The Project Gutenberg eBook of Le confessioni di fra Gualberto This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Le confessioni di fra Gualberto storia del secolo XIV Author: Anton Giulio Barrili Release date: June 3, 2023 [eBook #70905] Language: Italian Original publication: Italy: Fratelli Treves Editori Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE CONFESSIONI DI FRA GUALBERTO *** ANTON GIULIO BARRILI LE CONFESSIONI DI FRA GUALBERTO Storia del Secolo XIV Seconda edizione MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI. 1874. Quest’opera, di proprietà dei _Fratelli Treves_, editori di Milano, è posta sotto la salvaguardia della legge e dei trattati sulla proprietà letteraria. Stab. Fratelli Treves. A LUIGI LUZZATTI Onorarsi ed amarsi, anco se combattendo in campi contrarii, parve fiore di gentilezza agli antichi. Diomede e Glauco insegnino, dei quali racconta Omero, nel VI dell’Iliade, il generoso colloquio: «... Or nella pugna «Evitiamci l’un l’altro.... «... Di nostr’armi il cambio «Mostri intanto a costor che l’uno e l’altro «Siam ospiti paterni. Così detto, «Dal cocchio entrambi dismontâr d’un salto; «Strinser le destre e si dier mutua fede. «Ma nel cambio dell’armi a Glauco tolse «Giove lo senno. Aveale Glauco d’oro, «Diomede di bronzo; eran di quelle «Cento tauri il valor, nove di queste». A te il mio libro e l’affetto; a me la tua grazia costante. Son Diomede in cotesto, che troppo più ci guadagno nel cambio. Di Genova, il 30 Aprile del 1873. ANTON GIULIO BARRILI. PROLOGO. Nessuna cosa ad uno scrittore, dopo il titolo del suo libro, è più bisognevole d’una buona pròtasi, o cominciamento che dir si voglia. Anche un adagio, prezioso stillato di scienza popolare, ammonisce che «chi ben comincia è alla metà dell’opra»; il che per fermo non s’intenderà esser vero, se non ammettendo che si possa tirare innanzi a furia di sciocchezze, pur di aver fatto bella comparsa in principio. Facciamoci vivi alle mosse; per tutto il rimanente della via è lecito impoltronire, appisolarsi a cassetta (vedete Orazio che ne concede larga perdonanza ad Omero); l’essenziale sta nello svegliarsi, da bravi cocchieri, in prossimità della posta, e, con alto schioccar di frusta e galoppar di cornipedi, mettere il borgo a romore. Mano dunque alla pròtasi! Ma qui pur troppo le invenzioni scarseggiano; testimone la repubblica letteraria tutta quanta, che, da forse tremila anni, non ha saputo far altro che andare sulle pedate d’un cieco. Egli è vero bensì che costui ci vede assai meglio di tutti i suoi successori; tantochè nessuno è giunto così lontano com’egli, orbo cantastorie di Grecia. Per ristringerci ai sommi, vediamo Virgilio aver copiato da lui, l’Ariosto da Virgilio, il Tasso da ambidue. «Canto l’armi pietose e il capitano», scrive Torquato. «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori — Le cortesie, le audaci imprese io canto», ha scritto messer Lodovico. E Virgilio, quindici secoli avanti, aveva lasciato il suo _Arma virumque cano_ che fa riscontro all’_Iram cane, Dea_, dell’_Iliade_, e al _Dic mihi, Musa, virum_, dell’_Odissea_. Insomma, già prima che mi sgoccioli dalla penna, lo avrete pensato voi, lettori umanissimi: o canti tu, o canto io, gli è come a dir zuppa o pan molle. A me, per aver aria di novità, converrebbe far capo alla _Divina Commedia_ o salire più in su fino al _Ramàiana_. Ma potrei io raccontarvi con Dante che ero «nel mezzo del cammin di nostra vita» e che avevo smarrito la strada? E ardirei giurarvi con Valmichi che sulle sponde di un’altra Saraiù è una vasta e ridente contrada, ricca di biade e d’armenti con un’altra città d’Aiodìa, bella ed avventurosa, celebrata per tutto il mondo e fondata da Manù, padre del genere umano, se la cronaca del Gange non mente? D’anni, a voler mettere in conto il cominciato, ne avevo i miei trenta, e, lungi dallo aver perduto la tramontana, ci diguazzavo per entro, a mia posta, in una di quelle valli (meglio sarebbe dir forre) dell’Apennino, che quel dabben uomo di Eolo ha lasciate in governo al primo ed al più turbolento de’ suoi figli, Aquilone. Ero, per farvela breve, in val di Trebbia, e, poichè si ragiona di venti, aggiungerò che me ne stavo al riparo in una cittadella murata, trenta miglia a libeccio da Piacenza e ventotto a scirocco da Voghera. Ognuno, che abbia vissuto qualche giorno in quei luoghi, ricorderà che dorsi di montagne, culmini e scoscendimenti, c’è n’ha in buon dato, ma che la pianura si conta a palmi, pur troppo; che gli armenti vi abbondano, ma solo di bestie lanose, e le messi non bastano pel logorare d’una popolazione di quarantamil’anime, che tante ne dà la provincia, spartite in ventisette comuni e sessantaquattro parrocchie; che le più svariate famiglie d’erbe medicinali vi fioriscono in copia, le industrie non già; nè magona, nè gualchiera, nè cartiera vi fa udire il grato martellar de’ suoi mazzi scorrenti; che due fonti d’acque minerali, l’una salsa, l’altra sulfurea, aspettando un imprenditore di bagni, hanno tempo a seccarsi; che, per contro, i torrenti s’industriano a rifare, con largo tributo di saporitissime trote, i danni di lor piene invernali; che i tartufi amano qua e là disvelarsi ai mortali collo svaporare delle fragranze natìe; che, finalmente, la città capoluogo, se non è bella, nè avventurosa, nè celebre, non si lagna altrimenti del fato, nè del governo centrale, e vive abbastanza contenta de’ suoi quattromila abitanti, del suo sottoprefetto, del suo vescovo suffraganeo, de’ suoi dodici canonici e de’ suoi otto carabinieri. Anch’essa, del resto, se guarda al passato, ci ha da insuperbire la sua parte. A chi, dei caduti in basso stato, non è mai occorso di rinvergare le pergamene, di frugare per entro alle memorie domestiche, di almanaccare sulle tradizioni orali della famiglia, per rintracciarvi la nobiltà di sua stirpe? Il passato, assai più del presente, e quasi come il futuro, è il grattacapo dei miseri umani. E Bobbio (ecco, m’è uscito dalla penna il suo nome) si consola spesso della sua umile condizione, ripensando ai re longobardi, al diploma d’Agilulfo e a san Colombano, il quale la reputò degna di accogliere in prima il suo glorioso monastero e quindi le sue ossa, perseguitate dagli sdegni di Brunechilde. Mettetevi a dirla colle donne! Ma allora i santi erano così fatti e pigliavano male gatte a pelare; donde i travagli in vita e dopo morti la gloria. Io bene intendo che di questi archeologici fumi si ha poco costrutto oggidì. Per la gente che tira al sodo, vogliono essere istituti di educazione, di carità e di credito; pe’ buontemponi, alberghi, botteghe da caffè, teatri e casini; pe’ trafficanti, manifatture e mercati. Rispetto a ciò, Bobbio è ancora bambina; ma neanco Roma è stata fatta in un giorno, e quando per val di Trebbia scorra la vaporiera invocata, anche alla prediletta di San Colombano deriverà qualche pagliuola del nuovo Pàttolo, che dee rifar d’oro l’Italia. Così la pensa il notaio Malinverni-Tidone, ottimo cittadino, a cui mi gode l’animo di poter dare pubblica testimonianza di lode, per l’amore grandissimo ch’ei porta alla sua terra natale, e di gratitudine insieme, per la nobile ospitalità e per gli utili cenni di cui mi fu largo. Egli non si ricorderà forse più del suo giovine e curioso ospite del giugno 1867; a me intanto premeva di mostrargli come io non avessi dimenticato lui nè fra Gualberto, che mi ha insegnato a conoscere, e del quale il mio libro gli recherà più estesa notizia, che egli medesimo non avesse finora. Che diancine era io andato a fare laggiù? Certamente il lettore s’aspetta che glielo dica; ma, quantunque io senta la necessità d’entrargli in grazia, non mi farò a contentarlo. Sappia egli che feci un viaggio e due servizi, e che il secondo servizio fu quello di visitare il famoso convento. Vero luogo di meditazione gli è questo! A Bobbio il sole tramonta un’ora prima che sui borghi vicini, e cotesto a cagione dei monti che gli si stringono a’ fianchi. Così ravvolto nella tetraggine delle sovrastanti alture, il monastero è malinconico tuttavia a vedersi, sebbene l’architettura sua faccia fede di una ristaurazione leggiadramente condotta nello stile del risorgimento; ora argomentate quanto più melanconico e’ non avesse ad apparire in sui primordi del medio-evo, allorquando l’austero monaco irlandese venne ad alzarne le mura e a mettervi stanza. Ciò fu intorno al 596, dopo che egli, sceso in Italia a combattervi l’arianesimo longobardo, otteneva il favore della bella e pietosa vedova di Autari, la quale aveva dato poco dianzi la mano e lo scettro al duca di Torino, Agilulfo. Frutto di tal favore, un diploma del re concedeva a Colombano, monaco di Benchor, il luogo di Bobbio, con quattro miglia di terre all’intorno, per fondarvi un monastero del suo ordine, siccome aveva già fatto egli in tre luoghi di Francia, e Gallo, il suo ardente compagno, era per fare in un angolo della Svizzera. Nè a tali prove si rattenne l’affetto di Teodolinda pel monaco illustre. Imperocchè, essendo egli nel 613 ritornato dalle sue fortunose peregrinazioni di Francia e di Svizzera, a vivere nella pace del chiostro i due anni che furono gli ultimi di sua vita, la regina andò a visitarlo, con orrevole compagnia, nella sua tranquilla dimora. È fama viva tra i terrazzani che in questa occasione la regal donna salisse fino all’estrema vetta del Pènice, donde si scopre la più vasta distesa di monti e pianure che sguardo umano possa abbracciare. Lassù, quando l’aere sia puro e limpido l’orizzonte, vi si para dinanzi la mirabil veduta di tutta la catena delle nevose Alpi, girata ad arco dal mar Tirreno fino alle giogaie del lontano Tirolo. Più in basso, a manca, tondeggiano i colli del Monferrato, da Valenza a Superga; più sotto ancora si stendono i campi di Novi, di Marengo e della Trebbia, e, seguitando a destra, la vasta pianura lombarda, stagliata qua e là dai tributari del Po, del gran padre Bodinco, che scorre, immensa striscia d’argento, a’ suoi piedi, e tratto tratto si nasconde allo sguardo e vedesi ricomparire in uno sfumato orizzonte, che si confonde col cielo, là verso l’Adriatico. La gran tela è stupendamente istoriata; Voghera, Alessandria, Novi, Piacenza, biancheggiano di qua dalla lunga e tortuosa zona fluviale, a cui concorrono, più umili tributari discesi dalle balze apennine, il Tidone, la Staffora, la Scrivia, la Nure, il Taro e la Trebbia; di là, Milano, Pavia, Cremona, e Bergamo, con ampio corteggio di città minori e borgate, poco in vista più grandi d’un chicco di frumento, ma nitide e di contorni ricise. Volgetevi indietro; il Lesima, il Penna, l’Alfeo, con gli altri gioghi dell’Apennino, vi contendono il mare lontano; ma, per mezzo alla fosca merlatura delle loro ripide coste, si dipingono in tinte più chiare i balzi di Rapallo, di Chiavari e di Spezia, mentre in fondo alle lor gole si discernono, pe’ soavi lumi interfusi, le fertili valli di Nure, di Enza e di Taro. La bella longobarda, che la fantasia del poeta ama raffigurarsi alta della persona e flessibile, come donna che è nata al comando, ma può inchinarsi a sollevar gl’infelici, mirabile nel volto per nobiltà di severi contorni, rammorbiditi da un riso di dolcezza ineffabile e dall’aureola dei biondi capegli cresciuti alle nebbie del settentrione, ma indorati ai raggi del sole d’Italia, potè da quel sommo vertice contemplare il vasto suo regno, mentre in lei l’ossequio immaginoso dei riguardanti forse credè di vedere l’angelo della pace, librato in alto tra vincitori e vinti. E veramente fu cosa di cielo quella soave anima di donna, che, rattemprando la ingenita ferocia de’ suoi, valse a fondare, più assai che non avessero fatto le armi, un regno migliore a gran pezza delle sue origini, dalla cui caduta ebbero principio le millenarie sciagure della penisola. Che non possono le donne! Il detto è antico, e più vero eziandio che non pensassero gli antichi, nello incenso de’ quali, così per le donne come per ogni altra maniera di numi, si frammetteva spesso un granellino d’ironia. La donna, anco se muta parvenza adorata, nè d’altro curante che di piacere, è inspiratrice di grandi opere all’uomo. Il bello esalta, il buono consola, il vero ricrea; ma la donna, se il voglia, ci è tutte queste cose ad un tempo. Per lei l’uomo, nella medesima guisa che l’insetto veste la sua livrea d’amore, screziata di più vivi colori, per lei riluce d’inusato splendore, nella lieta stagione delle speranze e dei rapimenti. Tal fiata nel suo incendio si consuma e si spegne; ma che importa? La luce fu bella; l’uomo sfavillò, lieto o triste, soave o terribile, nobilissimo sempre. Ma come è possente al bene, se buona, così possente al male è la donna, se d’animo reo. Può farvene fede quel venerando, che dorme da mille e duecento anni il gran sonno nel sotterraneo del suo monastero di Bobbio. La sua vita è colma di amarezze e di conforti, di tenebre e di luce, trabalzata come fu da donna a donna, da regina a regina (che è come dir donna due volte); da Brunechilde, che lui, importuno censore di rotti costumi, incalza come fiera d’asilo in asilo, a Teodolinda che lo accoglie ossequente; da Brunechilde dissoluta, tiranna, micidiale nel suo sangue, che manda sossopra un fiorente reame, a Teodolinda che commove i longobardi feroci col raggio della sua casta bellezza e della religione fa stromento efficacissimo di civiltà, anco preparando inconscia le vie alla prepotenza dei pontefici. L’anima sua è ignara del male; la santa figura di Gregorio Magno non le lascia scorgere in lontananza Stefano II, invocatore malaugurato della gente d’Heristal, sanguinosi fantasmi che funestarono la lunga notte d’Italia. Vedete mo’ dove siamo venuti bel bello a far capo! Ma così avviene in casa nostra, dove ogni zolla ha le sue lettere di nobiltà da mostrarci. In processo di tempo la storia e la leggenda non daranno più di cosiffatte molestie ai galantuomini. L’orario delle ferrovie non concede che pochi minuti di sosta; si viaggia colle cortine gelosamente tirate in giù, col bavaro del pastrano tirato anche più gelosamente in su e accorciati sul sedile come in una cuccia di bordo. E quando la vaporiera, di cui v’ho già detto, passi anche da Bobbio, il viaggiatore non penserà più che tanto a coteste anticaglie. Per ora, pazienza; sorbitevi questo po’ di cronaca che incomincia dagli scorridori di Annibale e viene giù giù fino agli ultimi benedettini, mandati a rotoli dagli straripamenti della grande rivoluzione francese. Non vo’ per altro tenervi sulla corda. Tocco a mala pena di Annibale che, vincitore sulla riva sinistra della Trebbia, varcò da queste parti l’Apennino, per andare a perdere un occhio in Val d’Arno e a vincere una battaglia sul Trasimeno. Metto da banda gli scarsi cenni che si hanno di Bobbio antica e l’etimologia acquatica del suo nome, il quale si legge _Bobium_ ed anche _Ebovium_ nelle carte longobardiche. Noto che i primi abati di San Colombano ebbero podestà signorile, ad essi poscia contesa dai vescovi, venuti dopo il mille; che la città si scrisse alla Lega lombarda, e che, mal difesa da tanti pastorali, fu agevolmente signoreggiata dai Malaspina di Lunigiana, fino a che, nel 1346, non cadde con Tortona ed Alessandria sotto il dominio di Luchino Visconti, buon’anima sua. Filippo Maria, ultimo di quella gente, la diede in signoria, nel 1440, al suo generale Pietro dal Verme. Lodovico XII, fatto padrone del Milanese, la regalò invece al suo scudiero Galeazzo Sanseverino, e i Dal Verme non la ricomprarono che alla pace del 1505. Seguì poscia le sorti del Milanese fino al 1743, quando venne in potere del Re di Sardegna. Libera nel 1793 di rifarsi ligure di nome, ma francese di fatti, fu involta nelle peripezie della guerra, repubblicana dapprima, quindi imperiale, che finì nel 1814, e lei ritornò alla sudditanza di casa Savoia. Scelta nel 1799 da Moreau come scala alla sua congiunzione colle forze di Macdonald, fu tenuta da Lapoye con grossa schiera di liguri. Ma innanzi che Moreau, disceso dai passi della Bocchetta, romoreggiasse utilmente alle spalle di Suwaroff, l’ardente Macdonald s’impegnava al guado della Trebbia, e cosiffattamente lontano dai monti, che la gente di Bobbio non potè calare al soccorso. Il resto è noto; io torno alla pacifica storia dell’abbazia, per dirvi che, verso la metà del secolo XV, essendosi il numero dei monaci grandemente scemato, l’abate Giovanni dei Malaspina del Mulazzo, d’accordo col vescovo e col signore di Bobbio, Luigi dal Verme, invitò i benedettini di Padova, i quali nel 1449 presero possesso della chiesa e del monastero. Per tal guisa la regola di San Colombano, che comandava castità, cieca obbedienza, povertà, digiuno, silenzio, preghiera e fatica, nè risparmiava la disciplina ai falli più lievi, cedette il luogo a quella di san Benedetto, alquanto più dolce e pe’ suoi tempi più utile al prossimo, come quella che surrogava la vita operosa alla contemplativa, le fatiche della mente e la diffusione degli studi alla rugginosa inerzia delle solitarie meditazioni. E qui, come moralmente fu rinnovata, così fu restaurata materialmente l’abbazia, in quella architettura che di presente si nota. Ho fede che i lettori non mi torranno in iscambio, per questo perdermi ch’io fo attorno ad un convento di frati. Vivo il presente e anelo il futuro, ma rispetto eziandio il passato, e in questa pacificazione storica, che è un’altra maniera di giubileo, si racqueta il mio spirito, volendo giustizia, anzi misericordia per tutti. Poveri frati di Bobbio! Io m’intenerivo per essi, io, figlio, nipote, o qual più vi talenti chiamarmi, della rivoluzione che li spazzò via. Ma diciamo tutto sinceramente; più che della sorte dei monaci, mi dolevo dello sperdimento di una biblioteca, che il notaio Malinverni-Tidone mi diceva ricca di volumi a parecchie migliaia e sopratutto copiosa di manoscritti antichi e rarissimi. Erano i frutti di lunghe indagini e di assidue fatiche; erano l’armi pazientemente raccolte da que’ fabbri della critica, e con inconscia diligenza ordinate alle più felici battaglie del pensiero odierno. E tanta ricchezza d’arsenale andò in breve ora dispersa; tanta copia di utili stromenti andarono divisi a confondersi tra mille e mille altri trofei fuggevolmente ammirati nei templi maggiori della scienza. La miglior parte furono condotti alla biblioteca Ambrosiana di Milano; molti alla Vaticana di Roma; il rimanente all’archivio e all’università di Torino. — Con tutto ciò, — narrava il mio ospite, che lo aveva da suo nonno, dottissimo uomo e fratello ad uno degli ultimi monaci di San Colombano — nel 1795 rimanevano ancora alla celebre biblioteca forse ottocento volumi, settantacinque casse di atti e diplomi e un centinaio di manoscritti preziosi. Ma anche questi, dopo essere stati qualche anno dimenticati, pigliarono la via di Torino. E laggiù, a che servono? a chi giovano? I libri, la più parte faranno a doppio con altri; i manoscritti e i diplomi, quasi tutti attenenti alla cronaca paesana, giaceranno negletti in qualche cassa insidiata dai topi, e con poca utilità esaminati, come quelli che più non fanno un corpo solo, con rispondenza di parti e facilità di raffronti. — Io, sebbene non ne avessi gran fede, m’ingegnavo a dimostrargli il maggior profitto che si può cavare nelle grandi città da una ricca suppellettile archeologica. — Ah, non lo credete! — mi diceva egli di rimando. — Egli è soltanto ne’ centri minori che si può metter l’animo in certe minutezze, le quali sono, ora inizio, ora complemento, ad una più vasta intrapresa. Chi ha a fare una storia in cui tante cose di minor conto debbano entrare, ci metta la fatica del viaggio; la certezza di trovare in un angolo di terra tutto ciò che si ragguarda alle memorie d’una provincia, val meglio della facilità di aver notizie pronte, ma insufficienti. Io, per me, credo che la piccola città sia il luogo in cui debbono rimanere tutte le memorie sue, se pure si vuole che tornino ad utile di qualcheduno. L’accentramento scientifico non è dovizia, ma ingombro di materiali. — Eh, capisco; — soggiunsi io, in atto di chi volentieri si persuade. — Ma nella biblioteca dei frati c’era egli poi roba preziosa davvero? — Figuratevi! Il catalogo manca, ma in casa nostra si conserva religiosamente un elenco delle cose migliori, e potrete vederlo, se vi aggrada. Gl’incunaboli, così rari adesso, c’erano in buon dato, e tra essi il _Monte Santo di Dio_, stampato nel 1477 a Firenze, che fu la prima opera con incisioni in rame, e il famoso _Salterio_ del 1457, che fu il primo libro stampato con certa data; almeno (aggiunse coscienziosamente l’eruditissimo uomo) dopo le _Bolle di Niccolò V_, che sono del 1454. Tralascio gli Aldi, i Giunti, i Gioliti e i Griffi, dei quali si ebbero qui le più pregiate e rare edizioni. E i manoscritti...... ricchezza sterminata! Fu sui manoscritti di Bobbio che Pio VI potè fare la magnifica stampa delle opere di S. Massimo. E dov’era, se non qui, l’originale in pergamena del _Carmen paschale_ di Celio Sedulio, elegante poeta cristiano del secolo V? Ora lo si custodisce gelosamente a Torino, come tant’altri tesori nostri a Roma e a Milano. Ma non tutti, e, se piace a Dio, si troverà in questa casa ancora tanto di essi, da poter dare onorato principio ad una civica biblioteca. Venite con me, voi che amate un pochino i cartabelli; ce n’ho di tali che un principe russo pagherebbe in oro i dieci cotanti del peso, e che voi persuaderanno di rimanere qualche giorno ancora dei nostri; la qual cosa, poichè sono alle moltiplicazioni, mi sarà dieci cotanti più cara. — Volevo rispondere che non occorrevano manoscritti preziosi per trattenermi a Bobbio; ma non ebbi tempo, nè modo, imperocchè, afferrata la maglia d’una lucerna d’argento a quattro beccucci, che era anch’essa un bel saggio dell’arte di due secoli indietro, il notaio Malinverni si alzò da sedere e mi condusse nella sua biblioteca. Dirvi che rimasi sbalordito, non posso. I libri non fanno già l’effetto delle agate, delle calcedonie, o d’altra maniera di pietre preziose. Andate a Roma, e della Vaticana, famosa tra tutte le altre biblioteche del mondo, non si additerà alla vostra ammirazione che una fuga di stanze. In tal modo si misura l’importanza dei libri. Ma chi voglia andare un po’ oltre l’apparenza, si faccia a considerare la ricchezza di quei centomila volumi stampati; squaderni il catalogo di quei ventiquattromila manoscritti; veda, tra gli altri, quell’esemplare di Virgilio che ci conservò raffigurata ne’ suoi disegni tanta parte degli usi e delle foggie romane; e per tal guisa, condotto mille e ottocento anni a ritroso sul classico mare dell’età, tratto a vivere d’un’altra vita, coetaneo d’una gente morta, testimone d’una civiltà su cui si addensarono parecchi strati di barbarie e più altri di vergogna, sentirà allora il pregio, vedrà allora la splendidezza di que’ gialli e polverosi tesori. Così avvenne a me, quando il notaio, accennati i libri alla grossa, si fece ad aprirmi un armadio, nel quale, umili in vista e non numerose, giacevano le sue pergamene e filze di carte, diligentemente legate e contrassegnate, siccome da notai e da archivisti si suole. — Tutta roba salvata dallo sperpero del monastero! — sclamai. — E dalle unghie dei pizzicagnoli — aggiunse il mio ospite. — Non so come ciò fosse, ma il meglio di queste carte era andato disperso per le mani di tutti, quando i miei vecchi s’ingegnarono a raccattarle, e qualcosa ho potuto scoprire io medesimo. Argomentate voi quant’altre non ne saranno andate a male in mezzo secolo di scompiglio! Eccovi; queste sono lettere di chiarissimi uomini vissuti qui nel corso di trecent’anni; da Agostino Trivulzio, vescovo e poi cardinale, infino al dottissimo Lorenzo Ballarini, nostro conterraneo, che fu medico a Vittorio Emanuele I, e che io, giovinetto, conobbi preside alla facoltà chirurgica nell’Ateneo torinese. Vedete questo libro in cartapecora; esso contiene l’elenco degli abati della vecchia regola di San Colombano, da Attalo e Bertulfo, suoi successori, infino a Giovanni Malaspina che cedette il luogo ai benedettini. Quest’altro è il Cartolario del Monastero, che contiene gli istrumenti pubblici, condizioni, fedeltà, locazioni e tutte le altre congrue dell’abbazia. Queste sono copie di antichi diplomi, tra i quali il famoso di Lotario I, riferito dall’Ughelli e chiarito apocrifo dal Muratori. Nè mancano le cose letterarie. Vedete questo volumetto di ottanta pagine in pergamena della più fine, con lettere miniate ad ogni incominciar di capitolo; è una raccolta delle rime di messer Francesco degli Accolti, aretino. Tra queste potete leggere la nota canzone sulla _lorda vita dei chierici_, che i bibliografi attribuiscono al fratello di lui Benedetto. Converrebbe qui raffrontar gli esemplari. Questo manoscritto è sincrono, e mi pare debba fare autorità. E adesso — chiuse solennemente il notaio Malinverni — assaggiatemi questo. Se fosse completo, non ci sarebbe niente di comparabile ad esso in veruna delle più ricche biblioteche d’Europa. — Capperi! Vediamo questa maraviglia! — dissi io, sorridendo. Se mai v’ebbe rimorso che rapidamente seguisse il peccato, ei non fu al certo più veloce del mio, poichè ebbi dato un’occhiata alle prime pagine del volume postomi tra le mani dall’ottimo signor Malinverni. Sperimentai allora in me stesso come sia sciocco il sorridere, quando non è essenzialmente tristo, o essenzialmente sublime. Se a voi non sembra che corra, lasciamola lì; io mi ristringerò a raccontarvi, senza morale, come senza favola, che la mia mezza ironia mi tornò subito in gola. Il codice non era di gran mole, nè di molta appariscenza. Constava esso di cinquantasei fogli di carta pecora, o, per dire più chiaramente, di centododici facce di scritto. La coperta di pelle nera, bucherata dai tarli, gualcita, sbrandellata, mostrava qua e là i rimasugli di un fregio impresso sui margini; i fermagli di ottone annerito non chiudevano più, lenti e sconnessi com’erano; il dorso lacero facea scorgere i sudati artifizi dell’antico legatore, i capitelli disfatti e il bruco penzoloni fuor di riga; i fogli, poi, apparivano giallicci, grinzuti, co’ vivagni corrosi. Certo; il codice era più vecchio che non dinotasse la sua scrittura, condotta in quei caratteri impropriamente nominati gotici, che ebbero favore in Europa dal dodicesimo sino allo scorcio del quindicesimo secolo. E difatti, guardando più attentamente, si discernevano tra i versi dello scritto alcuni segni sbiaditi di più vecchio inchiostro e traccie qua e là di lettere onciali. Non c’era da dubitarne; io aveva sott’occhio uno di que’ palinsesti bobbiesi che fruttarono rinomanza ai Niebuhr, ai Peyron, ai Vesme e più di tutti ad Angelo Mai, che in due di essi ebbe a rinvergare i sei libri _De republica_ di Cicerone. Qual era l’autore perduto che si nascondeva nel mio palinsesto? Non cercai di saperlo allora, nè poi; tanto mi parve degno di studio il sovrapposto, che entrava in materia con queste parole: «_Incipit liber confessionum Gualberti monachi;_» parole così semplici e così promettenti ad un tempo. Le confessioni di Gualberto monaco! Che cosa avrà avuto a dire questo povero frate alla posterità? Per fermo egli ha molto operato e veduto, molto pensato e sentito, fors’anco errato, certamente sofferto, e qui, presso al fine della sua fortunosa carriera, colla schietta umiltà, ma non colla gloriosa pace di Agostino, racconta sè stesso, o in penitenza di falli, o per esempio di fede religiosa ai venturi. Questo pensiero mi trasse a leggere; le prime pagine mi fecero suo. Il mio ospite, chiamato dagli uffici del sue utile ministero, mi aveva lasciato solo nella camera, ed io vi rimasi forse quattr’ore, assorto in quella lettura, malagevole in sulle prime per la difficoltà di far l’occhio ai caratteri, di deciferare le frequenti abbreviature, e di cogliere il senso di molte frasi, non sempre di buona latinità, siccome è facile argomentare d’un manoscritto del secolo XIV; chè di quel tempo lo chiarivano per l’appunto i primi richiami storici dello scrittore. Ma quel tanto che io ne avevo spiccicato, bastò perchè, quella sera, deposto il volume, non pensassi più ad altro. La notte, non furono che sogni della fantasia riscaldata. Vidi il mio frate chiuso nella sua cella ed intento a scrivere le sue confessioni. Le tempeste della vita gli aveano imbiancati anzitempo i capegli e impresso il volto di segni fatali. Fredda era la cella; l’inverno soffiava alle impannate; le dita del monaco s’irrigidivano intorno alla penna; e tuttavia seguitava a scrivere, desideroso di versare in quelle carte la piena delle sue ricordanze, prima che quel gelo gli penetrasse nel cuore. E lo vidi, indi a poco, disteso sul suo letticciuolo; le mani avea giunte sul petto; gli occhi, mezzo velati dall’ali della morte, cercavano una immagine di donna, vapore diafano che tremolava, vestito di forme a lui note, dipinto d’una pallida luce, nell’alto della sua squallida cella. Quali arcane parole corsero tra il morente e la morta? Era quello l’addio d’un vano fantasma, o l’invito d’uno spirito eterno? Ella era là, librata in aria, e si facea man mano più sopra a lui; si chinava l’omero mollemente; si stendeva il braccio e le dita candide si appressavano, come per chiudere quegli occhi stanchi, o cogliere l’ultimo sospiro, forse il primo bacio di quelle labbra tremanti. E in quel mezzo, inginocchiati ai piedi del letticciuolo, i bruni compagni venian recitando la preghiera degli agonizzanti. Il giorno appresso ero da capo col manoscritto. Entrato in maggiore dimestichezza coi vecchi caratteri, corsi più spedito nella lettura, e non lasciai il volume che all’ultimo verso. Era una storia singolare, quella del povero frate, e nel tempo istesso che la ci aveva per me tutti gli allettamenti d’un romanzo, veniva a chiarire un punto di storia di cui s’hanno scarsi lumi e testimonianze contradittorie. Giunsi, dico, all’ultimo verso, non già alla fine, imperocchè le confessioni di fra Gualberto, non solo non apparivano intiere, ma s’interrompevano proprio là dove era più vivo il racconto. — Peccato! — dissi al mio ospite, che in quel momento era venuto a chiamarmi pel desinare. — Si resta in asso! — Sì, ve l’ho detto ieri, se fosse completo, varrebbe un tesoro. — Ma, non avete cercato?..... — E in che modo? i miei l’hanno avuto per caso, siccome vi è noto. Qui, poi, tutte le mie indagini tornarono vane. — Ma forse fuori di qui..... nelle biblioteche tra cui si divisero le spoglie di San Colombano..... — Ah sì, forse, ma ne dubito assai. Come vorreste che un’opera somigliante andasse dimezzata in tal guisa a Roma, a Milano, o a Torino? Vedete inoltre; qui il volume finisce e non c’è segno di fogli strappati. — Appunto per ciò io credo ce n’abbia ad essere un secondo. Questo è un palinsesto, ed il frate, che ha così conciato un primo codice, ne avrà rastiato un altro del pari. Egli scriveva per penitenza; avrà dunque finito. — Invero, — mormorò il notaio Malinverni, — ora che ci penso...... C’è sicuramente un secondo volume; ma dove scovarlo? — Qui no, poichè avete cercato invano; — risposi; — ma ci abbiamo tre luoghi ancora. Lasciate fare a me. Così avessi fortuna col genio che custodisce i tesori nascosti, come l’ho con quell’altro che protegge i ferravecchi. Non vedete? Egli mi ha condotto a Bobbio per trovare il primo volume delle memorie di fra Gualberto; egli mi assisterà per trovare il secondo. E frattanto, mi permettete di copiar questo? — L’ospite è padrone — disse il notaio. — E la lingua nostra — soggiunsi, inchinandomi per ringraziarlo — ha confuso in un solo vocabolo colui che dà l’ospitalità e colui che la riceve. — Filosofia del linguaggio! — esclamò l’ospite, mettendo amorevolmente il suo braccio sotto a quello dell’ospite, per condurlo nella sala da pranzo. Così venni, o lettori, in possesso del mio bel trovato. Ma l’interruzione del manoscritto fu cagione di lunga scontentezza per me, che il mutar di luogo e l’avvicendarsi di molti casi tra malinconici e lieti, non valsero a cacciarmi dall’animo. Troppo spesso mi si facea vivo il ricordo, e sempre cuoceva, come se fosse stato un rimorso. Eppure, non era colpa mia se le indagini non andavano di pari passo col desiderio. Nè a Torino, nè a Milano, avevo potuto correre in quell’anno; a Roma fui per entrare un giorno, ma il genio protettore dei ferravecchi, col quale avevo fatto di soverchio a fidanza, non si degnò di aprire, e noi non si aveva una di quelle chiavi famose, che, tre anni di poi, dovevano vincere la toppa rugginosa di porta Pia. Intanto tra me e fra Gualberto durava il vincolo antico, nè io potevo camparmene. Come il vecchio malnato delle _Mille e una notti_, che s’era accavallato al collo di Sindbad il marinaio e non c’era verso che questi potesse sgabellarsene, il monaco s’era impadronito di me, mi dava ad ogni tanto di sproni, nè io ottenni di levarmelo di dosso, se non quattro anni più tardi, allorquando finalmente mi venne fatto di metter piede nella biblioteca Vaticana, ove giaceva ignorato il secondo volume delle sue Confessioni. Ignorato, sicuramente! In mezzo ai codici, quasi tutti palinsesti, che recavano la scritta: _Liber sancti Columbani de Bobio_, stava il poverino dispaiato, e siccome niente di esso, nè sulla coperta, nè dentro, richiamava il titolo vergato nel primo volume, così questo secondo era notato a catalogo col modesto contrassegno: _Anonymi Bobiensis quae extant_. Fu questa gretola dell’anonimo che mi diede nell’occhio, mentre io già disperavo di trovare il fatto mio; cercai il libro, e, vedete fortuna! gli era proprio quello, la continuazione del manoscritto di Bobbio. Con che animo mi facessi a leggerlo, argomentino i discreti lettori. Così gradita tornasse loro la lettura di questa mia, che, se non è una versione pedissequa, è pur tuttavia più fedele di tante e tant’altre. Per quanto è degli eruditi, io son certo che eglino, se non leggeranno con diletto la mia prosa, godranno largamente della scoverta di un preziosissimo testo, il quale uscirà tra non molto alla luce, nè più negheranno fede all’Alcaforado, al paggio del principe Enrico di Portogallo, sulla cui testimonianza soltanto poggiava finora la storia singolare, oggi comprovata dal manoscritto di Bobbio. Or dunque, ci siamo; _incipit liber confessionum Gualberti monachi_. LE CONFESSIONI DI FRA GUALBERTO I. L’anima mia è triste fino alla morte. Ma l’autunno è già innanzi; la natura si spoglia senza rimpianto de’ suoi ultimi colori, e si dispone al riposo; i pioppi in riva al fiume si sfrondano, e le foglie portate dal vento battono frettolose alla mia finestra, quasi per dirmi: sbrigati, vicino; bisogna partire. Ah! l’ora della partenza sarà lieta per me, se Iddio mi avrà perdonato. A frate Anselmo ho confessati i miei falli, non disvelato tutto me stesso. Qui lo farò, al vostro cospetto, o Signore. Se alcuna delle mie parole sentirà troppo degli ardori della carne, non vi sdegnate con me. Fu opera vostra questo fervido cuore, nè io maledirò ai vostri doni. L’anima rassegnata vi ringrazia delle afflizioni e vi domanda la pace del sepolcro. Dirò il mio nome, io che nulla feci di utile, io che, venuto meno a tutte le impromesse della mia gioventù, lo recai oscuro alle porte del chiostro? In penitenza della smarrita via lo dirò: Gentile Vivaldi fu il mio nome tra gli uomini. Chiari furono i miei maggiori, e nella patria loro, a cui prego concordia e temperanza pari alla grandezza di sue fortune, tennero amplissimi uffici, sebbene, la più parte, amarono le ardite intraprese ed anteposero il mare alla terra. L’aquila dei Vivaldi s’allegrò nella vista dei flutti; fu chiamata sovra essi da un’arcana virtù, siccome l’ago calamitato è attratto dalla stella polare. Furono antenati miei che, or fanno i sessanta anni, navigando oltre le colonne d’Ercole, discoprivano le isole dei Corvi marini e quell’altra che aveva a costare tante lagrime e tanti rimorsi al loro sciagurato pronipote. Nè a ciò si fermarono; chè, procedendo ad ostro, scoversero le isole Fortunate degli antichi, e animosi voltarono il capo di Gòzola, d’onde più nuova di essi non giunse alla patria. Ugolino e Vadino de’ Vivaldi il nome loro; le navi, già possedute da Tedisio Doria, che fu ad essi compagno nell’impresa, si chiamarono _Sant’Antonio_ e _Allegranza_. Dalla spiaggia natale avevano salpato le àncore nel maggio 1291, siccome vidi scritto io medesimo negli annali della patria, la quale saviamente adopera notando con diligenza ogni cosa che torni ad utile suo e a gloria dei figli. Che avvenne egli mai? Ruppero miseramente le galere sulle ultime rive africane? O, ricondottesi in alto, le imprigionarono i mari di alighe, terribili al nocchiero per le loro calme insidiose? O, più felici, afferrarono l’isola di San Brandano, che molti videro e a cui nessuno approdò? Comunque sia, glorioso e fatale alla mia gente fu il mare. Anche di Benedetto, mio padre, partito nell’anno 1326 a discoprire nuove terre insieme con Angelino del Moro, non si ebbe più nuova sicura. Ed io? Se le onde ricusarono questa misera spoglia mortale, ben vollero la pace dell’anima mia. Anche me giovinetto allettarono i fragori del mare tenebroso, e cercando del padre (così dissimulava le sue vie il destino!) navigai verso i paurosi gorghi, ne’ quali il sole s’inabissa ogni sera. La mia nave, ch’ebbe a nome la _Ventura_, corse i flutti fino al capo di Gózola, si perigliò fino a quelle isole dei Corvi, dove invero non sono corvi, ma falchi, astori e cani marini, cacciatori pazienti delle vittime che l’audacia umana offre in tributo all’Oceano. Vissi parecchi anni in tal guisa. La mia patria, guasta da intestine discordie, non aveva lusinghe per me. Il mare erami divenuto patria, il mare che era mio fino a tanto io non diventassi suo. Avido dell’ignoto, che già aveva inghiottito alcuno de’ miei, amavo su tutti gli altri i flutti che ruggivano oltre lo stretto di Septa. Colà in altri tempi era stata l’isola d’Atlantide, di cui narrarono i sacerdoti egiziani a Solone, così vasta che più non sono Asia e Libia riunite, e un giorno sommersa per virtù di tremuoto, insieme col suo gran popolo di conquistatori. Che rimase egli della gran terra? Poche isole deserte di rincontro allo stretto. Ma forse più oltre, chi sa?... Seneca lo ha scritto; giorno verrà, sebben tardi, che l’Oceano rallenti i suoi vincoli e un’ampia regione si mostri; un altro nocchiero discoprirà nuovi mondi, nè più tra le terre conosciute sarà ultima Tule. Quel mare io correvo; dai confini dell’Africa, donde si tolgono le resine e le polveri preziose che tutta Europa dimanda, risalivo alle coste d’Iberia e di Lusitania e su fino ai porti di Fiandra, ove gli aromi della famosa terra del Sole si mutano coi famosi tessuti, sfoggio delle nobili case. Di là veleggiavo all’Inghilterra, ricca cosiffattamente di lane, che spesso incontri monistero o badia che possa fornirti il carico intiero. Dell’Inghilterra erami sopra modo piaciuta la città di Bristol, che siede dalla parte occidentale, nella contea di Glocester. È dessa un ragguardevole emporio, presso a due fiumi, che uniti scorrono per lunga e profonda foce al mare, di guisa che le navi hanno agio di avvicinarsi alla città, risalendo il canale. Nobili edifizi l’adornano, tra i quali l’abbazia di Santo Agostino, stupendo lavoro d’architetti normanni. Colà, nel luogo sacro al raccoglimento e alla preghiera, mi venne veduta la donna che prima ed ultima amai. A venticinque anni, io non aveva ancora sperimentati i colpi d’amore. Niente era ignoto delle umane lusinghe alla mia libera gioventù; ma l’arcana dolcezza, che c’inonda come celeste rugiada, alla vista d’una donna, di una sola tra tutte, ma la fiamma intensa che affina il desiderio e lo eterna, come sacro fuoco nel profondo del cuore, erano cose nuove per me. Un affetto mi ardeva, il mare; una sete, l’ignoto; ad altro non si volgeva, di null’altro curava il mio spirito. Possanza effimera, pace in un punto rapita! Lo ricorderò sempre; era un bel dì d’aprile, e la primavera, confortata dai raggi d’un benigno sole, alitava d’intorno le sue aure tepide e molli. Non triste, poichè nessuna cagione di tristezza poteva albergarmi nell’animo, ma tranquillamente pensoso, siccome l’uomo che, solingo in terra, consideri il suo cammino vitale, su cui non appariscano stagioni nè meta, m’ero ridotto nella chiesa del glorioso apostolo dell’Inghilterra, mentre i monaci salmeggiavano intorno all’altare e una sacra armonia accompagnava le note. Si udiva colà lo strumento maraviglioso, che è detto organo, e migliore a gran pezza che non fosse il celebratissimo della chiesa di Westminster, imperocchè questo di Sant’Agostino era più recente opera di un frate del monastero, e, come già allora in alcuni organi d’Italia e di Lamagna, vi si ammiravano più ordini di voci gravi ed acute, e tra essi l’umana, che è veramente angelica cosa. Molti cittadini, e dei maggiorenti della terra, convenivano al tempio per ascoltare i suoni di quella voce, che, cercando ogni fibra, si ergeva solennemente a Dio, portandogli, raccolti in un inno di lode, tutti i commovimenti e l’estasi degli uditori. La musica è anch’essa una preghiera; quel misto di desiderio e di appagamento, quell’incognito indistinto di soavi tumulti e di rapimenti dell’animo, bene risponde ai sensi della creatura, allorquando ella si raccoglie e si concentra in sè medesima, per innalzarsi al suo Dio. E in quella che io chiamerò onda, vapore, incenso di melodia, vidi l’angelica donna. La vidi? Meglio sarebbe il dire che n’ebbi come un bagliore negli occhi. Stava ella dall’altra banda del tempio, ove si raccolgon le donne, in piè ritta nel vano d’un arco della grande navata, poco lunge dalla tribuna. La manca chiusa in un guanto di Spagna, che saliva a coprirle il polso e una parte del braccio, poggiava sopra lo scannello dell’inginocchiatoio, mentre la destra, raccolta al petto, si ripiegava su d’un uffiziuolo, ornato di bei fermagli d’oro. Come fosse bella, m’è impossibile il dire. Da lunghi anni la sua immagine è scolpita nel mio cuore; il pensiero se la raffigura ad ogni istante, ma le parole non reggono al paragone. Aveva neri i capegli e lucenti sotto lo zendado bianco, in cui erano a mezzo ravvolti; nè lo zendado agguagliava la candidezza del collo, cui scendeva a carezzare co’ suoi lembi ricadenti. La fronte ampia, nitida e perlata, su cui scintillava uno smeraldo raccomandato ad una sottil catenella d’oro, mostravasi illuminata da un mite raggio di sole, che rischiarava la profondità di due grandi occhi neri, e faceva risaltare i delicati e in un grandiosi contorni del viso, i morbidi alabastri delle guancie e il corallo tenero delle labbra semichiuse, donde pur mo’ era esalata la preghiera. Niente dissimulava la rilevata leggiadria della persona, nè cappuccio, nè manto, che forse avealo qualche paggio, o donzello, preparato in sull’uscio; la cotta, che era di sciàmito verde divisato a fogliami, stretta al corpo da una cintura sprangata d’oro che s’annodava sul lato sinistro, donde pendeva la borsa di drappo cremisino trapunta di bisantini, si rigirava sul fianco tondeggiante, e qui si partiva in picciole pieghe, le quali si veniano man mano allargando e si voltavano a strascico. Certo ell’era donna d’alto lignaggio; ma, così bella e superbamente ornata, non appariva altrimenti lieta. L’atto suo era di meditazione; ma que’ grandi occhi neri guardavano essi l’altare, o non per avventura più lunge? A me parve in quel punto cosa più che mortale; bellezza di cielo venuta in terra a mostrare miracolo che sia, anima prigioniera che anela a lontane regioni e si perde nella contemplazione d’una vita arcana, d’un mondo invisibile, che ella indovina, o ricorda. E rimasi lungamente estatico a riguardarla; non vidi nessuno, nè intorno a me, nè più oltre. La chiesa era splendida e buia; sole e tenebre nell’ampio recinto; luce dov’ella era, oscurità in ogni altro luogo; o, per dire più veramente, era dessa la luce (perdonate, mio Dio!), e quella gran luce copriva, offuscava, nascondeva intorno intorno ogni cosa. Quanto durasse quella mia contemplazione non so. Ben m’avvidi ad un tratto che l’organo taceva e i sacri canti del pari; il tempio era quasi vuoto, la celeste visione sparita. Restai come trasognato alcun tempo, indi corsi, volai all’aperto, ma senza vederla altrimenti; quantunque errassi a lungo per le vie più nobili della città, dove mi sembrava ragionevole che ella avesse dimora. Del resto mi venni chetando, chè il colpo, sebbene gagliardo, era troppo recente, perchè io già sentissi le trafitture della ferita, e poi, in simili congiunture, pari ai silenzi precursori del nembo, l’uomo sente tal fiata il bisogno di raccoglier gli spiriti. Io indagavo me stesso; sentivo con stupore, per la prima volta, e di punto in bianco, la mia vita esser piena di qualche cosa, e, quantunque non potessi farmene ancora un giusto concetto, oramai volta ad un fine; frattanto sorbivo la voluttà delle prime speranze, divisavo nell’animo gli ostacoli vinti, i pericoli superati, le gioie ottenute. Non pigliai lingua da nessuno; ai mercatanti che conoscevo in città non chiesi contezza di lei, nè indizio anco lontanamente inteso a scoprirla: chè mi sarebbe parso di profanare con atti volgari il dolcissimo sentimento nato quel dì nel mio cuore. Presi in quella vece ad andare ogni giorno alla chiesa, sempre sperando e mai non venendo a capo di rivedere la bella sconosciuta. Che era egli accaduto? Forse inferma? O il mio rapimento era stato notato? Imperocchè, anche ciò era possibile; se così ero stato io fuori di me, da non avvedermi del finire degli uffizi divini, la mia estasi aveva certamente potuto dar negli occhi ai vicini, e a qualche geloso tra essi. E cotesto, intravveduto da prima, indi ricisamente paventato, mi fece più guardingo e peritoso a chieder di lei. Infine, più non la vidi. Sogno svanito! — dissi un giorno tra me. Pazienza, povero illuso! L’Oceano vuol la sua preda; torna al tuo mare, torna al tuo vecchio amore, che ti perderà, non dubitare, come potrebbe perderti l’amor d’una donna. II. La _Ventura_ stava per compiere in que’ giorni il suo carico, a ciò invigilando Lanzerotto, il mio còmito. Io non avevo gentiluomini di poppa con me, sebbene la mole della galera, accomodata ad uso di guerra e di traffico, avrebbe potuto ragionevolmente consigliarmi a tôrre compagni. Padrone della nave e desideroso di fare in ogni cosa il mio talento, avevo amato meglio esser solo al comando, e Lanzerotto, dal canto suo, siccome è uffizio dei còmiti, oltre il comandare alla marinaresca e alla ciurma e dirigere la manovra delle vele e degli ormeggi, era maestro nell’arte di stivar le galere. Avevo divisato di portare le mie lane in Ispagna, non volendo perigliarmi più oltre nel canale inglese, dove, per la guerra incominciata tra Edoardo III Plantageneto e Filippo VI di Valois, non era più sicura la navigazione da quattro anni in poi. Già tra le due armate nimiche si era ferocemente combattuto nelle acque di Fiandra, e in un viaggio precedente, aizzato da una nave britanna che non rispettò lo stendardo di San Giorgio, avevo dovuto far arme in coperta e, col divino aiuto, affondare il nemico. Siffatti scontri non mi piacevano, imperocchè io non avessi odio contro nessuno; laonde da due anni non solevo più veleggiare alla Schiusa, per recare o levare mercatanzie dall’emporio di Brugge. Ora, mentre io dava opera agli ultimi apprestamenti della _Ventura_, triste in cuor mio ed impaziente ad un tempo, mi venne scorto un giovine inglese, più notevole in vista di tanti altri che per solito si soffermavano sulla riva a guardare le navi, quantunque e’ non fosse meglio degli altri all’arnese. Il saio e le calze di bigello, con sopravveste e cappuccio di mezzolano, lo dicevano marinaio; solo che, nel muoversi, non aveva quell’andatura incerta che il continuo dondolìo della nave conferisce alla gente di mare, e i suoi capegli erano più lunghi che l’uso de’ suoi pari non comportasse. Ma forse in ciò era da condonarglisi un poco di vanità giovanile, poichè quelle ciocche bionde contornavano assai bene quel viso piacente che nulla più. Lo notai, dico, essendo che egli rimaneva sul lido più a lungo d’ogni altro viandante curioso, e parecchie volte, occorrendomi di andare e venire sul ponte di sbarco, sempre lo avevo dinanzi, come desideroso di darmi negli occhi. Non argomentando allora che cosa potesse bisognargli da me, proseguii noncurante nelle mie faccende; ma egli, il giorno appresso, fattosi animo, pose il piede sul ponte e venne diffilato in coperta. — Messere — mi disse egli nella sua favella sassone — una parola, se vi aggrada. Il suo aspetto e la scioltezza dei modi mi piacquero, e col gesto amorevole, più assai che colle parole, gli accennai che parlasse. — Mettete voi alla vela? — mi chiese egli allora. — Domani; — risposi. Egli rimase alquanto perplesso; indi mi volse un’altra domanda. — Avete bisogno di marinai? — No; — dissi a lui — ne ho più che non occorra per una nave di carico. — Ciò detto appena, vidi un’aria di così grande scoramento dipingersi sul volto del giovine, che n’ebbi compassione ad un tratto. — Non mi sembrate povero — soggiunsi, come per temperare a’ miei occhi medesimi l’asprezza del diniego. — No, veramente, non sono; — rispose egli con un sorriso, che volea mostrarmi come da quel lato non ci fosse nulla a temere; — vi dirò anzi che sono ricco; pel mio stato, s’intende; chè invero, se fossi stato più ricco — proseguì, mutando il sorriso in un mezzo sospiro — sarei oggi più felice d’un conte. — Il suo fare m’andava sempre più a genio, e, per non aver aria di dargli tosto commiato ed anche per offrirgli agio a dirmi in qual guisa potessi tornargli utile, entrai a fargli qualche dimanda a mia volta. — Il vostro nome? — Bob. — Roberto, dunque. — Sì, Roberto; ma i miei compagni mi dicono Bob, il che riesce più spiccio. — Avete navigato a lungo? — Sì, parecchio tempo, sulle galere del re. — Come gentiluomo di poppa — diss’io che avevo notato pur dianzi le sue mani bianche e leggiadre. Diede egli un subbalzo a quelle inaspettate parole e mi guardò con un piglio tra maravigliato e scontento. — Messere — proseguii, rispondendo alla muta dimanda de’ suoi occhi — le vostre mani vi accusano. — Riavutosi dalla sua confusione, ed afferratami la destra, che io gli avevo cortesemente profferta, il giovine Bob mi trasse alquanto in disparte verso il tendaletto di poppa. — Siete gentiluomo? — mi chiese. — Nella mia patria non conosco chi mi vada innanzi per nobiltà di lignaggio. — Voi, dunque, non mi tradirete — soggiunse egli esitante. — Serbate il vostro segreto, messere, se ciò temete di me — risposi asciuttamente e in atto di por fine alla conversazione. — Ah, perdonate! — sclamò egli allora con accento commosso. — Non è già che io dubiti della vostra fede; ma il caso mio.... Infine, vi dirò tutto; son gentiluomo, e mi chiamo.... — Non vo’ saperlo, il vostro casato; — interruppi. — Ditemi che cosa io possa fare per vostro servizio, e basta. — Vorrei lasciare l’Inghilterra, e vi chiedo ospitalità sulla vostra galera. Dimandate pel tragitto quanto vi aggrada; pagherò. — Non parliamo di ciò. Ditemi, invece, messere: avete voi ucciso slealmente, o contraffatto in altra guisa all’onore? — No, lo giuro nel nome di S. Giorgio e della mia dama. — Or bene, la _Ventura_ è ai cenni vostri; rimanete fin d’ora, non passeggiero, ma ospite. — Ma... — aggiunse egli, mentre s’era inchinato per rendermi grazie — io non vi ho detto ogni cosa. — Che altro? — Non sarei solo — rispose. — Ah capisco, — esclamai sorridendo — la dama! — Sì, una dama che condurrei meco; ma non già quale l’argomentate, sibbene la più caramente diletta delle sorelle. Uditemi, messere, — proseguì Roberto abbassando la voce, quasi temesse d’essere udito dalla ciurma — la è una dolente storia, la nostra. Non ho che lei, di mia casa, e per nissuna cosa al mondo mi ridurrei a farla infelice; Edoardo, il nostro graziosissimo re, che Dio guardi, ha giurato che ella andrà in moglie ad un potentissimo barone di questa contea, che l’ha veduta e n’è fieramente invaghito. Ella abborre da queste nozze e il Plantageneto vuol contentare il suo cortigiano, su cui fa assegnamento grande per l’impresa di Francia, la quale, come non vi sarà ignoto, sta per essere mandata innanzi colla maggior diligenza e vigore. Ed eccovi perchè io tremo, perchè tento di fuggire, io, involto nella sventura che il feroce amore di un possente chiamò sulla nostra famiglia, io, minacciato della prigionia se non userò la mia autorità di fratello, di padre, in obbedienza ai comandi reali; ed ecco perchè mi rivolgo a voi per aiuto, anzichè ad un suddito d’Inghilterra. La vostra nave mi è apparsa ieri come una tavola di salvezza ad un naufrago. Che altro vi dirò? Ve ne supplico in nome della donna che amate, calateci sulle rive di Francia e abbiate la mia gratitudine eterna e quella di Anna. — Anna! — gridai. — È il nome di mia madre. Messere, io ve lo ripeto, la _Ventura_ è ai cenni vostri. Non avevo deliberato di toccare la Francia, ma infine, farò di contentarvi anche in ciò, sebbene non ci sia donna innanzi a cui io possa aver merito di un’opera buona. — Non amate voi? — Amo, sì, amo quanto si possa amare in terra, ma senza essermi appressato mai alla donna dei miei pensieri e senza speranza alcuna di vederla più oltre. Vi fa meraviglia? Noi, scorridori dell’onde, ci abbiamo di questi amori sconsolati, stelle lucenti che ci guidano inconscie nella solitudine dei mari e nell’orrore delle tempeste. Ma non parliamo di me; quando v’imbarcherete? — Voi partite domani a sera, diceste? — No, domattina; ma se vi torna meglio per la sera.... — Sì, partite domani a sera. Nessuno dee vederla salire in nave. — Per l’appunto; ma io posso anche far meglio. La _Ventura_ uscirà domattina dal canale, sotto gli occhi di tutta Bristol, ed un palischermo sarà domani a sera, con quattro de’ miei marinai, alla riva degli Ontàni. Lanzerotto, il mio còmito, fidatissimo uomo, sarà al comando e vi aspetterà, se occorra, fino al mattino. — No, no; domani, alla prima ora di notte, saremo alla riva degli Ontàni. Grazie, messere, e il cielo vi dia merito dell’atto umano e cortese. — Dopo queste e poche altre parole di commiato, il gentiluomo inglese partì, correndo sul ponte di sbarco, che pareva avesse l’ali da tergo, tanta era in lui l’allegra impazienza di giungere, siccome io credetti, ad avvisar la sorella. Anch’io era lieto di poter aiutare in quel suo bisogno il gentile cavaliero. La gioventù (chi nol sa?) è pronta ad infiammarsi, e sembra a quell’età fiduciosa e balda che il far servizio consoli. L’uomo esperimenta allora le sue forze, e, sperimentando, dà tutto sè medesimo altrui. In tal guisa avvenne che io più volonteroso mi facessi quel giorno a mettere il legno in assetto di partenza. Poco del resto gli abbisognava. Il carico era compiuto, vettovaglie, armi ed ormeggi disposti nella stiva; le due grandi vele inferite alle antenne; i remi diligentemente acconigliati sulle latte, aspettando la ciurma che li ordinasse sulle posticcie e li tuffasse in cadenza per prendere il largo. Era bella a vedersi la _Ventura_, col suo castello di poppa superbamente rilevato, il vessillo di San Giorgio sventolante in capo all’antenna dell’albero di maestra e l’aquila dei Vivaldi scolpita sulla freccia di prua; destra e sparvierata quant’altra mai, o volasse sui flutti, portata dal suo palamento di quaranta remi, od orzasse stringendo il vento con due larghe vele latine. I marinai sull’arrembata e lungo la corsìa, la vedetta in sulla gabbia, sei uomini ad ogni remo, il padrone ed il còmito sulla spalliera a comandar la manovra!... Io la vedo ancora, quale essa fu per dieci anni, la mia casa, il mio pensiero, l’amor mio, il mio tutto. E doveva perire! Il giorno che l’amore di creatura mortale mi rese infedele alla mia nave, la _Ventura_ fu condannata; ella doveva andare, senza il suo signore, senza l’amico suo, in balìa dei marosi che aveva tante volte impavidamente sfidati a rompere, negletto carcame, su d’una spiaggia deserta. Ma non è sorte comune cotesta? Soli, ignudi di affetto, giungiamo al tristo confine e tutti ci soverchia un medesimo flutto. Che Iddio usi misericordia ai sommersi. La notte che seguì il mio colloquio col gentiluomo inglese, dormii sulla nave, già avendo tolto commiato dai mercatanti di Bristol. Nè ad alcuno di essi io m’attentai di chiedere della sconosciuta. A che l’avrei fatto? Partivo, nè forse sarei tornato più colà. Avevo io mestieri di dare un nome a quella ricordanza cara ed acerba? Il suo nome era bellezza, ed altra non ne avrei trovata di somigliante più mai. Ben mi cuoceva il partire; ma la ragione, se non aveva potuto consolarmi, m’aveva dato almeno la fortezza pari al proposito; e forte, se non per avventura tranquillo, uscii in coperta al primo romper dell’alba. In breve furono salpate le àncore e sospese da prua. Ma quando al mio cenno fu spiccato dalla riva il provese, sentii schiantarmisi il cuore. Animo, via! La ciurma, sbucata di sotto la tolda, era già spartita per branche, al suo posto, co’ remi armati e sospesi. Palamento in guala! gridai, e tutti si disposero i remi in ordinanza, pronti a pigliar voga insieme. I primi chiarori del giorno scoprivano a miei occhi i tetti e le torri di Bristol; diedi uno sguardo all’abbazia di Sant’Agostino, che campeggiava in disparte, e balenai, come uomo percosso all’impensata nel petto. Cala remi e avanti! proseguii veloce; e tosto la galera si scosse, scivolò sulle acque, volgendosi al mare. Dopo un’ora di voga arrancata, più non si vedea la città. Avanti, fanciullo, avanti! La tua dimora è là, dove sarà il tuo sepolcro, nei flutti verdastri dell’Oceano. Tutti servono al fato, che i volonterosi conduce, i ripugnanti trascina. Con tali parole confortavo lo spirito. Anche il vento, che spirava a seconda, parea recarmi gli auspicî, ed io li avrei colti, mettendo subitamente alla via, se non mi fosse bisognato aspettare fino a notte la fuggitiva coppia fraterna. Indettato da me, Lanzerotto erasi partito col palischermo, ancora tra lume e buio, per non dare negli occhi alla gente, e s’era appiattato in una cala non molto lunge da Bristol, dietro la riva degli Ontàni, in attesa di due passeggieri. Essi furono puntuali. A notte alta, un picciol lume, che parea scorrer sull’acqua, mi additò il palischermo, che veniva a golfo lanciato verso di noi. Poco stante, giungeva all’abbordo, ed io potei offrire la mano alla dama, per aiutarla a salire la scala. — Grazie, messere! — mi disse il gentiluomo, poichè fu a sua volta in coperta. — Il vostro nome, che ieri non ho ardito di chiedervi? — Gentile Vivaldi. — E il mio è Roberto Macham, vostro debitore per tutta la vita. — Aspettate — dissi a lui di rimando — che gli uffici dell’ospitalità siano compiuti, e che la _Ventura_ vi abbia condotto alle rive di Francia. E voi, madonna, degnatevi di entrare in casa vostra. — Per la seconda volta presi la mano di lei. Quella mano tremava. Il volto non vidi, chè era coperto da un fitto zendado. Ma, come fu giunta nella camera sotto il castello di poppa, che io di buon grado m’ero disposto a cedere ai due ospiti, ella si fece a ringraziarmi in francese, nella lingua prediletta alla nobiltà d’Inghilterra, tutta normanna di consuetudini, come era d’origine. Furono poche parole, dette con voce tremante, ma dolce, soave, carezzevole, che mi scese nel cuore. Indi, con atto cortese, recatasi la mano al lembo dello zendado, lo trasse indietro, discoprendosi il viso. Dio santo! la mia sconosciuta! III. Qual fui allora? Quale scompiglio avvenne in ogni parte di me? Poco rammento di quell’istante solenne, donde ebbe a dipendere tutta la mia vita. Al sollevarsi di quel velo, mi s’era, come per virtù d’incantesimo, disserrato un mondo di nuove meraviglie. Quelle favolose narrazioni, quei sogni della fantasia coloriti di storia, con che i naviganti, nelle lunghe ed eterne giornate di calma, sogliono ingannare il tempo e sè stessi, erano un nulla al paragone di ciò che a me largiva in un tratto e di ciò che mi facea sperare il destino. Egli fu un punto che credei di sognare, e ben dovetti richiamare alla memoria il colloquio coll’infinto marinaio, la partenza della galera e l’arrivo del palischermo, per sincerarmi che non ero in balìa di una larva ingannevole. Di lei ricordo che aveva il volto vermiglio e quasi non ardiva fissar gli occhi su me. Anch’ella era in un mondo diverso di ogni costume a lei noto. Povera donna! Divelta dalle sue consuetudini, dalla quiete delle pareti domestiche, dai conosciuti sembianti delle ancelle, dai cortesi ragionari, dai delicati ossequii, da tutto quanto in fine fa parer comportabile la vita, e sbalestrata di repente su d’una nave, tra mezzo a gente ignota, a squallide vesti, a ruvidi parlari, ad ammirazioni che stringono il cuore di ribrezzo e paura, e quel che è peggio, sul mare infido, che anco ai più animosi non dissimula i sovrastanti pericoli, larga e dolorosa parte del caso, come avrebbe potuto rimanersi lieta e serena? Non so che giudizio ella facesse del mio turbamento. Forse non vi pose mente, turbata come appariva ella stessa. Per quanto era di Macham, egli non se ne addiede, imperocchè veniva dopo di me, ed io ebbi agio di riavermi. Chiesi a madonna se avesse mestieri di cosa alcuna a quell’ora. Di riposo, mi disse, e di vedersi, quanto più speditamente per noi si potesse, lontano dall’Inghilterra. Risposi ciò metter conto a me, come agli ospiti miei; non temesse ella, chè a guadagnar presto le rive di Francia avrei fatto ogni mia possa; intanto riposasse tranquilla. Indi presi commiato da lei, dolente che sulla mia nave non fosse, come avrei voluto, una donna a servirla. Macham le favellò con tenerezza ineffabile e con riverenza del pari. Anzichè ad una sorella, parea favellasse ad una regina e volesse farsi perdonare d’averla salvata. Nè ciò mi spiacque in lui, chè anzi n’ebbi buon segno della sua gentilezza. Poco dopo, anch’egli si ritrasse, ed io gli fui guida al gavone di poppa, che era sotto la camera d’Anna. In quello stambugio, che prendeva il suo lume dalle cantanette praticate nel bordo, soleva alloggiare il còmito; ma Lanzerotto se n’era ito coi marinai nel gavone di prora, e noi due mettevamo stanza là dentro. Lo lasciai, cionondimeno, poichè gli ebbi additato il suo rancio, e rimontai in coperta per sovraintendere alla manovra. Barellavo a guisa di briaco, tanta era la piena de’ miei tumultuosi pensieri. Mi piantai sulla spalliera, davanti al tendaletto di poppa, donde, per le commessure dell’intavolato, trapelava un filo di luce. Ella si dispone al riposo, pensai, e vigilo io i suoi sonni! Fu quello un dolce momento, pieno di caste voluttà, di leggiadre fantasie, di soavi speranze. Così pochi io ne ho gustati in vita mia, che il ricordo di quella notte di gaudio, tutta fragranza e splendori, mi rimarrà sempre scolpito nel cuore. Il vento, seguendo il corso del canale, ci soffiava in fil di ruota; la qual cosa è poco propizia alla navigazione delle galere, fornite come sono di due grandi vele latine, l’una avanti l’altra, epperciò soventi volte disutile. Ed io, per guadagnar cammino, feci voltare le antenne di maestra e di trinchetto, l’una a destra e l’altra a mancina; il che dicesi nella lingua marinaresca far le orecchie di lepre. Per tal modo, da ogni banda del legno sporgeva in basso il carro d’un’antenna e in alto si drizzavano opposte due penne, raccogliendo quanto più poteano di vento. E la galera, obbediente al cresciuto impulso, trabalzò immergendo allegramente lo sprone nei flutti. Lanzerotto era venuto presso di me, siccome soleva. Pieno la mente di lei e schivo d’ogni discorso che non si riguardasse a lei, mi feci a chiedergli i particolari della sua impresa alla riva degli Ontàni. «Ci siam giunti in sul bruzzo — mi rispose il buon Lanzerotto — e insino al meriggio non ci ho visto anima nata. Capitarono certi pescatori; ma siccome anche noi facevamo le viste di pescare, non ci badarono più che tanto, e così passò la giornata. Al cader del sole, giunse il vostro gentiluomo, ansimante, smanioso, chè la febbre se lo divorava ad occhi veggenti, ed io non sapevo come chetarlo colle mie grame ragioni. Basta, si udì finalmente il galoppo di due cavalli e poco stante apparve frammezzo agli alberi la dama con un suo famigliare. — Siete voi, Anna? — gridò messere Roberto. — Sì — rispose ella, nell’atto che smontava, aiutata da lui. — Nessuno vi ha veduti? — No, giunti fuor della porta abbiamo spronato a questa volta; ma più tardi, quando mi cercheranno, Dio mio!... — Non temete, Anna, sorella mia, saremo al largo fra breve. Non è egli vero, Lanzerotto? — Sicuro! — risposi, — ma i fatti debbono andare innanzi alle parole. Infine, entrato messer Roberto e la dama nel palischermo, restava il valletto, che non era altrimenti un valletto. — Che farai del ronzino? — gli chiese il vostro gentiluomo. — Lo lego a quest’albero — rispose quell’altro — e poi lascio un mestiere che, dopo essere stato troppo dolce, potrebbe sapermi di amaro. — Generoso William! — disse la dama, sporgendogli la mano da poppa — voi siete un leale amico. Che farete voi ora? — Io? tiro via per Saltford e chi mi aggiunge ha da essere buon veltro. Domani torno il cavaliere di Blackstone, che vi seguirà in Francia, ma per altra via e per altra cagione. Così ebbe fine l’impresa; noi diemmo dei remi in acqua, l’altro di sproni nei fianchi al corsiere, e il resto lo sapete voi, messer Gentile, al pari di me.» Questo racconto, del quale ebbi poi a saperne più addentro, mi chiamò spesso alle labbra il sorriso. Ero felice, e l’esito di quella fuga aveva recato la mia felicità; però benedicevo in cuor mio a quel gaio cavaliere di Blackstone, che aveva aiutato così validamente il fratello, senza alzare i suoi desiderii alla sorella, e sfidato per amicizia gli sdegni d’un pretendente, che era spalleggiato dal re d’Inghilterra in persona. Il mattino s’appressava. L’aria intorno era fredda, ma tutto il mio corpo ardeva e i gelidi buffi del vento mi ricreavano lo spirito. Era mista la mia gioia di stupore e di dubbio; ma era la prima gioia; ma per la prima volta io sentivo di vivere. Giuoco della sorte! Dunque colei era la sorella di Macham? Quella divina, ch’io avevo veduta, amata e perduta in un giorno, era una sventurata che io dovevo salvare? E là, nel tempio, raccolti sotto una medesima vôlta, ignoti l’uno all’altro, eravamo già legati dalle invisibili fila del destino? Ella appariva pensosa, certo a cagione di quelle nozze abborrite. Nè più era tornata alla chiesa; ma or s’intendeva, si chiariva ogni cosa; ella erasi chiusa nelle sue stanze a piangere, la bella sconsolata. E finalmente era in salvo, là, presso a me, regina sulla mia nave! Sorse l’aurora; ma quello spettacolo, sempre così lieto al marinaio, non trattenne il mio ciglio. Guardavo entro di me; l’aurora io l’avevo nell’anima. E più bella dell’aurora apparve quella divina in sull’uscio, dal quale io non m’ero per tutta la notte scostato. La sua bellezza non si adornava più di sciàmito, d’oro e di pietre preziose, siccome la prima volta che io l’avevo veduta. Indossava ella invece una cotta di scarlatto pavonazzo, lunga ad uso di cavalcare, e un mantello, foderato di vaio, ascondendo in parte i leggiadri contorni della persona, le aggiungeva maestà. Il cappello bigio, collo zendado ravvolto intorno alle falde, ella lo teneva ancora tra mani; laonde il crine appariva scoverto, maravigliosa ricchezza di lucenti cascate, tra cui veniano a scherzare le aure capricciose del mare. E così severamente vestita, ella era più bella che mai. — Buon dì, messere! — mi disse ella con quella sua angelica voce, a mala pena m’ebbe scôrto lassù. — Dove siamo noi ora? — Fuor del canale, madonna. Vedete, là a manca sull’orizzonte, cominciano a nereggiare le vette dell’alpestre Cornovaglia. Bel dono, per verità, che re Edoardo ha fatto al principe Nero! Infatti, pochi anni addietro, il Plantageneto aveva eretto il paese di Cornovaglia in ducato e datane l’investitura a suo figlio. In Inghilterra dicevasi questo un assai magro presente, ed io avevo tirata in mezzo la storia, per isvagar l’animo della gentildonna e dar giro più lieto al discorso. Ma ella non si distolse perciò dalla sua cura. — Siamo ancora troppo vicini a Bristol! — notò, sospirando. — Ah, non temete per questo; — ripigliai — chè la mia nave vi perderà anche troppo presto. In due giorni, se questo buon vento ci assiste, toccheremo il lido di Bretagna. Macham giungeva in quel mezzo sulla spalliera, tutto meravigliato e confuso che io non avessi toccato per quella notte il mio rancio, laddove egli avea fatto un lunghissimo sonno. Egli, per altro, era vissuto in tali angustie per parecchi giorni, che il corpo avea pur voluto la sua parte di riposo; ma quind’innanzi, proseguiva, non avrebbe più consentito che vegliassi io solo al carico della loro salvezza. — Ad ognuno l’ufficio suo! — risposi sorridendo, anche nell’intento di precorrere le condoglianze ed i ringraziamenti d’Anna. — È del padrone l’aver cura del suo legno. Quante notti non ho io vegliate oramai, e senz’avere un carico tanto prezioso, come ora? Venite, madonna, se non vi spiace, a visitar questa nave, ove voi siete signora. — Ella accettò il mio invito e, poggiato il guanto sul mio braccio, discese nella corsìa. Nè il sostegno era inutile, perocchè agl’impulsi del vento il mare fiottava, e la galera dava un tal poco di beccheggio. A lei trepidante io venivo spiegando come ciò fosse nulla, e frattanto il premere di quel guanto, il lieve stringersi di quel braccio sul mio, mi faceva divampare il sangue nelle vene, e avrei amato che quel viaggio da poppa a prora non fosse più mai per finire. La tolda era gaia a vedersi per quel suo brulicame operoso di gente. Parte de’ marinai, sotto la vigilanza del còmito, si affaticavano al governo delle vele, parte attendevano a ripulir la coperta e a preparare il pasto della mattina, mentre la ciurma, uscita da’ suoi covi, stava mettendo in ordine i remi, per essere pronta ad ogni cenno di voga. Allorquando la gentildonna passò lungo la corsìa, fu un moto di curiosità, un bisbiglio, un fremito di ammirazione, che gli aguzzini si affrettarono a chetare dietro di noi con severe parole. — Schiavi! — esclamò ella con accento di dolce mestizia. — Sì, madonna — risposi — ma così vogliono essi. La _Ventura_ non porta prigionieri, costretti al servizio del remo, ma soltanto buone voglie, chè in tal guisa si chiamano coloro i quali volontariamente si profferiscono. — E chi vi assicura, messer Gentile, che tutto quanto si fa volontariamente, si faccia liberamente eziandio? Ah, io vorrei che tutti gli uomini fossero liberi! — Così parlava quella soave creatura, discoprendo, insieme cogl’impeti del cuor generoso, una parte di sè. Eravamo giunti all’arrembata del castello di prua. Ella appariva mesta; io era travagliato da una grave cura. Ella guardava fiso davanti a sè, verso le dirupate costiere di Cornovaglia; io indietro, verso il canale. Man mano che il sole si alzava sull’orizzonte, più chiaramente si discerneva sulla distesa del mare, ed io laggiù da levante, anche prima che il marinaio in vedetta sull’albero di maestra l’accennasse con un grido, aveva veduto una vela. Ora, mentre Anna veniva ragionando con Macham, io non poteva spiccar gli occhi da quella vela, che, a grado a grado crescendo, mostrava di guadagnar cammino su noi. Non volli che si accorgessero della mia inquietudine, e cogliendo il destro della venuta del dispensiere, che annunziava essere in pronto l’asciolvere, li ricondussi al tendaletto di poppa. — Che è ciò? Non rimanete con noi? — mi chiese ella, vedendomi in atto di uscire da capo. — No, grazie, madonna; più tardi. Ho alcuni comandi a dare. Corsi fuori senz’altro, e, presa la via dei bandini, riuscii sull’estremo della poppa, ove stava il timoniere. Ma egli non era già solo; Lanzerotto mi aveva preceduto sul posto. — Ah! tu pure vorresti sapere che sia quella vela? — Sì, messere; la non mi garba punto, e siccome ho sempre pensato che la buona cura discaccia la mala ventura, son qua venuto in disparte a darle un’occhiata. — Rimanemmo per un pezzo taciturni, intenti all’andatura del legno misterioso; solo che il mio còmito, ad ogni tratto, con certi suoi versi e batter di labbra, pareva rispondere all’inquietudine che mi s’era fitta nell’ossa. — Dimmi, Lanzerotto; ier l’altro, a Bristol, quando ci allestivamo, c’erano altri legni per mettersi alla via? — No, neppur uno, ed è ciò che mi mette in pensiero, poichè (perdonatemi, messere, i giudizi temerarii) ho pensato tra me e me che noi s’è frodata la gabella, con quella mercatanzia là, della riva degli Ontàni, e gli inglesi non mi paion gente da reggere alla celia. Ma, per sant’Ermo, che fanno laggiù? — Non vedi? Hanno notato il nostro accorgimento e lo imitano, facendo le orecchie di lepre. — La è dunque al nostro ricapito! Ma perchè non pensarci prima? E’ mi sanno di malpratici lontan quattro miglia; e metterei pegno che hanno stancato tutta notte i rematori. Ma tanto meglio, se la è così, tanto meglio! — Il ragionamento di Lanzerotto mi persuadeva. Certo, se quella nave era stata spedita a darne la caccia, essa, oltre le vele, avea fatto gran forza di remi, per giungere nelle nostre acque, e vedutici poscia, avendo stanca la ciurma, procurava di vantaggiarsi, imitando la nostra manovra. E difatti, bene avvistandola, poichè ebbe incrociate le antenne, non mi parve che ella tuttavia guadagnasse cammino, siccome avea fatto in principio: segno che risparmiava la voga. Cionondimeno riputai prudente consiglio provvedere ad ogni caso peggiore, comandando che si facessero le impavesate. Tosto la marinaresca fu in moto. Levati gli strapunti e le coltri dai covi dei galeotti, fu disposta tutta quella miscèa sulle posticcie sporgenti fuori banda e stesavi su l’incerata a più doppi; di guisa che d’ambi i fianchi la galera apparve bastingata contro ogni danno d’artiglierie nemiche[1]. Tutto ciò mentre io stava intento a guardar la galera che ci seguiva. Le eravamo innanzi di tre o quattro miglia, come bene aveva detto celiando il mio còmito; ma certamente, riposata la ciurma, ella avrebbe ripigliata la voga e ristretto d’assai quello spazio. L’animo mio durava un fiero travaglio. Non era quella la prima volta che io mi mettessi in procinto di combattere, e in più scontri la _Ventura_ avea tenuto fede al suo nome. A’ miei uomini, poi, provati da tanti anni all’acqua ed al fuoco, ero certo di fare un lieto presente con una chiamata all’arrembaggio. Ma era quella la prima volta che mi toccasse combattere sotto gli occhi d’una donna, cagione e prezzo della contesa ad un tempo. Imperocchè, egli non c’era da dubitarne, niun legno era allestito per la partenza quando noi ci eravamo mossi da Bristol. Onde quello con tanta diligenza? E come, partito dopo di noi, certo allestito in furia nella notte, avrebbe potuto raggiungerci, se non usava insieme di remo e di vela? E per chi tanto sforzo, se non per noi? Nol diceva aperto quel suo imitare la nostra manovra? Per fermo quella galera avea salpato ai comandi dell’amante di Anna, dello sposo che il re le imponeva. Un rivale, e forse egli medesimo su quel legno! In ogni altra congiuntura, n’avrei goduto; ma allora!... Che avrebbe ella detto? E come andarle innanzi tra quegli apprestamenti di pugna? Avrei potuto reggere all’ansia mortale d’una povera sbigottita? Cercai di dimenticare me stesso in quel punto; corsi a prua, e là, sull’arrembata, diedi il comando solenne di far arme in coperta. Incontanente si levò un grido di giubilo, che io m’affrettai a sedare, perchè non avesse a intimorirsi anzi tempo colei. — Non c’è nulla ancora, miei figli! È una nave che l’ha con noi? Ci verrà tanto vicino da doverci rivoltare a mostrarle l’artiglio? Vedremo. Se n’ha voglia e potere, ci troverà pronti a riceverla, ed anco a farle una visita. Badate; concedo bottino a tutti e su tutto; io non vo’ parte. La mia andrà mezza alla marinaresca e mezza alla ciurma. — Quest’ultime parole destarono grande allegrezza tra gli uomini del remo. Erano il primo frutto della pietà di quella donna per essi. IV. I miei uomini erano pieni di ardimento e di desiderio; laonde non è a dire se si mettessero con sollecitudine agli apprestamenti di pugna. Si trassero fuor della stiva le armi, a gran furia; balestre e verretoni per combattere da lunge, daghe ed accette da usarne all’arrembaggio. Si posero le munizioni nei luoghi da ciò; vasi di bitume, morchia d’olio, sapone e calce viva in polvere, che, gittata in aria al momento dell’urto, acciecasse i combattenti avversarii. Da ultimo si collocò la balista sull’arrembata, col suo corredo di lunghi dardi intonacati di pece e zolfo, da appiccarvi il fuoco e scagliarli sulla tolda nemica. Tutte queste cose ci bisognava far prima, imperocchè più tardi, se avessi reputato necessario virar di bordo e correre a voga arancata sulla galera che c’inseguiva, la marinaresca doveva aver libertà di darsi tutta quanta ad imbrogliare le vele. Regnavano sulla nave silenzio ed ardore. Tutti infiammati, ad un tempo, ed austeri, parevano sentire la rilevanza del còmpito e dirsi coll’esempio a vicenda: chi primo si è preparato ha la vittoria nel pugno. In quella che io vegliavo all’opera e Lanzerotto, salito sulla gabbia, spiava i moti della galera nemica, ecco Macham venir frettoloso dalla camera di poppa e farmisi incontro. Io pure mi mossi per andare alla sua volta. — Che avvenne egli mai? — gridò egli commosso. — Siamo dunque inseguiti? — Anche voi avete veduto? — Gli chiesi. — Sì; ma venite, venite laggiù, messer Gentile; la mia povera sorella vi chiede. — Ah! — esclamai turbato. — Ne avete già detto a lei? — Ho fatto male! — rispose egli, chinando la testa. — Ma infine, non aveva ella a saperlo più tardi? — E perchè? Forse non è nulla e quel legno non viene per noi. — Lo credete? A me il cuore presagisce tutt’altro; Messer Gentile, ve ne supplico — proseguì Macham, già fuori di sè — ve ne scongiuro; poichè non avrete cuore di consegnarci in mano a coloro..... Il cruccio che mi lampeggiò dal volto gli fe’ rompere a mezzo la frase. — Perdonate, amico — ripigliò tosto — perdonate il dubbio ad un cuore che soffre! Invero, con qual diritto vi potrei chiedere di mettere a repentaglio la vostra vita e quella dei vostri, per un disgraziato che conoscete a mala pena da due giorni? Lo farete tuttavia e sarà nuova testimonianza della nobiltà dell’animo vostro. Grazie, grazie per Anna e per me! Ma siate generoso fino all’estremo; concedetemi il posto d’onore sull’arrembata! Se s’ha a morire, io voglio, io debbo essere il primo. — Macham aveva pronunziate quelle parole con tale veemenza, che io rimasi percosso, attonito a guardarlo. Egli si giovò del mio silenzio per incalzare nella dimanda, accostandosi a me con piglio supplichevole e stringendo le mie mani tra le sue. — Basta, messer Roberto! Voi mi chiedete cosa impossibile. Quel posto è mio; ma permetto a chi si sia — soggiunsi più dolcemente — di conquistarsi il secondo al mio fianco. Andiamo ora, chè il tempo stringe. Lanzerotto, che fanno quegli altri? — L’alzata del castello di poppa mi toglieva allora di scorgere la nave nemica. — Non mi pare che acquistino vantaggio finora; — rispose dall’alto della gabbia il mio còmito — del resto, s’avanzano a vele soltanto, come noi. — Sta bene; andiamo dunque — dissi a Roberto — e non facciamo che vostra sorella si sgomenti oltre il bisogno. Macham mi strinse con moto convulso la destra e non si fecero altre parole tra noi. Entrammo allora nella camera di poppa, dove trovai Anna in uno stato compassionevole, pallida, tutta smarrita, coi capegli scarmigliati e gli occhi pieni di lagrime. Confesserò la mia crudeltà. Provai un acerbo gaudio in vederla così addolorata e divorai cogli occhi quella sua bellezza nuova, o, per dire più veramente, quella antica bellezza, che il pallore, le lagrime, l’angoscia ond’era dipinta, faceano vieppiù risaltare. — Che sono que’ tristi apparecchi? — mi disse ella, venendomi incontro e figgendo i suoi grandi occhi ne’ miei. — Nulla, — balbettai, — Cautele d’uso.... — Ah, m’ingannate! — esclamò. — Ed è male, ciò che voi fate ora; ben altro io m’aspettavo da voi. — Or bene, madonna, — soggiunsi — io temo. Ma il temere non significa già che si debba venire alle mani. Ho un prezioso carico, ve lo dissi stamane, e giuro che lo condurrò a salvamento. Chi ha voi in custodia si sente più forte dei casi, comunque volgano; degli uomini, checchè s’argomentino di fare. Mi guardò ella esterrefatta, come chi, in mezzo alle sue afflizioni, scorga di repente una nuova cagion di dolore. Ma fu un lampo; altri pensieri, altre cure incalzavano. — Ah, voi non appiccherete battaglia! — gridò ella supplichevole. — Madonna — dissi a lei di rimando — io farò il debito mio. — Ma non è possibile! ma voi non accetterete la disfida! — E come? Lo chiedo a voi, ora. — Non so; sono una povera donna, una vil femminetta, io! che dirvi? che consigliarvi? Ma voi non metterete la vita a repentaglio per me, non tenterete la collera di Dio.... Non è egli vero? — proseguì ella con accento straziante e carezzevole insieme — non è egli vero che eviterete il combattimento? che sfuggirete il nemico? — Pigliar caccia, io? Ma sapete voi ciò che mi chiedete, madonna? Gentile Vivaldi non ha mai assalito, ma neppure è fuggito davanti ad alcuno. Son nato di libera gente; sul mare, che è da dieci anni mia patria, ho soventi volte incontrato uno stendardo nemico al mio, nè mai gli ho sbarrata la via. Il mare è per tutti e dovrebb’esser di tutti, libero campo a più nobili gare. Ma non fuggo il pericolo; mi si gitta il guanto e lo raccolgo, avessi anche per avversario il re d’Inghilterra. — Se io ve ne scongiurassi? Se io cadessi ai vostri piedi e vi chiedessi un sacrifizio in nome della madre vostra, della donna che amate?... — Dio santo! — gridai, tentando di svincolarmi e di rialzarla, imperocchè ella s’era buttata ginocchioni davanti a me. — Ma ditele voi, messer Roberto, che non posso obbedirla! Il giovane era accasciato su d’uno sgabello, di riscontro alla parete, il capo chino, e piangeva, col viso nascosto nelle palme. — Voi pure, Macham? Voi pure? — Sì, amico! — diss’egli, con voce rotta dai singhiozzi. — Io ve l’ho detto pur dianzi. Se rivolgete la prora per combattere, concedetemi il posto d’onore, per essere il primo a morire. Ma se è possibile ancora cansar questo scontro, fatelo, ve ne prego a mani giunte, fatelo, non per me, ma per lei! — Li guardai trasognato, e rimasi alcuni istanti come fuori di me, errante, perduto in un pelago di dubbiezze, che ben sarieno state acerbe, se durevoli. Ma vinsi quella oppressura, non so per quale ingenita virtù, o soccorso celeste, e balzai fuori della camera, al mio posto di comando. — A che distanza dagli altri? — chiesi a Lanzerotto, che era tuttavia sulla gabbia. — A tre miglia, forse. — Dànno ancora nei remi? — No. — Sta bene; ora attenti tutti in coperta! Un alto silenzio si fece da poppa a prora, tutti aspettando ansiosi il mio cenno. Credevano di avere a virar di bordo per correre addosso al nemico. — Lesti ad ammainare l’antenna di trinchetto! — gridai. — Ammaina volentieri! Il comando fu sollecitamente eseguito. Io mi volsi alla ciurma. — Palamento inguala! Cala remo e avanti! Ammainata l’antenna per ispiccarne la vela di trinchetto, tardavasi alquanto il corso della nave, rimasta senz’altro impulso che quello della vela di maestra. Ma a questo difetto rimediava la voga. Io quindi, slacciata la vela, feci inferire ed issare in sua vece il marabutto, vela di fortuna assai più grande che s’adopera in caso di vento fiacco, ma che a noi poteva giovare per correre più veloci, con quel vento fresco che spirava già dal canale. Quel mutamento fu il negozio di quasi mezz’ora; ma non fu tempo perduto per noi, dacchè i remiganti facevano il debito loro. Nè quegli altri guadagnarono tempo per la nostra manovra, la quale anzi li trasse in inganno. Mentre si stava per issare il marabutto, il mio vigile Lanzerotto avvertì che la galera nemica imbrogliava le vele. — Ah, ah! son caduti nel laccio! — gridava egli dalla sua specola. — Hanno creduto che noi s’imbrogliasse le vele, per dar gusto a loro. Buona gente davvero! Come se noi ci mettesse conto virar di bordo e accettar la battaglia col vento e la corrente contraria! — Io intesi a che mirasse il mio còmito con quelle parole, dette ad altissima voce, e glie ne fui grato nell’anima. La mia manovra era di prender caccia, e a cotesto non s’aspettavano i marinai dopo tanti apprestamenti di zuffa. Lanzerotto, dall’alto della sua gabbia, aveva indovinato il mio caso, e dava amorevolmente colore d’artifizio finissimo alla fuga cui m’accingevo, per sedare le angoscie d’una povera bella. Arranca! dissi alla ciurma; e fu sì poderosa la spinta di quei quaranta remi, che la nave, con alto fragore di rotti marosi, diè un balzo, si sollevò e prese, non che a correre, a volare sull’acque. Senonchè il marabutto, così sporgente com’era rispetto alla vela di maestra, incominciò anch’esso a portare in tal modo, che la prua della galera s’immerse fin quasi alla freccia e un largo sprazzo di schiuma inondò l’arrembata. Tosto comandai che tutti si recassero a poppa, e la nave oramai liberata d’un peso soverchio da prua, pigliò così agevolmente l’abbrivo, che Lanzerotto non seppe tenersi dal batter le palme, e la marinaresca non volle esser da meno. Mi condussi allora al timone per avvistare più attentamente l’andatura del nemico. Egli per fermo si avvedeva di aver dato nella ragna; ma gli era tardi oramai per racquistare il suo primo vantaggio. Le vele aveva tuttavia mezzo imbrogliate; marabutto, che gli facesse pigliar più vento, o non aveva, o non era più a tempo d’inferirlo con profitto; epperò, sconcertato, impaziente, si dette ad inseguirci come potè, a furia di remi. Ma innanzi che avesse pigliata quell’ultima deliberazione e che le sue vele, finalmente da capo spiegate, portassero, la _Ventura_ avea guadagnato due miglia di cammino. — Il segugio perde terreno! Per San Giorgio, che caccia stupenda! — dicea Lanzerotto. — Metto pegno che a quest’ora l’aguzzino è affaccendato la parte sua, per rimettere i nervi nelle braccia della ciurma. E noi si vola senza aiuto di sferza; non è egli vero, mastro Pizzica? — E la ciurma a ridere, e l’aguzzino del pari; mentre, sotto l’impulso della voga in cadenza e del vento che facea cigolare le vele, il nostro legno sfiorava baldanzoso la superficie del mare. A me, per l’ansia febbrile di que’ momenti solenni, le membra ardevano e il sangue martellava alle tempie. — Porta pieno! — gridavo al timoniere. — Orzeremo più tardi, quando sia calato il crepuscolo. Già la luce del giorno era presso a mancare, ed io avevo immaginato di tirar profitto dall’ombre notturne per poggiare più in alto a ponente. Su Francia, o su Spagna, avremmo potuto mettere prua nei giorni seguenti; urgeva intanto d’involarci agli sguardi del legno persecutore, che il giorno appresso ci avrebbe dato caccia sicuramente verso le isole Normanne. In sulla sera il vento rinfrescò, e non mi dolse, dappoichè i remiganti si chiarivano stanchi, ed io volli che avessero almeno due ore di sosta e convenevole ristoro alle forze stremate. Per altro non mi disposi a ciò fare, senz’aver dato prima un’occhiata alla molesta galera, che si vedeva ancora a guisa di punto nero, per mezzo alla nebbia vespertina. Respirai allora, e mi passarono per la fantasia gli accenti d’ira di colui che ci aveva inseguiti tutto quel dì, con tanta speranza di giungerci. Certo l’arrembaggio, anco se fatale per lui, avrebbe dovuto sapergli men reo di quella caccia arrangolata ed inutile. — Il segugio ha perso l’orma, venne a dirmi Lanzerotto. — Ed ora, padrone, non vorrete andarvene a riposare? — Sì, vado; ma poni mente: vo’ poggiare a garbino, stanotte. Quell’altro, domattina, non ha più ad aver fumo di noi. — Non dubitate; governeremo al largo, e l’Oceano vorrà serbarci il segreto. In quel mentre una mano stringeva la mia. — Grazie, messer Gentile! — mi disse una voce soave. Mi volsi; era dessa, e mi guardava così dolcemente, che a me parve d’aver veduto il paradiso e fui per venir meno in un punto. Mi accorsi allora che per tutto il giorno non avevo preso cibo. Ella e Roberto, sorreggendomi amorevolmente, mi accompagnarono fino alla camera, dove mi contentai d’un sorso di vino. Ero stanco, sfinito, la forza che mi avea sostenuto quel dì era col pericolo andata in dileguo. — Grazie! — mi ripeteva ella, col suo accento divino. — Che sarebbe egli avvenuto di noi, senza l’aiuto vostro, o messere? Anche Macham s’era fatto vicino a me, e stringeva la mia mano tra le sue. Io caddi, mi arrovesciai, non so più dove, nè come. Ben so che ella tenea china la fronte sul mio viso, e che, innanzi di nuotare nelle tenebre del sonno, i miei occhi si affissavano ne’ suoi. V. E sognai, beato, quanto umana mente può finger di nuovo, e cuore desiderarsi di lieto; sognai che avevo tolto per sempre quella donna all’ignoto rivale ed ella m’era compagna, amante ed amata, in più felici regioni, sotto un più fulgido cielo. Narrano i viaggiatori dell’Africa di una bevanda che reca insieme coll’ebbrezza i più cari inganni allo spirito; ond’è che sembri di gustare, con ordinata sequela di casi, le dolcezze d’una vita, ahi troppo facilmente impromessa all’uomo sul mattino degli anni. A me la delizia bevuta da quegli occhi di cielo, derivò l’arcana voluttà di così splendide fantasie, di così care visioni. Il mio risveglio non fu che un proseguimento del sogno, imperocchè Anna era là, dormente poco lungi da me. Rimasi estatico a contemplare quella bellissima testa, che, mezzo rivolta sull’omero, poggiava lentamente contro l’assito della camera; vagheggiai cogli occhi desiosi quella fronte candida, imperlata di lievissime stille, che avrei libate, mio Dio, come celeste rugiada, e quel seno soavemente commosso da un dolce respiro, che veniva a morirle sulle labbra socchiuse. Trepidante chinai la faccia fin presso alla sua, aspirai quel soffio e mi trassi indietro sollecito, ma barcollando a guisa d’un ebbro. Macham dormiva egli pure, colla fronte appoggiata alla sponda del letticciuolo intatto. Fratello e sorella aveano per fermo lungamente vegliato il mio sonno fino a che la stanchezza non avesse soggiogato anche loro. Mi tolse da quello incantesimo il sentimento del debito; chè a me pure si conveniva vegliare sovr’essi. Corsi all’aperto e vidi che la galera proseguiva rapidamente il suo corso. Il vento era fresco; il cielo nuvoloso non lasciava scorgere terra da veruna parte. Nessuna vela appariva sul mare, e cotesto mi rallegrò. Mi feci quindi a guardare la bussola e vidi che volgevamo sempre a garbino. Lanzerotto era venuto in quel mentre a raggiungermi. — Or bene? — gli chiesi — che nuove? — Notte buonissima — rispose; — ma questa mane si gira al torbido. Vedete, messere, come s’infosca il mare in lontananza. Temo d’un groppo, e se si potesse poggiare.... — Che farci, Lanzerotto? Meglio una ventata al largo, che imbatterci da capo in quella maledetta galera! — Gli è giusto; or dunque si prosegue verso garbino? — Certamente, e se occorressero novità, fammi avvisato. Tornai nella camera di poppa. Anna erasi destata allora, ed io, dopo il buon dì, le diedi la lieta nuova della sparizione del legno persecutore. Mi chiese di accompagnarla fuori, ed io mi affrettai a condurla sulla spalliera, dov’ella potè sincerarsi co’ suoi occhi medesimi di quello che io le avevo annunziato, e più ancora si sentì raffidata com’ebbe veduta la tolda libera di tutti quei brutti arnesi e ingegni di guerra, che vi faceano ingombro il giorno antecedente; laonde mi si volse tutta amorevole, per ringraziarmi di aver sacrificato il mio orgoglio alla sua timidezza. — Io ne vo altero, come del più largo trionfo; — dissi a lei di rimando. — Aver potuto far cosa che vi fosse grata, è gran ventura per me. Non siete voi la più bella memoria che io porterò meco del suolo britanno? — Povera cosa portate dalla mia patria! — notò ella umilmente. — Ah, non lo dite, o ch’io aggiungerò cosa ugualmente vera; che questa memoria non mi lascierà veder altro di bello al mondo, fino a tanto che io viva. — Confusa da quelle parole, in cui si mostrava tutto l’animo mio, ella aveva chinato gli occhi a terra senza nulla rispondermi. Ed io, non volendo lasciare il discorso a mezzo, poichè l’occasione s’era profferta, incalzai: — Ricordate la chiesa di Sant’Agostino? — Or bene? — mi chiese ella, alzando la fronte e figgendo i suoi occhi ne’ miei. — Colà vi conobbi, madonna, e da quel giorno non ho più veduto che voi. — Mi avvidi, così dicendo, di averle recato molestia, tanto il suo volto apparve turbato. — Che è? — soggiunsi tremante. — In che vi sono dispiaciuto? — Ah, non mi parlate in tal guisa, ve ne supplico! — mi disse ella con voce lagrimosa. — Sono pur disgraziata! Deh, per carità, messer Gentile — continuò, vedendomi rannuvolato ad un tratto — abbiate compassione di una povera donna che non sa, che non può dirvi tutto ciò ch’ella soffre; lasciate ch’ella possa stringere la vostra mano, come quella d’un amico, del migliore degli amici. Non è egli vero che non vi sdegnerete con me? Non è egli vero che mi perdonerete? In nome della gratitudine che io vi serbo qui, nel profondo del cuore, ditemi che la vostra amicizia mi resta senza corrucci e senza rancori! — Non so che cosa fossi per rispondere allora. Macham sopraggiunse e il doloroso colloquio fu rotto. Si fecero altre parole sui casi del giorno innanzi, sulla notte trascorsa, sul sonno che lui ultimo aveva colto; laonde io potei ricompormi. Poco stante ella si dolse del freddo e noi la riconducemmo nella camera, pregandola che volesse coricarsi. Io ardevo, in quella vece, e Macham, poichè fu uscito con me, si avvide alla mia cera come io fossi fieramente turbato. — Che avete? — mi domandò egli sollecito. — Non vedete? — risposi, additandogli il cielo; — l’aria è cupa, il cielo minaccioso. — Ah! povera Anna! povera sorella! — esclamò sbigottito, mettendosi le mani alla fronte. — Messer Roberto — diss’io allora, cogliendo una ispirazione subitanea — venite, debbo appunto parlarvi. E discesi, precedendolo, fino al gavone di poppa. — Siamo in pericolo? — chiese egli ansioso. — No, no, per ora; ma d’altro ho a parlarvi. Sedete. Roberto si adagiò sopra il suo rancio, ed attonito, coi pugni chiusi sulle ginocchia, il collo teso, in atto di somma curiosità, stette immoto a guardarmi. — Vi ascolto — mi disse, dopo una breve pausa, senza distogliere i suoi occhi da’ miei. — Anzitutto, messer Roberto — incominciai, misurando le parole — vi prego di dimenticare che io sono il padrone di questa nave, e che.... — Lo potrei forse? interruppe egli cortesemente. — Dimenticherei la gratitudine immensa, eterna, che a voi mi lega, e per Anna e per me? — Cotesto per l’appunto vorrei fosse lasciato in disparte — risposi. — Per ciò che debbo dirvi, amerei essere giudicato da voi senza preoccupazioni di spirito, quale sono, e nulla più; co’ miei pregi, se alcuno in me vi piacque vederne; co’ miei mancamenti, che ben so non andarne esente neppur io. Macham mi trattenne col gesto, quasi volesse dirmi che ciò non pensava di me. — Sarà facile sentenza e grato ufficio — mi rispose egli poscia — farò dunque di contentarvi. — E adesso, incomincio — ripigliai. — Or fanno quindici dì, io ero in un tempio di Bristol. Il luogo e lo stato dell’animo mi disponevano alla meditazione. Egli era uno di quei solenni momenti in cui si odono le voci del cielo, o quelle del cuore; le une e le altre possenti, irresistibili, fatali. Colà vidi una donna, e l’amai. Roberto mi guardò trasognato, o s’infinse, per aspettare che io mi facessi a conchiudere. — Non avevo mai amato — soggiunsi. — A trent’anni, vi parrà strano; pure gli è così. Vivevo del mio mare, della mia nave, non ignaro per fermo, bensì muto agli affetti gagliardi, che fanno l’uomo, o pienamente felice, o senza fine sventurato. Ma l’ora ha da giungere per tutti, se temuta, o sperata, non monta; non è creatura mortale che possa sottrarsi al destino. E non sì tosto io vidi quella donna, che sentii d’amarla profondamente, senza rimedio, per sempre. In noi, uomini del mare, in noi, italiani, cotali affetti nascono di un tratto giganti. E l’amai, come se da gran tempo l’avessi veduta e desiderata; così lungo cammino avevo fornito nello spazio di un’ora! Nè chiesi il suo nome, nè la seguii per istrada, nè mi scemò le prime vampe il non vederla più oltre. L’amavo; anche deliberato di partire, il mio cuore era suo; lontano, la sua immagine aveva a seguirmi, chiusa, suggellata qui dentro. Che è il tempo, che è lo spazio, al cospetto dell’amore, di questa cosa eterna che Iddio lasciò sulla terra, a testimonianza del suo patto cogli uomini, a simbolo delle sue alte impromesse? — Così vuolsi amare e non altramente! — esclamò Roberto, pensoso. — Sì, ed appunto perchè amavo in tal guisa, deliberai di partire. Forse, avevo detto fra me, forse è la donna d’un altro! Egli è impossibile che tanta bellezza fosse qui sola, negletta, non amante, nè amata. E fuggii; ma innanzi di scioglier le vele, voi lo sapete, venne un gentiluomo a chiedermi ospitalità sulla mia nave. Egli bene avrebbe potuto scoprirsi subito a me... — Gli è vero, ho mentito l’esser mio! — interruppe Macham, chinando la fronte. — Non dissi ciò per farvene carico — fui pronto a soggiungere — bensì per mostrarvi che mi avevate mal conosciuto e che io mi sarei profferto a voi, senz’altro aspettare.... Ma, comunque vi sia piaciuto di fare, io accolsi il fuggiasco. Nell’amarezza della mia dipartita, mi tornava di qualche conforto l’essere utile altrui. Ed ora argomentate il mio stupore; la donna da me amata, da me fuggita, era colei che cercava rifugio sulla mia nave contro un nodo abborrito; era la sorella di Macham. — Roberto, sebbene, per la solennità del richiesto colloquio e per altro costrutto ragionevolmente cavato dalla mia narrazione, appunto a ciò s’aspettasse, non seppe tuttavia contenersi e balzò dal giaciglio che gli tenea luogo di sedile. Stette taciturno in quell’atteggiamento breve ora, mordendosi le labbra e guatando ora il suolo ora me, a guisa di uomo fieramente combattuto da contrari pensieri; finalmente parve chetarglisi quella tempesta nell’anima ed egli ripigliò la sua prima postura. — Proseguite, messere — mi disse allora, con accento tranquillo. — Che vedete voi in cotesto? — ripigliai. — Non forse, come a me parve, la mano del destino? Or bene, poichè questo è suo cenno, messere, non già in nome d’un servigio fatto, non per tutto ciò ch’io son pronto a fare per voi, ma per l’affetto ardentissimo che io porto nel mio cuore, vi chiedo la mano di vostra sorella. Alla onesta dimanda egli non rispose parola; aggrottò le ciglia e parve chiudersi sempre più in sè medesimo. — Che è ciò? La mia proposta vi torna ella ad offesa? Invece di Roberto Macham, semplice gentiluomo inglese, siccome io nobile cittadino italiano, ho per avventura dinanzi a me un cavalier di corona? — V’ingannate — rispose egli finalmente; — quello che io vi ho confessato è il vero esser mio. — Ditemi allora, messer Roberto, che altro vi rende contrario a’ miei voti? Suvvia, siate schietto con me. Io non vo’ credere che abbiate in animo di farmi ingiuria. Forse vi duole di avermi a dire che la mano di Anna è promessa ad altri.... a quel cavaliere di Blackstone, che dee raggiungervi in Francia?... — No! no! — interruppe Macham, crollando replicatamente la testa. — Ma allora, in nome di Dio!... — gridai, facendo sentire in quelle parole tutto lo strazio del mio povero cuore. — Non posso dirvi altro... — balbettò Roberto schermendosi. — Chiedetene a lei.... Ma non ora, non ora — aggiunse, come pentito; — quando non saremo più qui. — Non ora? Non ora! — tuonai, già tratto fuor di me stesso. — E credete d’ingannarmi così? Trasaltò egli, guatandomi in volto; impallidì repente e con pari rapidità il sangue gli corse alla fronte. Mille discordi pensieri certo gli turbinarono in capo, e, parendomi che già fosse per avventarsi su me, attesi di pie’ fermo lo scontro. Ma egli fu peggio a gran pezza. — Or bene, sì, a che tacerlo più oltre? — uscì con veemenza. — Vi ho mentito due volte. Anna non è mia sorella; è dessa la donna ch’io amo. Fu uno schianto di fulmine. Il cuore me lo aveva già detto, ma io non avevo voluto credere al cuore. Diedi un grido e rimasi alcuni istanti come insensato; rotte parole mi gorgogliarono nella strozza, mutatesi poscia in un ghigno feroce. — Ah! e il nemico che ci ha dato caccia pur dianzi? Era quegli lo sposo prescelto, voluto dal re? Sollevate quello sguardo, messere! O non piuttosto un marito? Ma ditelo, che non è ciò; ditemi ch’egli non è un solenne giuramento violato, un sacro vincolo infranto! Rifinito dal colpo, Macham si lasciò cadere sul giaciglio, mentre le labbra mormoravano sommesse: «Pur troppo!» In quel mezzo una voce, quella di Lanzerotto, suonò affannosa dal boccaporto. — Padrone! Il vento gira a tempesta. Che si fa? — Ben venga! — esclamai soffocato! — Sferri la nave e mi affondi con essa! — Ed Anna? — mi chiese Macham, con accento supplichevole. Quel nome mi scosse, e, ricercandomi le più ascose fibre del cuore, mi fe’ tornare in me stesso. Corsi alla scala e salii difilato in coperta. — Suvvia — dissi a lui, che mi seguiva — andate a racconsolare quella povera donna. Io son più fatto per tener bordone alle bufère. VI. Lanzerotto non era inquieto senza ragione; il suo occhio esperto non lo aveva ingannato intorno a ciò che stava per accadere. Eloquenti sono talvolta i silenzi del mare. Egli è su quel liquido piano, quando la terra è sparita ai vostri sguardi, quando le sue cure materne sembrano avervi abbandonato, che voi incominciate ad udire una voce nuova, paurosa, solenne, la voce delle cose, voce di pianto, di minaccia, di morte. La natura acquista una favella e l’uomo la intende; dovunque ei volga le pupille smarrite, vede le magiche cifre che gli annunziano il triste futuro. Il cielo assume un aspetto sinistro, grave di orrendi presagi; l’orizzonte, che d’ogni parte si cela, è la speranza che si allontana da voi. Già la cerchia si stringe; il mare è uno steccato in cui si prepara il giudizio di Dio; i foschi vapori che si calano lentamente d’intorno, sono i biechi spettatori, che tra breve stenderanno la mano per condannarvi a perire; l’Oceano è il mostro immane che si concentra, guatandovi co’ suoi mille occhi lividi, arruffa le squame, striscia, mugghia da lunge e vi grida implacato: ogni varco è chiuso; ora a noi! Il vento teso, che fino allora ci aveva spinti in alto, era cessato; le vele sbattevano negli alberi, ed io tosto comandai di ammainare le antenne, facendo issare il trevo, che è una vela quadra, più maneggevole in tempo di burrasca, all’albero di trinchetto. Così premuniti, aspettammo. Triste cosa l’attendere, quando il viatore aspettato è la tempesta. L’Oceano si raccoglie e il marinaio del pari; ma quello è il raccoglimento dell’ira che medita i suoi colpi: questo della paura che stringe il cuore e svigorisce i nervi dinanzi al pericolo. Il marinaio è sicuro di sè, talvolta lieto, infiammato sempre, quando si appresta a combattere prora a prora, petto a petto, uomo contr’uomo; ma la furia delle onde scatenate lo fa per un’ora codardo, e quell’ora è spesso l’estrema. Cader riverso sull’arrembata, per ferita di dardo, o di scure, è lieve cosa. Il sangue bolle nelle vene, si è pieni di baldanza, ardenti di vita; or bene, questa vita poderosa non muore; l’anima freme, respira da tutti i pori, fin anche dalle ferite, l’aria generosa e vivida del cielo; angelica farfalla, si sprigiona dal suo involucro, vola via nell’azzurro e le sembra che, volando, ella debba veder tuttavia i fratelli vincenti e lo stendardo, che fu già suo, sventolar glorioso in mezzo alla strage. Ma lottare colle cieche forze dell’Oceano sterminato, contendere una vita pigmea alle strette del gigante che flagella le rupi e sconvolge gli abissi, sterile pugna, vana audacia, la sua! Il cielo cupo romoreggia; l’aria grave opprime il respiro; il sangue rifluisce e si agghiaccia nel cuore; un senso di torpore soggioga le membra; tutto si rappicciolisce, perfino lo spirito dentro di lui, lo spirito, già sì gagliardo e pronto ad espandersi in lieti sogni, in leggiadre speranze. Il mare, inebriato de’ suoi stessi furori, s’avventa, flagella il volto colle sue gelide schiume, incalza sul naviglio la piena dei suoi flotti mugghianti. Reggerà all’urto quel povero guscio di travi sconnesse che tremano e crocchiano per ogni giuntura? E quell’altra rovina di acqua che s’avanza minacciosa, come torre all’assalto, per cogliere di fianco la nave, non lo spazzerà via dalla tolda? E giù nel pelago profondo, vivi ancora, con tutti i terrori, con tutte le disperate angoscie d’uno spirito che non vede più scampo; e un ruggito sul capo, la notte sugli occhi, l’esistenza sommersa nel nulla! Il trevo era già inferito al pennone e issato all’albero di trinchetto, allorquando il mio còmito mi si fece da canto. — Vedete laggiù da greco, messere! Il groppo si avanza e mala notte vuol darci. Difatti, da quella banda che Lanzerotto accennava, l’aria si venia facendo più scura; il mare si arricciava a creste più fitte, e il candor delle spume facea risaltare vieppiù il fosco dell’onda. Quella negra mole cresceva, si rigonfiava a guisa di montagna, venendo ratta e sicura sopra di noi, per pigliarci di sguancio. Comandai sollecito al timoniere che poggiasse, per resistere alla ventata, col lato più saldo della nave. Così, opposte le terga al pericolo, si stette, non senza trepidazione, in attesa. La gran mole si avanzò con alto fragore, misto a sibili acuti, e ci colse per l’appunto da poppa. Il legno, sollevato di lancio ad una incredibile altezza, curvò la prora e parve sprofondarsi in un baratro scavatogli allora dinanzi, mentre il soverchio dell’ondata, rovesciandosi addosso alla timoniera, ci recava il primo saluto del turbine. Tosto si udì cigolare l’alberatura e le sartìe, come se fosse per ispezzarsi ogni cosa; il trevo, subitamente investito dalla piena del vento, crocchiò. Io m’avvidi esser troppo inciampo anche quella povera vela quadra, e feci filare in bando le scotte, affinchè, sventolando liberamente, ella non offrisse resistenza, e ad un’altra di quelle folate non mandasse l’albero infranto. Questo salvai, non la vela; chè un secondo rifolo, più gagliardo del primo, la trasse, la divorò, i brandelli divelti si dispersero sibilando nell’aria. Qui cominciò la più spaventevole ridda di elementi scatenati che io avessi veduto mai in dieci anni di vita randagia sul mare. Il vento soffiava furibondo, non mai a lungo in un verso, ma sbalzando da un punto ad un altro dell’orizzonte, siccome è costumanza del turbine, che i naviganti sogliono chiamar remolino. A quegli impulsi svariati e discordi, ribolliva il mare, si scuotea dal profondo e le ondate seguiano le ondate. Per colmo di mali, allo imperversare dei flutti si aggiunse l’ira del cielo e un nembo si diruppe su noi. Pioggia e grandine rovinosamente cadeano; la folgore ad ogni tratto balenava dalle nubi squarciate, fulminava con orrido schianto dintorno alla nave, e le sue livide striscie rischiaravano paurosamente quello immenso scompiglio. Ed Anna? In mezzo a quella pugna del cielo e del mare io non l’aveva obliata per fermo; viva ed acerba ricordanza me ne faceva quell’altra pugna, quell’altra tempesta, che ruggìa nel mio cuore. Avrei voluto saperla in salvo, non vederla più, inabissarmi nell’Oceano, dimenticare, morire. Nè ardivo mostrarmi a lei, nè mi reggea l’animo a starne così lungamente lontano; attonito, istupidito, guatavo la procella, non temendola fatale, non invocandola pietosa per me. In sul far della notte, chiamato, mi concussi alla camera di poppa. La povera donna soffriva aspramente, ma più dell’animo assai che del corpo, rannicchiata nel suo letticciuolo, bianca come cera, disciolte le chiome e gli occhi smarriti. L’odiavo, maledivo a quel giorno che l’avevo veduta, e tuttavia per liberarla da quei patimenti, per ritornarle sul volto le rose e il sorriso, avrei dato la vita, perduto l’anima mia. Macham le sedeva da fianco, ma senza pur tentare di consolarla, muto, accigliato, cupo come un simulacro di sasso. Egli era scorato, il bel cavalier d’amore; i suoi occhi languidi, le sue tenerezze, già non poteano ridare la vita e la pace a quella gentil creatura; forse in quel punto egli era, e sapea d’essere, la rea cagione di tante angoscie ineffabili; destro a rapirla dalle braccia di un uomo, si sentiva impossente a salvarla dagli sdegni del cielo. Mi vide ella appena, che ansiosa volse le braccia verso di me. La gravità del momento facea porre in non cale ogni superbo contegno, o misurata riserbatezza tra la gentildonna e l’uomo che aveva ardito pur dianzi confessarle l’amor suo. — Dove andiamo? — chiese ella sgomentata. — Dite, in nome del cielo, che avviene egli di noi? — Madonna — risposi — il mal tempo ci coglie al largo, dove non ignorate quale necessità e qual volere ci abbia condotti. Forse a quest’ora, volando, come facciamo, sui flutti, siamo davanti alle coste di Guascogna, o di Biscaglia; ma in alto ancora, troppo in alto, nè, con questa furia di vento, ci verrà fatto poggiare alla riva. Non vi sbigottite, tuttavia; ciò che oggi non può farsi, sarà possibile dimani, a mala pena il turbine smetta alquanto della sua gagliardia. Macham alzò gli occhi dubbiosi a guatarmi, forse per sincerarsi nel mio sembiante se io dicessi da senno. — Sì — ripigliai, notando quel dubbio — la galera è salda e può reggere a tempi assai peggiori di questo. Conosco il remolino per prova, e so che non è uso a durar lungamente. Ve lo ripeto, madonna, non temete; ho fede di condurvi sana e salva alla prima spiaggia in cui ci abbatteremo, sia ella di Francia, o di Spagna. Mentivo, così parlando, e, per colorire la menzogna, mi studiai di sorridere. Fede non mi albergava in cuore nessuna; poggiare a terra senza aiuto di vele era folle speranza; e che potevano i remi in quell’ondeggiar senza posa e senza misura, in quel continuo urtarsi di falsi fiotti, che correvano per ogni verso, come il turbine capriccioso voleva? Nemmanco era dato intendere in che paraggi si fosse; le stelle ascose; la stima del percorso cammino impossibile. Si andava, sì, ma verso l’ignoto, e in ciò non aveva mano l’accortezza dell’uomo. La _Ventura_ errava sull’onde; il vento girava turbinando da destra e da manca, trabalzando a suo talento la povera nave, con una rapidità spaventosa. Come sperare, nonchè aver fede, di giungere a porto? Ma ohimè! povera donna! l’inganno non era egli pietà? Il secondo giorno fu anche più triste del primo. D’ogni parte guardando, non si scorgeva che mare, e il mare sembrava un campo di battaglia, seminato di stragi, sitibondo ancora di sangue, mentre i negri nuvoloni, che si affoltavano tutto intorno, mettendo lampi e rumore di tuono, pareano portar sempre nuove orde di combattenti a’ nostri danni, sul liquido piano sconvolto. Cionondimeno lottavamo; taciturni, disperati, attendevamo al lavoro. Dalla vigilanza nostra, dipendeva il tardare la temuta rovina; ed ogni ora tolta alla morte non poteva forse riuscire alla nostra salvezza? Così passarono tre giorni, orribili giorni, di stenti, d’insonnia e di amare dubbiezze. Macham era sempre più cupo. Io credo che in caso di naufragio egli avesse deliberato di uccidersi, per non morire di morte peggiore, in lotta coll’Oceano. Talvolta, uscito dalla tolda, egli mi chiedeva se l’agonia d’un naufrago durasse troppo lungamente; tal altra contemplava la lama d’un pugnale che portava sempre alla cintola. Anna, ogni qualvolta mi presentassi a lei, era pronta a ringraziarmi delle mie cure e a dolersi dei pericoli ch’io correvo per cagion sua. — Vedete, madonna — le dicevo io per racchetarla — ecco un altro giorno trascorso; la _Ventura_, comecchè in balìa dei marosi, regge ai lor colpi e va innanzi. Ma, pur troppo, le nostre tribolazioni non erano per finir così presto. La tempesta ne incalzava, seguitandoci, stringendoci sempre nelle sue immani spire. Avevamo mai sempre a temere d’andare sbalestrati contro una costa invisibile, perocchè tutto, intorno a noi, era buio, e le folgori non rischiaravano altro, ai nostri occhi, fuor che nuvole, ammassi di nebbia schierati in guisa di minacciosi dirupi. Per otto giorni cotali angosce durarono. A volte il mare ribolliva spianato, e subito dopo si ergeva in montagne, ricoperte di schiuma. Nella notte le onde furenti pareano vomitar fiamme, tanta era la copia dei vermi fosforici trabalzati a fior d’acqua. Egli fu un giorno ed una notte intiera che il cielo, squarciato da continui lampi, rassembrò un’immensa fornace, intanto che il fragore del tuono e l’urlo del vento erano spesso dai marinai atterriti tolti in iscambio di dolorose grida d’altri loro compagni di sventura, nel punto d’essere inghiottiti dalle onde. In tutto quel tempo, ruinava dal cielo, non già una pioggia, sibbene un altro diluvio, talchè la mia gente era come annegata in coperta, e molti invocavano ad alta voce la morte, quasi ella sola potesse metter fine a tanti patimenti ed orrori. Nuova cagion di spavento si ebbe in una di quelle notti d’inferno. La nave non era più in mezzo allo spesseggiar delle folgori, a repentaglio d’andare in frantumi; le tenebre erano fitte; il tuono baturlava lontano. Ad un tratto fu veduto il corpo di Sant’Ermo, con sette candele accese sopra la gabbia dell’albero di maestra; vo’ dire che vi si vedevano quelle bianche fiammelle che i marinai affermano essere il corpo di Sant’Ermo, lor protettore, il quale, più non potendo intercedere per essi dall’alto, scendeva ad annunziar loro il terribile momento di raccomandar l’anima pericolante a Dio. Un profondo terrore s’impadronì di tutti quegli uomini, fino allora sì saldi; tosto si buttano ginocchioni; piangenti intuonano litanie ed altre lor note orazioni, a stornare dal loro capo lo sdegno celeste. Le misteriose fiammelle stettero a lungo librate sul calcese dell’albero, indi sparirono e tutto ricadde nell’ombra. Il giorno appresso l’Oceano parve stanco delle sue collere e volse finalmente alla calma. Il cielo fosco tuttavia; l’orizzonte ristretto; ma il remolino era cessato e un vento scarso spirava da levante, di guisa che i poveri marinai ebbero tempo a respirare. Ma nuovi terrori li assalsero in quel giorno; quella medesima tranquillità seppe loro di sinistro, e, nel languore in cui erano immersi, tutto faceva paura, tutto induceva sospetto. Scorgeansi intorno intorno alla galera torme di cani marini, e ne fu tratto un presagio funesto; imperocchè ella è credenza della gente di mare che quei voracissimi mostri sentano da lungi l’odor dei cadaveri ed abbiano del pari un presentimento, che li fa nuotar presso alle navi condannate a sommergersi. A me ed al mio còmito dava maggior pensiero il non saper dove fossimo. Erano già gli undici dì dopo la nostra partenza da Bristol; ma sulla mia tavoletta del mare io non avevo potuto segnare nè il camino percorso, nè i rombi navigati; gli astri erano ascosi; soltanto la bussola indicava che procedevamo sempre a garbino. Al cessar della tempesta, avevo fatto issare un trevo di rispetto, ancora non osando spiegare le vele latine, per tema di qualche perfidia del tempo, così mutevole com’era. In tal guisa, serrando il vento più che ci venisse fatto, c’industriavamo di poggiare ad ostro, in cerca della terra; frattanto io tentavo di trarre indizi dal mare. La via tenuta dal turbine mi diceva chiaramente esser noi stati condotti nell’Atlantico; ma fino a qual punto? Eravamo noi nelle acque del capo di Finisterre, o più giù, davanti la costa di Portogallo, o più al largo? L’aspetto delle onde, più lunghe e d’un colore traente al verdastro, rincalzava quest’ultima supposizione. Cionondimeno, volendo scendere ad ostro, continuai a serrare il vento siccome ho già detto. La mattina seguente il mio dubbio si mutava in certezza. Il mare, fin dove poteva giungere l’occhio, appariva coperto di erbe, dando immagine di un vasto campo inondato. Toccavamo il mar d’aliga, o di sargasso, siccome dicono i marinai forestieri, il quale contermina d’ogni parte il mondo conosciuto. Donde quell’ampio strato di verde? Sono elleno per avventura piante marine, le quali nascono nel fondo e quindi, svelte dal moto delle onde e dalla forza delle correnti, si sollevano a fior d’acqua? O il mare diviene qui meno profondo che altrove, e quei prati sono essi la vestigia della terra inabissata, di cui parlano le antiche memorie? O Dio ha disseminate queste rovine intorno alla terra, perchè nessuno ardisca navigare più oltre a tentare gli arcani del creato? Certo egli è che perfidi paraggi son questi, e i verdi ammassi galleggianti sono in più luoghi così fitti, che i legni vi rimarrebbero a lungo andare impigliati; siccome accade in quell’Oceano di ghiacci, lassù oltre l’Irlanda, che niuno ardì mai perigliarvisi. Io riconobbi il mar d’aliga, per averlo già alcuna volta costeggiato ne’ miei tragitti dal capo di Gozola alle lontane isole dei Corvi marini. Argomentai allora qual fosse stata la violenza del turbine, che ci aveva in dodici giorni sbalestrati fin là, sui confini del mondo. Oramai bisognava dar volta; e poichè non si sarebbe potuto serrar di vantaggio il vento, come quello che da levante spirava, feci tosto imbrogliare la vela, virar di bordo e andar contro il vento a furia di remi. VII. Impossibile il dire qual fosse, tra gli affanni di quel periglioso tragitto, il cuore della bellissima inglese. Ella era donna, e la donna è debole; preparata dalla natura sua alle tenerezze, alle sollecitudini di amante e di madre, regge tal fiata al dolore, agli stenti non già, peggio ancora ai terrori. È dessa il fiore della creazione; quale meraviglia se gli ardori soverchi alidiscono il fiore, se i geli lo abbruciano, e solo le miti aure, nutrendo le delicatissime fibre, ne svolgono le soavi fragranze? Povera pianta cedevole, ella si appoggia all’uomo; la sua debolezza è il nostro incantesimo; l’amiamo, non pure perchè è bella, ma altresì perchè è fragile ed ha bisogno di noi. Passato il maggior pericolo, o fosse l’oppressura dei tanti patimenti durati, od altra più acerba, assidua cura dell’animo, Anna si mostrò più abbattuta che mai. Nè valsero a serenarla i certi segni del cielo; chè quella calma improvvisa le parea traditrice, e i suoi terrori si accrebbero alla vista del mar d’alighe, non ignorando ella, da isolana qual era, tutte le paurose narrazioni dei naviganti intorno a quelle orride chiostre del mar tenebroso. Nè manco spavento le venne dal sapersi così lunge dalla meta, così fuori dalle rive del mondo. Che sarebbe stato di lei, di noi tutti, se durava anche un giorno la violenza del turbine? Non si sarebbe la nave irremissibilmente sommersa là dove è ignoto se Dio abbia posto l’inferno dei dannati, o l’Eden di delizie, perduto dalla prima colpa de’ padri? E in questo smarrimento della nave, in questa sequela di nuovi pericoli, ella scorgeva la mano del Dio punitore; imperocchè non era mia colpa se, usciti dal passo di Cornovaglia, avevamo poggiato più in alto. Non era mia colpa; e tuttavia!... Dentro il mio cuore non era egli nato un truce desiderio di perir tutti inabissati nell’onde, anzichè quella donna andasse lungi da me, in balìa di Macham, al primo luogo d’approdo? Nè io già avevo mutato proposito, nè m’ero adoperato a salvarla, se non allorquando una parola supplichevole di Macham mi aveva richiamato, dolorosa visione, agli occhi dello spirito, le angosce imminenti di quella povera donna, i terrori della sua disperata agonia. Ma anco in quel punto, mi proponevo io forse di volgere a terra? Lo avrei fatto io, se la tempesta, rimesso alquanto della sua furia, me lo avesse pur consentito? Inoltrarmi sull’Oceano, non era il voler mio, ma quello dei flutti; giungere ai confini del mondo, non ardivo sperarlo; oppure nell’anima si agitava un disegno confuso, e vigilanza ed opera risentivano di questo doppio impulso, per cui la mia voce comandava una cosa, e un’altra ne voleva il mio dèmone. Gli eventi mi soccorrevano; la bufera turbinava, le onde s’innalzavano per me. L’avventura di Bristol era strana per modo, da non poter dicevolmente risolversi in un tranquillo approdo, in una tacita separazione, in una ricordanza fuggevole. Evidenti i segni; il destino avea poste le fila; il destino le veniva intricando, ravvolgendo intorno a noi come una rete di ferro. Andavamo, siccome ho detto, col vento in prua, verso levante, remigando senza posa, ma facendo poco cammino. Alcune ore dopo, per uno di quei casi che occorrono frequentissimi su quel mare, cadde il vento del tutto e la ciurma, traendone lieto auspicio, raddoppiò l’ardore nella voga, mentre io facevo mettere deliberatamente la prua verso greco, e issar da capo le vele. Sapevo difatti, per antica esperienza, come il vento, tacendo da un lato, prendesse a soffiare dall’altro, e volevo esser pronto a giovarmene. Non m’ero ingannato. Verso sera, una dolce brezza incominciò a spirare da ostro, consentendo alla _Ventura_ di orzare in quel rombo, che io mi ero proposto pur dianzi. Avrei potuto volgere alle isole Fortunate, forse più vicine ai paraggi in cui eravamo; ma, sebbene Lanzerotto me ne facesse proposta, egli che ci aveva approdato al pari di me (ed una di esse portava il suo nome, sendo stata primamente scoverta da Lanzerotto Malocello navigatore genovese), io non volli saperne, per cagion dei naturali, gente selvatica e feroce, tra i quali non era prudente consiglio inoltrarci, non già per noi, ma per la gentil creatura che il nostro legno portava. Meglio, dicevo, risalire più a greco, e giungere alle isole dei Corvi marini, donde, poi, cogliendo il buon vento, che lassù spira più facilmente da maestro, si potea navigare a golfo lanciato verso la costa di Portogallo. Così ingannando me stesso, volgevo in cerca delle isole dei Corvi marini. Trascorsero ancora due giorni, malinconici ma tranquilli, su quella immensità dell’Atlantico. Poche parole si ricambiarono con Macham, quante bastarono per non farci sembrare l’uno all’altro stranieri; Anna, in quella vece, si dimostrava oltre ogni dire cortese con me; laonde io pensai che qualche cenno de’ nostri vincoli d’attinenza necessaria fosse corso tra essi. Certo egli aveva dovuto toccarle del nostro grave colloquio; ma ella, di rimando, gli aveva accennate le ardenti parole udite da me? Non era da credersi. La donna ha più sottile avvedutezza che non l’uomo, in congiunture siffatte. Anna amava Macham e non ispregiava me; donde apparia manifesta la sua delicatezza di donna. Impietosita di me, mi voleva amico, e qui smarriva il suo senno, dimenticando esser cose impossibili al mondo; tra queste il contentarsi all’amicizia d’una donna, di cui s’è sperato l’amore. E nondimeno, le sue cortesie, temperate di tanta ritenutezza, spiacevano a Macham, il quale rabbruscava la fronte ad ogni parola che fosse nulla nulla più dolce, stavasi tra contegnoso ed impacciato davanti a noi, eppure rimanea sempre terzo ne’ nostri brevi colloqui. Io non amavo queste mezze vittorie; ben di grand’animo mi sarei scagliato su lui, perchè in aperta guerra fosse giudicata la nostra contesa; ma quelle schermaglie, donde non spicciava una goccia di sangue, e assai più fiele per contro si accumulava ne’ cuori, m’erano uggiose oltre modo; però mi tenni in disparte. Se ella non usciva fuor della camera a dirmi alcuna delle sue amorevolezze, io non cercavo di avvicinarmi a lei, e, sotto colore di aver comandi a dare, o di dover osservare la carta insieme col mio còmito, facevo sempre di trovarmi all’ora del pasto in faccende, lontano da essi. La mattina del terzo giorno, ancora tra lume e buio, il marinaio che stava in vedetta annunziò terra da destra. A tutta prima non gli aggiustai fede, chè, secondo i miei còmputi, dovevamo essere ancora più giorni lontani dalle isole dei Corvi marini. Saranno vapori sull’orizzonte, pensai, e l’alba non tarderà a dissiparli. L’alba comparve, bella di tutti i colori dell’iride, vestendo il cielo ed il mare di miti splendori. Le onde, increspate dalla brezza, davan riflessi d’argento; le vele della nave, dispiegate come le ali d’un cigno, si tingeano di rosso, che era una vaghezza a vederle. Gli occhi di tutti erravano incerti da quelle splendidezze vicine a quella parte dell’orizzonte ov’era stata indicata la terra, e dove, man mano che si dileguavano i vapori del crepuscolo, appariva una striscia d’azzurro carico, somigliante ad una nube che incombesse sul mare. Era terra davvero; ma quale? Un’isola al certo, che non pareva stendersi molto lontana sui lati. Forse l’Isola di San Brandano, che, troppo spesso veduta da lunge, fa palpitar d’allegrezza il cuore dei naviganti, e poi, quando la nave si approssima, quando l’occhio desioso sta per afferrarne i contorni, sfugge via via, si raccorcia e sparisce? No; più ci appressavamo e più i contorni di questa si mostravano nitidi, spiccati e recisi a fior d’acqua, davanti ai primi raggi del sole: l’azzurra visione, non che allontanarsi da noi, sembrava venirci incontro sui flutti tremolanti. Anna stessa, uscita poc’anzi, al grido della marinaresca esultante, dimenticò un tratto i suoi dolori, nella contemplazione di quella scena incantevole. A quale isola eravamo noi per approdare? Non certo ad una delle Fortunate, che si aggroppano ad ostro, dirimpetto al lido africano, nè di quelle dei Corvi marini, a cui pensavo di volgere, poste più su a settentrione, di contro al Portogallo. Cotesto argomentavo dai paraggi in cui dovevamo trovarci, rispetto al mare d’alighe donde eravamo stati solleciti a dar volta. E il pensare a cotesto e l’appormi, fu un punto. — Poggia a destra, dritto sull’isola! — gridai al timoniere. — Affè, non si poteva capitar meglio! — La conoscete, messer Gentile? — mi chiese Anna, raccogliendo le ultime parole che io aveva dette in francese per lei. — Sì, ci abbiam toccato altra volta — risposi. È l’isola del Legname. — Che nome! — esclamò ella. — Invero, non è leggiadro; ma così siamo noi, ruvida gente di mare; — notai con amarezza; — tiriamo al sodo perfino nei nomi delle terre scoperte. Poichè il bello non è nato per noi, ci rifacciamo sull’utile. — Oh! che dite voi mai? — interruppe ella, con accento di dolce rimprovero. — Eppure — proseguii — essa è l’isola più bella di questi mari, sorrisa dal cielo più clemente, non contristata dalla presenza degli uomini, i quali la insanguinerebbero coi loro sdegni feroci, ricca d’acque limpide e fresche, di frutti soavi e di più soavi fragranze. Vedete, madonna; incominciano a nereggiare le selve stupende che le meritarono il nome; tra poco, essendo qui eterna la primavera, sentirete i grati effluvii di quel giardino incantato. — Questo — notò ella sorridendo — è più degno di voi, che volete farvi ruvido e non siete. In tal modo ella cercava di temperare la mala impressione fatta sull’animo mio dalle sue prime parole e di stillarmi in pari tempo un po’ di dolce nel cuore. Divina creatura! Si chiudevano nel suo seno tesori di pietà, che pur troppo non hanno fatto migliore quest’indole fiera e selvaggia. Ma se un affetto felice può soventi volte rinfrancare uno spirito infermo, un amor disperato intorbida mai sempre il sangue e lo attossica. Intanto che così parlavamo, la galera, correndo a gonfie vele e a piena voga di remi, si avvicinava all’isola, che dal lido infino alle vette appariva tutta una selva di alberi giganteschi. Dei marinai, che intendevano alla manovra, già alcuni l’avevano ravvisata a lor volta, come quelli che da più anni erano ai miei servigi ed avevano corso meco que’ mari. — L’isola del Legname, non è egli vero, messere? — Sì, quella! Lesti ad imbrogliare le vele quando svolteremo la punta, poichè si va a dar fondo nel porto che già conoscete. Tutti allora affaccendati a chiedersi, a ripetersi scambievolmente il nome di quella terra promessa. — _Madeira!_ — gridò uno di essi, che era portoghese, voltando nella sua lingua la parola italiana. — In che punto del mare è dessa? — chiese Anna allora. Io feci un cenno a Lanzerotto, che fu pronto a scendere nella mia camera, e tornò poco stante col mio portolano, libricciuolo dalle carte di pergamena, su cui erano delineate tutte le coste dei mari conosciuti. Ivi, aiutata dalle indicazioni del mio còmito, ella potè riscontrare la sua Inghilterra, le spiaggie occidentali di Europa infino allo stretto di Septa, e, più al largo sull’Atlantico, l’isola a cui eravamo vicini, col nome impostole da’ suoi scopritori. — Furono i vostri gloriosi maggiori, messere; — notò Lanzerotto, ingegnandosi a parlar francese, per essere capito da lei — furono Ugolino e Vadino Vivaldi, che trovarono questa, coll’altre isole segnate qui intorno. Arditissimi uomini! Essi perirono andando più oltre nelle loro scoperte, là verso scirocco, lungo la costa africana, siccome è perito messer Benedetto, il nobile vostro genitore, or fanno i diecisette anni. — Triste cosa! — esclamò ella, rabbrividendo. — Va, Lanzerotto! — diss’io, mettendo fine ai discorsi del mio còmito. — Sia pace all’anima degli estinti, i quali, più felici di noi, hanno finito di patire. Bada ora a far trarre dalla stiva gli ormeggi; tra mezz’ora ci bisognerà gettar l’àncora. Lanzerotto corse obbediente alla bisogna e noi due rimanemmo soli sulla spalliera, imperocchè Macham s’era poco dianzi tratto in disparte e stava immobile sul ripiano dei bandini, presso la scala di fuori banda, in atto di osservare la spiaggia. — Triste cosa! — ripetè la donna compassionevole. — Ma voi, almeno voi, messer Gentile, tornerete alla patria e vivrete felice coi vostri. — No, madonna, io non ho nessuno sulla terra a cui possa metter conto ch’io viva, e per cui mi abbia a tornar caro di vivere. E già il mio cuore è morto, poichè mi è venuta meno la felicità che speravo. Ella arrossì alle mie parole, chinò gli occhi e tacque. Nè altro io soggiunsi, esacerbato com’ero. Per ventura, lo spettacolo che ci si offriva in quel punto allo sguardo, distolse gli animi nostri da quella mestizia e diede adito a nuovi pensieri. La nave svoltava allora la punta settentrionale dell’isola, navigando a due’ tratti di balestra dal lido. Tutta quella terra felice, dal basso della spiaggia fino agli estremi ciglioni, lunghesso i meandri della costa, le insenature e le sporgenze dei greppi, era come un ammasso di fronde, bello di tutte le temperanze del verde, brizzolato qua e là da ciuffi, grappoli e ghirlande di rose, di gigli e di viole, chè tali apparivano da lunge i fiori ond’era ornata la macchia. Alberi sconosciuti sorgeano dal lido e i rami spenzolavano sotto il peso dei frutti, lambendo ad ogni ora, scossi dal venticello scherzoso, le acque tranquille del mare. Cotale esuberanza di vegetazione io non avevo visto che là. E, spettacolo a gran pezza più nuovo, stormi d’uccelli, mirabili per forme diverse, screziati di vivi colori, si libravano a volo, venendo allegramente a rincorrersi nel sartiame della galera, a posarsi curiosi ed attoniti sul calcese degli alberi, sulla penna delle antenne, perfino sul tendaletto di poppa e sulle posticcie dei rematori. Tutto intorno era un garrito, un cinguettìo, un gorgheggio di dolcissime note, un indistinto di mille fragranze, una festa d’aria, di tepore e di luce, che allargava i petti e li invitava alla gioia. Il paradiso di delizie, perduto dalla colpa dei primi parenti, non era al certo più bello. Io vidi Anna commossa, inebriata da quel concerto di meraviglie. Certo in quell’istante il ricordo de’ miei mali le era uscito dall’animo. Ma non nasceva ella forse allora ad una nuova vita? Come Eva, al suo primo aprir gli occhi nell’Eden, confusa, palpitante, guardava ogni cosa d’intorno e le parea di sognare. Una colomba, dal collo vagamente piumato di nero e tutto l’altro candido come neve, era venuta a posarsi sull’orlo del tendaletto, a due passi da noi. Anna le sporse il braccio in atto di prenderla, ma incerta, trepidante, per tema non avesse quella a spaventarsi e fuggire. La colomba, non pure si lasciò prendere da quella mano leggiadra, ma di slancio volò sull’òmero d’Anna, che mise un grido di stupore e d’allegrezza ad un tempo. — Tutti i cuori son vostri, madonna; — le bisbigliai. — Vi paia ora strano che chi vi ha veduta appena... Volevo dire di più, ma mi trattenni, per non turbare quell’ora di pace. Il porto si apriva davanti a noi e la _Ventura_ vi entrava con rapidissimo corso. — Palpa co’ remi! — gridai, per far sospendere la voga e spegner l’abbrivo della galera, mercè la resistenza di tutto il palamento di destra e manca, tenuto fermo nell’acqua. Spinto dal suo impulso, il legno si inoltrò ancora un bel tratto, indi si fermò, mentre il flutto spumante gorgogliava d’intorno alle pale. Indi a non molto, il ferro a quattro marre pigliava fondo da prora, mentre il palischermo era calato in acqua, per condurre a terra il provese e legarne il capo al tronco d’un albero. Si acconigliarono i remi, si ammainarono le antenne e, mentre una parte della marinaresca attendeva a fare la tenda, noi scendevamo nella barca. Dopo quindici giorni di trabalzamenti sui flutti, di angoscie, di terrori ineffabili, era pur tempo di toccare una spiaggia ospitale. Anna, a mala pena ebbe posto piede sul lido, si chinò riverente per baciare la terra. Io avrei baciato dov’ella passava. VIII. Risiede l’isola del Legname tra le Fortunate e quelle dei Corvi marini, ma non a pari distanza dall’une e dall’altre; ha quelle ad ostro, ma non troppo lungi; queste invece a maestro, e per gran corso lontane. Gira essa cento quaranta miglia tutt’intorno, e la sua forma arieggia la pelta, che è lo scudo delle Amazzoni, o più veramente la luna presso alla seconda fase, voltando il concavo a garbino, mentre una delle punte guarda a scirocco, ove si dilungano alcune isolette brulle, scogliose e deserte, e l’altra a maestro, dietro la quale è il porto, già da me veduto altra volta, dove la galera aveva gettate le àncore. Porto serrato, a dir vero, non era, imperocchè di tali non se ne vede pur uno, bensì rade qua e là, al sicuro da certi venti; tra esse più vasta quella che si apre a garbino, nel verso della gran curva che ho detto. Dalla rada in cui eravamo ormeggiati, sendo il tempo chiaro, vedevasi, forse a quaranta miglia verso greco, un’altra isoletta con quindici miglia di giro, anch’essa già da me visitata ne’ primi viaggi. Per aggiungere alcuna cosa intorno a questa isola del Legname, dirò ch’essa è montuosa come la Sicilia, e sarebbe ancora più fertile, se la mano dell’uomo si facesse a coltivarla. Deserta com’è, abbonda di alberi fruttiferi, tra i quali è notevole il draco, che dà un frutto buonissimo e in tutto simile alla ciliegia, salvo che è giallo. Pregiata è la sua gomma, e in Africa, ove pur cresce quest’albero, è dato ottenerla in tal guisa. Si dà un colpo di scure a’ piedi del tronco, e l’anno di poi le tagliature fruttano gomme, le quali si cuocono e si purgano, e fassene quel sugo rappreso, di color rosso, che è detto sangue di drago, ed è di grand’uso in medicina. Mirabile su tutti è l’albero che in Oriente chiamasi fico d’Adamo, perchè affermano questo aver dato le foglie a coprire la nudità de’ nostri primi parenti, e i rampolli di tal pianta, svelti dal giardino di Eden dalle acque del diluvio, essere stati portati da prima sulle rive del Gange. Dicesi in ebraico _dudain_ e dagli abitanti dell’Africa _banano_. Nascono i fiori a mazzo e di un color di viola; i frutti maturano dolcissimi ed anche se ne spreme un sugo gradevole, inebriante come il vino; sorge il fusto ad altezza di sette in otto piedi, con larghe foglie ricadenti ad ombrello, che albero veruno non ha le più grandi, nè d’un verde più splendido. Non tacerò il prezioso verzino, detto anche _brasile_, il cui legno è di color rosso, molto pesante e duro, e serve alle tinte; nè del cedro, assai somigliante al cipresso, che tramanda odore gratissimo, siccome d’incenso; nè del nasso, pari nelle foglie all’abete, de’ cui rami si potrebbero fare archi buonissimi e fusti di balestra. Di cosiffatti alberi sono ampie boscaglie per tutto e macchie foltissime, spesso intricate in flessuosi nodi dai sarmenti delle madreselve, assiepate d’arbusti, d’erbe odorose e di fiori. Animali malefici non si annidano colà, nè serpi velenose, nè bòtte impure, ma uccelli d’ogni specie più strana, pavoni selvatici, fagiani neri e bianchi, pernici e quaglie, come nelle nostre regioni, branchi di capre e copia di cignali su per le forre. Su questa terra benedetta eravamo discesi. Anna, siccome avviene a chi sia rimasto più dì sul mobile piano d’una nave, si sentìa mal sicura della persona, e, con quel sottile accorgimento che è dote singolarissima della donna, aveva chiesto a Lanzerotto che volesse reggerle il braccio. Al quale ufficio il mio vecchio aiutante s’era posto con sollecito ossequio, mentre io e Macham li andavamo precedendo, per distrigare que’ densi viluppi di caprifoglio, quei bizzarri intrecciamenti di rami, e aprire talfiata a colpi di scure un passo per mezzo ai cespugli. Come l’uomo è bambino! Poichè nè io, nè egli, reggevamo sul nostro il braccio di lei, eravamo più lieti, ci guardavamo manco crucciosi ambidue, e giungemmo a tale di acchetamento, da barattar parole frequenti, come due teneri amici. Errammo un tratto per una macchia di nassi. Il suolo che noi calpestavamo era odorato per una lieta abbondanza d’erbe, le quali si ergevano all’altezza delle nostre teste. Da sette anni per fermo, chè tanti ne erano corsi dopo il mio approdo in quell’isola, orma di piede mortale non s’era più impressa in quella solitudine. Farfalle d’ogni misura, dall’ali vagamente rabescate, svolazzavano qua e là sui vertici delle siepi fiorite; sciami di pecchie ronzavano in aria, s’addensavano a grappoli intorno ai favi silvestri, si lanciavano a volo, soffermandosi il tempo d’un bacio sui calici schiusi, roteando, guizzando, descrivendo ghirigori fantastici lunghesso gli sfondi del bosco; uccelletti leggiadri, dalle penne d’un bel giallo paglierino, ci seguivano, curiosi, di ramo in ramo, salutandoci con un loro verso breve, ma arguto e melodioso come quello degli usignuoli; e di tratto in tratto qualche capra vagabonda, inerpicata alle falde d’un ciglione, lasciava il timo e il sermolino per voltar la testa dal nostro lato e vederci a passare. Rasentavamo, salendo, il corso d’un fiumicello. L’isola ne ha otto, se ben ricordo, copiosi d’acque limpide e fresche. Giunti in un certo punto, si diradò la boscaglia, che scendeva sino al margine dell’onda, intrecciando da riva a riva i suoi rami, e ci si offerse allo sguardo il lieto spettacolo di un vastissimo prato, lussureggiante, per forse due tratti di arco, di colma verzura, e chiuso intorno intorno da una selva di lauri. Lo partiva per mezzo, scorrendo placidamente in un letto di finissima rena, un tortuoso ruscello, le cui scaturigini si vedeano più lunge cadere dal sommo d’una rupe, rotte in argentei zampilli e coronate dall’arco dell’iride. E là, in mezzo a quel prato, poco lunge dal ruscello, solitario e gigante, sorgeva un cedro, che vi pareva messo a bella posta per rompere la cheta uniformità dell’ampio recinto. La natura precorre l’arte, e ciò che questa s’argomenta di creare è mai sempre un’imitazione dei miracoli di natura. Un grido di ammirazione ruppe dai nostri petti a quella stupenda veduta. Colà e non altrove bisognava far alto; intanto, così divezzi dalla terra per lunga sequela di giorni, già sentivamo un tal po’ di stanchezza. Però, fatti ancora un dugento passi, andammo a sederci all’ombra ospitale del cedro. — Sarebbe pur bello di viver qui, — sclamò Anna, rapita, — eternamente qui! — Da voi dipende, madonna, — le dissi. — Del resto, non temete che si abbia a partir subito da questo luogo incantato; per qualche tempo ci bisognerà rimanervi. — Perchè? — dimandò Macham. — Non rimetteremo domani alla vela? — E come? — diss’io di rimando — come lo potremmo noi, dopo tanti giorni di tempesta? La galera ha patito gran danni e occorrerà ristoppare qua e là, fermar tavole sconnesse, altre cambiare a dirittura, segnatamente nel castello di poppa, che più ha sentito della furia del mare. — Sì, sì; — aggiunse Anna — ed anche noi abbiamo mestieri di posarci, di respirare, di raccogliere i nostri pensieri. — E sia — conchiuse Roberto. — Quanti dì rimarremo? — Dica Lanzerotto! — risposi brevemente, lasciando al caso di pronunziar la sentenza. Per fermo il vecchio marinaio mi lesse nell’anima, poichè, rimasto alquanto sovra pensiero, rispose: — Otto giorni almeno. Egli per altro aggiungeva che dovevamo rifornirci d’acqua; che pativamo scarsezza di pane e là erano banani maturi in gran copia, da farne quella specie di pasta serbevole, così utile ai marinai, che n’hanno imparato l’uso dai negri delle spiaggie africane. Inoltre, diceva egli, si voleva dar la muta agli uomini della nave, perchè tutti godessero a terra un po’ di calma, da rinfrancarvi le forze. Macham non si piegava che a malincuore; pur gli convenne acchetarsi a tali ragioni, che non patiano risposta. Deliberati di rimanere, pensammo di allogarci il meglio che ci venisse fatto nell’isola. Sito più acconcio di quello ove stavamo seduti, non era a cercarsi per fermo, e tosto ci disponemmo a mettervi stanza. Gli uni colle scuri ad abbattere tronchi d’albero, mondarli de’ rami inutili ed aguzzarne le punte; gli altri a piantarli in bell’ordine d’attorno al cedro gigantesco e a chiuderne gl’intervalli con rami avanzaticci e virgulti intrecciati; per tal modo e in breve ora fu data forma e stabile assetto ad una capanna, tramezzata in quattro camere: una per Anna, che era la più vicina al tronco di cedro; due alla mescolata per me, Macham, Lanzerotto e i quattro marinai che erano con noi; la quarta finalmente che servisse ad un tempo di tinello e d’ingresso. Le frasche doveano far ufficio di pareti; le foglie di banano, raccolte nei dintorni, coprire il tetto dalle acque piovane, e talune anche servir di tovaglia alla mensa. L’impresa non aveva a finire in quel giorno, ma il grosso della bisogna era fatto in poche ore, e, a ripararci per quella notte, bastava. Due dei marinai, che erano andati colla balestra a scorrer la campagna, tornarono indi a non molto con un capretto ucciso, il quale tosto fu messo in quarti ad arrostire sugli schidioni. Recavano altresì miele silvestre assai bianco e gustoso. Pane e vino s’era tratto dalla nave, ed io fui lieto di aggiungere al pasto alcuni grappoli d’uva agresta, raccattati lì presso, con una giumella di quelle ciliege che i drachi serbavano ancora in buon dato, sebbene già fossimo presso alla calda stagione, in quell’isola beata più precoce che altrove. La mensa fu lieta abbastanza, chè il sorriso della natura festante e quel senso di profonda calma, così dolce, così cara, dopo tanti giorni d’ansie affannose, signoreggiavano il cuore di tutti. Talfiata il viso di Anna si atteggiava a mestizia; gli sguardi erravano smarriti nello spazio, come attratti da una incognita forza nella regione dei tristi pensieri; un sospiro mal represso si schiudeva il varco per le labbra tremanti; ed io allora mi faceva sollecito a svagare quell’anima afflitta con ogni maniera di vuoti discorsi. Lanzerotto, poi, che ci aveva la mente più libera di tutti noi ed il consueto umor gaio per giunta, vedendo come a lui si spettasse di tener vivo il discorso, si messe di grand’animo all’opera, e co’ suoi motti bizzarri e racconti di marinaresche avventure, fatte più amene dalle incertezze e pentimenti di chi cincischia una lingua non sua, la fece più volte sorridere. E furono baleni, raggi di aurora, lembi di cielo per me. Così aspettammo la sera. Il sole si calò, saettando i suoi ultimi raggi, sotto un padiglione di fuoco, indi si ascose nel mare; e noi, abbandonati dalla luce dell’astro, ci raccogliemmo fuor della capanna a preghiera, con quali sensi, e come discordi, Iddio solo conobbe, egli che legge ne’ cuori. Alto silenzio di quella placida notte, io ti ricordo, ti sento ancora nell’anima. Il soffio vespertino stormiva nella boscaglia, agitando i diffusi ombrelli degli alti banani e gli svelti rami dei lauri nereggianti sui confini del prato. Gemea lento il ruscello e la cascata rumoreggiava da lunge, scintillando ai miti raggi della luna, che io non vedevo, ma argomentavo sovrastante a noi, dai limpidi chiarori del firmamento stellato. I mille arcani susurri della selva, sfrusciar di foglie secche al guizzo di innocenti ramarri, cozzar di rami, ronzio d’insetti operosi, saliano confusi al cielo, insieme colle fragranze acute degli alberi resinosi e d’una moltiforme famiglia di piante. Quella pace incantava; quella solennità ergeva lo spirito; quel metro sommesso di umori cristallini, di fremiti, di fragranze e di chiarori notturni, induceva nelle membra un dolce sopore. Avevamo composto ad Anna il suo candido letticciuolo, sopra un soffice strato di erbe odorose. Dalla galera, segretamente ravvolto in uno stendardo, avevo fatto recare il tendaletto di damasco, trapunto a vaghi colori, dintornato di frangie e galloni d’oro, che si stendeva nei dì di festa sul castello di poppa. Al giungere del marinaio con quella soffoggiata sotto il braccio, ella mi aveva chiesto che fosse, ed io le aveva risposto esser il vessillo di San Giorgio, da inalberare sulla nostra nuova dimora. Più tardi, quando ella ebbe veduto il sontuoso drappo, disposto a padiglione e ricadente in larghe pieghe sovra il suo letto, il volto le s’impresse di lieta meraviglia e dolci parole mi dimostrarono la sua gratitudine. Quella sera, dopo averla condotta sul limitare del suo bel nido e datale la buona notte, me ne tornai fuori a pensare, lunghesso il margine del ruscello vicino. Qual varietà di casi nel breve giro d’un mese! Bristol, l’incontro in chiesa, il primo amore, la sconsolata partenza, l’inattesa apparizione della sconosciuta, l’infinto suo stato, la speranza e il disinganno, la tempesta sul mare e la gelosia nel mio cuore, la salvezza sua, non la mia, tutto ciò mi si affollava, mi si agitava confuso, mi turbinava nell’anima. Ed eravamo là, raccolti in quella tranquilla solitudine verdeggiante, in mezzo all’oceano, sotto i grandi occhi di Dio! Dopo avermi scorto fino a quella riva ospitale, con quella donna adorata da fianco, avrebbe Iddio operato un prodigio per me? In qual modo? Per qual merito mio? Non sapevo, non ardivo immaginare; speravo. È così dolce sperare! Mentre io fantasticavo in tal guisa, un’ombra si avanzò chetamente. Era Macham, ed io ne rimasi forte turbato, chè mi parve dovesse egli leggermi dentro nell’anima, o cogliere a volo per l’aure trasparenti i miei diffusi pensieri. — Limpida notte! — diss’egli avvicinandosi a me. — Sì; — risposi — dolcezza ineffabile, pace divina! Egli allora mi pose una mano sul braccio, e levando la fronte per modo che io potei scorgere ogni più lieve moto del suo volto, con accento solenne si fece ad aggiungere: — E in pace dobbiamo viver noi ora. Così vuole la necessità, che è più forte di noi. — Che dirvi, messere? — ripigliai gravemente, — così è. — In pace, dunque; siamo intesi? — E sia; ma dite... Un pensiero mi cruccia, e non debbo tacervelo. Egli rimane fermo che vivremo come fratelli... non già per noi — soggiunsi prontamente — ma per quella donna che è là. I nostri pensieri si innalzeranno liberi a lei, ma i nostri desiderii non profaneranno il santuario ov’ella riposa? Padroni degli atti nostri, quando avremo toccato alla fine del nostro viaggio, qui rimarremo schiavi di una fede scambievole; non è egli vero? Me lo giurate voi, per quanto v’è caro e sacro al mondo, per la donna che amate? Macham mi saettò d’uno sguardo torvo; ma il mio non era manco feroce. Ambidue si incontrarono e giunsero nel profondo del cuore. — Uditemi: disse egli, mettendosi una mano sul petto — io vi odio; ma vi sono debitore della salvezza di lei; abbiatevi il mio giuramento. — Ed io del pari vi odio, Roberto Macham; la terra non ha più profondo abborrimento, come non ha più possente amore del mio. Eccovi la mia mano e la mia fede. In queste parole eravamo giunti ai piedi dell’albero. Una voce argentina si udì per mezzo alle frasche della capanna. Era la voce di lei. — Non andrete dunque a riposarvi, stanotte? — Sì, subito — si rispose — anche noi! IX. La mattina vegnente balzai per tempo dal mio giaciglio e tolsi meco due de’ miei uomini, per andare a scorrere la campagna. Macham voleva seguirmi, ma io lo trattenni. — Chi farà compagnia a madonna? — gli chiesi. — Questa gente è buona e a me devotissima; cionondimeno, Anna non deve rimanere senza uno di noi. Restate, messere; intanto egli c’è qui, nella casa nostra, molto lavoro da compiere. Lanzerotto invigilava quel dì al raddobbo della galera. Oltre i guasti a cui bisognava rimediare nell’opera morta, e segnatamente nel castello di poppa, c’era il timone malconcio, e, nella tema che non avesse a farci qualche mal giuoco in caso di nuova tempesta, lo si era disarmato e tratto a terra, per racconciarlo, o fabbricarne uno di rispetto. Così la spiaggia erasi mutata in arsenale, tutta sparsa com’era di travi squadrate a fil di sinopia, di seghe, accette, seste, martelli e quanti altri strumenti occorrono a mastri d’ascia e calafati. Anche la ciurma, dandosi la muta, era stesa a terra per aiutare i marinai nelle loro svariate bisogne, tra le quali non ultima era la costruzione di una tettoia, per raccogliervi tanti arnesi diversi e tenerli al riparo la notte. In ventiquattr’ore, l’isola aveva pigliato l’aspetto d’una colonia nascente. Io rimasi fuori fin oltre il meriggio, correndo per ogni verso la parte settentrionale dell’isola. La caccia era stata felice oltremodo, e noi recammo selvaggina in gran copia, della quale io feci distribuire la maggior parte alla spiaggia, tra quella moltitudine di operosi compagni. L’omerico banchetto incominciò col tramonto e durò fino a tarda sera; dopo di che, marinaresca e ciurma risalirono a bordo, e Lanzerotto, dato sesto ad ogni cosa, fece ritorno al prato, dove noi avevamo posto dimora. Il giorno appresso, volle andar Macham alla sua volta. Egli mi dava il contraccambio, ed io, tacendo, accettai. Fu quello un giorno felice per me, e il cuore mi balzava per giubilo, quando vidi Roberto allontanarsi colla brigata dei cacciatori e sparire tra i lauri. — Noi andremo, se non vi spiace, a diporto fino a quella cascata; — mi disse Anna, poichè fummo soli. Ella ricusò il braccio che io le profferivo per aiutarla a salire. — Oh, non son più così spossata, come ier l’altro — gridò, sorridendo — e vedrete chi di noi due correrà più leggiero. E invero, nonchè correre, ella pareva sfiorare il suolo, come una ninfa dei boschi. Avea rialzati e, la mercè di un ardiglione, fermati alla cintura i lembi della cotta da cavalcare, con cui era salita in nave dalla spiaggia di Bristol, e il suo piedino snello lasciava a mala pena l’impronta sul pulvinare vellutato dei muschi verdeggianti che tappezzavano il dolce pendìo. I colombi, già conoscendola, le passavano con ali stese d’intorno, e, poco lunge da lei, come per aspettarla, rattenevano il volo. — Cari! non bisognerà ucciderli mai! — esclamò ella invitandoli colle mani a raggiungerla. — Avete pur veduto ieri, madonna! — risposi. — Larga preda abbiam fatto, ma quei candidi volatori furono rispettati dalle nostre freccie; che non mi fosse accaduto di ferir quello che vi posò l’altra mattina sull’omero!... Eran questi i nostri ragionari, nel salir la collina, dietro la selva dei lauri. Indi a non molto, afferrato il ciglione, ci apparve la cascata in tutta la sua orrida bellezza. La era una stupenda veduta, non già pel volume delle acque, che non era smisurato, sibbene per la forma della rupe, stagliata a due piani e tutta irta di punte scogliose, che la facea parere i due cotanti del vero. Rotta tra i massi muscosi, che erano ornati qua e là di felci pendenti, l’argentea vena si spandeva in lucenti zampilli, gorgogliava, spumeggiava, ribolliva, per indi tornare a scorrer veloce, impaziente come saetta dall’arco, in un cavo letto di pietra, e giunta sull’orlo del secondo ripiano ove noi eravamo, infuriava, superava gli ostacoli, precipitando fragorosa da una ragguardevole altezza. Il rumore incessante della caduta non tornava molesto a noi, che stavamo più in alto; il romper dell’onda lì presso, il suo risalire e lo spargersi in finissima pioggia, dava all’aria tutt’intorno un senso di dolce frescura. Sedemmo sul verde tappeto, quasi al margine della cascata. Anna rimase lunga pezza estatica a contemplare quel lavorio d’acque frettolose, che, spartite al sommo della rupe in rivolini e zampilli, si raccoglievano tosto in un fascio, per correre un tratto pianamente sotto i suoi occhi, indi spartirsi da capo, innalzarsi, flottare, e rovesciarsi in larga piena nella valle di sotto. Ella mi accennò poscia, là in mezzo a quel corso d’acqua, un picciol masso sporgente ed una pianticella che, tratto tratto percossa dalle onde soverchianti, agitava tremando le sue larghe foglie frastagliate. — Vedete la poverina, come risica ad ogni istante d’esser travolta! Così — soggiunse ella con accento di mestizia — la nostra nave sui flutti! — Ma Dio — risposi — ha salvata la nave e salverà quella pianta. — Sì, ben dite — ripigliò. — Perchè l’avrebbe egli posta colà, tra que’ due rabbiosi, che vanno a gara scuotendone il gambo sottile? Nel piegarsi ad ogni urto sta la sua forza. E vedete, messer Gentile, come anche ella, in mezzo alle tribolazioni, ci ha le sue gioie? Ha messo un fiore. — Lo volete? — diss’io, balzando in piedi ad un punto. — No, no! mio Dio! mi fate paura.... — gridò ella trattenendomi. — Andate piuttosto laggiù, sotto quella rupe, donde spenzola quel fascio di candidi fiori stellati, e portateli a me. Neppur quella è facile impresa! — soggiunse, per farmi parer più dolce l’andare. Quello che Anna chiedeva era il fiore immortale. Cresce ad arbusto e le corolle son bianche e stellate, siccome la margheritina dei nostri campi, ma molto più grandi, e durano per mesi ed anni senza avvizzire; donde il nome che portano. Sollecito io corsi, mi inerpicai tra’ sassi, colsi quanti più mi venne dato di que’ candidi fiori, e tornato a lei, mi feci ad intrecciarne una corona, mentre venivo dicendole il nome di essi e i pensieri che quel nome mi destava nell’animo. — Immortali, sì veramente, madonna! Sbocciati al tiepido soffio di questa primavera, essi vivranno più a lungo della mia memoria in cuor vostro. — Perchè dite voi ciò? Credete voi così fugace la gratitudine in cuore di donna? Io mi ricorderò sempre di voi, come del più nobile cavaliero che meritasse mai la mia stima! — Ah! sì; — proruppi — e frattanto, partiti da quest’isola, il che avverrà troppo più presto che io non desideri, la _Ventura_ vi metterà ai lidi di Spagna, e voi sparirete, sparirete per sempre dai miei occhi, leggiadra visione, che mi avete fatto parer bella la vita. Ella rimase un tal poco sovra pensiero; io muto, ansante, in attesa. — Giovine siete ancora — mi disse finalmente, con voce impressa di soave malinconia — e molte gentildonne ha la cristianità, fiorenti di bellezza e di gran pregi ornate, le quali andrebbero superbe di appartenervi. Amate, messer Gentile, scegliete tra quelle; io non merito l’amor vostro. Non mi dite nulla, ve ne prego! So quello che ne pensate, cortese come siete, e vi ripeterei sempre: non sono degna di voi; ad altra donna ha da profferirsi il vostro gran cuore. — No, nessun’altra! — gridai! — Badate, Anna, vi parlo così schiettamente come parlerei al cospetto di Dio, che mi legge nel profondo dell’anima. Io non vi contenderò a quell’uomo; ma sento qui dentro che non amerò più donna al mondo, e che morrò di affanno lontano da voi. Ciò vi duole? Non ne parliamo più oltre. Vedete, io sono pur lieto nella mia tristezza. Anche quella povera pianta, dicevate, in mezzo alle tribolazioni ci ha le sue gioie. Ora, la mia gioia è di vedervi salva. Il fiore non sarà mio, pur troppo; ma almeno e’ non sarà dannato a perire. Commossa, ella mi porse la mano, che io afferrai e, tratto da un impeto irresistibile di tenerezza, vi posi le labbra. Il bacio fu così ardente, che Anna ritrasse sbigottita la mano. — Perchè? — le chiesi tremante. — Ah! — sclamò, con accento di mortale angoscia. — Non mi fate doppiamente colpevole! Io m’ero accasciato singhiozzando, colla fronte tra le palme. — Suvvia, ve ne supplico, messer Gentile, amico mio, siate più forte, se volete che io del pari lo sia. Vedete? io sono nel vostro medesimo stato. Sì, anche la mia vita è condannata. Più che alle sue preghiere e al dolce nome d’amico, rizzai la fronte a quelle ultime parole ed attonito affissai lo sguardo nel suo volto pallido. Ella proseguì. — Questo tragitto fortunoso fu un alto insegnamento per me. Non so, nè mi curo di sapere che penserà l’uomo da me abbandonato. Non è tutta mia la colpa di ciò che è avvenuto, ed io potrei aggiungere che non ne ho alcuna davanti a quell’uomo. Ma davanti al cielo?.... La donna che infrange il patto, qualunque ei sia, giurato a piè dell’altare, nel santo nome di Dio, non ha speranza di perdono. Perchè?... Lo ignoro. La legge è dura, ma è legge, e sebbene lo spirito d’una misera donna si ribelli al vincolo che la fa schiava contro sua voglia, ella ha gravemente peccato, ella che poteva resistere da prima, ella che poteva morire, e non seppe. Ma io espierò questa colpa; l’ho giurato e non infrangerò quest’altro giuramento, che fu pronunziato con libere labbra. — E che farete? — Se il cielo ne consentirà di approdare in terra di cristiani, andrò a chiudermi in un monastero. — Dio santo! — sclamai, perduto dell’intelletto, nè sapendo se quell’annunzio dovesse farmi più lieto, o più triste. — E sa Macham del vostro proposito? — No; egli ne morrebbe forse. Ma che fare, se ad ogni uomo che m’avvicina io porto sventura? Cercherò io di disporlo a questo fine, con mezze parole che lo avvezzino al pensiero di separarsi da me? Gliene darò d’un tratto l’annunzio? Questo non so dirvi ora; mi avverrà forse come oggi con voi, innanzi di uscire da quest’isola, o più tardi, quando avremo toccato un lido ospitale. Comunque sia, il mio voto è irrevocabile. E’ fu in mezzo alla tempesta, dopo tanti giorni che la rabbia del mare pareva dovesse inghiottirci ad ogni ora. Iddio ti punisce! mi bisbigliava una voce arcana, che mi fa tuttavia rabbrividire di spavento e di orrore. E allora giurai; giurai che, se la nave fosse uscita salva dal turbine, avrei battuto alla porta d’un chiostro e consacrata al Signore questa misera vita. Sul mattino cadde il vento, si chetò la furia delle onde; il cielo aveva accolto il mio voto. Ditemi ora, messer Gentile, non sono io nel vostro medesimo stato? Io, voi, tutti, siamo condannati a soffrire; eppure, vedete, anche l’affanno ha i suoi momenti di sosta. Quest’isola benedetta mi è apparsa come l’òasi nel deserto allo stanco pellegrino; un lampo di contentezza mi ha rischiarata la fronte. È breve riposo; che importa? Non dobbiamo accogliere con lieto animo le consolazioni che il cielo ne manda, per ripigliare più forti la via del dolore? Io la guardavo trasognato, così nuove erano quelle parole per me. — E siete rassegnata? — le chiesi. Anna mi rispose con un cenno del capo. Un demone allora mi soffiò un acerbo dubbio nel cuore. — Amate voi sempre Macham?.... — incalzai; ma già pentito di quell’ardimento — Ah! no, non mi rispondete! — gridai. — Non mi dite nulla, non vo’ saper nulla; vi ho fatto una stolta dimanda! E per non udire più altro, balzai in piedi, lasciandola sola e correndo a passi concitati lunghesso il margine dell’onda. La mia fronte ardeva, e, per virtù d’istinto, non già per meditato consiglio, mi feci a’ pie’ della rupe, per sentirmi sul volto gli spruzzi della cascata. Se Macham fosse giunto in quel momento tra noi, ben si sarebbe avveduto del mio turbamento, chè non venni a capo di padroneggiarmi sì tosto. Ella era rimasta seduta, guardando mestamente la ghirlanda di fiori immortali, da me intrecciata pur dianzi, che le posava in grembo. Stetti a contemplarla da lunge, bella nel suo dolore, siccome era bella nei lampi di gioia, ahi! troppo fugaci, che io vidi trasparirle dagli occhi. E mi struggevo, guardandola; mi struggevo, pensando che non era per me l’amor suo. Insaziabile è l’uomo; ottenuta tal cosa che egli anelava, pur non si cheta e vorrebbe mai sempre di più. Io volli farla tacere, ed avrei voluto che ella, non curando le mie preghiere, avesse pure parlato. Ero profondamente, ferocemente lieto di quel voto, che la toglieva ai baci del mio rivale, e già volevo regnar io, sapere la mia immagine scolpita nel suo cuore, rivaleggiare, anco lontano, col cielo, nella dolorosa solitudine del chiostro. Appena mi si fu chetata alquanto quella tempesta nell’anima, tornai al suo fianco. — Povero amico! — mi disse ella, alzandosi. — Venite e datemi il vostro braccio. E si appoggiò sopra di me, fidente come una sorella. Io, pur di sentire il suo braccio sul mio, avrei mentito a me stesso. Balenavo, inoltrando il passo; e nondimeno, vacillante, confuso, acciecato, sorreggevo lei nella discesa. — Non parliamo più di cosiffatte mestizie! — mi disse ella, quando fummo giunti sul prato. — Vedete questo bel cielo? Esso ne incuora ad esser forti, mostrandoci il sereno che ci attende lassù. X. Quel colloquio gittò il mio intelletto in una specie di torpore, che era vigilia e sonno ad un tempo. Nè mia, nè d’altri! Questo pensiero mi mostrò lo stato nostro sotto un aspetto che io non aveva meditato ancora; laonde restai come smarrito, vedendo la mia sventura, senza sentirla, e soffrendo, senza saper di che cosa. Cotesto ha somiglianza colla follia, e veramente mi pareva che il lume della ragione entro di me vacillasse. Cansai frattanto le occasioni di trovarmi solo con Anna. Il forte amore ha talvolta di cosiffatte lacune. Non amiamo noi forse con tutte le potenze dell’anima? Or bene, dove una di esse, la speranza, s’involi, il suo luogo rimane, e guai, se la bella consolatrice non torna a colmare quel vuoto; imperocchè esso man mano si allarga, t’invade e ti piomba inesorato nel nulla. Il mio proposito, se tale fu veramente e non piuttosto un inerte mancar di propositi, mi tornò agevolissimo, dappoichè Roberto Macham era pronto mai sempre a restare, e per tal guisa accadde che tre giorni alla fila andassi io cogli uomini della scorta a correre i boschi. Nell’ultima di quelle caccie eravamo andati alla posta del cinghiale, sendo le foreste abbondavano di questi animali, in tutto simili a quelli delle spiaggie africane, dal grifo e dalle orecchie più aguzze, e dalle setole più sottili e lucenti che non gli altri d’Europa. Senza una muta di bracchi da sangue, tornava assai malagevole rincorrerli per le fratte; ma gli uomini miei, già usati a tal caccia, me ne avevano fatto ressa, e questa parendo a me più acre bisogna che non fosse il saettar capre pascenti, e pavoni appolaiati sulle rupi, mi ero piegato a’ lor desiderî. Ci addentrammo in un salvatico, che già si era da noi costeggiato per due o tre miglia all’intorno, e ci mettemmo in caccia, procedendo alla spartita, ma non così l’uno dall’altro discosti, da non poter tutti all’occorrenza volare in aiuto a quello di noi, che dèsse la levata al cignale. A me per l’appunto venne fatto di scovarne uno, gagliardo di membra e armato di due zanne lucenti ed acute, che prometteano una terribil difesa. A mala pena m’ebbe udito allo sfrusciar delle foglie, la fiera si volse, mi guatò grufolando e balzò da un lato per mettersi in fuga; ma indarno, chè io già avevo tolta la mira e il mio verrettone, sibilando veloce per aria, le si ficcava nel dorso. Diedi incontanente un grido ai compagni, perchè fossero pronti ad accorrere; intanto il cignale guaì, dolorosamente storcendosi, e di fuggente divenuto assalitore, mi si scagliò addosso con furia. Io non feci in tempo ad aggiustare un’altra volta la mira; laonde, senza gittar la balestra, che poteva giovarmi contro il primo impeto della belva, cacciai fuori il coltello, e tosto, sentendo l’urto del nemico, gli piantai sottomano la lama nel petto. Ma caddi in pari tempo sotto quella rovina, e mi era tolto ogni scampo, se Lanzerotto non giungea pronto al soccorso. Balzò egli da un folto cespuglio e, avventatosi alla groppa del cinghiale, che già m’aveva malconcio, lo finì d’un rapido colpo alla gola. Soppraggiungevano intanto gli altri quattro compagni e mi traevano d’addosso l’immane fiera sanguinolente, il cui morso disperato m’avea colto poco sopra al ginocchio. Mi alzai, aiutato da quegli amorevoli, ma a stento mi reggevo sui piedi; però egli fu mestieri portarci, vittima ed uccisore, a gran forza di braccia. Quando giunsi, disteso su di una informe lettiga di frasche, alla nostra capanna, fu una mestizia da non si poter dire a parole. Tutta piangente, come quella che in sulle prime avea temuto di peggio, Anna si avvicinò al mio giaciglio, volendo ella stessa asterger la piaga. Lanzerotto, a sua volta, diventato di punto in bianco cerusico, la spalmò alla marinaresca con una sua colla di pesce, utilmente sperimentata in moltissimi casi. Per ventura, lo squarcio era assai più largo che profondo, e il maggior guaio era stato lo spargimento copioso del sangue. Rimasi a giacere tutto quel dì, e il vegnente eziandio. Macham, non potendo altrimente, andò egli co’ marinai per le nostre quotidiane provvigioni di selvaggina, ed io gli chiesi, in grazia, che non si dèsse più oltre levata a cinghiali. Promise egli, dopo che Anna ne lo ebbe scongiurato a sua volta; ma si mostrò corrucciato, come se io avessi voluto serbare per me il privilegio dei corsi pericoli. Io non posi mente a cotesto, e feci anzi che Lanzerotto lo accompagnasse, quantunque la presenza del mio còmito fosse per avventura più utile in quel giorno alla spiaggia. Ella mi tenne compagnia, in quelle lunghe ore di riposo, tutta soave ed amorevole in vista, vegliandomi con materna cura, nè consentendo che io facessi lunghe parole. Forse temeva per me, fors’anco prevedeva nell’animo dove sarebbe andato a parare il discorso. E mi tacqui, contento a guardarla, a sorbir da quegli occhi il dolce veleno. Intanto la natura riparatrice operava dentro di me, e due giorni dopo, rammarginata la piaga, cessati gli spasimi, io potei dirmi risanato senz’altro. Ero già uscito fuori con Anna, passeggiando lentamente sul prato, allorquando ci vennero udite le liete grida dei cacciatori che tornavano a noi. Mi volsi, e vidi Macham da lunge, piantato sulla rupe della cascata, colle braccia conserte al seno, in atto di guardarci. Poco stante si mosse e, seguitando i compagni, giunse a noi, più accigliato, più fosco, più taciturno che mai. Il pasto fu malinconico e grave, come di gente impacciata, o pensosa. Nè egli disse parola, nè io, e, levata la mensa, uscimmo all’aperto. Volevo lasciarlo solo con lei, e mi disponevo ad uscire dal prato; senonchè, fatti appena pochi passi tra gli alberi, mi accôrsi che egli mi veniva da tergo. — Come va, Adone? — mi chiese egli, accostandosi. — Adone! — sclamai, trasognato. — Perchè Adone, e che volete voi dire? — Sì; invero egli corre una certa differenza tra i due — disse egli di rimando con sarcastico piglio. — Adone, il prediletto di Venere, fu ucciso a dirittura dal cignale e pianto amaramente da lei, che mutollo in anèmone. Voi, più felice, vivete, e la dea vi sparge i pietosi balsami sulle innocenti ferite. — Ma, in nome del cielo, che dite voi mai? — Dico — tuonò Macham, con accento mutato — che avete fallito al vostro giuramento. — Messere, per l’anima mia... — No, voi mentite! Gli era troppo, e a me parve d’essermi contenuto abbastanza. — Roberto Macham — risposi, con voce soffocata dall’ira — debbo compiangervi. Dar del mentitore a me, voi? Siete un pazzo. Sospettare di Anna? Siete un codardo. — Ah, non parlate di lei, se vi è cara la vita! Io potrei invogliarmi di sperimentare se quel vostro coltello vi trema nel pugno al cospetto dell’uomo, come davanti al cignale. — Abbiatevi questo sollazzo! — gridai, accennandogli di seguirmi. Così fece egli, e con rapidi passi m’entrò innanzi alla volta del bosco. Io zoppicavo un tal poco, ma che m’importava? Da lungo tempo io m’aggiravo in un ginepraio, senza trovarne l’uscita. Ora, l’uscita era là, pronta, onorata e sicura. Il cielo rannuvolato e il tuono che brontolava da lunge, pareano rispondere al sordo rumoreggiare delle nostre collere. Andavamo per quella medesima via che io avevo già fatta pochi dì prima con Anna, e, così frettolosi, spronati da un pari desiderio di sangue, giungemmo in breve a quel ripiano verdeggiante di muschio, che si stendeva ai piè della rupe. — Qui! — mi disse egli, fermandosi. — E sia! — risposi. Egli furente, io non meno di lui, avevamo sguainati i coltelli. Squadratici per pochi istanti nel viso, eravamo per serrarci l’uno sull’altro, quando un grido acuto s’intese, e tosto un mutar di passi tra gli alberi che vestian la collina. Era Anna con Lanzerotto, e questi, che la precedeva, sbucò veloce dal folto dei rami. — Fermatevi! — gridò egli, agitato. — Madonna vi chiede in grazia di attenderla. Ed Anna giunse, che appena egli aveva finito di parlare. Scomposta, ansante, pallida come persona morta, si gittò in mezzo a noi. — Dio santo! Vorrete farmi morire dannata? Ma che è ciò, uomini feroci, che è ciò? Quale rispetto è questo, non dirò di me, che pel mio fallo son degna di cosiffatti dispregi, ma del nostro medesimo stato? È egli qui che rimarremo tutti sepolti, senza speranza del perdono di Dio? E cotesto doveva io aspettarmi da’ pari vostri? Ah, messeri, que’ coltelli branditi.... Ve ne supplico, abbiate pietà d’una misera donna! E svenne. Gittato il coltello, fui pronto a sorreggerla, ma lasciai tosto nelle braccia di Lanzerotto e di Macham il dolcissimo peso, e corsi alla cascata lì presso, donde tornai recando acqua nel cavo della mano, a spruzzargliene il viso. Ciò non bastando, eglino la trassero, guidati dal mio cenno, al margine dell’onda scorrente, dove le cure nostre e la frescura del luogo le fecero finalmente ricuperare gli spiriti. — Ah! — mormorò ella, riaprendo gli occhi. — Roberto! Messer Gentile! Ho io dunque sognato? — Perdono! — balbettò Macham, buttandosi ginocchioni al suo fianco. Il tuono rumoreggiava più da vicino, il cielo si era fatto più fosco e larghe goccie di nembo cominciavano a cadere; però ci disponemmo a partire di là. Anna non poteva muoversi, tanto era rifinita da quella scossa violenta, e fu mestieri portarla sulle braccia; malagevole uffizio in quel colmo di piante; onde il viaggio fu lungo, e già eravamo molli di sudore e di pioggia, quando giungemmo al riparo. Il temporale ingrossò via via con rapidità spaventosa; ma noi non si pose mente nè alla pioggia dirotta, che scrosciava sulla impavesata del tetto, nè ai fulmini che spesseggiavano con orrido schianto dintorno, mettendo sinistri bagliori attraverso le frasche della capanna. Di lei ci davamo pensiero, di lei che malviva giaceva sul casto letticciuolo, portando innocente la pena de’ nostri odii feroci. Senonchè, sul far della notte, il vento, che aveva preso a soffiare con forza, scuotendo gli alberi della selva vicina, ci fe’ pensare alla _Ventura_, ormeggiata nella rada. — Siamo su due àncore e saldo è il provese — mi dicea Lanzerotto, al quale avevo toccato delle mie apprensioni. Ma neppur egli viveva al tutto sicuro, imperocchè soggiunse più tardi, come parlando a sè stesso: — Per altro, e’ non sarebbe male assicurarsi con un cavo di giunta. — E veduto come il vento, anzi che scemare, rinforzasse, pigliò una pronta deliberazione; indossato il suo gabbano col cappuccio di tela incerata, non guidato da altra luce fuor quella de’ lampi, uscì fuori speditamente, per condursi alla spiaggia. Lo aspettai lunga pezza in silenzio, lo aspettai pazientemente fino a notte colma, mentre la bufèra scatenata imperversava sempre più forte; da ultimo, parendomi soverchio l’attendere, mi risolsi d’andare io medesimo sull’orme del còmito. La povera bella, vinta dalla stanchezza, dormiva, sebbene d’un lieve sonno, interrotto da subitanei sussulti ad ogni scoppio di tuono; Macham vegliava, seduto in sul limitare, col mento sul petto, gli occhi fisi in quel pallido volto adorato. Col gesto, più che colle parole, gli accennai dove andavo, e mi mossi. Uno de’ marinai volle venirmi compagno. Uscito all’aperto, sotto quella tempesta, che mi faceva piegare mio malgrado le spalle, intesi il perchè Lanzerotto potesse tardare così lungamente al ritorno. Il prato, pel gran rovinìo della pioggia, erasi mutato in un vasto padùle e ci s’andava a guazzo, affondando i piedi nel fradicio terreno. Peggio fu, quando ci bisognò entrar nella macchia, la quale per larga lista ci divideva dal lido. C’inoltravamo brancolando come ciechi in quell’orrore notturno; ogni traccia di sentiero perduta; i lampi non rischiaravano davanti a noi che irti ammassi di fronde, e il vento ce li batteva rabbiosamente sul volto. Dopo molte fatiche durate in quell’andirivieni, io m’avvidi che, in cambio di scendere, prendevamo a salire. Certo era smarrita la via. Che fare? Il meglio era di dar volta verso la discesa, sperando di udire indi a poco il mormorio del fiumicello, che avrebbe potuto guidarci. Ma in mezzo a quell’alto frastuono niente si udiva; solo il bagliore della fòlgore venne più tardi a mostrarci la correntìa vorticosa d’un torrente gonfiato, che già eravamo sul punto di mettervi il piede. Balzammo indietro atterriti, tentando di andar oltre, lunghesso la sponda: ma indarno, chè laggiù il rigoglio delle male erbe, il viluppo dei rami, eran più folti a gran pezza. Errammo per tal modo alla ventura, fino a tanto il fragore dell’onde non ci mostrò essere noi pervenuti alla meta. Ah finalmente! ecco il mare! Ma la galera dov’è? Forse abbiamo di soverchio piegato e siam giunti ad un’altra cala dell’isola? Ma no; un lampo schiara lo spazio; è ben questo il lido; ecco il palischermo tirato sull’arenaio; ecco la casupola de’ nostri artieri; ecco le travi squadrate. E la nave? Un brivido mi corse per l’ossa; gettai un grido altissimo a cui non rispose che il vento co’ suoi sibili acuti e il flutto co’ suoi cupi fragori. La rada era deserta. M’aggirai tutto intorno, cercando il tronco d’albero a cui sapevo esser raccomandato il provese, e lo trovai finalmente. Il nodo era intatto, ma la fune giaceva lenta sulla rena, spezzata poche braccia più innanzi. Questo mi rimaneva, e non altro della mia povera nave. Fieramente percosso da quella sciagura, rimasi a lungo inerte sul lido. I primi barlumi dell’alba comparvero sul mare in tempesta, e ben vidi allora come noi fossimo soli. La galera non si scorgeva in nessuna parte di quelle onde sconvolte, che già il turbine l’aveva sbalestrata assai lunge. Forse più tardi i marinai avrebbero rimesso la prora sull’isola; ma come potrebbero governare? Il timone, rifatto pur dianzi, giaceva ancor sulla spiaggia. E Lanzerotto? Udii poco stante la sua voce da tergo. Il poveretto, già tornato alla capanna, aveva ripreso cammino per venire in traccia di me. Volò alle mia grida, e m’abbracciò singhiozzando; indi si fece a raccontarmi tutto ciò che sapeva. Egli era giunto sul lido in tempo per veder la catastrofe. Spezzati gli ormeggi e il provese dalle incalzanti folate, la galera aveva preso a correre, trabalzata sui flutti, e a lui erano giunte le strida compassionevoli dei compagni perduti. Gittare una gomena a terra non aveano potuto, poichè la nave in un batter d’occhi era stata sospinta al largo e così tratta in balìa del turbine, che egli, pochi istanti più tardi, non aveva scorto, nè udito, più nulla. Dov’era ella travolta? Il vento soffiava da ponente maestro, e, prima che si chetasse quella sua foga, la _Ventura_, se pure non le si schiudevano inesorabilmente sulla tolda i gorghi del mare, avrebbe fatto così lungo cammino da non osar più dar volta, senza governo com’era. Ed egli, povero Lanzerotto, era tornato in furia ad avvisarmene; ma, pur troppo, non aveva fatto altro che accrescer travaglio ai rimasti. Anna, all’udire il tristissimo annunzio, era stata colta da una febbre ardente; Macham si struggeva di dolore e di rabbia, non sapendo come darle sollievo. Questo era il colpo di grazia per me. Senza darmi pensiero più oltre della galera perduta, senza badare all’acqua che mi scorrea gelida per tutte le membra, presi la via della macchia, e corsi, volai alla nostra capanna. Tristo spettacolo mi si offerse allo sguardo, come fui giunto colà. Anna era in uno stato, che non saprei dirvi il peggiore. Scomposte pei tremiti convulsi della persona, le nere chiome si spargeano sul petto; le guancie ardevano, come divenute di fuoco; gli occhi scintillavano nelle orbite incavate, tanto guasto avea menato il male in brev’ora! Allo sguardo smarrito che volse su me, mi addiedi com’ella non mi conoscesse già più. Colta da delirio, usciva in parole rotte, confuse, piene di arcani terrori. M’ingegnai di calmarla; ma ciò non le avvenne che assai tardi nel giorno, e non già pe’ miei grami conforti, sibbene perchè, ridotta allo stremo, si accasciò sul guanciale, raffermando le ciglia stanche, mentre i moti affannosi del seno e il lento rammarichìo delle labbra socchiuse, mostravano esser di poco scemato il patire. Per due dì il povero Lanzerotto si pigliò cura d’ogni cosa per noi. Egli mandava or l’uno or l’altro de’ quattro marinai in vedetta sui greppi, nella speranza che avesse a scorgersi in alto la nave; egli badava al còmpito di rifornire di vettovaglie l’assottigliata colonia; egli intendeva operoso, amorevole e provvido, a tutte le faccende di casa. E per due giorni si visse così, muti, inviliti, sospesi tra dubbio e timore. La tempesta era cessata, ma il vento durava gagliardo, nè la _Ventura_ si vedeva apparire. Orrido luogo, pauroso deserto, quell’isola, a cui pochi dì prima eravamo approdati con tanta allegrezza! Anna inferma e forse in fin di vita; noi soli, chiusi, separati dal mondo, senza poterla soccorrere che colla rozza arte e i manchevoli accorgimenti del marinaio! Macham, triste, abbattuto, divorato dai rimorsi, facea compassione a guardarlo. Di me non so, quale apparissi ai compagni; ma il pensiero di quella solitudine, di quella impotenza nostra, mi pungeva ad ogni ora, mi lacerava, mi struggeva nel profondo del cuore. La mattina del terzo giorno, Macham era stato colto dal sonno ai piedi del letto di Anna. Ella s’era desta pur dianzi, e mi venìa guardando coi suoi grandi occhi accesi dalla febbre, come se volesse indagare i miei più riposti pensieri. — Risanerete tra breve! — le dissi, componendo le labbra a sorriso. — No, amico mio, questo è giudizio del cielo! — mi rispose ella, crollando mestamente il capo. — Eccoci qui, chiusi per sempre, sepolti vivi in questa solitudine. — Oh, v’ingannate! la _Ventura_ tornerà. E poi, ci rimane il palischermo; nol sapevate? Possiamo adattargli una vela, e, se un tragitto di alcuni giorni in così piccola barca vi spaventa, andrò io, con due marinai, fino a Cadice, donde, noleggiata una nave, torneremo a questa volta. Conosco il mare, non temete, e vi condurrò in salvo a quel porto che vi piaccia di eleggere. Ma state di buon animo, ora, e badate a rifarvi. A queste mie parole ella parve chetarsi; indi a poco, soavemente rinchiuse le palpebre, s’addormentò in un placido sonno, che durò parecchie ore del giorno. Ma verso sera, chiamatomi al suo capezzale, quasi proseguendo il colloquio della mattina, mi disse: — No, messer Gentile, non tornereste più in tempo. Rimanete, amico mio; mi sento morire. XI. Morire! Morire in sul fiore della gioventù, nello splendore della bellezza! Ma perchè, grande Iddio, perchè allora vestir la creatura di tanta luce e porre questo miracolo di leggiadria sulla terra? Imperscrutabile arcano! E nondimanco, è in noi qualche cosa che si ribella e pugna e fa forza, quantunque invano, contro il pensiero della morte di una persona diletta. Egli sembra di lottare colle livide immagini d’un orrido sogno; non è, non può, non deve esser vero ciò che avviene di noi; pure, eccoci stretti, soffocati, nelle braccia poderose dell’incubo. E che! Si spegneranno quelle luci che così soavemente ci guardano, da cui traspare l’angelico riso dell’anima? Quelle dolci labbra che ci parlano, che ci dicono le gioie e gli affanni, che ci rendono ancora le più lievi sfumature dell’ascoso pensiero, quelle delicate sembianze che tanta impronta pur serbano del nume creatore, non le vedremo noi più, si scomporranno, cesseranno di essere? Agonia senza fine dolorosa! Preghiere, scongiuri, minaccie, tutto si tenterebbe in quell’ora, per rattenere la spietata mano del Tempo. Ma che valgono le tue lagrime, che valgono i tuoi furori, povero stolto! La Parca prosegue lenta, sicura, inflessibile, il suo ultimo uffizio. La clessidra del vecchio è all’ultima goccia; nelle mani della Parca, ecco, il filo è reciso; gli occhi si chiudono, le labbra son mute, il freddo della morte irrigidisce quelle membra adorate. E il tuo cuore in quel punto si spezza; ma tu non muori già, come pure sarebbe pietà consentirti; tu vivi, perchè devi soffrire; senti e vedi, perchè devi rimanerti spettatore della tua stessa rovina. A me quelle parole di Anna aveano recato un colpo fatale. Non piansi, impietrai. Non più un concetto, poichè quella luce dell’anima mia era sul punto di spegnersi; non più un disegno formato, poichè la mia speranza moriva. A che mi sarei adoperato? Perchè avrei quind’innanzi pensato? Tutto ciò era vano oramai. Il suo stato andò peggiorando quella notte, e più ancora nel giorno appresso. La febbre, acuta, intensa, la consumava ad occhi veggenti; nè la grama sapienza di Lanzerotto valeva ad arrestare quello struggimento continuo di forze. Qual nuova virtù di stillati poteva egli scoprire, che temperasse gli ardori di quel sangue infuocato? E come fidarsi, egli, ignaro di tanti partiti e sottigliezze dell’arte, all’uso d’erbe mal note, onde abbondava quell’isola? Senonchè, pur troppo, nessun farmaco avrebbe giovato, ed io pensai che tutti gli elettuari della scuola Salernitana e i succhi decantati degli Arabi infedeli avrieno fatto mala prova contro un male che risiedeva nello spirito. La notte sopra il terzo giorno, essendosi ella assopita, ero andato a buttarmi sul mio giaciglio, intirizzito dal freddo, colto da brividi frequenti, sebbene la calda stagione regnasse e l’aria fosse tutta una vampa. Le mie membra affralite aveano anch’esse ceduto alla stanchezza delle prolungate vigilie e un lieve sopore m’era disceso finalmente sugli occhi, non già nella mente, poichè il sogno mi raffigurava la moribonda che colla voce spenta e col gesto faticoso mi chiamava al suo capezzale. Mi destai in sussulto, balzai sgomentito in piedi, temendo di aver troppo a lungo riposato e di non giungere in tempo a raccogliere il suo ultimo sospiro. Macham era presso di me; egli stesso mi aveva destato. — Venite, messere; — mi disse egli tristamente. — Anna ha chiesto di voi. Lo seguii tremante nella camera attigua, che era rischiarata dal fioco lume di una lucernina di creta. A mala pena mi vide, la povera bella tentò di sollevare il capo, salutandomi con un filo di voce; io mi precipitai alla proda del suo letticciuolo, rompendo in amaro singhiozzo. — No, sedete qui presso; — mormorò ella. — Tristi cose ho a dirvi, e tali che strazieranno il cuore d’un amico. Ma così è, messer Gentile; siate paziente anche voi. Il cielo mi concede un po’ di forza, perchè io ne usi a metter l’anima in pace. Desidero confessarmi a voi; accoglierete la mia confessione? Fui per ricusare, ma la solennità della preghiera mi vinse. Levati gli occhi al cielo, come per implorare la forza di subire quel nuovo martirio, mi assisi al capezzale della cara morente. Macham si era ritirato nella camera vicina. Con voce fioca, ma sicura, chè il desiderio di morir perdonata le facea raccogliere tutte in quell’opera le forze stremate, Anna si fece allora a raccontarmi partitamente la sua vita. Dio santo! Fu quella un’ora di acerbi patimenti per me. Ella nasceva dai Dorset, nobile e facoltoso casato d’Inghilterra. Uno de’ suoi maggiori aveva seguìto Riccardo Plantageneto, nominato Cuor di Leone, all’impresa di Terra Santa. Il padre suo, già scudiero della regina Isabella, da lui accompagnata in Francia, allorquando ella andò a comporvi certo litigio rispetto al suo dominio di Guienna, per aver favorito i maneggi della regina e del suo diletto Mortimero, era caduto in disgrazia presso il figlio di lei, Edoardo III, che, vendicato il padre colla uccisione del drudo nel castello di Nottingham, e sbrigatosi del consiglio di reggenza, imprendeva a regnare da solo. Perduta la sua carica a corte, il Dorset erasi ridotto a vivere, quantunque di mala voglia, nelle sue terre di Bristol, insieme colla moglie e due figli, Enrico ed Anna, già cresciuti in età. Costei, tredicenne fanciulla, miracolo di avvenenza e di grazia, era per diventare la più celebrata bellezza della contea. Ma le soavi gioie della famiglia poco potevano sull’animo del signore di Dorset. Gli occhi dell’ambizioso uomo erano sempre rivolti alla corte, e se per avventura si affissavano nella beltà incomparabile della figliuola, e’ non ci vedeva che uno strumento a riedificar sue fortune e rimettersi, la mercè di un alto parentado, nelle mutevoli grazie del re d’Inghilterra. Senonchè i giovani cuori, desiderosi di felicità, alieni ancora dalle lusinghe della vanità cortigiana, non seguono così facilmente l’indirizzo delle paterne ambizioni. E il cuore della giovinetta, a mala pena ebbe fatto sentire i suoi palpiti, si diede a tale affetto, che certo non avrebbe colorito i disegni del padre. Roberto Macham, povero gentiluomo, ma prode e bello come il barone san Giorgio, avea guadagnato quel cuore, insieme col premio che la giovine Anna aveva dato a lui, vincitore di una giostra, la quale era stata tenuta a Bristol tra i più animosi cavalieri della contea. I giovani si amarono; ma egli, povero, secondogenito d’una famiglia di mezzana nobiltà, non ardì chiederla in moglie, se prima non avesse illustrato le sue armi con alte imprese di guerra. Nè gli fallian le occasioni. Mancata la prole maschile di Filippo il Bello, la corona di Francia era passata ai collaterali, toccando in ultimo a Filippo di Valois. Edoardo III, non curando la legge salica, asseriva che, quantunque sua madre Isabella, figlia all’estinto sire di Francia, non potesse succedere al padre, egli erede di lei non andava altrimenti soggetto a quella incapacità; epperò, cominciato ad intrecciare ne’ suoi suggelli ed insegne gli stemmi di Francia con que’ d’Inghilterra, a stringer leghe, a chieder sussidii per la guerra al Parlamento, si disponeva a sostenere sue pretensioni coll’armi. Un naviglio fu tosto allestito, e fu quello che, forte appena di dugento quaranta legni, sbaragliava quattrocento navi nemiche nelle acque della Schiusa, sulle coste di Fiandra. Macham, imbarcato sulla galera patrona, avea fatto prodezze all’arrembata, sotto gli occhi dell’ammiraglio; e già salito in fama tra i più chiari gentiluomini del regno, sperava di ottener posto onorevole, nella imminente calata sui lidi francesi, al fianco dello stesso figliuol di Edoardo, che era il principe di Galles, duca di Cornovaglia, detto il principe Nero; e cotesto la mercè d’un potentissimo conte, amico suo e favorito del principe. Costui, che io non mi farò a nominare, ebbe il segreto degli amori e delle speranze di Macham. E andato con esso lui a Bristol, mentre si tiravano in lungo gli apprestamenti di guerra, vide Anna Dorset e s’innamorò perdutamente di lei. Strapotente com’era per grandezza di natali e per regio favore, non istette guari a riuscire, non pure accetto, ma in singolar modo desiderato dal padre della fanciulla; il quale scorgeva nell’amico del principe Nero l’atteso ristoratore di sua possanza perduta. Anna ricusò il nodo proffertole, pianse, pregò, ma senza smuovere il padre dal concepito disegno. E Macham, il quale avea notato di slealtà e disfidato a tutta oltranza colui che reputava amico e sperava protettore, fu colto una notte per comando del re e sostenuto in prigione, donde non sarebbe uscito, se non dopo le nozze del prescelto rivale. Egli avvenne allora ciò che sempre in tali distrette; obbedienza di figlia e desiderio di salvare Macham da una prigionia che poteva recarlo a mal punto, condussero all’altare la vittima. Roberto Macham fu libero allora, ma sbandeggiato da Bristol, fino a tanto vi rimanessero gli sposi, innanzi di andarne in Cornovaglia, dove in quel mezzo tenea corte il principe Nero. Triste alba ebbero le nozze del conte. Marito al cospetto de’ suoi, non lo era altrimenti per sè; nè gli venia fatto di piegare a più amorevoli consigli la donna. — Vi ho obbedito, messere, son vostra; — diceva ella piangendo — lasciatemi portare in pace il lutto delle mie morte speranze; aspettate dal tempo ch’io possa avvezzarmi a questa profanazione dell’amicizia, a questo mal uso della vostra potenza. — E il conte, a stento raffrenando l’ira, ma sorridente e tranquillo alla vista di tutti, si rimaneva, deliberando di vincere quella sua riluttanza ad altr’ora. Ma in que’ giorni, la contessa, tra i famigli della nuova sua casa, aveane scorto uno, che più attento d’ogni altro, la veniva osservando e quantunque volte gli tornasse di farlo copertamente, s’ingegnava di darle negli occhi. A tutta prima, reputandolo artifizio disdicevole di pazzo amatore, se n’era ella adontata; ma il dì seguente, recandosi la gentildonna alla chiesa, il giovine le si era avvicinato più assai che le nobili usanze non consentissero a donzello, e le avea bisbigliato rapidamente all’orecchio: — Messer Roberto è qui, celato in Bristol; io sono amico suo; volete seguirlo? Il cuore le avea dato un sobbalzo a quelle inaspettate parole, ma tosto erasi fatta a reprimere quel moto d’allegrezza, temendo di qualche inganno nascosto. — Come v’argomentate ch’io possa, non che credervi, udirvi? — disse ella poscia, mentre poneva il piede sulla gradinata del tempio. — Di me avverrà ciò che a voi piace, madonna; eccovi intanto il vostro uffiziuolo, — rispose il giovine, inchinandosi in atto reverente e sporgendole il suo libro di preghiere; — qui dentro è una lettera del mio povero amico. In chiesa, tra le carte del libro, Anna avea letto il foglio di Macham. Il giovine non era altrimenti un famiglio, sibbene un fidatissimo amico, il cavaliere di Blackstone, che, arrisicato com’era e cortese, mentiva nome e stato per fargli servizio. Sentisse ella compassione, aggiungeva Roberto; egli non poter vivere senza di lei ed esser pronto a morire, se ella non infrangesse quel nodo abborrito. E qui ricordava le arti sleali, i brutti maneggi del conte, negando che il cielo potesse aver benedette le nozze, santificato un giuramento in tal guisa carpito. Che dirle di più? Ella giudice tra il conte e lui; ella arbitra, con una parola, della sua vita e della sua morte. Che se l’antica fede non era spenta nel cuore di lei, se ella accoglieva il suo disegno di fuga, il cavaliere di Blackstone l’avrebbe indettata del giorno e del modo. Cotesto occorreva nei primi dì dell’aprile. Anna ascoltò il tentatore. La sua colpa fu quella; ma invero, piegarsi ai voleri del conte, profanare quel suo grande affetto per Macham, era assai più di quello che potessero le forze sue sostenere; il sacrifizio di tutta la sua esistenza, veduto allora da presso, le parve orrendo; la paura, il ribrezzo, ebbero facil vittoria del suo giuramento; vittoria che da solo non avrebbe ottenuta l’amore. Fu per tal modo concertata la fuga. E un giorno ch’ella era uscita a cavalcare, seguìta dall’infinto donzello, avea messo a galoppo il palafreno sulla riva degli Ontàni. Il rimanente era noto al pietoso amico, al padrone della galera, che inconscio aveva dato mano alla impresa, così meditata da Roberto Macham e condotta a fine dal cavaliere di Blackstone. Il pentimento aveva tenuto dietro alla colpa; dalla prima mattina che s’era veduta in alto mare per infino a quel dì che doveva esser l’ultimo dei suoi patimenti, ella non aveva fatto che piangere il suo fallo, ed implorava ora il perdono di Dio, ella che, sulla riva degli Ontàni, dinanzi a Lanzerotto, per la prima volta dopo le sue nozze col conte, aveva stretto la mano di Macham. Ella era pura come un angiolo del Signore, quella bellissima peccatrice; ben più colpevoli noi, che l’avevamo fatta segno alle nostre bieche gelosie, ai nostri desiderii profani. E noi vivevamo; ella moriva. Trassi di sotto al giustacuore un piccolo crocifisso d’argento, eredità dei miei maggiori. Mia madre morente me lo aveva donato, e quest’altra morente dovea stringerlo alle sue labbra; doppiamente caro, scenderà meco nel sepolcro, insieme col ricordo dei due soli amori di mia vita. Questo spiccai allora dal collo e lo posi tra le sue mani tremanti. — È dentro di questa croce una scheggia del santo legno; — le dissi, alzando solennemente la voce. — Ella vi darà forza a superare questo affannoso momento, e quella benedizione che il mio labbro non è abbastanza puro per darvi, mia povera martire! Un raggio di celeste allegrezza balenò dalle sue pupille semispente; le labbra, accostandosi avidamente al segno del perdono, mormorarono una parola di gratitudine. Macham frattanto, poichè il pietoso ufficio era compiuto, veniva ad inginocchiarsi all’altra proda del letto. — Ed ora, sorella mia — soggiunsi — udite la mia confessione. Vi ho amata e vi amerò fino a tanto ch’io viva. Questa, sebbene manchevole, è la mia sola discolpa. Da quest’isola noi potevamo partire il dì dopo l’approdo. Se l’avessi fatto, nulla sarebbe avvenuto di ciò che ora ne strazia. Nol feci, geloso della ventura altrui, e n’ho acerbo rimorso nell’anima. Mi perdonate voi! — Si, a voi, a tutti... — rispose. — Così era scritto! Io fui più amata che non accadesse mai a creatura mortale, e forse era effetto di qualche malìa. Il Signore mi usi misericordia e mi accolga nella sua pace. Udite ora, messer Gentile, e voi Roberto; di una grazia vi prego... — Dite! — le gridammo ansiosi ad un tempo, già temendo non fosse per mancarle la voce. — Qui, dove io muoio.... un altare! — Sì, non dubitate! — mi affrettai a dirle io, dando in uno scoppio di pianto. — Grazie! — ripigliò la morente, sollevata da quella nostra promessa. — Qua le vostre mani, poveri amici che io lascio. Ma non vi accorate, non piangete così; ci vedremo ancora, ci vedremo lassù. Furono queste le sue ultime voci. Le seguì un respiro affannoso, che parve poco stante calmarsi, nè più altro s’udìa nella camera, fuorchè il suono dei nostri mal rattenuti singhiozzi. Inginocchiati d’intorno a lei, strette le sue mani nelle nostre, rimanemmo tutta la notte in quella muta agonia. Io, non so quando, sentii la sua mano farsi di gelo; tuttavia non mi mossi, nè apersi le ciglia, intormentito com’ero, non potendo credere a ciò che pur troppo in quell’istante accadeva. XII. Il sole ci vide in quella postura, l’uno di rincontro all’altro, ispide le chiome, gli sguardi stravolti e non mutati in cuore da quelli di prima. Tratto un lembo del lenzuolo sul viso della morta, quasi temendo non avesse ella a scorgere ciò che stava per accadere, Macham piantò i suoi occhi torvi ne’ miei. Intesi che volesse dir quello sguardo, e mi alzai per uscir dalla camera; egli fu pronto a seguirmi. Stanchi della notte vegliata, i miei uomini dormivano sui loro giacigli. Uscimmo all’aperto, io innanzi, egli sempre dietro di me, muti ambidue. Non so per qual tacito patto avvenisse; egli fu per avventura un memore istinto che ci guidava alla collina, e poco dopo giungevamo a quel medesimo luogo dove Anna mi aveva narrato de’ suoi voti, ahimè! dispersi dall’implacabile destino, e dove poscia ella era giunta, infelice creatura, a ricevere quell’ultimo colpo, che la sua pietà voleva risparmiato ad uno di noi. Colà giunto, mi volsi. Macham del pari fe’ sosta. — Che volete voi dunque? — gli chiesi. — La vostra vita per quella di lei! — rugghiò egli feroce. — Lo avete confessato stanotte; potevate, senza danno, nè pericolo, rimettere alla vela il giorno dopo l’approdo, e quella donna era salva da morte. Ella vi ha perdonato, Gentile Vivaldi; io no. Voi morrete di mia mano; indi i vostri scherani mi sbranino pure, a me non importa. — Ah non sarà, messere; aspettate! Ed affacciatomi al ciglio della rupe, misi un fischio acutissimo. Lanzerotto non istette guari ad uscire dalla capanna, che si scorgeva nel prato sottostante. Ad un mio grido si volse, ci vide, e tosto si mosse alla volta del bosco, per inerpicarsi al luogo ove noi eravamo. — Che fate voi ora? — mi chiese il mio avversario. — Nulla che guasti il vostro disegno; tra poco il vedrete. Macham non disse più altro, e per chetare la sua impazienza, come leone cruccioso nella sua gabbia ferrata, si diede a misurare con rapidi passi il breve spazio che correva tra noi, lunghesso il margine dell’onda. Lanzerotto giunse e indovinò tosto ogni cosa. Un grido disperato gli ruppe dal petto. — Calmati, Lanzerotto! È guerra leale questa che or ora si combatterà tra di noi. Nè t’ho chiamato a piacere, nè a giudice, sibbene per dirti ciò che io voglio da te. Bada — soggiunsi con accento solenne — chiunque dei due abbia a morire, tu obbedirai al superstite. Giuralo! — Lo giuro, messere! — rispose egli inchinandosi. — Per l’anima di tua madre? — Per l’anima mia e per la mia salvazione! — E promettimi che tu darai contro a chiunque de’ miei si ribellasse a Roberto Macham, se a lui toccasse in ventura di uccidermi; giura che gli farai scudo del tuo petto, se alcuno, per amore soverchio di me, volesse farmi sleale dopo morto contro il mio ospite. — Ah, molto mi chiedete, messere; — gridò Lanzerotto, straziato. — Ma lo volete; lo farò. Così il cielo vi assista, come io vi obbedirò in ogni caso peggiore. — Or bene, ho il tuo giuramento. Qua la mano e vattene! Ma non temere — soggiunsi per confortarlo — ucciderò, non sarò ucciso. Or vanne laggiù, dove una povera morta attende gli ultimi uffizi dalla pietà dei superstiti. Lanzerotto si allontanò obbediente da noi. — Siete un leal cavaliere! — esclamò Macham, poichè fummo soli. — Ma tutto ciò era inutile. M’è di peso la vita. Ciò detto, si piantò al suo posto e tolse dalla cintola il lungo ed affilato coltello, che era parte necessaria de’ suoi arnesi marinareschi. Io trassi del pari il mio e rimanemmo un pezzo, in atto di difesa e di aspettazione, taciturni, immoti, l’uno spiando negli occhi dell’altro i moti, i disegni, il punto propizio all’attacco. Nessuno aveva a giungere questa volta per trattenerci la mano. Ah! la voce di Anna accorrente lassù mi risuonava ancora all’orecchio, e lunge dallo intenerirmi, rinfiammava il mio odio, la mia voluttà di ferire. Cominciò allora tra noi un combattimento alla guisa dei Catalani. L’ira chiusa, concentrata nel profondo, non turbava, soccorreva gli assalti, confortava la vigilanza, guidava gli infingimenti, assicurava gl’impeti nostri. Volendo ognuno di noi la vita dell’avversario, non uscimmo in colpi frequenti; solo mirammo a recarli mortali. Egli fu primo a muovermi incontro, ma il suo braccio diede nel mio e le coltella s’incrociarono; donde avvenne che egli spiccò un salto indietro per rimettersi in guardia. Assalii a mia volta e, finti due colpi ai fianchi, ne vibrai uno di sopra mano, che avesse a trovargli il sommo del petto; ma il suo braccio fu abbastanza sollecito al riparo, e la mia lama si piantò nel lacerto lussureggiante di muscoli. Io la ritrassi intinta di sangue. — Non è nulla, non è nulla! — mi disse egli, raccogliendosi. — Or ora avrò il tuo! E balzò furibondo sopra di me. Io già avevo fatto il mio proposito; ma egli non se ne addiede, acciecato dall’ira. In cambio di parare, cansai l’urto, traendomi rapidamente da banda, e, come mi fu giunto a paro, me gli avvinghiai alla vita, cacciandogli il ferro nel fianco. Egli stramazzò, non so bene se svigorito dal mio colpo, o tratto dall’impeto del suo medesimo assalto; ed io gli fui sopra, puntellandogli nelle reni il ginocchio e correndogli colla manca alla gola. Bene tentò egli di ferirmi, e sentii la punta del suo coltello sfiorarmi al basso dell’omero; senonchè, così inchiodato a terra, gli venian meno le forze. Egli fu un istante che io avrei voluto risparmiarlo; ma un pensiero orrendo, sacrilego, mi corse allora alla mente, come di farlo morire dannato, e senza più gl’immersi il coltello nel cuore. — Grazie! — mormorò egli. — Che Iddio mi perdoni! Ah! lo rammento, lo vedo ancora, lo sento corrermi per tutte le fibre, lo sguardo che egli mi volse in quel punto. Tutto il mio sangue intorpidito, già presso a congelarsi, riarde e si rimescola; sdegno e pietà, rabbia e rimorso, mi combattono insieme. Fu egli perdonato? E lo sarò io? Macham, mio animoso nemico, il tuo fu peccato d’amore. Mi odiavi, come io te; ma se io fossi caduto sotto il tuo ginocchio, se il tuo ferro m’avesse trovate e distrutte le fonti della vita (che certo sarìa stato miglior fine a’ miei mali) avrei io avuto la virtù di ringraziarti e di volger l’anima al cielo? Non so. Un flotto di sangue uscì gorgogliando dalle sue fauci; gli occhi errarono incerti, smarriti, nuotanti tra vita e morte; indi si arrovesciarono e il lume delle pupille si spense; un rantolo si udì, s’irrigidirono ad un tratto le membra; era morto. Inorridii a quella vista e forsennato mi diedi a fuggire. Strani terrori mi assalsero; sentii da principio come un vuoto dintorno e dentro di me, un gran vuoto, un terribile vuoto; indi presero a rombarmi le orecchie, ed il suono, fioco da prima, crebbe, incalzò, sorse a fragor di tempesta. Nè manco tormento mi veniva per gli occhi, innanzi a cui si rappicciolivano le cose, si sformavano tutte parvenze, si sprolungava a dismisura la via. Da un albero all’altro correa tale distanza, che il varcarla mi pareva da più di mie forze, e, sebbene io n’andassi a furia giù per la china, sentivo rattrappirsi le ginocchia e i piedi restarsi inchiodati. Orribil visione! Ogni tronco che mi si parasse davanti era un insuperabile ostacolo; ogni ramo che mi sfiorasse era un braccio proteso per arrestarmi. E dietro a me la cascata mettea voci di maledizione; la selva tutta mi si stringeva, mi ruinava sul capo, e fremiti, e sibili, ed ululati senza posa, mi gridavano alle spalle: Caino! Un’ombra mi venne incontro, misi un grido, tentai di fuggire, ma invano. Era Lanzerotto, e le sue parole amorevoli mi ricondussero in me. Egli aveva tutto indovinato, però non mi fece domanda, e, toltomi il coltello intriso di sangue che ancora stringevo nel pugno, rasciugato il sudor freddo che mi grondava dalla fronte, mi sorresse tra le sue braccia e mi guidò alla capanna. Il luogo era deserto, imperocchè, temendo contraria la sorte del combattimento, egli aveva mandato i miei uomini, non so con quale pretesto, alla spiaggia. Giunto colà, mi tornò in mente la morta. Svincolatomi dalle braccia del mio còmito, corsi là dentro. La camera era triste, muta, solenne come un santuario. La spera del sole penetrava dubitosa dal secco fogliame delle pareti, dipingendosi in malinconici riflessi su quel letto funereo, dal cui capo pendeva la ghirlanda di fiori immortali che io avevo intessuta pochi giorni innanzi per lei. Ahimè! i fiori erano freschi tuttavia, ed ella era là, morta, sotto quel bianco lenzuolo. Tremante mi prostrai, stesi la mano e rimossi il lembo geloso che quegli, spento a sua volta, aveva tratto in alto a coprirla. Il viso dell’amata mi riapparve allora bianco, freddo, inanimato, ma bello. Così m’era apparsa leggiadra, due mesi prima, nella sua città natale, sotto l’arco della chiesa, ov’io non avevo veduto che lei. Erano chiusi que’ grandi occhi neri, che guardavano lunge, come anelanti a più lontane regioni, perduti nella contemplazione d’un mondo invisibile. Ah, in quel mondo posavano essi oramai! Su quella fronte ampia, nitida, perlata, non scintillava più lo smeraldo, ma il sole scendeva ancora co’ raggi amorosi a baciarla, scherzava pur sempre nelle brune trecce disciolte. La morte aveva suggellata in quel viso e in tutti i riposati contorni della persona quella forma di bellezza marmorea, che tiene lo sguardo e commuove di arcani desiderii lo spirito. Nè morta pareva, bensì dormente; ond’io stetti a contemplarla immoto, trepidante, frenando il respiro, quasi per tema di turbarle quel suo placido sonno. Dov’era in quel punto l’anima tua, o Anna, o unica e sola donna che amai, divina immagine che la mia mente ha ritenuta, per inebriarmi le lunghe e dolorose vigilie? Errava essa intorno alla sua spoglia mortale? E mi vide allora, mi lesse qui dentro gli affanni, i rimorsi, le angoscie d’un amor disperato? Mi udì essa, quand’io, tratto fuor di me dall’acerbità dello spasimo, presi a favellarle come a persona viva, a chiederle una parola, una sola parola di perdono e d’affetto? A me parve che que’ severi lineamenti acquistassero moto, che quelle sopracciglia si corrugassero, che quelle labbra si atteggiassero a rimprovero. Nè più potendo resistere alla piena del dolore, mi strinsi al capezzale, posi le labbra affannose su quelle mani fredde, su quelle labbra smorte, su quel seno, ahimè, senza battiti. Un brivido mi corse per l’ossa; una voce arcana mi disse sacrilego, e balzai indietro atterrito. Il bel viso era macchiato di sangue; intriso di sangue era il lenzuolo funereo; del sangue di Macham che io le avevo recato, estremo bacio del suo misero amante. Io li avevo divisi in vita; io stesso li ricongiungevo nella morte. M’investì un freddo acuto; vacillai gridando e caddi come corpo morto; stramazzai sul terreno. Ciò che avvenisse poscia, m’è oscuro. Ben parmi di ricordare alcune cose, ma interrotte e sbiadite, come ombre di sogno. Vedo una fossa scavata ai piedi dell’albero e due corpi sepolti l’uno al fianco dell’altro. Vedo me stesso, ginocchioni, in atto di guardare istupidito i marinai che gettavano terra in quel vano, e di balbettar preci confuse; indi la capanna disfatta, un tumulo eretto a guisa di rustico altare, due tronchi foggiati a croce sovr’esso, ed una pietra che reca scolpiti due nomi, con una breve preghiera ai venturi. Sì, questa io la vedo ancora; ella dice così: «Pregate per essi, e per chi sopravvive.» Più oltre non so, non ricordo più nulla di quel luogo e di que’ giorni, più nulla! Altro non vidi, o più non conobbi. Una gran notte, siccome nebbia sul mare, era discesa su me. XIII. Che fu del mio senno? Quanto durarono in me quelle tenebre? Tra esse, un fioco raggio, un barlume fuggevole, mi lascia scorgere una immensa distesa d’oceano, cielo e mare in tempesta, uno schifo trabalzato di continuo sui flutti e null’altro. Quando finalmente tornai in me stesso, fu uno stupore che mal saprei ora descrivere. Non ravvisavo alcuna cosa dintorno; riviveva il concetto del presente, non la memoria del passato, nell’animo mio; però mi stetti lunga pezza trasognato a guardare quella caligine che man mano si venìa dissipando davanti ai miei occhi, e la nuova scena mirabile che ne era, come per incantesimo, emersa. Vidi anzitutto un cortile, aperto nel fondo e spazioso, ricinto sui tre lati da lunghe file di svelte colonne intrecciate a spire, sulle quali si giravano archi eleganti, rigonfiati al basso, rotondati agli spigoli da marmorei cordoni, raggentiliti da bei trafori interposti, da fregi condotti in capricciosi meandri di fiori e fogliami, di animali stranissimi e di leggende scolpite in caratteri ignoti. Sotto uno di quegli archi io stavo seduto, e di rincontro a me, nell’ampio cortile, nel mezzo d’un pavimento fatto a musaico, poggiata sul dorso di quattro leoni, s’innalzava una vasca, donde spicciava un lieto zampillo d’acqua, vagamente ricadendo in pioggia minuta. Più oltre scorgevasi un folto aranceto, dietro il quale una ricca famiglia di palme spingeva in alto i fusti ronchiosi, agitando mollemente i verdeggianti fiabelli; più oltre ancora, ricise e spiccate su d’una lista d’azzurro sbiadato e di porpora, tondeggiavano cupole scintillanti d’oro, si rizzavano guglie di minareti, correano merlature, biancheggiavano torri e tetti sovrapposti di vicine città. Da quello spettacolo, che m’avea colmo di meraviglia, ritrassi gli occhi a guardarmi dintorno. Un uomo sedeva al mio fianco, Lanzerotto, il mio còmito, il mio compagno di sventura. Alla sua vista sentii per gran tenerezza stemprarmisi il cuore; volli parlare, ma non mi venne fatto, e caddi nelle sue braccia, dando in uno scoppio di pianto. — Ah! — gridò egli giubilante. — Mi ravvisate finalmente, messere? — Sì, mio buon Lanzerotto. Ma che è egli ciò ch’io vedo? Ho forse sognato? Bristol, la tempesta, l’isola malaugurata.... Ah, vero pur troppo! — esclamai, notando l’aria dolente del mio vecchio compagno. — Ma che avvenne egli poscia? Dove siamo noi ora? — A Tangia, messere, nella casba dello sceicco Abderaman, detto l’Emiro del mare. — Prigionieri! ma come? — Sì, prigionieri! — rispose. — Ci eravamo imbarcati sul palischermo rimastoci. Io volevo afferrare il capo di San Vincenzo, e voi, messer Gentile, sebbene assai giù dell’animo, avevate assentito. Ma, dopo due giorni di navigazione, il mare ci ha traditi, si è voltato a burrasca, con un vento di traverso che ci ha spazzato via la nostra unica vela. Così in balìa de’ marosi, siam venuti in deriva a dar nella costa de’ Mori, e da due mesi siam qui prigioni a Tangia, costretti a lavorare la terra, come servi di pena. Ah, messere! Io non mi dolsi tanto di questa sciagura, quanto di veder voi così fuori di senno, che ad ogni istante ho temuto non vi si vendesse al mercato, come uno schiavo disutile. Egli è vero bensì che ho faticato per due e che la nostra sorte non fu la peggiore che potesse toccare a cristiani, tra questa gente infedele. — E i nostri compagni?... Rubaldo, Ogerio, Ingone, Buonvassallo, ove sono? — Venduti, condotti a Mequina. A noi due è giovata la pietà d’una donna. — Ahi — esclamai, sentendo a quel nome di donna rimescolarmisi il sangue. — Sì, — continuò Lanzerotto — la compassione ha parlato al cuore di Fatimè, della leggiadra figliuola di Abderaman, la quale ci ha voluti a’ suoi servigi, e ogni giorno ci è larga di cortesi parole, che ci fanno parer meno grave il peso della nostra catena. Ma venite, messer Gentile; sebbene la sferza dell’aguzzino non sia fatta per noi, ci bisogna pur sempre mostrarci volonterosi al lavoro. Seguii Lanzerotto nel contiguo giardino, ov’egli, di marinaio diventato giardiniere, attendeva alle sue cure campestri. Egli era lieto, il mio buon Lanzerotto, lieto come se avesse in quel giorno ricuperata la libertà. Ma questa, secondo lui, non poteva indugiar molto, poichè io avevo ricuperata la ragione. Ancora non sapeva in che modo saremmo usciti di là, ma non gli pareva più tanto malagevole impresa. Frattanto mi veniva informando delle consuetudini del luogo e di tutte quelle notizie che aveva potuto raccogliere; tra l’altre, della sorte toccata alla mia galèra, che aveva naufragato sulle coste vicine e la marinaresca era stata ridotta in servitù dallo sceicco di Màmora. Sull’ora del tramonto, mentre io mi disponevo ad inaffiare alcune piante che il mio compagno m’aveva additate, s’udì poco lunge un fruscio di vesti e un suono confuso di voci donnesche. — Ecco la figlia di Abderaman! — mi bisbigliò Lanzerotto. Ella scendeva, seguìta dalle sue schiave, a diporto in giardino, ed io la vidi allora, snella e leggiera, comparire fuor da una siepe di gelsomini. Mi parve, anzichè donna, un indistinto di zendado e di seta, d’oro, d’argento e di monili. Infatti, giusta la foggia delle donne moresche, ella indossava un luogo guarnello bianco, da cui traspariva la gonna di seta porporina, e sovr’essi una tunica azzurra, aperta a largo scollo sul petto, che tutto era celato da una collana a più filze di perle. Ampie e diffuse le ricadeano a mezzo il braccio le maniche di tòcca bianca, intessuta di argento; un rosso cintiglio sprangato d’oro si girava mollemente attorno ai fianchi e un gran velo candido e lieve involgevale il sommo della persona, ma senza nascondere i contorni del viso e il nereggiar delle ciglia. Lanzerotto le era andato incontro, ad offerirle umilmente un mazzo di fiori che egli aveva raccolti. Io non intesi ciò che egli dicesse nel breve colloquio che ebbe con lei; ma al certo ei ragionava del suo compagno di sventura, imperocchè la giovinetta, dopo averlo attentamente ascoltato, s’inoltrò verso di me e, guardatomi con occhi amorevoli, mi rivolse la parola in quel mescolato idioma, che serve agli accontamenti del cristiano coll’arabo e col giudeo, in tutti gli scali d’Africa e d’Asia. — Gentile lavora? — mi chiese ella sorridendo. Io m’inchinai confuso, in atto d’ossequio. — So il tuo nome, — soggiunse, — e il tuo stato tra’ cristiani. Non ti logorare in questi umili uffizi; le tue mani son fatte per trattare la spada, e nella casa di Abderaman, l’Emiro del mare, non è ignota la pietà, nè il rispetto, pe’ cavalieri tuoi pari. — Che il cielo dia allegrezza alla sua nobil figliuola! — risposi, ponendo la mano sul petto e chinando la fronte. Il mio augurio al certo non le spiacque, imperocchè ella, sollevando cortesemente un lembo del velo, mi lasciò scorgere la guancia, che s’era tinta del color della porpora; indi si allontanò, proseguendo il suo cammino, leggiera e graziosa come una gazzella. Io rimasi impensierito al mio posto. Ogni giorno, sul tramonto, ella veniva così pel giardino e, nel passarmi daccanto, mi dicea sempre qualche leggiadra parola, ora per rallegrarsi con me della ricuperata salute, ora per ringraziarmi de’ fiori diligentemente scelti e foggiati ad eloquente idioma d’amore (io nol seppi allora per fermo) che Lanzerotto commetteva a me di offerirle. — Se voi volete, messere, noi fuggiremo; — mi disse un giorno il mio còmito. — E come? troppo alte sono le mura e ben salde le porte. — Sì, ma l’amore ha scale d’ogni misura e magiche parole per gli usci ferrati. — Che dici tu ora! — esclamai stupefatto. — Dico, messere, che voi siete amato. — E da chi? — Dalla figliuola di Abderaman, e l’Emiro del mare ha troppo gli occhi altrove, mentre ella li ha sempre rivolti su voi. Inorridii a quell’annunzio inaspettato, come alla vista d’un abisso che repente ci si schiuda dinanzi. Nè a me quei giornalieri colloquî, quelle amorevolezze, quegli sguardi fiammanti, aveano recato pur l’ombra d’un lontano sospetto! Triste, accorato, già pieno d’un disegno che mi si maturava nell’animo, io mi ero avvezzo frattanto a veder quella donna, a parlarle senza ripugnanza, con ossequio di schiavo, con gratitudine di cavaliero. Ella si dimostrava compassionevole a noi, e quella pietà m’avea tocco, siccome un immeritato favore del cielo. Era bella, ma io non la vedevo tale per me; amarla, essere amato da lei, mi sarebbe parso sacrilegio, profanazione d’un affetto che ardeva gagliardo nel mio cuore e che io speravo avesse in breve a distruggermi. — Badate, messer Gentile; — soggiungeva Lanzerotto — l’occasione ha tre capegli soltanto. Morremo adunque noi qui? E se ricuserete di acciuffarla al varco, chi vi assicura che questa sorte nostra non abbia a farsi anco peggiore? Il vino più generoso inacetisce e l’amore più ardente può mutarsi in odio profondo. — E avvenga che vuole! — proruppi. — Ma, in nome di Dio, che vuoi tu da me? Credi tu che sia egli possibile?... Lanzerotto, amico mio, ti so d’animo generoso e di cuore. Or dimmi, se tu avessi amato un giorno come io, e se alcuno venisse a profferirti di fare ciò che ora tu a me, di tradir la tua fede, di contaminare la santità del tuo dolore, di aggiungere rimorso a rimorso (non mentire, sai, non mentire!), che faresti? rispondimi! Egli chinò la fronte confuso e rimase a lungo in silenzio, combattuto da opposti pensieri. Indi, scuotendosi, a guisa di chi debba pur prendere un partito reciso, uscì in queste parole: — Suvvia, che vale il tacerlo? Codesto non ho fatto io, sibbene il destino, che è più forte di noi. Ella vi ama, follemente vi ama.... Lo so di buon luogo e ponete ch’io l’abbia dalla più fida delle sue schiave. Da otto giorni ho mentito, facendovi credere tutto suo, non d’altro desideroso che di piacerle e di mostrarvi grato a’ suoi doni. Ieri ancora, inconsapevole, avete profferto un ramoscello di mirto, che le ha dato la posta per questa sera. Ogni cosa è disposta per la fuga, ed ella vi seguirà. Abderaman è partito ieri con gran gente alla volta di Melilla, e qui pochi rimangono a custodire la casba. Sull’imbrunire ella sarà qui; la porta che mette al mare è nostra; una fusta attende alla spiaggia. — Ah, disgraziato! — urlai; — che hai tu macchinato, uomo sleale? T’ha egli sovvenuto de’ suoi consigli lo inferno? — È fatta, messere; io ho tutto ordito, io ho tutto accettato. Ella è pronta ne’ suoi propositi, ardente come il suo cielo, bollente come l’affetto ond’è pieno il suo cuore. Quella donna si struggerà di vergogna e di rabbia, se voi mi tradite, e noi andremo a finire sui banchi d’una galèra barbaresca, intenti a dar ne’ remi contro navi cristiane, condannati a preparare colle nostre mani lo scempio della gente battezzata. Or via, messere, tornate in voi! Per darvi la libertà, il cielo ha invaghito di voi il cuore della fanciulla moresca; vi ha tolto il senno, perchè ella impietosisse di voi; vi ha lasciato il fiore della bellezza e della gioventù, perchè ella, vedendovi ogni dì, sempre più s’infiammasse. Donna possente, conscia de’ suoi vezzi, non è preparata a ripulse. I fiori che le porgevate umilmente ogni sera, non le dicevano che eravate suo? Uccidetemi, messer Gentile; io ho inteso i suoi sguardi, ho eccitato le confidenze della sua schiava, ho parlato, operato per voi; uccidetemi, non mi tradite, non fate contro agli accorgimenti che debbono restituirci alle case nostre, e dare, se vi giova pur rammentarlo, un’altr’anima alla fede di Cristo. Così parlava Lanzerotto, empiendomi la mente di sdegno, ma più assai di stupore. Tutto ciò mi riusciva così nuovo! Sì, vedevo allora finalmente, mi chiarivo ogni cosa, ogni atto di quella donna, e i suoi cortesi parlari, e le occhiate furtive, e i rossori, e le audacie. In tal guisa, mentre il mio intelletto, ravvolto nelle tenebre della follia, non ravvisava nulla dintorno, nel cuore di quella infelice era divampato un incendio? E per me? Il dolore non m’aveva dunque disfatto? Orribile cosa, questo fiore di gioventù, sopravvissuto a quella divina, che giaceva sformata sotto le umide glebe d’un’isola deserta! O Anna, o triste e cara ricordanza del mio cuore, io ti aveva dunque uccisa, per darmi all’amore di un’altra? ed era egli possibile? e il mio cuore non si sarebbe egli spezzato? Quella sera giunse troppo rapida per me, senza che io avessi nulla risolto. Due ombre scesero in giardino; tacite e guardinghe, s’inoltrarono dal folto degli aranci, e Lanzerotto mosse incontro ad esse sollecito, mentre io, ansante, esterrefatto, presso a smarrir la ragione da capo, era rimasto immobile ad aspettare quella nuova forma di pericolo. Ciò che io dicessi a quella donna, allorquando commossa, anelante, mi s’accostò e mi cadde nelle braccia, non ricordo partitamente, nè tutto ripeterò ora. Egli fu un doloroso colloquio, nel quale io stillai l’amarezza ed il tedio in un giovane cuore, che si schiudeva alla speranza, alla vita. E dirò io l’angoscia del suo disinganno, gl’impeti del dolore, i fremiti della vergogna, immeritate afflizioni che contristarono la poveretta in quella lunga ora di prova? — Nobile fanciulla, io non t’ingannerò. Tu sei bella come gli uomini della tua gente sognano esser leggiadre le figlie del Profeta, nel loro giardino di delizie. Ma l’amarti non è più in poter mio. Hai tu veduto le mie labbra pallide? Le ha scolorate il bacio d’una estinta; nè più si poseranno esse su altra bocca, su altro seno, a bere una vita da cui la mia anima abborre. Perdonami e compiangimi; tu, giovinetta, rinascerai all’amore; io, se pure andrò libero mercè tua, non sarò già più felice. Ella piangeva, e le sue lagrime mi spezzavano il cuore. — Vuoi tu seguirmi? — le dissi. — Forse è Iddio che t’inspira. Vieni onorata tra’ miei, ed accogli la nostra fede. Ella aveva levata la fronte a quelle parole e d’improvviso era cessato il suo pianto. — Sarò tua, allora? — mi chiese, figgendo ansiosa i suoi grand’occhi neri ne’ miei. — No, te lo dissi; perdonami, io sarò fedele alla morte. Ma la nostra fede ha sublimi conforti; essa è l’unica vera, la sola che guidi a salvezza. — E che m’importa della tua fede, senza di te? Va, cristiano; ho paura di odiarti. Va; Fatimè non terrà schiavo colui ch’ella ha amato una volta. Quell’uscio si schiuderà innanzi a te, e la barca che attende ti condurrà alle tue spiaggie. Va; tu hai lasciato una morta laggiù, sull’oceano; non rimaner qui, per udire di un’altra! Si ritrasse, così parlando, da me. Lanzerotto mi trascinò a forza verso l’uscio additato, mentre ella cadea singhiozzando nelle braccia della schiava, accanto a quella siepe di gelsomini, dond’io l’avevo veduta per la prima volta apparire. Misera donna! Iddio avrà udite le sue lagrime e ridonata la calma a quel vergine cuore. . . . . . . . Eccomi giunto alla meta. Non ho nulla taciuto, nulla dissimulato; mi sono nutrito, inebriato del mio dolore; a goccia a goccia ho bevuto il mio calice d’amarezza. Cinque anni sono trascorsi dopo la morte dell’amata, cinque anni, e i miei capegli si sono incanutiti, le mie guancie si sono fatte scarne, il passo tremante, il sangue povero e lento. Grazie, o Signore! Il chiostro non mi ha dato la pace, ma esso mi ha affrettato l’ora finale, in cui sarà suggellato, col vostro, il perdono d’Anna. Stanotte avevo finito di raccontare al vostro cospetto le mie colpe, di svelare tutto me stesso. Ella mi apparve, splendida della sua eterna bellezza, irradiata la fronte dell’aureola de’ santi. Non era più crucciosa in vista, siccome le altre volte che scendeva a visitare la mia squallida stanza. Ella mi ha sorriso, ha posto la mano su queste carte e mi ha favellato in tal guisa: «Sta bene; qui deponi la penna. Troppo rivive Gentile Vivaldi in queste pagine di frate Gualberto; troppo ardenti battiti dà il memore cuore sotto il cilicio del penitente. Ma Gualberto ha scritto il vero, e a chi molto amò molto sarà perdonato. A domani!» Ciò detto, è svanita. Ma ella tornerà, siccome ha promesso. Oggi adunque è l’ultimo mio giorno di tristezza; e domani, domani saremo uniti finalmente, prostrati a’ vostri piedi, assorti nella vostra luce, o Signore. FINE. DELLO STESSO AUTORE: =I Rossi e i Neri=, romanzo. 2 grossi vol. in-16 L. 7 — =Val d’Olivi=, romanzo. 1 vol. in-16 » 2 — =Racconti e Novelle= — Vol. 1: =Capitan Dodero, Santa Cecilia, Una notte bizzarra.= 1 vol. in-16 » 2 — =Capitan Dodero.= 1 vol. in-32 » — 50 =Santa Cecilia.= 2 vol. in-32 » 1 — =L’Olmo e l’Edera.= 2 vol. in-32 » 1 — =Il libro nero.= 2 vol. in-32 » 1 — D’imminente pubblicazione: =Racconti e Novelle= — Vol. II: =L’Olmo e l’Edera, Il libro nero, Una ogni mille.= NOTE: [1] Traduco letteralmente l’_artiliarias_ del testo. Artiglieria è nome collettivo d’ogni macchina da trarre e d’ogni ingegno da guerra, che si usavano nei secoli di mezzo e prima della invenzione della polvere. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE CONFESSIONI DI FRA GUALBERTO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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