la pelle leonina presa a prestito dalla Convenzione, il cuoio originario di vitello piccolo borghese! L’ultima metà della vita della Costituente si riassume così: essa ammette, il 29 gennaio, che le frazioni borghesi realiste sono i superiori naturali della repubblica da essa costituita; il 21 marzo, che la violazione della Costituzione ne è la realizzazione; e l’11 maggio che l’alleanza passiva della repubblica francese coi popoli in lotta, ampollosamente annunciata, significa la sua alleanza attiva colla controrivoluzione europea. Questa miserabile Assemblea abbandonò la scena, dopo essersi procurata, due giorni ancora prima, dell’anniversario della sua nascita, la soddisfazione di respingere la proposta d’amnistia degli insorti di giugno. Spezzata la sua potenza, dal popolo odiata mortalmente, respinta, malmenata, gettata sdegnosamente da parte dalla borghesia, di cui era la creatura, forzata a rinnegare nella seconda metà della propria esistenza la prima metà, spogliata delle sue illusioni repubblicane, nulla di grande avendo fondato nel passato, nulla sperando nell’avvenire, consumandosi a frusto a frusto e pur tuttavia vivendo, essa non riescì che a galvanizzare ancora il proprio cadavere, mentre insistentemente rivendicava a sè la vittoria del giugno e riviveva questo supplemento di vita, affermandosi col ripetere continuamente la condanna dei condannati. Vampiro, che visse del sangue degli insorti di giugno! Essa lasciò dietro a sè il deficit dello Stato ingrossato dalle spese dell’insurrezione di giugno, dalla soppressione dell’imposta sul sale, dalle indennità che aveva assegnate ai possessori di piantagioni in seguito all’abolizione della schiavitù dei negri, dalle spese della spedizione romana, dalla soppressione dell’imposta sul vino, da lei deliberata mentre già trovavasi in agonia, come un vecchio maligno, lieto di addossare all’erede, che ride, un debito d’onore compromettente. Dal principio di marzo era incominciata l’agitazione per le elezioni dell’Assemblea nazionale legislativa. Due gruppi principali stavano di fronte: il partito dell’«ordine» ed il partito democratico socialista o «partito rosso»; in mezzo ad essi, gli «amici della Costituzione», sotto il qual nome dai repubblicani tricolori del _National_ si cercava di rappresentare un partito. Il partito dell’ordine s’era formato immediatamente dopo le giornate di giugno; fu solo da quando il 10 dicembre avevagli concesso di respingere da sè la consorteria del _National_, dei repubblicani borghesi, che si era rivelato il segreto della sua esistenza: la coalizione degli orleanisti e dei legittimisti in un unico partito. La classe borghese s’era scissa in due grandi frazioni, che alternativamente, — la grande proprietà fondiaria sotto la monarchia restaurata, l’aristocrazia finanziaria e la borghesia industriale sotto la monarchia di luglio, — avevano sostenuto il monopolio del dominio. Borbone era il nome regio per l’influenza preponderante degli interessi dell’una, Orleans il nome regio per l’influenza preponderante degli interessi dell’altra frazione; — il regno anonimo della repubblica era l’unico, in cui ambedue le frazioni potessero sostenere, in equilibrio di dominio, il comune interesse di classe, senza rinunciare alla rivalità reciproca. Se la repubblica borghese altro non poteva essere se non il dominio perfezionato e nettamente disegnato dell’assieme della classe borghese, poteva essa essere, adunque, altra cosa che il dominio degli orleanisti completati dai legittimisti e dei legittimisti completati dagli orleanisti, che la sintesi della ristorazione e della monarchia di luglio? I repubblicani borghesi del _National_ non rappresentavano alcuna grande frazione della loro classe, che riposasse su basi economiche. Il loro significato, il loro titolo storico stavano unicamente nell’avere sotto la monarchia, contro le due frazioni borghesi che non concepivano se non il loro regime particolare, fatto valere il regime universale della classe borghese, il regno anonimo della repubblica, ch’essi andavano idealizzando, ornandolo d’antiquati arabeschi, ma nel quale, avanti ogni cosa, salutavano il dominio della loro consorteria. Se il partito del _National_ s’illudeva nel proprio giudizio, allorchè contemplava al culmine della repubblica da esso fondata realisti coalizzati, non s’ingannavano meno anche costoro circa il fenomeno del loro dominio riunito. Essi non arrivavano a comprendere che, se ciascuna delle loro frazioni considerata isolatamente, in sè, era realista, il prodotto della loro combinazione chimica non poteva, di necessità, che essere repubblicano; che, insomma la monarchia bianca e l’azzurra dovevano neutralizzarsi nella repubblica tricolore. Dacchè l’antagonismo col proletariato rivoluzionario e colle classi di transizione, sospinte ognora più intorno a questo come a loro centro, costringeva le frazioni del partito dell’ordine a mettere in mostra la loro forza riunita ed a mantenere l’organizzazione di tale forza riunita, ciascuna di esse era obbligata a far valere, contro le velleità di ristorazione e di supremazia dell’altra, il dominio comune, la forma repubblicana, cioè del dominio borghese. Vediamo, così, questi realisti, credenti dapprima in una ristorazione immediata, conservatori rabbiosi più tardi della forma repubblicana, pur caricandola d’invettive atroci a fior di labbra, venire da ultimo a riconoscere solo possibile per essi l’accomodamento entro la repubblica, col rinvio della ristorazione a tempo indeterminato. Il godimento effettivo del dominio riunito aveva rafforzato ciascuna delle due frazioni e resala ancor più impotente e riluttante a sottomettersi all’altra, ch’è quanto dire a restaurare la monarchia. Il partito dell’ordine proclamò direttamente nel suo programma elettorale il dominio della classe borghese, ossia il mantenimento delle condizioni di vita del costei dominio, cioè della proprietà, della famiglia, della religione, dell’ordine! Esso presentava il suo dominio di classe e le condizioni del suo dominio di classe naturalmente quale dominio della civiltà e quali condizioni necessarie alla produzione materiale, nonchè ai rapporti di scambi sociali, emananti da questa. Il partito dell’ordine disponeva di enormi mezzi pecuniarî, aveva organizzato succursali proprie in tutta la Francia, aveva ai suoi stipendi tutti quanti gli ideologi della vecchia società, si giovava dell’influenza del potere del Governo vigente, possedeva un esercito di vassalli gratuiti nell’intera massa dei piccoli borghesi e contadini che, tuttora lontani dal movimento rivoluzionario, trovavano nei grandi dignitarî della proprietà i naturali rappresentanti della loro piccola proprietà e delle piccole preoccupazioni di questa; esso, rappresentato in tutto il paese da un numero infinito di piccoli re, poteva punire il rigetto dei suoi candidati come un’insurrezione, congedare gli operai ribelli, i famigli di fattoria, i domestici, i commessi, gli impiegati ferroviarî, gli scrivani, tutti i funzionarî alla sua dipendenza borghese. Poteva, infine, tener viva qua e là l’illusione, che la Costituente repubblicana avesse impedito al Bonaparte del 10 dicembre la rivelazione delle costui forze miracolose. Nel partito dell’ordine non abbiamo compreso i bonapartisti. Questi non erano una frazione seria della classe borghese, sibbene una accolta d’invalidi vecchi e superstiziosi e di cavalieri di ventura, giovani e miscredenti. — Nelle elezioni vinse il partito dell’ordine, che mandò nell’Assemblea legislativa la gran maggioranza. Contro la classe borghese controrivoluzionaria coalizzata era naturale che le parti già rivoluzionarie della piccola borghesia e della classe dei contadini si alleassero col gran dignitario degli interessi rivoluzionarî, col proletariato rivoluzionario. Noi vedemmo come le disfatte parlamentari avessero spinto i capi democratici della piccola borghesia nel parlamento, ossia la Montagna, verso i capi socialisti del proletariato e come la vera piccola borghesia fuori del parlamento era stata spinta dai _concordats à l’amiable_, dalla brutale realizzazione degli interessi borghesi, dalla bancarotta, verso i veri proletarî. Il 27 gennaio, Montagna e socialisti avevano celebrato la loro riconciliazione; nel gran banchetto del febbraio 1849 riconfermarono il loro trattato d’alleanza. Il partito sociale ed il democratico, quello dei lavoratori e quello dei piccoli borghesi, eransi uniti in partito sociale-democratico, ossia in partito «rosso». Paralizzata per un istante dall’agonia susseguita alle giornate di giugno, la repubblica francese era passata, dopo la soppressione dello stato d’assedio, attraverso una serie continuata d’agitazioni febbrili. Dapprima la lotta per la presidenza, poi la lotta del presidente colla Costituente, la lotta pei clubs, il processo di Bourges, che di fronte alle piccole figure del presidente, dei realisti coalizzati, dei repubblicani _honnêtes_, della Montagna democratica, dei socialisti dottrinarî del proletariato, fece apparire i veri rivoluzionarî di questo come mostri d’altri tempi, quali solo un diluvio può lasciare indietro sulla superficie sociale o quali unicamente possono precedere un diluvio sociale, — l’agitazione elettorale, il supplizio degli assassini di Bréa, i continuati processi di stampa, i violenti interventi polizieschi del governo nei banchetti, le arroganti provocazioni realiste, l’esposizione alla berlina dell’effigie di Luigi Blanc e di Caussidière, il conflitto ininterrotto fra la repubblica costituita e la Costituente, — per cui, ad ogni momento, il vincitore era mutato in vinto, il vinto in vincitore, ed in un attimo si rovesciavano la posizione dei partiti e delle classi, le loro divisioni ed alleanze, — il rapido cammino della controrivoluzione europea, la gloriosa lotta ungherese, le levate di scudi in Germania, la spedizione romana, l’ignominiosa disfatta dell’esercito francese davanti a Roma, — in questo turbine di movimento, in questa tormenta d’inquietudine storica, in questo drammatico flusso e riflusso di passioni, speranze, disillusioni rivoluzionarie, i periodi d’evoluzione dovevano contarsi dalle diverse classi della società francese non più a mezzi secoli come prima, ma a settimane. Una parte notevole dei contadini e delle provincie era rivoluzionata. Non solo avevano perduto le illusioni circa il Napoleone, ma il partito rosso offriva loro al posto del nome la sostanza, al posto della speciosa esenzione dalle imposte la rifusione dei miliardi pagati ai legittimisti, il regolamento dell’ipoteca e l’abolizione dell’usura. L’esercito stesso era preso dal contagio della febbre rivoluzionaria. Votando per Bonaparte aveva creduto votare per la vittoria ed ei gli aveva dato la disfatta. Aveva creduto votare pel «piccolo caporale», dietro al quale si cela il gran generale rivoluzionario, ed ei restituivagli i grandi generali, dietro ai quali si nasconde il caporale adatto a portar le uose. Niun dubbio che il partito rosso, ossia il partito democratico coalizzato, dovesse celebrare, se non la vittoria, almeno grandi trionfi; che Parigi, che l’esercito, che gran parte delle provincie avrebbero votato per esso. Il capo della Montagna, Ledru-Rollin, venne eletto da tre dipartimenti; una vittoria, che non fu riportata da alcun capo del partito dell’ordine, da alcun nome del partito propriamente proletario. Tale elezione ci svela l’enigma del partito democratico-socialista. Se la Montagna, questa avanguardia parlamentare della piccola borghesia democratica, era forzata da una parte ad allearsi coi dottrinarî socialisti del proletariato — ed il proletariato, forzato a rifarsi con vittorie intellettuali della spaventosa disfatta materiale del giugno e dall’evoluzione delle rimanenti classi, mantenuto tuttora nell’incapacità d’afferrare la dittatura rivoluzionaria, doveva gettarsi in braccio ai dottrinarî della sua emancipazione, ai fondatori di sette socialiste, — dall’altra parte i contadini rivoluzionarî, l’esercito, le provincie si ponevano dietro la Montagna, che divenne così la condottiera nel campo dell’esercito rivoluzionario, avendo eliminato, in seguito all’intesa coi socialisti, ogni antagonismo nel partito rivoluzionario. Nell’ultima metà della vita della Costituente, essa ne aveva assunto il _pathos_ repubblicano, facendo dimenticare i suoi peccati durante il governo provvisorio, durante la Commissione esecutiva, durante le giornate di giugno. A misura che il partito del _National_, in consonanza al suo mezzo carattere, lasciavasi comprimere dal ministero realista, il partito della Montagna, abbandonato in un canto durante l’onnipotenza del _National_, si rialzava e si faceva valere quale rappresentante parlamentare della rivoluzione. In fatto, il partito del _National_ non aveva da schierare contro le altre frazioni realiste più che personalità ambiziose ed illusioni idealiste. Il partito della Montagna, all’incontro, rappresentava una massa oscillante tra la borghesia ed il proletariato, gli interessi materiali della quale reclamavano istituzioni democratiche. Di fronte perciò ai Cavaignac ed ai Marrast, Ledru-Rollin e la Montagna si trovavano nella verità della rivoluzione ed attingevano dalla coscienza di tale situazione tanto maggior animo, quanto più la manifestazione dell’energia rivoluzionaria era circoscritta ad incidenti parlamentari, a presentazioni di atti d’accusa, ad intimazioni, ad ingrossamenti di voce, a discorsi reboanti, ad esagerazioni, che non si spingevano ad di là della frase. I contadini si trovavano a un dipresso nella medesima situazione dei piccoli borghesi, avendo a un dipresso le medesime rivendicazioni sociali da porre innanzi. Tutti i ceti medî della società, una volta cacciati entro il movimento rivoluzionario, dovevano necessariamente trovare in Ledru-Rollin il loro eroe; Ledru-Rollin era il personaggio della piccola borghesia democratica. In opposizione al partito dell’ordine, dovevano, immediatamente di poi, essere sospinti in prima fila i riformatori di quest’ordine, metà conservatori, metà rivoluzionarî e in tutto utopisti. Il partito del _National_, gli amici della Costituzione _quand même_, i _repubblicains purs et simples_ furono completamente battuti nelle elezioni. Una leggera minoranza d’essi entrò nella Camera legislativa; i loro capi più noti scomparvero dalla scena; perfino Marrast, il redattore in capo e l’Orfeo della repubblica _honnête_. Il 29 maggio si radunò l’Assemblea legislativa; l’11 giugno si rinnovò la collisione dell’8 maggio. Ledru-Rollin depose, in nome della Montagna, un atto d’accusa contro il presidente ed il ministero per violazione della Costituzione e pel bombardamento di Roma. Il 12 giugno l’Assemblea legislativa rigettò l’atto d’accusa, come l’aveva rigettato l’11 maggio l’Assemblea costituente, ma il proletariato spinse questa volta la Montagna sulla strada, ossia, non ad un combattimento di strada, ma solo ad una processione. Basta dire che la Montagna stava alla testa di questo movimento, per sapere che il movimento fu vinto e che il giugno 1849 riescì una caricatura altrettanto ridicola quanto indecente del giugno 1848. La gran ritirata del 13 giugno non fu oscurata se non dall’ancor più grande rapporto fatto sul combattimento da Changarnier, da questo grand’uomo improvvisato dal partito dell’ordine. Ogni epoca sociale ha d’uopo di grandi uomini e, se non ne trova, li inventa, come dice Helvetius. Nel 20 dicembre esisteva una metà sola della repubblica costituita, il presidente; il 29 maggio essa venne completata coll’altra metà, coll’Assemblea legislativa. Nel giugno 1848 la repubblica borghese, che si costituiva, erasi inscritta nel registro-nascite della storia con una indescrivibile battaglia contro il proletariato; nel giugno 1849 vi s’inscrisse la repubblica borghese costituita con un’innominabile commedia fatta alla piccola borghesia. Il giugno 1849 fu la Nemesi del 1848. Nel 1849 non furono vinti gli operai, ma furono abbattuti i piccoli borghesi, posti tra quelli e la rivoluzione. Il giugno 1849 non fu la tragedia sanguinosa fra il lavoro salariato ed il capitale, ma fu la miserabile farsa, a base d’imprigionamenti, fra debitore e creditore. Il partito dell’ordine aveva vinto; era onnipotente, e doveva ora mostrare ciò ch’esso era. III. DAL 13 GIUGNO 1849 AL 10 MARZO 1850. (_DAL FASCICOLO III_). Il 20 dicembre la testa di Giano della repubblica costituzionale non aveva ancora mostrato che una sola faccia, la faccia esecutiva, coi tratti scialbi ed insipidi di Luigi Bonaparte; il 29 maggio mostrò la seconda faccia, la legislativa, cosparsa delle stimmate lasciatevi dalle orgie della ristorazione e della monarchia di luglio. Coll’Assemblea nazionale legislativa compievasi il fenomeno della repubblica costituzionale, cioè della forma repubblicana dello Stato, nella quale è costituito il dominio della classe borghese, il dominio comune, quindi, d’ambedue le grandi frazioni realiste componenti la borghesia francese, dei legittimisti ed orleanisti coalizzati, del «partito dell’ordine». Nel tempo stesso che la repubblica francese passava per tal modo in proprietà alla coalizione, ai partiti realisti, la coalizione europea delle potenze controrivoluzionarie intraprendeva una crociata generale contro le ultime posizioni di rifugio delle rivoluzioni di marzo. La Russia invase l’Ungheria, la Prussia marciò contro l’esercito costituzionale e Oudinot bombardò Roma. La crisi europea tendeva evidentemente verso un polo decisivo; gli occhi di tutta Europa si rivolgevano su Parigi e gli occhi di tutta Parigi sull’Assemblea legislativa. Alla tribuna di questa salì alli 11 giugno Ledru-Rollin. Non tenne un discorso; formulò una requisitoria contro i ministri, nuda, senza fronzoli, oggettiva, concisa, violenta. L’attacco a Roma è un attacco alla Costituzione, l’attacco alla repubblica romana un attacco alla repubblica francese. L’articolo V della Costituzione suona: «La repubblica francese non adopera mai le proprie forze combattenti contro la libertà di qualsivoglia popolo» — ed il presidente adopera l’esercito francese contro la libertà romana. L’articolo IV della Costituzione vieta al potere esecutivo di dichiarare ovunque una guerra, senza l’assenso dell’Assemblea nazionale. La deliberazione della Costituente dell’8 maggio impone espressamente ai ministri di ricondurre al più presto la spedizione romana alla sua destinazione originaria, proibisce quindi loro non meno espressamente la guerra contro Roma, — ed Oudinot bombarda Roma. Così evocò Ledru-Rollin la Costituzione stessa quale testimone a carico contro Bonaparte ed i suoi ministri. Egli, il tribuno della Costituzione, lanciò alla maggioranza realista dell’Assemblea nazionale questa minacciosa dichiarazione: «I repubblicani sapranno provvedere al rispetto della Costituzione con tutti i mezzi, sia pure colla forza delle armi!» — «Colla forza delle armi!», replicò l’eco centuplicata della Montagna. La maggioranza rispose con un tumulto spaventoso, il presidente dell’Assemblea nazionale richiamò Ledru-Rollin all’ordine, Ledru Rollin ripetè la dichiarazione provocatrice e depose, da ultimo, sul tavolo presidenziale la proposta di mettere Bonaparte ed i suoi ministri in istato d’accusa. Con 361 contro 203 voti, l’Assemblea nazionale deliberò di passare, pel bombardamento di Roma, all’ordine del giorno puro e semplice. Credeva Ledru-Rollin di poter battere l’Assemblea nazionale colla Costituzione, il presidente coll’Assemblea nazionale? La Costituzione certamente vietava ogni attacco alla libertà di popoli stranieri, ma ciò che l’esercito francese attaccava a Roma era, secondo il ministero, non la «libertà», bensì il «dispotismo dell’anarchia». Non aveva ancora compreso la Montagna, a dispetto di tutte le esperienze nell’Assemblea costituente, che la interpretazione della Costituzione non ispettava a coloro che l’avevano fatta, ma solamente oramai a coloro che l’avevano accettata? Che il suo testo doveva venire inteso in un senso che la tenesse in vita e che il senso borghese era l’unico che potesse tenerla in vita? Che Bonaparte e la maggioranza realista dell’Assemblea nazionale erano gli interpreti naturali della Costituzione, come il prete è l’interprete naturale della Bibbia ed il giudice l’interprete naturale della legge? Poteva l’Assemblea nazionale, uscita appunto allora allora dal grembo delle elezioni generali, sentirsi vincolata dalla disposizione testamentaria della defunta Costituente, la cui volontà, mentr’era in vita, era stata spezzata da un Odilon Barrot? Mentre Ledru-Rollin si richiamava alla risoluzione della Costituente dell’8 maggio, aveva egli dimenticato che dalla medesima Costituente era stata rigettata, alli 11 maggio, la sua prima proposta di messa in istato d’accusa di Bonaparte e dei suoi ministri, erano stati assolti il presidente ed i ministri, era stato così sanzionato come «costituzionale» l’attacco su Roma; aveva egli dimenticato che il suo non era che un appello contro un giudizio già deciso e che, finalmente, egli appellava dalla Costituente repubblicana alla Legislativa realista? È la Costituzione stessa, che chiama l’insurrezione in aiuto, quando, in uno speciale articolo, invita ciascun cittadino a difenderla. Di quest’articolo facevasi forte Ledru-Rollin. Ma non sono forse, in pari tempo, organizzati a difesa della Costituzione i pubblici poteri e la violazione della Costituzione non incomincia essa solo dal momento, in cui l’uno dei pubblici poteri costituzionali si ribella contro l’altro? Ed il presidente della repubblica, i ministri della repubblica, l’Assemblea nazionale della repubblica si trovavano in completa armonia. Ciò che tentava la Montagna nell’11 giugno era «un’insurrezione entro i confini della ragion pura», cioè un’insurrezione prettamente parlamentare. La maggioranza dell’Assemblea doveva, intimidita dalla prospettiva d’un’insurrezione armata delle masse popolari, infrangere in Bonaparte e nei ministri la sua propria potenza ed il significato della sua propria elezione. Non aveva la Costituente tentato egualmente di cassare l’elezione di Bonaparte, allorquando insisteva con tanta ostinazione pel congedo del ministero Barrot-Falloux? Nè al tempo della Convenzione erano mancati i precedenti d’insurrezioni parlamentari, che avevano d’improvviso rovesciate dalle basi le proporzioni della maggioranza e della minoranza — e non doveva riescire alla giovane Montagna ciò ch’era riescito alla vecchia? — nè le contingenze del momento apparivano sfavorevoli ad un’impresa di tal fatta. La sovreccitazione popolare aveva raggiunto in Parigi un grado di tensione, che dava da pensare; l’esercito sembrava non ben disposto verso il governo, a giudicarne dai suoi voti nelle elezioni; la maggioranza legislativa stessa era ancor troppo giovane per aver potuto consolidarsi ed era, nello stesso tempo, composta di gente in età. Se alla Montagna fosse riescita un’insurrezione parlamentare, il timone dello Stato veniva, senz’altro, a caderle nelle mani. Dal canto suo, la piccola borghesia democratica, come sempre, nulla desiderava più ardentemente che di vedere combattuta la lotta al disopra delle sue teste, nelle nubi, fra gli spiriti solitarî del Parlamento. Infine ambedue, la piccola borghesia democratica e la Montagna sua rappresentante, avrebbero, con un’insurrezione parlamentare, raggiunto il loro grande fine, quello di spezzare la potenza della borghesia, senza scatenare il proletariato, oppure non lasciandolo affacciarsi nello sfondo; il proletariato sarebbe stato utilizzato, senza ch’esso divenisse pericoloso. Dopo il voto dell’Assemblea nazionale dell’11 giugno, ebbe luogo un convegno tra alcuni membri della Montagna ed i delegati delle Società operaie segrete. Questi ultimi incalzavano perchè si avesse a menar le mani già in quella sera stessa. La Montagna rigettò risolutamente la proposta. A nessun prezzo essa voleva lasciarsi tôr di pugno la direzione; i suoi alleati le erano sospetti non meno degli avversarî, ed a ragione. Il ricordo del giugno 1848 aleggiava, più vivo che mai, nelle file del proletariato parigino. Tuttavia questo era incatenato all’alleanza colla Montagna, che rappresentava la maggior parte dei dipartimenti, spingeva la propria influenza fin nell’esercito, disponeva della parte democratica della guardia nazionale, aveva la potenza morale della bottega dietro di sè. Incominciare l’insurrezione in questo momento contro il volere di essa, significava pel proletariato, decimato per giunta dal colera, cacciato fuor di Parigi in massa ragguardevole dalla disoccupazione, ripetere senz’utilità le giornate del giugno 1848, mentre mancava la situazione di fatto, che aveva spinto alla lotta estrema. I delegati proletarî adottarono l’unica decisione che fosse ragionevole. Obbligarono la Montagna a compromettersi, cioè ad escir fuori dai confini della lotta parlamentare, nel caso in cui il suo atto d’accusa venisse respinto. Durante tutto il 13 giugno, il proletariato mantenne lo stesso posto di scettica osservazione e stette in aspettativa d’una mischia ingaggiata seriamente, irretrattabile, fra la guardia nazionale democratica e l’esercito, per indi precipitare sè stesso nella lotta e sospingere la rivoluzione al di là dello scopo piccolo borghese, che essa celava in sè. Per l’eventualità della vittoria, era già formata la Comune proletaria, che doveva affacciarsi accanto al Governo ufficiale. Gli operai parigini avevano imparato alla scuola sanguinosa del giugno 1848. Il 12 giugno, fu lo stesso ministro Lacrosse, che presentò all’Assemblea legislativa la proposta di passar tosto alla discussione dell’atto d’accusa. Durante la notte, il governo aveva preso tutte le disposizioni per la difesa e per l’attacco; la maggioranza dell’Assemblea nazionale era risoluta a spingere la minoranza ribelle sulla strada; la minoranza stessa non poteva più ritirarsi; il dado era tratto; 377 voti contro 8 respinsero l’atto d’accusa; la Montagna, ch’erasi astenuta, si rovesciò rumoreggiando nelle sale di progaganda della «Democrazia pacifica», negli uffici giornalistici della _Démocratie pacifique_. Il suo allontanamento dal palazzo parlamentare ne spezzò la forza, come l’allontanamento dalla terra aveva spezzata la forza d’Anteo, suo figlio gigante. Sansoni negli ambienti dell’Assemblea legislativa, coloro non erano più che «filistei» negli ambienti della «Democrazia pacifica». Si svolse una discussione lunga, rumorosa, disordinata. La Montagna era decisa a strappare il rispetto alla Costituzione con tutti i mezzi, «eccetto che colla forza delle armi». In tale decisione le venne l’appoggio d’un manifesto e d’una deputazione degli «amici della Costituzione». «Amici della Costituzione», così chiamavansi gli avanzi della consorteria del _National_, del partito repubblicano-borghese. Mentre dei suoi rappresentanti parlamentari ancor rimasti, sei avevano votato contro, gli altri tutti quanti a favore del rigetto dell’atto d’accusa, mentre Cavaignac metteva a disposizione del partito dell’ordine la sua spada, la maggioranza extra-parlamentare della consorteria aveva afferrato avidamente questo pretesto per cavarsi fuori dalla sua situazione di paria politico e per cacciarsi entro le file del partito democratico. Non apparivano essi i naturali scudieri di questo partito, che celavasi dietro il loro scudo, dietro il loro principio, dietro la Costituzione? Fino all’alba, il «monte» ebbe le doglie del parto. Ciò ch’ei partorì fu «un proclama al popolo», che nel mattino del 13 giugno prese un posto più o meno vergognoso in due giornali socialisti. Vi si dichiaravano il presidente, i ministri, la maggioranza l’assemblea legislativa «fuori della costituzione» (_hors la constitution_) e vi si faceva appello alla guardia nazionale, all’esercito e, nella chiusa, anche al popolo, perchè «si sollevassero». «Viva la Costituzione!» era la parola d’ordine ivi impartita; parola d’ordine che altro non significava se non «abbasso la rivoluzione!» Al proclama costituzionale della Montagna rispose, nel 13 giugno, una così detta «dimostrazione pacifica», cioè una processione dei piccoli borghesi attraverso le strade dal Château d’Eau pei _boulevards_; 30 mila uomini, in massima parte guardie nazionali, disarmati, frammischiati con membri delle società operaie segrete, riversantisi macchinalmente, glacialmente al grido: «Viva la Costituzione!», trattenuti dai rimorsi di coscienza dei membri stessi del corteo e ributtati ironicamente dall’eco del popolo ondeggiante sui marciapiedi. In quel canto a più voci mancava la voce di petto. Ed allorquando il corteo piegò dinanzi al palazzo delle sedute degli «amici della Costituzione», ed al frontone dell’edificio apparve un mercenario araldo della Costituzione, che col cappello da _claqueur_ trinciava violentemente l’aria, facendo piombare da un enorme polmone a mo’ di gragnuola la parola stereotipata: «Viva la Costituzione!» addosso alle teste dei pellegrini, sembrò che anche questi per un istante si sentissero sopraffatti dalla comicità della situazione. È noto come il corteo, giunto allo sbocco della _rue de la Paix_, venne accolto nei _boulevards_ in modo tutt’affatto antiparlamentare dai dragoni e cacciatori di Changarnier, e si sbandò in un batter di ciglio e gittando dietro a sè, con parsimonia, il grido «all’armi» solo, oramai, per compire l’appello all’armi parlamentare dell’11 giugno. La maggioranza della Montagna, adunata nella _rue du Hazard_, si dileguò allorchè quel violento sbaraglio della processione pacifica, allorchè sorde dicerie di cittadini inermi uccisi sui _boulevards_, allorchè il crescente tumulto delle strade sembrarono annunciare lo avvicinarsi d’una sommossa. Ledru-Rollin, alla testa d’un’esigua schiera di deputati, salvò l’onore della Montagna. Sotto la protezione dell’artiglieria parigina, ch’erasi riunita nel _Palais National_, si recarono alla volta del _Conservatoire des arts et métiers_, ove dovevano entrare la quinta e la sesta legione della guardia nazionale. Ma i montagnardi attesero invano la quinta e sesta legione; queste previdenti guardie nazionali lasciarono nell’impiccio i loro rappresentanti, la stessa artiglieria parigina impedì al popolo di impiantar barricate, una confusione caotica rese impossibile qualsiasi risoluzione, le truppe s’avanzarono a baionetta abbassata, una parte dei rappresentanti fu fatta prigioniera, un’altra si salvò. Così terminò il 13 giugno. Come il 23 giugno 1848 era stato l’insurrezione del proletariato rivoluzionario, così il 13 giugno 1849 fu l’insurrezione dei piccoli borghesi democratici; ciascuna di queste due insurrezioni fu l’espressione classicamente netta della classe, che le aveva sostenute. Fu solamente a Lione che si venne ad un conflitto ostinato, sanguinoso. Qui, dove la borghesia industriale ed il proletariato industriale stanno in diretto antagonismo, dove il movimento operaio non è assorbito e determinato, come in Parigi, dal movimento generale, il 13 giugno perdette, ripercotendosi qui, il suo carattere originario. Altrove, nelle provincie, scoppiò senza incendio — fu un fulmine mancato. Il 13 giugno chiude il primo periodo di vita della repubblica costituzionale, la quale il 29 maggio 1849, al riunirsi dell’Assemblea legislativa, aveva raggiunto una proprio esistenza normale. Tutta la durata di questo prologo è riempiuta dalla lotta rumorosa fra il partito dell’ordine e la Montagna, fra la borghesia e la piccola borghesia, invano drizzantesi quest’ultima contro il consolidamento della repubblica borghese, per la quale ella stessa aveva cospirato senza interruzione nel governo provvisorio e nella Commissione esecutiva e per la quale, durante le giornate di giugno, erasi battuta fanaticamente contro il proletariato. Il 13 giugno ne spezza l’opposizione, rendendo la dittatura legislativa dei realisti riuniti un fatto compiuto. Da quest’istante l’assemblea nazionale non è oramai che un Comitato di salute pubblica del partito dell’ordine. Parigi aveva messo il presidente, i ministri e la maggioranza in «istato d’accusa»; questi misero Parigi in «istato d’assedio». La Montagna aveva dichiarata la maggioranza dell’assemblea legislativa «fuori dalla Costituzione»; la maggioranza consegnò alla _haute cour_, per violazione della Costituzione, la Montagna, proscrivendo tutto quanto essa aveva di ancor vitale. La si decimò in modo da ridurla a un torso senza testa e senza cuore. La minoranza era andata sino al tentativo di un’insurrezione parlamentare; la maggioranza elevò a legge il proprio dispotismo parlamentare. Decretò un nuovo regolamento interno, che abolisce la libertà della tribuna ed autorizza il presidente a punire, per violazione dell’ordine, i rappresentanti colla censura, con multe, con privazione dell’indennità, con temporanea espulsione, col carcere. Sul torso della Montagna essa sospendeva, in luogo della spada, lo staffile. Il resto dei deputati della Montagna avrebbe soddisfatto al proprio onore, uscendo in massa. Un simile atto avrebbe affrettato lo scioglimento del partito dell’ordine. Questo avrebbe dovuto sminuzzarsi nelle parti che lo componevano originariamente, quando anche l’apparenza di un’opposizione fosse mancata a tenerlo insieme. Unitamente alla potenza parlamentare, i piccoli borghesi vennero a perdere la potenza armata in seguito allo scioglimento dell’artiglieria parigina e delle legioni 8, 9 e 12 della guardia nazionale. Al contrario, la legione dell’alta finanza, che nel 13 giugno aveva dato l’assalto alle tipografie di Boulé e Roux, fracassando i torchi, devastando gli uffici dei giornali repubblicani, arrestando arbitrariamente redattori, compositori, tipografi, amministratori, fattorini, meritò una incoraggiante approvazione dall’alto della tribuna. Su tutta la superficie della Francia si ripetè lo scioglimento delle guardie nazionali sospette di repubblicanismo. Nuova legge sulla stampa, nuova legge sulle associazioni, nuova legge sullo stato d’assedio, le carceri di Parigi riboccanti, i profughi politici perseguitati, tutti i giornali oltrepassanti i limiti del _National_ sospesi, Lione ed i cinque dipartimenti circostanti abbandonati alle brutali vessazioni del dispotismo militare, i tribunali onnipresenti, l’esercito degli impiegati, epurato già tante volte, nuovamente epurato, — questi furono gl’ineluttabili e sempre incorrenti metodi della reazione vittoriosa, meritevoli di menzione dopo i massacri e le deportazioni del giugno, solo perciò che questa volta vennero diretti non unicamente contro Parigi, ma anche contro i dipartimenti, non unicamente contro il proletariato, ma sovratutto contro le classi medie. Le leggi di repressione, mediante le quali la proclamazione dello stato d’assedio venne affidata al beneplacito del governo, la stampa ancor più strettamente imbavagliata ed il diritto d’associazione abolito, assorbirono interamente l’attività legislativa dell’Assemblea nazionale durante i mesi di giugno, luglio ed agosto. La caratteristica tuttavia di quest’epoca sta non già nell’essersi la vittoria sfruttata in fatto, ma nell’essersi sfruttata in principio, non già nelle deliberazioni dell’Assemblea nazionale, ma nella motivazione di queste deliberazioni, non nella cosa, ma nella frase, anzi non nella frase, ma nell’accento e nei gesti, che danno vita alla frase. L’esprimersi sfacciato, impudente del sentimento realista, l’insulto sprezzantemente aristocratico contro la repubblica, il chiacchierìo civettuolo e frivolo intorno agli intenti d’una ristorazione, in una parola la diffamazione millantatrice contro la sosta repubblicana, danno a questo periodo un tono ed un colorito particolari. «Viva la Costituzione!» era stato il grido di guerra dei vinti del 13 giugno. I vincitori venivano adunque ad essere svincolati dall’ipocrisia del linguaggio costituzionale, ossia del linguaggio repubblicano. La controrivoluzione aveva sottomesso Ungheria, Italia, Germania, ed essi credevano la ristorazione già alle porte di Francia. Ne derivò una vera concorrenza tra i capo-ridda delle frazioni dell’ordine nel documentare per mezzo del _Moniteur_ il loro realismo e nel confessarsi dei loro eventuali peccati di liberalismo commessi sotto la monarchia, nel farne ammenda e nell’implorarne il perdono davanti a Dio ed agli uomini. Non iscorreva giorno, senza che la rivoluzione di febbraio venisse alla tribuna dell’Assemblea nazionale dichiarata una calamità pubblica, senza che un qualsiasi nobiluccio legittimista, piantatore provinciale di cavoli, constatasse di non aver mai riconosciuto la repubblica, senza che uno dei vili disertori e traditori della monarchia di luglio narrasse i postumi atti eroici, che unicamente la filantropia di Luigi Filippo od altri contrattempi gli avevano impedito di compiere. Ciò che doveva ammirarsi nelle giornate di febbraio non era già la magnanimità del popolo vittorioso, bensì l’abnegazione e la moderazione dei realisti, che gli avevano permesso di vincere. Un rappresentante del popolo propose che parte dei denari destinati a soccorrere i feriti di febbraio venisse erogata alle guardie municipali, che sole in quella giornata avevano bene meritato della patria. Un altro voleva si decretasse al duca d’Orleans una statua equestre sulla piazza del Caroussel. Thiers diceva della Costituzione ch’era un pezzo di carta sporca. Comparvero per turno, alla tribuna, orleanisti a riprovare la loro cospirazione contro la monarchia legittima, legittimisti a rimproverare a sè stessi d’avere, insorgendo contro la monarchia illegittima, affrettato la caduta della monarchia in genere, Thiers che si pentiva dei suoi intrighi contro Molé, Molé dei suoi intrighi contro Guizot, Barrot dei suoi intrighi contro tutti e tre. Il grido: «Viva la repubblica democratico-sociale!» venne dichiarato incostituzionale, il grido: «Viva la repubblica!» processato come democratico-sociale. Nell’anniversario della battaglia di Waterloo, un rappresentante dichiarò: «Io temo meno l’invasione dei prussiani che non l’entrata dei profughi rivoluzionarî in Francia». Ai lamenti sul terrorismo, che dicevasi organizzato a Lione e nei dipartimenti attigui, Baraguay d’Hilliers rispose: «Io preferisco il terror bianco al terror rosso». (_J’aime mieux la terreur blanche que la terreur rouge_). E l’Assemblea batteva le mani, approvando con frenesia quante volte dalle labbra dei suoi oratori cadeva un epigramma contro la repubblica, contro la rivoluzione, contro la Costituzione, per la monarchia, per la Santa Alleanza. Ogni strappo alle più minute formalità repubblicane, ad esempio a quella d’apostrofare i rappresentanti con: _citoyens_, entusiasmava i cavalieri dell’ordine. Le elezioni suppletorie di Parigi dell’8 giugno, compiute sotto l’influenza dello stato d’assedio e dell’astensione dall’urna di gran parte del proletariato, la presa di Roma fatta dall’esercito francese, l’ingresso in Roma delle Eminenze rosse, coll’inquisizione ed il terrorismo monacale alla coda, furono nuove vittorie da aggiungere alla vittoria del giugno ed aumentarono ancor più l’ubbriacatura del partito dell’ordine. Finalmente alla metà d’agosto i realisti, parte nell’intento di assistere ai Consigli dipartimentali appunto allora convocati, parte spossati dall’orgia di tante tendenze durata più mesi, decretarono una proroga di due mesi dell’Assemblea nazionale. Una Commissione di venticinque rappresentanti, il fior fiore dei legittimisti ed orleanisti, un Molé, un Changarnier, furono da essi lasciati, con trasparente ironia, in qualità di sostituti dell’Assemblea nazionale e di custodi della repubblica. L’ironia era più profonda di quel che essi sospettassero. La storia, che li aveva condannati ad aiutare la demolizione della monarchia da essi amata, li destinava a conservare la repubblica, che odiavano. Colla proroga dell’Assemblea legislativa si chiude il secondo periodo di vita della repubblica costituzionale, il suo periodo realista sguaiato. Lo stato d’assedio di Parigi veniva nuovamente revocato; la stampa ripigliava la propria azione. Durante la sospensione dei fogli democratico-sociali, durante il periodo della legislazione repressiva e dei bagordi realisti, si repubblicanizzò il _Siècle_, l’antico rappresentante letterario dei piccoli borghesi monarchico-costituzionali, sì democratizzò la _Presse_, l’antica portavoce letteraria dei riformisti borghesi, si socializzò il _National_, l’antico organo classico dei repubblicani borghesi. Le società segrete crebbero in estensione ed intensità, a misura che i clubs pubblici divenivano impossibili. Le associazioni d’operai industriali, tollerate come prette corporazioni commerciali, senza valore economico, divennero politicamente altrettanti mezzi d’allacciamento del proletariato. Il 13 giugno aveva tagliato ai diversi partiti semirivoluzionari le teste ufficiali; le masse superstiti seppero ritrovare la loro propria testa. I cavalieri dell’ordine avevano intimidito col predicare il terrore della repubblica rossa; i volgari eccessi, gli orrori iperborei della controrivoluzione vittoriosa in Ungheria, nel Baden, in Roma, servirono a far apparire la «repubblica rossa» candida come neve. E le malcontente classi intermedie della società francese incominciarono a preferire le promesse della repubblica rossa, col suo terrore problematico, al terrore della monarchia rossa, che chiudeva positivamente l’adito a qualunque speranza. Non v’era socialista, che in Francia facesse maggior propaganda rivoluzionaria di Haynau. _À chaque capacité selon ses œuvres!_ Frattanto Luigi Bonaparte profittava delle ferie dell’Assemblea nazionale per far viaggi principeschi nelle provincie, i legittimisti di sangue caldo pellegrinavano alla volta d’Ems presso il nipote di San Luigi, e la massa dei rappresentanti del popolo amici dell’ordine intrigava nei Consigli dipartimentali, che allora allora eransi adunati. Si trattava di far loro pronunciare ciò che la maggioranza dell’Assemblea nazionale ancora non aveva osato pronunciare, la proposta d’urgenza di un’immediata revisione della Costituzione. Giusta il suo testo, la Costituzione avrebbe potuto rivedersi appena nel 1852, da un’assemblea nazionale convocata specialmente a tal fine. Ma una volta la maggioranza dei Consigli dipartimentali si fosse pronunciata in quel senso, non avrebbe dovuto l’Assemblea nazionale sagrificare al voto della Francia la verginità della Costituzione? L’Assemblea nazionale ripromettevasi da queste assemblee provinciali ciò che le monache della _Henriade_ di Voltaire si ripromettevano dai Panduri. Ma le Putifarri dell’Assemblea nazionale avevano a che fare, salve alcune eccezioni, con altrettanti Giuseppe delle provincie. L’enorme maggioranza non volle saperne dell’importuna sollecitazione. La revisione della Costituzione venne spacciata da quegli stessi stromenti, che dovevano darle vita, dai voti dei Consigli dipartimentali. La voce della Francia, e cioè della Francia borghese, aveva parlato ed aveva parlato contro la revisione. Nel principio d’ottobre, il Consesso legislativo si adunò nuovamente, — _quantum mutatus ab illo!_ La fisionomia ne era affatto cangiata. L’inaspettato rigetto della revisione da parte dei Consigli dipartimentali l’aveva ricacciato entro i limiti della Costituzione e spinto al di là dei limiti della durata della propria vita. Gli orleanisti eransi fatti diffidenti in seguito ai pellegrinaggi dei legittimisti ad Ems, i legittimisti erano divenuti sospettosi a cagione delle trattative degli orleanisti con Londra, i giornali d’entrambe le frazioni avevano soffiato nel fuoco, pesando i titoli reciproci dei loro pretendenti. Orleanisti e legittimisti uniti erano imbronciati pegli intrighi dei bonapartisti, manifestantisi nei viaggi principeschi, nei tentativi, del presidente più o meno trasparenti di emanciparsi, nel linguaggio altezzoso delle gazzette bonapartiste; Luigi Bonaparte era imbronciato verso un’Assemblea nazionale, che trovava giusta solamente la cospirazione legittimista-orleanista, verso un ministero, da cui era tradito in permanenza a pro di quest’Assemblea nazionale. Il ministero, infine, era scisso nel suo stesso seno riguardo alla politica romana ed all’imposta sul reddito progettata dal ministro Passy e diffamata dai conservatori come socialista. Una delle prime proposte del ministero Barrot alla Legislativa riconvocata fu la domanda d’un credito di 300 mila franchi per pagamento dell’assegno vedovile della duchessa d’Orléans. L’Assemblea nazionale l’approvò, aggiungendo nel libro del debito della nazione francese una somma di sette milioni di franchi. Mentre così Luigi Filippo continuava, con successo, a far la parte del _pauvre honteux_, del povero vergognoso, nè il ministero s’avventurava a proporre l’aumento dell’assegno a Bonaparte, nè l’Assemblea sembrava proclive ad assentirlo. E Luigi Bonaparte oscillava, come eragli sempre accaduto, nel dilemma: _Aut Cæsar aut Clichy!_ Una seconda domanda di credito del ministro, di nove milioni di franchi per le spese della spedizione romana, aumentò la tensione tra Bonaparte da un lato ed i ministri e l’Assemblea nazionale dall’altro. Luigi Bonaparte aveva fatto inserire nel _Moniteur_ una lettera al suo ufficiale d’ordinanza Edgar Ney, nella quale impegnava il governo papale a guarentigie costituzionali. Dal canto suo il papa aveva emanato un _motu proprio_, in cui respingeva qualsiasi limitazione del dominio restaurato. La lettera di Bonaparte veniva a sollevare con voluta indiscrezione la tenda del suo gabinetto, esponendo lui agli sguardi della galleria come un genio benevolo, ma incompreso e legato in casa propria Non era la prima volta ch’ei civettava coi «furtivi colpi d’ala di un’anima libera». Thiers, relatore della Commissione, ignorava completamente il colpo d’ala di Bonaparte e s’accontentava di tradurre in francese l’allocuzione papale. Non il ministero, ma Vittor Hugo fu colui che cercò di salvare il presidente con un ordine del giorno, in cui l’Assemblea nazionale doveva esprimere il proprio assentimento alla lettera di Napoleone. _Allons donc! allons donc!_; fu questa l’interiezione irriverentemente frivola, con cui la maggioranza seppellì la proposta di Hugo. La politica del presidente? La lettera del presidente? Il presidente stesso? _Allons donc!, allons donc!_ Chi diavolo piglia mai monsieur Bonaparte _au sérieux_? Credete voi, monsieur Vittor Hugo, che noi crediamo che voi crediate al presidente? _Allons donc!, allons donc!_ Finalmente la rottura fra Bonaparte e l’Assemblea nazionale venne affrettata dalla discussione sul richiamo degli Orléans e dei Borboni. In mancanza del ministero, il cugino del presidente, il figlio dell’ex re di Westfalia, aveva presentato questa proposta, che a null’altro mirava se non ad abbassare i pretendenti legittimisti ed orleanisti all’egual livello o, meglio ancora, al disotto del pretendente bonapartista, che almeno stava di fatto al sommo dello Stato. Napoleone Bonaparte ebbe sufficiente irriverenza da conglobare in un solo e medesimo progetto il richiamo delle famiglie reali espulse e l’amnistia degli insorti di giugno. L’indignazione della maggioranza lo costrinse a fare immediata ammenda di una miscela così sacrilega della santità e dell’infamia, delle razze reali e della genia proletaria, delle stelle fisse della società e dei suoi fuochi fatui; e l’obbligò ad assegnare a ciascuna delle due proposte il rango conveniente. Essa respinse con energia il richiamo della famiglia reale, e Berryer, il Demostene dei legittimisti, non lasciò sussistere dubbio sul significato di tal voto. La degradazione borghese dei pretendenti; è questo, a cui si mira! Si vuol spogliarli dell’aureola, dell’unica maestà, che sia loro rimasta, della maestà dell’esilio! Che cosa si penserebbe, esclamava Berryer, di quello tra i pretendenti che, dimentico della sua illustre origine, venisse qui a vivere da semplice cittadino! Non poteva dirsi in modo più chiaro a Luigi Bonaparte che la sua presenza non costituiva una vittoria per lui, avendone bisogno qui in Francia i realisti coalizzati come di «uomo neutrale» sullo scanno presidenziale, mentre i pretendenti serî della corona dovevano restar sottratti agli sguardi profani dalla nebbia dell’esilio. Il 1.º novembre, Luigi Bonaparte rispose all’Assemblea con un messaggio, che notificava, in parole discretamente aspre, il congedo del ministero Barrot e la formazione d’un nuovo ministero. Il ministero Barrot-Falloux era stato il ministero della coalizione realista; il ministero d’Hautpoul fu il ministero di Bonaparte, l’organo del presidente contro l’Assemblea legislativa, il «ministero dei commessi». Bonaparte non era più l’uomo semplicemente «neutrale» del 10 dicembre 1848. Il possesso del potere esecutivo gli aveva aggruppato intorno una serie di interessi; la lotta coll’anarchia aveva forzato il partito dell’ordine perfino ad aumentare l’influenza di lui, e se egli, Bonaparte, non era più popolare, il partito dell’ordine era impopolare. Quanto agli orleanisti e ai legittimisti, non poteva egli sperare di spingerli, grazie alla loro rivalità e in forza della necessità d’una ristorazione monarchica purchessia, al riconoscimento del pretendente «neutrale»? Dal 1.º novembre 1849 data il terzo periodo di vita della repubblica costituzionale, periodo che si chiude col 10 marzo 1850. Di qui non comincia solamente il gioco regolare delle istituzioni costituzionali, tanto ammirato da Guizot, la bega tra il potere esecutivo ed il legislativo. Contro le velleità di ristorazione degli orleanisti e legittimisti riuniti, Bonaparte difende il titolo della sua potenza di fatto, la repubblica; contro le velleità di ristorazione di Bonaparte, il partito dell’ordine difende il titolo del suo dominio collettivo, la repubblica; contro gli orleanisti i legittimisti e contro i legittimisti gli orleanisti difendono lo _status quo_, la repubblica. Tutte queste frazioni del partito dell’ordine, di cui ciascuna ha in petto il proprio re e la propria ristorazione, fanno valere a vicenda, contro le velleità d’usurpazione e di supremazia dei loro rivali, il dominio collettivo della borghesia, la forma, entro cui le particolari rivendicazioni rimangono neutralizzate e riservate, — la repubblica. Come Kant fa della repubblica, quale unica forma razionale dello Stato, un postulato della ragion pratica, la cui attuazione non verrà mai raggiunta, ma al cui raggiungimento devesi permanentemente tendere come a fine, tenendolo fisso nella mente, così facevano della monarchia questi realisti. Per tal guisa la repubblica costituzionale, escita dalle mani dei repubblicani borghesi vuota formula ideologica, divenne nelle mani dei realisti coalizzati una forma piena di contenuto e di vita. E Thiers diceva il vero ben più ch’ei non sospettasse, allorquando esclamava: «Noi realisti siamo i veri sostegni della repubblica costituzionale.» La caduta del ministero della coalizione, l’apparizione del ministero dei commessi, ha anche un altro significato. Il suo ministro delle finanze si chiamava Fould. Fould ministro delle finanze vuol dire l’ufficiale abbandono della ricchezza nazionale francese nelle mani della Borsa, vuol dire la gestione del patrimonio dello Stato per mezzo della Borsa e nell’interesse della Borsa. Colla nomina di Fould, l’aristocrazia finanziaria annunciava nel _Moniteur_ la propria ristorazione. Tale ristorazione era il complemento necessario delle restanti ristorazioni, che formano altrettanti anelli nella catena della repubblica costituzionale. Luigi Filippo non erasi mai arrischiato a fare ministro delle finanze un vero _loup-cervier_, un lupo di Borsa. Come la sua monarchia era stato il nome ideale del dominio dell’alta borghesia, così gli interessi privilegiati dovevano, nei suoi ministeri, portare nomi ideologicamente disinteressati. Fu la repubblica borghese, che sospinse dovunque in prima linea ciò che le diverse monarchie, la legittimista come l’orleanista, avevano tenuto nascosto nello sfondo. Essa tirò giù in questo mondo ciò che quelle avevano messo in cielo. Al posto dei nomi dei santi, essa pose i nomi propri borghesi degli interessi dominanti di classe. In tutta la nostra esposizione è mostrato come la repubblica, a partire dal primo giorno della sua esistenza, nonchè minare, consolidasse l’aristocrazia finanziaria. Ma le concessioni, che si facevano a quest’ultima, erano un destino, a cui si doveva piegare, senza il proposito di portarlo a compimento. Con Fould l’iniziativa del governo tornò a cadere nelle mani dell’aristocrazia finanziaria. Si chiederà come la borghesia coalizzata potesse sopportare e tollerare il dominio della finanza, che sotto Luigi Filippo riposava sull’esclusione o la subordinazione delle restanti frazioni borghesi. La risposta è semplice. Anzitutto l’aristocrazia finanziaria stessa forma una parte notevolmente preponderante della coalizione realista, il cui potere governativo collettivo chiamasi repubblica. Non sono forse i capi e le capacità degli orleanisti gli antichi alleati e complici dell’aristocrazia finanziaria? Ed essa medesima non è forse l’aurea falange dell’orleanismo? Per ciò che concerne i legittimisti, già sotto Luigi Filippo questi avevano preso parte attiva a tutte le orgie delle speculazioni delle Borse, delle miniere e delle ferrovie. Sovratutto l’unione della grande proprietà fondiaria coll’alta finanza è un fatto normale. N’è prova l’Inghilterra, n’è prova persino l’Austria. In un paese come la Francia, dove l’entità della produzione nazionale sta in misura proporzionale enormemente più bassa dell’entità del debito nazionale, dove la rendita dello Stato costituisce l’oggetto più ragguardevole della speculazione e la Borsa il mercato principale per l’impiego del capitale, che voglia acquistar valore in modo improduttivo, in un paese siffatto è mestieri che un’innumerevole massa di gente di tutte le classi borghesi o semiborghesi partecipi al debito dello Stato, al gioco di Borsa, alla finanza. Tutti questi partecipanti subalterni non trovano essi i naturali appoggi e le proprie guide nella frazione, che difende quest’interesse nei suoi contorni più colossali, in lungo ed in largo? La devoluzione del patrimonio dello Stato all’alta finanza da che è cagionato? Dall’indebitamento dello Stato, che cresce in permanenza. E l’indebitamento dello Stato? Dalla permanente eccedenza delle sue spese sovra le sue entrate, sproporzione ch’è, nello stesso tempo, la causa e l’effetto del sistema dei prestiti di Stato. Per ovviare a tale indebitamento, lo Stato ha due vie. O deve limitare le proprie spese, cioè semplificare l’organismo governativo, scemarlo, possibilmente governare meno, possibilmente impiegare poco personale, possibilmente mettersi poco in rapporto colla società borghese. Questa via era impossibile pel partito dell’ordine, i cui mezzi di repressione, il cui immischiarsi ufficialmente nello Stato, la cui onnipresenza col mezzo di organi dello Stato, dovevano prender piede a misura che da maggior numero di punti partivano le minaccie al suo dominio ed alle condizioni di vita della sua classe. Non si può diminuire la gendarmeria in egual proporzione dell’aumentare degli attacchi alle persone ed alle proprietà. Ovvero lo Stato deve cercare di abbandonare i debiti ed apportare un momentaneo, ma transitorio equilibrio nel bilancio, caricando imposte straordinarie sulle spalle delle classi più ricche. Doveva il partito dell’ordine, a fine di sottrarre la ricchezza nazionale allo sfruttamento della Borsa, immolare la propria ricchezza sull’altare della patria? _Pas si bête!_ Cosicchè, senza un totale capovolgimento dello Stato francese, non è possibile alcun capovolgimento della amministrazione dello Stato francese. Con tale amministrazione si ha necessariamente l’indebitamento dello Stato, e coll’indebitamento dello Stato si ha necessariamente il dominio del commercio del debito dello Stato, dei creditori dello Stato, dei banchieri, dei cambiovalute, dei lupi di Borsa. Un’unica frazione del partito dell’ordine prendeva parte diretta nel minare l’aristocrazia finanziaria: i fabbricanti. Non parliamo già dei medî, dei minori industriali; parliamo dei principi della fabbrica, i quali sotto Luigi Filippo avevano costituito la larga base dell’opposizione dinastica. Il loro interesse sta indubbiamente nella diminuzione del costo di produzione; ossia nella diminuzione delle imposte, che si trasfondono nella produzione; ossia nella diminuzione dei debiti dello Stato, i cui interessi si trasfondono nelle imposte; ossia nella distruzione dell’aristocrazia finanziaria. In Inghilterra — ed i più grossi fabbricanti francesi sono piccoli borghesi raffrontati coi loro rivali inglesi — noi troviamo per davvero i fabbricanti, un Cobden, un Bright, alla testa della crociata contro la Banca e l’aristocrazia della Borsa. Perchè non in Francia? In Inghilterra è l’industria che predomina, in Francia l’agricoltura. In Inghilterra l’industria ha d’uopo del _free trade_, in Francia del dazio protettivo, del monopolio nazionale accanto agli altri monopolî. L’industria francese non padroneggia la produzione francese; gli industriali francesi, per conseguenza, non padroneggiano la borghesia francese. Per attuare il loro interesse contro le restanti frazioni della borghesia, essi non possono, come gli inglesi, mettersi all’avanguardia del movimento ed insieme spingere all’avanguardia il loro interesse di classe; essi devono mettersi in coda alla rivoluzione e servire interessi, che stanno in antagonismo cogli interessi complessivi della loro classe. Nel febbraio essi non avevano intuito la loro posizione; il febbraio aperse loro gli occhi. E chi dagli operai più direttamente minacciato di colui che dà il lavoro, del capitalista industriale? Così accadde necessariamente che il fabbricante divenisse in Francia un membro fanatico del partito dell’ordine. L’assottigliamento del suo profitto per opera della finanza, che cos’è mai al paragone dell’abolizione del profitto per opera del proletariato? In Francia, il piccolo borghese fa ciò, che dovrebbe normalmente fare il borghese industriale, l’operaio fa ciò, che normalmente sarebbe il còmpito del piccolo borghese; e il còmpito dell’operaio, chi lo fa? Nessuno. In Francia non lo si fa; in Francia lo si proclama. Non lo si soddisfa anzi in nessun luogo entro i confini nazionali; la guerra di classe in seno alla società francese si allarga in una guerra mondiale, in cui le nazioni muovono l’una contro l’altra. Quel compito non comincia a esser soddisfatto se non nel momento, in cui per forza di una guerra mondiale il proletariato sia spinto alla testa del popolo, che è padrone del mercato mondiale: dell’Inghilterra. La rivoluzione, che quivi trova non già la sua fine, bensì il suo inizio organizzatore, non è adatto una rivoluzione dal fiato breve. L’attuale generazione rassomiglia agli ebrei, cui Mosè conduce attraverso il deserto. Essa non solamente deve conquistare un nuovo mondo, essa deve perire, per fare posto agli uomini, nati per un nuovo mondo. Ma ritorniamo a Fould. Nel 14 novembre 1849 Fould salì alla tribuna della Assemblea nazionale e svolse il suo sistema finanziario: Apologia dell’antico sistema d’imposte! Mantenimento dell’imposta sul vino! Ristabilimento dell’imposta sul reddito di Passy! Anche Passy non era affatto un rivoluzionario: era un vecchio ministro di Luigi Filippo. Apparteneva ai puritani della forza di Dufaure ed ai più intimi confidenti di Teste, di questo capro espiatorio della monarchia di luglio.[2] Anche Passy aveva lodato l’antico sistema d’imposte e raccomandato il mantenimento dell’imposta sul vino, ma aveva, contemporaneamente, strappato il velo al _deficit_ dello Stato. Egli aveva dimostrata la necessità d’una nuova imposta, della imposta sul reddito, ove non si volesse la bancarotta dello Stato. Fould, che aveva raccomandato a Ledru-Rollin la bancarotta dello Stato, raccomandò alla Legislativa il _deficit_ dello Stato. Promise economie, il cui mistero fu più tardi rivelato nella diminuzione, ad esempio, delle spese per circa 60 milioni e nell’aumento del debito fluttuante per circa 200 milioni, — giochi di bussolotti nell’aggruppare le cifre, nell’esporre la resa dei conti, che venivano tutti, in definitiva, a riescire a nuovi prestiti. Sotto Fould, l’aristocrazia finanziaria non si mostrò naturalmente, accanto alle restanti frazioni borghesi rivali, corrotta in modo così svergognato come sotto Luigi Filippo. Ma il sistema era il medesimo: continuo aumento dei debiti, dissimulazione del deficit. E col tempo l’antica vertigine della Borsa si sfogò più liberamente. Prova: la legge sulla ferrovia d’Avignone, le misteriose oscillazioni dei valori di Stato, che per un momento formarono il discorso quotidiano di tutta Parigi, infine le malandate speculazioni di Fould e di Bonaparte sulle elezioni del 10 marzo. Colla ristorazione ufficiale dell’aristocrazia finanziaria, il popolo francese doveva bentosto ritrovarsi dinanzi ad un nuovo 24 febbraio. La Costituente, in un attacco di misantropia verso la propria erede, aveva abolito l’imposta sul vino per l’anno del Signore 1850. Coll’abolizione di vecchie imposte non si potevano pagare nuovi debiti. Creton, un cretino del partito dell’ordine, aveva proposto il mantenimento dell’imposta sul vino ancor prima della proroga dell’Assemblea legislativa. Questa proposta venne raccolta da Fould, in nome del ministero bonapartista, e il 20 dicembre 1849, anniversario della proclamazione di Bonaparte, l’Assemblea nazionale decretò la ristorazione dell’imposta sul vino. Non ad un finanziere, ma ad un capo gesuita, a Montalembert, toccò fare il prologo a questa ristorazione. Il suo ragionamento fu d’una semplicità stringente: L’imposta è il seno materno, a cui il governo si disseta. Ma il governo è tutt’uno cogli stromenti della repressione, cogli organi dell’autorità, coll’esercito, colla polizia, cogli impiegati, coi giudici, coi ministri, coi preti. L’attacco all’imposta è l’attacco degli anarchisti alle sentinelle dell’ordine, che difendono la produzione materiale ed intellettuale della società borghese contro gli attentati dei Vandali proletarî. L’imposta è il quinto dio, accanto alla proprietà, alla famiglia, all’ordine ed alla religione. E l’imposta sul vino è indiscutibilmente un’imposta e, per giunta, una imposta per nulla volgare, ma d’antica estrazione, di spirito monarchico, rispettabile. _Vive l’impôt des boissons! Three cheers and one cheer more!_ Il contadino francese, quando vuol dipingersi il diavolo sulla parete, lo dipinge in forma d’esattore delle imposte. Dall’istante in cui Montalembert ebbe elevato a dio l’imposta, il contadino divenne senza dio, ateo, e si gittò nelle braccia del diavolo, del socialismo. La religione dell’ordine l’aveva preso a gabbo, i gesuiti preso a gabbo, Bonaparte preso a gabbo. Il 20 dicembre 1849 aveva compromesso irrimediabilmente il 20 dicembre 1848. Il «nipote di suo zio» non era il primo della sua famiglia, che fosse battuto dall’imposta sul vino, da quest’imposta, la quale, giusta l’espressione di Montalembert, porta il maltempo della rivoluzione. Il vero, il grande Napoleone dichiarava a Sant’Elena che il ristabilimento dell’imposta sul vino aveva più di ogni altra causa contribuito alla sua caduta, poichè avevagli inimicato i contadini della Francia meridionale. Favorita dell’odio popolare già sotto Luigi XIV (vedi gli scritti di Boisguillebert e di Vauban), abolita dalla prima rivoluzione, Napoleone l’aveva ripristinata nel 1808, modificandone la forma. Allorquando la Ristorazione entrò in Francia, trottavano dinanzi a lei non i soli cosacchi, ma altresì le promesse d’abolizione dell’imposta sul vino. La _gentilhommerie_, naturalmente, non aveva bisogno di mantenere la parola alla _gent taillable à merci et miséricorde_. Il 1830 promise l’abolizione dell’imposta sul vino, come aveva promesso tutto il resto. Dalla Costituente infine, che nulla aveva promesso, era stata fatta, come si disse, una disposizione testamentaria, secondo la quale l’imposta sul vino doveva scomparire al 1.º gennaio 1850. E, proprio dieci giorni prima del 1.º gennaio 1850, la Legislativa la rimetteva in vigore, avvenendo così che il popolo le dava continuamente la caccia ma, buttatala fuori dalla porta, se la vedeva ricomparire dalla finestra. L’odio popolare contro la tassa sul vino trova spiegazione nella circostanza che essa concentra in sè tutte le odiosità del sistema tributario francese. Il modo di riscossione ne è odioso, aristocratico il modo di ripartizione, essendo eguali le percentuali dell’imposta pei vini comuni e pei più costosi. Essa aumenta adunque in ragione geometrica della povertà dei consumatori; è un’imposta progressiva alla rovescia. Essa provoca, conseguentemente, il diretto avvelenamento delle classi lavoratrici, quasi premio sull’adulterazione e contraffazione dei vini. Essa diminuisce il consumo, mentre eleva dazî alle porte di tutte le città al disopra di 4000 abitanti, trasformando ciascuna città in un paese straniero con dazî protettivi contro il vino francese. I grandi commercianti di vino, ma più ancora i piccoli, i _marchands de vins_, le osterie, il cui profitto dipende immediatamente dal consumo del vino, sono altrettanti avversarî illuminati dell’imposta sul vino. E, finalmente, mentre fa diminuire il consumo, l’imposta sul vino toglie alla produzione il mercato di spaccio. Intanto ch’essa sottrae agli operai della città la possibilità di pagare il vino, sottrae ai viticultori la possibilità di venderlo. E la Francia conta una popolazione viticola di circa 12 milioni. Si concepisce quindi l’odio del popolo in generale, si concepisce il fanatismo speciale dei contadini contro l’imposta sul vino. Si aggiunga che, nel suo ripristino, questi non ravvisavano semplicemente un avvenimento isolato, più o meno accidentale. I contadini hanno un genere di tradizione storica loro particolare, che passa per eredità di padre in figlio; ora, in questa scuola storica si andava borbottando che ogni governo, fintanto che vuol ingannare i contadini, promette l’abolizione dell’imposta sul vino e, non appena ingannati i contadini, mantiene oppure rimette in vigore l’imposta sul vino. Nell’imposta sul vino il contadino fa quasi l’assaggio del sapore del governo, della costui tendenza. La ristorazione dell’imposta sul vino al 20 dicembre significava; Luigi Bonaparte è come gli altri; senonchè egli non era come gli altri, ma era una scoperta dei contadini, i quali colle migliaia di firme che coprivano le petizioni contro l’imposta sul vino, venivano a riprendersi i voti dati un anno prima al «nipote di suo zio». La popolazione della campagna, cioè due buoni terzi dell’intera popolazione francese, è composta in massima parte di proprietarî fondiari così detti liberi. La prima generazione, sollevata gratuitamente dai pesi feudali nella rivoluzione del 1789, non aveva pagato prezzo alcuno per la terra. Ma le generazioni successive pagarono sotto forma di prezzo del terreno ciò, che i loro antenati semi-servi avevano pagato sotto forma di rendita, di decime, di prestazioni personali, ecc. Quanto più da una parte cresceva la popolazione, quanto più dall’altra parte si moltiplicava la divisione della terra, — tanto più rincarì il prezzo dell’appezzamento, che col diventar più piccolo fu più ricercato. Ma nella proporzione in cui s’elevò il prezzo pagato dal contadino per l’appezzamento, sia comperandolo direttamente, sia facendoselo capitalizzare nei conti coi suoi coeredi, nella stessa proporzione s’elevò di necessità l’indebitamento del contadino, ossia l’ipoteca. Il titolo di debito vincolante suolo e sottosuolo chiamasi ipoteca, cedola di pegno sul suolo e sottosuolo. Come sui poderi medioevali s’accumulavano i privilegi, così sui moderni appezzamenti le ipoteche. D’altro canto: nel sistema parcellare, la terra è pei suoi proprietarî un mero stromento di produzione. Ora, nella stessa misura, in cui il suolo e sottosuolo viene suddiviso, ne diminuisce la fertilità. L’applicazione delle macchine sul suolo e sottosuolo, la divisione del lavoro, i grandi mezzi di miglioramento della terra, quali l’impiego di canali scaricatori e d’irrigazione e simili, divengono sempre più impossibili, mentre le spese morte di cultura crescono in eguale proporzione della divisione degli stromenti stessi di produzione. Tutto questo, prescindendo dalla circostanza se il possessore dell’appezzamento possieda o no capitale. Ma, quanto più cresce la divisione, tanto più il podere forma, nel misero inventario, l’unico capitale del contadino parcellario, tanto più viene a cessare il capitale disponibile pel suolo e sottosuolo, tanto più vengono a mancargli terra, danaro e cultura per applicare i progressi dell’agronomia al suo campo, tanto più la cultura delle terre va deperendo. Infine, l’entrata netta diminuisce nell’egual proporzione in cui aumenta il consumo lordo, quando all’intera famiglia del contadino sono precluse altre occupazioni, senza che tuttavia essa ritragga dal possesso del fondo tanto da vivere. Nella stessa misura, adunque, in cui la popolazione e con essa la divisione del suolo e sottosuolo s’accresce, rincara lo stromento di produzione, la terra, e ne scema la fertilità, decade l’agricoltura ed il contadino s’indebita. E ciò ch’era effetto diventa, a sua volta, causa. Ogni generazione ne lascia dietro a sè un’altra più indebitata, ogni nuova generazione incomincia in condizioni più sfavorevoli e pesanti, l’ipotecamento genera l’ipotecamento, e quando al contadino vien tolta la possibilità d’offrire nel suo appezzamento un pegno per nuovi debiti, cioè d’aggravarlo con nuove ipoteche, è nelle mani dell’usuraio ch’ei cade direttamente e di tanto più enormi diventano gli interessi usurarî. Così avvenne che il contadino francese, sotto forma d’interessi per le ipoteche vincolanti la terra, sotto forma d’interessi per anticipazioni non ipotecate dall’usuraio, rinunci al capitalista non solo una rendita fondiaria, non solo il profitto industriale, non solo, in una parola, tutto il guadagno netto, ma persino una parte del salario del lavoro, precipitando per tal modo al livello dell’affittaiuolo irlandese, — e tutto ciò sotto pretesto d’essere proprietario privato. Tale processo venne in Francia accelerato dal sempre crescente peso delle imposte e delle spese giudiziali, richieste in parte direttamente dalle formalità stesse, di cui la legislazione francese circonda la proprietà fondiaria, in parte dagli innumerevoli conflitti che nascono dalla molteplicità e dall’intrico dei confini dei piccoli fondi, in parte dalla smania di litigio dei contadini, presso i quali il godimento della proprietà si riduce alla fanatica constatazione della proprietà apparente, del diritto di proprietà. Giusta un’esposizione statistica del 1840, il prodotto lordo del suolo e sottosuolo francese importava franchi 5.237.178.000. Ne vanno dedotti 3.552.000.000 fr. per spese di cultura, inclusovi il consumo degli uomini che lavorano. Rimane un prodotto netto di 1.685.178.000 fr., da cui bisogna sottrarre 550 milioni per interessi ipotecarî, 100 milioni per impiegati giudiziarî, 350 milioni per imposte e 107 milioni per diritti di registro, diritti di bollo, tasse ipotecarie, ecc. Rimane la terza parte del prodotto netto, 538 milioni; ripartita per capi sulla popolazione, nemmeno 25 fr. di prodotto netto. In questo calcolo non si trovano naturalmente riportati nè l’interesse extraipotecario, nè le spese per avvocati, ecc. Si comprende la situazione dei contadini, allorchè la repubblica ebbe aggiunto loro altri nuovi pesi oltre gli antichi. Si vede che il loro sfruttamento differisce dallo sfruttamento del proletariato industriale unicamente quanto alla forma. Lo sfruttatore è il medesimo: il capitale. I singoli capitalisti sfruttano i singoli contadini coll’ipoteca o coll’usura, la classe capitalista sfrutta la classe dei contadini coll’imposta dello Stato. Il titolo di proprietà del contadino è il talismano, con cui il capitale potè fin qui esorcizzarlo, il pretesto col quale esso fin qui l’aizzò contro il proletariato industriale. Non v’ha che la rovina del capitale, che possa far rialzare il contadino; non v’ha che un governo anticapitalista, proletario, che possa spezzarne la miseria economica, la degenerazione sociale. La repubblica costituzionale non è che la dittatura dei suoi sfruttatori riuniti; la repubblica democratico-sociale, la repubblica rossa, questa è la dittatura dei suoi alleati. E la bilancia sale o scende, in proporzione ai voti, che il contadino getta nell’urna elettorale. È a lui medesimo che sta il decidere del suo destino. — Così parlavano i socialisti in opuscoli, in almanacchi, in calendarî, in pubblicazioni d’ogni genere. A rendergli più intelligibile questo linguaggio, vennero gli scritti di confutazione del partito dell’ordine, che alla sua volta si indirizzava a lui e che, colle rozze esagerazioni, col rilievo e l’esposizione brutali degli intendimenti e dei concetti dei socialisti, trovava il tono adatto al contadino, sovreccitandone la cupidigia del frutto proibito. Ma ancor più intelligibile davvero era il linguaggio dell’esperienza fatta dalla classe dei contadini coll’uso del diritto di voto e colle disillusioni, che cadevano sopra di essa, l’una dopo l’altra, con precipitazione rivoluzionaria. Le rivoluzioni sono le locomotive della storia. Il graduale mutamento dei contadini si manifestò con diversi sintomi. Esso era già apparso nelle elezioni per l’Assemblea legislativa, era apparso nello stato d’assedio dei cinque dipartimenti finitimi a Lione, era apparso qualche mese dopo il 13 giugno nell’elezione d’un montagnardo, al posto del presidente d’allora della _Chambre introuvable_[3], nel dipartimento della Gironda, era apparso il 20 dicembre 1849 nell’elezione d’un «rosso», al posto d’un deputato legittimista defunto, nel dipartimento del Gard, in questa terra promessa dei legittimisti, teatro delle più orribili infamie contro i repubblicani nel 1794 e 1795, sede centrale del terror bianco del 1815, ove liberali e protestanti erano stati pubblicamente assassinati. Questo «rivoluzionamento» della classe più stazionaria si presenta nel modo più percettibile dopo il ripristino dell’imposta sul vino. Le misure e le leggi del governo durante il gennaio e il febbraio 1850 sono quasi esclusivamente dirette contro i dipartimenti ed i contadini. Qual prova più stringente del progresso di questi ultimi? Circolare d’Hautpoul, con cui il gendarme veniva nominato inquisitore del prefetto, del sottoprefetto e sovratutto del _maire_, con cui lo spionaggio veniva organizzato fino nei più nascosti ripostigli dei più remoti comuni rurali; legge contro i maestri di scuola, con cui essi, le capacità, gli oratori, gli educatori e gl’interpreti della classe dei contadini, venivano assoggettati all’arbitrio dei prefetti e con cui essi, i proletarî della classe dei letterati, venivano, a guisa di selvaggina, cacciati da un comune nell’altro; progetto di legge contro i _maires_, con cui veniva sul loro capo sospesa la spada di Damocle della rivocazione, ed essi, i presidenti dei comuni rurali, venivano posti, ad ogni istante, di fronte al presidente della repubblica ed al partito dell’ordine; ordinanza che trasformò le 17 divisioni militari di Francia in cinque pascialicati e regalò la caserma ed il bivacco ai francesi come «salone nazionale»; legge sull’istruzione, con cui il partito dell’ordine proclamò l’incoscienza ed il violento imbecillimento della Francia quale condizione della sua vita sotto il regime del suffragio universale, — che cos’erano tutte queste leggi e misure? Tentativi disperati di riconquistare i dipartimenti ed i contadini al partito dell’ordine. Considerati come repressione, erano miserabili mezzi, che venivano a rivolgersi contro lo scopo stesso a cui tendevano. Le grandi misure, quali il mantenimento dell’imposta sul vino, l’imposta dei 45 cent., lo sdegnoso rigetto delle petizioni dei contadini per la restituzione dei miliardi, ecc., tutti questi scoppî di tuono legislativi avevano tôcca la classe dei contadini con colpi in grande, che partivano in una volta sola dalla sede centrale; leggi e misure, che fecero dell’attacco e della resistenza il tema generale e quotidiano dei discorsi in ogni capanna, inocularono la rivoluzione in ogni villaggio, localizzarono la rivoluzione e la resero contadina. D’altro canto questi progetti di Bonaparte e l’approvazione data loro dall’Assemblea non dimostrano essi l’unità d’ambidue i poteri della repubblica costituita, finchè si tratti di repressione dell’anarchia, cioè di tutte le classi che si rivoltano contro la dittatura borghese? Non aveva Soulouque, tosto dopo il suo aspro messaggio, assicurata la Legislativa della sua devozione all’ordine, facendo seguire immediatamente il messaggio di Carlier, dì questa caricatura luridamente volgare di Fouché, come Luigi Bonaparte stesso era la caricatura slavata di Napoleone? La legge sull’insegnamento ci mostra l’alleanza dei giovani cattolici coi vecchi volteriani. Poteva il dominio dei borghesi riuniti essere altra cosa che il dispotismo coalizzato della ristorazione amica dei gesuiti e della monarchia di luglio libera pensatrice? Le armi che, nel reciproco combattimento pel supremo dominio tra le due frazioni della borghesia, l’una di queste aveva distribuite in mezzo al popolo contro l’altra, non dovevano esse nuovamente strapparsi dalle mani del popolo, dopochè questo erasi posto contro la loro dittatura riunita? Nulla era mai riescito a sollevare il bottegaio parigino meglio di quest’esposizione civettuola di gesuitismo, nè manco il rigetto dei _concordats à l’amiable_. Frattanto continuavano le collisioni tra le varie frazioni del partito dell’ordine, come tra l’Assemblea nazionale e Bonaparte. Poco accomodava all’Assemblea nazionale che Bonaparte, tosto dopo il suo colpo di Stato, dopo aver costituito un proprio ministero bonapartista, chiamasse dinanzi a sè gl’invalidi della monarchia, ora nominati prefetti, ponendo ad essi come condizione della loro carica l’agitazione anticostituzionale per la sua rielezione a presidente: che Carlier festeggiasse la propria entrata in funzioni sopprimendo un club legittimista, che Bonaparte fondasse un proprio giornale, _Le Napoléon_, il quale scopriva al pubblico le segrete cupidigie del presidente, mentre i suoi ministri dovevano smentirle sul palcoscenico della Legislativa; poco le accomodava l’arroganza di mantenere il ministero a dispetto dei parecchi suoi voti di sfiducia; poco il tentativo di guadagnare il favore dei sottufficiali con un supplemento giornaliero di quattro soldi ed il favore del proletariato con un plagio dei _Mistères_ d’Eugenio Sue, con una Banca pei prestiti sull’onore; poco finalmente l’impudenza, con cui si faceva proporre dai ministri la deportazione ad Algeri degli insorti di giugno ancor rimasti, allo scopo di riversare addosso alla Legislativa l’impopolarità _en gros_, mentre il presidente si riservava la popolarità _en détail_ col mezzo di singoli atti di grazia. Thiers lasciò cadere parole minacciose di «colpi di Stato» e di «colpi di testa», e la Legislativa si vendicò di Bonaparte, respingendo qualunque disegno di legge egli presentasse a pro di sè stesso e mettendosi ad indagare con rumori pieni di diffidenza se, in quelli da lui proposti nell’interesse comune, egli non aspirasse ad usare dell’aumentato potere esecutivo a profitto del potere personale di Bonaparte. In una parola, essa si vendicò colla cospirazione del disprezzo. Il partito legittimista, dal canto suo, vedeva con dispetto gli orleanisti più autorevoli entrare nuovamente ad occupare quasi tutti i posti e crescere l’accentramento, mentre esso cercava, per principio, la propria via di salute nel decentramento. Ed a ragione. La controrivoluzione aveva accentrato violentemente, aveva cioè predisposto il meccanismo della rivoluzione. Essa aveva, anzi, mediante il corso forzoso delle banconote, accentrato l’oro e l’argento della Francia nella Banca parigina, procurando così alla rivoluzione un completo tesoro di guerra. Da ultimo, gli orleanisti vedevano con dispetto il principio invadente della legittimità tener fronte contro il loro principio bastardo, mentr’essi erano continuamente posposti e malmenati, quasi _mésalliance_ borghese, dal nobile consorte. Vedemmo contadini, piccoli borghesi, i medî ceti in generale, avanzarsi successivamente accanto al proletariato, sospinti in antagonismo aperto contro la repubblica ufficiale, trattati da questa come avversarî. Rivolta contro la dittatura borghese, necessità d’una mutazione della società, mantenimento delle istituzioni democratico-repubblicane nonchè dei loro organi motori, concentrazione intorno al proletariato come a potenza rivoluzionaria decisiva, — questi sono i tratti caratteristici comuni del così detto «partito della democrazia sociale», del partito della repubblica rossa. Questo «partito dell’anarchia», come lo battezzano gli avversarî, è, non meno del partito dell’ordine, una coalizione d’interessi diversi. Dalla più piccola riforma del vecchio disordine sociale fino al rovesciamento del vecchio ordine sociale, dal liberalismo borghese fino al terrorismo rivoluzionario, ecco le distanze estreme, che formano il punto di partenza ed il punto finale dell’«anarchia». Abolizione dei dazî protettorî — socialismo! chè essa intacca il monopolio della frazione industriale del partito dell’ordine. Regolamento dell’amministrazione dello Stato, — socialismo! chè esso intacca il monopolio della frazione finanziaria del partito dell’ordine. Libera importazione di carni e cereali esteri, — socialismo! chè essa intacca il monopolio della terza frazione del partito dell’ordine, della grande proprietà fondiaria. Le rivendicazioni del partito _freetrader_, cioè del partito borghese più avanzato d’Inghilterra, appajono in Francia come altrettante rivendicazioni socialiste. Volterianismo, — socialismo! perchè intacca una quarta frazione del partito dell’ordine, la cattolica. Libertà di stampa, diritto d’associazione, istruzione popolare universale, — socialismo, socialismo! Essi intaccano nel suo complesso il monopolio del partito dell’ordine. Il corso della rivoluzione aveva con tanta rapidità fatto maturare la situazione, che i riformisti d’ogni tinta, che le pretese più modeste delle classi medie erano forzate a stringersi intorno alla bandiera del partito sovversivo estremo, intorno alla bandiera rossa. Per quanto varie, adunque, fossero le forme di socialismo delle diverse grandi sezioni del partito dell’«anarchia», in relazione alle condizioni economiche ed ai bisogni rivoluzionarî in generale, che ne derivano alla sua classe o frazione di classe, v’ha un punto in cui queste forme coincidono: nell’annunciarsi quale mezzo per l’emancipazione del proletariato e nell’annunciare l’emancipazione del proletariato quale proprio fine. Mistificazione voluta dagli uni, automistificazione negli altri, che il mondo foggiato secondo i loro bisogni vogliono far credere sia il mondo migliore, sia l’attuazione di tutti i reclami rivoluzionarî e l’eliminazione di tutti i conflitti rivoluzionarî. Sotto le generiche frasi socialiste, discretamente monotone, del «partito dell’anarchia» s’asconde il socialismo del _National_, della _Presse_ e del _Siècle_, che vuole, con maggiore o minor logica, abbattere il dominio dell’aristocrazia finanziaria, e liberare e industria e traffico dalle catene, che sin qui li legavano. È questo il socialismo dell’industria, del commercio e dell’agricoltura, i cui gerenti nel partito dell’ordine negano tali interessi in quanto non coincidano più coi loro monopolî privati. Da questo socialismo borghese, che naturalmente, come ogni specie bastarda del socialismo, fa rappattumare una parte degli operai e dei piccoli borghesi, si distingue il vero socialismo piccolo borghese, il socialismo _par excellence_. Il capitale aizza questa classe sovratutto nella veste di creditore, ed essa reclama istituti di credito; quello la schiaccia colla concorrenza, ed essa reclama associazioni sovvenute dallo Stato; quello la sopraffà colla concentrazione, ed essa reclama imposta progressiva, limitazioni del diritto ereditario, assunzione dei grandi lavori per parte dello Stato, e via via altre misure, che trattengono forzatamente lo sviluppo del capitale. Poichè essa sogna pel suo socialismo un’attuazione pacifica — salvo qualche seconda rivoluzione di febbraio di pochi giorni, — è naturale che il processo storico imminente le appaia come l’applicazione di sistemi immaginati ora o prima d’ora dai pensatori della società, d’invenzioni fatte da compagnie o da singoli individui. Per tal modo i piccoli borghesi diventano gli eclettici, ossia gli adepti dei sistemi socialisti più su citati, del socialismo dottrinario, che fu l’espressione teoretica del proletariato solamente fino a che questo non si era ancora svolto in movimento storico libero e spontaneo. Mentre così l’utopia, il socialismo dottrinario, il quale subordina il movimento complessivo ad uno solo dei suoi momenti, o che al posto della produzione sociale comune mette l’attività cerebrale del singolo pedante, e sovratutto fantastica di eliminare la lotta rivoluzionaria delle classi e le sue necessità mediante piccoli lavori di pazienza e grandi sentimentalismi, mentre questo socialismo dottrinario, il quale, in fondo, non fa che idealizzare la società attuale, accoglie di lei un’immagine senz’ombra e vuole attuare il proprio ideale contro la realtà di essa, mentre questo socialismo passa dal proletariato alla piccola borghesia, mentre, nella lotta dei diversi capi socialisti tra loro medesimi, ciascuno dei cosidetti sistemi si pone di fronte agli altri, colla pretesa di fissare un punto di passaggio alla trasformazione sociale, — il proletariato va sempre più raggruppandosi intorno al socialismo rivoluzionario, al comunismo, pel quale la borghesia stessa inventò il nome _Blanqui_. Questo socialismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato, quale punto di passaggio necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il rovesciamento di tutte le idee che germinano da queste relazioni sociali. I limiti della presente esposizione non concedono un ulteriore sviluppo di quest’argomento. Noi vedemmo che, come nel partito dell’ordine, fu necessariamente l’aristocrazia finanziaria che emerse in prima linea, così nel partito dell’«anarchia» fu il proletariato. Mentre le diverse classi confederate in lega rivoluzionaria si raggruppavano intorno al proletariato, e i dipartimenti divenivano sempre più malfidi e la stessa Assemblea legislativa sempre più arcigna contro le pretese del Soulouque francese, le elezioni suppletive, lungamente ritardate e tenute in sospeso, in seguito alla proscrizione dei montagnardi nel 13 giugno, erano imminenti. Il governo, disprezzato dai suoi nemici, maltrattato e quotidianamente umiliato dai suoi pretesi amici, vedeva un solo mezzo per escire dalla situazione disgustosa e non tenibile — la sommossa. Una sommossa a Parigi avrebbe permesso d’indire lo stato d’assedio per Parigi ed i dipartimenti e d’avere così il comando sulle elezioni. D’altra parte gli amici dell’ordine, di fronte ad un governo, che aveva riportato la vittoria sull’anarchia, sarebbero stati forzati a concessioni, sotto pena di sembrare anarchisti essi stessi. Il governo si pose all’opera. Al principio di febbraio 1850, provocazioni del popolo mediante massacri degli alberi della libertà. Invano. Se gli alberi della libertà perdettero il loro posto, il governo perdette la testa e si ritrasse spaventato dalla provocazione, ch’era cosa sua. L’Assemblea nazionale, però, accolse quest’inabile tentativo di Bonaparte d’emanciparsi, con diffidenza glaciale. Nè ebbe miglior successo l’allontanamento delle corone di semprevivi dalla colonna di giugno. Esso diede l’occasione ad una parte dell’esercito di dimostrazioni rivoluzionarie ed all’Assemblea nazionale d’un voto di sfiducia, più o meno dissimulato, contro il ministero. Vana la minaccia della stampa governativa di soppressione del suffragio universale, d’invasione dei Cosacchi. Vana la sfida lanciata direttamente d’Hautpoul alla Sinistra, perchè scendesse nella strada, colla dichiarazione che il governo era pronto a riceverla. D’Hautpoul non ricevette, lui, che un richiamo all’ordine dal presidente, ed il partito dell’ordine lasciò, con un silenzio pieno di maligna gioia, che un deputato della Sinistra mettesse in burletta le velleità usurpatrici di Bonaparte. Inutile finalmente la profezia d’una rivoluzione pel 24 febbraio. Il governo fe’ sì che il 24 febbraio venisse ignorato dal popolo. Il proletariato non si lasciò provocare ad alcuna sommossa, poich’esso era in procinto di fare una rivoluzione. Non trattenuto dalle provocazioni del governo, che non riescivano se non ad accrescere la generale irritazione contro la situazione esistente, il Comitato elettorale, interamente sotto l’influenza degli operai, pose tre candidati per Parigi: Deflotte, Vidal e Carnot. Deflotte era un deportato di giugno, amnistiato da Bonaparte in uno dei suoi accessi di popolarità; era un nemico di Blanqui ed aveva preso parte all’attentato del 15 maggio. Vidal, conosciuto come scrittore comunista pel suo libro «Sulla ripartizione della ricchezza», già segretario di Luigi Blanc nella Commissione del Lussemburgo. Carnot, figlio dell’uomo della Convenzione organizzatore della vittoria, il membro meno compromesso del partito nazionale, ministro dell’istruzione nel governo provvisorio e nella Commissione esecutiva, viva protesta, grazie al suo progetto di legge sull’istruzione popolare, contro la legge sull’istruzione dei gesuiti. Questi tre candidati rappresentavano le tre classi alleate: alla testa l’insorto di giugno, il rappresentante del proletariato rivoluzionario, accanto a lui il socialista dottrinario, il rappresentante della piccola borghesia socialista, il terzo, infine, rappresentante del partito borghese repubblicano, le cui formule democratiche avevano, di fronte al partito dell’ordine, acquistato un significato socialista, avendo esse da lunga pezza perduto il significato loro proprio. Era questa una coalizione generale contro la borghesia ed il governo, come nel febbraio. Ma questa volta era il proletariato la testa della lega rivoluzionaria. A dispetto di tutti gli sforzi contrarî, i candidati socialisti vinsero. L’esercito stesso votò pegli insorti di giugno contro il suo proprio ministro della guerra, Lahitte. Il partito dell’ordine fu come colpito dalla folgore. Le elezioni dipartimentali non riescirono a confortarlo; esse diedero una maggioranza di montagnardi. L’elezione del 10 marzo 1850! Fu il rinnegamento del giugno 1848: massacratori e deportatori degli insorti di giugno rientravano nell’Assemblea nazionale, ma umiliati, alla coda dei deportati, e coi loro principî a fior di labbro. Fu la ritrattazione del 13 giugno 1849: la Montagna proscritta dall’Assemblea nazionale rientrava nell’Assemblea nazionale, ma come un trombettiere mandato innanzi dalla rivoluzione, non più come condottiera di questa. Fu il rinnegamento del 10 dicembre: Napoleone era stato battuto nel suo ministro Lahitte. Un solo caso analogo è conosciuto dalla storia parlamentare di Francia: la batosta di d’Haussy, ministro di Carlo X, nel 1830. L’elezione del 10 marzo 1850 era finalmente la cassazione del 13 maggio, che al partito dell’ordine aveva dato la maggioranza. L’elezione del 10 marzo protestò contro la maggioranza del 13 maggio. Il 10 marzo era una rivoluzione. Dietro alle schede elettorali stavano i sassi del selciato. «Il voto del 10 marzo è la guerra!», sclamò Ségur d’Aguesseau, uno dei membri più avanzati del partito dell’ordine. Col 10 marzo 1850 la repubblica costituzionale entrò in una nuova fase, nella fase della sua dissoluzione. Le differenti frazioni della maggioranza sono nuovamente riunite tra loro e con Bonaparte; sono nuovamente esse le salvatrici dell’ordine, egli nuovamente il loro «uomo neutrale». Se esse continuano a rammentarsi d’esser realiste, ciò avviene ancora solo perchè disperano della possibilità della repubblica borghese; se egli continua a rammentarsi d’esser presidente, ciò avviene ancora solo perchè dispera di rimaner presidente. All’elezione dell’insorto di giugno Deflotte, Bonaparte risponde, su comando del partito dell’ordine, colle nomina di Baroche a ministro dell’interno, di Baroche accusatore di Blanqui e Barrès, di Ledru-Rollin e Guinard. All’elezione di Carnot risponde la Legislativa, accogliendo la legge sull’istruzione, all’elezione di Vidal sopprimendo la stampa socialista. Facendo squillare le trombette della propria stampa, il partito dell’ordine cerca di sgominare la propria paura. «La spada è sacra», grida uno dei suoi organi; «i difensori dell’ordine devono assumere l’offensiva contro il partito rosso», un altro; «fra il socialismo e la società v’ha un duello a morte, una guerra senza tregua nè pietà; in questo duello della disperazione, conviene che o l’uno o l’altra soccomba; se la società non annienta il socialismo, è il socialismo che annienterà la società», canta un terzo gallo dell’ordine. Su, colle barricate dell’ordine, colle barricate della religione, colle barricate della famiglia! È ora di farla finita coi 127.000 elettori di Parigi! Notte di san Bartolomeo dei socialisti! Ed il partito dell’ordine crede per un istante alla certezza della sua propria vittoria. Il contegno più fanatico è adottato dai suoi organi contro i «bottegai di Parigi». L’insorto di giugno di Parigi eletto rappresentante dai bottegai di Parigi! ch’è quanto dire essere impossibile un secondo giugno 1848, ch’è quanto dire essere impossibile un secondo 13 giugno 1849, ch’è quanto dire essere infranta l’influenza morale del capitale, ch’è quanto dire che l’Assemblea borghese non rappresenta ormai se non la borghesia, e che la grande proprietà è perduta, dacchè la sua vassalla, la piccola proprietà, cerca la propria salvezza nel campo dei senza proprietà. Il partito dell’ordine ripiglia naturalmente i suoi inevitabili luoghi comuni. «Maggior repressione!» esclama esso, «repressione decuplicata!»; ma la sua forza di repressione è dieci volte scemata, mentre la resistenza s’è centuplicata. Lo stromento essenziale di repressione, l’esercito, non deve forse venir represso esso medesimo? Ed il partito dell’ordine dice la sua ultima parola: «conviene spezzare l’anello di ferro d’una legalità soffocante. La repubblica costituzionale è impossibile. È colle nostre vere armi che noi dobbiamo pugnare, noi che dal febbraio 1848 combattemmo la rivoluzione colle armi di questa e sul suo terreno, noi che ne abbiamo accettato le istituzioni; la Costituzione è una fortezza, che protegge solamente gli assedianti, non gli assediati! Mentre noi, nel ventre del cavallo di Troia, c’introducevamo di contrabbando nella sacra Ilio, finimmo, a differenza dei nostri predecessori, i Greci[4], non già a conquistare la città nemica, ma ad essere prigionieri noi stessi.» Ma la base della Costituzione è il suffragio universale. La soppressione del suffragio universale, ecco l’ultima parola del partito dell’ordine, della dittatura borghese. Il suffragio universale aveva loro dato ragione il 24 maggio 1848, il 20 dicembre 1848, il 13 maggio 1849, l’8 luglio 1849. Il suffragio universale diede torto a sè stesso il 10 marzo 1850. Il dominio borghese, emanazione e risultato del suffragio universale, verdetto della volontà popolare sovrana: ecco il significato della Costituzione borghese. Ma dal momento in cui il contenuto di questo diritto di voto, di questo volere sovrano, non è più il dominio borghese, ha la Costituzione ancora un significato? Non è dovere della borghesia di regolare il diritto di voto in modo che esso abbia a volere ciò ch’è ragionevole, ossia il dominio di essa? Il suffragio universale, col tenere di nuovo sospesa permanentemente la potenza attuale dello Stato, facendone una propria creazione diretta, non viene esso a sospendere ogni stabilità, a porre ad ogni istante in questione tutti i poteri vigenti, ad annullare l’autorità, a minacciare che la stessa anarchia assurga ad autorità? Dopo il 10 marzo 1850 era forse ancor lecito il dubbio? La borghesia, mentre rinnega il suffragio universale, del quale erasi fino allora drappeggiata, dal quale traeva alimento per la propria onnipotenza, confessa apertamente: «La nostra dittatura è fino ad oggi sussistita in forza della volontà popolare; oggi si deve consolidarla contro la volontà popolare.» E, con logica conseguenza, va cercando i propri sostegni non più in Francia, ma fuori, all’estero, nell’invasione. Coll’invasione, essa, novella Coblenza insediata nella stessa Francia, fa ridestare contro di sè tutte le passioni nazionali. Coll’attacco al suffragio universale, essa dà alla nuova rivoluzione un pretesto generale, e di tali appigli ha bisogno appunto la rivoluzione. Ogni appiglio particolare separerebbe le frazioni della lega rivoluzionaria e lascerebbe emergere le loro differenze. L’appiglio generale, invece, stordisce le classi semirivoluzionarie, permette loro d’illudere sè medesime circa il carattere determinato dell’imminente rivoluzione e le conseguenze dell’azione loro propria. Ogni rivoluzione ha bisogno d’una «questione dei banchetti». Il suffragio universale è la «questione dei banchetti» della nuova rivoluzione. Le frazioni borghesi coalizzate sono però già condannate, quando dalla sola forma possibile della loro potenza riunita, dalla forma più solida e più completa del loro dominio di classe, dalla repubblica costituzionale, vanno a rifugiarsi nella forma subordinata, incompleta, più debole, della monarchia. Assomigliano a quel vecchio, che, per riacquistare la forza giovanile, si fe’ portare i suoi vestiti da fanciullo, cercando di costringervi dentro le sue membra floscie. La loro repubblica ebbe un solo merito, d’essere la serra calda della rivoluzione. Il 10 marzo 1850 porta l’iscrizione: _Après moi le déluge_; dopo me il diluvio! IV. LA SOPPRESSIONE DEL SUFFRAGIO UNIVERSALE NEL 1850. (_DAL FASCICOLO DOPPIO V E VI_). La continuazione dei precedenti tre capitoli trovasi nella «Rassegna» del fascicolo doppio quinto e sesto, ultimo comparso, della _Neue Rheinische Zeitung_. Spiegato ivi primieramente la grande crisi commerciale scoppiata in Inghilterra nel 1847 e diffusasi per via di ripercussione sul continente europeo, e come quelle complicazioni politiche si acuissero sino a promuovere le rivoluzioni del febbraio e marzo 1848, viene poscia esposto come la prosperità del commercio e dell’industria, riapparsa nel corso del 1848, salita ancor più su nel 1849, paralizzasse lo slancio rivoluzionario, rendendo nello stesso tempo possibili le vittorie della reazione. Della Francia in particolare è poi detto: Gli eguali sintomi si manifestarono in Francia sin dal 1849 e specialmente dal principio del 1850. Le industrie parigine sono abbondantemente occupate ed anche le fabbriche di cotone di Rouen e Mulhouse vanno discretamente bene, per quanto ivi i prezzi elevati della materia greggia abbiano, come in Inghilterra, esercitato un’azione depressiva. Lo sviluppo della prosperità in Francia venne oltracciò particolarmente favorito dalla vasta riforma doganale nella Spagna e dall’abbassamento dei dazî su diversi articoli di lusso nel Messico; sovra ambidue questi mercati l’esportazione di merci francesi s’accrebbe notevolmente. L’aumento dei capitali condusse in Francia ad una serie di speculazioni, a cui lo sfruttamento su vasta scala delle miniere d’oro della California servì d’occasione. Una moltitudine di società pullulò, il basso importo delle cui azioni ed il color socialistico dei cui prospetti sono un diretto appello alla borsa dei piccoli borghesi e degli operai, ma le quali, prese in blocco o singolarmente, si risolvono unicamente in quel genere di truffa, ch’è proprio solo ai francesi ed ai chinesi. V’ha anzi una di tali società, ch’è direttamente protetta dal governo. I dazî d’importazione in Francia durante i primi nove mesi ammontarono nel 1848 a 63 milioni di franchi, nel 1849 a 95 milioni di franchi e nel 1850 a 93 milioni di franchi. Essi superarono del resto nel mese di settembre 1850 di circa un milione quelli dello stesso mese nel 1849. L’esportazione è egualmente salita nel 1849 ed ancor più nel 1850. La prova più decisiva della ristabilita prosperità è il ripristino dei pagamenti a contanti della Banca in forza della legge 6 settembre 1850. Nel 15 marzo 1848 la Banca era stata autorizzata a sospendere i pagamenti a contanti. La circolazione dei suoi biglietti, incluse le Banche provinciali, importava allora 373 milioni di franchi (14.920.000 L. st.). Ai 2 novembre 1849 questa circolazione importava 482 milioni di franchi, ossia 19.280.000 L. st.; aumento di 4.360.000 L. st., e il 2 settembre 1850 496 milioni di franchi, ossia 19.840.000 L. st., aumento di circa 5 milioni di sterline. Non venne oltracciò ad aggiungersi alcun deprezzamento dei biglietti; al contrario, l’aumentata circolazione dei biglietti era accompagnata da una sempre crescente pletora d’oro e d’argento nei sotterranei della Banca, tanto che nell’estate 1850 la provvista di contante aumentò a circa 14 milioni di sterline, somma inaudita in Francia. Il fatto che la Banca fosse così posta in grado d’elevare la propria circolazione e conseguentemente il proprio capitale attivo a circa 123 milioni di franchi, ossia a 5 milioni di sterline, dimostra nel modo più stringente la giustezza della nostra affermazione, fatta in un precedente fascicolo, che l’aristocrazia finanziaria non solo non venne abbattuta dalla rivoluzione, ma anzi ne trasse maggior forza. Ancor più evidente riesce tale conclusione dalla seguente scorsa sulla legislazione bancaria francese degli ultimi anni. Il 10 giugno 1847 la Banca fu autorizzata ad emettere biglietti da 200 franchi; il biglietto più basso era stato fino allora da 500 franchi. Un decreto del 15 marzo 1848 dichiarò i biglietti della Banca di Francia moneta legale, sollevando la Banca dall’obbligo di ritirarli verso contanti. La sua emissione di biglietti venne limitata a 350 milioni di franchi. In pari tempo la si autorizzò ad emettere biglietti da 100 franchi. Un decreto del 27 aprile ordinò la fusione delle Banche dipartimentali colla Banca di Francia; un altro decreto del 2 maggio 1848 elevò l’emissione dei suoi biglietti a 442 milioni di franchi. Un decreto del 22 dicembre 1849 portò il maximum dell’emissione di biglietti a 525 milioni di franchi. Infine la legge del 6 settembre 1850 ristabilì la convertibilità dei biglietti in danaro. Da questi fatti, dal progrediente aumento della circolazione, dalla concentrazione di tutto il credito francese nelle mani della Banca e dall’accumulazione di tutto l’oro e l’argento francese nei magazzini della Banca, il signor Proudhon fu tratto alla conclusione che la Banca debba oggi spogliarsi della sua vecchia pelle di biscia, metamorfosandosi in una Banca popolare proudhoniana. Anche senza bisogno di conoscere tampoco la storia della restrizione bancaria inglese del 1797-1819, gli sarebbe bastato unicamente di volgere lo sguardo al di là del Canale, per accorgersi che questo fatto, per lui inaudito nella storia della società borghese, non era nulla più che un avvenimento borghese assolutamente normale, che appena ora appariva in Francia per la prima volta. Si vede come i pretesi teorici rivoluzionarî, che a Parigi dopo il governo provvisorio andavano per la maggiore, fossero altrettanto ignari della natura e dei risultati delle misure attuate, quanto gli stessi signori del governo provvisorio. Malgrado la prosperità industriale e commerciale, di cui si compiace la Francia momentaneamente, la massa della popolazione, i 25 milioni di contadini soffrono d’una grande depressione. I buoni raccolti degli ultimi anni hanno fatto precipitare in Francia i prezzi del grano ancor più basso che in Inghilterra, e la situazione de’ contadini indebitati, spremuti dall’usura e dalle imposte, può esser tutto, fuorchè splendida. La storia dei tre ultimi anni ha, oltre ciò mostrato esuberantemente che questa classe della popolazione non è affatto capace d’un’iniziativa rivoluzionaria. Come il periodo della crisi s’affaccia sul continente più tardi che in Inghilterra, così quello della prosperità. Il processo iniziale lo si trova sempre in Inghilterra; quivi è il demiurgo del cosmos borghese. Sul continente le diverse fasi del ciclo, che la società borghese ricomincia sempre a percorrere, appaiono in forma secondaria e terziaria. Dapprima il continente esportava in Inghilterra sproporzionatamente più che in qualsivoglia altro paese. Questa esportazione in Inghilterra dipende però anch’essa dalla posizione che l’Inghilterra ha specialmente verso il mercato d’oltremare. Poi l’Inghilterra esporta nei paesi d’oltremare sproporzionatamente più che il continente intero, cosicchè la quantità dell’esportazione continentale in questi paesi è sempre dipendente dalla contemporanea esportazione dell’Inghilterra in oltremare. Se, per conseguenza, le crisi originano rivoluzioni prima nel continente, il fondamento deve tuttavia trovarsene sempre in Inghilterra. È naturale che le eruzioni violente si manifestino prima alle estremità del corpo borghese, che non nel suo cuore, imperocchè questo sia più capace d’equilibrio che non quelle. D’altra parte il grado, in cui le rivoluzioni continentali si ripercuotono sull’Inghilterra, è insieme il termometro, ove trovasi segnato fino a qual punto veramente queste rivoluzioni pongano in questione le condizioni di vita borghesi, o fino a qual punto esse si limitino a colpirne le formazioni politiche. Data questa prosperità universale, in cui le forze produttive della società borghese si svolgono con tutta quella sovrabbondanza ch’è, in generale, ammissibile entro le condizioni borghesi, non può affatto parlarsi d’una vera rivoluzione. Una rivoluzione siffatta è possibile solamente in periodi, in cui ambidue questi fattori, le forze moderne di produzione e le forme borghesi di produzione, si scontrano in antagonismo fra loro. Le diverse beghe, a cui attualmente s’abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine, compromettendovisi reciprocamente, ben lunge dal fornire appiglio a nuove rivoluzioni, trovano all’opposto la ragione della loro possibilità unicamente nell’essere la base dei rapporti, in questo momento, così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contr’essa si attutirà ogni tentativo reazionario di trattenere l’evoluzione borghese, come ogni indignazione morale, ogni proclamazione ispirata di democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito ad una nuova crisi. Quella però è altrettanto certa quanto questa. Passiamo ora in Francia. La vittoria, ch’era stata conseguita dal popolo in unione coi piccoli borghesi nelle elezioni del 10 marzo, venne annientata da esso medesimo, col provocare la nuova elezione del 28 aprile. Vidal era stato eletto, oltrecchè a Parigi, anche nel Basso Reno. Il Comitato parigino, in cui la Montagna e la piccola borghesia erano fortemente rappresentate, lo indusse ad optare pel Basso Reno. La vittoria del 10 marzo cessava d’essere decisiva; il termine della decisione veniva un’altra volta differito; l’elasticità del popolo era rallentata, poichè lo si aveva abituato a trionfi legali anzichè ai rivoluzionarî. Il significato rivoluzionario del 10 marzo, la riabilitazione cioè dell’insurrezione di giugno, venne completamente cancellato colla candidatura di Eugenio Sue, di questo fantasista sociale, piccolo borghese sentimentale, la quale dal proletariato poteva accettarsi tutt’al più come uno scherzo per far piacere alle _grisettes_. A questa candidatura bene intenzionata il partito dell’ordine, fatto più ardito dalla politica oscillante degli avversarî, oppose un candidato, che doveva rappresentare la vittoria di giugno. Questo comico candidato fu lo spartano padre di famiglia Leclerc, a cui peraltro la stampa strappò di dosso, pezzo per pezzo, l’eroica armatura ed il quale nell’elezione subì altresì una splendida disfatta. La nuova vittoria elettorale del 28 aprile rese arroganti la Montagna e la piccola borghesia. La prima gongolava già al pensiero di poter conseguire il fine dei suoi desiderî per via puramente legale e senza avere ancora da spingere con un’altra rivoluzione il proletariato in prima linea; essa calcolava con sicurezza di portare nelle nuove elezioni del 1852, mediante il suffragio universale, il signor Ledru-Rollin al seggio presidenziale ed una maggioranza di montagnardi nell’assemblea. Il partito dell’ordine, completamente rassicurato dal rinnovamento dell’elezione, dalla candidatura di Sue e dal voto della Montagna e della piccola borghesia che queste in ogni eventualità fossero risolute a rimaner tranquille, rispose ad ambedue le vittorie elettorali colla legge elettorale, che sopprimeva il suffragio universale. Il governo, certamente, si guardò bene dal porre un simile progetto sotto la propria responsabilità. Esso fece alla maggioranza un’apparente concessione, affidando il suo lavoro ai gran dignitarî di questa maggioranza, ai diciassette burgravi. Non fu dunque il Governo che propose all’Assemblea, fu la maggioranza dell’Assemblea che propose a sè stessa l’abrogazione del suffragio universale. L’8 maggio il progetto venne portato alla Camera. Tutta la stampa democratico-sociale si sollevò come un sol uomo, per predicare al popolo contegno dignitoso, _calme majestueux_, atteggiamento passivo e fiducia nei suoi rappresentanti. In ogni articolo di questi giornali si veniva a confessare che una rivoluzione avrebbe avuto per effetto di distruggere la stampa così detta rivoluzionaria e che quindi ora si trattava di conservarla. La stampa sedicente rivoluzionaria aveva rivelato pienamente il suo segreto, aveva firmato la sua sentenza di morte. Il 21 maggio la Montagna pose la pregiudiziale, proponendo la reiezione dell’intero progetto, perchè esso violava la Costituzione. Il partito dell’ordine rispose che la Costituzione sarebbesi violata, ove fosse stato necessario; ora però non esservene il bisogno, prestandosi la Costituzione a qualsivoglia interpretazione e la sola maggioranza essendo competente a decidere sulla retta interpretazione. Agli attacchi selvaggiamente sfrenati di Thiers e Montalembert, la Montagna contrappose un umanismo decente ed educato. Essa si richiamò al terreno del diritto; il partito dell’ordine richiamò lei al terreno, ove il diritto cresce, alla proprietà borghese. La Montagna gemette: si voleva dunque a tutta forza provocare delle rivoluzioni? Il partito dell’ordine replicò che starebbe ad attenderle. Il 22 maggio la pregiudiziale venne scartata con 462 contro 227 voti. Quegli stessi uomini, che con sì solenne fermezza avevano dimostrato come l’Assemblea nazionale e ogni singolo deputato abdicano, quando fanno abdicare il popolo loro mandante, rimasero sui loro seggi, cercando improvvisamente di far agire in vece loro il paese e precisamente mediante petizioni. E quando ai 31 maggio la legge passò splendidamente, essi si trovavano ancora là imperturbabilmente seduti. Tentarono vendicarsi con una protesta, in cui misero a protocollo la loro innocenza nella violazione della Costituzione; protesta ch’essi nè manco consegnarono al pubblico, ma ficcarono di soppiatto nelle tasche al presidente. Un esercito di 150,000 uomini in Parigi, il lungo trascinarsi della decisione, il discredito della stampa, la pusillanimità della Montagna e dei rappresentanti neoeletti, la tranquillità maestosa dei piccoli borghesi, ma sovr’ogni altra cosa la prosperità commerciale ed industriale, impedirono qualsiasi tentativo rivoluzionario da parte del proletariato. Il suffragio universale aveva compiuto la sua missione. La maggioranza del popolo aveva compiuto la scuola di sviluppo, che è tutto ciò cui il suffragio universale possa servire in un’epoca rivoluzionaria. O da una rivoluzione o dalla reazione esso doveva venire eliminato. Un lusso ancor maggiore d’energia svolse la Montagna, in un’occasione presentatasi tosto appresso. Il ministro della guerra d’Hautpoul aveva, dall’alto della tribuna, chiamata la rivoluzione di febbraio una catastrofe malaugurata. Gli oratori della Montagna che, come sempre, si distinguevano con rumorose indignazioni morali, non vennero ammessi alla parola dal presidente Dupin. Girardin propose alla Montagna di escire immediatamente in massa. Risultato: la Montagna rimase seduta, ma Girardin venne espulso dal suo grembo come indegno. La legge elettorale aveva ancor d’uopo d’un complemento, d’una nuova legge sulla stampa. Questa non si fece attendere a lungo. Una proposta del governo, resa più rigorosa da molteplici emendamenti del partito dell’ordine, elevò le cauzioni, stabilì un bollo speciale sui romanzi d’appendice (risposta all’elezione di Eugenio Sue), tassò tutti gli scritti pubblicati in dispense settimanali o mensili sino ad un determinato numero di fogli, e prescrisse, da ultimo, che ogni articolo di giornale dovesse essere munito della sottoscrizione dell’autore. Le disposizioni sulla cauzione uccisero la stampa così detta rivoluzionaria; la morte di questa fu considerata dal popolo come l’ultimo compimento dell’abolizione del suffragio universale. Ma nè la tendenza, nè l’azione della nuova legge si limitarono a questa parte della stampa. Fino a che la stampa giornalistica era stata anonima, essa figurava come l’organo dell’innumere ed anonima opinione pubblica, era il terzo potere nello Stato. La sottoscrizione di ciascun articolo fece del giornale una semplice raccolta di contributi letterarî di più o meno noti individui. Ogni articolo fu degradato ad annuncio. Fino allora i giornali avevano circolato come carta monetata dell’opinione pubblica; ora si sminuzzavano in più o meno cattive «sole di cambio», la bontà e la circolazione delle quali dipendevano dal credito non solo del traente, ma altresì del girante. Era stata la stampa del partito dell’ordine a provocare tanto l’abolizione del suffragio universale, quanto i provvedimenti più eccessivi contro la cattiva stampa. Ed ecco che la stessa buona stampa, nella sua anonimia sospetta, riesciva incomoda al partito dell’ordine ed ancor più ai singoli rappresentanti di esso nelle provincie. Esso non ammetteva, di fronte a sè, che lo scrittore pagato, con nome, domicilio e connotati. Vani furono i lamenti della buona stampa sull’ingratitudine, con cui se ne rimuneravano i servigi. La legge passò, e fu essa, la buona stampa, la più colpita dall’obbligo della designazione dei nomi. Alquanta notorietà avevano i nomi degli scrittori quotidiani repubblicani, ma le rispettabili firme del _Journal des Débats_, dell’_Assemblée Nationale_, del _Constitutionnel_, ecc. ecc., fecero una deplorevole figura colla loro strombazzata scienza di Stato, allorchè la misteriosa compagnia venne d’un tratto a decomporsi in venali _Penny-aliners_ di lunga pratica, che avevano verso moneta sonante difeso ogni cosa possibile, come Granier de Cassagnac, oppure in vecchi stracci, che chiamavano sè stessi uomini di Stato, come Capefigue, oppure in parrucconi civettuoli come il signor Lemoinne dei _Débats_. Nella discussione intorno alla legge sulla stampa, la Montagna era già sprofondata a tal grado d’esaurimento morale da dover limitarsi ad approvare rumorosamente le splendide tirate d’un’antica notabilità luigi-filippistica, del signor Vittor Hugo. Colla legge elettorale e colla legge sulla stampa, il partito rivoluzionario e democratico abbandona la scena ufficiale. Prima d’andarsene a casa, poco dopo la chiusura della sessione, ambo le frazioni della Montagna, i democratici socialisti ed i socialisti democratici, emisero due manifesti, due _testimonia paupertatis_, nei quali dimostravano che, se non avevano mai trovato dalla loro parte la forza ed il successo, eransi tuttavia trovati sempre dalla parte dell’eterno diritto e di tutte le altre eterne verità. Volgiamoci ora al partito dell’ordine. La _Neue Rheinische Zeitung_ diceva nel fascicolo 3º, pag. 16: «Contro le velleità di ristorazione degli orleanisti e legittimisti riuniti, Bonaparte difende il titolo della sua potenza di fatto, la repubblica; contro le velleità di ristorazione di Bonaparte, il partito dell’ordine difende il titolo del suo dominio collettivo, la repubblica; contro gli orleanisti i legittimisti e contro i legittimisti gli orleanisti difendono lo _status quo_, la repubblica. Tutte queste frazioni del partito dell’ordine, ciascuna delle quali ha in petto il proprio re e la propria ristorazione, fanno valere a vicenda, contro le velleità d’usurpazione e di supremazia dei loro rivali, il dominio collettivo della borghesia, la forma, entro cui le particolari rivendicazioni rimangono neutralizzate e riservate, — la repubblica.... E Thiers diceva il vero ben più ch’ei non presentisse, allorquando esclamava: Noi realisti siamo i veri sostegni della repubblica costituzionale.» Questa commedia dei _républicains malgré eux_, la ripugnanza verso lo _status quo_ ed il costante suo consolidamento; gl’incessanti attriti di Bonaparte e dell’Assemblea nazionale; l’insistente minaccia del partito dell’ordine di decomporsi nelle singole sue parti ed il continuo ripetersi della fusione delle sue frazioni; il tentativo di ciascuna frazione di convertire ogni vittoria contro il nemico comune in una disfatta degli attuali alleati; la gelosia, il rancore, i ripicchi reciproci, l’infaticabile trar delle sciabole, che va sempre nuovamente a finire con un _baiser-Lamourette_, tutta questa sconfortante commedia d’equivoci non ebbe mai svolgimento più classico di quello che durante gli ultimi sei mesi. Il partito dell’ordine considerava la legge elettorale come una vittoria altresì contro Bonaparte. Non aveva forse abdicato il governo, abbandonando alla Commissione dei diciassette la redazione e la responsabilità del proprio progetto? E non riposava la forza principale di Bonaparte di fronte all’Assemblea sul fatto che egli era l’eletto dei sei milioni? Bonaparte, dal canto suo, trattava la legge elettorale come una concessione all’Assemblea, una concessione colla quale egli aveva comperato l’armonia del potere legislativo coll’esecutivo. Come premio, il volgare avventuriero esigeva un aumento di tre milioni alla sua lista civile. Doveva l’Assemblea mettersi in conflitto coll’Esecutivo in un momento, in cui essa aveva messo al bando la gran maggioranza dei francesi? Essa mostrò di sdegnarsi; sembrò che volesse spingere le cose agli estremi, la sua Commissione rigettò il progetto, la stampa bonapartista minacciò appellandosi al popolo diseredato, spogliato del suo diritto elettorale, una moltitudine di rumorosi tentativi di transazione ebbe luogo, e l’Assemblea finì col piegarsi in pratica, ma vendicandosi nello stesso tempo in teoria. Invece di votare la massima dell’annuale aumento della lista civile di tre milioni, gli accordò una sovvenzione di 2.160.000 fr. Non contenta di ciò, fece anzi tal concessione solamente dopochè l’ebbe appoggiata Changarnier, il generale del partito dell’ordine e protettore importuno di Bonaparte. Essa accordò adunque i due milioni effettivamente non a Bonaparte, ma a Changarnier. Questo regalo, buttato là de _mauvaise grâce_, venne da Bonaparte accolto nel significato datogli da chi lo faceva. La stampa bonapartista riprese a strepitare contro l’Assemblea nazionale. Ora, allorquando la prima volta nella discussione della legge sulla stampa fu fatto l’emendamento per la designazione del nome, emendamento diretto anch’esso in ispecie contro i giornali subordinati, rappresentanti degli interessi privati di Bonaparte, partì dal foglio principale di Bonaparte, dal _Pouvoir_, un aperto e veemente attacco contro l’Assemblea nazionale. I ministri furono obbligati a sconfessare il foglio dinanzi all’Assemblea; il gerente del _Pouvoir_ venne citato alla sbarra dell’Assemblea nazionale e condannato alla multa più alta, a 5000 fr. Il giorno appresso, il _Pouvoir_ portava un articolo ancor più arrogante contro l’Assemblea, ed il tribunale, quasi a dar la rivincita al governo, processò tosto parecchi giornali legittimisti per lesione della Costituzione. Infine si venne alla questione della proroga della Camera. La desiderava Bonaparte per poter agire senza intralci dal canto dell’Assemblea. La desiderava il partito dell’ordine, sia per portare a compimento gli intrighi tra le sue frazioni, sia per tener dietro agli interessi privati dei singoli deputati. Ne avevano d’uopo ambidue per consolidare nelle provincie la vittoria della reazione e spingersi oltre. L’Assemblea perciò si prorogò dall’11 agosto all’11 novembre. Ma, non nascondendosi in alcun modo da Bonaparte come altro non gli rimanesse a fare se non emanciparsi dal pesante controllo dell’Assemblea nazionale, l’Assemblea impresse allo stesso suo voto di fiducia il marchio della sfiducia contro il presidente. Dalla Commissione permanente di ventotto membri, che si fermavano durante le ferie in qualità di custodi della virtù della repubblica, vennero esclusi tutti i bonapartisti. Al loro posto anzi vi s’introdussero alcuni repubblicani del _Siècle_ e del _National_, a fine di mostrare al presidente l’attaccamento della maggioranza alla repubblica costituzionale. Poco dopo, e specialmente subito dopo la proroga della Camera, ambedue le grandi frazioni del partito dell’ordine, gli orleanisti ed i legittimisti, sembravano volersi riconciliare e precisamente mediante una fusione delle due case reali, sotto le cui bandiere combattono. I giornali erano pieni di progetti di riconciliazione che avrebbero dovuto discutersi al letto ove giaceva malato Luigi Filippo a St. Leonard, allorchè la situazione fu d’un tratto semplificata dalla morte di Luigi Filippo. Luigi Filippo era l’usurpatore, Enrico V lo spogliato, il conte di Parigi poi, data la mancanza di discendenza di Enrico V, l’erede regolare al trono di costui. Ogni pretesto alla fusione dei due interessi dinastici era ora tolto. Ma appena ora appunto le due frazioni della borghesia scopersero come non fosse il sentimentalismo per una determinata Casa reale quello che le scindeva, ma ben piuttosto fossero i loro interessi disparati quelli che tenevano disgiunte le due dinastie. I legittimisti, ch’erano andati in pellegrinaggio alla residenza di Enrico V a Wiesbaden, precisamente come i loro concorrenti a St. Leonard, ricevettero colà la notizia della morte di Luigi Filippo. Immediatamente formarono un ministero _in partibus infidelium_, composto in maggioranza di membri dell’accennata Commissione di custodi della virtù della repubblica, ed il quale, in occasione d’una disputa sorta in seno al partito, escì fuori colla più ingenua proclamazione del diritto per grazia di Dio. Gli orleanisti giubilarono per lo scandalo compromettente suscitato nella stampa da questo manifesto, nè lasciarono passare istante, senza palesare la loro decisa ostilità ai legittimisti. Durante la proroga dell’Assemblea nazionale si riunirono le rappresentanze dipartimentali. La loro maggioranza si pronunciò per una revisione della Costituzione, con più o meno clausole, ossia si pronunciò per una ristorazione monarchica, senza più precisamente definirla, per una «soluzione», confessando nello stesso tempo d’essere troppo incompetente e poltrona per trovare siffatta soluzione. Tal desiderio di revisione venne tosto interpretato dalla frazione bonapartista nel senso del prolungamento della presidenza di Bonaparte. La soluzione costituzionale, cioè il congedo di Bonaparte nel maggio 1852, la contemporanea elezione d’un nuovo presidente per mezzo di tutti gli elettori del paese, la revisione della Costituzione per mezzo di una Camera di revisione nei primi mesi della nuova presidenza, è per la classe dominante assolutamente inammissibile. Il giorno della nuova elezione presidenziale sarebbe il giorno del _rendez-vous_ per tutti quanti i partiti nemici, pei legittimisti, orleanisti, repubblicani borghesi, rivoluzionarî. Si dovrebbe venire ad una decisione violenta tra le diverse frazioni. Riescisse anche al partito dell’ordine d’accordarsi sulla candidatura d’un uomo neutrale al di fuori delle famiglie dinastiche, ecco Bonaparte drizzarglisi nuovamente contro. Il partito dell’ordine è necessitato, nella sua lotta col popolo, ad aumentare costantemente il potere dell’Esecutivo. Ogni aumento di potere dell’Esecutivo aumenta il potere di chi n’è investito, di Bonaparte. A misura, perciò, che il partito dell’ordine consolida la propria potenza collettiva, viene altresì a consolidare i mezzi di lotta per le pretese dinastiche di Bonaparte, a consolidare le probabilità per quest’ultimo di eludere colla violenza, nel giorno della decisione, la soluzione costituzionale. Questi andrà allora tanto meno ad urtarsi, in opposizione al partito dell’ordine, contro una delle colonne della Costituzione, quanto meno il partito stesso andrà ad urtarsi, in opposizione al popolo, contro l’altra colonna, contro la legge elettorale. Dall’Assemblea egli appellerebbe, secondo ogni probabilità, al suffragio universale. In una parola, la soluzione costituzionale pone in questione l’intero _status quo_ politico, e dietro al pericolare dello _status quo_ il cittadino vede il caos, l’anarchia, la guerra civile. Egli vede le sue compere e vendite, le sue cambiali, i suoi matrimonî, le sue convenzioni notarili, le sue ipoteche, le sue rendite fondiarie, le pigioni, i profitti, tutti quanti i suoi contratti e le sue fonti di guadagno, posti in questione nella prima domenica del maggio 1852, e ad un simile rischio egli non può esporsi. Dietro al pericolare dello _status quo_ politico, si cela il pericolo dello sconquasso di tutta la società borghese. L’unica soluzione possibile nel senso della borghesia è il differimento della soluzione. Essa non può salvare la repubblica costituzionale se non con una violazione della Costituzione, col prolungamento del potere del presidente. Questa è altresì l’ultima parola della stampa dell’ordine, dopo le lunghe e profonde discussioni sulle «soluzioni», a cui essa s’è dedicata dopo la sessione dei Consigli generali. Lo strapotente partito dell’ordine trovasi così, per sua vergogna, necessitato a pigliar sul serio la ridicola, volgare ed a lui odiosa persona del pseudo Bonaparte. Questo sporco figuro s’illudeva egualmente intorno alle cause, che sempre più lo camuffavano del carattere d’uomo necessario. Mentre nel suo partito eravi sufficiente penetrazione per ascrivere la crescente importanza di Bonaparte alle circostanze, egli credeva di dovere unicamente ringraziarne la potenza incantatrice del suo nome e la sua persistenza a far la caricatura di Napoleone. Egli divenne ogni giorno più intraprendente. Ai pellegrinaggi a St. Leonard e Wiesbaden, contrappose i suoi viaggi circolari attraverso la Francia. Così poca era la fiducia dei bonapartisti nell’effetto magico della sua personalità, che lo facevano accompagnare dappertutto da gente di quell’organizzazione della plebaglia parigina, ch’è la «Società del 10 dicembre», imballandoli in massa sui treni ferroviarî e sulle vetture postali, in qualità di _claqueurs_. Essi ponevano in bocca alla loro marionetta parole che, tosto dopo il ricevimento nelle diverse città, proclamavano la rassegnazione repubblicana, oppure la tenacia perseverante come motto elettorale della politica presidenziale. Malgrado tutte le manovre, questi viaggi erano niente meno che marcie trionfali. Quando Bonaparte potè credere d’avere in tal modo portato il popolo all’entusiasmo, si mise in moto per guadagnarsi l’esercito. Fece tenere grandi riviste sulla pianura di Satory presso Versailles, nelle quali cercava di comperare i soldati con salciccioni all’aglio, con sciampagna e con sigari. Dacchè il Napoleone genuino, in mezzo agli strapazzi delle sue marcie di conquista, sapeva animare i propri soldati spossati con qualche istante di familiarità, così credeva il pseudo Napoleone che fossero grida di ringraziamento quelle delle truppe: _Vive Napoléon, vive le saucisson!_, ch’è quanto dire: Viva la salsiccia, viva il pagliaccio![5] Queste visite determinarono l’esplosione della discordia, che da lungo tempo durava fra Bonaparte ed il suo ministro della guerra d’Hautpoul da un lato e Changarnier dall’altro. In Changarnier il partito dell’ordine aveva trovato il suo vero uomo neutrale, a cui non potevano affatto attribuirsi pretese dinastiche proprie. Esso l’aveva designato a successore di Bonaparte. Changarnier, oltracciò, grazie al suo contegno del 29 gennaio e del 13 giugno 1849, era divenuto il gran generale del partito dell’ordine, l’Alessandro moderno, il cui intervento brutale aveva, agli occhi del timido cittadino, reciso il nodo gordiano della rivoluzione. In fondo non meno ridicolo di Bonaparte, egli era così riescito, a buonissimo mercato, ad essere una potenza, e l’Assemblea nazionale lo aveva contrapposto al presidente perchè lo sorvegliasse. Egli poi si pavoneggiava, come fece ad esempio nella questione della dotazione, colla protezione, di cui regalava Bonaparte, e la sua prepotenza contro lui ed i ministri andava crescendo sempre più. Allorchè, nell’occasione della legge elettorale, si era in attesa d’un’insurrezione, egli aveva vietato ai suoi ufficiali d’accettare il menomo comando dal ministro della guerra o dal presidente. La stampa contribuì ancor essa ad ingrandire la figura di Changarnier. Nel completo difetto di grandi personalità, il partito dell’ordine trovossi naturalmente spinto ad attribuire la forza mancante a tutta la propria classe, ad un solo individuo, gonfiando così costui a prodigio. Tale fu l’origine del mito di Changarnier, del «bastione della società». La ciarlataneria presuntuosa, il fare d’importanza, con cui Changarnier s’abbassava a portare sulle proprie spalle il mondo, formano il contrasto più degno di riso cogli avvenimenti durante e dopo la rivista di Satory, i quali dimostrarono irrefutabilmente che bastava un semplice tratto di penna di Bonaparte, dell’infinitamente piccolo, per ricondurre questo fantastico rampollo della paura borghese, il colosso Changarnier, alle dimensioni della mediocrità, tramutando lui, l’eroe salvatore della società, in un generale pensionato. Bonaparte già assai prima aveva preso vendetta di Changarnier, provocando il ministro della guerra a conflitti disciplinari coll’incomodo protettore. L’ultima rivista a Satory produsse finalmente lo scoppio del vecchio rancore. L’indignazione costituzionale di Changarnier non conobbe più limiti, vedendosi sfilare dinanzi i reggimenti di cavalleria al grido anticostituzionale: _vive l’Empereur!_ Bonaparte, affine di prevenire ogni discussione spiacevole circa siffatto grido nell’imminente sessione della Camera, allontanò il ministro della guerra d’Hautpoul, nominandolo governatore di Algeri. Al costui posto mise un vecchio generale fidato, del tempo dell’impero, che, quanto a brutalità, poteva perfettamente competere con Changarnier. Ma per togliere al congedo di d’Hautpoul l’apparenza d’una concessione a Changarnier, traslocò contemporaneamente il braccio destro del gran salvatore della società, il generale Neumayer, da Parigi a Nantes. Era stato Neumayer, che nell’ultima rivista aveva mosso tutta la fanteria a sfilare dinanzi al successore di Napoleone in glaciale silenzio. Changarnier, colpito egli stesso in Neumayer, protestò e minacciò. Invano. Dopo due giorni di trattative, comparve il decreto di trasloco di Neumayer nel _Moniteur_, ed all’eroe dell’ordine altro non rimase che o sottomettersi alla disciplina, o dimettersi. La lotta di Bonaparte con Changarnier è la continuazione della sua lotta col partito dell’ordine. La riapertura dell’Assemblea nazionale all’11 novembre avviene perciò sotto minacciosi auspicî. Sarà tempesta in un bicchier d’acqua. Sostanzialmente è il vecchio gioco che dovrà proseguire. La maggioranza del partito dell’ordine si vedrà intanto costretta, malgrado le grida dei paladini del principio delle sue diverse frazioni, a prolungare il potere del presidente. Egualmente Bonaparte, malgrado tutte le proteste pregiudiziali, già stremato dalla mancanza di denaro, accoglierà come semplice delegazione dalle mani dell’Assemblea nazionale questo prolungamento del potere. Così la soluzione verrà scavalcata, lo _status quo_ sarà ancor mantenuto; una frazione del partito dell’ordine si troverà compromessa, indebolita, resa impossibile dall’altra; la repressione contro il comune nemico, contro la massa della nazione, sarà allargata e spinta agli estremi, insino a che le condizioni economiche stesse abbiano un’altra volta raggiunto il punto d’evoluzione, in cui un nuovo scoppio mandi all’aria tutti quanti questi partiti bisticciantisi, in un colla loro repubblica costituzionale. A tranquillità del cittadino deve dirsi, del resto, che lo scandalo fra Bonaparte ed il partito dell’ordine ha per risultato di rovinare alla Borsa una moltitudine di piccoli capitalisti e di far scivolare le loro sostanze nelle tasche dei grandi lupi di Borsa. FINE. INDICE Prefazione _Pag_. 3 I. Dal febbraio al giugno 1848 » 23 II. Dal giugno 1848 al 13 giugno 1849 » 51 III. Dal 13 giugno 1849 al 10 marzo 1850 » 86 IV. La soppressione del suffragio universale nel 1850 » 123 NOTE: [1] Annessione di Cracovia da parte dell’Austria d’intesa colla Russia e la Prussia, 11 novembre 1846 — Guerra del _Sonderbund_ svizzero dal 4 al 28 novembre 1847. — Sollevazione di Palermo, 12 gennaio 1848; alla fine di gennaio bombardamento della città per nove giorni da parte dei napoletani. (Questa e le restanti note in calce sono dell’editore, F. E.). [2] L’8 giugno 1849 incominciò davanti alla Camera dei Pari in Parigi il processo contro Parmentier ed il generale Cubières per corruzione di funzionari allo scopo d’ottenere la concessione d’una salina, e contro il ministro dei lavori pubblici d’allora, Teste, per aver egli partecipato alla corruzione ricevendo danaro. Quest’ultimo tentò di suicidarsi durante il processo. Tutti vennero condannati a gravi pene pecuniarie, Teste per giunta a tre anni di carcere. [3] Così chiamasi nella storia la Camera dei deputati, eletta immediatamente dopo la seconda caduta di Napoleone nel 1815; Camera fanaticamente ultrarealista e reazionaria. [4] Greci — gioco di parole — anche: bari di professione. [5] Il testo: _Es lebe die Wurst, es lebe der Hanswurst!_ gioco di parole intraducibile (_N. d. T._). Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE LOTTE DI CLASSE IN FRANCIA DAL 1848 AL 1850 *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. 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