Title: Studi sulla letteratura contemporanea
Prima serie
Author: Luigi Capuana
Release date: March 31, 2023 [eBook #70430]
Language: Italian
Original publication: Italy: G. Brigola
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
LUIGI CAPUANA.
STUDI
SULLA
LETTERATURA
CONTEMPORANEA.
PRIMA SERIE.
MILANO,
G. BRIGOLA E COMP.º EDITORI
2 · Via Manzoni · 2
1880.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
Milano. — Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.
[v]
«La forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sè e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste, o apparenza o aggiunta di esso: anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma.
················
«Ma se il contenuto, bello, importante, è rimasto inoperoso o fiacco o guasto nella mento dell’artista, se non ha avuto sufficiente virtù generativa e si rivela debole o falso o viziato nella forma, a che vale cantarmi le sue lodi?
«In questo caso il contenuto può essere importante in sè stesso: ma come letteratura o come arte non ha valore.
[vi]
«E per contrario il contenuto può essere immorale o assurdo o falso o frivolo: ma se in certi tempi e in certe circostanze ha operato potentemente nel cervello dell’artista ed è diventato una forma, quel contenuto è immortale.»
De Sanctis.
«L’arte è una serie di forme estetiche l’una men perfetta dell’altra, come quelle che sempre meno adempiono alle assolute condizioni dell’arte; e sono sempre meno naturali e spontanee, meno epiche e fantastiche, sempre più spirituali, liriche, filosofiche e vie più reali; e sì l’intuizione dell’arte è sempre men lieta e bella e vie più trasparente e immediata all’ideale. Ella è sempre una serie regressiva e discendente.»
De Meis.
Il mio credo critico è tutto in queste parole di così grandi maestri.
Milano, 5 Novembre 1879.
L. Capuana.
[1]
Gli scritti inediti del Michelet non aggiungeranno niente di nuovo a quello che già sappiamo di lui. Qualche tocco di luce, qualche gentile sfumatura, una più aggradevole fusione di tinte: ecco il poco che guadagnerà la figura viva e parlante dell’illustre scrittore. «Ma vie intime est partout mêlée à ma vie d’étude», egli scrisse nel suo primo testamento del 1865. «Je ne laisserai que les materiaux qui ont servi à preparer mes ouvrages», aggiunse nell’altro del 1872. Ma questo non vuol dire che la pubblicazione dei suoi scritti inediti riuscirà di poca importanza.
Il Michelet aveva l’abitudine di notare tutte le sue idee, tutti i suoi sentimenti nel momento stesso [2] che gli sbucciavano nel pensiero o gli agitavano il cuore. Fogli volanti, segnati colla data dell’anno, del mese, del giorno e dell’ora, buttati in uno dei cinquanta portafogli di cartone che gli servivano pei suoi appunti, essi ci daranno la cronaca fedele e non interrotta delle evoluzioni del suo ingegno e della formazione del suo carattere. Come accade sempre di tutto quello che serve più direttamente allo studio dell’uomo, non è improbabile che molte e molte di queste pagine scritte senza pensare al pubblico, confessioni, sfoghi, ricordi, scoraggiamenti, dolori, speranze, allegrezze, lotte del cuore e della mente fissati con poche righe, spesso con una sola parola, non è improbabile sopravvivano a parecchi di quei lavori ai quali egli credeva affidare il suo nome per l’avvenire.
Il giornale del Michelet va dal 1820 fino all’anno della sua morte. In questo volume ne abbiamo soltanto un lungo brano che riguarda il suo soggiorno nella Liguria nel 1853. Il Banquet scritto, la più parte, in un angolo della piccola riviera di Nervi e terminato a Torino, è una delle solite utopie del cuore così facili per un carattere come quello di lui, miscuglio di allucinazione e di chiaroveggenza. Vi si mostrano tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, gli uni e gli altri ingranditi, esagerati fino al sublime e fino al grottesco: sensibilità femminile, nervosità d’ammalato, impeto giovanile, tenerezza da vecchio, entusiasmo lirico che talvolta sembra artifiziato, commozione per cose insignificanti [3] che spesso diventa eccessiva... Ma, come in ogni altro suo scritto, vi si trova anche, tutto intero, il Michelet che affascina, che comunica rapidamente la sua commozione al lettore e lo trascina seco in quell’ambiente quasi patologico entro cui mi pare egli sia sempre vissuto con voluttuosa compiacenza.
Il Michelet è uno dei pochi francesi che abbiano amato l’Italia con affetto profondo. Potremmo anzi dire che ci appartiene. Parlando d’essa egli scrive nel suo giornale: «cette seconde mère et nourrice, qui, jeune, m’allaita de Virgile, et, mûr, me nourrit de Vico, puissants cordiaux qui tant de fois ont renouvelé mon coeur». Lasciarsi sfuggire l’occasione di ricordarsi di lui ora che è venuto fuori il primo volume delle sue cose inedite sarebbe per noi italiani una vera ingratitudine. Inoltre il Michelet è di quegli scrittori estremamente simpatici, dei quali si parla e si sente parlar volentieri. Più che un pensatore è un uomo di cuore; più che uno storico o uno scienziato, è un mistico, un poeta, un allucinato, come ho detto più su, ma anche un divinatore; uno di quegli uomini insomma che ritengono meno degli altri le caratteristiche più spiccate della propria razza e parlano un linguaggio che qualche volta può parere od essere strano, ma che è sentito da tutti, perfino quando non viene ben compreso da tutti.
Magro, debole, di piccola statura, con una testa sviluppatissima, dove contrastavano la bianchezza [4] della sua precoce canizie e il vivo lampo degli occhi, il suo corpo pareva fatto a posta per lasciare allo spirito piena libertà d’azione. Infatti la sua vita fu tutta intera uno studio. Egli lavorava assiduamente dallo sei del mattino fino al mezzogiorno. Consacrava il dopopranzo a qualche passeggiata e allo relazioni amichevoli: andava a letto alle dieci. D’abitudini regolatissime, soffriva a veder mutati, anche soltanto di posto, gli oggetti che lo circondavano nella sua stanza da lavoro. Il panno del tavolino da scrivere, il portafogli di cartone non poterono venir rinnovati benchè sudici e laceri. Innamorato di quel suo vivere laborioso, non si lasciò nemmen tentare dagli abbaglianti splendori della vita politica. Chiuso in sè stesso, circondato da un’atmosfera di raccoglimento claustrale, egli seppe così riuscire a mantenersi giovane di spirito e di cuore fino a settantasei anni, benchè non avesse mai gustato nessuna delle gioie proprie dell’infanzia e della giovinezza.
Nacque a Parigi il 21 agosto del 1789 nel coro d’un’antica chiesa dov’era installata la stamperia di suo padre, e provò sin dai primi anni le strettezze della miseria. Quando il suo corpicino aveva bisogno d’aria, di luce e di movimento, egli fu costretto a passar le ore della giornata inchiodato innanzi una cassa di caratteri tipografici occupato a comporre. Però questo lavoro manuale gli lasciava libera l’immaginazione, gli permetteva di viaggiare nel gran paese dell’ignoto; ed è lì che cominciarono [5] inconsapevolmente a svilupparsi tutte le facoltà che poi servirono a quelle resurrezioni storiche, a quelle meraviglioso ricostruzioni del passato vera gloria del futuro scrittore della Storia di Francia.
Il Michelet rimpianse fino all’ultimo la tristezza di quei giorni. «Mon enfance n’a pas eu de fêtes», egli scrive nel Banquet. «Elle ne s’est jamais épanouie au grand jour dans l’expansion chaleureuse d’une foule sympatique où l’émotion de chacun va s’augmentant, se centuplant de l’émotion de tous, où la jeune âme fleurit sous un rayon bienfaisant. Le vrai soleil de l’homme c’est l’homme!»
Lo scrittore così affettuoso dell’Insecte cominciò ad amare a sette anni uno di quest’innocenti animaletti ch’egli doveva poi celebrare con tanta magia di stile e tanta poesia di sentimenti. Un ragno scendeva tutt’i giorni dallo spiraglio della cappella dov’egli lavorava e dondolavasi appeso al suo filo d’argento quasi amasse cullarsi al tepore d’un raggio di sole. Il piccolo operaio aspettava con ansietà la comparsa del compagno della sua solitudine e ne seguiva coll’occhio i movimenti, senza interrompere il lavoro. Quell’insetto sospeso per aria che scendeva e montava con celerità meravigliosa, divorando e rivomitando il filo a cui stava attaccato, gli serviva di pretesto per slanciarsi coll’immaginazione fuori di quella grigia tristezza della cappella che non dimenticherà mai più. «Singulier effet moral de la misère de ces temps monotones... je n’ai aucun souvenir qu’il ait fait [6] beau un seul jour, ni que le soleil se soit levé brillant une seule fois» scriveva nel 1874, dopo sessantaquattr’anni!
Dai sette ai quindici anni il Michelet non aveva appreso che un po’ di latino da un vecchio maestro di scuola ridotto a far lo stampatore. Quando i suoi parenti, rassegnandosi a tutte le privazioni, lo fecero entrare nel collegio Carlomagno, egli non sapeva nè leggere il greco, nè scandere un verso di Ovidio. Ma aveva letto l’Imitazione di Cristo, e ne aveva ricevuto una straordinaria impressione. Educato senza nessuna idea religiosa, anzi nemmeno battezzato, egli aveva trovato in quel libro la liberazione della morte, l’altra vita e la speranza. Una voce paterna si era indirizzata al suo cuore. La sua stanza fredda e senza mobili gli era parsa rischiarata da uno splendore misterioso. Non aveva compreso il Cristo, ma aveva sentito Dio. Una nuova rivelazione della vita gli venne fatta più tardi da Virgilio: Quel che vi ha di tenero, di profondamente malinconico, di pensoso nella poesia virgiliana, le lagrimæ rerum, il sentimento quasi profetico di prossimi tempi, «ces larmes fixées, cristallisées en mots incomparables, pleins de passé et d’avenir» che, come quelle di Geremia «sont des formules sacrées qu’ont chantées, pleurées tous les âges» rispondevano talmente a qualche cosa dell’intimo carattere del giovane studente, ch’egli apprese a memoria tutto il Virgilio e non ebbe mai bisogno di rileggerlo più.
Ma nè l’Imitazione, nè Virgilio gli fecero sentire [7] meno le sofferenze delle umiliazioni che la sua povertà gli procurava in collegio. Assai poco gliele alleviò la benevolenza dei suoi maestri Villemain e Leclerc. Timido «effarouché comme un hibou en plein jour», divenne affatto misantropo. Ma un giorno, un giovedì mattina, ch’egli non aveva nè fuoco per iscaldarsi, nè sicurezza di mangiare un boccon di pane la sera, quando pareva che tutto fosse finito per lui, un’energia gli scaturì dal cuore, un sentimento da stoico, com’egli stesso ha notato: e picchiando colla mano screpolata dal freddo sul suo tavolo di quercia (che poi conservò sempre) sentì una forza virile di giovinezza e d’armonia, e iniziò quella sublime lotta drammatica ch’egli ha indi veduta dappertutto, nella storia e nella natura, dentro o fuori di noi.
«La lotta tra la sensibilità e l’energia, dice il D’Haussonville, è l’intera storia morale del Michelet. Questa lotta fu anche inasprita dalle strettezze della sua fanciullezza, dal contrasto fra le delicatezze della sua natura e le scabrosità della sua vita. Egli non ha mai conosciuto la felice unione del riposo morale col benessere, che agevola il dolce sviluppo delle facoltà e l’armonia del carattere coll’ingegno. Non c’è mai stato equilibrio nella sua natura nervosa; e questo disordine interiore che ha fatto soffrire l’uomo, ha esercitato la sua influenza anche sui difetti dello scrittore.»
Entrato ben presto nell’insegnamento, il Michelet se ne fece una specie di apostolato. Amò i giovani, [8] e i giorni più felici della sua vita furono quelli quando partivasi il mattino da casa, e infilava la via Saint-Jacques per andare alla sua cattedra, in giubba e scarpine, senza soprabito, insensibile al freddo e al tramontano, tanto era vivace il suo interno fuoco. Professore al collegio Sainte Barbe, nel 1821, supplente del Guizot nel 1833 alla Faculté des lettres, nel 1838 fu chiamato alla cattedra di storia e di morale nel Collegio di Francia. Qui si trovò innanzi un uditorio scelto, elevato che, insieme agli avvedimenti politici, contribuì a sviluppare una nuova fase del suo carattere; fase acre, battagliera, intollerante, piena d’entusiasmi ciechi per tutto quello che riguardava la grande rivoluzione francese, e d’odii non meno ciechi verso la monarchia e la chiesa.
Dal 1821 al 1848 Michelet aveva già pubblicato le sue grandi opere storiche, l’Histoire romaine, l’Histoire de France, l’Histoire de la Renaissance et de la Réforme e l’Histoire de la Révolution française; dall’ammirazione del medio evo, dall’idea che la chiesa e la monarchia avessero civilizzato la Francia e formato la sua unità e la sua potenza, era passato all’entusiasmo fanatico e partigiano d’ogni atto della rivoluzione francese, fino alla deificazione di Danton, di Saint-Just e di Robespierre, e alla guerra al cristianesimo.
Il carattere dell’uomo s’era inasprito in una solitudine impostagli dalle sue condizioni di famiglia, da un’irragionevole fierezza di conservare quella [9] ch’egli chiamava la sua virginité sauvage, e da profondi dolori, che la morte dei suoi più cari aveva alimentati con crudele frequenza. Aveva sposato la figlia d’una signora d’alta nobiltà legatasi in matrimonio con un attore, dal quale era divorziata per fare un altro matrimonio più conforme al proprio stato. La figlia nata dal matrimonio coll’attore, mal tollerata da una famiglia che arrossiva della sua origine, viveva infelice, avvilita; e ci volle poco perchè ispirasse dapprima pietà, indi amore al giovane Michelet. Egli credette trovar la felicità nell’unione con lei. Ma l’indole assai strana di questa donna contribuì invece a farlo molto soffrire e a segregarlo dalla società. Sopravvenne la morte del nonno, poi quella di sua madre, poi quella d’un amico d’infanzia e finalmente quella di suo padre. Allora la solitudine che lo circondò fu completa; il mezzo con cui egli solamente poteva sfuggire alla desolante realtà, lo studio, servì ad accrescergli la tensione dello spirito e l’agitazione della fantasia e dei sentimenti.
Le sue grandi opere storiche e i libri Les Jésuites, Le Prêtre, La Femme, La Famille furono tutti composti sotto l’influenza di questo stato psicologico. Non era certamente il migliore per assicurare ai lavori di storia la serena imparzialità che ne forma il pregio principale, ma era il più appropriato per quelle qualità di vita e di colorito che faranno di moltissime pagine del Michelet i capolavori del genere.
[10]
Il Monod ha giudicato con intelligente libertà il lavoro dello storico. «Egli ha lasciato un’impronta incancellabile in tutti i soggetti trattati da lui. Coloro che se n’occuperanno dopo non potranno ignorare quel che egli ne ha detto; ed è assai raro non abbia illuminato d’uno splendore fiammeggiante alcuni punti oscuri che senza di lui sarebbero rimasti nell’ombra... Egli vede con una potenza straordinaria, ma non vede tutto, nè vede sempre giusto... Lo spirito di ciascuna epoca di cui egli s’occupava, riviveva in lui con uno slancio di passione irresistibile... Ma non ci può servir di guida; convien sempre riscontrarlo, rettificarlo, spessissimo contraddirlo... Lo si ammira, lo si ascolta ora con benevola emozione, ora con avida e qualche volta indiscreta curiosità: ma non gli si può mettere in mano la direzione del proprio giudizio e della propria intelligenza.» E il Monod è forse indulgente. La critica e il metodo positivo rovesceranno per intero l’edificio storico del Michelet; rimarranno però i frammenti puramente letterari. Il Taine ha già annientato la Histoire de la Révolution, ma la presa della Bastiglia e la festa della federazione sono delle pagine immortali che avran sempre dei lettori.
Io, più che lo storico, amo il Michelet autore delle ibride opere di scienza e d’immaginazione intitolate L’Oiseau, L’Insecte, La Mère, La Montagne, L’Amour.
In esse mi sento in diretta comunicazione coll’uomo. [11] La corda della sua sensibilità vibra più forte. La ricchezza della sua fantasia si spande attorno con rigoglio orientale. Ogni capitolo, ogni pagina, spesso ogni periodo è un’orgia di filosofia, di psicologia, di poesia, di sentimentalità, d’ingenuità infantili mescolate sproporzionatamente, che commuovono, eccitano, esaltano come una bevanda esilarante.
Già si vede benissimo in essi come qualcosa di nuovo sia avvenuto nella vita dello scrittore. La sua tenerezza per tutto ciò ch’è debole, il suo entusiasmo per tutto ciò che vive, la sua religione per tutte lo creature che amano (uomo, donna, uccello, insetto, pianta), mostrano con evidenza che un influsso benefico e gentile fa sentire la sua efficacia sopra il suo animo amareggiato. Infatti, dopo i tristi giorni del 1847, quando gli venne chiusa la porta del Collegio di Francia per le sue focose lezioni più da tribuno che da storico, egli aveva trovato colei che fu la compagna fedele ed amorosa degli ultimi venticinque anni della sua vita. Uguale intimità di cuore e di spirito raramente potè esser vista. Quei libri citati più su sono sbocciati come tanti fiori sotto i benigni raggi di questa felicità domestica che nemmeno la miseria poteva turbare. Infatti la ricompensarono bene. L’Oiseau fruttò ai due autori 19,750 franchi; L’Insecte L. 18,000; La Mère 25,000 e altrettanti La Montagne. Ed ho detto due autori perchè uno scandaloso processo ci ha svelato il mistero d’una collaborazione che sarebbe [12] stato bene fosse rimasta più sospettata e indovinata, che saputa con certezza.
Fino agli ultimi anni della sua vita, in mezzo alle delusioni d’ogni sorta, alle smentite che la inesorabile realtà diede ad ogni passo a tutti i suoi sogni umanitari, il Michelet conservò intatta la sua fede nella giustizia, nella libertà, in Dio e nella immortalità dell’anima. Il raziocinio non entrava per nulla in queste sue convinzioni; il sentimento era tutto. Le contraddizioni non lo imbrogliavano; un soffio possente lo alzava in alto e gli faceva sfuggire la loro brutale azione.
Il Banquet è uno dei lavori dove questi sentimenti del Michelet si manifestano con un’ingenuità colossale e con una sublimità che un po’ tocca il grottesco.
Costretto da una grave malattia a cercare un cielo più clemente, egli lasciò la sua solitudine dei dintorni di Nantes e venne in Italia in un’altra solitudine della Liguria a due leghe da Genova, a Nervi. La sua salute era così distrutta ch’egli non poteva digerire più di due soldi di latte al giorno. Questo digiuno forzato gli dà una specie di allucinazione; egli scorge la fame dappertutto. A Nervi i montoni gli appaiono così magri ch’egli crede non s’osi tosarli per paura di farli vedere in pelle e ossa. «A chaque veille de dimanche, religieusement deux ou trois boeufs nains de taille, noirs de robe, au regard vif, viennent aux deux boucheries du village témoigner de la sobre et spiritualiste nourriture [13] qu’ils ont eue dans la montagne. Les intelligents animaux, élevés aux déserts des Doria, des Spinola (les nobles seuls ont des troupeaux), n’ont jamais alourdi leur existence d’un rassesiement complet: ils vivent et meurent ayant faim.»
E scrive la Filosofia del digiuno (capitolo VI), e parla del gran profeta Rabelais, il creatore di Gargantua; e rimpetto a quelle montagne chauves qui ne demandent qu’à redevenir fertiles, subisce la visione della meravigliosa fecondità del seno del mare; di quei banchi di aringhe e di sardine che vogano come dune in movimento, secondo la frase dei fiamminghi, e riempiscono di viventi atomi gelatinosi e di animali microscopici i vasti paraggi dell’oceano.
Il libro è proprio un’antitesi del gran digiuno dell’autore. Egli che non può mangiare vorrebbe convitar tutti i popoli al gran Banchetto, all’agape universale della conciliazione e della riconciliazione. Sarà un banchetto spirituale, ma anche materiale; i popoli verranno a saziare la loro fame di virtù, di ideale, di sacrifizio, e la terra apparterrà all’operaio, al lavoratore, come la Rivoluzione ha proclamato. Pare incredibile che l’atto pratico lo faccia esitare e lo arresti un qualche poco. Saint-Simon e Fourier si incaricheranno del banquet matérialiste; ma chi penserà a quello dello spirito? Chi scriverà i piccoli libri popolari? Chi organizzerà le feste popolari? Invano Béranger gli disse un giorno: «Lasciate fare al popolo: troverà la sua strada. Convien [14] che crei da sè la sua nuova politica. I suoi libri, i suoi canti l’improvviserà; nessuno sarà bono di farli per lui.» — Il cuore del Michelet non fu pago di questa risposta. Il popolo affamato non avrà mai vigor di pensiero, freschezza di spirito: e poi, quando avrà il tempo di far qualche cosa? Il tempo gli manca. «Des fêtes! Donnez-nous des fêtes!... La presse ne sera jamais en France et en Italie qu’un moyen secondaire d’action. On n’agit sur ses peuples, éminemment électriques, que par la voie vivante des communications orales, des fêtes, des spectacles... Des fêtes! Donnez-nous des fêtes! Que le peuple y voie, y écoute sa propre pensée, s’y nourrisse de sa jeune foi, y communie de lui-même, de son coeur, y soit sa propre hostie!...»
E l’ebbrezza monta, l’allucinazione s’ingrandisce smisuratamente. Egli vede una tavola immensa rizzata dall’Irlanda al Kamtchatka, e tutti i convitati uniti in una stessa communione: è il banchetto delle nazioni. Ma questo non basta. Ci vuol altro! Occorre che il banchetto dell’amicizia universale si distenda dalla terra al cielo, da una ad un’altra sfera. Realizzato il paradiso umano, avremo ancora fame di qualcosa più in là: avremo la faim de Dieu!
Amara irrisione della realtà contro questo nobile sognatore! Egli che sin dal 1848 vedeva già riunite in un fascio tutte le bandiere delle Nazioni: il tricolore d’Italia (Italia mater) l’aquila bianca della Polonia, la gran bandiera del santo Impero, della sua cara Germania, nero, rosso e oro, egli è morto [15] di dolore assistendo ai terribili effetti d’una guerra che la sua voce non aveva potuto impedire, e per la quale sperò l’intervento europeo. Le nazioni da lui convitate al banchetto della conciliazione e della riconciliazione stettero a guardare colle braccia in croce l’immenso disastro della Francia; ed egli ne morì di dolore a Hyères il 9 febbraio 1874. Era di mezzogiorno; il sole (come osserva il Monod), quasi per ricompensarlo del suo culto appassionato, smagliava. Le labbra del venerando cadavere pareva mormorassero l’ultime righe del suo testamento: «Dieu me donne de revoir les miens et ceux que j’ai aimés. Qu’il reçoive mon âme reconnaissante de tant de bien, de tant d’années laborieuses, de tant d’œuvres, de tant d’amitiés!»
4 Agosto 1879.
[16]
I giornali francesi di tre settimane fa parlavano d’una sottoscrizione iniziata per erigere un monumento a Teofilo Gautier in Tarbes sua città natale; l’editore Charpentier riunisce in volume i migliori articoli sparsi qua e là su pei giornali dalla prodiga fecondità di questo scrittore, il quale parve nato apposta per ismentire il proverbio che presto e bene non istanno insieme; un genero dei Gautier, Emilio Bergerat, ce ne dà una nuova biografia, le conversazioni degli ultimi anni, i ricordi e lo scarso epistolario, [17] materiali preziosissimi per un futuro studio di questo moderno pagano adoratore della forma; ecco una bella occasione per tentar di delineare in pochi tratti il poeta, il critico, il romanziere e, sopratutto, l’uomo.
Teofilo Gautier, pei francesi, è rimasto fino all’ultimo l’uomo dal gilè rosso del 25 febbraio 1830 (una data indimenticabile nella storia dell’arte). Non se ne sapeva dar pace. — L’indossai una sola volta e l’ho portato per tutta la vita — soleva dire con tristezza. Ormai il gilè rosso appartiene alla leggenda. Nè vale il sapere che non era rosso, ma color di rosa; che non era un gilè, ma un pourpoint. Il Gautier insisteva sul colore. Il rosso avrebbe avuto un significato repubblicano e fra i romantici di repubblicani ce n’era appena un solo, Pietro Borel. Il resto erano medioevisti, del partito dei castelli merlati, e nient’altro: ecco perchè il pourpoint era color di rosa... Ma già è inutile: il Gautier del 1830 non sarà rappresentato altrimenti.
La sera del il luglio 1867 il teatro della Commedia francese riprendeva l’Ernani. Gautier trovavasi al suo posto come la sera del 25 febbraio di trentasette anni addietro. La lunga capigliatura (la sola cosa che gli restasse del suo esteriore romantico) lo additava alla folla. Entusiasta come una volta, dava il segnale degli applausi nei punti tradizionalmente [18] famosi che gli spettatori seguivano col testo alla mano. Ma la situazione dei due campioni del romanticismo era molto cambiata. Vittor Hugo aspettava a sentire da Jersey l’esito della sua nuova battaglia, ora più politica che letteraria, e Gautier scriveva le rassegne drammatiche nel pianterreno del Moniteur. Il pubblico di quella sera si domandava con curiosità in che maniera il critico avrebbe parlato dell’autore dei Châtiments nel giornale ufficiale dell’Impero. La mattina dopo il Gautier recava egli stesso l’articolo alla Direzione ove, naturalmente, fu pregato d’abbassare un po’ il tono degli entusiastici elogi. Allora prese un foglio di carta, scrisse la sua dimissione e si fece condurre dal ministro dell’interno. Il marchese di Lavallette si vide deporre sul tavolo da una parte l’articolo e la dimissione dall’altra. — Scelga — gli disse il Gautier. L’articolo fu pubblicato senza cambiarvi una sillaba. Nè prima, nè dopo egli è venuto mai meno ai puri principî di arte della sua giovinezza. Il gilè rosso della leggenda potrebbe dirsene il simbolo.
Pochi hanno lavorato più di lui. I suoi scritti, riuniti, formerebbero un trecento volumi. Monselet lo ha chiamato a ragione: le martyre de la copie. Infatti è morto come una sentinella al suo posto. L’ultimo suo articolo, scritto con la mano tremula d’un agonizzante, aveva per soggetto l’Ernani: la morte l’arrestò al punto in cui descriveva la signora Girardin ch’entrava nel palco del teatro.
Le eccentricità della sua giovinezza hanno influito [19] terribilmente sull’intiera sua vita. I bourgeois e le mediocrità, così spietatamente da lui maltrattati, non gli perdonarono mai il famoso gilè e la non meno famosa prefazione della Mademoiselle Maupin. Sul suo conto se ne inventarono d’ogni colore. Fu spacciato ch’era un ubbriacone, un dissolutaccio, un fannullone. — Un fannullone! egli diceva un giorno al Feydeau, ricordando quei tempi di lotte accanite; un fannullone, mentre sudavo a un lavoro da ciclope come ho già sempre fatto da che appresi a maneggiare la penna. Un fannullone! Ed io muoio letteralmente di fatica! — Trop de copie dans mon existence! soleva ripetere; e troppi libri rientrati! —
Infatti il lavoro giornalistico l’oppresse fino all’estremo momento; lavoro duro, ingrato, perfettamente contrario al suo carattere d’artista pieno di capricci e di paradossi. Negli ultimi anni che il disgusto del suo mestiere veniva accresciuto da diverse circostanze, egli non desiderava altro che una piccola rendita fissa per andare a nascondersi in un paesetto di riviera, nel Mediterraneo, e lì estetizzare sulla riva coi piedi lambiti dall’onda marina, come Socrate e Platone. — Un muricciuolo per fumarvi la mia pipa al sole, diceva talvolta colla sua forma plastica, e la minestra due volte la settimana... ecco tutto quel che io desidero. — Questa piccola rendita fissa egli non la ebbe mai. Nell’ottobre del 1870 Edmondo de Goncour, incontratolo a piè della scala del Journal officiel, gli domandò che diavolo l’avesse fatto rientrare in quella sinistra babilonia. — Ve lo dico in due [20] parole, rispose il Gautier posandogli affettuosamente la mano sulla spalla: la mancanza di quattrini. Voi sapete come sparisca presto un biglietto di dugento franchi... Non avevo altro!...
Bisogna dire la verità: i comunardi gli usarono più cortesia dell’Impero. Sotto l’Impero, il Gautier aveva desiderato d’essere o ispettore delle Belle Arti o bibliotecario d’una delle tante biblioteche governative; e non ottenne nulla. Aveva sperato di essere dell’Accademia francese e senatore come Saint-Beuve e Merimée; e non gli riuscì. Il Governo del 4 settembre sapeva benissimo ch’egli non nutriva nessuna tenerezza per esso: intanto ebbe la generosità di mantenerlo nella redazione del giornale officiale. Gautier, confessando ingenuamente la sua sorpresa all’Hetzel, suo vecchio amico repubblicanissimo, aggiungeva: Il ministero repubblicano si è servito di tutto per aiutarmi, pretesti e ragioni: sua mercè posso esser malato tranquillamente... Al suo posto, quant’altri non si sarebbero ingegnati a farmi del male?
il padre e la madre di Teofilo Gautier passarono la loro prima notte di nozze e la loro luna di miele nel castello d’Artagnan appartenente all’abate di Montesquieu, un amico di famiglia. Probabilmente il loro primogenito fu concepito sotto il tetto ereditario del famoso eroe dei Tre Moschettieri. C’è qualcosa di [21] profetico in questa coincidenza. Gautier ebbe del D’Artagnan nel suo carattere d’artista; fu un combattente valoroso e un uomo di cuore fino agli ultimi giorni della sua vita.
Nato a Tarbes il 30 agosto 1811 venne portato a Parigi appena di tre anni, e non rivide la sua città nativa prima del l860. Quando la visitò, i suoi concittadini gìà additavano con orgoglio ai forestieri la casa ov’egli era nato. Facevano anche di più: mostravano un preteso suo banco di scuola tutto guasto dai tagli del suo temperino. Gautier raccontò molti anni dopo colla sua frizzante bonomia la visita da lui fatta a questo famoso banco che, come assicuravano i suoi compaesani, formava l’ammirazione di tutti i touristes. Un giorno s’era presentato incognito al rettore del collegio ove il banco si conservava. — Era la prima volta, egli esclamava terminando il suo racconto, era la prima volta che noi due ci trovavamo faccia a faccia: ma, infine, se non era il mio banco,... avrebbe potuto esserlo! —
Questo eccesso di ammirazione paesana non impedì intanto che il municipio di Tarbes rifiutasse di concedere nel 1872 un po’ di largo comunale per mettervi il monumento del celebre scrittore progettato in quei giorni. È destino: il bourgeois persecuterà il povero Gautier fin dopo morto!
Terminati i suoi studi al collegio Carlomagno, il Gautier non pensava punto a diventare un letterato. Voleva essere pittore, e frequentò lo studio del Rioult, un uomo di spirito, bruttissimo e paralitico della [22] mano destra, il quale dipingeva colla sinistra come il Jouvenet. L’incontro del Gautier con Vittor Hugo, Gavarni, Balzac, Dumas lo trascinò nel gran vortice romantico e lo mutò (pel suo meglio, benchè egli non volesse convenirne) in un pittore della parola. A dargli retta, non era nato per la scrittura (il suo motto di sprezzo per l’arte di scrittore), e il libro gli aveva rubati tutti i soggetti dei suoi quadri. — Non sarei stato nè un Rembrandt, nè un Veronese, diceva a chi mostrava dubitare della sua vocazione per la pittura; però, a quest’ora mi troverei come il tale e il tal’altro, dell’Istituto. — Certamente i saggi che ne rimangono non promettevano molto. Un disegnatore freddo e corretto come uno scolare sgobbone, un accademico alla Chênedolle e senza la menoma qualità di colorista: ecco il Gautier pittore. Ma egli, al solito di tutti gli uomini d’ingegno, s’ostinava ad attribuirsi un merito che non aveva; e nei momenti di malumore se la prendeva contro la società nemica decisa di tutte le vocazioni. — Sei tu nato calzolaio? esclamava. La società ti forzerà ad essere un fabbricante di cappelli. — Ingres, secondo lui, era stato creato espressamente dalla natura per suonare il violino. Il caso ne aveva fatto un pittore ed egli, da uomo di genio, non se n’era cavato tanto male. Infatti l’Ingres non affermava egli stesso d’essere, innanzi tutto, un violinista? — E aveva ragione! aggiungeva il Gautier.
C’era un certo pastello (oggi appartenente al perito Haro), del quale il Gautier parlava sempre con [23] fierezza. Era stato venduto trecento franchi all’hôtel Drouot!
Nel 1858, andato ad abitare la casetta della via Longchamp a Neuilly, egli si sentì ripreso dalla smania di avere uno studio di pittura accanto al suo studio di scrittore; e lo fece costruire a proprie spese, quantunque la casa non fosse sua. Era un gran stanzone che dava sul giardino, con bella luce temperata dal fogliame degli alberi, con uno scaffale circolare per la biblioteca artistica, mobili alla turca, disegni, costumi, panoplie alle pareti, un vero studio da pittorone con ricca clientela... Intanto in due anni c’entrò appena due volte. Lo studio divenne prima una stanza da riposto per la biancheria sudicia, poi un ricettacolo di libri vecchi, finalmente una gattaia (la parola non c’è, ma la formo; non abbiamo topaia?) ove una torma di gatti viveva e si moltiplicava colla più assoluta libertà.
Nel 1867 provò un altro eccesso di febbre pittorica. Voleva fare un quadro allegorico, la Malinconia, e mandarlo al Salone. Le sue figlie posarono per la figura... ma il quadro rimase lì, incompleto. Questo entusiasmo e questo rimpianto per la pittura non gli vennero mai meno. Pochi mesi prima di morire, pur di maneggiare pennelli e colori, s’era messo a dipingere in rosso gli usci dell’appartamento d’uno dei suoi generi, il Bergerat. Com’era felice! Com’invidiava le soddisfazioni del decoratore! Prese la cosa tanto a cuore che la distrazione gli produsse un’eccitazione pregiudicevole per la sua salute e bisognò [24] proibirgliela. — Via! Eccomi ricondannato a mettere del nero sul bianco! esclamò, sorridendo mestamente.
I più begli anni del Gautier furono quelli trascorsi dal 1830 al 1836. Viveva da lion, da fashionable e vestiva a una foggia di sua invenzione. Era alto, bello, maestoso, con una fisonomia dolce e con degli occhi neri, d’un carattere merovingiano, come si compiacciono a constatare il Feydeau e il De Goucourt. I capelli color castagno chiuso gli scendevano proprio fino alla cintura, coprendogli tutto il busto. Portava un largo abito di velluto nero, dei calzoni a calza e delle pantofole di cuoio giallo: nessun cappello. Un ombrellone spiegato trionfalmente nei giorni di pioggia serviva a metterlo più in mostra quando se n’andava lentamente per la via, col sigaro in bocca, fermandosi innanzi alle vetrine, pieno di nobile sprezzo pei scandolezzati borghesi che lo guardavano con tanto d’occhi.
Non bisogna dimenticare che a quell’epoca il romanticismo aveva sviluppato in Francia la mania dei travestimenti. La Doudevant vestiva da uomo e prendeva il nome di Giorgio Sand; Romieu e il conte di Saint-Cricq inventavano un travestimento al giorno, pur di far parlare di loro; i sansimoniani andavano attorno vestiti da paggi del Risorgimento. Le vie dei Martiri, di S. Lazzaro e di Clichy erano chiamate il quartiere della Novella Atene, e formicolavano [25] di poeti, di pittori, di maestri di musica e di belle ragazze, gente ardita e spregiudicatissima, che poi divennero quasi tutti celebrità nazionali e portinaie.
I primi versi del Gautier furono poco gustati. Albertus fece rumore. Il buon successo dei Jeunes-France determinò l’editore Reudel a dargli la commissione d’un romanzo. Allora Teofilo Gautier concepì e scrisse Mademoiselle Maupin; ma quasi di mala voglia. Nella sua qualità di romantico ultra, odiava la prosa. Suo padre era costretto a chiuderlo a chiave nella stanza di studio. — Non uscirai di lì, gli urlava dal buco della serratura, se non avrai scritte dieci pagine. — E il Gautier qualche volta si rassegnava; ma spesso scappava dalla finestra, quando la sua mamma non veniva ad aprirgli di nascosto del marito per timore che il figlio non si affaticasse di troppo. Mademoiselle Maupin fu pubblicata nel 1836. Destò un fracasso infernale. Un critico parlò seriamente di mandar l’autore alla corte d’assise. Feydeau racconta d’aver veduto un pasticciere della via Breda mostrar i pugni rabbiosi al Gautier che gli voltava le spalle. Si vede che in tutti i tempi e in tutti i luoghi certa gente è sempre impastata della medesima creta. La prefazione della Mademoiselle Maupin può dare un’idea di quel che fosse la conversazione del Gautier; sono pagine che vivranno ancora quando il romanzo sarà morto. Il Gautier non smentì mai la sua teorica proclamata con tanto splendore di forma e tanta novità di concetti. [26] E quando il governo imperiale intentò un processo al Flaubert per la Madame Bovary, s’arrabbiava in vedere che il mondo del 1855 non era diverso di quello del 1836. Non è diverso nemmeno oggi!
Alla Mademoiselle Maupin tennero dietro novelle e romanzi e la Comédie de la Mort, un capolavoro poetico che chiude il bel periodo della giovinezza del Gautier. Poi cominciò l’ingrato còmpito giornalistico, i lavori comandati, una catena da forzato che gli stette attaccata al piede per 36 anni. Nessuno l’ha portata con maggiore apparenza di gaiezza, di noncuranza, e senza che ne trasparisse mai nulla da quella forma elegante, accentuata, piena di colorito e di splendore ch’è una vera meraviglia.
Il Balzac gli invidiava la facilità. Il Gautier era sempre pronto a scrivere il suo articolo in qualunque posto, a qualunque ora. La sua prosa, una delle più ricche della lingua francese, colava dalla penna colla fluidità dell’inchiostro, senza nemmeno una cancellatura. — Due soli in Francia sappiamo il francese, soleva dire il Balzac, Gautier ed io. — L’adorazione della forma era tale nel Gautier che arrivava all’assurdo; per esempio, fino a fargli trascurare la punteggiatura e gli accenti. Secondo lui, alcune parole avevano più carattere senza ortografia, e gli doleva doverle correggere. — I più bei libri stampati, affermava, sono quelli dove c’è più di carta bianca. —
La sua memoria era straordinaria e gli aiutava molto la facilità di comporre. Letto un libro, visto [27] un quadro o un paesaggio, non lo dimenticava più. Il suo Viaggio in Russia fu scritto quattr’anni dopo d’averlo fatto, e senza il soccorso d’appunti. Si sa che tutte le suo descrizioni di luoghi sono un miracolo d’esattezza. Quel prodigio di pastiche che è il Capitain Francasse, scritto nella lingua del secolo XVI, fu composto sur un banco della libreria Charpentier di mano in mano che occorreva ai fascicoli della Revue Nationale. Il Gautier aveva ideato questo lavoro nei bei giorni del romanticismo e l’aveva portato nella sua immaginazione quasi trent’anni, a traverso tanti lavori, tanti viaggi, tante preoccupazioni della vita: un fiore della sua giovinezza a cui era stato impedito di sbucciare. Quando il suo editore glielo richiese, egli si mise a scriverlo come se non avesse pensato ad altro durante tutta la vita. Non ebbe bisogno di rileggere un libro, di consultare un dizionario, e scrisse, al suo solito, senza fare una cancellatura e senza gli sfuggisse una sola parola che non fosso del secolo XVI. Intanto attorno a lui quattro o cinque commessi lavoravano all’imballaggio delle spedizioni librarie.
Critico di arte e critico drammatico al Moniteur, il Gautier vi si mostrò sempre d’una benevolenza straordinaria. Un po’ questa benevolenza era nel suo carattere così facile all’ammirazione; ma il più egli se l’era imposta per la sua qualità di critico [28] ufficiale. Temeva che la severità dimostrata in quel posto potesse nuocere alla carriera d’un artista e togliergli il pane. E poi la critica egli la capiva incoraggiante, cortese, e non tutta accanita a trovare i difetti d’un lavoro. — A questo modo, diceva, si disseccano le vive fonti d’ogni produzione artistica e intellettuale. — Infatti egli ammirava con una straordinaria espansione. Un giorno fu visto entrare nelle stanze della redazione dell’Artiste col viso raggiante di gioia. — Ho scoperto un capolavoro! rispose ai suoi amici che gli domandavano quale felicità gli fosse caduta dal cielo. E cavò di tasca il volumetto Un été dans le Sahara di Fromentin. Nell’articolo che subito ne scrisse, il Fromentin era chiamato semplicemente: uno dei re del pensiero. — È dolce il lodare! — lo ripeteva spesso. Ma la sua benevolenza non lo fece mai transigere colle cose triviali. Delarôche, Delavigne e Scribe furono da lui attaccati senza misericordia e senza tregua. Gautier non pativa i mediocri.
Uno dei suoi bei progetti degli ultimi anni era una serie d’articoli da intitolarsi: Ceux qui seront célèbres. Voleva andare scovando qua e là dei veri ingegni e proclamarli, metterli in vista, come aveva fatto col Fortuny. Ma rimase un progetto. La sola vanità letteraria ch’egli avesse era a proposito delle sue divinazioni critiche e artistiche. Affermava che, in trent’anni, non s’era ingannato una sola volta, che tra i suoi mille articoli non ce n’era un solo ch’egli non potesse tornare a firmare senza cambiarvi [29] una sillaba. Aveva indovinato Delarôche, Gérôme, Fortuny, Regnault quando la grande e la piccola critica parigina ne dicevano roba da chiodi. Voleva chiudere la sua vita battezzando per l’eternità qualche genio nascente ed oscuro: già ne conosceva parecchi.
Come critico drammatico il Gautier godeva al Moniteur meno libertà di giudizio che come critico di arte. E poi per lui l’arte drammatica contemporanea era un’arte abietta, grossolana, un’arte inferiore, un giuoco di combinazioni meccaniche, qualcosa che somigliava alle sciarade: il suo compito quindi gli diventava insopportabile. Bisogna confessare che su questo conto le suo idee erano, per lo meno, troppo incomplete. Il suo ingegno plastico lo trascinava a preoccuparsi soltanto della forma, dell’esteriore; il suo istinto artistico gli dava la nausea della realtà. — Molière, egli diceva, innanzi tutto è un poeta e un poeta fantaisiste. Con quattro arlecchini tolti ad imprestito dalla commedia italiana, egli vi dà l’impressione della vita; ma la vita, no, mai; è troppo brutta, lo sa bene e se ne guarda! Oggi si scrivono forse delle commedie? Si fanno dei corsi di patologia. — E malgrado queste idee, il più delle volte era costretto a lodare. E quando se ne rifaceva sfogandosi a quattr’occhi cogli amici, o qualcuno d’essi gli domandava perchè non manifestasse quei giudizii nei suoi feuilletons: — Ecco una storiella, soleva rispondere. Un giorno il Waleski mi disse che d’allora in poi ero libero, assolutamente [30] libero nel giornale: potevo bandire ogn’indulgenza, subissare chi volevo. Ma, gli soffiai in un orecchio, in questa settimana avremo al teatro francese la commedia del X... — Ah!... Sarà per l’altra settimana, rispose sua Eccellenza. — Quest’altra settimana l’aspetto tuttavia! —
In ogni modo la vera critica drammatica, secondo me, non ha perduto nulla per questa sua mancanza di libertà. Il Gautier era troppo esteriore da poter intendere quel che più importa nell’arte, la vita. Per lui non esistevano che la forma e il colorito: il sentimento, il carattere gli parevano cose secondarie. La sua guerra allo Scribe e al Delavigne fu, sopratutto, una questiono di forma. La forma! Il colorito! I suoi viaggi, le sue novelle, i suoi romanzi, le sue poesie, si può dire non siano altro. Gautier non lascia una sola creatura vivente, come n’ha lasciate a centinaia il Balzac: lascia dei quadri. Il bello egli lo trovava soltanto nella natura e nelle arti. L’intelligenza dell’uomo voleva ammirarla nei suoi prodotti senza preoccuparsi dei segreti del loro destino. Una città l’interessava unicamente pei monumenti. Gl’importava assai fosse sporca, oppure un covo di delitti! — Purchè non mi si ammazzi mentre sto ad ammirare! — Tutto il Gautier è in queste parole. La féerie, un turbinìo, un bagliore di luce e di colori: ecco l’ideale di lui pel teatro.
[31]
Il suo carattere era simpatico. La sua conversazione brillante, argutissima, piena di frasi e di parole d’un piccante rabelesiano erudissimo, non si potrebbe stampare. Parlava volentieri; il sigaro gli si spegneva cento volte in un’ora, e le cose dette sembravano più belle per l’espressione della sua magnifica voce di gorgia, calda, vellutata, limpidissima. Malgrado questo, egli stonava cantando: ma sosteneva che l’essere intonati sia un’anomalia, e la voce musicale sviluppata nei Conservatorî una malattia della laringe. Gli uccelli stonano a detta dei maestri di musica, ma il canto degli uccelli è il canto per eccellenza. I cani abbaiano sentendo un vero cantante. Io che stono, aggiungeva, non li sveglio nemmeno; sono dunque nel vero. Il solfeggio perverte l’orecchio. —
Da giovane amò molto gli esercizi ginnastici. La sua forza erculea gli permetteva di far dei prodigi. Si vantava di poter traversare a nuoto l’Ellesponto come Lord Byron, e raccontava di aver fatto la prova d’andare così da Marsiglia al castello d’If e viceversa. Certamente il suo appetito eguagliava la sua forza muscolare. A tavola diluviava, e due ore dopo domanda qualche cosettina un po’ sostanziosa. Non mangiava pane colle vivande, e non beveva mai tra un piatto e l’altro; tracannava all’ultimo due, tre bicchieri di seguito. Come Dumas il vecchio, [32] il Gautier la pretendeva un po’ a cuoco. La sua specialità era il risotto: nessuno (affermava) sapeva cuocerlo meglio di lui. Si vantava di aver dato una bella lezione al cuciniere dell’imperatore di Russia a proposito d’un certo piatto ove dovevano entrare come ingredienti le mandorle peste, e quegli vi metteva invece dei maccheroni tritati. La lezione gli fruttò la gran ricetta del risotto.
Buono, casalingo, negli ultimi anni aveva perduto ogni traccia d’eccentricità. Si divertiva a costrurre dei teatrini di marionette pei suoi bambini e ne dipingeva le decorazioni con un piacere straordinario. Quando tornava da Parigi col denaro dei suoi lavori giornalistici, rientrava in casa contentissimo e si vuotava le tasche sul suo tavolino da studio. Poi faceva colle monete tanti mucchietti disuguali e diceva: questo pel fitto della casa, questo per le spese di famiglia, questo per le sorelle, questo pei bimbi, questo pel sarto, questo pel calzolaio, questo per le tasse, questo pel giardiniere... — E per voi? gli chiese un giorno il Feydeau presente a questa scena. — Per me? Oh! pochino, rispose il Gautier dolcemente.
Quest’uomo che pareva un gran scettico era superstizioso come una femminuccia. Credeva al mal d’occhi, alla jettatura, al venerdì; aveva un orrore delle cose morte e una grande paura della morte. La più piccola indisposizione lo scoraggiava. Nell’ultima sua malattia la famiglia dovette prendere mille precauzioni per non fargli sapere il nome del male [33] che lo uccideva. I giornali erano letti da cima a fondo prima di darli a lui pel timore che l’indiscretezza d’un reporter non gli riuscisse fatale. Finalmente queste precauzioni furono un po’ tralasciate, fidandosi del disgusto ch’egli mostrava pei giornali. Ma un giorno, a tavola: — Dunque ho una malattia di cuore! egli dice. Lo sospettavo! — Lo aveva letto in un foglio del mattino.
Povero Gautier! Prima che avesse questa certezza faceva mille progetti di lavori: un romanzo feuilletton interminabile, Le vieux de la Montagne; un dramma tragico, Fedra, apoteosi d’Ippolito, il casto adoratore di Diana; un romanzo storico su Venezia; un libro sul Gusto che doveva dimostrare come qualmente il pane ne sia uno dei corruttori supremi, e come qualmente l’umanità debba dividersi in frugivori o carnivori, se vuolsi trovare sul serio una filosofia della storia; un altro libro su Vittor Hugo, il suo grand’idolo; e finalmente un volume di pensieri da pubblicarsi dopo la sua morte, testamento di verità all’umanità intiera. — Sarà una cosa terribile! soleva dire parlando di questo. Vi si rizzeranno i capelli sulla testa! —
Ma già le gambe gli si gonfiavano e lo servivano male. La sua conversazione sembrava uno sforzo penoso; la parola era restìa sulle sue labbra: le idee gli si confondevano nel cervello. Una sonnolenza continuata gli aggravava le pupille.
La mattina del 23 giugno 1875, allo 8 e 35 minuti il Gautier spirava senza nessuna sofferenza visibile, [34] come un uomo che si fosse addormentato per non risvegliarsi più.
Il Gautier confessava volentieri d’essere panteista. Ma lo era più per sentimento che per vera e ragionata convinzione.
— Hai tu mai potuto sapere quel che veniamo a fare quaggiù? domandò un giorno al Feydeau.
— Io? Niente affatto, rispose questi.
— Forse lo sapremo quando non ci servirà a nulla, riprese il Gautier: cioè, quando rosicchieremo le radici degli alberi al cimitero.
— In tal caso, replicò il Feydeau, chi di noi due sarà costretto a fare pel primo questo bel lavoro dovrà venire a rivelarne qualcosa all’altro.
— Sta bene! disse il Gautier.
— Ma finora non ha mantenuto la promessa! esclama tristamente il Feydeau nei suoi Souvenirs intimes.
E non ha nemmeno aspettato che la mantenesse: è sparito anche lui!
25 Agosto 1879.
[35]
Lionardo Vigo, morto in Acireale sua patria il giorno 14 dello scorso aprile, era una delle più vigorose e più attraenti figure isolane della generazione letteraria del 1848.
Notissimo in Europa a tutti gli studiosi di canti popolari per la sua ricca raccolta dei Canti popolari siciliani, il Vigo è poco conosciuto nel continente italiano. Nel 1802 fu fatta in Torino dall’Unione tipografico-editrice un’edizione della sua Lirica... «Abbiamo voluto dare un amplesso alla Sicilia, dicevano gli editori, nella persona di uno dei suoi più gentili ed immaginosi poeti viventi.» Ma, benchè il volume faccia parte della Nuova biblioteca popolare, il Vigo non ha mai ottenuto nel continente la notorietà d’alcuni suoi contemporanei siciliani, dell’Amari, per esempio, e dell’Emiliani-Giudici, che furono legati con esso da un affetto quasi fraterno.
[36]
Non è un’ingiustizia del pubblico. Le liriche del Vigo e il suo poema epico il Ruggiero hanno molti pregi poetici ed un grandissimo valore come documenti di storia, ma difettano del pregio essenzialissimo d’un’opera d’arte, della squisita fattura della forma. Inoltre, il principale, anzi l’unico sentimento che li domina è un sentimento di così profonda sicilianità (mi si perdoni la parola) che oggi non trova più eco nemmeno nella stessa Sicilia.
La forma del Vigo non è trascurata. Ho riletto in questi giorni il suo volume delle liriche. Esse hanno un sapore aspro, una muscolosità che fa impressione in mezzo al flaccidume poetico diventato di moda. Nel Carme a Bellini c’è tutto lui, colla sua anima, col suo cuore. Egli dice al Maestro della Norma e della Straniera, non ancora autore dei Puritani:
Vision de’ tuoi sogni e di tue veglie
Primo pensiero sia la patria. Oh pèra
Nel seno infausto della madre il vile
Condannato a tradirla; un fulmin colga,
E il cenere ne sperda il vento e il mare,
Chi vita ebbe in Sicilia, e non l’adora
E non piange al suo pianto!...
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Mentre a me questo cittadino carme
Spira la musa, tutte il ciel spalanca
Le cateratte e neve e grando e piova
«Per l’aer tenebroso si riversa,»
Che le speranze del cultor diserta.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Aperti l’Etna i fianchi, in ciel colonna
Di fiamme estolle e di putido fumo
Che cener piove, il firmamento oscura.
Trema la terra, che ondeggia dagl’imi
Cardini scossa, e van tra le cruente
[37]
Macerie pesti, semivivi e spenti
D’ogni età e sesso. Fiumi di cadente
Liquida brace rotola mugghiando
Dalle dirotte viscere il vulcano.
Eternalmente di fuse montagne
I còlti accieca; e boschi e vigne e case
Vorando, spinge le pietrose terga
Vêr la città cui Bronte il nome impose,
D’onde di preci e lai si alza infinito
Ululato di morte. E quindi vedi
Fuggir ondante il popolo perplesso.
Con lo sgomento de’ perduti in viso;
Lasciar le sacre vergini i giurati
Asili, e misti alle squallide torme
Volger da lunge a quelle mura un guardo,
E novo il pianto universal levarsi;
Quinci fiumi, burroni, argini, valli
Travalicando impetuosamente
La fiumana precipite appressarsi
All’atterrite mura... Oh quanti un nume
Fabbricò mali a la gentil mia terra!
Non sono dei più belli del Vigo, ma ho voluto trascrivere questi versi, perchè la recente eruzione dell’Etna e i tremuoti e i disastri di Santavenerina Guardia danno ad essi in questi giorni il tristo colorito dell’attualità.
Belli davvero mi paiono i seguenti che descrivono una notte ed il simoun del deserto egiziano:
Pei superni azzurri
Lucidissima, bianca e senza veli
In tutta sua rotondità la luna
Si fea specchio al vital disco del sole;
E dall’alto parea volger pietosa
La mestizia dei rai su l’inarata
Nudità de’ deserti, a cui sta presso
Damiata e la barbara Mansura.
Senz’orma o aspetto per le desolate
Sabbie errava il Silenzio: immenso, tetro,
[38]
Come l’ombra che allunga al dì che more
Il gigante Imalaia. E rado e triste
Un palmizio, un gibboso arbore a gomma
Sorgea, qual funeral cippo pel nudo
Orror di un cimitero; e il guair bieco
Di jene e tigri e sciaccàli pel morto
Aere, senz’echi, si perdea. Da lunge
Le inghirlanda la zona, ove un’eterna
Primavera verdeggia, infra i zampilli
Di scorrevoli argenti, e decrollate
Piramidi, delubri e sfingi e tombe
Insculte in sacre note al vulgo arcane.
. . . . . . . . . . Appena il sole
Dalle niliache conche erse la fronte,
E indorò i cieli e i monti, ad ora ad ora
Dalla torrida zona il tifon destasi
Col moto dell’elettrico, la vampa
D’arsa fornace ed il scrosciar del tuono.
Alba d’inferno! La natura pavida
Trema a’ rugghi del mostro: a lui dinanzi
Sterminio e morte; e senza nubi, il cielo
Di turbinata polve s’intenebra.
Siccome mare fremita e commuovesi
L’arenoso deserto; alzansi all’etera
Le sabbie, ed in ricciute onde s’insieguono
Fra i vortici, le raffiche e le ignite
Reflue correnti, e il reboar del vento,
Che i colli schianta, i piani apre in voragini,
Accieca, intomba i viandanti a mille,
E diserta il deserto.
Questi tratti non sono rari nel Vigo, e se la ristrettezza dello spazio non me lo impedisse citerei quel brano smagliante di luce che descrive il viaggio della regina Costanza in Sicilia (A Giovanni Procida, carme). Ma egli sdegnava troppo i lenocini della forma; li chiamava meschine concessioni all’effeminatezza del secolo. Voleva la poesia tutta piena di fatti, di pensieri; e quanto più nudi, secondo lui, tanto meglio. Non amava l’Arte per sè stessa: ma come [39] un mezzo politico. Non è quindi da meravigliarsi se l’arte gli tenne un po’ il broncio.
Il suo volume delle liriche, intanto, benchè non abbia un valore artistico, rimarrà senza dubbio un vero documento di storia. Le aspirazioni, i fremiti, i dolori della Sicilia prima del 48 gridano lì da ogni pagina, da ogni strofa, da ogni verso. Il suo Ruggiero, un lavoro di lunga lena, si può dire la glorificazione dell’indipendenza del regno di Sicilia e delle libertà parlamentari della nazione siciliana. «È il ruggito di una gente ferita al petto da un despota, la quale si sforza risorgere per immergergli nel cuore il pugnale con cui la percosse» com’egli dice nella prefazione; un atto politico, insomma, non un’opera d’arte.[3] Un altro atto politico è la Raccolta dei canti popolari siciliani, pubblicata nel 1857.
Io conobbi il Vigo quand’egli curava la stampa della prima edizione di essa. M’ero presentato a lui con un centinaio di canti popolari da me raccolti fra i contadini di Mineo e questo bastò per farmi avere la più festosa accoglienza. Era pieno di entusiasmo. L’idea che quella raccolta avrebbe affermato in Europa la personalità della nazione siciliana con un tesoro di canti dava un’animazione giovanile alla sua severa fisonomia.
Ogni due giorni egli veniva colla sua carrozza da Acireale in Catania. Il tipografo Galatola aveva dovuto metter su, in un locale a parte, una sezione della [40] sua tipografia dedicata unicamente alla composizione ed alla stampa della raccolta, e le correzioni diventavano un affare seriissimo. Una virgola di più, un dittongo sbagliato della mal sicura ortografia del dialetto addoloravano il Vigo come un delitto di leso amor patrio. Alla tiratura d’ogni foglio, egli ne aspettava impaziente la prima copia, la piegava da sè, la metteva in serbo entro la sua tuba per evitare di maltrattarla e ritornava in Acireale, ove gli si spedivano colla posta le prime bozze dei nuovi fogli di stampa.
Il giorno della pubblicazione doveva essere una vera festa; ma l’edizione fu sequestrata dalla polizia prima che se ne fosse potuto dar fuori una sola copia. L’intendente Panebianco, il braccio diritto di Ferdinando II nella provincia di Catania, vi aveva subito scoperto un canto rivoluzionario, sfuggito alla meticolosa oculatezza del regio revisore. Il corpo del delitto erano due ottave che ora non mi è riuscito di pescare nella nuova edizione dei Canti popolari. Uno schiavo rivolgevasi al crocifisso onde esser liberato delle sue catene. — «Sei tu forse inchiodato in croce al pari di me? rispondeva il Cristo; non puoi tu sbattere coteste catene sulla testa dei tuoi padroni?» — Col Panebianco non si canzonava. Il revisore, un canonico, era mezzo morto dalla paura di perdere il posto. Non sapeva spiegarsi in che modo quelle diaboliche ottave si fossero ficcate nel manoscritto: avrebbe giurato, mettendo una mano sul fuoco, che quando egli l’ebbe esse non c’erano [41] affatto. Ma il manoscritto lo smentiva; portava in ogni pagina la firma di lui e tanto di bollo dell’ufficio.
Il povero canonico aveva ragione. Il Vigo presentando il manoscritto alla censura aveva lasciato in bianco lo spazio e, ottenuta l’approvazione, v’aveva aggiunto quell’ottava, ritenuta maggiormente rivoluzionaria perchè messa in bocca del Cristo. Per placare le furie del Panebiarico bisognò ristampar la pagina e rifare l’ottava. Nella nuova lezione, il Cristo rispondeva allo schiavo: «Rassegnati e prega.»
La polizia, così ombrosa per pochi versi perduti fra più migliaia di ottave, lasciò intanto passare inosservate alcune righe dell’introduzione che avrebbero dovuto darle assai più da riflettere. Sostenendo gagliardamente l’opinione che tutti i dialetti della penisola siano derivati dall’antica lingua italiana esistente in Italia sin dai tempi preistorici, il Vigo paragonava questa lingua ad una sorgente da cui prendono origine tanti rigagnoli che poi si raccolgono in un fiume. Il fiume significava naturalmente la lingua italiana odierna che «disseta 30 milioni di uomini i quali, se Dio raccoglierà altra volta sotto un’unica bandiera, non daranno, egli è vero, leggi, religione e lingua alla terra dalla sommità del Campidoglio, ma non saranno secondi a nessuna delle nazioni che popolano la superficie della terra.» Si vede bene che nel 1857 nè i regi revisori nè le autorità borboniche sospettavano nulla della futura unità italiana. Però, con tutta la riverenza che sento pel Vigo, io credo che [42] neanch’egli no sospettasse nulla e prima del 1848, quando quello parole furono scritte, e nel 1857 quando esso vennero pubblicate. No, non si tratta d’una predizione, com’egli assicura in una nota della nuova edizione della sua Raccolta (pag. 32). ma semplicemente d’uno di quei platonici voti da erudito, che allora sfuggivano dalle penne degli scrittori come sprazzi rettorici. E ciò sia detto non per offendere la memoria dell’illustre patriota siciliano, ma per iscrupolo di storica esattezza. Ai meriti del Vigo non aggiunge nulla il farlo bello del senno di poi: gli toglie anzi qualche cosa della sua schietta e fiera personalità che io qui m’ingegnerò di porre nella sua vera luce.
Discepolo del Nascè, amico dello Scinà, del Palmieri e della numerosa schiera di valorosi ingegni siciliani che parte perirono nel colera del 1837, parte prepararono ed attuarono la rivoluzione del 1848, il Vigo fu educato a quel culto quasi idolatra della sua isola che dà gli ultimi guizzi nel piccolo strascico di regionisti tuttora esistente in Palermo. Egli fu dei più attivi nell’opera d’unificazione morale delle diverse provincie siciliane per cui fu possibile la rivoluzione del 48. Viaggiò a questo scopo da un capo all’altro della Sicilia, tentò rianimare l’Accademia Palermitana sotto il pretesto della compilazione di un vocabolario della lingua siciliana, ma col vero scopo di far convergere e di annodare in Palermo tutte le forze intellettuali dell’isola; e le sue poesie a Palermo, a Messina, a Trapani, a Catania, il [43] suo carme sulle Rovine di Agrigento, l’ode a Ruggiero primo re di Sicilia, le canzoni Al mare di Sicilia, ai Sapienti, ad Archimede, il poema epico Ruggiero ideato nel 1828, terminato nel 1839 e rimasto inedito sino al 1885, non sono altro che gridi di riscossa, dove l’archeologia serviva a sviare i sospetti della terribile polizia borbonica. Convien però confessare ch’egli mostrò di avere vedute politiche assai più larghe di tutt’i suoi contemporanei del 48. Infatti nel Parlamento siciliano, nelle memorabili tornate dell’aprile, fu il solo che osasse dissuadere i deputati dal votare la decadenza dei borboni. E quando la prevista invasione napoletana gli diede ragione, il Vigo si chiuse nella solitudine delle sue campagne ai piedi dell’Etna e tornò scoraggiato ai suoi studi linguistici e storici e alle sue piantagioni dei vigneti di Baddu.
Nel novembre del 1858 io visitai il Vigo in Acireale insieme al povero Beppino Macherione (un vero ingegno poetico, morto di tisi a Torino nel 1871, che il Vigo amava come un figlio), al Beritelli, un altro giovane che allora prometteva molto coi suoi studî serî e dopo si è contentato di fare unicamente il professore di storia, al Tenerelli ora deputato al Parlamento che non ha ancora data la misura di quel che possa il suo ingegno. La casa del Vigo è una casa severa, dello stile del secolo passato. In una sala c’è il suo busto in marmo e quello della sua prima moglie Carlotta Sweeny, che visse con lui soltanto due anni. Ricordo una bella testa dipinta a [44] fresco su tavola da quell’Emmanuele Grassi che aveva trovato il metodo di dipingere a fresco su tavola e su tela. Oggetti d’arte antichi e moderni ingombravano le pareti ed i mobili, disposti in armonia collo stile architettonico della stanza. La biblioteca era ricca. In uno scaffale a parte, disposta in cartoni segnati colla data d’ogni anno, stava la voluminosa corrispondenza del Vigo cogli uomini più illustri di questo secolo, italiani o stranieri, che è d’una grandissima importanza. Il Vigo ebbe anche, per più anni, una relazione epistolare esclusivamente letteraria colla regina Vittoria e col principe Alberto. Egli ignorava l’inglese, ma non faceva tradurre le sue lettere. La regina Vittoria e il principe Alberto scrivevano in inglese. La loro corrispondenza non è autografa: l’etichetta di corte lo vietava. Tutto quell’immenso tesoro di lettere era accuratamente ordinato per settimane, per mesi, per anni; e ogni cartone aveva il suo indice. Il Vigo metteva in questo la stessa meticolosa esattezza che nell’amministrazione del suo patrimonio. Il vigneto di Baddu aveva un catalogo, preciso come la biblioteca. Egli poteva dirvi lì per lì qual genere di vitigno si trovasse in un dato filare, e il giorno della piantagione e dell’innesto di esso.
Il Vigo, che amava i giovani con cordialità proprio rara, quasi con tenerezza, quel giorno ci accolse con più affabilità del solito. Cominciava allora a manifestarsi in Sicilia l’irrequietezza foriera della rivoluzione del sessanta. Ma i tempi erano mutati. [45] Balbi, Gioberti, Azeglio, Guerrazzi, Niccolini avevano esercitato anche là la loro efficace influenza. Ferdinando II era riuscito a fabbricare tra l’isola e il continente una specie di muraglia della China, ma le idee e i sentimenti passavano di sopra d’essa. E poi il quarantotto non c’era stato per nulla: i tempi erano mutati. Noi giovani amavamo la Sicilia ma, assai più d’essa, l’Italia. Palermo aveva cessato d’essere la nostra stella polare. L’idea d’un regno di Sicilia, d’un Parlamento siciliano ci faceva sorridere come una cosa stravecchia e inconcludente. Si parlò dunque di politica, a fior di pelle, per accenni: il terrore della polizia ci rendeva cauti anche fra le quattro mura della piccola stanza ove ci trovavamo. A un tratto il Vigo ci disse che voleva leggerci l’introduzione alla sua storia della rivoluzione siciliana del 48, alla sua testimonianza come l’ha intitolata, perchè vi parla sopratutto dei fatti ch’egli vide e nei quali prese parte. La proposta fu molto gradita, ed egli cominciò a leggere con una certa solennità. La sua voce era commossa. Il regno siciliano, la nazione siciliana sopratutto, vi facevano capolino ad ogni periodo. Noi ascoltavamo riverenti ma ci guardavamo di tanto in tanto negli occhi: ci pareva di sentire un linguaggio dell’altro mondo. Il regno di Sicilia, la nazione siciliana, il conte Ruggiero, la costituzione e da capo la nazione siciliana risuonavano più insistenti in quei periodi scabrosi, marcati d’un sigillo personale che la voce e l’accento del Vigo rendevano più evidenti. Ma dopo [46] dieci minuti la nostra sincerità giovanile ci fece scoppiare in una risata che cercammo di reprimere invano. Il Vigo capì subito, i suoi occhi s’aggrottarono severamente, il suo volto divenne pallido.
— Matricidi! — ci urlò in viso, lanciando il manoscritto sulla sedia accanto.
E non volle andare avanti, quantunque noi gli si chiedesse scusa, mortificatissimi, e lo si pregasse insistentemente di continuar la lettura.
Il Vigo non aveva torto. Quel riso ammazzava la Sicilia come nazione, ed egli non poteva perdonarcelo. Gli avevano ferito il cuore nella sua cosa più cara.
Dopo la guerra del 59, l’opera dei comitati segreti ferveva. Quei che parlano delle ostilità del Cavour all’impresa del Garibaldi non sanno quel che si dicano. Il movimento siciliano era diretto dal La Farina e dal Cavour: posso affermarlo con piena sicurezza perchè vi presi un po’ di parte: la parola di ordine di tutto quel lavoro d’insurrezione ci veniva da Torino. Avevo scritto in quei mesi una poesia unitaria che, come arte, valeva pochino ma che fece il giro dell’isola da comitato a comitato. Un giorno che il Vigo era venuto da Acireale in Catania, mentre andavamo in carrozza a visitare lo stabilimento agricolo impiantato allora dal Sacchero, presi a recitargli quei versi senza dirgli che erano miei. Egli stette ad ascoltarmi scrollando sempre la testa con profonda tristezza.
[47]
— Siete tutti matti! — mi disse, quando ebbi terminato — siete matti da legare!
Però, dopo i fatti del sessanta, il Vigo fu preso da un entusiasmo giovanile. In Palermo gli vidi stringere la mano del re Vittorio Emanuele con uno slancio in cui la sua Sicilia, come nazione, fu completamente dimenticata. Ma egli non rientrò nella vita politica. Rifiutò la candidatura di diversi collegi. — Chi ha primeggiato in una rivoluzione e declina cogli anni — mi disse un giorno — non deve spingersi nuovamente nella palestra; è bello cedere il posto ai più giovani. —
Bastarono intanto quattro anni perchè le condizioni della Sicilia lo rendessero triste. Le sue speranze in un risorgimento economico dell’isola erano state completamente deluse, e la sua fede nella saldezza dell’unità italiana diminuita di molto. Andando io nel 1864 per la prima volta in Toscana, egli mi diede una lettera pel Guerrazzi. Rammento ancora il viso che faceva, leggendola, l’autore dell’Assedio di Firenze nello studio a pian terreno della sua villa alla Torretta. Era una lettera di quattro grandi pagine, piena di scoramenti e di paure. — Oh, perchè suonar a morto mentre tutti suonano a vivo? esclamò alla fine il Guerrazzi, ripiegando il foglio con un po’ di stizza.
E sor Domenico, come lo chiamavano a Livorno, non era dei più contenti delle cose di allora!
Il Vigo fu un lavoratore prodigioso: Nulla dies sine linea era la sua insegna, e credo non vi abbia mancato un sol giorno.
[48]
Il largo censo gli permetteva facilmente di stampare a proprie spese e di regalare a molti i suoi libri. Socio d’una infinità d’accademie, credeva suo dovere far omaggio a ognuna d’esse d’una copia dei propri lavori, sicchè gran parte delle edizioni veniva assorbita da questa generosità principesca. Io credo che le solo edizioni dallo quali abbia ricavato un po’ di frutto siano le due della Raccolta dei canti popolari Siciliani.
Voleva chiudere i suoi studî e la sua vita elevando un monumento di bronzo alla sua diletta Sicilia; e spese gli ultimi anni lavorando alla Protostasi siculo-italiana, ove intendeva dimostrare che il motto la luce vien dall’Oriente è applicabile alla Sicilia nella storia della civiltà italiana. Le idee, i sentimenti della sua giovinezza erano già rifioriti con maggior rigoglio dentro di lui. La Protostasi forma due grossi volumi che la morte non gli ha permesso di pubblicare. È il suo testamento politico.
Il Vigo insieme ad altri scritti lascia inedite le sue Memorie. «Ivi i miei amori, le mie persecuzioni — mi scriveva anni fa, — le calunnie che mi hanno attristato, le ingiurie e le ingratitudini del mio sangue. Le iniquità che vi saranno smascherate faranno un giorno rabbrividire i lettori.»
Nella sua giovinezza egli conobbe in Palermo Marianna Segato, una delle amanti di lord Byron, e strinse relazioni molto intime con essa. Dalla Segato ebbe in dono un anello coi capelli del Byron, regalo del gran poeta inglese alla sua amante, e lo portava [49] sempre al dito. La Segato era un po’ invecchiata quando il Vigo la conobbe.
— Ma, capisci, — mi disse una volta — Byron era passato per là! Anche vecchia decrepita l’avrei amata lo stesso!
Il Vigo è morto a 80 anni. Era sempre vegeto e vigoroso.
16 Giugno 1879.
[50]
Il nuovo romanzo d’Emilio Zola in men di due mesi è già alla sedicesima edizione.
Nel Ventre de Paris egli ci aveva messi in contatto col basso mondo della società parigina. Ortolani, fruttaiuoli, pescivendoli, pollaiuoli, pizzicagnoli, ispettori dei Mercati, quanti insomma lavorano da mattina a sera per colmare l’immenso, insaziabile ventre della grande città, e a sorvegliare e regolare l’approvigionamento dei viveri; tutti v’eran dipinti con una potenza di colorito tizianesco che non rendeva soltanto l’immagine delle persone e degli oggetti, ma dava perfino la sensazione degli odori. C’eravamo quasi sentiti soffocare dalle esalazioni [51] degli ortaggi ammonticchiati, dal puzzo acre delle scaglie di pesce e dalle emanazioni particolari alle piume di pollo in fermento. Il lezzo dello strutto, il tanfo dei caci, il sito irritante dei salami, quel che di nauseabondo che fa subito impressione entrando in una bottega di pizzicagnolo per pulita che sia, si sprigionava dalle pagine del libro come dalla diretta realtà, e produceva l’effetto di farci sostar dalla lettura per annusarci le mani e per guardare se i vestiti non avessero preso una macchia d’unto.
V’erano delle pagine proprio esalanti un puzzo di verdura marcita; dell’altre ove il puzzo del cacio olandese, del roquefort, del parmigiano, dello chester, del burro di Bretagna e di Normandia si mescolava al rancido dei budini, dei salsicciotti, delle lingue di Strasburgo, dei zamponi, delle cervellate, delle teste di maiale in gelatina, e davano insieme alla testa.
I personaggi non istonavano su questo fondo di una verità così sorprendente. Bottegaie e bottegai grassi, rotondi, dalla pelle untuosa e lucente; pescivendole dall’ardito e pittoresco linguaggio che lanciano il motto sudicio colla stessa facilità con che si danno addosso co’ pugni; bassi impiegati; comari bracone e speculanti per miseria sul ribasso delle carote e delle interiora di pollo; ragazzi viventi come nomadi nell’immenso edificio dei Mercati; e quindi tutto il meschino viluppo di cupidigie, d’invidie, di maldicenze, di passioni quasi animalesche, [52] suscitato e prodotto dal corrotto ambiente ove quei personaggi vivono e agiscono;... ecco il mondo che lo Zola ci aveva aperto col suo Ventre de Paris.
Eppure eravamo in uno strato superiore di quel vasto caos umano che è la capitale della Francia. Nel caffè Labigre, per esempio, ove la sera radunavansi dietro un paravento una dozzina di persone, si beveva tuttavia il mazagran, o il poncino, o la birra. Il Logre, pollaiolo, vi discuteva cogli altri spoliticanti il discorso del trono. La Rosa e la Clemenza erano bensì delle donnettine, ma leggevano i giornali; e la Clemenza dava perfino delle lezioni a una mantenuta che voleva imparar l’ortografia senza farsi scorgere dalla sua cameriera.
Nell’Assommoir scendiamo ancora più basso.
L’ardito romanziere ci dipinge il triste spettacolo della vita degli operai nei sobborghi parigini, e il suo polso è assai più fermo che non sia stato nel tratteggiare gli altri aspetti della società francese del secondo Impero. Nel Ventre de Paris l’artista si era abbandonato con vera voluttà a quelle descrizioni dello cose esteriori che dimostravano quasi una sfida, una scommessa, una gara della parola coll’evidenza del pennello. Come il suo pittore Claudio, lo Zola era rimasto estasiato innanzi al mare di legumi su cui il sole nascente gettava un’onda di grigio-dolce, una tinta chiara da acquarello. I cavoli, le lattughe, gli spinaci, i piselli, i carciofi, le cipolle chantaient anche per lui tutto il gamma [53] basso e sostenuto del verde: e il giallo delle carote e il bianco lordo delle radici rispondevano, da un’altra parte, il loro gamma acuto assieme al rosso-feccia e al carminio scuro dei cavoli, al rancio delle zucche e al rosso sanguigno dei pomidoro. Pari al suo pittore, a descrizione finita, il romanziere aveva dovuto batter le mani dalla contentezza ed esclamare alla sua volta: c’est crânement beau tout de même!
Lo stesso abbandono a cotesto tour de force di artista aveva mostrato lo Zola nella sua Faute de l’Abbé Mouret. Nella descrizione dell’immenso parco del Paradou, ove Sergio ed Albina tornavano a rappresentare le scene primitive del paradiso terrestre, egli s’era inebriato del suo soggetto fino a spingersi oltr’il segno. Pareva si tuffasse con una sensazione speciale in quell’oceano di foglie che stendevasi a perdita d’occhio facendo pompa al sole della sua sacra verginità, della sua innocente solitudine. Le piante arrampicavansi pei muri, allacciavansi agli alberi, pendevano a festoni, inondavano le scalinate, le terrazze, si levavano su come zampilli, si accostavano a masse, a piramidi, si diradavano a guisa di ventagli, si fondevano unite come siepi di bronzo. E poi venivano i fiori, il gelsomino stellato, le clematidi, le cappuccine, le volubili, colle foglie a cuore che tintinnivano come dei sonaglini...; e poi nel frutteto i pomi dai rami contorti e dai tronchi colla corteccia ruvida e screpolata; i peri dai rami lisci, diritti come piccole antenne; [54] i peschi rossastri che si slargavano in giro con aria pacifica...; e poi la foresta, coi suoi alberi silenziosi, immobili, coperti di licheni, coi suoi tronchi atterrati, sopraffatti dalle erbe e da un popolino di piccole foglie parassite; e così via via, fino a quel trionfale coro d’amore cantato dall’intiero parco quando l’Albina abbandonavasi nelle braccia di Sergio. «Le jardin entier s’abîma avec le couple, dans un dernier cri de passion... Et c’était une victoire pour les bêtes, les plantes, les choses qui avaient voulu l’entrée de ces deux enfants dans l’éternité de la vie. Le parc applaudissait formidablement!»
Quello che innanzi tutto sorprende nell’Assommoir è la completa assenza di cotesta velleità di fare del colorito quasi pel solo gusto di farlo. Il tocco è di una sobrietà incredibile, proprio scultoria, e dà una nettezza di rilievo e di contorni meravigliosa davvero. Entrati appena nell’ambiente appestato ove si annodano e si sciolgono i terribili drammi della vita operaia, che cominciano coll’amore illegale in una catapecchia e finiscono col delirium tremens all’ospedale, ci sentiamo come legati da un fascino maligno che ci fa provare gli stessissimi effetti della lenta degradazione dei personaggi messi in azione dall’artista.
Lo Zola ha avuto ragione di dire ai suoi detrattori: «io non penso a difendermi, mi difenderà il mio libro, un libro di verità, il primo romanzo che dipinga il popolo senza mentire o che abbia l’odore [55] di popolo.» Egli ha studiato così profondamente il suo soggetto, si è talmente connaturato coi pensieri, colle passioni, col linguaggio dei suoi operai, ch’anche quando parla per conto proprio continua ad usarne la parlata vivace, espressiva, insolente, becera, diremmo noi, e fino alla sguaiataggine, e fino all’indecenza. Questo ha scandalezzato gli schifiltosi, gli amanti del press’a poco tanto nella vita quanto nell’arte. Ma lo Zola gli ha lasciati urlare al sordo, convinto che in una opera d’arte la forma sia tutto, e che quella sia la forma più appropriata al suo soggetto; convinto che senza quella lingua piena di rigoglio, di novità, ricca d’imagini e di libera poesia, il quadro non avrebbe raggiunto nemmeno un terzo della sua efficacia; convinto finalmente che qualunque indecenza, qualunque nudità della vita non è più nè indecente nè nuda quando giunge a penetrare nella sublime atmosfera dell’arte.
Che tipi! Che scene!
La povera Gervasia è fuggita da Plassans pei cattivi trattamenti del padre. Il Lantier, un lavorante da cappellaio di diciott’anni, l’aveva resa madre quando ella n’aveva appena quattordici. Un altro figliolino era venuto quattr’anni dopo, senza che nè il vecchio Macquart nè la madre del Lantier pensassero a farli sposare. Poi la madre del Lantier era morta lasciando al figliuolo un’eredità di mille e settecento franchi, e questi pensò subito di andare a Parigi. La Gervasia che non poteva più vivere in casa perchè il vecchio Macquart le allungava toujours [56] des giffles sans crier gare, s’accompagnò al Lantier coi due bimbi. A Parigi presero una stanza all’albergo Montmartre. Vetture, scarrozzate, teatri, un orologio per lui, una veste di seta per lei: in due mesi i quattrini erano già bell’e andati.
Il Lantier e la Gervasia furono costretti a rincantucciarsi in una stanzuccia nell’albergo Boncoeur.
Fannullone, egoista, egli da qualche tempo in qua non rientrava in casa che per dar la via a quel po’ di stracci rimasti ancora.
La povera Gervasia l’aspettava delle intere nottate, alla finestra, tremante di freddo, in camicia, dormicchiando, piangendo, disperandosi, mentre i due bimbi dormivano tranquilli sullo stesso guanciale, l’uno col braccio passato sotto il collo dell’altro, il sorriso sulla bocca e respirando dolcemente.
Un giorno finalmente il Lantier non ritornò più. Aveva messo in tasca gli ultimi soldi ricavati al Monte di Pietà da uno scialle bucherellato e da un par di calzoni tutti rosi dal fango, ed era scappato con una brunitrice da parecchie settimane sua nuova amante.
Per la Gervasia fu un gran dolore, ma anche una liberazione. Si mise a lavorare presso la stiratrice lì accanto e guadagnava giusto quanto occorreva per non morir di fame coi due bimbi. Bastava. Oramai era rassegnata; non voleva pensare ad altro. Si riteneva già vecchia; non intendeva più fare delle sciocchezze. Aveva avuto una gran lezione, ella rispondeva al suo vicino Coupeau, un lavorante in zinco, che le insinuava la proposta di far vita insieme.
[57]
Il Coupeau era un buon giovane. Lavorava come un bue, non beveva, e poi le voleva proprio bene. Ma la Gervasia non sapeva decidersi; aveva paura d’incappar peggio, con tutte le belle promesse. Il giorno che il Coupeau le fece la proposta di sposarsi, ella gli parlò con una gravità ed una serietà proprio insolite: riflettesse, maturasse bene la cosa. Ma alle insistenze dell’operaio finì per dire di sì.
Passarono quattro anni tranquilli, laboriosi. Ella lavorava dodici ore al giorno presso la stiratrice; egli presso uno stabilimento del suo mestiere di stagnaio. Guadagnavano insieme quasi nove franchi al giorno; spendevano il puro necessario e accumulavano dei risparmi. Il Coupeau non si dava altro svago fuori di quello d’una fumatina alla finestra prima d’andare a letto; marito e moglie facevano una girata ogni domenica nei pressi di Saint Ouen; ed era tutto. Una bimba venuta dopo un anno cementava più solidamente la pace della famiglia e rischiarava d’un nuovo raggio la loro vita.
I risparmi continuavano ad accumularsi. La Gervasia che già aveva soddisfatto la sua ambizione di massaia comperando dei mobili di mogano nuovi e perfino un orologio a pendolo da mettere sul marmo del cassettone, ora non dormiva più pensando a una bottega di merciaiuola in via della Goute-d’Or che era sempre d’affittarsi. Avrebbe potuto stabilirvi un amore di bottega da stiratrice, con delle ragazze ai proprî ordini, con una larga clientela. I quattrini eran pronti; il libretto della Cassa di risparmio stava [58] riposto sotto la campana di cristallo dell’orologio a pendolo. Il Coupeau, vedendo la smania ch’ella ne aveva, la spingeva a decidersi combattendo le finte esitanze di lei che, facendo e rifacendo i conti, pareva restasse ancora incerta. Il fatto era che, se il marito si fosse opposto, elle en serait tombée malade.
Ma il giorno in cui la Gervasia e il Coupeau dovevano andare a visitar insieme il locale della bottega, ecco una terribile disgrazia! Egli aveva terminato di saldare le ultime lastre di zinco sul tetto di una casa nuova a tre piani, e stava per adattare un capitello ad una canna da camino quando, nel voltarsi per ischerzare colla sua bimba che gli gridava papà! dalla strada, scivolò, s’imbrogliò, ruzzolò e cadde giù dal tetto col sordo rumore d’un fagotto di panni! Gervasia diè un urlo, istupidita, piangendo a stento.
Ella non volle permettere che suo marito fosse portato all’ospedale. Lo curò in casa, e siccome la malattia fu lunga e la convalescenza più lunga ancora, i risparmi del libretto sparirono. Ma il peggio fu che il Coupeau, stato due mesi a letto bestemmiando e facendo arrabbiar tutti, risanato non trovò più un gran gusto al lavoro. Era diventato parolaio, filosofante. — Che mestiere! Passar la giornata, come un gatto, su pei tetti, sempre col pericolo di fiaccarsi l’osso del collo, mentre i borghesi se ne stanno in panciolle a scalducciarsi al fuoco! Bella giustizia! Han paura di bagnarsi? O che vadano a [59] saldarsi le lastre di zinco da per loro! — La povera Gervasia lavorava per quattro, scusava il marito, e gli metteva qualche franco in tasca perchè si svagasse un pochino e si rinforzasse bene prima di riprendere il mestiere. Il Coupeau andava attorno a veder lavorare gli altri, entrava in qualche bettola, beveva un mezzo litro di vino, finchè un giorno, bevi di qua, bevi di là, ritornò a casa, per la prima volta, émeché. La Gervasia perchè i vicini non se ne accorgessero, chiuse l’uscio colla scusa ch’ella aveva un gran mal di capo!
Il suo bel sogno della bottega da stiratora non si era però dileguato. Ella calcolava, sommava, rifaceva il conto; ci volevano per lo meno cinquecento franchi. Un giovine operaio, certo Goujet (onesto, buono, laborioso, un cuor d’oro che amava segretamente la Gervasia) indovinato perchè ella stesse così sovrappensiero, si offerse a prestarle la somma occorrente; gliel’avrebbe resa in rate mensili di venti franchi ciascuna. Alla Gervasia non parve vero. La bottega fu affittata. La clientela non si fece aspettar troppo; il benessere affluì in casa sua, e in men d’un anno ella ingrassava, prendeva un’andatura di dolce lentezza, diventava un po’ ghiotta. Intanto il Coupeau fingeva d’essersi rimesso al lavoro; ma, in verità, bazzicando tutto il santo giorno con Mes-Bottes ed altri di simile risma, per le bettole e gli spacci di bibite e di liquori, tornava a casa cotto, ogni sera, e si metteva subito a letto. La Gervasia, felice del suo sogno avverato, non badava molto ai conti. Gli arretrati [60] col Goujet s’accumulavano. Le mesate del fitto non erano più pagate con puntualità. Per soprammercato ecco riapparire il Lantier. Lo avevano visto nelle vicinanze; ronzava lì attorno: meditava qualche colpo! La Gervasia era atterrita. Le pareva che il Coupeau già ne sapesse qualcosa e che la minacciasse quando bestemmiava e dava dei pugni nel muro mentre, avvinazzato, si spogliava per andare a letto.
Era un terrore infondato. Un giorno che la Gervasia dava il suo pranzo di compleanno (un pranzo famoso; l’odore inondava il quartiere; la gente si affollava sulla panchina per guardare; il fruttaiolo, la trippaia del canto facevano l’acquolina e si leccavan le dita; l’intiera via crêvait d’indigestion) quei giorno lo stesso Coupeau introduce il Lantier in casa sua, stringendogli la mano, senza accennare al passato, senza timori per l’avvenire. Dov’è stato il Lantier tutti quegli anni? Di che è vissuto? Non si sa. Ma è ben vestito, ha l’aria signorile, e parla a mezze frasi. Ha dei progetti! Ha degli affari! Ed ecco che con la sua faccia tosta s’installa in casa del Coupeau prendendo in affitto la stanzuccia dove la Gervasia teneva i panni sudici, promettendo di pagare, non pagando mai, mangiando, bevendo, spadroneggiando senza parere, togliendo ad imprestito dalla cassa della Gervasia, aiutando così anzi accelerando il crollo di quella povera casa. La Gervasia non aveva più la forza di lottare contro la tentazione del Lantier. Il marito, ubbriaco fradicio [61] un giorno più che l’altro, la stomacava. Nei primi momenti d’auge, appena istallata nella bottega, ella s’era consolata di quella triste realtà con un po’ di luce serena che le scendeva nell’anima al sapersi voluta bene, senza secondo fine, dal buon Groujet. Arrossiva pudicamente sentendolo nominare; provava un gran piacere al vedersi amata pareillement à une sainte vierge. Quella tenerezza savia, tranquilla non avrebbe mai pensato aux vilaines choses! Ma il Coupeau diventava più bestiale di settimana in settimana; gli affari andavano a rotta di collo; la clientela, mal servita, si dileguava; il Lantier dominava in casa di lei con una franchezza eguale alla mancanza d’ogni senso morale del marito; ed ella soprafatta, istupidita, inorridita della rovina che vedeva già arrivata dietro all’uscio, non si sentiva più forza per resistere e lottare.
Una sera, rientrando sul tardi da un caffè ove era stata col Lantier, trovò il Coupeau steso per terra, annegato in un mar di sconcezze che il vino gli aveva fatto vomitare. «Il s’était vautré comme un porc, une joue barbouillée, soufflant son haleine empestée par sa bouche ouverte, balayant de ses cheveux déja gris la mare élargie autour de sa tête.» Fu quello il momento che il Lantier scelse per vincerla. Ma ella si dibatteva, pregava: la lasciasse andare; la bimba dormiva lì accanto;... avrebbe potuto svegliarsi!... E cercava coll’occhio il marito perchè la salvasse anche dalla fiacchezza della sua carne. Il marito giaceva lì come morto, ruttando il [62] suo vino. — C’est sa faute! balbettò la infelice! — E mentre il Lantier l’attirava nel suo stanzino, dietro un cristallo dell’uscio appariva la testa della Nana, la bimba della Gervasia, che si era svegliata al rumore. In camicia, pallida dal sonno, diè un’occhiata a suo padre sdraiato in mezzo al vomito, e poi zitta, col viso incollato al cristallo, stette a guardare, tinche la veste di sua madre non sparve entro l’uscio del bugigattolo del Lantier. «Elle était toute grave. Elle avait des grands yeux d’enfant vicieuse, allumés d’une curiosité sensuelle.»
La catastrofe precipita. La Gervasia è costretta a cedere la bottega diventata già un peso, e il Lantier rimane nella sua stanzuccia per rifare colla nuova inquilina quel che aveva fatto colla Gervasia. Per la famiglia Coupeau comincia allora una vita di miseria, di stenti, di rancori, di bisticci, di letichii accompagnati da qualche calcio... Il Coupeau, che si avvelenava all’Assommoir del Colombe con dei litri di acquavite, ha i primi tocchi del delirium tremens. La Gervasia, che da padrona di bottega era stata costretta a mettersi operaia, si fa rimandare per la trascuratezza con che guasta la roba: e per istordirsi, beve anch’essa; e per vivere, fa viaggiare quel po’ rimasto in casa o al Monte di Pietà o dal rigattiere. Il Coupeau, ricaduto parecchie volte, muore finalmente della sua terribile malattia all’ospedale. La Gervasia, invecchiata, imbruttita innanzi tempo, sudicia, stracciona, vive facendo i più vili servigi agli inquilini di casa; va perfino a lavare il [63] pavimento della bottega ch’era stata il suo trono, pur di guadagnare qualche soldo. Poi, patendo il freddo, la fame, ogni avvilimento, cacciata dalla misera catapecchia che non può pagare, e alloggiata per carità in un sottoscala sur uno strame di paglia, si consuma lentamente. Un giorno vien trovata morta e quasi in putrefazione. — Elle creva d’avachissement! — Fu la sua orazione funebre! La portarono via colla bara dei poveri.
Ma questo è appena lo scheletro del libro dello Zola. I particolari sono un miracolo d’osservazione, d’analisi, di potenza di stile.
Quel pranzo di nozze a un tanto per testa! E quella visita al Museo e alla colonna Vendôme! E il battesimo! E il pranzo onomastico nella bottega della Gervasia! E il terribile episodio della piccola Rosalia di cui si è tanto parlato, cara figurina che insieme al bravo Goujet fa penetrare un fil di luce, soave nella sua tristezza, su questo quadro dalle vaste dimensioni e dalle tinte forti e violente!
L’impressione che si prova alla lettura è straordinaria davvero. L’opera d’arte sparisce: rimane una sensazione immediata. Si vive la vita di quella gente ci si sente viziare con essa. Giacchè il realismo dello Zola (diciamo pure questa brutta parola) non è precisamente quale l’intendono i realisti di progetto. Del particolare, del colore, delle minuzie egli non si serve per uno scopo puramente esteriore, ma soltanto perchè gli giovano a far penetrare il lettore nell’intimo spirito dei suoi personaggi. Infatti non [64] resta indifferente, freddo o ironico e canzonatore come, per esempio, il Flaubert innanzi al soggetto del suo studio; anzi n’è tocco, n’è commosso. La sensazione non rimane in lui al semplice stato di sensazione, ma s’innalza, si purifica, diventa sentimento, poesia.
Poesia! Pare una parola fuori di proposito quando si parla dello Zola. Eppure il sentimento elevato, quasi sdegnoso, che si sprigiona in ogni pagina da quelle descrizioni inappuntabili per verità e per colorito, da quell’analisi minuta, inesorabile, d’un’esattezza quasi scientifica; questo sentimento, vero soffio di vita delle sue opere, è schietta e profonda poesia.
Ed ecco perchè egli non indietreggia innanzi ad alcun spettacolo della vita, di qualunque natura esso sia; ecco perchè lo vediamo egualmente commosso, della bella, della nobile commozione artistica, tanto innanzi l’incesto di Renata (La Curée), quanto innanzi il misticismo cattolico di Sergio (La faute de l’Abbé Mouret), soggetti i più disparati che si possano imaginare; ecco, in ultimo, perchè in questo Assommoir ha cercato (e trovato, e non era facile impresa) la frase viva, cruda, imaginosa, quasi impudente dell’operaio, e perchè si è vantato di aver dato al suo libro l’odor di popolo! Ma la folla non bada a queste distinzioni e mette in un fascio lo Zola, il Flaubert, lo Champfleury; intendo dire la folla dei critici, specialmente fra noi. Giacchè in quanto alla folla dei lettori, nemmeno quest’Assommoir [65] è un libro che possa, letterariamente, venir gustato da loro. L’eccellenza della forma rendendolo un’opera d’arte elevata, lo riduce nello stesso tempo un lavoro destinato alla più eletta aristocrazia intellettuale. L’arte, checchè se ne voglia dire, è roba assolutamente aristocratica.
11 Marzo 1877.
Elena Mouret e sua figlia, la piccola Giovanna, appartengono alla famiglia dei Rougon-Macquart, famiglia tragica che lo Zola ha incaricato di dipingerci la storia del secondo impero. L’ambiente di questo nuovo episodio (l’ottavo) è la borghesia parigina. C’è in tutto il volume un silenzio raccolto, una calma che dopo le terribili scene della Curée e dell’Assommoir sembra fin troppa. Le stesse passioni, anche lì dove il turbamento attacca i sensi, non hanno nulla che rassomigli neanche dalla lontana ai furori della Renata nella Curée, o alle indolenti rilassatezze della Gervasia nell’Assommoir. Elena Mouret cede, quasi inconscia, ad un’ebbrezza passaggiera. Trascorso quel momento fatale, ella non saprà rendersi ragione della sua debolezza e [66] rammenterà i tre anni da lei vissuti in una stanza della via Vineuse come il passato di un’altra persona, la condotta della quale le ispirasse sorpresa e disprezzo.
E coll’ambiente, è anche mutata l’intensità dell’influenza ereditaria, la chiave del vasto edifizio dei Rougon-Macquart. In Elena è accaduta la rassomiglianza fisica del padre e quella che i fisiologi chiamano l’elezione paterna pel carattere. La nevrosi originaria, che inficierà tutta la razza da Adelaide Fouqué a Carlo Rougon, è stata provvisoriamente attenuata per le mescolanze avvenute col Macquart e col Mouret. Ed ho detto provvisoriamente perchè nella piccola Giovanna abbiamo già il caso d’una eredità di ritorno. L’eccessiva sensibilità di questa bimba d’otto anni, senza tali precedenti, sarebbe proprio inesplicabile. Quando si sa e si tiene a mente che la sua strana gelosia per l’affetto della mamma è un vero caso patologico, il carattere di quella piccina, stavo per dire isterica innanzi tempo, non solamente non sorprende ma diventa interessantissimo.
Non si meravigli il lettore di tutto questo tecnicismo fisiologico; i Rougon-Macquart sono un trattato di fisiologia in azione. L’autore lo ha annunziato con la più esplicita chiarezza sin dal primo volume: «Io voglio spiegare come una famiglia, un piccolo gruppo di esseri si comporti in una società, svolgendosi per dar vita a dieci, a venti individui che sembrino, a prima vista, profondamente differenti, [67] ma che l’analisi scopre legati intimamente gli uni agli altri.... La famiglia che mi propongo di studiare ha per caratteristica gli strabocchevoli appetiti, il largo ribollire dell’età nostra avida di godimenti materiali. Fisiologicamente, essa è la lenta successione d’accidenti nervosi e sanguigni, che sviluppansi in una razza in seguito ad una prima lesione organica, e determinano, secondo gli ambienti, i sentimenti, i desiderî, le passioni, tutte le manifestazioni umane, naturali ed istintive, i prodotti delle quali prendono i nomi convenuti di virtù e di vizio.»
Par di leggere l’introduzione d’una monografia scientifica, o una delle rigide prefazioni del Taine dove la razza, l’ambiente, il momento storico, ecc., formano un sistema di critica che porta nello studio delle cose letterarie il metodo d’investigazione delle scienze naturali.
Questo infiltrarsi dell’elemento scientifico nell’opera d’arte è un vero segno del tempo. L’arte tende a ritemprarsi, a rinnovellarsi per mezzo della osservazione diretta e coscienziosa. Il difficile sta nel mantenere la giustezza delle proporzioni fra gli elementi della scienza e quelli della fantasia, in guisa che la libera natura dell’arte non ne sia tarpata, e il processo della creazione artistica si sottometta a tutte le esigenze del metodo positivo. Bisogna confessarlo: l’arte, in questo connubio, ha perduto qualcosa della sua fresca e virginea spontaneità. Ha già un’aria severa, quasi trista. Non può presagirsene [68] nulla che rassicuri per la sua esistenza nell’avvenire.
La cosa non è di data molto recente. Il Balzac, nella sua celebre prefazione alla Comédie humaine, ne diede il primo accenno sin dal 1842. Il suo immenso lavoro doveva essere un saggio della futura storia naturale dell’uomo. Ma questo concetto che, per la sua vastità, presentava qualcosa d’indeterminato, nei particolari dell’opera avvertivasi appena. Tutti quei romanzi legati poi insieme sotto il gran titolo di Comédie humaine, dapprima erano stati scritti senza nessuna preoccupazione di un metodo scientifico qualunque. Unica cura dell’autore era stata il soffiare nel personaggio e nell’azione lo spiraculum vitae, il far concurrence, com’egli diceva, à l’état civil; il resto diventava un mezzo per raggiungere più facilmente quel supremo scopo dell’arte.
Nello Zola, che discende in linea retta dal Balzac, passando alcun poco pei fratelli De Goncourt, la teorica scientifica si annunzia con tutta la precisione del vocabolo tecnico. E quasi non sentisse tranquilla la sua coscienza di scrittore nemmeno dopo la così esplicita dichiarazione citata, eccolo con una Nota messa in testa a questa Page d’amour e coll’albero genealogico dei Rougon-Macquart ad affermare più risolutamente il vero carattere del suo lavoro.
I Rougon-Macquart saranno, innanzi tutto, quello che vogliono essere, un’opera d’arte, un vero monumento che, meno vasto della Comédie humaine, [69] avrà su questa il pregio d’una più rigorosa unità di concetto; e il valore dell’esecuzione certamente non se ne rimarrà inferiore all’idea scientifica che ne forma l’ossatura. I criteri dunque coi quali i Rougon-Macquart vanno giudicati sia nei particolari, sia nel loro insieme debbono esser precipuamente dei criterî d’arte. Però non è possibile tagliare in due un’opera d’arte e mettere da un canto la forma e dall’altro il concetto, specie poi in un lavoro grandioso e complesso dove la creazione artistica, per decisa volontà dell’autore, è perfettamente subordinata al concetto fisiologico dell’eredità naturale.
Infatti, fuor della cerchia dei Rougon-Macquart, questa Page d’amour non avrebbe quasi ragion di essere o dovrebbe essere altrimenti. Parrebbe un capriccio, una bizzaria d’artista per provare una volta di più che l’ingegno, colla prepotenza della forma, può riuscire a rendere accettabili anche le cose più assurde. Nell’insieme dei Rougon-Macquart essa diventa una nota che non era lecito di sopprimere.
Questa storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero si comporrà di venti volumi dei quali otto soltanto hanno visto la luce. L’albero genealogico dà il filo per raggirarsi con facilità in mezzo al labirinto di tante azioni e di tanti personaggi, e delinea il cómpito che ancor rimane allo scrittore. Con esso si scorge chiaramente l’intima ragione dei caratteri finora studiati, e il grado da [70] essi occupato nella grande scala ereditaria, e il perchè della maggiore o minore loro importanza nell’azione di ciascun romanzo. Dei caratteri da studiare già s’indovinano all’ingrosso i principali lineamenti. Dagli uni e dagli altri ricavasi tanto da misurare con anticipazione il complicato disegno che l’autore segue strettamente. «Il est, egli scrive, en même temps, ma force et mon régulateur.»
Sono state mosse all’autore molte obbiezioni su di esso. Gli si è detto: Volete voi fare un lavoro scientifico? Ma qual valore possono avere le vostre deduzioni se fondansi sopra fatti che sono soltanto una realtà nella vostra immaginazione? Obiezione, in verità, più speciosa che solida. La legge dell’eredità naturale non è inventata dallo Zola. Si trova nettamente formulata in moltissimi volumi di solida scienza che il dottor Lucas ha riassunto nel suo famoso libro sull’Hérédité naturelle. Le varie modificazioni organiche o spirituali di diverse razze sono state studiate con la scrupolosa esattezza della moderna scuola fisiologica, e i fatti sono risultati così abbondanti che se n’è già ricavata una legge.
Che accade nella natura? Data una lesione organica nel sistema nervoso o nel sanguigno, date queste o quelle circostanze che ne attenuiscano, ne sviluppino, ne sviino il processo, le conseguenze sono inevitabili, infallibili: si potrebbero prevedere, se fosse possibile stabilire anticipatamente l’ambiente entro cui dovrebbe raggirarsi un individuo. L’importante, l’incontestabile è la fatalità della legge [71] ereditaria. Ammessa questa, il compito dell’artista diventa meno arduo e meno illusorio di quel che sembri a prima vista.
I germi ereditarî inoculati in un organismo si sviluppano (e possono anche non svilupparsi) a seconda dell’intensità della loro forza e delle varie circostanze fra le quali esso può vivere e crescere. Quando le circostanze sono favorevoli, il resultato non fallisce. Anzi, allorchè la virtù germogliativa del male ereditario è molto forte, le più piccole circostanze sono sufficienti per favorirne il rapidissimo svolgimento. Nella vita reale la legge ereditaria spesso vien attraversata dall’accidente; o vi si attua a sbalzi; o non compie sempre il suo processo. In questo caso è innegabile la superiorità dell’arte. Raccogliendo attorno ad un individuo tutte le possibili circostanze per produrre inesorabilmente lo scoppio della forza fatale dell’eredità, l’arte non mentisce rimpetto alla scienza. La sua possibilità diventa quasi più vera della stessa realtà. Eliminando il cieco accidente, creando una serie di circostanze simili a quelle che in altri casi reali hanno prodotto questo o quel resultato, l’arte raddoppia di valore; acquista un valore scientifico.
L’albero genealogico dei Rougon-Macquart si è uniformato alle esigenze della scienza con straordinaria severità. La nevrosi originaria d’Adelaide Fouqué, a seconda degli ambienti, della mescolanza e della fusione d’altri elementi (i Macquart e i Mouret), prende tutti gli aspetti possibili di rassomiglianze [72] fisiche o morali, di salti di generazioni, di equilibrî, di saldature che la scienza ha constatato in migliaia di casi.
La pazzia della Fouqué riappare in Marta Rougon (La Conquête de Plassans) sotto l’aspetto di esaltazione mistica che finisce colla tisi, col delirio e colla morte. Saltando due generazioni, torna a riapparire nella piccola Giovanna Grandjean, sotto la l’orma d’un precoce esaltamento nervoso, che termina anch’esso colla tisi e la morte (Une page d’amour). Col Macquart entra nella famiglia l’eredità dell’ubbriachezza e del vizio; fa le prime prove in Gervasia (L’Assommoir) si ripresenterà sotto l’aspetto d’isterismo in Nana, la figlia di Gervasia che abbiamo un po’ conosciuta; e in forma di pazzia omicida in uno dei figli che la Gervasia ebbe dal Lantier (episodio ancora inedito). Finalmente la nevrosi originaria assumerà la forma di genio nel pittore Claudio Lantier, l’altro figlio della Gervasia, che ha già fatto una breve apparizione nelle prime pagine del Ventre de Paris (episodio anch’esso inedito). Marta, Gervasia, la piccola Grandjean sono state poste nell’ambiente più scientifico mai ideato da un artista. Ammesso che le particolarità dei romanzi potessero ripetersi esattamente nella vita reale, il resultato sarebbe preciso quale è stato dipinto dall’autore con mano sicura ed ardita.
Come vittoriosa obiezione contro il suo sistema scientifico è stato detto allo Zola: Ma i vostri personaggi più importanti, Silverio della Fortune des [73] Rougon, l’abbate Faujas e sua madre della Conquête de Plassans, Renata della Curée, non hanno nulla che fare coll’eredità naturale, e sono dei caratteri di prim’ordine![6] — Ma forse l’autore aveva promesso che i personaggi della famiglia Rougon-Macquart terrebbero assolutamente un posto principale nell’azione dei suoi romanzi? Il sistema scientifico richiedeva soltanto ch’essi fossero al loro posto; e nessuno, mi sembra, potrà provare che non ci siano. Silverio (il Topin si inganna) è un figlio dell’Orsola Macquart ed entra direttamente nella cerchia del sistema; l’abbate Faujas è la causa efficiente dell’esaltazione religiosa della Marta; Renata è la causa efficiente dello sviluppo del fiacco carattere di Massimo. L’artista non ha voluto presentare soltanto dei personaggi nudi, stecchiti, diseccati per servire ad un’esposizione da museo. Ha voluto darci tutta la ricchezza del mondo ove i suoi personaggi vivono, s’appassionano, agiscono; e in questo egli ha fatto bene di rammentarsi unicamente della sua precipua, della sua essenziale qualità di artista, alla quale già dobbiamo due capolavori: Le Ventre de Paris e l’Assommoir.
È ridicolo il credere che lo Zola voglia dare al carattere scientifico del suo lavoro un’importanza maggiore di quella che gli se ne può accordare in un’opera d’arte. S’egli insiste sul concetto scientifico, lo fa [74] per non venir frainteso (precauzione che non gli è valsa); lo fa perchè spesso è il concetto scientifico quello che può somministrare il giusto criterio con cui giudicare esattamente un avvenimento o un carattere. Concesso anche che lo Zola su questo punto esageri un poco, tale esagerazione si trasforma in un solido pregio del suo lavoro. Scrittore che ha dell’arte un’idea nobilissima, la convinzione di fare nello stesso tempo un lavoro d’arte e di scienza, lo porta a dare alle proprie creazioni la minuta e meticolosa esattezza d’uno studio scientifico. Ed ecco perchè lo vediamo rimpetto al suo tema compreso di una severa imparzialità che i così detti realisti non sanno nemmeno ideare. Coupeau che rece e si rivolta nel brago della sua ubriachezza; l’abate Mouret che dice la messa e si esalta in estasi mistiche innanzi alla statuina della Madonna; l’Elena di questa Page d’amour che assiste alle sacre funzioni del mese di Maria, per lui, innanzi tutto, sono dei fatti da osservare e da studiare; e la sua prima cura è di renderli tali o quali essi dovettero, o avrebbero dovuto esistere in rapporto a loro medesimi ed agli altri personaggi. La stessa eccessiva compiacenza dello scrittore nelle lunghe descrizioni, è la conseguenza (non sempre giusta) del suo scrupolo di scienziato. Non difendo, ma spiego.
Il realismo del Zola è assai ben diverso da quello che una certa scuola si sbraccia a predicare in Italia, dando così buono in mano agli strilloni della morale nell’arte. Lo Zola non cerca le nudità ad ogni costo, [75] non se ne compiace. Ma quando il suo soggetto gliele presenta, non volge gli occhi a terra e non li chiude per non vedere. Anche qui, principalmente, è il suo concetto scientifico che gl’impedisce di esser prude. Si confrontino però due identiche situazioni nella Curée e nella Page d’amour. Ecco due donne che cedono in un momento di abbandono preparato di lunga mano da un seguito incalzante di circostanze: Renata a Massimo nello stanzino riserbato del caffè Riche; Elena Mouret al dottor Deberle nella stanza della via Raynouard, ove un’imprudenza l’ha condotta. Che differenza di tinte e d’intonazione! «Derrière eux l’autre rideau de la portière s’échappa de son embrasse!» Egli lascia cadere un velo su quest’ultima scena! Tutti ricordano l’inesorabile nudità della scena dell’incesto al caffè Riche. Il realismo, inteso a questo modo, ha un senso: è un processo. I campioni della morale avranno un bel dire, ma non riusciranno a fargli fare un sol passo indietro. Inteso nel modo che mostrano di propugnarlo a parole ed a fatti molti fanatici tra noi, sarà artifizio (per non dir altro), ma arte no davvero!
La Page d’amour non ha suscitato le strida, gli urli, le maledizioni che certi critici cacciarono fuori contro le terribili pitture dell’Assommoir. «Une oeuvre intime et de demi-teinte» per confessione dell’autore! Eh, via! Non c’era da emettere nessun grido, non c’era da arrossire per conto delle pudiche lettrici e dei lettori di fibra delicata. Si può dire che [76] quei signori abbiano tenuto broncio allo Zola per aver tolto ad essi il pretesto (e l’aspettavano!) di sciorinare al sole le tante frasi bell’e fatte contro il realismo e i suoi fautori! Un’occasione mancata! Datevi pace, signori! Potrete rifarvene fra otto o dieci mesi quando apparirà in pubblico il vizio in persona, Nana!
20 Giugno 1878.
Il libro di Edmondo De Goncourt lascia nel cuore un profondo sentimento di tristezza. Leggendo la storia dei due fratelli acrobati non si può fare a meno di pensare a due altri fratelli, veri acrobati letterarî, la collaborazione dei quali sarà uno dei più curiosi fatti della moderna letteratura francese. La morte ha separato questi due esseri che pensarono, sentirono e scrissero com’una persona sola. I libri pubblicati dal fratello superstite La Fille Elisa e questi Frères Zemganno, hanno talmente le stesse qualità di forma, di stile e di concezione, gli stessi difetti d’eccesso di colorito, di ricercatezza e d’affettazione di quelli precedentemente scritti insieme [78] al fratello morto, che riesce quasi impossibile il misurare la parte che spetta all’uno ed all’altro in lavori d’arte come la Germinie Lacerteux (predecessora dell’Assommoir), la Manette Salomon, la Renée Mauperin e la Soeur Philomène.
La storia dei fratelli Zemganno è di una semplicità straordinaria. «J’ai fai cette fois de l’imagination dans du rêve mêlé à du souvenir» dice l’autore; e aggiunge d’essersi trovato in una di quelle ore della vita nelle quali ci si sente invecchiati, ammalati, vigliacchi nella lotta terribile col lavoro della creazione artistica; in una condizione di spirito in cui la verità troppo vera era antipatica anche a lui che su tal conto non ha mai provato scrupoli di sorta. I Frères Zemganno sono il frutto di questa prostrazione d’animo che si comunica al lettore.
L’autore ha tentato di contornare il suo rêve di tutti i particolari della realtà. La vita nomade della compagnia diretta dal signor Tommaso Bescapè (un italiano che ha fatto mille mestieri in tutte le parti del mondo) è descritta con cura minuta, e ci fa proprio vivere entro quell’ambiente di miseria, di stoicismo, di corruzione e di allegria spensierata ove Gianni e Nello entrano nell’arte come nel loro vitale elemento. I ritratti sfilano uno appresso all’altro finamente dipinti: — la bella testa della zingara Steucha colla sua folta chioma di capelli neri o ricciuti, il viso d’un ovale delicato e soave, gli occhi scintillanti fiammelle elettriche; creatura rimasta orientale e quasi in dormiveglia in mezzo al gran chiasso della civiltà europea; — l’Ercole [79] della compagnia dai movimenti da poltrone, o dal viso di perpetuo affamato; essere in embrione, con degli occhi che parevano colati fra palpebre mal disegnate, con un naso formato da un pezzo di carne schiacciato e appiccicato lì, con una bocca da scambiarsi per un veggione slabbrato e la carnagione d’un bigio sudicio; — il trombone, l’amico della cagnetta della compagnia, «dont la personalité était faite de l’absence de chemises, et de vetêments où il y avait encore plus de graisse que de laine feutrisé, et de souliers dont les semelles disjointes et traversée de gros clous lui donnaient l’air de marcher sou des mâchoirs de requins entrebâillés,» un uomo felice fra tanta miseria; — la Talochée, la vecchia cuciniera, il corpo grinzoso della quale raccontava «les misères, les souffrances, les fringales, les refroidissements, les coups de soleil, les courbatures de la femme avec un passé de jeune fille ou l’eau-de-vie avait bien souvent remplacé le pain manquant»; — e poi tante piccole macchiette, e poi il ritratto in piedi della cavallerizza del circolo, l’americana Tompkins che l’autore accarezza con tutte le seduzioni del suo pennello. La scena varia spesso, prima ad ogni stazione della compagnia ambulante, poi da un circo di Londra e di Manchester a un circo di Parigi; dal chiasso luminoso delle rappresentazioni equestri e ginnastiche, alla modesta abitazione ove i due fratelli covano amorosamente il sogno della loro ambizione di artisti, una trovata acrobatica.
[80]
Ma il lettore non si lascia illudere o meglio l’autore non ha intenzione d’illuderlo neppure un momento. Il suo libro è come un quadro trasparente. Dietro le smaglianti figure che si muovono sul davanti appariscon le figure velate, sfumate, la vera realtà del suo pensiero d’autore. Quei due fratelli acrobati materiali fanno pensare a quegli altri due cercatori di nuovi tours de force di forma, di stile e di concetti artistici da presentare all’avida curiosità d’un pubblico appassionato, aristocratico, ghiotto delle leccornie raffinate della parola e del romanzo. Le ansie di Gianni nella ricerca del suo tour, la gioia febbrile quando credeva d’aver raggiunto la realizzazione del suo sogno, i subiti scoraggiamenti quando trovavasi d’un colpo innanzi ad uno di quegl’imprevisti ostacoli che paiono chiuderci brutalmente sul viso la porta dell’avvenire, e quel silenzioso corrispondere dell’anima di Nello a tutti i passaggi più impercettibili dell’anima del fratello maggiore, sono rivelazioni d’ansie, di gioie, di scoraggiamenti, di corrispondenze di sentimenti e di pensieri accaduti in regioni più nobili e in lotte più spirituali che quelle provate nella ricerca di un tour de force da acrobata.
«I due fratelli non s’amavano soltanto, ma erano stretti l’uno all’altro da mistici legami, da giunture fisiche, dagli atomi uncinati della loro natura gemella, benchè fossero differentissimi d’età, e di caratteri diametralmente diversi. I loro primi movimenti istintivi erano proprio identici. Provavano delle simpatie [81] e delle antipatie egualmente improvvise, e uscendo da un posto portavano via dalle persone che v’avevano viste la stessissima impressione. Nè soltanto gli individui, ma anche le cose coll’irragionevole perchè delle loro attrattive o delle loro ripugnanze parlavano per tutti e due il medesimo linguaggio. Finalmente, le idee, queste creazioni del cervello che nascono così bizzarramente e che ci sorprendono spesso col non si sa come del loro apparire, le idee ordinariamente così poco simultanee e così poco parallele nei legami di cuore tra uomo e donna, le idee nascevano in comune tra i due fratelli; talchè sovente dopo un po’ di silenzio, essi si voltavano l’uno verso l’altro per dirsi la stessa cosa, senza potere spiegarsi quel singolar caso di trovare sulle due bocche due frasi che ne formavano una... Il loro lavoro era tanto e così confuso, i loro esercizî talmente mescolati l’uno coll’altro, e quel ch’essi facevano sembrava così poco appartenere a ciascun di loro in particolare, che le acclamazioni s’indirizzavano sempre a tutti e due (à l’association), e nessuno separava la coppia negli elogi o nel biasimo. Così quei due fratelli erano giunti ad avere insieme (fatto quasi unico nella storia delle amicizie umane) un amor proprio, una vanità, ed un orgoglio che venivano accarezzati o feriti nello stesso momento in tutt’e due.»
È la pagina più trasparente.
L’autore riprende subito la sua pretesa realtà, il suo preteso rêve e vi mescola i suoi ricordi in maniera che è proprio impossibile distrigare questi da [82] quelli. Coloro che si attendevano delle rivelazioni sono rimasti delusi. Ma c’è intanto l’accento, c’è un che di vago, di sfumato che accresce la poesia di questo lavoro e gli dà un’impronta elevata. E quando il povero Nello si spezza le gambe nell’eseguire la prima volta il gran tour trovato dal fratello, e la loro esistenza artistica vien chiusa, un sentimento di tristezza c’invade il cuore. Quelle ultime pagine paiono bagnate di lagrime: i periodi brevi e nervosi hanno qualcosa del singhiozzo. Si direbbe che il fratello superstite senta venire dalla tomba una voce di rimprovero. Con che animo può egli tentar di nuovo le lotte dell’arte ora che l’altro non è più? Il morto è geloso, il morto è un egoista inesorabile. Nello, ridotto impotente agli esercizi ginnastici, non può soffrire lo scricchiolìo degli anelli del trapezio su cui Gianni dà sfogo alla sua inerzia forzata. In quest’amara invidia dello storpio c’è come un’eco di quella voce segreta (rimpianto, o delicato rimorso) che deve certamente rattristare le ore di studio d’una assistenza abituata a sentire, a imaginare e a pensare sempre in due. Quante volte il fratello superstite non si sarà visto affacciare nel consapevole studio la pallida figura del suo caro estinto allo stesso modo che accade nell’ultima scena del romanzo!
Una notte Nello si sveglia. Non sentendo la respirazione di suo fratello, pieno delle irragionevoli paure che ci assalgono nelle ore notturne, lo chiama più volte, ma invano. Allora salta giù dal letto, e senza [83] prender le grucce, aggrappandosi ai mobili, strascinandosi, va a trovare tastoni il letto di Gianni. Gianni non c’era.
Un lampo di sospetto gli traversa la mente. Strisciando, strascicando sulle mani e sui ginocchi, scende giù, nella bottega del falegname tolta in affitto prima della disgrazia; l’uscio era socchiuso: Gianni s’esercitava sul trapezio al lume d’un mozzicone di candela posato per terra. Nello, entrato non visto, stette un po’ ad osservare gli agili voli del fratello, e pensando che questi non avrebbe mai saputo rinunziare alla vita del Circo, scoppiò in singhiozzi strazianti. Gianni s’arrestò sorpreso, poi staccò il trapezio, lo lanciò in istrada rompendo i vetri della finestra, corse da suo fratello e lo sollevò stringendolo al petto.
«Et tous deux, dans les bras l’un de l’autre, se mirent à pleurer longtemps, sans dire une parole.
«Puis l’aîné, jetant un regard qui enveloppa toutes les choses de son métier et leur dit adieu dans un renoncement suprème, s’écria:... Enfant, embrasse moi..., les frères Zemganno sont mort... il n’y a plus ici que deux racleurs de violon... et qui maintenant en joureront... le derrière sur des chaises.»
E poichè quest’impasto d’imaginazione, di sogno e di ricordi autorizza a fare tutte le supposizioni, e tutte le interpretazioni possibili, io cerco a qual tour [84] de force letteraria era rivolto l’animo dei due De Goncourt quando la loro collaborazione ferveva nella più irrequieta attività. Quello che ci vien rivelato in questo volume è un accenno involontario? Mi piace supporlo.
Nella prefazione ai Frères Zemganno l’autore comincia dal dichiarare che l’Assommoir e la Germinie Lacerteux non sono altro che dei brillanti combattimenti d’avanguardia del naturalismo, del realismo, per servirmi du mot bête, du mot drapeau com’egli lo chiama. La gran battaglia della nuova scuola sarà data il giorno che un ingegno potente adopererà l’analisi positiva «per decifrare colla scrittura artistica ciò che è elevato, ciò che è gentile, ciò che ha buon odore, e anche per dare gli aspetti e i profili degli esseri raffinati e delle cose ricche.»
Tentar questo studio da naturalista sull’alta società francese, decomporre colla chimica dell’arte tutte le gradazioni, tutte le mezze tinte, tutti quei piccoli nonnulla, quei nonnulla civettuoli e neutri che formano il carattere dello spirito e delle toelette di una parigina, ecco forse il gran tour de force letterario che i due fratelli sognavano, e pel quale avevano già ammassato tutti gli elementi delicati e fuggevoli. Ma la morte è venuta a sparpagliare i loro fogli, a dimezzare la loro attività. Il superstite non ha più fiducia nelle sue forze, come quando erano in due. Si sente vecchio, abbattuto e svela il suo segreto per chi vorrà riprendere con la forza e col coraggio necessarî questa battaglia finale contro il [85] classicismo idealista. «Le succès du réalisme est là, soulement là et non plus dans le canaille littéraire épuisé à l’heure qu’il est, par leurs devanciers.» (È una frecciata alle Madames Beccart ed alle Soeurs Vastard dell’estrema sinistra del realismo francese.)
Ma Germinie Lacerteux? Ah! ecco una legittimazione che vale per tutti, anche per noi piccoli e slombati fantaccini dell’arte moderna. L’uomo e la donna del popolo, l’uomo della bassa borghesia ha dell’animale, del selvaggio; è più dappresso alla natura. L’organismo del suo sentimento, l’embrione dell’organismo del suo spirito sono di un’estrema semplicità e possono afferrarsi facilmente. Di mano in mano che la scala sociale s’eleva, le complicazioni aumentano e le difficoltà dello studio diventano maggiori. Gli agenti esterni ed interni che servono alla formazione d’un carattere s’intrecciano, si avviluppano con inattese relazioni: l’individualità è più spiccata, le differenze più notevoli, e ogni persona diventa un originale che non si riproduce più. In cima alla scala sociale le differenze dall’uomo del popolo sono così enormi che può dirsi addirittura si tratti non di un’altra razza, ma di un’altra umanità. Questa cima è dove tutti gli elementi della coltura moderna hanno la loro sviluppata funzione normale.
La predilezione dei moderni per la parte più animalesca, per la passione sensuale del fondiglio umano proviene dunque un po’ dalla difficoltà che l’artista [86] incontra per via quando vuol inoltrarsi in un ambiente più elevato; un po’ (e questo è un mio parere) da una legge fatale che regola il processo dell’arte come il processo della Natura. Si va dal più materiale al più spirituale, allo stesso modo che da una forma più semplice e inferiore ad una forma più ricca e superiore. L’arte moderna tenta la sua via, procede riguardosa; è il suo metodo scientifico che le impone d’inoltrarsi con mille cautele. Ma le prime esperienze oramai sono un trionfo. Gli strilli delle oche del classico Campidoglio non salveranno nulla. L’arte è trasformata, è peggiorata, se così piace; è corrotta anzi; chi lo nega? I suoi primitivi elementi, imaginazione e sentimento, si sono già mescolati ai nuovi elementi della riflessione scientifica. Ma è l’arte quale può esistere al giorno d’oggi entro quest’atmosfera positiva, avvelenata (è la frase sacramentale) da miasmi d’analisi e di scettiche curiosità. — Non è l’arte antica! Non è la grand’arte! — Lo sappiamo benissimo. Perchè non rimpiangerò che noi italiani, anzi, che noi europei del 1879 non si sia più gli europei di tre, di quattro secoli fa, medio-evo, risorgimento, o anche semplicemente secolo XVIII? Non si capisce in che maniera quel che non s’osa desiderare per la storia dell’umanità possa invece volersi per la storia dell’arte. Come se l’arte fosse fuori dell’umanità! Come se l’arte non fosse l’umanità che riproduce in forma immortale i diversi momenti della sua divina esistenza!
L’arte si è trasformata, o per dire più esattamente [87] ha trasformato il suo metodo. Anche quando è esteriore, come nella Germinie Lacerteux, come nell’Assommoir, è intanto più intima della più intima arte antica. Il suo occhio è armato del microscopio, la sua mano del bisturino dell’anatomista e del disseccatore. Restar arte, cioè infondere la vita alle sue creature nello stesso tempo che le disarticola e le scompone con spietata e serena freddezza, ecco l’arduo problema che deve risolvere ad ogni momento la vera arte moderna.
La ricerca, che par capricciosa, dell’eccezione dei suoi soggetti è un’antica necessità che il metodo analitico odierno rende soltanto più appariscente, quasi fosse cosa nuova. Non è solo da oggi che l’arte va in busca di eccezioni. Tutta la storia delle sue più splendide creazioni è una storia non interrotta d’eccezioni, una più grande dell’altra. La differenza sta in questo: una volta la scelta veniva fatta quas’inconsapevolmente; oggi la eccezione è ricercata di proposito. Coloro che se ne meravigliano, ignorano certamente che significhi un’eccezione.
Carattere eccezionale (nel romanzo si tratta di caratteri) è quello dove tutte o quasi tutte le forze naturali chiuse in germe dentro d’esso si son potute sviluppare con una larghezza e con una ricchezza che le mille influenze sociali consentono di rado. Ordinariamente un germe prende il sopravvento e aduggisce gli altri colla sua rapida crescenza. Poi le circostanze propizie vengono meno: gli altri germi o non si svegliano o crescono su rachitici, [88] intristiscono, muoiono assai prima del tempo; e il carattere comune, volgare si strascica a questo modo lungo la vita, ingombrando la famiglia, la città, la nazione, diventando la forza bruta e brutale che contrasta e combatte l’eccezione, quasi fosse venuta fuori per negarlo e per farsi beffa di lui. Ma quello che pel volgo è unicamente una stranezza o una mattezza, per l’artista, per lo scienziato (che oggi sono sul punto di confondersi in uno) diventa un caso artistico o scientifico di grande importanza. C’è in esso del rigoglio, dell’esuberanza di forze e di vitalità; c’è un accidentale ma fortunato accumulo di casi sparpagliati, disposti in riscontro e quasi in lotta tra loro; raziocinî che la vita comune non architetta mai; conseguenze che il carattere volgare non saprebbe tirar fuori nemmeno a provarcisi mille anni; errori, colpe, illogicità di sentimenti e di passioni che per l’arte e per la scienza hanno un immenso valore. E siccome l’arte è creazione più elevata della creazione naturale, così l’eccezione artistica riesce più ricca, dirò anche più facilmente scientifica. Giacchè spesso l’artista per produrre l’effetto voluto, non deve far altro che esagerare certe proporzioni, e l’eccezione (uno dei caratteri naturali e primordiali dall’arte) vien tosto alla luce. Bisogna essere molto superficiali per non capirlo.
Ma se l’eccezione sarà sempre uno dei più grandi elementi dell’arte, non persisterà questa ricerca del basso, del brutto, del deforme fisico o morale [89] che ora ci attrae tutti, grandi e piccini. Quando il romanzo moderno avrà il polso più franco e l’occhio più esercitato, i fondiglioli umani saranno abbandonati alle indiscrete compiacenze dell’arte inferiore; e tutti, grandi e piccini, saremo presi dalla smania dell’aria pura, delle passioni elevate, dei vizî più spirituali ma non meno terribili di questi d’ora, delle virtù più generose e certamente più consolanti, delle passioni più raffinate e non meno umane e drammatiche. Intanto, durante l’attesa, durante le prove e gli studî, leviamoci il cappello e salutiamo riverenti l’arte moderna nelle sue più schiette manifestazioni. Salute Germinie Lacerteux! Salute Assommoir! Salute Jacques Vingtras nuovo arrivato, che pei sacrosanti diritti dell’arte hai fin dimenticato d’esser figlio!
Jacques Vingtras è uno studio inesorabile! L’autore lo dedica à tous ceux que crevèrent d’ennui au collège, ou qu’on fit pleurer dans la famille, qui, pendant leur enfance furent tyrannisés par leurs maîtres ou rossés par leurs parents.
Siamo in una sfera più elevata dell’Assommoir e della Germinie Lacerteux, ma tutto vi è ancora basso, triviale, volgare e quindi cattivo e malefico. Ecco le prime righe del libro:
«Sono stato allevato da mia madre? O fu una [90] contadina quella che mi diede il suo latte? Non ne so nulla. Ma qualunque sia stato il seno che io abbia succhiato, non mi ricordo una sola carezza di quand’ero piccino. Non sono mai stato accarezzato, lisciato, baciucchiato: sono stato picchiato.
«Mia madre diceva che non conviene viziare i ragazzi, e mi picchiava tutte le mattine. Quando le mancava il tempo la mattina, mi picchiava a mezzogiorno, raramente più in là delle quattro.
«La signora Balandreau mi ungeva di sugna.
«Era una buona zitellona di cinquant’anni. Abitava sopra di noi. Dapprincipio ella era contenta. Siccome non possedeva un orologio, così le mie busse le indicavano le ore. — Puff! Paff! Puff! Paff! — Ecco il cosino che le tocca! È tempo di farmi il caffè e latte!»
Come si vede di primo tratto, non è soltanto la figura della madre che rompe e calpesta tutti i classici ideali delle solite mamme candite; c’è anche l’accento ironico, quasi ringhioso del figlio che strapazza e vilipende, come qualcosa di vigliaccamente supino, la tradizionale carità filiale da cui pare non sia sorta nè una buona mamma di più, nè un cattivo figlio di meno.
I pretesi moralisti grideranno allo scandalo? Forse no.
Che non si tratti di un’eccezione? Anzi! Le gretterie della signora Vintgras sono proprio sconfinate. Ma benchè eccezionali per l’intensità, i caratteri di questo libro del comunardo francese sono [91] intanto assai comuni per la loro qualità, e non ripugnano punto. Inconsciamente cattivi, inconsciamente malefici, la loro irresponsabilità da bestie non riesce a sdegnarci. Lo stesso Jacques, che pur prova la nausea della sguaiata trivialità da cui vedesi oppresso, lo stesso Jacques è quasi irresponsabile anche lui in questa postuma vendetta dei suoi patimenti di bimbo. L’ambiente arido e freddo dove è nato e cresciuto gli ha lasciato un’impronta nel carattere che sussiste suo malgrado.
Vedetelo all’ultimo. Egli è già grande, si è battuto per difendere il suo babbo ed è rimasto ferito alla gamba. Il babbo neppure in questa occasione sa perdere la sua aria dura, da professore; non gli riesce di intenerirsi rimpetto al figlio per paura di blesser la discipline. «J’ai été pion et il m’en reste dans le sang.» Perciò dice alla moglie di abbracciare il figlio per lui e di dirgli, ma en cachette, ch’egli, il babbo, gli vuol bene. Il figlio, dal suo letto di ferito, sente per caso il dialogo tra il babbo e la mamma. Come è felice di questa rivelazione! Ma nello stesso tempo come lamenta che gli abbiano a restar sempre des trous de mélancolie et des plaies sensibles dans le coeur! Guarito, sul punto di partire per Parigi, sua madre lo abbraccia singhiozzando. Nel preparar la valigia, ella scorge in un calzone uno sdrucio e una macchia di sangue: era il calzone del duello. Quella macchia anderà via? La signora Vingtras vi passa e ripassa la spazzola e un pannolino bagnato. «Tu vois, ça ne s’en va pas... [92] Une autre fois, Jacques mets, au moins, ton vieux pantalon!»
Sono le ultime righe del libro.
E arte? C’è il famoso splendore del vero messo in bocca a Platone dagli estetici di strapazzo? Io vi trovo una forte sovraeccitazione del cuore, un sollevarsi di mille sentimenti confusi insieme, lagrime, sorrisi, ironie, sdegni repressi e, sopratutto, un rilievo, una vita e una ricchezza di particolari evidenti.
Volgarità, grettezza, trivialità comica e grottesca; ridicolo che scaturisce dal fare pesante e impacciato; vita affatto materiale che si dibatte com’impigliata nella stoppa delle più comuni esigenze; afa di animalità che da ogni pagina monta alle nari e soffoca lo spirito col suo sito di selvaggiume; ecco il libro. Nulla di consolante, nulla di nobile, nulla che faccia contrasto...
Sì? Ma quando esso vi ha dato la nausea di tutto questo, quando dalla miseria dello spettacolo che vi ha messo spietatamente sotto gli occhi, vi ha costretto a sollevarli in alto, e vi ha fatto sentire il bisogno d’una boccata d’aria pura?... Ma io già dimenticavo che non sono un... moralista!
12 Agosto 1879.
[93]
Un’opera d’arte non è un fatto isolato. L’artista ne respira gli elementi nell’atmosfera che lo circonda, e se li assimila da ogni parte ordinariamente a sua insaputa. Qualche volta però essa non risulta da un processo positivo che le communica con precisa esattezza tutti i caratteri delle cose esteriori dai più severi e costanti a’ più frivoli e passeggieri. È un processo negativo quello che le dà vita. L’artista o non si sente soddisfatto o si sente offeso dalla realtà, e tenta rifugiarsi col pensiero in un ideale perfettamente opposto che lo consoli e l’esalti. Quel mondo d’immagini che allora gli scaturisce inaspettatamente nella fantasia alla contemplazione d’una idea [94] appassionata e gentile, non tarda a tradursi luminoso e pieno di vita nella parola o nelle note, nel marmo o nella tela; e da questa potenza di contraddizione vien fuori tal fiata il capolavoro che muta d’un tratto l’ideale del secolo. Tale miracolo accade tutte le volte che l’artista riesce o ad imprimere nella sua opera un carattere d’antitesi eccessivo ma potente, o a reintegrarvi caratteri dell’umana natura, sconvolti e rabbuiati dagli avvenimenti politici e sociali. Nel primo caso l’opera d’arte vive finchè i cuori e gl’intelletti non sentano un bisogno d’equilibrio tra gli eccessi dei due termini di contraddizione; poi rimane un semplice documento di storia e nulla più. Nel secondo invece, poichè i caratteri reintegrati e messi in luce sono i più intimi, anzi gl’immutabili dell’umana natura, potrà forse subire momentanei oscuramenti di culto e di fama, ma vivrà eterna cogli eterni elementi dai quali essa è composta.[10]
L’Armando del Prati è un lavoro d’antitesi. Mentre il pensiero italiano si versa con foga smaniosa fuori di sè, impegnandosi in una lotta con le cose materiali la quale per poco non gli fa dimenticare quanto non sia cifra o moneta sonante, ecco il poeta che tenta trasportarlo nelle più pure e più elevate sfere dell’intelligenza, e rapirlo lungi dalla vista d’ogni oggetto materiale ed estraneo a sè stesso. Il termine contradditorio ch’egli presenta non è, [95] per dire il vero, di perfetta relazione, cioè non abbraccia esattamente l’estensione dell’opposto. Quel breve angolo del pensiero da lui voluto illuminare colla luce dell’arte, sorpreso per di più in un momento morboso, rende circoscritta l’azione e l’influenza del suo lavoro. Ma questo non ne muta il carattere e non ne altera la fisonomia. Se l’antitesi non vi è perfetta, non occorreva del rimanente che vi fosse tale. Sta a vedersi s’egli ha côlto in uno spazio così ristretto gli elementi più intimi e più costanti dell’umana natura, o se invece ha dato alla sua opera una vitalità affatto effimera che lasceralla ben presto un corpo inerte.
Da qualche tempo in qua il pensiero del Prati ama rivelarsi con creazioni alle quali la fantasia cerca di dare fibre, nervi e sangue, insomma vita propria e distinta. Questa seconda fase o maniera, più che dalla costituzione del suo ingegno, sembra venire da impulsi esteriori che gli facciano violenza. Pur troppo l’ingegno non è sempre libero nella scelta di una forma letteraria. E quando il gusto e lo stato morale della nazione gliene impongono una che repugna affatto alla sua natura, esso perde metà del proprio vigore, della propria efficacia e s’intristisce come un fiore sotto cielo inclemente. Qualche volta, è vero, la tempra molto rubusta gli permette non solamente di resistere a questa specie di soverchieria morale, ma di farla subire invece di subirla; però, di solito, la vittoria rimane al gusto predominante e alla moda.
[96]
Convien rammentarselo: la natura dell’ingegno del Prati è lirica per eccellenza.
Chi non fu affascinato dai primi canti di questa anima armoniosa che sapeva rendere così bene lo stato vago ed incerto del nostro spirito, e appagarne i bisogni? La fortunata coincidenza di un’organizzazione prepotentemente lirica con lo stato morale della sua nazione fu senza dubbio la cagione principale della voga grandissima del Prati.
Lo stato morale del popolo italiano di un ventennio fa non era un sincero prodotto dell’indole nazionale; infatti mutò. Gli entusiasmi mistici, generosi, fervidissimi furono un esercizio preparatorio all’eroica e gigantesca azione che dovevamo tentare. Quando il momento suonò, il nostro spirito discese parecchi gradini di quella sublimità ideale a cui si era elevato, accostossi maggiormente alla terra, divenne più attivo, più pratico; e l’arte che nota tutte le minime variazioni dello spirito sentì la necessità di conformarsi allo nuove esigenze. Ma vuoi che non fossero intieramente scancellate le vestigia del primo ideale, vuoi che non sia corso il tempo necessario per prendere francamente l’abitudine del nuovo, il resultato non ha ancora corrisposto alla moltiplicità degli sforzi.
L’acutissimo sentimento artistico, che nessuno saprebbe negare al Prati senza taccia d’assurdo, non poteva tenergli nascosta questa tendenza del concetto poetico verso una più solida manifestazione; doveva anzi facilmente tentarlo a provarvisi. Ed [97] ecco come son nate le tre figure che la sua Musa ha cantate l’una dopo l’altra, cioè: il Rodolfo, l’Ariberto e l’Armando. Nulla impediva che le validissime forze dalle quali veniva sostenuto nell’impeto lirico si piegassero a reggerlo nella nuova palestra (dico nuova senz’ombra d’offesa per l’Edmenegarda). Nulla impediva che ciò avvenisse; ma però non avvenne. Il Prati non potè spogliare completamente l’uomo vecchio; non potè vincere e soggiogare il suo carattere lirico. Non già ch’egli non sia riuscito a salire anche nel genere narrativo ad un’altezza da tener facilmente il primo posto o uno dei primi nella nostra letteratura contemporanea. Ma il rimanere a gran distanza dalla perfezione ha nociuto in qualche modo alla sua fama di poeta, ed ha contribuito a rompere qualcuno di quegli anelli che facevan passare, come elettrica corrente, il pensiero dell’artista nella mente del pubblico.
Il suo processo creativo in questo genere poetico riman sempre incompleto. La figura dei personaggi da principio si presenta con nettezza e con vigore che illudono. Sembra che il sangue scorra davvero sotto quelle carni rosee; che quei muscoli tesi diano forza e movimento ad un corpo ridondante di giovinezza e di vita. Ma a poco a poco la figura si trasforma, perde consistenza e nettezza, e diventa così trasparente da farci scorgere sotto la sua falsa veste la persona del poeta. Allora tutto è finito. Accadrà che procedendo nella lettura il fenomeno si rinnovi; che, come la prima volta, un’ispirazione potente [98] arrivi ad infondere un altro alito di vita in quel fantasma dileguatocisi così prestamente d’innanzi. Però la nuova impressione riesce inefficace per colpa del primo disinganno. L’andamento del lavoro, da lì a non molto, fa ragione alla diffidenza del lettore.
Il Rodolfo ha due o tre scene di questo genere. La passione vi scoppia arditamente violenta. Nel personaggio non sentesi soltanto l’impeto della fantasia, ma la foga della carne con tutte le incoerenze e la logica degli affetti veri. A un tratto la corrente si arresta: un gelido soffio ci trasporta dalla viva realtà nelle fantastiche regioni d’un ideale importuno. Nè solamente il personaggio, ma persino quanto lo circonda diventa vago, sfumato. E appena si accheta il celere palpito che ci s’era destato nel cuore, proviamo la tentazione di deporre il libro e lasciar solo il poeta nella sua corsa lontana.
L’Ariberto, come orditura, è lavoro più vasto; ma come verità e come sentimento rimane anche indietro dal Rodolfo, in onta della lucida vernice di realtà apprestata dai fatti e dalle passioni politiche del 1859 innestativi dentro. Questa volta l’istinto lirico ha preso la mano al poeta, e l’ha trascinato in una sfera circonfusa di luce, dove le sue figure s’agitano senza posa, mandando lampi stupendi. Ma l’occhio si stanca presto a fissarle, poco secondato dal cuore che s’inchina alle cose troppo ideali, ma le ama di rado.
Che sarà dunque di quest’Armando il quale vive unicamente di pensiero?
[99]
«Per una moltiplicità di cagioni (avverte il poeta) inerenti all’indole umana ed esistenti nel mondo esterno, parecchie nature, anche forti, a certi tempi e in mezzo a certe condizioni di società, cascano in ozî, in tedî, in sogni, che hanno il carattere di morbi: ai quali se va accoppiato o il ricordo di qualche fiero disinganno patito, o la tendenza della mente alla negazione, o l’abito della fantasia alle tetraggini, questi mali possono avere esiti dolorosi e qualche volta orrende catastrofi.[11]»
Non occorre dire di più perchè si presenti alla memoria del lettore una delle più straordinarie creazioni dell’arte, l’Amleto dello Shakespeare.
Armando, come il giovine principe di Danimarca, è un’anima gentile, una fantasia appassionata. Vissuto fino a un certo tempo nella più completa felicità, tutto intento ai più nobili esercizî della mente e del corpo, eccolo di repente sotto il peso d’un terribile disinganno che gli avvelena le pure sorgenti della vita e lo lancia in un caos d’immagini e di sogni, su cui si riflette di quando in quando la luce sinistra del suo doloroso ricordo. La tempra di lui è assai più delicata di quella d’Amleto. Gli è stato sufficiente amare ed essere ingannato, e il morbo d’Amleto gli si è trasfuso rapidamente fin nel midollo delle ossa. Ed eccolo errante da un capo all’altro dell’Italia, solo, chiuso nel suo dolore, beffardo, irrequieto, stanco di vivere e indeciso di [100] troncare il debole filo che l’attacca all’esistenza. Però il suo male non sembra ancora ridotto incurabile. «A questi morbi dell’intelletto e dell’anima son preparati i naturali rimedî delle varie operosità e necessità della vita comune; ma altri e più potenti risiedono nell’ordine della religione e in quello della scienza. Per il più piccolo poi e più delicato numero di questi infermi, i farmachi dotati di maggior virtù sono riposti nella grandezza dell’amore e nella gloria dell’arte.[12]»
E l’arte e l’amore tenteran di salvarlo. Per un momento le nebbie della sua mente parranno messe in fuga dalla bellezza e dall’affetto dell’angelica Arbella. È una tregua fallace! Il disquilibrio avvenuto in lui tra il pensiero e l’azione è proprio immenso. Quel suo fuoco divoratore ha bisogno di larga, di continua preda, e non s’arresterà prima d’aver tutto consunto. Già l’intelletto d’Armando non obbedisce più ad alcun freno nei suoi movimenti; gira, gira senza posa, come una ruota furibonda. Un turbine di strane immagini gli pullula nella fantasia con tutta la schiettezza della realtà. Il passato, il presente gli si confondono nella memoria con stravagante miscuglio. E l’azione di questo stato morboso sarà così energica, ch’egli non giungerà più a guarirne per intero. Dato che il potesse, il destino glielo impedirà con una delle sue misteriose ed atroci vendette. Armando infatti capirà finalmente che la [101] medicina, le benigne influenze dei luoghi, le distrazioni dello studio, non solo non varranno a liberarlo dalla sua ossessione, ma neanche ad apprestargli un lieve conforto; e che solo l’affetto dell’Arbella potrebbe recargli, se non il completo oblio, un qualche balsamico refrigerio. Ma neppur questo affetto si troverà così forte e previdente da difenderlo dalle «maligne insidie del Caso, il quale non par del tutto straniero agli andamenti e, talvolta, anco alle conclusioni della nostra vita.[13]» Il giorno che dovrebb’essere l’inizio d’un men faticoso e men torbido procedere della sua sorte, quel giorno sarà il principio del suo eterno riposo.
Il Prati ha profuso in questo poema tutta la magica potenza del suo colorito. In nessuna delle sue opere lo stile del poeta s’è forse innalzato a tanta elevatezza (fatta un’eccezione pei larghi brani di prosa che si è piaciuto incastrarvi).
Il lettore non s’aspetti citazioni; si ridurrebbero inutili non potendo esser lunghe. Il poema è lì, stampato in così elegante edizione che, se il nome dell’autore non bastasse (come basta di certo), saprebbe vincere con essa la ritrosia del più schivo. L’apra dunque volentieri e si persuada da sè.
Ma lo stile, per eccellente che sia, riman sempre una parte quasi accessoria nella tela d’un poema; sicchè io ripeto qui la mia timorosa interrogazione: che sarà di quest’Armando, il quale vive tutto di [102] pensiero? Il poeta ci ha già avvertiti:
Non ti narro, o lettor, drammi o romanzi
Contessuti di casi e di vicende,
Fila volanti per diverso ordito
A formar tela di commedia o pianto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ti narro un tristo sognator: ti narro
Il suo tetro fastidio; e se talvolta
Cosa mormora in lui che ti somigli
Non mi chieder di più.
L’Armando è lo studio d’una infermità della nostra mente. Ha colto il poeta in questo studio i caratteri della verità? E, còltili, è riuscito a manifestarli secondo le leggi che distinguono la verità pura dalla verità dell’arte?
Il quesito si racchiude intieramente qui: convien provarsi a risolverlo.
Per la natura della malattia, che ha voluto descrivere, il poeta era liberissimo di sceglierne i sintomi più bizzarri e più fuori dell’ordinario senza temere da questo punto un rimprovero fondato. Egli s’è servito di tale libertà colla maggiore larghezza possibile. Il modo come si sviluppa la pazzia d’Armando, se si trattasse d’un caso reale, sarebbe forse nuovo nella cronaca della scienza; ma non può dirsi inverisimile. Per un istante sembra che l’influenza d’un sentimento soave o benefico sia riuscito a spegnere nel suo pensiero i tetri fantasmi del passato. La dolcezza dell’inattesa commozione gli agisce anche sul fisico, ed il sonno scende a ristorarlo lungo e profondo come da gran tempo più non faceva. È [103] durante il sonno, che il male latente riprende il suo corso, reagisce contro la nuova impressione e coglie una facile vittoria. Armando destasi matto.
Ripeto che come fenomeno patologico non trovo nulla da ridire contro l’invenzione del poeta. Egli ci fa assistere soltanto poche ore al disordine mentale del suo protagonista. Ma il sogno-allucinazione d’Armando non ha il carattere patologico proprio di questo genere di morbo. È troppo coerente, troppo regolare, troppo assennato, e lascia intravvedere l’intenzione del poeta di mettervi un senso pieno di arcani, qualcosa d’allegorico, di mistico, di grandioso che, contenendo la quintessenza di tutti gli elementi accumulati dagli studi e dai casi della vita nel pensiero del suo eroe, accennasse alla soluzione d’un grave problema e facesse pensare. Questo scorgesi dall’impiego delle personificazioni, figure rettoriche, che, per la loro astrattezza, non si presentano mai nè ai sognanti, nè ai matti. L’artifizio è assai palese da non produrre cattive conseguenze. Infatti dispiace il vedere che il poeta abbia dato ad imprestito le sue fantasmagorie al cervello ammalato d’Armando, o meglio ch’abbia sostituito la propria all’individualità del suo eroe. Manca, in tutto quel viluppo di figure e di casi il vero carattere del sogno, e dell’allucinazione reale. Nessuna leggerezza, nessuna vaporosità nelle figure, nessun’indecisione, nessun’ombra nel fondo del quadro; nessun’esaltazione nervosa nel movimento dell’insieme. Qui la poesia doveva essere tutt’una colla scienza per riuscire [104] efficace, commovente, sublime. Occorreva il coraggio di sacrificare qualunque più splendida fantasia, per non togliere alla narrazione tre quarti d’interesse e di pregio come verità e com’arte; occorreva che il poeta non si lasciasse indurre, per iscopo di varietà, a vestire d’una forma grave e strascicante un concetto, pel quale bisognava quell’impalpabilità (mi si permetta la parola) ch’egli sa spesse volte comunicare al suo stile. La prosa del Prati non mostra nel dialogo, la snellezza e la vigoria del suo verso; e tal disaccordo tra il concetto e la forma contribuisce certamente a rendere più visibile la natura artifiziosa del primo. Nulla di più freddo, di più convenzionale delle personificazioni e delle allegorie, quando non velano la propria astrattezza sotto una figura vivente. Peggio poi se hanno la disaccortezza di venir fuori fra tali circostanze che sono in perfetta contraddizione colla loro natura. Ma io così m’inoltrerei nella seconda parte del quesito, e mi rimane ancora da osservare qualch’altro punto nello sviluppo del concetto.
Fra i principali caratteri della lipemania, la scienza nota l’irresistibile tendenza al suicidio. Armando non è sottratto dal poeta a questa tristissima inclinazione; il disgusto della vita ve lo conduce gradatamente. Dapprima ei non pensa d’attentare ai suoi giorni, ma non pensa a difenderli nemmeno da un evidente pericolo. Una sera, mentre giace solitario in una vallata delle Alpi, gli esce incontro un enorme lupo che si ferma mugolando a poca distanza [105] da lui. Armando non porta la mano alle sue armi, nè si leva da terra. Chiusi gli occhi,
Senza mutar di polso e di respiro,
sta ad attendere immobilmente quel che avverrà. Il lupo gli s’accosta, gli fa sentire il suo alito ed il fiuto, poi torna a imboscarsi. «Prendi il saluto d’un immortale!» esclama beffardo Armando rivolto al sole che tramonta.
Era tutto in lui morto? Anco l’istinto,
Il terribile istinto, onde l’amico
All’amico aggrappandosi lo tira
Giù nell’abisso? o naufraghi sull’onde
Si guerreggian da belve il figlio e il padre
Il fratello e il fratel, se la ghermita
Tavola è scarsa ad amendue?[14]
Da un tale stato all’idea precisa del suicidio non ci corre gran tratto. Armando, dopo qualche tempo, sente parlare più forte dentro di sè questo nemico invisibile che opprime il più vivo dei nostri istinti, la conservazione di noi stessi. La voce nella natura però non ha ancora ceduto interamente in lui, e si fa schermo di scettiche ragioni:
Di mia man disfarmi?
Ma che siam noi se non disfatte cose,
Se non vacue sembianze, una nell’altra
Senza tempo fluenti? O forse alcuna
È dolcezza a provar dopo il supremo
Punto del flusso? E questa errante, immensa
Fatuità si cheterebbe in grembo
D’Opi e di Giove? Ambigui fati; oscure
Sfingi, sfingi e non altro.[15]
[106]
Armando non ha paura, com’Amleto, di quel che avverrà dopo morto. È del secolo XIX e non crede più nell’inferno. Appena dunque il disegno fatale arriverà ad impossessarsi completamente di lui, nessuno potrebbe impedirgli che lo ponga in atto; egli dovrebb’essere suicida.
Ecco un altro luogo, dove il poeta ha disertato dalla verità per seguire una fantasmagoria da opera in musica. È il punto più debole del poema. Perchè non tirare la logica e naturale conseguenza delle proprie premesse? O, se il suicidio gli spiaceva, perchè non ricorrere ad un secondo partito che lo studio del vero gli avrebbe certamente suggerito, la recidiva della malattia? Nell’uno e nell’altro caso l’arte poteva guadagnar molto prendendo consiglio dalla scienza, e nulla rischiava di perdere.
Per non curarsi dell’attenta osservazione della natura, il poeta si è lasciato sfuggir di mano un altro mezzo, che avrebbe comunicato alla seconda parte del suo lavoro larghissima vena d’affetto. Parlando della guarigione d’Armando, si contenta di dire:
Varcàr tre lune; e fosse, o di natura
La benefica forza, o l’intervento
Di portentose deità che Arbella
Supplicava tremando ai piè dell’are
O lacrimando nei paterni alberghi,
L’egro fiorì novellamente.[16]
Ed egli aveva nell’Arbella una gentile infermiera, da farle intraprendere la parte più difficile della cura [107] del suo ammalato, cioè la psichica o morale, come la dicono i medici! Una stupenda occasione per metterci sotto gli occhi di quai miracoli sia capace l’amore nella lotta con le misteriose potenze della natura. Non è forse la donna la più portentosa delle Dee per combattere e raddolcire, con delicate premure, con assidui riguardi, le nostre mille infermità? L’Arbella del poeta invece, assorta nei suoi studî artistici, sembra non avere neppur l’ombra di questo prezioso istinto del suo sesso. Agisce anzi in opposizione al più volgare senso comune, rammentando al convalescente un passato ch’ella avrebbe dovuto ingegnarsi di fargli sparire dalla memoria. Gli avvenimenti della vita d’Armando, da lei posti sulla tela, son legati così intimamente con lo stato d’incubazione, del quale egli ha recentemente sofferto lo sfogo, che il ridestarli può riuscire un’imprudenza fatale.
Noto questo non tanto per additare una volontaria ommissione di lui, quanto per dimostrare che, con essa, si viola una legge fondamentale dell’arte. Ed entro, senz’altro, nella parte estetica del quesito.
La legge fondamentale, alla quale accenno, è questa: la creazione ideale deve conservare intatti i caratteri più strettamente essenziali della cosa reale a cui corrisponde. Per esempio: l’essere artista non può dirsi un carattere così strettamente essenziale nell’Arbella quanto l’esser donna. La donna dunque dovrebbe mostrarsi predominante sull’artista, se non vuolsi che l’ideale sfiguri il reale in guisa da ridurlo irriconoscibile. Al poeta è piaciuto di invertire [108] le proporzioni di questi due caratteri; e, secondo me, n’ha raccolto quel frutto ch’era da attendersi. La sua Arbella, più che una creatura vivente, è riuscita un’ombra di creatura. Ella sa dire delle frasi eleganti, argutissime, galvanizzato da un appariscente lirismo, ma non sa mai trovare l’accento vero della passione, che rimescola il profondo del petto. Così per Mastro Pagolo. In lui il carattere predominante non doveva essere nè quello d’artista, nè quello d’uomo in generale, ma l’altro di padre. Per non aver dato a quest’ultimo una notevole superiorità sui primi due, vien tolta egualmente a Mastro Pagolo quell’espressione evidente che fa esclamare: egli è vivo! Infine, la mancanza di vera vitalità in tutti i personaggi (Armando apparisce alquanto diverso soltanto in grazia del suo male che lo concentra tutto nel pensiero) produce il difetto di movimento drammatico nell’intiero poema. Così dicendo non dimentico di nulla chiedere al poeta, che non fosse disposto a concederci.
Messe insieme tre anime appassionate, il dramma si sviluppa da sè, come dal contatto delle nuvole si sviluppa l’elettrico. Potrà variare d’intensità, dal minimo al massimo grado, ma questo non influisce per niente sulla sua intima natura. Perchè intanto il poeta non è riuscito a cavare da tre anime appassionate il menomo movimento drammatico? Unicamente perchè la passione d’essi è più esteriore che reale, e le basta uno sfogo di parole. A che mettersi in azione? E il dramma soave, commovente e grandemente [109] tragico ch’era, in potenza, nel soggetto è rimasto lì in istato latente. Ma parte del difetto va attribuito, senza fallo, alla costituzione assolutamente lirica dell’ingegno del Prati.
Ho avvertito sin dal principio che l’ingegno perde metà del proprio valore quando il gusto predominante lo costringe a manifestarsi con una forma ripugnante alla sua natura. L’Armando è una prova eloquentissima di questo principio. Il lirismo vi trabocca da ogni parte con foga irresistibile; ed allorchè, quasi per mascherarsi, prende la veste del fantastico, giunge perfino a far smarrire al poeta il delicato senso dell’arte e a trascinarlo nell’artifizio, il più gran nemico di questa.
Il fantastico è un elemento naturale della poesia.
Ora vi ha dei soggetti che, come i terreni speciali alla vegetazione di certe piante, gli consentono una fioritura meravigliosa per ispontanea virtù, o con poco aiuto dell’arte: esempio, le leggende. In esse il fantastico è, come suol dirsi, a casa propria, e vi regna con la più perfetta autocrazia. Ma la leggenda non nasce dalla testa d’un poeta, come l’antica Minerva dalla testa di Giove. È il popolo che la crea con un complicato processo. Goethe, con quel senso poetico che lo distingue sovra tutti i grandi ingegni dell’età nostra, accettò infatti la leggenda del Fausto tal quale gli veniva presentata dalla fantasia popolare. E padronissimo di svolgerla in tutti i sensi, con le dimensioni che più gli convennero, potè dar fuori quel grandioso poema che [110] forma la più invidiabile gloria della Germania moderna. Le creazioni fantastiche, ed anche, se così vuolsi, le strane esuberanze della fantasia goethiana non riuscirono quindi un semplice ornamento poetico, sotto di cui si nasconde il concetto filosofico dello scrittore; ma, indipendentemente da questo, presero corpo reale in relazione con l’ambiente del mondo leggendario, ove erano uscite all’esistenza; e malgrado la loro estrema bizzarria, non ci scoprono mai la persona del poeta affannata a concretizzare l’idea astratta del suo tema; al contrario, ci appariscono esseri viventi, necessari abitatori di quel mondo novello, creature immortali.
Il fantastico, allorchè non iscaturisce spontaneo dal seno del soggetto, riducesi ad un più o men abile artifizio rettorico e a null’altro. Quello che il Prati ha introdotto nell’Armando mi sembra di questo. È il lirismo del pensiero che si mette la maschera; lo stesso poeta non teme di dirlo. Egli evoca le tre Parche e loro fa mormorare sinistri presagi sull’avvenire dei due amanti:
La notte istessa in quel verzier di Roma
Sceser tre dee; non so se dalle sedi
Della luce o dell’ombra. Avea ciascuna
Un telaio d’argento: e il piè di rosa
Premea la ruota. E mentre ogni pupilla
Della terra e del cielo in dolci sonni
Dormia sepolta, le tre dee, con voci
Conscie e compagne all’opra, ivan cantando.[17]
[111]
Appena non avrà più bisogno d’esse le chiamerà imagini mendaci del greco genio. Ed è naturale. Per lui le Parche non sono persone viventi, ma velo d’un concetto lirico che ama prendere per un momento la loro sembianza. Nel Fausto, al contrario, fino i concetti astrattissimi della Cura, del Delitto, della Fame e della Miseria assumono compiuta realtà d’individui. Nulla serve a disingannarci, nemmeno la cruda schiettezza con cui il poeta ce n’indica i nomi. Egli è sicuro del fatto suo. L’incerta e cupa atmosfera che lo circonda gli permette ogni cosa. Infatti la stretta di cuore, che ci danno quei quattro personaggi col loro atroce dialogo nell’avvicinarsi al palazzo di Fausto, è così profonda come se si trattasse d’esseri formati solidamente di polpa e d’ossa.
Trovansi molti punti nell’Armando (e per fortuna sono assai frequenti) ove il pensiero può mostrarsi veramente qual è, in tutto lo splendore della sua lirica forma; e allora il poeta ritorna il Prati di una volta. Le sei voci dell’Aria, della Terra, del Fuoco, dell’Acqua, del Tutto e dello Spirito; la voce di un’Ape, d’una Farfalla, d’una Rosa e dello Spirito dell’amore; quasi tutte le liriche poste in bocca di Mastragabito; il canto d’Igea e l’epitalamio d’Armando sono componimenti che mostrano come, con gli anni, la potenza dell’artista sia diventata matura senza perder nulla dell’ispirazione giovanile. In esse non sai se sia più da lodare la profondità del concetto o la severa bellezza dello stile. Quando i [112] due amanti si son detti quella parola che racchiude il più gran tesoro di consolazioni che possa idearsi, e tacciono perchè il linguaggio non sembra più sufficiente alla manifestazione del loro affetto, il poeta ci fa entrare col suo pensiero nel pensiero di quei felici. Tutta la natura favella e canta d’amore. E mentr’essi perdonsi tra i fogliami del giardino assorti in un’estasi di paradiso, egli, con un’onda di vivificante armonia, ci rivela tutta la luce, tutti i profumi, tutta la voluttà onde quelli sentonsi quasi oppressi; e la sua parola spande tale profusione di melodie, di profumi e di luce che non sappiamo, dopo averla udita, invidiare i due amanti.
Il canto d’Igea è ben altra cosa. Vi si respira in ogni strofa un’aura di piena salute. In Grecia, ai tempi di Pericle, sarebbe diventato un inno sacro o popolare: e merita di diventarlo anche fra noi. Pochi di quelli che amano la vera poesia non lo impareranno a memoria. La lira del Prati non ha mai dato un suono altrettanto solenne.
L’Armando, oltre a questi canti lirici, presenta moltissime parti di narrazione degne d’esser lette e studiate. Gli stessi difetti che vi si notano non sono senza il loro pregio; potranno rammentare ai nostri giovani poeti le parole d’un antico: «Si j’étais du métier je naturaliserais l’art, autant comme ils artialisent la nature.[18]»
24 Maggio 1868.
[113]
Il Prati, non pago d’essere il più grande dei nostri poeti contemporanei, vuol anche rimaner sempre il più giovane. In questo volume c’è qua e là tale forza, tal rigoglio, tale freschezza di colorito da far tornare alla memoria il poeta di trent’anni fa. Con questo per giunta: che il suo sentimento poetico si è allargato, si è purificato, ha lasciato in gran parte il vago, lo sfumato, l’indeciso che sembrava essere il particolar carattere dei suoi canti, sia nel concetto, sia nella forma. Leggendo alla ventura questi brevi componimenti, colla difficoltà dei quali egli ama scherzare,
(Gli arcavoli hanno torto, e noi si dice:
Il letto di Procuste è un sogno vano!)
tu senti ad ora ad ora come un buffo di profumo, come un’ala fresca di venticello che agiti l’aria tiepida, e provi quasi di prima mano la stessa impressione del poeta.
Oh madre glorïosa, oh madre pia,
Se tu mi arridi e di tua man mi tocchi,
Natura, alta Natura, un’armonia
M’agita immensa...
[114]
È il grido, è l’aspirazione dell’arte moderna. E il succo nuovo che s’infonde nell’arida scorza del plasticismo della nostra poesia. È il raggio di luce che dissipa le nebbie delle forme vuote troppo a lungo adorate dai nostri poeti e scambiate per forme piene di bellezza e di vita.
Natura, alta Natura!
Non oso affermare che tutti i componimenti del presente volume siano una rivelazione di questo sentimento profondo, di quest’elemento vivificatore che stenta a penetrare nell’arte italiana combattuto un po’ dal nostro carattere, un po’ dalle vecchie abitudini di scuola. Anzi, dico addirittura che le vecchie abitudini vi fan capolino un po’ spesso con le incertezze di colorito, colle bizantinerie di concetto, con le solite vacuità che non hanno nemmen la scusa della novità della forma... Ma che importa? Potremmo citare una cinquantina di sonetti uno più splendido dell’altro, i quali rimarranno nella storia dell’arte come testimonianza di questa fase d’assimilazione ove oggi trovasi la poesia italiana; assimilazione di quella vita moderna che ha già ricevuto in Francia, in Germania, in Inghilterra un più precoce ed un più vasto sviluppo.
Cinquanta non parranno pochi, se si rifletterà che di canzonieri ricchi quanto questo, e riputati meritamente classici, rimangono vivi appena una trentina di sonetti.
Avrei voluto esaminare largamente questa Psiche, [115] questa storia dell’anima e del pensiero del poeta, per notare in che modo e fino a qual punto, per opera sua e d’altri minori ingegni, le influenze dell’arte europea contemporanea abbiano già modificato il nostro sentimento poetico e fin dove potranno arrivare; ma è un lavoro che richiederebbe dieci volte di più dello spazio di che posso disporre.
Mi contenterò d’accennare al lettore che il componimento dove il Prati si leva di più all’altezza del sentimento poetico moderno, dove la vita è incarnata in una forma quasi perfetta, è il componimento a cui forse lo stesso poeta non accorda una particolare benevolenza, e che la maggior parte dei lettori lascerà passare inosservato.
Lo citerò intero.
Fra le nuore ser Lio, mentre che avampa
Di faggi a vegghia il focolar paterno,
Le man stropiccia, e novellando campa,
Ingannata la morte, un altro verno.
Loda i costumi dell’antica stampa,
Trinca in ruvido nappo il suo falerno,
E sul piè ritto e sul codin s’accampa
Spargendo sali di piacevol scherno.
Sindaco, e’ s’alza a primo suon di squilla,
E, incurante di ghiaccio o di rovajo
Va i casetti a raccor della sua villa.
Noje e balzelli ai sudditi sparagna:
Per trono un guscio, ed ha per manto un sajo:
Pare un picciolo re dell’Alemagna.
Pian piano, a la campagna,
Fruga le siepi, quando Marzo torna,
E il giubboncin di vïolette adorna:
Palpeggia in fra le corna
La vaccherella che gli porge il latte,
E i purpurei corbezzoli a le fratte
Con la sua canna sbatte:
[116]
Scontra al crocicchio il Parroco; e, una presa
Di tabacco, anzi tutto, offerta e resa,
Gli parla o della chiesa
Che va in rottami: o del ponte che casca:
O del bisogno di pulir la vasca:
O della nova frasca
Che ha messo l’oste: o d’altro. E così cheta
Passa l’ora a ser Lio, come una lieta
Acquicella segreta,
Che scende appunto dal vicin verziero
Per le mente odorate, e fa sentiero
Da canto al cimitero.
E un dì, senza ch’assai gli ne rimorda,
Scorderà di svegliarsi e trar la corda
Del campanel. Chi scorda
In qualche parte, di memoria raso,
O la scatola o i guanti o puta caso
La pezzuola da naso,
Torna indietro a cercarli. Ed egli invece,
Contento e lasso del cammin che fece,
Nè un soldo nè una prece
Darà, credete, per rifarne l’orme.
Dormir, come che sia, piace a chi dorme.
Ecco la vita! Ecco il senso dell’arte che vorremmo vedere più frequente fra noi! Che occorre alla forma di questo componimento per poterla dire perfetta? Secondo me, occorre lo scambio di due, tre frasi e parole che, attinte alle fonti della lingua parlata, gli darebbero un completo rilievo e un andare più spigliato. Ma ecco una quistione spinosissima! Ah, se anche per questa parte il pregiudizio e l’astrattezza ci governassero meno! Una lingua è un vero organismo. Bisogna persuadersi che ci sono delle leggi le quali regolano non solo i grandi rapporti della sintassi e delle forme idiomatiche, ma le collocazioni di parole e di sillabe le più apparentemente insignificanti. Il Manzoni, filosofo e grandissimo [117] artista, lo aveva capito bene. Ci volevano i pedanti senza un’oncia di cervello, i pedanti cucitori di morte frasi, per sostenere che c’è una lingua italiana la quale si scrive e non si parla. (Già, pur troppo, ce ne avvediamo dalle loro scritture.)
In Italia poi abbiamo il guaio grosso delle due lingue, quella della prosa e quella della poesia: questa un gergo dove ogni poeta s’ingegna di apportare quanto più può del suo, per aumentarne la ricchezza. È il caso di esclamare: O santa povertà, beato chi ti possiede! Che ci accade con tanta ricchezza? Il nostro stile poetico risulta così gonfio, così artificiato, così stentato da far strabiliare dalla sorpresa e dar ragione a quel tale che diceva: scrive in versi solamente chi ha delle inezie nel cervello che detto in prosa muoverebbero a riso.
Io stesso (forza dello abitudini!) mi son già lasciato trascinare a lodar troppo il rigoglio di colorito del Prati. Ebbene, schiettamente, amerei meglio un colorito più parco, ma più preciso... La precisione! Ecco quel che ordinariamente ci manca in Italia, sia nel modo di concepire il soggetto sia nel modo di renderlo. La questione della lingua entra per tre quarti in questo difetto. Al Prati, che senza dubbio è un vero artista (una misera fatuità può farci trattare d’alto in basso, con un sorriso di sprezzante ironia, il solo poeta ch’oggi abbia l’Italia) al Prati oserò domandare con tutta la sommissione d’un discepolo: crede Ella che, se invece di scrivere nel sonetto ora citato: Ser Lio [118] per Sor Lio, e codino per sedere; se invece di dire:
Va i casetti a raccor della sua villa,
avesse detto più umilmente
Va le brache a raccor della sua villa,
e così per qualche altra parola, cred’Ella che il tono del sonetto rimarrebbe lo stesso, e che l’espressione non ci guadagnerebbe proprio nulla?
25 Dicembre 1875.
Il Ruggiero e la Palingenesi sono due opere che hanno un significato morale e letterario di non lieve importanza. La prima compendia in sè tutta l’azione degl’ingegni siciliani nella scorsa metà del secolo presente; la seconda inizia un nuovo movimento il quale, per le mutate condizioni dell’isola e per l’intrinseco suo valore, non rimarrà certamente circoscritto in brevi confini e quasi ignorato al di là dello stretto.
La stampa italiana, meno qualch’eccezione che conta poco, non ha fatto alcun cenno della pubblicazione del Ruggiero. Intanto questo poema, opera [120] d’un ingegno di tempra robusta, è un monumento che lo storico dovrà consultare quando vorrà scrivere delle cose siciliane moderne con conoscenza profonda. L’agitazione che mantengono negli spiriti gli avvenimenti politici; lo scarso prestigio, anzi la cattiva fama (non ingiusta di certo) che le tipografie siciliane dividono colle napoletane, e nuoce più che non si creda alla diffusione de’ libri stampati laggiù; la mole dell’opera (537 pagine in 16.º di carattere compatto, cioè 1926 ottave e venti componimenti lirici intramezzati ai canti del poema); finalmente la natura del soggetto, d’interesse affatto siciliano anche pel lato civile, sono state senza dubbio le ragioni che han contribuito a far mantenere sul lavoro del Vigo un ingiusto silenzio.
Meno le preoccupazioni politiche che distolgono ancora dalla tranquilla religione degli studî buona parte de’ vecchi e dei giovani ingegni, il Rapisardi non ha da temere nessuno di questi ingrati contrattempi. La mole del suo libro è quella d’un giusto volume in 18.º; il tema dei suoi canti non tanto italiano quanto universale, e la pubblicazione, fatta da una delle più benemerite e più famose tipografie fiorentine, elegante e corretta.
Io credo che pochissimi, anche dopo quel che ora dirò, saran tentati di leggere un poema con cui si celebra la fondazione della spenta monarchia siciliana; pochissimi avranno il coraggio d’affrontare l’ardua asprezza d’un ingegno che ispira una specie di simpatia mista ad un indefinito sentimento [121] di paura. Ma credo però che questi pochi, i quali, sprezzando le faticose disuguaglianze del terreno, non si stancheranno di seguire il poeta dalla battaglia di Cerami all’assedio ed alla presa di Palermo, saranno lieti alla fine d’aver letto un’opera d’arte che, coi suoi pregi e i suoi difetti, è la personificazione più completa dello spirito siciliano degli ultimi anni.
Il Rapisardi già corre con favorevole accoglienza per le mani di molti, e da qui a poco sentiremo pronunziare il suo nome fra quei rari, che porgono alle nostre lettere sfinite e moribonde qualcosa di più che le solite belle speranze. Anch’egli è una viva espressione del carattere siciliano. Pieno dello spirito greco sempre alitante sulle rive del Jonio, differisce notabilmente da quanti fra noi coltivano la poesia con amor vero e profondo. Sicchè mi è parso giusto mettere insieme questi due nomi non solamente perchè onorano una provincia a me sacra per indelebili affetti, ma anche perchè segnano due diversi periodi dello svolgimento letterario e politico di essa.
Il poema del Vigo può paragonarsi ad uno di quei magnifici tramonti che si osservano spesso dall’alto delle montagne nell’interno dell’isola. Il cielo è coperto di nubi dense e basse che corrono, radendo la cima dei colli, trasportate dal vento. Sentesi ancora da lungi il brontolìo del tuono che si disperde. Cade ancora qualche goccia di pioggia che luccica per l’aria come un pezzettino di cristallo [122] iridato. L’atmosfera è umida e grave. Le campagne smosse dagli aratri son già diventate di color nerastro per aver bevuto troppo acqua. Le viottole e gli stradoni risplendono con mille giri tortuosi come tanti rivoli d’argento. All’orizzonte le nuvole tingonsi di porpora con masse forti, in linee trasversali, e lasciano appena vedere una striscia di cielo che sembra un mar d’oro. Finalmente ecco il sole che si affaccia cogli ultimi raggi a quell’angusto finestrino; ed ecco una scena delle più pittoresche e più fantastiche che mai si possano immaginare! I raggi scappano lontan lontano sotto quella tettoia di nuvole la quale serve a rifrangerli giù. Le nebbie basse e sballottate dal vento si colorano di strane tinte, assumono figure più strane, mentre le linee cupe ed incerte del paesaggio si mostrano ad un tratto con una così minuta precisione, che ti fa credere o sparita la distanza o centuplicata la virtù della pupilla. Che fuga sterminata di pianure, di colline, di vallate, di montagne, di paesetti e di città, dove pochi momenti prima appariva una striscia di vapore nerastro! È l’illusione d’un istante. Appena il sole tramonta, l’oscurità copre fitta il cielo e la terra senza gradazione veruna, rotta da qualche lampo, che minaccia pel domani una tempestosa giornata.
I dieci canti del Rapisardi, al contrario, sono un’alba deliziosa di primavera. In riva al mare i pescatori affaccendati preparano i loro arnesi cantando e celiando con rozza semplicità. L’orizzonte è [123] colorito da mille tinte sfumate. Le acque tranquille si riversano sullo sponde con amorosa carezza. Un’aura fresca e sottile ricerca i polmoni, purifica il sangue e fa più libera la respirazione. Seduto sugli scogli della riva, tu aspetti incantato il levarsi del sole, guardi in fondo, ed esclami sospirando di dolcezza: che bella giornata vuol essere!
Dirò prima qualcosa intorno al concetto autonomico del poema del Vigo. Gli avvenimenti politici ch’ebbero luogo in Sicilia dalla proclamazione della Costituzione del 1812, fino alle insurrezioni e reazioni del 1821 e del 1837 ne sono il naturale e indispensabile commento. L’autore fa bene ad avvertire non si dimentichi che vi si contiene il ruggito d’una gente ferita al petto da un despota, la quale si sforza risorgere per immergergli nel cuore il pugnale con cui la percosse. Se volessi tradurre in linguaggio preciso i personaggi storici e le fantasie del poeta, vedrebbesi tosto significata in Ruggiero e nei suoi baroni l’indipendenza siciliana; nei saraceni, gli odiati napoletani che la tenevano oppressa; nella presa di Palermo e nella proclamazione del Gran Conte a capo supremo dell’isola, il trionfo del diritto del popolo calpestato dai Borboni. I siciliani, allora e nel quarantotto, respingevano ogn’idea nazionale; la credevano assurda. Pieni [124] dei ricordi della loro grandezza politica al tempo dei normanni e degli svevi, eransi ostinati a non riconoscere che, restando immobili mentre tutto si trasformava, facevano una stolta resistenza alla forza delle cose, e un gran male al loro presente o al loro avvenire; e per un calcolo d’egoismo, che ripeterono con più infauste conseguenze nel 1848, avevan veduto crollare, senza dispiacere e senza rimorsi, la rivoluzione napoletana del 1821. Le idee autonomiche erano in quel tempo un vero furore laggiù. Letterati e poeti soffiavano ardentemente ne’ facili pregiudizi del volgo, ora falsando il passato (come l’Amari colla sua Guerra del Vespro Siciliano, ove chiama stranieri Ruggiero di Loria e Giovanni da Procida); ora cantando ed ingrandendo con idee partigiane fatti, che già ricevevano dalla filosofia della storia un significato men nobile di quello ad essi attribuito (come la conquista dei normanni celebrata dal Vigo). E se non mancavano gl’intelletti più veggenti, i cuori più larghi, cioè i discepoli d’una scuola accesa di fede apostolica (Amari) che osavano pensare alla perniciosa chimera dell’italica unione (Lanza, Considerazioni sulla storia del Botta), la maggioranza però non sognava che un regno di Sicilia, una costituzione di Sicilia, una nazione siciliana. Nè l’idea unitaria vi era rifiutata solamente nelle cose politiche. Si faceva distinzione (si fa spesso tuttora da persone coltissime) tra siciliani ed italiani, come tra siciliani e francesi ed inglesi; e il Vigo, in tre luoghi [125] del suo poema, che in avvenire saranno citati, dice parlando de’ pisani venuti in aiuto dei Normanni:
Vuol che l’italo esercito e il sicano.
Canto XIII, 32.
Itali e Franchi.
Canto XIV, 23.
Forse indarno sudato al gran cimento
Itali, Franchi avrebbero e Sicani.
Canto XVI, 22.
Il Ruggiero, composto quando queste idee formavano la fede inconcussa dei patrioti siciliani, n’è certamente l’espressione più sincera e più calda. Convien ripeterlo: la storia ed il verso servivano al poeta per celar meglio la ribelle intenzione del suo concetto. Fortificato dalla certezza, che dentro l’anima sua non risplendeva la luce d’un’idea individuale, ma quella d’un popolo intero; che i suoi versi non eran temprati unicamente dai propri sdegni e dai propri dolori, ma da quelli di migliaia di cittadini che avevano combattuto, che soffrivano, che si preparavano a combattere per la medesima aspirazione e per la medesima conquista; il poeta ha amato quest’opera doppiamente, da cittadino e da artista. Concepita nel silenzio con giovanile trepidazione; maturata fra gli slanci entusiastici ed i penosi scoraggiamenti, che s’alternano in un lavoro difficile e di lunga lena, essa ha quasi assorbito tutta la forza vitale di lui. La sua mente, il suo cuore ardentissimo, potrei anche dire la sua carne ed il suo sangue vi [126] si son trasfusi dentro con ricca larghezza, ed egli non mentisce allorchè nella dedica del poema all’Augusta Madre, la Sicilia, dice:
Sacro è il carme che t’offro: in te sol vivo,
Per te sol vivo, per te presto a morte,
Nulla più dar ti posso, e tu lo sai;
Che tutta quanta l’anima mi leggi.
Nel 1865, anno della pubblicazione, non solamente erano già mutate le condizioni politiche della Sicilia, ma in molta parte anche le convinzioni dell’autore. Il Ruggiero era ormai diventato un corpo senza anima; e la voce del poeta, che non aveva potuto risuonare all’aperto quando forse sarebbe riuscita utile ed opportuna, trovavasi affiochita, anzi spenta prima di emettere un sol grido. Queste considerazioni non hanno dissuaso però il Vigo dal dare alla luce il poema. Rinunziare al Ruggiero, sarebbe stato un’abiura, egli scrive nell’Avvertenza; chi non mi comprende suo danno. Si può rinnegare il passato se gli si deve il presente che prepara l’avvenire? Il Giove omerico tocca il culmine dell’Olimpo in tre passi; ma senza la prima non si stampa la terza orma; ciascheduna d’esse è fatale. Vera o no questa sua filosofia della storia che vede una logica relazione tra il suono delle campane del Vespro e quello della campana della Gancia, non sarò certamente io quello che biasimerà il Vigo di averci fatto risuonare all’orecchio l’eco d’idee e di tempi spariti per sempre, che io non amai e che non posso rimpiangere. Se di qualcosa dovessi appuntarlo, mi lamenterei [127] invece con lui perchè non ha saputo resistere alla tentazione d’aggiungere al suo quadro una o due pennellate moderne, che stonano affatto sull’antiche. Quando nel canto settimo trovo in bocca di un vecchio siciliano queste focose parole:
Noi siam sangue pelasgo: e se Iddio vuole,
Unificati al popolo latino
Potrà vederci nuovamente il sole
Risuscitar la stirpe di Quirino:
. . . . . . . . . . . . . . . .
Ben ci uniremo all’itala fortuna
Se, pari in dritto, sue provincie in una;
quando nel quindicesimo canto sento dire da Uriele:
Finchè trionferà sull’Aventino
Custodita dagli angioli la croce,
E Italia, tutto il popolo latino
Invocherà d’un cuore e d’una voce,
Non morta è la progenie di Quirino,
E un dì sorgerà grande e feroce;
Odo il mugghio dell’armi e la minaccia
Gigante d’un sol capo e cento braccia
Risorgerà: sì Dio l’ha scritta in cielo;...
quando insomma incontro questo e qualche altro passo consimile, provo subito l’effetto che fa un restauro moderno in un antico monumento. Il poeta non aveva bisogno di farsi perdonare il suo concetto con tali concessioni. Il Ruggiero non si mostra più come una luce diretta, ma come un riflesso, non come un’apparizione del presente, ma quale una testimonianza del passato.
[128]
Al par di tutti i poemi moderni, il Ruggiero è un poema meramente archeologico.
Il Vigo infatti ha trovato pochissimi ricordi viventi della conquista normanna sia nelle tradizioni, sia ne’ canti popolari siciliani: e la sola fonte leggendaria, a cui abbia potuto attingere, è la cronaca del monaco cassinese Malaterra. Il quale, evidentemente, raffazzonò per ispirito di parte ogni cosa a suo modo, e poco o nulla rilevò dalle storie o rapsodie popolari, se mai ve ne furono. Questo mio dubbio non proviene soltanto dal non trovarle esistenti anch’oggi, come trovansi presso i popoli del Nord i grandiosi frammenti dei Nibelunghi, ma da considerazioni storiche di maggiore importanza. Il silenzio dei canti popolari siciliani non vorrebbe dir nulla. Essi nominano appena una o due volte re Guglielmo il Buono; una o due volto Carlo II (ricordo recentissimo in paragone dell’altro). Non si è certi se mai parlino di Procida; e il solo cenno del famosissimo Vespro ch’essi ci danno sente troppo il letterato e il moderno e non può venir preso sul serio.[22]
Ma nè Guglielmo il Buono, nè il Procida, nè il Vespro avevano però le qualità necessarie per diventar [129] caratteri ed avvenimenti da epopea. La natura delle loro azioni e delle loro influenze sulla vita civile e morale del popolo (brevi e soffocate subito da altre azioni e da altre influenze) vietava quella vasta trasformazione che i caratteri ed i fatti devon subire gradatamente per passare dal ciclo storico nel leggendario.
Perchè la conquista dei Normanni, cioè la liberazione della Sicilia dall’infame giogo saraceno, la restaurazione del culto cattolico che aveva spinto papa Nicolò II a dar l’investitura dell’isola al valoroso avventuriero, la creazione d’un ordinamento politico basato su d’un patto largo e dignitoso tra il governo ed il popolo; perchè insomma tutta questa prodigiosa unione di fatti grandissimi con grandissime idee che ai nostri giorni si è formulata in epopea riflessa (come s’era già quasi epicamente formolata nei racconti dei cronisti adulatori) non ha lasciato nessuna traccia nelle imaginazioni popolari? Perchè nell’Isola questo silenzio della coscienza artistica cioè dello schietto riflesso dell’individualità d’un popolo? Perchè finalmente questo affaccendarsi dell’erudizione d’oggi a creare un gran tipo ed un gran fatto, a metterlo in testa al risorgimento politico siciliano del medio evo, mentre la poesia e la tradizione popolare l’ignorano completamente?
La ragione, secondo me, sta nel modo falso e convenzionale con cui vien giudicato quel periodo di storia. Noi diamo alla conquista normanna un significato [130] assai più importante di quel ch’essa non ebbe; ed esageriamo tanto la parte dei saraceni quanto quella dei conquistatori; e sotto l’influsso di criteri religiosi poco retti e d’un retorico convenzionalismo seguitiamo ancora a credere uguale alla nostra l’impressione prodotta dagli avvenimenti sui contemporanei. La verità è che la conquista normanna ebbe allora pei siciliani tutta l’odiosità della conquista, e poco, quasi nulla il prestigio della liberazione. I Normanni andarono in Sicilia da predoni, da spogliatori, a distruggervi interessi che già si componevano e s’assodavano, a ridestarvi sdegni e fanatismi che cominciavano ad attutirsi un po’ per la natura del popolo stesso, un po’ per la mancanza di contrapposti che ne tenessero desta la vigoria. La loro invasione minacciava il commercio già rinascente, le arti che si svegliavano, le lettere e le scienze che principiavano ad attecchire, la prosperità universale che rialzava il capo dall’abbattimento in cui l’aveva gettata la dominazione bizantina. Essi non recavano con loro nè i semi d’una civiltà migliore della saracena, nè le raccomandazioni d’un’autorità religiosa venerata ed amata. Durava ancora la memoria delle nefande estorsioni dei legati pontificî, dei quali un testimone degno di fede scrisse provinciarum diripiunt spolia;[23] durava ancora la memoria delle ostilità tra i diritti del popolo e le pretese papali; e quei liberatori che osavano [131] presentarsi coll’investitura del vicario romano come fonte del loro diritto alla poco invocata liberazione dell’isola, non potevano essere subito nè accettati, nè tollerati; e non lo furono difatti.
Le difficoltà incontrate dai Normanni nell’impadronirsi dell’Isola non provennero solamente dalla forza saracena, che non poteva esser grandissima, ma più dall’opposizione delle popolazioni siciliane le quali, combattendo nelle file dei nemici della fede, diedero valido aiuto a coloro che i frati ed i vescovi dipingevano come ferocissimi oppressori politici e persecutori religiosi.[24] La lotta durò ventotto anni, e con varia fortuna. Ed allorchè la forza diede ragione agli uomini del Nord, accadde quel che ai Romani in Grecia: i vincitori dovettero subire la superiorità dei vinti. I Normanni furono costretti a mantenere con pochissime modificazioni l’ordinamento politico e civile dei Saraceni. La religione cristiana fu da loro trovata in tale discredito nell’Isola, che la tolleranza religiosa messa in atto dagli arabi divenne una necessità alla quale i campioni della fede dovettero chinare il capo per consolidare il loro dominio. Questi fieri e rozzi baroni, usi alle asprezze delle battaglie e d’una esistenza nomade ed avventurosa, appena gustarono le dolcezze della vita e del fasto musulmano, vi s’abbandonarono [132] con ebbrezza ben altro che edificante. Ancora un secolo e mezzo dopo noi incontriamo alla corte di Guglielmo il Buono tutti gli usi, tutte le superstizioni dei vinti, non escluse le corruzioni degli harem e le vigili custodie degli eunuchi.
Quest’eroe così ammirato, questa figura colossale che il poeta ha circondato d’un’aureola di semidio appariva ben diversa ai suoi contemporanei, cioè meno eroica e senza punta santità. I siciliani d’allora dovevano scrollare il capo e sorridere amaramente sentendogli con alterezza chiamare la sua conquista opus Dei (Diploma dei 1091). Quel Gran Conte infatti, quel campione della fede era un brigante, un ladro di passo il quale spogliava i mercanti che gli capitavano tra le mani e li costringeva a riscattarsi.[25] Era un meschino cavaliere il quale faceva magri desinari colla moglie quando non aveva predato; tremava di freddo nelle notti d’inverno perchè doveva dividere colla sua compagna l’unico mantello da lui posseduto; un cavaliere infine che, costretto a scappar dalla mischia, portava via sul dorso la sella del cavallo uccisogli dai nemici, non possedendo un altro cavallo, nè un’altra sella da sostituire.
[133]
Da siffatti elementi era difficile potesse scaturire un’epica leggenda. Quella che la storia ha messo insieme dopo, accettata per ragioni che qui non occorre accennare, è una continua falsità, una solenne menzogna. Le vere leggende son più vere della stessa storia. Questa dà lo scheletro, quelle lo spirito dei fatti.
Non esaminerò il poema del Vigo da nessuno dei molti lati ch’esso presenta scoperti alla critica. Quando lo stesso autore ha avuto l’onesta franchezza di dire prima che altri glielo suggerisse: «Oggi non avrei dettato il Ruggiero, o l’avrei architettato in modo assai diverso da quello che è», la critica è costretta ad inchinarsi pulitamente ed a mettersi da lato. La sua parte si riduce soltanto a manifestare sensazioni ricevute, a confrontarle, ad illustrarle senza toccare le ragioni dell’arte le quali non entrano più in discussione, ed è quello che io farò, non così completamente come il soggetto meriterebbe.
Nessuno può idearsi, prima di vederlo alla lettura, qual immenso tesoro di fantasia abbia profuso il poeta fin nei più piccoli particolari dell’opera. L’azione è semplice, senza grandi contrapposti, senza dramma (prendendo questa parola nel più profondo significato), anche quando egli mostra l’intenzione d’innestarvi cogli episodi e la passione ed il dramma. [134] Ma invece che ricchezza, che lusso, che varietà negli accessori e nel colore! Per avvalorare queste affermazioni bisognerebbe citare, e largamente, come non mi è permesso dal breve spazio di cui posso disporre. Noterò, per chi volesse riscontrarli, i seguenti brani: l’abitazione del Tradimento e della Peste, i Demoni dentro l’Etna nel canto nono; la stupenda descrizione degl’ipogei ed acquidotti feaci di Girgenti nel canto quarto, e quella della pestilenza nel decimo. Intanto, per far conoscere il leone, ne mostrerò la punta dell’ugna in due ottave bellissime, l’una per grandiosità e per colorito, l’altra per evidenza e per movimento. La prima dipinge un tramonto osservato dalle vicinanze di Catania:
Simile a scudo divampante, il sole
Sui basaltici culmini discese
Dell’ardua Motta, ove l’occidua mole
Quasi più vasta e immobile sospese,
D’Etna i ciglioni e le ghiacciate gole,
I fiumi, i laghi di sua luce accese,
Che fosforica e tremula ti pare
Vestir di strisce di piropo il mare.
Canto XIII, st. 72.
La seconda descrive l’esercito normanno che si prepara all’ultima battaglia intorno a Palermo:
A lunghe file celeri procedono,
Giungono a piè del ponte, e lo sormontano;
Nuove file alle prime ognor succedono
Son queste in capo agli archi e quelle smontano;
Ed altre ed altre a suon di corni ascendono
Le prime si dileguano, tramontano
Lunghesso i piani, ed oltre la Guadagna
S’attelano in battaglia alla campagna.
Canto XX, st. 52.
[135]
E qui, senza più perdermi in minute osservazioni, ne farò due sole importanti.
Il sovrannaturale ha larghissima parte nel poema. Oltre i demoni che vi fanno una delle solite congiure contro i cristiani (canto IX) e si azzuffano cogli angioli che li difendono (canto XVII); oltre a S. Giorgio che arringa innanzi a Dio la causa dei Normanni (canto XI) e combatte in persona, come le divinità d’Omero, contro l’esercito musulmano (canto XVII); oltre alle visioni ed alle profezie d’ogni sorta che si connettono all’orditura generale del lavoro, vi è anche un meraviglioso molto spicciolato che gli dà un’impronta individuale e bizzarra.
Infatti, malgrado le inevitabili stonature d’un vasto accozzamento di personaggi e di fatti disparati, tolti in prestito ora da un ordine di venerate credenze religiose, ora da reminiscenze classiche ed archeologiche, ora da mere personificazioni di concetti astrattissimi; malgrado la trascuratezza mostrata dall’autore nel trasfondere in chi legge la certezza poetica di quel ch’egli canta (spesso anzi infirma da sè medesimo l’azione del meraviglioso),[26] il poema si mostra sempre con un certo carattere d’originalità che colpisce. Come mai quello che in altri sarebbe stato imitazione triviale e freddo convenzionalismo apparisce nel Vigo una maniera propria e naturale?
Bisogna cercarne la ragione nel carattere eccessivamente [136] immaginoso del popolo siciliano che prova una continua necessità d’esprimersi con immagini vive, grandiose, abbaglianti. Il mondo reale gli riesce insufficiente. Non sa contentarsi nemmeno del mondo degli spiriti, che par gli sembri poco esteso, e ricorre allo creazioni fantastiche con le quali dà moto e corpo allo cose inanimate ed ai concetti morali. Quello che altri usa come artifizio retorico diventa per esso forma spontanea, vero stile: ed ecco perchè il Vigo possiede un accento affatto insolito negli altri poeti, il quale cela e tempera in lui quanto potrebbe dirsi schietto e non nuovo artifizio.
Metterò a riscontro del poeta letterato un poeta popolare che non sapeva nè leggere nè scrivere, un povero barcaiuolo del Simeto, Gaetano Virgillito, conosciuto ai suoi tempi col soprannome di Trimola. Vive ancora nel popolo un canto da lui composto sul terremoto del 1783, pieno di meravigliosa energia nelle immagini e nello stile. Il suo processo poetico non differisce in nulla da quello del Vigo.
Dio è sdegnato delle molestie che la monarchia (forse Carlo III) dà alla sua Chiesa, ed ispira al papa l’idea di presentarsi al re per indurlo a frenare gli abusi della potestà secolare. Il papa però va via dalla corte piangendo di sconforto, ed invocando in aiuto della religione i nomi di Gesù, di Giuseppe e di Maria. Un angelo gli risponde dall’alto:
Nun chianciri cchiù, no, miu Papa caru
Si lu populu tó ’un ascuta a tia
La sintenza avirannu ppi frivaru.
[137]
In febbraio infatti il minacciato castigo, il terremoto, vien giù dal cielo e, sconvolta tutta l’Europa (le strofe che ne descrivono il cammino sono bellissime), eccolo pronto a varcare lo stretto per subissar la Sicilia. La Madonna protettrice di Messina presentasi a Cristo colla famosa sua lettera, ma non può ottenere il perdono del figlio alla diletta città. Messina fra le macerie e le rovine si lamenta col cielo al pari di Giobbe: Perchè son io immersa nel lutto mentre le altre città mie consorelle vivono in festa ed allegria? Perchè io sconquassata e Catania no? Cristo le risponde ch’essa è stolta paragonandosi ad una città già castigata collo stesso flagello 90 anni addietro ed ora un perfetto modello di pietà religiosa. Però Sant’Agata non si sente rassicurata da queste parole e prega il Signore che le risparmi la sua patria.
Gesù Cristu cci dissi: o Matri amata!
Aita (Agata) di stu pettu calamita,
Ti sia la tò citati pirdunata;
Si’ vera catanisa ppi la vita!
Il canto possiede tutte le proporzioni e tutti gli elementi d’un piccolo poema. Leggendolo per intero nella raccolta dei Canti popolari siciliani si vedrebbero meglio le relazioni di forma che ho voluto accennare.
Lo stile del Vigo ha la pletora. È muscoloso, esagerato, come le figure michelangiolesche, ma non isfugge nel tempo stesso allo sforzato ed al contorto della scuola. Vario e disuguale, qua dolce, là tormentato, [138] ha però un sigillo proprio che in parte deve attribuirsi alla straordinaria abbondanza di latinismi e di modi poco comuni. Quando vuole, sa esser semplice, blando, quasi carezzevole; ma lo vuole di rado. Come nel poema, così nelle liriche che l’accompagnano. Delle quali dirò di passaggio che la canzone al Mare di Sicilia, l’altra ad Agrigento ed il carme su Procida sono notevolissimi e degni d’esser letti.
La nota sentenza che lo stile è l’uomo non mi parve mai tanto vera quanto nel caso del Vigo. Chi lo conosce personalmente lo ritrova tutto intero nel suo poema, colla sua statura, colla sua fisonomia, colla sua voce, col suo gesto. Vi è in lui qualcosa di grandioso, di rozzo e di forte che ha una seduzione straordinaria per chi l’avvicina la prima volta. Il suo aspetto è largo, bruno, scabroso; l’occhio vivo ed aperto; le narici alquanto dilatate; le labbra grosse, che nel parlare si muovono con un fare quasi convulso, come se non volessero lasciar passare la parola senza averla improntata del proprio marchio. La sua declamazione è sonora, fortemente accentata con passaggi stridenti, con orientali monotonie, ed il gesto le corrisponde brusco, a scatti, di quando in quando. Alcune volte la sua voce s’intenerisce, a modo suo. Allora prende un accento acuto che fende l’aria e penetra nell’intimo del cuore pari al singhiozzo di chi vorrebbe piangere e non gli riesce. Dal suo petto larghissimo possono uscire senza fatica i periodi più lunghi; per ciò nelle sue liriche [139] il periodo spessissimo corrisponde al polmone. Il Vigo è nato in Acireale il 24 settembre del 1797.
Col Rapisardi si passa subito a respirare un’atmosfera diversa. Fra il concetto autonomico del Ruggiero e quello umanitario ed universale della Palingenesi la differenza è grandissima, e può dar la misura del cammino percorso dal pensiero isolano dal 1848 in poi.
Questo giovane poeta sembra amare l’arte sua come le anime religiose amano Dio. Io ho seguito con vivo interesse lo svolgimento del suo ingegno che si manifestò forte e severo sin ne’ primi saggi pubblicati in Catania parecchi anni fa. Erano cosa giovanile, ma vi si vedeva chiaro lo sforzo di chi cercava comunicare al suo stile la scultoria semplicità che ha reso immortali gli antichi. Le stesse vaporose incertezze che in abbondanza vi apparivano, sembravano piuttosto effetti di reminiscenze da lui subìte a malincuore, che sincere convinzioni di mente inesperta. Il Rapisardi ha poscia tenuto dietro al suo ideale con l’ostinata fermezza d’un perfetto innamorato. Ha fatto passare il proprio verso per una serie d’evoluzioni corroboranti, mettendolo alle prese sin colle inaccessibili bellezze del gran carme di Catullo, e temperandolo con altri esercizî non meno profittevoli sulla forma moderna delle letterature straniere. Così ha perfezionato il nobile istinto della [140] grazia, dell’eleganza, dell’armonia. La natura (interrogata lungo le spiaggie del Jonio liete d’uno splendore orientale e tra quel lusso di vegetazione che veste di vigneti, di frutteti, di boschi di querce e di castagni i mitologici fianchi dell’Etna) ha contribuito ad educargli nell’animo il bisogno della bellezza serena, ed ha comunicato al suo accento alcune inflessioni di quella cara ingenuità rimasta intatto privilegio de’ poeti primitivi. I dieci canti ch’egli dà ora alla luce presentano il resultato di tali forze spontanee e di tali studî pazienti.
Essi non sono temi staccati, ma parti diverse d’un inno grandioso, che cantando il logico svolgimento del pensiero cristiano a traverso i secoli, trae dal passato e dal presente gli augurî per l’avvenire. Il poeta segue il cammino della tradizione ebraica, che penetra col cristianesimo nel mondo romano, e in tutto il mondo conosciuto quando la croce trionfa. Resa più umana per mezzo della redenzione, la vede trasformarsi, corrompersi nel medio evo con le lotte del papato e dell’impero; farsi inconsapevole strumento di civiltà colle crociate, e nuova redentrice per mezzo di Lutero, emancipando la umana ragione dalla tirannide papale. Egli le tien dietro fra gl’infami furori dei massacri protestanti e cattolici, fra il penoso esplicarsi dei diritti dell’uomo affermati una volta per sempre dalla rivoluzione francese; poi, si ferma con essa in Italia, ove il problema religioso aspetta uno scioglimento che tiene in grave imbarazzo le coscienze timorate e la politica. [141] E cantate le tradite speranze di Pio IX e le recenti vicende nazionali, tentando di leggere nell’avvenire, proclama entusiasticamente la pace e la prosperità universali che col suo poetico sguardo vede già prodotte dall’inevitabile riforma religiosa, e conchiude la sua visione con queste parole:
Quivi candide tutte e tutte luce
Ne le vesti e negli occhi eran le Muse,
Care, pietose Dee, che con la dolce
Flessanime armonia ch’ebber dal cielo
Di speranza e di amor veston la vita.
Cinta di nubi e pensierosa in atto
Ad esse in mezzo procedea l’austera
Divina Sapïenza, a cui gli occulti
Di Natura son cari, ed in occulti
Rigidi pepli il divin corpo asconde.
Spargon su l’orme sue pioggia di fiori
Le divine sorelle, e scoton l’arpe
Domatrici de l’alme; essa il tentato
Labbro dischiuso, ove l’eloquio ha sede,
Dolce a lor consentìa detti e sorrisi,
E le mute fugando ombre d’intorno
Di più docil beltà splendea nel viso.
Se volessi discutere il concetto del poema entrerei in un campo troppo vasto e spinoso; ed io son qui per ragionare d’arte, non di religione e filosofia. Però non posso trattenermi dall’accennare un’osservazione sul tema ch’egli ha scelto. La Palingenesi è di quei soggetti che la poesia dovrebbe oggi evitare, non avendo più braccia per cingerli da ogni parte. Vi fu un tempo in cui la scienza e la poesia vissero insieme, e poterono dirsi una lo spirito e l’altra il corpo della stessa persona. Ma quando coll’accrescersi degli studî e delle speculazioni [142] la scienza assunse proporzioni più grandi, la poesia rimase un vaso che non poteva più contenerla. Chi si provò a farvela entrare o lo pose in pericolo, o sparse il liquore per terra. Il moderno problema religioso non ha soltanto rapporto con gli avvenimenti politici del mondo intero, ma, e in modo più intimo, colla filosofia e con tutte le scienze d’osservazione. Queste già invadono il campo su cui il domma e la teologia dominavano fino a ieri da regine assolute; dissodano il terreno in senso opposto per farvi crescere rigogliosa la nobile pianta della verità razionale e sono al principio del loro immenso lavoro. Il modo con cui oggi si manifesta il bisogno d’una riforma religiosa è perfettamente scientifico; scientifici sono i mezzi che adopera l’umanità per raggiungere il suo scopo; ed il sentimento vi entra in proporzioni assai minori di quando mescolossi in altre rivoluzioni religiose, quali il buddismo nelle Indie e il cristianesimo nel mondo romano. Lo stato della presente civiltà infatti non può paragonarsi in nulla all’angosciosa aspettazione che precesse l’apparire del Cakya-Mouni indiano e quello del Cristo quattro secoli dopo. Noi non proviamo la febbrile ansietà d’una parola di compassione e di speranza come le popolazioni oppresse dall’insopportabile peso del bramismo, o dalla profonda tristezza dell’impero che si sfasciava. Il Verbo di consolazione e di speranza l’abbiamo tra noi, fecondo, inesauribile, fatto umano, abbandonato alle nostre dispute, al suo logico svolgimento; e per questo non [143] attendiamo nulla da nessuno, all’infuori che da noi stessi e dalla nostra ragione.
Dal lato del concetto il poema del Rapisardi mi sembra quindi imperfetto e come scienza e come arte; come arte sopratutto, perchè tenta un genere di poesia, il didascalico misto, che per le ragioni accennate più su dovrebbe calcolarsi come morto per sempre. La parola didascalico non tragga in inganno. La Palingenesi è un gran carme a modo di quelli che con altri mezzi ricostituì il Foscolo nelle sue Grazie mescolando il didattico, l’epico e il lirico in un sol genere.[27] Io non biasimo nel lavoro del Rapisardi l’altezza del concetto per amore di quella frivola poesia che si riduce ad un passeggiero titillamento delle orecchie e a nulla più. Guardo all’avvenire del poeta; sperando ch’egli compenetri più intimamente l’espressione appassionata, drammatica, un po’ individuale ed indefinita della poesia moderna, e che l’amore della forma non gl’impedisca di vincere un certo impaccio evidentemente prodotto dall’esagerata riverenza delle forme antiche e dalla poca fiducia nella forza creativa della sua immaginazione.
Accettata la Palingenesi come una prova di stile, insolita e pressochè meravigliosa pei tempi che corrono, dirò che l’ingegno del Rapisardi vi ha trovato larghissimo campo di palesare la sua abilità descrittiva e pittorica. Tutto il poema si riduce infatti ad una gran galleria dove, passando di stanza in stanza, [144] si passa con piacevole varietà di scuola in scuola. I grandi quadri sacri e storici vi s’ammirano con il medesimo gusto dei quadretti fiamminghi; e il fare largo e magistralmente ardito degli uni non nuoce al paziente e minuzioso degli altri. Il Rapisardi è schiettamente greco-latino di forma; per parlare più esatto, è plastico alla guisa greco-latina. La maniera dei grandi maestri dell’antichità non è in lui un processo da mosaicista, ma gli si è compenetrata nello spirito e nel sangue: è diventata proprio sua. Tutto prende forme scultorie in questa giovane fantasia. Il paesaggio vi si foggia, come in Omero, sempre allo stato di un bassorilievo. Perfino il fantastico ed il grottesco vi assumono contorni netti e precisi, ma con un’aria spontanea che innamora chi legge. Frate Angelico, secondo la leggenda, dipingeva compreso d’un’estasi divina che lo commoveva fino al pianto; io credo che il Rapisardi debba meditare e comporre con ugual commozione e adorazione per l’arte. E nel modo che il frate pittore ricavava da quei suoi mistici trasporti un’espressione inimitabile d’ingenuità e di celestiale bellezza, ugualmente il giovane poeta ne ritrae una cert’aria di dolcezza e di candidezza rimasta, come dissi più innanzi, intatto privilegio dei poeti primitivi. Il poco spazio mi vieta di citarne qualche brano; e potendo non l’avrei fatto. Son sicuro che il lettore, quando avrà preso in mano il libro, leggerà da cima in fondo, tornerà a rileggere, nè sarà offeso di qualche neo dello stile prodotto in alcuni punti [145] da eccessiva abbondanza d’epiteti, in altri da certe andature un po’ studiate e ripetute del verso.
E qui terminerò, augurandomi di poter salutare ben presto il poeta in un lavoro che invece di parlare all’intelletto, tentasse di scuotere le fibre più riposte del nostro cuore; che all’ispirazione lirica accoppiasse larghissimamente la passione, l’azione drammatica e mostrasse più spiccato l’individuo in lotta con sè stesso e colla fortuna, e l’Umanità meno astrattamente compresa.
26 Marzo 1868.
[146]
Il Satana della Palingenesi è diventato Lucifero. Non è una mera e capricciosa sostituzione di nome. Nella Palingenesi il poeta catanese riproduceva il tipo leggendario del Satana biblico mescolato a qualcosa del Mefistofele moderno: nel Lucifero la figura della leggenda è perfettamente trasformata. Satana non aveva allora nessuna velleità di libero pensatore, quantunque si permettesse con Domine Dio le franche discussioni incominciate sin dai tempi di Giobbe. Sogghignava malignamente, talvolta anche rideva sgangheratamente in viso al Padre Eterno; ma tra lui e il Creatore c’era sempre il rapporto d’un suddito verso il suo onnipossente sovrano.
[147]
Diè Satana, a quel dire, in improvviso
Inverecondo scroscio di cachinni...
Impauriron gli angeli a l’orrendo
Riso, e velar con l’ali la pupilla:
Iddio guardollo e dal ciel cadde e sparve.
(Palingenesi, canto VII.)
E non solo Satana non aveva, come dissi, nessuna velleità di libero pensatore, ma era anzi un avversario accanito del libero pensiero. Il libero pensiero, incarnato nella Riforma, rappresentava per lui il trionfo della Chiesa di Dio, della vera Chiesa immortale, ultimo scopo della storia del mondo o, meglio, dell’intiera creazione. Da fiero avversario di Dio, egli si credeva dunque in dovere di accendere i roghi di Filippo II, di «suscitare le stragi» della notte di S. Bartolomeo per impedire, o ritardare almeno, un trionfo conosciuto immancabile. Il Satana della Palingenesi è una creatura di buona fede. Guerreggia contro Jeova, ma senza speranza. Un malefico istinto lo spinge a contrariare i fini di Dio e a danneggiare le creature a lui dilette. Però la sua superbia si limita alla fiera compiacenza del male che può produrre e che produce. L’antitesi del bene e del male non gli si è ancora capovolta ed invertita nella mente; la sua coscienza non si è elevata fino a persuadergli che Dio sia il male e che egli, Satana, sia il bene, il sommo Vero. Infatti era difficile persuaderglielo se bastava tuttavia un semplice sguardo di Dio per precipitarlo dall’altezza dei cieli nei cupi regni dell’abisso.
Lucifero non avrebbe potuto continuare a chiamarsi [148] Satana senza un’evidente contraddizione. Egli ha ripreso dunque a ragione il suo nome primitivo. Una volta era Lucifero per la luce celestiale che scaturiva dal suo volto di principe degli angioli: oggi sarà Lucifero per quella luce spirituale, la luce dell’umano pensiero ch’egli crede d’incarnare in sè, pel completo trionfo del quale lascia nuovamente l’inferno e muove all’ultima impresa contro il suo antico avversario.
È inutile fare una questione di filosofia o di teologia quando si ha sotto gli occhi una semplice opera d’arte.
Le anime timorate, i pensatori annacquati possono scandalizzarsi delle arditezze del poeta e invocare su lui i fulmini della censura ecclesiastica o della legge civile. Se l’opera ha quella vera vitalità artistica contro cui si spuntano tutte le frecce d’una critica di secondi fini, la guerra mossa al poeta muterassi, tosto o tardi, in apoteosi. Un’opera d’arte ha questo di speciale: la sua natura la mette fuori d’ogni attinenza con ciò che può garbare o non garbare ad una certa filosofia, con ciò che può essere o non essere d’accordo colle credenze e coi dommi d’una religione in vigore.
La sola questione possibile riguarda la sua natura stessa. Se non si può e non si deve chieder conto al poeta della scelta del soggetto, si può e si deve esaminare se il suo concetto, svincolandosi dall’astratta indeterminatezza del puro pensiero, sia riuscito ad assumere una forma vitale, una personalità libera e indipendente.
[149]
Rimpetto ad un lavoro del genere e del valore del Lucifero la stessa questione d’arte non è però facile a risolvere senza quella ricchezza di svolgimenti che il tema richiede. Mi limiterò ad accennarla.
Lucifero, come dissi, è precisamente l’opposto del Satana della tradizione. Il poeta talvolta vuol trarci in inganno con delle rassomiglianze esteriori:
Sedeangli intorno
Il silenzio e la morte; oscure e fredde
Strisciavan su la sua fronte immortale
Strane larve di sfingi e di chimere.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
I circostanti
Baratri tenebrosi si agitavano
Come per improvviso urto di vento
Il sen cupo del mar. L’ali di gufo,
Il piè forcuto e la bovina fronte
Mutò di un tratto il favoloso Iddio
E dai lombi gagliardi e da le spalle
Le fuligini tèrse e la stillante
Cispa dagli occhi affumicati ed orbi...
Ma il carattere è mutato di pianta. Il Satana antico non avrebbe potuto dire:
Ignoto
Corsi la terra, e al caro sole in vista
L’uom, la natura e l’esser mio compresi;
L’uom compresi, e l’amai. Ma allor che prono
A piè dei suoi creati idoli il vidi
Vaneggiar paventoso, e legar tutta
L’anima ardita a un inconcusso altare,
M’arse il cor d’ira e di pietà.
. . . . . . . . . . . . . . .
Su l’immortale
Cardine del Pensiero, inclito padre
Di stupendi artifici, erto il mio trono
[150]
S’alza com’alpe, e nulla a me di fronte
Nel creato universo altra si estolle
Nemica forza emulatrice, tranne
La gran larva di Dio...
. . . . . . . . . . . . . . .
M’agito vivo
Fra le cose create e son dell’alma
La libertà...
Io vivo
Solo del Ver.
Non voglio qui contrastare al poeta la libertà di alterare, sino a renderlo irreconoscibile, un tipo ormai consacrato dalla doppia tradizione religiosa e poetica. Ma mi è impossibile dissimulargli che il suo nuovo tipo, com’arte, mi sembra non raggiunga la perfetta personalità del Satana antico.
Satana aveva la coscienza della sua perversità, della sua immensa superbia, dell’invidia che lo rodeva, della menzogna che adoperava com’arma favorita. Per lui Dio era un avversario onnipotente, col quale egli poteva giocar d’astuzia in virtù del libero arbitrio accordato all’uomo; ma contro il quale non osava levar il pensiero per tentare la pazza impresa d’una rivincita qualunque. Satana non sconosceva la sua inferiorità rimpetto all’Onnipotente, ed era orgoglioso della continua e grandiosa lotta contro di lui, ove anche il perdere diventava un onore. Il Satana del Milton si è avvicinato all’uomo, conservando sempre le proporzioni colossali dell’angelo caduto. Non ama, non può amare, ma la bellezza giunge a turbarlo. Eva per un istante può tenerlo incerto fra l’abbandonare o il non abbandonare [151] l’impresa che doveva mutar la faccia al mondo e iniziare la storia.
Nel Mefistofele, finalmente, egli è già un tipo di infimo ordine. Parla ancora con riverenza del Gran Vecchio di lassù, e la vista della croce lo fa andare in convulsioni.
La personalità poetica di Satana è un perfetto riscontro della personalità poetica di Dio. Impicciolendo l’una, impiccioliscesi l’altra.
Dal momento che Iddio diventa per Lucifero un idolo creato dal paventoso vaneggiare dell’uomo, dal momento che egli parla della gran larva di Dio, non vi sembra che la sua personalità poetica si trasformi anch’essa in una larva e che tutta la serietà della sua epica impresa svanisca ad un tratto?
Nel primo canto, al venir fuori di Lucifero, il poeta ci fa credere per un istante che noi avremo da fare con una vera e insolita creazione. Lucifero arriva, all’alba, sul Caucaso:
Era per l’aria un fluttuar d’ardenti
Atomi mobilissimi di luce,
Una confusa, fluvïal fragranza
Di sconosciuti balsami e soave
Musica di parole e di concenti
Misteriosi. Un’irrequieta e nuova
Delizïosa voluttà di sensi
Vaganti per immenso etere, come
Rondini in cerca di lontani lidi,
Una dolcezza non provata mai
Di lagrime e di sogni...
Si crede, ripeto, che avremo da fare con una creatura viva; ma poco dopo, ecco il poeta che ci dice:
[152]
L’incredul occhio ai firmamenti spinse,
E, dove sei, sclamò, tu che presumi
Regnar l’anime eterne? Alzati e pugna:
L’uman genio ti sfida!
Ma che significa questa sfida, se Lucifero, cioè l’umano pensiero, già penetrata l’essenza del gran fantasma di Dio, sa che dietro il fantasma non c’è nulla? A che venirci a parlare di un Dio che lo fulminò dagli astri quando osava domandargli s’egli era il Vero? Perchè narrare:
Dio, fatto più forte
Dall’umano terror, me per la mano
Del suo fido Michel di ceppi avvinse,
E percosso e ferito indi nei cupi
Baratri m’inchiodò...?
Più il poeta rende ridicola e spregevole l’imagine del grande avversario di Lucifero, e più la personalità di questo perde d’importanza e diventa ridicola anch’essa. Il concetto astratto si versa da tutte le parti, si fa strada per i mille pori dell’effimera imagine galvanizzata un istante dal poeta, e le impedisce quell’organizzarsi della vita che deve accadere in qualunque creazione poetica.
Il Lucifero, il Dio del Rapisardi distruggono da loro stessi la propria personalità colle parole e coi fatti. Dio confessa:
Nulla son io, non sono
Che un forte e secolare incubo, imposto
Da la paura al sonnacchioso Adamo!
Lucifero, partito dall’inferno per compire la gloriosa impresa di spegnere Dio di sua mano, si trova [153] da solo a solo con lui venuto a posta dal cielo a cavallo all’asino di Bettelemme; e ciancia e discute e lo sfida a fulminarlo e non profitta della bella occasione per liberare l’umanità dal suo vecchio tiranno. Perchè? Perchè Lucifero non crede neppur lui alla realtà del fantasma che vuol combattere; perchè quando si decide a compiere la facilissima impresa, il poeta non può fargli trovare il mal temuto Iddio altrimenti che avvolto in una nebbia di nero obblio, abbandonato da tutti gli angioli e i beati, difeso soltanto da quei quadrupedi coi quali la tradizione artistica e l’imaginazione popolare sogliono accompagnare alcuni santi. Lucifero combatte appena: gli basta arrivare e vincere.
— L’ultimo Iddio
Tu sei; con te, non pur la forma e il nome,
Ma il pensiero di Dio ne l’uom si estingue.
E detto questo lo trapassa col suo raggio del Vero che gli serve da spada.
Stridea, come rovente
Ferro immerso nell’onda, il simulacro
Fuggitivo del Nume; e a quella forma
Che crepitando si scompone e scioglie
Fumigante la calce a l’improvviso
Tasto de l’acqua e del mordente aceto,
Tale al raggio del Ver struggeasi il vano
Fantasima; e in vapore indi converso,
Tremolando si sciolse, e all’aria sparve.
Così morìa l’Eterno.
Cito volentieri questi versi, non solamente perchè sono quasi la sintesi di tutto il poema, ma perchè servono a dimostrare stupendamente la mia idea, [154] cioè che l’astrattezza della concezione non si arrende a tutti gli sforzi del poeta per indurla ad assumere una personalità consistente. Questo simulacro fuggitivo del Nume, questo vano fantasima, che pur si scioglie crepitando in vapore vorrebbe essere qualcosa di vivo, di reale e interessarci, se non alla sua, alla sorte del vincitore... Ma il poeta, suo malgrado e senza accorgersene, ci tien in sull’avviso che trattasi d’una chimera appunto quando più dovrebbe persuaderci che quella chimera è una terribile realtà e la vittoria di Lucifero, cioè, dell’umano pensiero, un fatto degno d’essere celebrato dall’epica Musa.
Questa negazione, per così esprimermi, della sua stessa affermazione, che forma uno dei tratti più strani e più curiosi del poema, non s’arresta alle parti secondarie; intacca anche la persona dell’eroe, lo stesso Lucifero.
Il poeta si è sforzato ad animarlo d’un soffio di vita reale; lo ha fatto amare, viaggiare, combattere, assistere a grandiosi e terribili avvenimenti; lo ha cacciato nelle foreste vergini dell’America, ove lo ha messo in lotta colla natura e colle bestie feroci; lo ha introdotto nei convegni di un’Egeria fiorentina; lo ha fatto tentare dalla bella eroina di Siena, che, invece di convertirlo alla fede, converte sè stessa all’amore e si abbandona ai voluttuosi abbracciamenti di lui;... una serie di casi lieti, tristi, un po’ goffamente comici e terribilmente satirici, che porgono occasione al poeta di sfoggiare i più svariati [155] colori della sua tavolozza.... Ma i fatti non hanno in loro la profonda ragione della loro esistenza; non hanno quella fatalità che li coordina a un fine e li organizza in guisa che debbano essere a quel modo e non diversamente. Giacchè il mondo della fantasia ha, è vero, press’a poco le stesse leggi del mondo della Natura, ma colla differenza che, in questo il cieco, irragionevole caso occupa una grandissima parte nell’immenso corso degli avvenimenti, mentre invece nell’altro non c’entra affatto. Il poeta, l’artista, che n’è la divina provvidenza, vi regola ogni cosa in vista d’uno scopo determinato, e non consente ch’elementi estranei ad esso si mescolino a turbare quella necessità da cui deve scaturire la logica catastrofe delle sue rigide premesse.
La colpa non è tutta del poeta. Il poeta aveva dentro di lui quel terribile nemico, il pensiero umano, la scienza, ch’egli vuol contrapporre al vano fantasima di Iddio: e questa riflessione filosofica che distrugge tutte le forme sensibili della mente e le riduce alla loro purissima essenza d’idee, distrugge anche, e tra i primi, l’altro non men funesto e vano fantasima di Lucifero. Non è dunque la facoltà poetica che qui vien meno alla materia poetica: è questa che fa difetto alle facoltà dell’artista. Lucifero, come creazione artistica, non andrà, non potrà dunque andare più in là dello stato d’ombra, e sotto alla sua lieve parvenza si scoprirà sempre il concetto astratto. Il mondo epico dove egli opera non riesce [156] ad assumere il carattere organico della necessità. Quel mondo è il capriccio, è la libera imaginazione del poeta, è uno splendido lirismo che vorrebbe assumere la grandiosità epica e non ci riesce. Ripeto, la colpa non è tutta del poeta, ma un po’ del suo tempo.
La lotta sostenuta dal Rapisardi col suo soggetto è quasi più epica di quella del suo terribile eroe. Nessuno in Italia tra i poeti viventi ha quest’istinto della classicità al grado che lo possiede il poeta catanese. V’è nella sua anima un soffio della Grecia, un alito di Lucrezio, un che inesprimibile che ci rivela quella forma così ondeggiante, così corretta, così elegante non esser uno sforzo, un accomodamento paziente di frammenti poetici, una riproduzione, capricciosamente voluta, dello stile dei greci e dei latini, ma qualcosa d’intimo, di spontaneo che seduce ed ammalia. Il Rapisardi è un antico che si è sbagliato di secolo; e mentre vede limpidissime a traverso il puro cristallo della sua fantasia le armoniche forme delle cose, non può più prenderle per quelle ch’appaiono, ma le giudica per quelle che valgono, cioè per mere illusioni, ed ha la schiettezza di dirlo.
Nella sua qualità di greco, il Rapisardi manca del sentimento dell’infinito, l’unico resto di poesia che domini gli spiriti moderni. E pel bisogno ch’egli prova della raffinatezza di quella forma che la riflessione scientifica ha già distrutto, conviene tenergli conto degli sforzi da lui fatti per rinserrare l’astrattezza moderna entro la concretezza poetica.
[157]
Forse la vera poesia della sua poesia è, inconsciamente, in questa bella impotenza del pensiero moderno a racchiudersi e circoscriversi nell’imagine. Per ciò il Lucifero segnerà una data nella storia dell’arte. È la lapide di bronzo a caratteri d’oro che nel camposanto monumentale del pensiero umano mostrerà scritto: Qui giace la poesia. — Chi non vorrebbe averla scolpita?
14 Febbraio 1877.
Due poeti, due sorti diverse.
Il Fontana, giovanissimo, pubblica una sua poesia in un giornale di Milano: i lettori la trovano bella, ardita, piena di promesse, e il poeta acquista a un tratto una fama che, forse, non aveva osato sperare. Di tanto in tanto, in occasioni benissimo scelte, egli manda fuori ora questo ora quell’altro dei suoi canti, e il pubblico applaude sempre, e i giornali ne levano a cielo l’ingegno e ne fanno conoscere il nome oltre le provincie lombarde.
Un bel giorno al fortunato poeta vien l’idea di riunire in un mazzo quei fiori del giardino delle Muse da lui còlti uno alla volta. Non avevano ancora [159] avuto il tempo di perdere i colori e il profumo; eran freschi tuttavia, bagnati ancora dalla rugiada... Ma, all’apparire del volume, i giornali si mostrano inesplicabilmente ammutoliti. Quel pubblico, che in politica e in letteratura compra le sue opinioni belle e fatte, s’adombra del silenzio e tien broncio al poeta. Qualcuno dà un’occhiata e tira via. Qualch’altro dice poche parole, e tentenna la testa. Due o tre coraggiosi salutano il poeta con lodi parche, con consigli amichevoli. Il resto ne mormora sottovoce, ne parla con aria impacciata...; insomma, tutti gli fanno scontare, a lui che non n’ha colpa, una fama precoce prodigatagli con ostentazione, quasi fossero stati i giornalisti ed il pubblico che gli avessero per grazia dato ad imprestito l’ingegno.
Prima lodato certamente un po’ troppo, si è visto all’improvviso trascurato un po’ troppo. Se fosse uno di quegli spiriti miti, dubbiosi, ai quali una buona parola dà lena e coraggio, e una critica amara o, peggio, il silenzio sprezzante fan rompere la penna, a quest’ora il Fontana avrebbe dato un addio alla poesia e sarebbe pronto a far tutto fuorchè una quartina foss’anche di versi bisillabi. Per fortuna non è tale.
Siamo al solito caso: nessuna misura nella lode o nel biasimo; l’opera d’arte giudicata non come semplice opera d’arte, ma a seconda di canoni che spesso non hanno nulla da vedere coll’arte; l’individuo accarezzato a traverso l’artista, l’artista biasimato col pretesto dell’individuo!
[160]
Ed ecco ora una sorte opposta.
Poche settimane fa comparve nelle vetrine dei librai un volumetto in-16º piccolo, colla copertina color paglia, col frontispizio rosso e nero, un amore di edizione elzeviriana in carta chamois dal titolo: Postuma, canzoniere di Lorenzo Stecchetti (Mercutio).
Chi era questo Stecchetti?
Nessuno sin’allora n’aveva inteso pronunziare il nome. I primi che apersero il volumetto, lettane qualche strofa ebbero una vera sorpresa. La diffidenza ispirata dalle cose postume edite a cura degli amici venne subito vinta dalla curiosità e dal piacere che la lettura produceva. Per una settimana fu un continuo impietosirsi sulla sorte del misero giovane morto stoicamente di tisi, a trent’anni, come narrava nella prefazione il dottor Olinto Guerrini, suo parente ed uno degli intimi amici. Peccato! C’era in quel giovane la stoffa d’un vero poeta moderno! Che semplicità elegante e che vigore di forma! Che sincerità d’ispirazione e che malinconia!
Muoio. Cantan le allodole
Ferme sull’ali nel profondo ciel,
E il sol di ottobre tiepido
Albeggia e rompe della nebbia il vel.
Caldo di vita un alito
Sale fumando dall’arato pian;
Muoio: cantan le allodole
E le giovenche muggon da lontan.
La vostra lieta porpora
Roselline d’inverno io non vedrò;
Le carni mie si sfasciano...
Domani al mio balcon non tornerò.
E con questi versi dell’ultima pagina il commosso [161] lettore chiudeva il volumetto: le lettrici avevano gli occhi pregni di lagrime.
Ma, che è che non è, si diffonde una voce: lo Stecchetti non ha mai esistito e quindi non è morto nè di tisi nè d’altro male: l’autore di questa bella mistificazione è il dottor Olinto Guerrini, quello stesso della prefazione, giovane, sano e pieno di vita, con moglie e figliuoli. Ed ecco il dottor Guerrini, ieri conosciuto poco più in là di Bologna come poeta di facile e mordacissima vena nel suo dialetto, eccolo celebre a un tratto da un capo all’altro d’Italia per uno di quei troppo caldi entusiasmi che fanno dubitare della lunga durata.
Arrivando quasi l’ultimo a parlare di questi due poeti, tenterò di fare ciò che mi sembra non abbiano fatto gli altri. Dimenticherò i facili trionfi del Fontana e la freddezza con che è stato accolto il suo volume; dimenticherò la leggenda che ha riverberato la poetica tristezza della sua finzione nell’animo dei lettori ed ha un pochino aiutato l’effetto dei canti del supposto Stecchetti; e tenterò di mettermi rimpetto a queste opere d’arte nella condizione di sentirne l’immediata impressione, fuor di qualunque circostanza che potrebbe mescolarvi elementi d’altro genere.
Non farò paragoni: i paragoni sono inutili quando non sono nocivi. Nei due poeti c’è l’alito, il carattere della poesia moderna, ma in modo diverso. Spesso manca all’uno quello che all’altro sovrabbonda, senza che per questo l’uno valga meno o più [162] dell’altro; ed hanno tutti e due una personalità propria, spiccatissima, da non confondersi facilmente con quella dei soliti strimpellatori di lira. È il loro passaporto di poeti.
Il Fontana, un carattere più fantastico, più indefinito del Guerrini, spazia incessantemente in un orizzonte vastissimo. Ha la curiosità, l’impressionabilità della donna e del fanciullo, e com’essi un sentimento di contento e di tristezza, di mobilità e d’insistenza, di chiarezza e di nebbia, di semplicità e d’artifizio che la facilità del verso e della strofa, la trascuratezza, l’indecisione dello stile, la stranezza o la bellezza dell’imagine rendono perfettamente, con giustezza che colpisce. Il suo concetto poetico ordinariamente apparisce, fluttua, brilla, s’ecclissa, torna a comparire come una figura proiettata da una lente ora sì ora no messa a fuoco; e i contorni degli oggetti che la sua imaginazione vorrebbe fissare qua si disegnano netti, più in là si perdono molto indecisi nel fondo. Si capisce che lì tra il concetto e la forma vi è una lotta continua; che la forma non arriva sempre a imprigionare nel suo organismo le mille gradazioni di un’idea, e si contenta del press’a poco per paura di vedersela sfuggire tutt’intiera di mano. Ma nello stesso tempo si capisce che è appunto in questo press’a poco dove talvolta il concetto, perseguitato con insistenza, acquista un colorito poetico più spinto, da far quasi rallegrare che la vittoria della forma non sia stata completa.
Sovente l’effetto di una poesia del Fontana è [163] quello d’un abbozzo in cui il pittore ha tentato di fissare con quattro colpi di pennello l’impressione d’un momento. La mano dell’artista ha segnato qua e là dei tratti, ha messo degli appunti di colorito; ombre crude, luci crudissime, qualcosa che si vede e si intravvede, che si capisce e non si capisce; ma un che di caldo, di vivo che si agita, che ci spinge a lavorar d’immaginazione, a vincere, a correggere gli audaci trapassi, a rammorbidire i contrasti, ad armonizzare le stonature; qualcosa insomma che ci mette in un inatteso travaglio di creazione simile a quello del poeta e, compenetrando lettore e poeta, dà l’illusione di fare insieme l’opera di arte che si sta leggendo.
Non è una cosa indifferente, non è una cosa comune. In quei versi, in quelle strofe che talvolta, a ragione, giudichiamo mediocri, si cela il mistico quid che rivela un artista. Nella loro mediocrità di stile non ci lasciano in pace; nella loro falsità di concetto ci fanno pensosi; nella loro nudità ci spingono a ruminare un sentimento che non viene soltanto dalla carne, e saremmo imbarazzati ad esprimere precisamente che mai sia.
In esse c’è sempre, o quasi sempre, qualcosa che fa difetto o trascende; ma questa sproporzione, questa mancanza rivelano un’elevatezza, uno slancio da compensarci ad usura, un’ingenuità, una sincerità spensierata che legano e si fanno amare. Notate la Prefazione ai miei versi.
[164]
Esser poeti è legger nei futuri
Giorni: è spaziar nel cielo delle indagini
Condannate dai timidi cervelli.
. . . . . . . . . . . . . . .
Esser poeti è librarsi giganti
Sull’universo..........
È accogliere del par sorrisi e pianti,
Inni e bestemmie, rantoli e vagiti,
. . . . . . . . . . . . . . .
Esser poeti è salir sopra un monte
Di notte quando il ciel di stelle è fulgido,
E in estasi esclamar: Credo! vi è un Dio!
E inginocchiarsi, e chinare la fronte,
Ripieno il cor di mistica paura...
Poscia negarlo e metterlo in oblio
Discesi alla pianura.
Esser poeti è viver d’illusioni
Che nell’Eterno Nulla il piede appoggiano...
. . . . . . . . . . . . . . .
Esser poeti è abbandonarsi ai sensi;
. . . . . . . . . . . . . . .
È mutar l’alimento del mattino,
A vespro giunti, in voli eccelsi, immensi...
E, invero, questi versi sono usciti
Dalle vivande e dal preteso vino
Che l’oste m’ha imbanditi.
Possibile che l’esser poeta sia tutto questo? Sì e no, come vorrete. Nella mente del Fontana è accaduta una specie d’allucinazione; i secoli si sono accorciati, la storia si è compendiata, mille figure di poeti si son fuse in una sola. Valmichi, Mosè, Omero, Anacreonte, Shakespeare, Molière, Lamartine, Goethe, Vittor Hugo, Heine, Prati, Praga, egli stesso, tutti gli son passati dinanzi rapidamente, quasi senza farsi riconoscere, in una mescolanza bizzarra. Ogni verso, ogn’emistichio, ogn’epiteto, ogn’imagine delle otto strofe è uno sprazzo di luce di quelle figure, di cento [165] altre figure e di fantasmi personali che gli han danzato nel cervello durante l’esaltazione d’un momento. Che ha voluto dunque fare? Nulla, o piuttosto dirvi il suo motto d’un minuto. È la sua arte poetica? Sì e no, come vorrete; ma sopra tutto è una poesia ch’egli ha fatta insieme a voi, una creazione, meglio, un parto del suo spirito di cui voi, per fortuna, non avete sentito i dolori. — È un assurdo! Un ammasso di contraddizioni! — Ma non mi negate (nol potrete) che dopo quella lettura vi si è mossa nell’imaginazione, nel cuore e nel cervello qualcosa che prima di leggere se ne stava a dormire. Vi siete fermati ad una strofa, ad un verso scadente, avete esitato; ma poi, vostro malgrado, siete stato stimolato a procedere, ad andar sino in fondo. E se vi è accaduto d’indispettirvi col poeta di ciò che vi ha fatto provare, chi sa che sapendolo egli non vi dica: questo dispetto è la mia vera poesia!
Ecco, poco più in là, leggete La Forma e l’Idea. Rileggete; è bene. Vi persuaderete che il poeta, se non vince sempre, se si stanca presto della lotta del suo concetto colla forma, però sa benissimo di dover lottare e che, a modo suo, lotta e lotta, quantunque talvolta dubiti della utilità di quest’arduo travagliarsi.
Forse esistono
Idee sì vaghe e arcane
Che invan le menti umane
Si attentano a scolpir!
Forse passò fra gli uomini
Il sommo dei poeti,
[166]
Fra la schiera dei mutoli
E degli analfabeti...
E, forse, il suo silenzio
Fu incompresa epopea
In cui sfuggì l’Idea,
Della Forma il martir!
Non vi arrestate per analizzare il sentimento grandiosamente poetico di questa strofa: è proprio un assurdo. Quell’idea che sfugge il martirio della forma non può essere un’idea e molto meno un’epopea!... Ma l’imagine di quel mutolo, di quell’analfabeta nelle menti dei quali si schiudono i più grandi e ineffabili sentimenti poetici; ma quei sentimenti che si agitano maestosamente, divinamente in un’impotenza gigantesca... quest’assurdo insomma vi ha detto di più d’ogni concetto preciso. Nuotate in un mare senza limite: sentite che la vibrazione di quell’onda sonora si perde nell’infinito.
Una delle qualità più spiccate della poesia contemporanea è lo accostarsi, alla sua maniera e nei limiti che la determinatezza della parola concede, all’indeterminatezza della musica, la vera arte moderna. Le poesie del Fontana possiedono questa indefinibile espressione musicale dei sentimenti e delle cose; ma si scorge più nell’insieme che non nel particolare d’ognuna d’esse.
Questo volume, più che altro, è una solenne promessa. Il Fontana può appropriarsi ciò che diceva il Musset delle sue prime poesie:
Ce livre est toute ma jeunesse;
Je l’ai fait sans presque y songer.
Il y paraît, je le confesse,
Et j’aurais pu le corriger.
[167]
Io dico intanto sia bene ce l’abbia dato così com’è. Questi saggi, questi tentativi di una poesia esclusivamente individuale che coglie a volo l’impressione, la sensazione, il sentimento e s’ingegna a renderli tali e quali gli ha provati, cercando la forma più semplice, più immediata per farli risentire agli altri allo stesso grado d’intensità, non sono punto dei saggi, dei tentativi superflui o inutili, per quanto possano avere un valore effimero e passeggiero. Nella storia generale dell’arte non segnano certamente una novità. La reazione contro la forma accademica, convenzionale, sempre intenta a riprodurre con una formola antica lo spirito moderno (e che, pur di farcelo entrare, o lo strozza, o lo mutila, o lo sfigura), ci ha già preceduto in Germania, in Francia ed anche in Inghilterra. Rimane a riprendere per nostro conto e nelle proporzioni del nostro genio nazionale questa lotta contro l’antico. Non foss’altro per pochi istanti, noi dobbiamo passare per gli stessi punti di sviluppo, ripeterne intiero il processo. E troveremo più facile il cammino; più sicura, anzi infallibile la vittoria.
Pari agli altri fatti dello spirito umano, anche il sentimento poetico ha la sua storia. E dicendo storia intendo un ordine progressivo d’evoluzione, una legge intima che lo governi e lo faccia andare verso un fine in onta alle mille accidentalità che gli sbarrano e gli contendono il passo. Il sentimento poetico non è altro che la ragione umana ancora avviluppata in quella forma bassa e secondaria dello spirito: [168] è l’idea non veduta ma intravveduta sotto il roseo velo della fantasia: e corrisponde a speciali facoltà, e si riduce ad un maggiore sviluppo o almeno ad una maggiore attività d’esse nel gran momento della funzione poetica.
Ora è accaduto nella storia del sentimento poetico quel che è avvenuto nel corso di tutti gli altri avvenimenti umani; il suo procedere è stato nel nostro secolo assai più celere del consueto, quasi vertiginoso: ha fatto in pochi anni tal sviluppo che prima non avrebbe compito nel periodo d’intieri secoli.
La forma poetica (giacchè il sentimento e la forma nell’arte son tutt’uno) ormai può dirsi arrivata alla sua estrema sottigliezza, alla sua possibile trasparenza. Si è naturalmente rimpiccinita, circoscritta; non s’attenta più alle grandi creazioni, ma si rassegna alla minuta rappresentazione del mondo interiore. Non sdegna la semplice rappresentazione del mondo esterno, e fa del paesaggio un puro sfoggio di sè stessa, un mero affermarsi come forma assoluta: la quale cosa indica raffinatezza e corruzione nello stesso punto.
Queste evoluzioni, questi passaggi graduati, più o meno rapidi, più o meno importanti, contano nelle letterature francese e tedesca contemporanee una gran lista di nomi che ne rappresentano le diverse fasi con straordinaria ricchezza. Victor Hugo, Musset, Heine sono oramai sorpassati per ciò che riguarda il sentimento poetico. Le nuances d’ognuno [169] d’essi hanno ricevuto dei larghi svolgimenti che non debbono giudicarsi come semplici amplificazioni, ma fusioni, amalgame, combinazioni chimiche ben riuscite, alle quali l’impronta dell’individualità di ogni poeta ha aggiunto una nuova nota, un punto di colore. Però, fra tanta produzione che ha affaticati e affatica ingegni vigorosissimi, rotti a tutte le difficoltà della versificazione e dello stile, sorprende assai il non veder spiccare un poeta il quale valga ad imporsi ai suoi contemporanei come il rappresentante d’un sentimento generale.
In Italia è avvenuto un che di simile sebbene in proporzioni più ristrette. Il Praga, il Boito, il Carducci, il Rapisardi, il Fontana e parecchi altri che è inutile rammentare hanno un’originalità relativa, se si riguarda alla storia parziale della poesia italiana; ma la loro originalità consiste più specialmente nell’essere il riflesso di questa gran rivoluzione artistica che sembra l’ultima espressione della forma poetica agonizzante. Infatti vi è in loro qualche cosa d’estraneo alla coscienza, al sentimento artistico italiano come volgarmente s’intende; ben pochi essendo penetrati della convinzione che il sentimento poetico abbia perduto anch’esso il suo carattere nazionale e sia diventato europeo, come europee son già diventate tutte le altre forme dell’arte.
La ragione che rende immensamente difficile la produzione poetica è la legge che presiede alle incarnazioni del sentimento. Come qualunque altra produzione della natura, un sentimento poetico trovata [170] la sua splendida forma non ha più la possibilità di farsene un’altra. Le mille circostanze che concorsero a quella creazione, che la prepararono, la aiutarono, la svilupparono, mutansi anch’esse e non si rinnovano. Per questo riesce vano il voler rifare Byron, Victor Hugo, Musset, Leopardi, Heine e tutti i fortunati che poterono pervenire alla più alta rivelazione d’un dato sentimento poetico. L’ambiente è cambiato. Quella data forma è già entrata, appena venuta fuori, nel gran dominio della storia dell’arte, rappresenta un vero progresso, un vero momento dello spirito umano fissato in modo indistruttibile nelle sue immortali creazioni; e qualunque tentativo di risuscitarla riducesi un tentativo retorico senza nessuna giustificazione, un capriccio, una foggia momentanea, vera prova della sterilità dell’ingegno poetico che vi si abbandona.
Il Fontana, al pari di molti altri, non ha un concetto preciso nè dell’Arte nè della sua storia. Questo non significa gliene manchi un sentimento, una intuizione, una divinazione che diffonde inconsciamente una tinta d’originalità sulle poesie di questo volume. La quale originalità spiccherebbe di più se il poeta desse meno retta ai consigli del Nodier che paiono il suo credo poetico riguardo allo stile.
Le vers qui vient sans qu’on l’appelle
Voilà le vers qu’on se rappelle:
Rimer autrement c’est ennui.
La parole est la voix de l’âme
Si quelque gêne l’emprisonne,
Défiez-vous de tout lien,
Tout effort est contraire au bien.
[171]
Egli farebbe meglio a ricordarsi del consiglio di un grande artefice di stile:
Oui, l’oeuvre sort plus belle
D’une forme au travail
Rebelle,
Vers, marbre, onyx, émail.
Point de contraintes fausses!
Mais que pour marcher droit
Tu chausses,
Muse, un cothurne étroit.
Fi, du rythme commode
Comme un soulier trop grand
De mode
Que tout pied quitte et prend!
Ma già il Fontana per persuadersi della giustezza di questi suggerimenti ha soltanto bisogno di guardare ai suoi stessi lavori. I migliori del volume sono appunto quelli dove la forma è più accurata, La notte di S. Silvestro, Circolo, Quando? Ars alma Mater, Melodia, Sera e qualche altro presentano le promesse d’una più bella e più artistica evoluzione del suo ingegno; e quanti gli voglion bene si augurano di vederla maturata al calore di studî più serî e di un lavoro di lima più paziente. A me piace finire rammentandogli ch’oramai il dubbio, il dolore disperato del Leopardi, il ghigno dello Heine han fatto il lor tempo: la profonda, la nuova poesia della vita non consiste nel disquilibrio delle facoltà umane, nè tutta nella carne, nè tutta nello spirito, ma in un contemperarsi serenissimo d’ambidue. L’uomo moderno non maledice, non irride la natura; è già conciliato con essa: e quest’inno di [172] conciliazione può forse essere l’ultima espressione della forma poetica, che muore come forma per vivere immortale come sentimento.
La forma poetica e il sentimento poetico son tutt’uno soltanto nei giorni in cui l’Arte è una realtà vivente non una storia; ma ormai siamo a questo punto. Il Fontana lo ha cantato quasi piangendo.
Queste considerazioni avrebbero risparmiato a parecchi critici molte ciancie sulle poesie dello Stecchetti (il dottor Guerrini mi sembra condannato a perdere letterariamente il suo vero cognome) e avrebbero fatto dare un più giusto giudizio del loro valore.
Il contenuto poetico dello Stecchetti non è una novità. Può crederlo tale chi ignora la storia del sentimento poetico di questi ultimi cinquant’anni. Il vero pregio sta nella forma.
La forma, in mano di lui, è di una docilità, di una compiacenza ammirabili. Il concetto si presenta nettissimo, colla limpida trasparenza del più puro cristallo. Il poeta dice tutto quello che vuol dire, e proprio nient’altro di ciò che vuol dire. Non vi domanda la vostra collaborazione, ha lavorato per voi: non vuol che voi facciate coll’opera sua ciò che egli ha fatto colla realtà, che sentiate quasi personalmente e che egli vi serva come pretesto di una interpretazione subbiettiva, no. A lui piace piuttosto d’imporvi il suo preciso e determinato sentimento. Egli non tollera che, leggendo, vi sentiate un solo istante voi; vuole, al contrario, che vi assorbiate [173] tutto in lui, e che la sua personalità vi apparisca scultoriamente trionfante.
La forma dello Stecchetti somiglia un getto in bronzo o in oro. L’autore avrà certamente mutato e rimutato il suo modellino in creta; quella facilità, quella sobrietà, quell’unito, quella precisione di particolari gli saranno costati un lavoro diabolico. Egli potrebbe farci la storia delle sue esitazioni, dei suoi pentimenti, dei suoi dubbî, delle sue disperazioni prima che la linea, il movimento intraveduti e ricercati trovassero l’espressione perfettamente adeguata. Ma noi non vediamo qui nulla che ci rammenti il modellino in creta. Vediamo il gioiello fuso, un getto stupendamente riuscito: non ci resta altro che guardare e ammirare.
Se c’è qualcosa che si scorga, forse, è appunto l’eccessiva cura d’imprimere a queste piccole opere d’arte che formano il volumetto delle Postuma una personalità troppo esclusiva. A furia di voler apparir lui, proprio lui, il poeta ha ristretto il campo dei suoi sentimenti. Sembra si sia imposto un severo lavoro di scarto per tutto ciò che avrebbe potuto in qualche modo riguardar gli altri e accomunarli ad esso. Si nota infatti, come impronta generale di queste brevi poesie, una tal quale aridità, anche quando l’artista vorrebbe dar a vedere che l’affetto sgorga abbondante e che la passione trabocca sfrenata. Ma, si badi bene, è un’aridità voluta, cercata per amore di uscire dal comune e dal trito; un’aridità che fa spesso sospettare come sotto [174] la perfetta sincerità della forma non si celi un’uguale sincerità di sentimento.
Questo può darsi avvenga perchè molti componimenti debbono essere stati fatti dal Guerrini a fine di meglio colorir la finzione d’un poeta morto a trent’anni, il suo Lorenzo Stecchetti. Il morto allora serve di ragionevole scusa pel vivo. Però talvolta ci tocca di ringraziare di vero cuore il finto morto se gli riescì d’ispirare delle cose belle e gentili come questo componimentino di otto versi:
Quando cadran le foglie e tu verrai
A cercar la mia croce in camposanto,
In un cantuccio la ritroverai
E molti fior le saran nati accanto.
Cògli allor tu pe’ tuoi biondi capelli
I fiori nati dal mio cor: son quelli
I canti che pensai ma che non scrissi,
Le parole d’amor che non ti dissi.
Il lettore troverà altri gioielli di simil genere e se li sentirà subito fissati nella memoria per non dimenticarli più.
Alla domanda: quale di questi due ingegni poetici io preferisca, mi troverei imbarazzato. Se il Fontana raggiungesse la precisione e l’eleganza della forma dello Stecchetti, la mia scelta non sarebbe dubbia; egli mi fa sentire e rêver di più. Ma, oh la potenza e le seduzioni della forma! Decisamente, l’Arte non è altro che la Forma.
25 Luglio 1877.
[175]
Il Gualdo è un romanziere che meriterebbe uno studio a parte; e un giorno o l’altro lo scriverò. L’eccessiva modestia dello scrittore e non saprei quali altre circostanze hanno lasciato finora un po’ nell’ombra questo nome degno d’esser conosciuto ed amato per le sue belle qualità d’artista. È perciò con vero piacere ch’io veggo la ristampa di un suo volume di Novelle pubblicate a Torino parecchi anni fa.
Sono dei piccoli quadri studiati, disegnati e dipinti con un amore dell’arte e con un gusto di cui pur troppo non è facile trovar molti esempi fra noi. Benchè opere giovanili, mostrano molta maturità [176] di concezione e di forma, che qualche incertezza d’esecuzione non arriva ad offuscare.
Il Gualdo ha un’efficacissima potenza descrittiva. Il suo giardino della Villa di Ostello rammenta il Paradou della Faute de l’Abbé Moret dello Zola, colle proporzioni, s’intende, e colla differenza che passano fra un romanzo e una novella di poche pagine. E faccio questo confronto non per ravvicinare due nomi con una sconvenienza di cui il Gualdo sarebbe il primo ad offendersi, ma per dar meglio la misura del colorito ch’egli sa, non di rado, adoperare.
«Nell’inverno, la villa era triste e oscura, il giardino desolato; e nel vasto parco non si scorgevano che gli scheletri degli alberi sul suolo indurito. Passeggiando per quei viali affatto spogli con a lato i cespugli regolarmente tagliati in forme ornamentali, scorgendo qua e là tra i rami secchi le statue condannate alla nudità, quali bizzarramente mutilate, quali mal sostenute dai piedistalli infraciditi, vi sentivate un freddo penetrare nell’anima, derivante sopratutto dall’effetto del malinconico spettacolo. Il palazzo, superbo edifizio dello stile del Rinascimento, con due grandi ali sporgenti, tutto a ornati e ricche lesene pittoricamente guaste, con davanti un terrazzo che dava adito alle sale, a cui si saliva per cinque gradini larghissimi, vi rattristava esso pure; e più ancora se penetravate nelle vaste sale deserte in cui nulla si udiva tranne l’eco dei vostri passi e non si vedeva alcuno se non i personaggi silenziosi degli affreschi impalliditi e dei logori arazzi. Ma di [177] primavera, allo spuntare del primo fiorellino, tutto cambiava.
«Più che altrove, era incantevole in quella villa abbandonata il risvegliarsi delle cose. Uno dopo l’altro, tutti gli uccelli del bosco cominciavano il loro canto, e tutto un concento di trilli riempiva i lunghi viali. Vi era qualcosa di tumultuoso nella rapidità con cui le piante verdeggiavano e i prati si smaltavano di fiori. Nessun giardiniere era pronto a correggere la intemperanza della natura. I folti cespugli erano pieni di rose, e le nuove frondi uscivano in disordine attraverso alle forme architettoniche a dispetto d’ogni simmetria. I ramoscelli sboccianti si attortigliavano pazzamente intorno alle statue, e le dee di marmo sembravano sorridere nel vedersi abbracciate da quelle piante parassite; delle frondi novelle uscivano quasi d’improvviso dai tempii di verdura e in uno slancio inconsapevole prendevan d’assalto le Veneri di granito. Dovunque spiccavano le viole. Dalla prima giornata di primavera, quel parco si sarebbe potuto paragonare ad una sinfonia che cominciando lieta e leggiera andasse a poco a poco allargandosi in un magnifico crescendo, per giungere finalmente alla pace profonda, fresca, indescrivibile dell’estate!»
Ho voluto trascrivere questa bella pagina anche per dare un’idea dello stile del Gualdo accusato, un po’ troppo alla lesta, d’inculto e d’infranciosato. Certamente non vi s’incontrano nè fioriture arcaiche, nè riboboli; nè tant’altre belle cose che certi signori [178] vorrebbero imporre come indispensabili ingredienti del bello stile; ma c’è efficacia, c’è nettezza, c’è colore, c’è movimento; e se le trascuratezze non mancano, se alcuni periodi vorrebbero andare più legati e meno contorti, questo vuol dire che l’arte dello scrivere è difficilissima, e che non si apprende di primo acchito. Però le buone qualità di scrittore possedute dal Gualdo sono di quelle che vengono dalla madre natura e che non si apprendono; le mende, al contrario, di quelle che la pratica e lo studio riescono facilmente a far evitare.
Dalla lunga citazione che ho fatto, e dall’insistenza con cui parlo volontieri del colorito, non si creda che le novelle del Gualdo si circoscrivano nel mondo esteriore e vivano d’incidenti romanzeschi, di allettamenti di curiosità, i quali hanno efficacia al primo momento e, dopo, non valgono più. Egli preferisce a ragione il mondo intimo del sentimento e della passione, e si compiace dell’analisi delicata, minuta, che ricostruisce, criticandolo, il vivo processo di una passione e di un sentimento. Sgorga perciò da tutte queste pagine un calore concentrato d’affetto, un fascino soave di poesia, e un senso indefinito d’ideali gentili intraveduti, che fanno molto pensare.
E questo avviene anche allorchè il racconto è una bizzarria, un capriccio d’artista rapidamente tratteggiato e colto, sto per dire, in flagranti. In quella Villa di Ostello accade un dramma che fa l’effetto d’una realtà che diventa sogno o d’un sogno che [179] non si risolve pienamente in una realtà. Una potente abilità d’esecuzione, di chiari e scuri, di sfumature, di piccole furberie di forma irretisce il lettore e lo trascina dolcemente nel circolo magico tracciato dalla bacchetta dell’incantatore. Chi sono quelle due figure piene di gioventù e di bellezza che vengono improvvisamente a fare d’una villa mezzo abbandonata il lor nido d’amore? Dove le abbiamo viste prima d’allora? Dove spariscono perdute in una rosea nebbia che nasconde ai nostri occhi un mondo di pure dolcezze? E il lettore rilegge e prova daccapo le medesime sensazioni.
Accennerò come stupendo capriccio d’artista la Narcisa, un vero inno alla bellezza della forma, ad una bellezza che, per quanto materiale, ha già qualcosa che trascende, e non è soltanto la Venere di Milo, ma anche la Venere moderna: la forma che vive, che sente di vivere, che si ama come tale, e muore prima che gli anni giungano a recarle la menoma offesa.
«Chi si estasiava sulla sua bellezza, che rimarrà come un tipo inimitabile, chi tentava spiegare il problema della sua vita. Poi si venne a discutere sulla sua morte quasi più inesplicabile ancora. — Io ne so la causa, disse un poeta: È morta di bellezza.»
Il Gualdo, quasi per vendicarsi della inesplicabile indifferenza del pubblico e della critica, si è messo da qualche tempo in qua a scrivere i suoi romanzi in francese. Une ressemblance è già pubblicato da [180] un anno, un altro ne sarà pubblicato fra non molto. Voglio crederla una bizza passeggiera. Non siamo in Italia tanto ricchi di romanzieri da non doverci accorare che uno d’essi preferisca alla propria una lingua straniera.
6 Luglio 1877.
Accade qualche volta di far dei sogni che restano impressi nella memoria come una realtà deliziosa. Figure di donne nelle quali la bellezza è un sorriso d’amore, che parlano con un accento pieno di musica e di malia, che vengono e vanno leggiere, quasi portate dal vento e come circonfuse da un’aureola; paesaggi a perdita d’occhio, smaglianti di luce e di verde; colline che si specchiano in laghi più limpidi del cristallo; ville che biancheggiano tra il folto degli alberi con un’aria di dolce mistero, viali che s’internano in un laberinto incantevole e pauroso, grotte dove le goccie irridate che gemono dalla vôlta sono perle e diamanti; e un’aria sottile, pregna di mille profumi; e un silenzio raccolto pieno di tante cose, un senso della vita più completo, più perfetto dell’ordinario, ma non tale che ce ne faccia [181] avvertir troppo lo stacco; e poi una fretta vertiginosa di vivere! Avventure che nel mondo reale richiederebbero anni ed anni, lì si intrecciano, si svolgono, hanno la loro catastrofe in pochi minuti. Lo spazio è soppresso, il tempo ridotto a un’assurdità. E intanto s’ama o s’odia, si gode o si soffre con intensità così forte che al destarci si rimane un po’ perplessi prima di dire: ho sognato. Negli occhi ben aperti vibra ancora un lieve riflesso di quell’altra luce; nell’orecchie oscilla l’ultimo suono di parole che vorremmo sentirci ripetere; sulle labbra si prova tuttavia come lo svanire d’un bacio, nella mano la sensazione d’una stretta tiepida, lunga, eloquentissima. L’impressione insomma è così viva e profonda, che ci lascia per tutta la giornata un sentimento di tristezza, una strana compiacenza d’aver sognato e un acuto desiderio di tornar a sognare. Quel sogno infine non era mica l’impossibile: vorremmo essere nel caso di riprodurlo tal quale nella realtà.
Il libro del Gualdo lascia un’impressione di questa natura. Per un’opera d’arte non è poco.
Quel marchese Massimo di Astorre ci rende invidiosi della sua sorte. Bello come una statua greca, ha fatto a proprie spese una larga esperienza della vita. Precoce nel vizio e nella coltura, ha morso «aux pommes des toutes les sciences, n’acceptant aucune idée sans examen et raisonnant trop, ne considérant sa supériorité que relativement, de sorte que sa fierté devant les hommes ne trouvait pas sa juste compensation dans l’humilité devant l’absolu.» [182] Ma questo non gli ha quasi servito ad altro che a disgustarlo dalle così dette cose serie o a farlo tornare ai piaceri. A vent’anni aveva già completamente esaurite le generose passioni della giovinezza: gli era appena rimasto un po’ d’ambizione: era troppo maturo. Però in mezzo ai piaceri, al lusso, alle stupide vanità della società elegante, egli non ha mai potuto reprimere la smaniosa aspirazione a qualcosa d’elevato che viene a tormentargli il cuore nei giorni di stanchezza e di noia. Invidiabile uomo! Quando le sue pazze dissipazioni lo spingeranno fra le tristezze e gl’impacci di quella miseria relativa che ci avvilisce al cospetto degli altri e di noi stessi, ecco due grosse eredità pronte a mettere all’ordine dei suoi capricci la verga fatata dei loro milioni. Quando il suo cuore sentirà più violento il bisogno d’un nobile e serio scopo della vita, ecco la dolce figura dell’Elisa Valenti, vittima sul punto di essere immolata alle convenienze di famiglia, che lo lancia in pieno romanzo, nel grande oceano dell’ignoto. Egli la sposerà (non c’è altro mezzo per poterla salvare da quell’antipatico signor Gorletti) ma rispetterà scrupolosamente i diritti del cuore della sua eroina. Sarà un marito pegli occhi del mondo: ma per la povera Elisa, più che un amico, un fratello. Ho detto apposta eroina; l’Elisa Valenti da principio non è altro per lui. Quest’uomo sazio di piaceri, che ama le cortigiane da pagano, da sensuale adorator della forma, che ha poco rispetto per le donne, quantunque egli stimi profondamente [183] la donna, prende l’Elisa come il soggetto d’un romanzo non da scrivere (sarebbe troppo comune) ma da fare giorno per giorno, alla mercè del caso e delle circostanze della vita che spesso bisognerà subire con le loro logiche tirannie.
Che viaggio di nozze! «Quand ils furent seuls dans un wagon-salon de l’exprès entre Milan et Florence, Elisa sentit plus intensement encore que dans les jours préecédents, toute l’étrangeté de sa position... Il lui semblait avoir perdu le sens de la réalité des choses et la certitude de sa propre individualité. En même temps, que des doutes lui passaient rapidement par l’esprit, elle éprouvait une crainte indéfinie de mal faire et de se réveiller de ce rêve réel que lui procurait déja le soulagement immense de se sentir sauvée, délivrée de l’obsession dont elle avait tant souffert... La nuit était froide. Par les vitres bien fermées de la voiture on ne voyait que l’obscurité, sillonnée parfois d’une brusque lueur à l’approche d’une station. Dans ce petit espace, sa vie entière lui paraissait renfermée; que pouvait-il encore y avoir au dehors? — Et dans cette boîte chaude et commode, environnée de froides ténèbres et courant à travers l’espace sur une trace de fer où rien ne pouvait surgir, elle devinait un symbole de sa déstinée nouvelle... Il faisait jour. Une pluie battante frappait contre les vitres. Elle vit Massimo encore endormi... et ce rêve de se trouver seule avec le marquis d’Astorre, à six heures du matin, dans un wagon, et d’être mariée à [184] lui, ce rêve qui, même éveillée lui paraissait si bizarre, était la simple et vrais réalité. On était au delà des Apennins et le paysage, etc.»
Come in questi frammenti che ho citato a bella posta, nell’intiero romanzo c’è il rêve che si mescola, che s’innesta alla realtà con un’arte squisita. Quando si è lì lì per domandarsi se quel Massimo sia un uomo di questo mondo, ecco un palpito vero, ecco uno scoppio di passione che non ci lascia alcun dubbio. E allora si comprende benissimo come soltanto un uomo di quella tempra, stanco d’aver tutto provato, ma non ancora sazio d’emozioni, possa lasciarsi vincere da una tentazione così pazza, e che potrebb’anche avere dei risultati terribili.
Il lettore farà bene a cercare nel libro del Gualdo in che modo lo scettico marchese vien soggiogato a poco a poco dall’incanto dell’Elisa, e come alfine riesca non solo ad essere un marito per davvero, ma, quel che più importava, un uomo amato. Rare volte uno scrittore italiano ha raggiunto una così alta potenza d’analisi e una maestria così raffinata di colorito e di sfumature; di sfumature sopratutto. Quando l’autore ci ha fatto accettare la premessa un po’ raide di quel matrimonio eccentrico, il resto vien da sè. Infatti la parola impossibile non spunta mai sulle labbra. Si sorride tra increduli e sorpresi e si finisce con dire: è un’eccezione! — Ma sicuro, risponderebbe l’autore, un’eccezione! Se non fosse così, varrebbe la pena di scrivere trecento e più pagine?
Oltre che dalla potenza dell’analisi, lo stupendo [185] effetto del libro viene dalla bellezza della forma. Mi sembra che il francese del Gualdo abbia il difetto di essere un francese troppo perfetto, cioè limpido, di una fluidità meravigliosa, d’un tono elegante e sostenuto anche in Francia passato un po’ di moda, d’essere insomma il francese classico che un tempo raccontava la storia della Princesse de Cleves. Non già che qua e là non ci siano echi e riflessi di una forma più moderna, più tormentata, sovraccarica di colorito che ricorda i De Goncourt e lo Zola; ma sono così bene armonizzati coll’intonazione generale che non istonano affatto. Certamente la forma straniera aggiunge alla narrazione un incanto di più, un piacere dell’orecchio carezzato voluttuosamente da impressioni fuor del comune. Giacchè la vita, i sentimenti, il paesaggio, tutto in questo romanzo è perfettamente italiano: e la lingua francese vi tiene le veci dello specchio che gli artisti sogliono mettere rimpetto a un quadro per farne meglio scorgere le proporzioni e gli effetti di prospettiva e di rilievo.
Simile al suo Massimo, l’autore si è poco occupato degli altri personaggi, li ha lasciati in lontananza, schizzati appena, macchiettine un po’ scolorite ma che non gridano punto col resto del quadro. Eppure una stonatura, una bella stonatura in mezzo a questo gamma armonioso come avrebbe fatto bene agli occhi! Quell’amante che torna dalle Indie e trova la Elisa già sposa d’un altro, quel Giulio Bardi pareva proprio venuto a posta per mettere un’ombra in tanto [186] eccesso d’azzurro! Ma si vede bene ch’egli è stato inutilmente parecchi anni nel paese delle tigri e dei serpenti a sonagli; ha meno fiele d’una colomba.
Decisamente, quando scriveva questo libro, il Gualdo o si dibatteva sotto l’oppressione di un gran dolore o era un uomo felice! O tentava dimenticare o voleva fissare coll’arte uno di quei momenti della vita nei quali si darebbe un abbraccio a tutte le persone che s’incontrano per le vie.
Amo sperare intanto ch’egli non continuerà più a tener il broncio col pubblico italiano, e che da ora in poi vorrà mantenere le belle promesse della sua Costanza Gerardi e delle sue novelle raccolte sotto il titolo la Gran Rivale, dove trovansi molte bellissime pagine che non hanno perduto proprio nulla coll’essere scritte nella nostra lingua. Il romanziere è ormai maturo: questo Mariage excentrique lo dimostra splendidamente. Lasci dunque il francese (la prova gli è riuscita così bene!) e ci racconti in italiano qualche pagina meno ideale della nostra vita contemporanea. Per un arguto osservatore come lui la realtà presenta mille soggetti pieni di passioni, di vizî, d’alte virtù, di vigliaccherie, di situazioni drammatiche e ridicole. Moderno nella forma e nell’adoperare l’analisi psicologica che ha rinnovato l’arte contemporanea, sia dunque un po’ più moderno anche nella sostanza del suo lavoro. La realtà non è altro che l’ideale che si attua. Mi pare proprio assurdo cercarlo fuori di essa.
2 Luglio 1879.
Qui siamo in piena realtà.
Nel Sacchetti la vita è presa più specialmente dal lato interno: momenti di passione o di debolezze del cuore, contraddizioni del carattere e direi quasi dell’istinto, misteri del sistema nervoso che spingono il pensiero in un mondo pieno di meraviglie, dove la scienza ha il torto di non inoltrarsi colla sua solita serenità, insomma l’uomo, organismo, cuore e un tantino anche spirito, colto in un punto veramente drammatico.
Nel Navarro le circostanze esteriori si impongono e sopraffanno l’individuo che si muove dentro di esse. Il cortile, la vendemmia, la fiera, il temporale, [188] la notte di Natale, il carnevale, tutti i minuti particolari della monotona vita del villaggio regolata come un ordegno o, se più vi piace, come una funzione animale che non ha coscienza di sè stessa: ecco il principale. Piero, Rosalia, Nunzia, Rosolino e tutti gli altri personaggi: ecco l’accessorio.
Col Sacchetti si pensa, col Navarro si sente; ma l’impressione ch’essi lasciano è egualmente vivace.
Non v’inganni quel Candaule: siamo addirittura nel mondo contemporaneo. Il nome del re di Lidia, che mostrò la propria moglie mentre usciva dal bagno al suo ministro Gige, è messo in testa al più lungo dai racconti del Sacchetti per una semplice analogia. Il Candaule moderno è un certo barone di Ruoppolo. Sua moglie, donna Virginia dei principi di Tizzano, non è meno fiera dell’antica regina di Lidia. Fa uccidere anch’essa suo marito dallo stesso uomo ch’egli ha condotto per una porticina segreta a vederla ignuda nell’uscire dal bagno: però si vendica anche più atrocemente dello infelice che, vistala in tutto lo splendore delle sue forme, ne rimane abbagliato.
La situazione, senza dubbio, è drammaticissima; ma questa figura, così tutta di un pezzo, riesce poco simpatica. E quando ce la vediamo venire innanzi collo sue lagrime di coccodrillo, proviamo verso di lei le stesse ripugnanze della madre del povero Zaverio, al quale la sua terribile rigidezza ha fatto perdere la ragione. Manca qualcosa di femminile in quel carattere di donna: lo stesso autore [189] non le vuol bene. Sembra ch’egli abbia il sentimento incosciente di un qualche difetto organico della sua creatura, e perciò tira via il lavoro tra stizzito e annoiato. Un solo momento egli si ferma a guardarla con compiacenza di artista: «Balzava fuori della sua vasca, montava ritta sopra un predellino ricoperto di un pannolino finissimo e, tutta stillante, scotendo colla soave maestà del cigno le ultime goccioline petulanti che le correvano sulla persona senza potersene staccare, si faceva buttare sulle spalle un amplissimo camice ed asciugare diligentemente. Poi ella lasciava cadere ai piedi il camice e sprigionava dalla reticella sulla curva schietta e rosea delle spalle, in anella ed in spire mobilissime, i suoi capelli di un rosso chiaro lumeggianti di oro e sfavillanti...» Ma è tutto. Questa bella creatura riesce infatti qualcosa d’artifiziato e di sforzato. In lei non apparisce il processo interiore, la naturale ragione dei suoi atti, e l’interesse che c’ispira è una curiosità superficiale, non la compassione e la simpatia.
È innegabile: nell’arte quel che più ci attrae è sempre la vita. Quando il personaggio esce perfettamente vivo dalla fantasia dell’artista la soddisfazione è completa, e non si cerca altro. Non occorrono secondi fini, intenzioni di moralità, intenzioni scientifiche, intenzioni di nessuna sorta. Il personaggio viene giustificato dalla sua esistenza stessa, come nella natura; col pregio che nel mondo dell’arte è assai meno accidentale e quindi assai più importante, che non sia [190] nella natura. Per questo riguardo la novella Riccardo il tiranno è un vero gioiello. Bettina ci si presenta fanciulla in quella casa alla barriera di Nizza, fuori di Torino, una pensione di studenti, ove Riccardo il tiranno (che impone ai suoi due amici tutte le sue abitudini, persino il dialetto lomellinese) suscitava spesso col suo Erard delle vere orgie di ballo nel cortile, a notte avanzata, con luna e senza luna, più spesso senza; nè i giovanotti del vicinato se ne lagnavano punto. Bettina ha appena sedici anni, ma pare una bimba, colla salute che le scoppia sulle guancie rotondette e delicate come pesche duracine. Non fa che apparire e sparire in una nottata di ballo, saltando dalla sua finestra nella stanza di Giovanni e di Riccardo, portata di peso da Giovanni e perdendo nel salto una delle sue scarpine; basta. La sua figura non ci uscirà più di mente. Quando la rivediamo moglie di Giovanni a Salerno, in quel quartierino ove i due amici ingegneri si sono installati alla meglio per sorvegliare i lavori d’un piccolo tronco di ferrovia preso in appalto da Giovanni, non abbiamo bisogno che di poche parole per vederla donna seria, impassibile, coi sensi che tacciono e che si sveglieranno furiosi più tardi. «Mentre i due amici fumavano beatamente e chiacchieravano, Bettina si teneva in disparte, accoccolata nel vano della finestra, la guancia appoggiata alla mano, il viso contro il vetro verdognolo, guardando la campagna allagata, il fiume torbido e gonfio che divorava le rive. Non s’intrometteva nei loro discorsi, teneva il meno posto possibile.»
[191]
Il lavoro in piena estate finisce d’ammazzare Giovanni che l’amore ha disfatto. Il male è indomabile. Bettina passa undici notti a vegliare il marito, mentre l’amico Riccardo si ritira burbero nella sua stanza per dormire tranquillamente. È in quelle notti di veglia, e mentre il rantolo del povero moribondo si fa sentire più forte, ch’ella si butta quasi inconsapevolmente fra le braccia di Riccardo. Nessuno di loro due potrebbe dire in che modo siano arrivati fin lì. Ma il lettore non se ne meraviglia. Quella creatura vive: più che col cuore, ama coi nervi, ma vive. L’effetto è così immediato che non par di leggere, ma di muoversi entro la triste realtà.
Potenza della vita! Bettina è una creatura di sensi, niente altro. Ha la spontaneità degli istinti, come un bruto, e neppur l’ombra di senso morale. Rimpetto a lei donna Vittoria di Tizzano riflessiva, colla coscienza dei più elevati sentimenti di moralità dovrebbe naturalmente interessarci di più: ma non è così. Bettina ha qualcosa che donna Vittoria non ha, la vita; e ci fa riflettere e pensare come alla baronessa di Ruoppolo rimasta un vero fantasma non riesce.
Vi ho detto che donna Vittoria di Tizzano era una siciliana? Parmi di no. Comincio a sospettare che l’averne voluto farne una siciliana abbia indotto il Sacchetti a fargli caricare le tinte e a ridurla in qualche modo una figura di maniera. Sul conto della Sicilia e dei siciliani corrono nel continente [192] delle stranissime idee. I siciliani sono su per giù come gl’italiani di trent’anni fa dei romanzieri francesi, dei siciliani di fantasia.
I veri siciliani chi li vuol conoscere li troverà nel racconto del Navarro della Miraglia La Nana. Quelli li? — ho inteso dirmi da qualcuno. — Ma somigliano proprio a noi, non hanno nulla di speciale! È una disillusione! — Non so che farvi, ma vi assicuro ch’essi sono autentici, nei più minuti particolari. Anche l’amico Cameroni non sa persuadersi in che maniera non si trovi nel libro del Navarro nè una pistolettata, nè la più piccola coltellata; e non vuol mandar giù quel Rosolino che sposa la Rosaria da lui amata, benchè sappia quel che è già avvenuto tra essa e il galantuomo Gigelli. Eppure la chiusa del racconto del Navarro è quanto di più siciliano si possa mai immaginare. La pistolettata che il Cameroni ci avrebbe voluto sarebbe stato invece un pretto convenzionalismo, e il Navarro ha fatto bene a non caderci. Se mi diceste ch’egli avrebbe potuto scegliere qualche cosa di men comune e di più interessante, sarei d’accordo con voi. Ma allora significherebbe che non avreste capito che i personaggi del racconto sono un mero pretesto, e che, sto per dire, i veri personaggi d’esso siano quel cortile del Nano così evidentemente descritto, quella fiera, quella villeggiatura al castello moresco di Floriana, quella vendemmia, quella notte di Natale, insomma tutti i soggetti di descrizione che il pennello del Navarro rende a meraviglia, con esattezza fotografica, il colorito per di più.
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Bisogna però confessare che il pretesto è dissimulato con arte: che alcuni caratteri, specie quello della vecchia mamma, son riusciti stupendamente e ch’entro quell’eccesso di descrizioni l’una accavalcata sull’altra i personaggi si muovono senza artifizio, col loro ingenuo dramma, dalla prima all’ultima pagina.
La tavolozza del Navarro, si sa, è molto ricca e qui si è sbizzarrita a suo agio. C’è in tutto il volume una varietà di toni, di gradazioni, di colori e di effetti di luce quale si richiede pel paesaggio siciliano così smagliante di tinte calde. Quel cortile descritto nel primo capitolo è una meraviglia di esattezza e di reso, come direbbe un pittore.
Il Navarro ha il senso della misura; le sue descrizioni non stancano; forse non lasciano profonde impressioni nella memoria del lettore e dileguano presto; ma nel momento della lettura hanno l’illusione della realtà.
Chi vuol conoscere la vita dei paesetti della Sicilia legga La Nana: gli varrà proprio come l’esserci vissuto un intiero anno. E la cosa può farsi in due ore, tutte di seguito, perchè col Navarro si va via di corsa e non si trovano inciampi alla lettura. Quel suo stile vivo, spigliato a periodini staccati che a molti non piace, a me, lo confesso, piace moltissimo. Dire che ha l’aria d’una traduzione dal francese è un’esagerazione, una pedanteria. Il più bello stile è quello che rappresenta con più evidenza il pensiero dello scrittore; e lo stile del Navarro, [194] se pecca per qualche cosa, è per troppa evidenza: un bel difetto. Questa trasparenza, questa limpidezza di forma è nel caso presente in perfetta armonia col soggetto: il cielo della Sicilia e i suoi paesaggi non possono essere trattati altrimenti, massime quando vuol farsi, come il Navarro, del colorito locale fino allo scrupolo.
Una sola volta in questo racconto egli si è lasciato prendere la mano da una fantasia romantica che è proprio una stonatura. Quando i due amanti sono nel castello di Floriana una sera:
« — Ho freddo, disse Rosaria.
— Beviamo un ponce, rispose Pietro.
Il servo portò un vaso di porcellana sul tavolo, l’empì di rhum e vi appiccò fuoco. Rosaria si mise a guardare con diletto la fiamma azzurra ed esclamò, battendo le mani:
— Come è bella!
Pietro disse:
— Dura poco.»
Questo ponce in verità non è niente siciliano. Sembra che l’autore l’abbia messo in iscena per far allusione alla situazione dei due amanti con quel dura poco di Pietro.
È il solo particolare che mi sembra falso.
2 Luglio 1879.
[195]
I canti popolari sono una miniera inesauribile. Quando l’artista ha finito di ricercarvi il bello, comincia a lavorarvi lo storico per cavarne documenti più veridici e più sinceri che non siano quelli scritti; e appena lo storico alla sua volta avrà terminato, ecco tosto il filologo che prende a studiarli per conto suo. La scienza del linguaggio, diventata potentissima ausiliare della storia e della psicologia, trova in essi un vastissimo campo d’osservazioni e di confronti. E per l’artista, per lo storico, pel filologo i fatti son tanti e così nuovi e così imprevisti, che ci vorrà ancora molta pazienza, molta attenzione, moltissima cautela prima si possa affermare che l’ultima parola sia detta.
[196]
Il Pitrè reca a questo grandioso edifizio di critica il suo largo contributo. Nel presente volume parecchie questioni sono, mi pare, trattate in modo da non più doverci tornar sopra; quella, per citarne una, dei canti storici popolari.
Il d’Ancona aveva negato la contemporaneità del canto popolare storico col fatto da esso narrato, dappoichè, egli diceva, nel popolo può esser rimasto anche nei tempi posteriori fresca e vivace la memoria degli avvenimenti e degli uomini ricordati dal verso. Ma il Pitrè con una serie di esempî, che lo stesso d’Ancona non ha potuto far di meno di confessare assai bene scelti ed assai validi,[36] ha invece dimostrato la contemporaneità esser uno dei caratteri fondamentali della poesia storica popolare.
Bisogna tener a mente che i poeti popolari non son degli arcadi da far della poesia a freddo, tanto per farla. La loro spontanea facoltà di racchiudere entro una forma durevole il sentimento comune si desta unicamente sotto la calda impressione del fatto. E l’impressione da essi voluta fermare nella memoria non è soltanto quella del fatto, ma più direttamente quella del suo nascosto significato. Giacchè pel popolo gli avvenimenti quanto più strepitosi tanto più hanno una ragione profonda e soprannaturale, una ragione fuori di loro. Il poeta che non è poeta per nulla, in virtù della sua qualità guarda le cose un po’ dall’alto, trascende alla sua maniera il [197] fatto e vi cerca la morale, l’unica ragione ch’esso intenda; una filosofia della storia proprio allo stato cellulare.
Supporre che un’imaginazione così limitata, così fanciulla possa essere impressionata da tutt’altro che dall’immediato, significa non tener conto della psicologia positiva, e intendere superficialmente l’intima natura del canto popolare stesso.
La situazione poetica nel canto popolare non è cercata, è, sto per dire, trovata a caso fra’ piedi. Il poeta letterato riesce spesso a far spumare la sua imaginazione, a mettere il suo sentimento in un’esaltazione premeditata, regolata, e può scrivere in questa fittizia condizione dell’animo colla stessa sincerità della commozione reale. Lo studio, l’abitudine, le raffinatezze della civiltà lo servono bene. La sua facoltà svolta, educata, resa docile come una macchina (il sentimento essendo la cosa più rimaneggiabile del mondo se l’organismo seconda) può fargli sentire delle impressioni nelle quali lo spirito, duplicato, simula l’oggetto esterno rimanendo sempre il soggetto. Ma questa emancipazione dalla natura il poeta popolare non la sogna nemmeno. In lui la facoltà è ancora in uno stato troppo materiale e primitivo, e non riesce a mettersi in moto senza che qualcosa di egualmente materiale non le dia l’aire. La sua imaginazione è vivacissima. L’impressione più immediata l’assorbe intera. Cessata l’impressione, cessa tosto l’attività di quella e il poeta sparisce.
Credere che la sola memoria degli avvenimenti [198] sia capace di far nascere quello che si chiama un canto popolare storico, è un voler supporre nel poeta popolare un’attività di creazione più elevata, più indipendente che, se fosse vera, annienterebbe ipso facto la principale caratteristica del suo canto, la popolare. E questo vale quando il canto storico si occupa di proposito d’un avvenimento straordinario, una guerra, una fame, una peste, un tremuoto, un misfatto. Quanto ai ricordi staccati, agli accenni per incidente, la cosa diventa più chiara. Il poeta di oggi parlerà piuttosto di Vittorio Emanuele o di Garibaldi, che del re Guglielmo il Buono o del conte Ruggiero; invece della Turchia, dell’Egitto, della Spagna, ricorderà più volentieri le provincie italiane che da soldato ha vedute. Tutta la sua coltura intellettuale riducendosi alla frettolosa esperienza della vita, un’esperienza limitatissima, i materiali del suo poetico lavoro, della sua creazione (se creazione mai c’è) saranno tratti unicamente da essa.
Che poi la forma di tali canti non possa mantenersi intatta a traverso i secoli, è un’altra questione. Però non mantenersi intatta significa forse mutarsi da cima a fondo? Riguardo alla sostanza storica del fatto, io credo possa affermarsene con sicurezza la contemporaneità col canto. La prova da tenersi più in calcolo è la seguente: l’accenno storico spesso non è capito da chi ripete il canto, o è grottescamente svisato. Può farsi, ne convengo, una parte più larga all’inconsapevole lavorìo della tradizione orale, ma non sino a concedere col d’Ancona che i [199] canti popolari storici nella lezione odierna siano le ultime trasformazioni di altri più antichi, dei quali conservarono la sostanza e rimutarono il dettato.[37]
Se non si trattasse di versi, le forme idiomatiche potrebbero benissimo rinnovellarsi coll’andare dei secoli nel passaggio di bocca in bocca. Ma quando la forma idiomatica è solidamente incastrata, al pari d’una pietra preziosa, nel gioiello dell’ottava, la cosa è più difficile, quasi impossibile. Credo anzi che ricercando nei documenti scritti le forme idiomatiche più particolari d’un secolo, si potrebbe riscontrarle poi nei canti popolari, e farne una regola quasi sicura per assegnar loro la data.
Nel caso particolare del dialetto siciliano, che queste sostituzioni idiomatiche debbano esser molto rare, lo prova il Pitrè coi monumenti di dialetto scritto a cominciare dal 1153 e scendendo giù giù fino al secolo scorso. Il d’Ancona non ne rimane soddisfatto, e chiama un tal procedere poco rigorosamente scientifico. Ma, col rispetto dovuto ad un uomo così competente in simili materie, qual altro rigore scientifico, domando io, potrebbe portarsi nella questione? L’atto pubblicato dal Morso nel Palermo antico a pagina 408, la carta feudale esistente nella Biblioteca comunale di Palermo, le cronache di frate Atanasio di Aci nel 1287, il Ribellamento di Sicilia contro re Carlo, cronaca della fine del secolo XIII, il Contratto matrimoniale del La Grua nell’archivio di [200] Carini del 1543, ecc., sono, sì o no, documenti valevoli da potervi poggiar su una dimostrazione? E perchè no? Ora in essi la maggior differenza riducesi alla grafia; e il d’Ancona sa meglio di tutti che la grafia deve contar assai poco finchè l’uso non ne abbia fissato definitivamente le norme.
Questo però non vieta di riconoscere che tra i canti popolari non se ne sia introdotto di traforo qualcuno che con tutta la sua bella caratteristica di storico, non abbia nessun diritto alla patente di popolare e di contemporaneo del fatto. Le acque dei canti popolari non sono così pure come paiono a prima vista, e ci vuol naso fino ed occhio desto per non lasciarsi ingannare. Nei secoli XV e XVI, per esempio, si mescolò in Sicilia al prodotto della letteratura popolare spontanea una parte del prodotto letterario riflesso per via di quel nugolo di canzonieri pubblicati dal Sanclemente nelle sue Muse siciliane. Il popolo, è vero, correggeva subito la forma troppo letteraria del testo adottato; dava un’aria più spigliata ai versi, staccandoli uno per uno col mezzo di felicissime ellissi o di qualche lieve trasposizione di parola; ma ciò non toglie che il canto, con tutte le sue varianti, non debba dirsi letterato. Quello che è accaduto coi canti erotici o d’argomento diverso, può facilmente esser anch’avvenuto cogli storici, quando il canto si restringe alle proporzioni dell’ottava e più che una narrazione è o il giudizio o la viva impressione d’un fatto. Di questo genere, se non m’inganno, parmi il canto che celebra l’entrata [201] trionfale di Carlo V in Palermo. Volendo essere molto indulgente dovrei pure assegnare a questa categoria le due ottave che parlano del Vespro siciliano, e l’altra che accenna i tempi, dolorosissimi per l’isola, di Vittorio Amedeo e di papa Clemente XI. Ma intorno a questi dirò più schiettamente la mia opinione: li credo, specialmente l’ultimo, tre pastiches. Se si volesse in sostegno di essa un argomento di fatto, non saprei davvero da dove cavarlo. Però tutti coloro che per la lunga pratica sono entrati molto innanzi nella conoscenza della forma popolare dovrebbero degnarsi di darle un po’ di attenzione.
La poesia popolare non si distingue dalla letterata unicamente per un più facile abbandono di forma, per una maggiore vivacità di colorito, per le frequenti assonanze, pel disordine lirico. Nel suo entrare in argomento, nello spiegarsi e muoversi del concetto, nelle transizioni, nelle slegature, nelle proporzioni, è facile scorgere una precisa arte poetica quasi anticipatamente fissata, dalla quale il vero poeta popolare non si scosta mai. Chi ha ben studiato i canti popolari riconoscerà subito la verità della mia osservazione. Ora, è appunto lo schietto stampo di concezione e di forma popolare quello ch’io non trovo nei tre canti accennati. Mi guardo bene dal metter in dubbio la buona fede di chi li ha raccolti; ma finchè non avrò in mano delle prove più concludenti, nessuno mi leverà di capo non si tratti d’una soperchieria letteraria.
Come documento di storia, il canto storico popolare [202] non va accettato a occhi chiusi. Più che documento d’un fatto, esso può dirsi la testimonianza del sentimento popolare di quel fatto. La qual cosa, se implica la sincerità, non dà nessuna guarentigia sulla giustizia di quello. Lo storico futuro che volesse affidarsi al canto popolare raccolto dal Pitrè a Torre, casale presso Riposto, porterebbe intorno agli ultimi giorni della rivoluzione siciliana del 1848 un giudizio fallace di cui Palermo non sarebbe niente allegra. «È provato, dice a questo proposito il Pitrè, che quando la poesia (popolare) canta fatti particolari o, come suol dirsi, d’interesse puramente locale, la passione entra subito a turbar l’imparzialità che tanto bene si riscontra nella poesia celebratrice di avvenimenti generali a tutta l’isola.
»Il popolo non guarda al di là del proprio campanile, e se ha a giudicare dal mondo esterno, dai fatti e dalle cose lontane, egli ne giudica alle sua maniera, per sentito dire, condannando, come nel caso nostro, coloro che non condividono o partecipano ai suoi dolori; egli si rassegna nella sentenza che il mal comune è mezzo gaudio. E da questo viene che i canti popolari riguardanti i nostri paesi, anche ricordando i fatti, non possono guardarsi con quella serietà che richiamano i canti a fondo storico.[38]»
Ma anche questi, aggiungo io, non son tutti vangelo nei particolari. Il poeta popolare sarebbe davvero poco poeta se non li svisasse per conto suo, [203] ora di buona fede, ora per ignoranza, ed ora per comodo del lavoro. In arte, del resto, gli scrupoli son fuori di posto, e la poesia popolare, chi lo ignora? ne ha pochi o punti.
Uno degli scritti più importanti del presente volume è lo studio intorno a Pietro Fullone e le sfide dei poeti.
La tradizione popolare ripete in Sicilia tre o quattro nomi di poeti che lo storico non sa dove trovare, o non riesce a metter d’accordo coi personaggi reali. Chi fu il Dotto di Tripi? Chi il Vujareddu di li chiani? Nessuno finora ha potuto indovinarlo. In che modo il Pietro Pavone e il Pietro Fullone della tradizione si trovano gli opposti del Pavone e del Fullone della storia? C’è qui tutto un curioso processo d’idealizzare che bisognerebbe ricostruire a forza d’analisi per intenderlo meglio.
Il Fullone del popolo è un cavapietre, buontempone, arguto, malizioso, sarcastico, sguaiato, osceno, religioso, accattabrighe e, per giunta, ignorante. Vissuto da capo scarico, fa la fine d’un anacoreta. Il Fullone che appare dai numerosi volumi messi a stampa è un uomo evidentemente assai colto, intinto di scolastica e di teologia, amico di moltissimi dotti contemporanei, dai quali riceve distici latini, epigrammi, sonetti in lode dei suoi poemi; un uomo che sa a menadito la storia e la mitologia, che imita bene i classici, che maneggia con arditezza lo stile, ora tenendolo in un tono mediano tra lo artifizio e la naturalezza, ora abbandonandolo a tutte le capestrerie [204] delle metafore, dei concettini, delle iperboli, come conveniva per meritarsi l’onore d’accademico Racceso. La leggenda cominciò a quel che pare troppo presto. Il Galeani-Sanclemente, un contemporaneo, non teme di chiamarlo mostro e di affermare che in tutta l’età sua non ebbe studiato giammai cosa alcuna o di umanità o di scienze. Il Mongitore ripete la medesima cosa; poeta senza lettere ma di grande ingegno, lo dice l’Auria. Mettendo in riscontro queste asserzioni così recise coi poemi a stampa del Fullone, si rimane in fra due: o il Galeani-Sanclemente, il Mongitore, l’Auria, incapaci di giudicare col proprio cervello, ripeterono pappagallescamente una falsa opinione volgare, o vollero farsi beffa dei loro contemporanei e dei posteri. Non c’è via di mezzo.
Il lavoro del Pitrè, condotto con moltissima diligenza, mette fuori di questione il Fullone storico. Come e donde è nato intanto il Fullone dei canti popolari? Non abbiamo alcun dato per rispondere con prove lampanti. Però difficilmente potrà venir confutata l’opinione del Pitrè che nega ogni relazione di somiglianza fra i due Fulloni. Egli giudica questo nome appiccicato a casaccio ad una delle tante figure poetiche e comiche create dal popolo per rappresentarvisi meglio con i suoi umori ed amori; e ritiene preesistenti da secoli al Fullone tutte o quasi tutte le canzuni che la tradizione gli attribuisce.
Cosa strana! Queste canzuni così celebri sono di un valore poetico assai meschino. Giuochi di parole, indovinelli, interpretazioni di dubbi tirate proprio [205] pei capelli, qua e là qualche motto sudicio o sguaiato, ecco tutto il tesoro poetico del Fullone conservato dal popolo! L’affetto, la fantasia, i due grandi elementi d’ogni creazione poetica, non vi si scorgono punto. Per quale attrattiva hanno esse meritato dunque il grandissimo onore della popolarità? Pei loro difetti, io credo.
Qui verrebbe innanzi un problema che gli studî più accurati e i confronti cominciano a mettere in evidenza. Qual’è nelle poesie popolari la parte che spetta veramente ai poeti del popolo, agli analfabeti? Io confesso un mio timore. Temo che il meglio di esse non debba da qui a poco scoprirsi popolare più per adozione che per diritto di nascita. Ciò che vi è di gentile, di tenero, d’affettuoso, di vigoroso, d’imaginoso accusa (sempre a mio parere), una provenienza più colta. Si presti attenzione a ciò che gli analfabeti viventi sanno produrre, a ciò che il popolino più predilige ed ammira. Poesia bassa; morale in versi; sforzo d’acuzie, come nelle poesie attribuite al Fullone; il sentimento della poesia cercato nella difficoltà materiale della rima obbligata o nel concetto stillato a guisa d’indovinello; il gusto del popolo non vuol altro. Che i piccoli capolavori della poesia popolare non siano davvero suoi?
Ecco un soggetto di nuovi studî. Il Pitrè è più di ogni altro nel caso di riuscire in questa impresa. Non gli manca nè la padronanza del soggetto, nè la dirittura dei criterî, nè la pazienza amorosa.
8 Gennaio 1873.
[206]
Quello che fa differire essenzialmente la poesia antica dalla moderna è il sentimento più vivo e più intimo della natura. E ciò apparirà sempre più chiaro di mano in mano che la scienza dei linguaggi comparati e l’interpretazione delle mitologie (le quali si danno oggi la mano per arrivare a un mirabile sistema di spiegazioni dei misteri dell’antichità) permetteranno d’assistere in qualche modo al sublime lavorìo di quelle fantasie primitive, che da piccole relazioni di cose con cose, da fanciullesche ignoranze, da storpiature di motti, da intuizioni sorprendenti, da tradizioni sconvolte traevano luce di meravigliose creazioni. Più questi studi dei linguaggi [207] e delle mitologie allargheranno il campo delle loro penose ricerche; più si conosceranno le fila, ora appena percettibili, che formano il tessuto di varie letterature e lo uniscono insieme con misteriosi legami dei quali osiamo appena sospettar l’esistenza, e maggiormente noi potremo penetrare le interne fibre di quelle titaniche opere, monumento imperituro di generazioni da lunghi secoli scomparse.
Io non nego che questo poterle osservare più da vicino diminuirà in qualche guisa la loro grandezza estetica e toglierà loro quel deliziosissimo fascino che le circonda al presente. Ma i disinganni dell’imaginazione saranno compensati dall’utile della scienza. Giacchè da questo studio verranno fuori una perfetta conoscenza dello spirito dell’antichità, un rimaneggiamento della storia del pensiero umano, la chiave infine di mille misteri psicologici e storici intorno ai quali si affaticano la filosofia e la scienza positiva nei loro campi speciali.
La poesia primitiva, pel suo intimo e vivo sentimento della natura, non rimaneva un fatto individuale, una produzione a parte come si ridusse tardi anche nella stessa antichità e come la vediamo al presente, che sembra già arrivata agli estremi momenti. La fantasia dominava da regina assoluta su quelle generazioni esuberanti di vita dotate d’un’esistenza che poteva dirsi una prolungata sensazione, o una serie non interrotta di sensazioni possenti; e la natura, ancora giovane e forte, messa al contatto con esse, esercitava su loro un’irresistibile azione. Si combinino [208] insieme tali misteriose impressioni, i frammenti sempre mutabili delle tradizioni remote, il lavorio attento ed operoso degl’istinti che cominciavano ad educarsi, delle facoltà che destavansi e agitavansi alla scomposta ma con moto prepotente, l’infinito mescolarsi di sogni che diventavano realtà, di realtà trasformantesi in sogni, e l’alternarsi perpetuo di questa grande farragine fluttuante irrequieta nelle menti di generazioni nomadi e spensierate; s’aggiunga a tutto ciò l’oscuro incrociarsi delle razze, il dilatarsi ignorato delle conquiste, le inevitabili e possenti modificazioni recate dai luoghi, dai climi, dalle relazioni di vicinanza, dai commerci, dai viaggi; e potremo formarci appena un’idea da qual caos vasto e profondo sia uscita l’antica poesia, e oseremo appena emettere alcune ipotesi, e stabilire dei punti per basi di giudizî, di induzioni, di confronti. Se noi avessimo qualche opera poetica delle prime età; se per mezzo d’essa potessimo istituire paragoni colle creazioni delle letterature posteriori, forse ritroveremmo un anello di quell’interrotta catena di tradizioni che la scienza dei linguaggi comparati si sforza, per quanto è possibile, di riannodare. Potremmo così conoscere le successive trasformazioni d’un’idea, indovinare il perchè delle diverse forme già assunte, e sviluppare da esse un’identità di concezione difficilissima, forse impossibile, a rinvenire tra miti che ci paiono affatto disparati e non sono.
Dopo la lettura del Giobbe infatti noi siamo spinti [209] naturalmente a domandarci: Questo remotissimo capolavoro della mente dell’uomo è un monumento solitario? O possiede rapporti che l’uniscono a qualcuna delle tante leggende dell’antichità? Ma la critica non è nel caso di darci una risposta precisa; e bisognerà ancora attendere gli ultimi risultati degli studi sull’Oriente, non essendo improbabile che fra i canti popolari degli Arabi del deserto se ne possa rinvenire qualche forma o qualche frammento primitivi.
Pochi già vorranno discutere sul serio intorno alla verità storica del dramma o poema di Giobbe; e nessuno che non sia un fanatico arriverà alle aberrazioni dello Schultens, il quale credeva talmente all’identità di quei discorsi da rispondere, a chi gli obbiettava la fattura metrica del poema, che non era strano concedere agli Arabi la facoltà di ragionare lungamente in versi. La compilazione presente accusa tre principali rimaneggiamenti, senza parlare degli spostamenti innumerevoli dei versetti, e della confusione nei discorsi dei personaggi. I primi due capitoli e la conchiusione, scritti in prosa, non appartengono evidentemente alla redazione del resto dell’opera che è in versi; ma per la semplicità e rapidità dello stile sembrano anch’essi cosa antichissima. In quanto al discorso d’Elihu l’interpolazione è evidente. L’Eichhorn lo aveva sospettato; Sthulmann nella sua traduzione lo lasciò fuori del testo, e ad una strana ma ingegnosa ipotesi ricorse il Voigtlaender per sostenerne l’integrità. Le tradizioni [210] rabbiniche finalmente confermano anch’esse questi rimpasti successivi, attribuendoli a certe esigenze sacerdotali, che hanno rapporto colle dottrine segrete della Sinagoga. Riguardo al concetto, è difficile affermare con piena certezza se questa leggenda abbia subìto quel popolare elaboramento che suol precedere la nascita di tutte le grandi creazioni poetiche. Il suo gigantesco disegno, e l’universalità dell’idea che la informa sono però tali da farci inclinare verso l’opinione d’un lento e successivo esplicarsi. Le varie redazioni hanno intanto modificato la primitiva natura di quest’opera? Giobbe fu in origine un poema epico o un poema drammatico? È un predecessore dei drammi dell’India e della Grecia o delle immortali narrazioni sacre ed eroiche di queste due remote civiltà? Anche qui ci troviamo ridotti alle ipotesi, senza un barlume che rischiari la via, se pure non vogliamo ritenere come tale una tradizione rabbinica che lo afferma scritto nella forma drammatica. L’Heider nei suoi dialoghi sulla Storia della poesia ebraica s’era indirizzato questa domanda ed aveva risposto negativamente. Nel Giobbe, egli dice, manca affatto l’azione, e tutto si riduce ad una discussione di sapienti. Il Lowth prima di lui[40] l’aveva paragonato ai due Edipi di Sofocle, e trovatolo anch’esso privo affatto d’azione, erasi dichiarato contro l’opinione che lo ritiene un’opera drammatica. Però le ragioni [211] da lui addotte sono d’una così meschina pedanteria (Prælect. XXXIII.) che non hanno alcun valore. Primieramente non è buon processo di critica il paragonare due opere d’epoche diverse e mettere il perfezionamento della seconda come punto di partenza. Poi, se nel Giobbe non trovasi tant’azione quanto nei due Edipi di Sofocle, ce n’è però quanto nel Prometeo d’Eschilo, il quale non cesserà per questo dall’essere una tragedia. E non parliamo delle opere di Tespi, di Frinico e di Cherile alle quali bisognerebbe ricorrere per istituire un confronto che infine mi sembra perfettamente ozioso.
L’azione del Giobbe è abbastanza interessante e grandiosa da racchiudere in sè tutte le caratteristiche d’un poema drammatico.
Il prologo d’esso è così bello che Goethe non volle far altro che copiarlo per metterlo in testa alla sua tragedia del Fausto. Vero è che il resto, come notò l’Herder, si riduce ad una discussione di sapienti; ma questa discussione ha però tanto che la fa uscire dalla freddezza dei ragionamenti ordinarî. Giobbe ed i suoi amici non sono raccolti innanzi alla porta della città o all’ombra amica d’un palmizio per trattare la questione filosofica o teologica dell’origine del male. La scena ci presenta un uomo colpito d’una sequela d’immense sventure. I suoi uomini uccisi; la sua famiglia distrutta; il suo corpo inverminito per una lebbra puzzolentissima. Gli amici venuti a consolarlo, alla vista di sì grande sciagura, hanno stracciato le loro vesti, si sono coperti di cenere, sono stati sette [212] giorni e sette notti senza profferire una parola, talmente il dolore dell’amico è parso ad essi eccessivo.
Appena Giobbe prorompe nelle sue maledizioni, ed ecco le atroci consolazioni degli uomini. Elifaz di Theman, un sacerdote, gli rivelerà con crudele ironia le dottrine d’uno stoicismo degradante che arriva a proclamare fin la imperfezione di Dio a causa dell’imperfezione delle sue creature. Baldad di Sueh lo rinvierà alla tradizione e gli farà credere ch’egli è un empio giacchè Dio lo ha castigato. Sofar di Naama rincarerà la dose d’ambidue, in guisa che Giobbe disperando del conforto umano si rivolgerà a Dio direttamente. Nulla è più sublime di questa difesa dell’umanità innanzi al suo creatore. Gli amici di Giobbe però replicano. Elifaz lo chiamerà eretico; Baldad tornerà a dirlo un empio, un peccatore a cui Dio ha scombuiato la mente; Sofar metterà avanti la dottrina della giustificazione attuale. Ma Giobbe spezzerà la maschera delle loro ipocrisie, rispondendo a tutti con una fierezza senza uguale. Però la battaglia non finirà lì. Quelli torneranno un’altra volta all’assalto; un’altra volta Giobbe li respingerà quantunque colmato dalle loro scomuniche: e volgendosi finalmente al cielo: Chi mi darà chi mi ascolti? esclamerà. Ecco il patto che io segno: che l’Onnipotente mi risponda e ch’egli scriva il mio atto d’accusa, come farebbe un uomo incaricato d’intentarmi una lite. Io porterò questi fogli sulla mia spalla come si porta una decorazione. Io mi farò annunziare a [213] Lui, e m’avanzerò verso Lui come verso il mio principe. Allora Dio entra in mezzo. Giobbe è giustificato e ai suoi amici vien ordinata la purgazione d’un sacrificio.
Questa, in brevi parole, è tutta l’azione del Giobbe; e sarebbe più che sufficiente per far accordare ad un’opera così primitiva l’attributo di drammatica, se potesse con qualche fondamento venir provata la veracità di questa forma originaria. Era dunque opportuno che il signor Leroux avesse accennato le fonti della tradizione rabbinica e l’autorità di esse per non far rimanere la questione al punto in cui trovavasi prima di lui, cioè d’un’opinione meramente personale. Accettando anche ad occhi chiusi tale tradizione, la divisione d’atti e di scene, ch’egli ha voluto adottare non potrà mai capacitare nessuno. Certamente il signor Leroux, immerso nella profonda considerazione del concetto filosofico e religioso del libro, occupato nella critica filologica d’ogni versetto, non poteva guardare tanto per la sottile queste inezie di forma letteraria; ma il rétabli del frontispizio doveva fargli prevedere una osservazione così ovvia. Egli infatti sembra un uomo che non abbia mai aperto un libro di cose teatrali; giacchè l’occhio stesso l’avrebbe ammonito del meccanismo che presiede alla divisione delle scene, e gli avrebbe insegnato che invece di cinque atti e di novantaquattro scene bisognava mettere atto unico; e, dopo il prologo, due sole divisioni di scene, la prima al cominciare delle maledizioni di Giobbe, [214] l’altra all’apparire di Jeova verso la fine. Se il Leroux avesse voluto fare della sua traduzione una cosa esclusivamente letteraria, gli si sarebbe potuto rimproverare anche quell’importuna interpolazione di commenti nel testo che rischiarano, è vero, ma spesso distraggono e annoiano. Se non ci rinviasse alla sua opera in corso di stampa (Les Mystères de la Bible) sarebbe stato giusto domandargli con che fondamento attribuisca l’opera del Giobbe al profeta Isaia.
Quello di cui veramente si deve saper grado al traduttore francese è la parte critica nell’interpretazione e nella collazione del versetti. Dal capitolo 21 sino alla fine, moltissime sono le trasposizioni da lui praticate le quali tutte rendono al testo quella chiarezza sin oggi desiderata invano dai traduttori e commentatori d’ogni sorta, cominciando dai Settanta e da S. Girolamo fino ad Ernesto Rénan che credo l’ultimo. «Io non ho trovato il bandolo dei diversi dialoghi di questo libro; ma sento che le descrizioni della natura, e le sue nobili e semplici parole sulle qualità di Dio e sul suo impero universale elevano l’anima.» Così scriveva l’Herder; e soggiungeva: «I versi d’esso possono essere paragonati a delle perle tirate su dal fondo del mare, negligentemente infilate, ma preziose.» «Il Giobbe è il primo dramma del mondo, diceva Byron, o forse il poema più antico. Io ho avuto l’idea di comporre un Giobbe, ma il soggetto mi è parso troppo sublime. Non vi è poesia che possa venir paragonata a [215] quella di questo libro![41]» Voltaire, che pure lo leggeva spesso, lo chiamava un ammasso di galimatias! Oggi però nel modo con cui il signor Leroux ce lo presenta colla sua chiara ed assennata interpretazione, il libro di Giobbe ripiglia la primitiva grandezza. Forse non tutte le interpretazioni anderanno al verso di tutti, e molte parranno stirate con troppa sottigliezza, massime quelle che (secondo il traduttore) contengono la chiave di tutto il mistero del libro.[42] Ma di ciò non saprei nè voglio punto occuparmi.
10 Febbraio 1867.
[216]
Conobbi l’Aleardi a Firenze nel 1865, in casa della Giannina Milli, ove egli soleva andare quasi ogni sera. Al primo vederlo, non riusciva simpatico. Pareva troppo pieno di sè e dava ragione alla feroce ironia del Rapisardi:
Altero e bello
Ne la modestia sua con misurato
Passo s’inoltra; e benchè svelto e lieve
Scivoli sopra i piè, pur non sostenne
L’arguto calzolar, ch’ei non proceda
Senza un qualche rumor: però ch’ei volle
Sotto al tornito stivaletto, a cui
Rodope stessa invidierebbe, un nido
Porre di crepitanti e scricchiolanti
Genî, che possan dire anche ai lontani:
Ecco il nume, adorate![44]
[217]
La stessa impressione n’ebbi le poche volte che volli assistere alle sue lezioni di estetica all’Accademia di belle arti. Egli entrava nella sala con un’aria severa, quasi solenne, tenendo in mano il quaderno della lezione da leggere arrotolato e legato con un nastrino di seta a colore. La sua declamazione non era teatrale, ma faceva scorgere una grande preoccupazione dell’effetto, massime verso la fine. Il testo della lezione aveva anch’esso una stretta finale per strappare l’applauso. Insomma l’incesso, la declamazione, il contenuto dello scritto mostravano qualche cosa d’affettato, di ricercato, di lezioso che non lasciava nell’animo una buona impressione del suo carattere. Per molti che al pari di me lo conobbero soltanto di vista, l’Aleardi non fu altro che un superbioso: lo chiamavamo l’olimpico.
Confesso sinceramente che la lettura del suo Epistolario mi ha fatto comparire dinanzi una persona assai diversa e, sopratutto, assai migliore.
Le lettere non mi paiono un gran che, nemmeno dal lato dello stile. Le poche che riferisconsi alla missione a Parigi nel 1848 per la repubblica di Venezia mostrano l’impaccio d’un diplomatico improvvisato: le altre su per giù sono quali avrebbe potuto comporle qualunque buon borghese d’ordinaria coltura. Ma si capisce che furono scritte senza mai pensare ai futuri raccoglitori di epistolarî, e la loro bonarietà borghese piace pel contrasto che produce con quell’Aleardi di maniera [218] che anche le sue poesie han contribuito a foggiare nella mente di molti.
Per questo è da biasimare l’affrettata compilazione della raccolta. Evidentemente manca il meglio, manca tutto quello che riferiscasi alla vita intima del poeta. Non c’è nessuna indiscrezione, e ne avrei volute parecchie. Le indiscrezioni intorno a un uomo come l’Aleardi che ha occupato un bel posto nella nostra letteratura contemporanea non sarebbero state dei pettegolezzi, ma dei documenti. E dei documenti quanti più assai ce n’è, tanto meglio. L’uomo e l’artista non dobbiamo ritenerli due esseri così perfettamente separati che l’uno non abbia rapporti di sorta coll’altro. Anche quando accade questa specie di dualismo (se ne conoscono degli esempî) il documento è sempre prezioso per la scienza psicologica che studia i fenomeni dello spirito umano nelle sue manifestazioni reali, e non dietro inconcludenti idealità. Quella che altri, un po’ leggermente, ha chiamato letteratura indiscreta può avere, ne convengo, i suoi inconvenienti sociali, ma non è da dispregiarsi, se si vorrà uscire una buona volta dalle vacue generalità che sono la peggiore piaga della nostra letteratura. Abbiamo su questo conto una puerile verecondia. Temiamo d’impicciolire la statua colossale d’un grande uomo fino alle proporzioni naturali; siamo preoccupati di conservargli la posa ch’egli prendeva al cospetto del pubblico. Ci parrebbe una profanazione il far sapere alla gente che, per modo di dire, un grande [219] romanziere e poeta abbia avuto nella sua vecchiaia delle debolezze per la sua serva.
Perciò tutte le nostro fisonomie letterarie prendono una forzata rassomiglianza, un carattere accademico. E l’abitudine a queste sbiadite figure è in noi così inveterata, che quando i documenti non mancano e soltanto occorrerebbe metterli insieme e farli valere, non ne sentiamo più il bisogno e ci contentiamo di tirare innanzi per la solita via. È tanto comoda!
Il ritratto dell’Aleardi bisognerà forse rifarlo se i più intimi ed importanti documenti potranno venir pubblicati. Intanto m’ingegnerò di trar profitto del poco che si sa per presentarne ai lettori un abbozzo il meno imperfetto che sia possibile.
Delle famiglia Aleardi si trovano antichi ricordi nelle memorie veronesi.
Un ramo di essa ebbe il titolo di conte e dominò su Sanguinetto ed altri luoghi. Un Aleardo degli Aleardi fu nel 1387 eletto Capitan generale per trattare coi Milanesi la cessione della città; poi nel 1404, da Francesco di Carrara, Capitan generale di tutte le sue truppe a piedi ed a cavallo. Nel 1405, quando Verona si diè alla repubblica di Venezia, egli fu uno dei patrizî che consegnarono le chiavi ai delegati veneti e domandò ed ottenne per la sua patria la conferma dei privilegi cittadini.
[220]
Io non so se la famiglia del poeta discenda dal ramo di Sanguinetto. Nei documenti ufficiali che ho sotto gli occhi, il padre di lui non prende mai il titolo di conte.
Aleardo Aleardi fu battezzato col nome di Gaetano-Maria, figlio naturale del signor Giorgio Aleardi e della signora Maria Canal, come risulta dall’atto di battesimo dell’Archivio parrocchiale del Duomo. Era nato il 4 novembre 1812 alle ore 11 del mattino.
Non si mostrò un fanciullo precoce. Nel collegio di Sant’Anastasia i suoi compagni lo soprannominarono talpa per la tardezza d’ingegno, la svogliatezza di studiare e per l’indole taciturna.
Ma un giorno, quasi ad un tratto, l’intelligenza gli si aperse; si sentì trasformato. Quello che impediva nel suo organismo lo spedito funzionare del cervello era stato vinto, non si sa come. I versi di Virgilio esercitavano sopra di lui un benefico fascino, e ben presto i suoi progressi furono così rapidi da sbalordire maestri e colleghi. Il fenomeno non è insolito. Ho conosciuto un dottore al quale era accaduto nella sua fanciullezza un identico caso.
Andato a studiar diritto nell’Università di Padova, l’Aleardi si appassionò per la storia naturale e per la botanica, come si era appassionato per la chimica sotto la direzione del Zamboni. Fu uno studente serio, raccolto; la scolaresca già lo rispettava come un personaggio. Alcuni versi di lui andavano di bocca in bocca. Dopo molti anni, egli ricordava [221] ancora con compiacenza certe strofe che i suoi amici avevano il coraggio di chiamar ode.[45]
Cantiam la patria. È un gelido
Silente cimitero;
Ondeggia innanzi il portico
Un drappo giallo e nero...
. . . . . . . . . . . . .
Un commissario di polizia lo avvertì di smettere e di far senno. Non era la prima volta che l’Aleardi compariva innanzi a lui. L’altra volta, avendo smarrito una mazza elegante sul pomo della quale erano incisi una corona regale e il motto Regno d’Italia, egli era stato invitato a presentarsi ad un ufficio di polizia.
— È vostra? gli domandò brusco il commissario, mostrandogli la mazza.
— Sì, rispose l’Aleardi senza scomporsi.
— Che significano questa corona e questa leggenda?
— Sono un ricordo della prima moneta che mi capitò tra le mani.
Il commissario parve appagarsi della risposta, ma lo notò nella lista di quelli da tenersi d’occhio. Il Prati, il Gazzoletti, il Fusinato suoi compagni d’Università trovavansi già scritti su quel libro nero.
Ottenuta la laurea, l’Aleardi cominciò la pratica dell’avvocatura nello studio del Grassotti, una celebrità del foro veronese di allora. Cavilloso e [222] con pochi scrupoli nella scelta dei mezzi, il Grassotti non era niente adatto ad incoraggiare la poca voglia di far l’avvocato che quegli aveva. All’Aleardi ripugnavano gl’intrighi, i mezzucci, lo gherminelle curiali; e il Grassotti invece ci godeva e c’ingrassava. Allora, quasi per meglio persuadersi che l’avvocatura non fosse professione per lui, l’Aleardi entrò nello studio d’un altro avvocato. Aveva già perduto la mamma e il babbo, doveva provvedere al suo avvenire e a quello della sorella Beatrice; perciò prese gli esami di libera pratica. Il governo, col pretesto della legge che regolava il numero degli avvocati, gli negò il permesso di esercitare in Verona l’avvocatura, e così lo spinse a ritornare agli studi letterarî e alla poesia.
La sua riputazione comincia dal 1845 colla pubblicazione delle Prime storie. Le Lettere a Maria precessero di poco i rivolgimenti del 1848.
La polizia aveva già arrestato il Manin e il Tommaseo che avevano avuto il coraggio di domandare delle riforme al governo. L’Aleardi, amicissimo del Tommaseo, fu consigliato di allontanarsi da Verona per non incorrer la stessa sorte. In quei giorni nessuno era sicuro la sera di svegliarsi ancora in casa propria la mattina appresso. L’Aleardi andò in Roma da dove pareva venisse il movimento della nuova vita italiana. Era appena arrivato, che sopraggiunsero le notizie dei fatti di Milano e di Venezia. Aveva chiesto un’udienza al Papa, ma non badò ad attenderla. Corse a presentarsi al Manin, che lo mise nella [223] Consulta di Stato, e poi lo mandò a Parigi col Gar per ottenere dal governo provvisorio francese il riconoscimento della Repubblica veneta. L’Aleardi non si lasciò ingannar dalle belle parole dei ministri francesi, e quando la Venezia si diè a Carlo Alberto, sollecitò di esser richiamato dall’inutile ufficio. In quei tempi era un po’ repubblicano; le cose d’Italia non andavano secondo i suoi desiderî: quelle di tutta Europa, dall’altra parte, non potevano fargli coraggio e dargli buone speranze per l’avvenire. Ci fu un momento, dopo il due dicembre, ch’ebbe persino l’idea di andarsene in America. Comperò alcuni lotti di terreno nel Texas vicino alla città di Sant’Antonio, ma l’amor della sorella e la carità del luogo nativo, com’egli scrisse più tardi all’Alvergna[46] lo fecero smettere dal progetto di andar a fare laggiù il coltivatore di cotone.
Ritornò in Italia traversando la Germania. Nel viaggio smarrì, con altre carte, il primo canto di un poema drammatico il Mosè, che forse doveva esser dedicato a Pio IX. L’Aleardi fu dei pochi che non s’ingannarono sul conto di questo pontefice allora portato ai sette cieli dai giobertiani di buona fede e da tanti altri illusi. Ma questo lo consolava poco dei disastri italiani. Da Firenze, ove il Giusti, il Capponi, il Viesseux tentarono di confortarlo, corse a Bologna la vigilia del bombardamento di quella città. Poi, quando le sventure della patria giunsero al [224] colmo e l’Austria spadroneggiava nuovamente nello provincie lombardo-venete, l’Aleardi tornò a Verona con un atto di coraggio che onora il suo cuore. Trovavasi a Genova. Un vecchio amico, che era stato anche suo tutore, voleva rivederlo prima di chiudere gli occhi per sempre, e già si sentiva morire. L’Aleardi non esitò un momento e corse fra le braccia dell’agonizzante.
La polizia finse di non accorgersene: lo lasciò tranquillo, ma quando cominciarono i processi di Mantova si ricordò di lui. L’Aleardi non era stato un cospiratore nel vero senso della parola. Il suo nome non si trova inscritto nei registri di nessuna setta. Pare non intervenisse alle riunioni politiche che avevano luogo in casa del dottor Maggi e del Donatelli, ma cooperò a trovar soscrittori al famoso prestito di Mazzini che costò tante vittime. L’Aleardi fu arrestato col Montanari, col Cesconi, col Gaiter, col Murari e parecchi altri; poi fu trasportato dalla caserma di S. Tommaso di Verona alla Guardiola di Mantova. Quando la sorella e il cognato avvocato Gaspari ottennero il permesso di visitarlo, era livido, col viso rigonfio; faceva pietà. Il generale Culoz che aveva in pregio l’ingegno dell’Aleardi non voleva crederci, e lo visitò lo stesso giorno.
— Son meravigliato di vederla qui, gli disse il generale.
— Ed io più di lei, rispose l’Aleardi.
Trascorsero sei mesi di vera agonia. Tazzoli, [225] Speri, Montanari erano stati impiccati: la stessa sorte potevano incorrere lui, Gaiter e gli altri. Ma il 18 marzo del 1853 i prigionieri furono improvvisamente condotti in piazza S. Pietro, ove l’Auditore imperiale lesse loro il decreto di grazia fra le grida dei soldati che urlarono fifa imperatore! I liberati risero molto di quel fifa: in dialetto veronese significa paura.
L’Aleardi tornò agli studî, dimorando quasi sempre in campagna per evitarsi noie dalla polizia. Le città italiane marinare e commercianti (1856), Raffaello e la Fornarina (1857), Un’ora della mia giovinezza (1858) e altre poesie minori servirono a diffondere il suo nome e ad aumentare la sua fama di poeta.
Arrestato nuovamente nel 1859 e, dopo la battaglia di Solferino, internato nella fortezza di Josephstadt, fu rimesso in libertà appena firmata la pace di Villafranca. Prese stanza in Brescia, in un palazzino moderno, ricco di luce e circondato di verde, e vi stette triste, annoiato, «facendo il selvaggio e non andando in nessuna casa che con rarissima inciviltà.[47]» «Passo, scriveva ad un’amica, dei giorni faticosi, oppressi, in cui l’animo pena a respirare; pare che il mio spirito sia côlto di tisi, nuota nella incapacità come in un mare morto, aspira a cose incerte, indistinte. Un anno fa ero prigione, molte miglia lungi da voi, iroso in terra straniera, eppure, [226] lo credereste? Ero manco triste, manco tetro che ora non sia.[48]»
I sette soldati (1861), il Canto politico in morte della contessa Giusti (1862), il Canto o Epistola in morte di donna Bianca Robizzo (1871) sono le ultime cose da lui scritte, con lungo intervallo. Dopo il 1860, si sentiva stanco e pativa della sua inerzia, ma non sapeva uscirne. Forse la sua vita intima potrebbe spiegarci parecchie cose. «Ho studiato a sbalzi: in monte, poco: ho amato troppo e troppe volte, e me ne pento: sono stato amareggiato molto, per modo che stetti fino sette anni (dal 1849 al 1856) senza scrivere un verso...[49] Crudeli leggerezze mi hanno ferito, sconvolto, m’hanno fatto dubitare dell’amore e quasi della virtù. Il divorzio della mia con un’anima di donna m’ha dilaniato le viscere. Quanto a quelli che tanto si affannano dei fatti miei, non ho che a ringraziarli della non chiesta premura; non ho che a dir loro che i Canti non sono nè conti, nè scritture di avvocati da poterli buttar fuori quando ad uno piaccia; che se avessi un’anima meno impressionabile, meno irritabile, meno appassionabile, come molti di essi avranno (e beati loro!) farei di più di certo; ma in certe condizioni non ho nè abilità, nè pace a fare.[50]»
Professore di estetica all’Accademia di Belle arti [227] in Firenze, e senatore del Regno, gli onori non lo mutarono. Era profondamente affettuoso e sinceramente buono.
Ecco come si dipinge egli stesso in molti punti di questo epistolario: «Dio, che mi ha fatto il triste dono d’uno spirito facile all’esaltamento, lo dotò, come di consueto, di grande facilità all’avvilimento... Le mie amarezze sono di quelle che non paiono di fuori, ma bensì intime e segrete, e talvolta di fantasia, e tutte quasi per una cotal mancanza di virile volontà della quale ho difetto... Quando quelli che per avventura, poichè sarò ito in camposanto, si crederanno di scrivere una pagina sulla mia vita, avranno detto: egli era debole, avranno la formola, in una sola parola, dei miei errori, delle pochissime mie virtù, delle mie lagrime, di tutto me... Sapete che se io dovessi ascoltare il mio impeto primo, io darei la mia camicia all’infelice che incontro, e che tutti quelli che patiscono hanno ragione in faccia mia e che io mi sento un tristo a vederli patire! Oh! la mia vita esteriore ha l’apparenza di quella di tutti: ma la mia anima è un romanzo...» — Amava la tranquillità della famiglia; si contentava di poco. Non ebbe mai abitudini dispendiose: andava raramente in teatro: non giuocava mai. «Un abito pulito e un modesto cibo e basta» scriveva al suo amico Alvergna. E qualche volta rimpiangeva di non aver saputo rassegnarsi ad una professione e di essersi lasciato adescare dal fantasma dell’indipendenza personale. «Avrei fatto l’avvocato, [228] sarei stato onesto e non imbecille, avrei accumulato un po’ di oro, avrei veduto di poter compormi le domestiche gioie di una famigliuola e alla mia ora sarei morto benedetto e non solitario.[51]» Da giovane ebbe l’intenzione di prender moglie, ma non si stimò abbastanza ricco da educare i suoi figli indipendenti. «Mi sento nato agli affetti sereni e domestici e tutti i ragazzi mi voglion bene perchè li amo con tutto il cuore.[52]» Gran parte della sua tristezza ordinaria, che veniva interpretata per alterigia, proveniva forse da questa scontentezza di animo che la solitudine della sua vita gl’inspirava. «Questa mia vita da zingaro, diceva, mi ha staccato da tutta la terra... A furia di trovarmi con gente nuova, mi son trovato solo; e a questo mondo soli si pena... se fossi donna mi sentirei la tristezza di una sterile.[53] Questa vita senz’ombra di consolazione mi stanca, mi è dura, e talvolta insopportabile. E tanta gente mi invidia! E’ dicono: quello è un uomo felice, è cercato, è desiderato, il paese lo onora, è amato, applaudito... Povera gente! e non sanno che io darei i pochi plausi delle mie lezioni, e la considerazione di cotesti signori per un’ora di affetto... E però sono mesto e scorato, e sfiduciato, e se anche mi tuffo nel lavoro non mi basta, e la solitudine mi affanna.[54]»
[229]
È noto l’affetto, la venerazione dell’Aleardi per la sua vecchia serva di casa Maria Zanetti, che lo vide nascere e morire. La Zanetti aveva una figliuola. Quando prese marito, l’Aleardi scriveva alla signora Luisa Balzanti «Queste nozze hanno il loro triste per noi, perchè ella era, per così dire, nata in casa, e così immedesimata nella piccola nostra famiglia, da esserne piuttosto una compagna che altrimenti. Nel 1858 l’Annunciata (si chiamava così) ammalò gravemente. L’Aleardi stette tre mesi nella piccola campagna il Grotto in S. Ambrogio di Valpolicella colla vecchia Maria a prestare le cure più assidue e più affettuose alla povera sofferente, facendo tutte le spese. L’Aleardi chiamava Nonna la vecchia serva. Questa idolatrava el so putin, el so conte, e spendeva quasi tutto il suo in pie oblazioni per scongiurare dal capo di lui ogni disgrazia. Ogni volta che l’Aleardi era in viaggio per tornare a Verona, ella vegliava pregando fino all’ora più tarda. Negli ultimi anni egli si contentava di viaggiare di giorno, anche nelle ore più calde, per risparmiarle questo incomodo.
Pochi anni prima di morire, comperato in Firenze un letto di ferro, nello spedirlo a Verona, l’Aleardi aveva scritto questi versi:
Un’amabile e fida vecchierella
Di virtù ricca e di ricordi mesti
Ti deporrà nell’umile mia cella
Da carte ingombra e da volumi onesti.
E infin verrà quel dì, che tra le bianche
Tue coltri, o letto, ove morir desio
Placidamente le pupille stanche
Io chiuderò, per riaprirle in Dio.
[230]
Infatti fu lei che la mattina del 17 luglio 1878 andò per svegliarlo e ve lo trovò morto placidamente, senza nessuna sofferenza. «La mia povera vecchia, la mia povera nonna non può durare a lungo» aveva egli detto poco tempo prima ad un suo amico; e gli occhi gli si erano pieni di lagrime. — Invece toccò ad essa di vedersi portar via el so conte. Stette piangendo alla finestra finchè il carro funebre non sparve: voleva vedere se ne avevano cura, poi cadde svenuta. Quando rinvenne, corse alla stanza dell’estinto, non permise che ne fosse tolto un solo oggetto e la riordinò come se il suo padrone dovesse tornare. E ogni mattina, ancora oggi, ella spazza la stanza, cambia l’acqua del lavamani, rifà il letto, spolvera i mobili... Ma el so putin non tornerà più!
La vita e il carattere dell’Aleardi non ebbero proprio nulla che uscisse fuor del comune. La sua attività politica si ridusse, in qualche modo, alla sua attività letteraria. I suoi sentimenti furono improntati di quella modesta tranquillità borghese che si appaga di un po’ di benessere materiale, degli affetti della famiglia e di un ristretto numero di amici. La sua debolezza di carattere lo rendeva impotente a resistere allo impressioni esteriori, e perciò nella vita piena, rumorosa e apparentemente frivola delle grandi città, egli si sentiva [231] fuori posto. «In mezzo a tanta moltitudine io mi sento solo soletto, in mezzo a tanto tumulto mi sento freddo» scriveva da Torino nel 1860. E incolpava di questo l’educazione ricevuta, lontano da ogni vita pubblica. «Costretti perpetuamente al silenzio, imprevidenti di quello a cui una volta o l’altra si poteva esser chiamati; vissuti, in faccia al pubblico, come i fraticelli della Trappa, ora gli è troppo tardi per metter l’anima già vecchia e fiaccata per altra via... Queste considerazioni, che io faccio ripiegandomi sopra di me, mi avviliscono, mi atterrano.[55]» E cercava qualcosa da aggraparvisi per uscire «un istante da quella palude di prosa in cui sfangava.[56]» Si isolava di più. «Io non faccio una visita, io non vedo una faccia di bella donnetta, non vado ne anche, da un pezzo, a sentir buona musica... E questa hanno cuore di chiamarla vita e, se Dio vuole, anche d’invidiarla! Benedetti i miei giorni nei quali giravo pei campi con una forma poetica nella mente, con un amore nel cuore e mi sentivo leggiero leggiero, e spensierato, e fecondo, e veramente vivo: e quando quella forma era unita a modo(?), e quando quell’amore era benedetto da una parola o da un bacio, mi pareva di sentirmi dentro nell’anima qualche cosa di potente, di divino. Ora non c’è più sugo di vivere a questa maniera; ora l’Italia, che era una stupenda fantasia, è diventata una realtà tutta insudiciata di prosa.[57]»
[232]
Come moltissimi dogli uomini del 1848, l’Aleardi mancava infatti del sentimento della realtà; e perciò quando il suo mondo interiore fu sopraffatto e crollò, egli trovossi molto a disagio nel nuovo, venuto su dalle rovine di quello; lo chiamava «troppo materialista, tutto inteso all’egoismo dell’interesse e dell’ambizione[58]» e ci viveva come un sonnambulo. «Ci sono dei momenti che, o seduto sur una scranna, o buttato sur un cuscino, chiudo gli occhi e chiedo a Dio di non aprirli più. Ignoro come in patologia si chiamino coteste malattie; ma sento che la mia, se anche non ha nome, ha terribilità. Un po’ realtà, un po’ immaginazione, un po’ di vero, un po’ di chimera, che monta quando l’anima si angoscia? I pacati, i freddi, gli egoisti, i superbi dicono: vergogna, combatti e vinci; io combattei e non vinsi, appunto perchè nè superbo sono, nè egoista, nè freddo. Son come Dio mi ha fatto, e peno.[59]»
La sua sentimentalità era davvero patologica, malessere di crescenza, passaggio da una generazione ad un’altra, come dalla giovinezza alla virilità. Gli mancavano la foga e il vigore della vera passione.
La stessa sua fede non poteva dirsi schietta fede, e nemmeno libero pensiero. Scriveva: «È un pezzo che questa malattia del dubbio mi rode, e non trovo la via di uscirne; perchè la fede si muore e la scienza [233] è ancora impotente non ostante i suoi legittimi orgogli. Ed è per me uno spettacolo strano questo vedere la gente in generale incurantissima di quel che cercano, che è di là della tomba. Io leggo, penso e ripenso, appunto gli occhi, ma non vedo niente di netto; nel regno delle ombre non vedo che ombre e mi raccolgo afflitto nel santo asilo della morale...[60]» E un’altra volta: «La vecchiaia batte alla mia porta e parmi mi domandi coll’aria di un inquisitore, conto della mia vita, e mi dica che forse non è lontano il giorno che questo conto dovrò renderlo a Dio; poichè, vedete, malgrado i dubbî della scienza e il diniego della moderna filosofia, io ho sempre creduto, credo e crederò sempre in Dio.[61]»
Un giorno, trovandosi al letto di una fanciulla moribonda, si affannava a spiegarsi che fosse venuta a fare quaggiù quella poveretta, la quale andava via appena appressate le labbra alla tazza della vita. E si domandava: «Che esperienze del mondo ha fatto l’anima sua? Quali gioie gustò essa? Quali azioni commise per meritare o demeritare? Come sarà, però, e con quale misura giudicata? Dove andrà quello spirito che ancor le scintilla nell’occhio nero?» Rimaneva sgomento, ma conchiudeva: «Se mi fa uggia quest’impenetrabile velo, pur la mia fede in Dio è sempre grande.[62]»
[234]
L’Epistolario non dà nessuna delle tante lettere di amore che l’Aleardi dovette scrivere alle molte donne da lui amate; sicchè ci mancano i veri documenti per valutare se nelle private manifestazioni dell’amore dominasse in lui il carattere indefinito e patologicamente sentimentale che, in parte, fu del suo tempo. Nei suoi canti però l’amore è anch’esso una stupenda fantasia.
Ove sull’erte rupi
Traditore ne incolga il tempo nero,
Di freschi allori ti farò ghirlanda,
Così reina e poetessa andrai
Rispettata dai fulmini la chioma.
Sovra un desco di rose e di viole
Ti frangerò il mio pane; e quando, lassa,
Sotto l’arsura mi dirai: Fratello,
Ho tanta sete! — io cercherò le lande
In traccia d’acque vive, e se la terra
Non le consente, ti corrò pei solchi
L’onda del ciel nel calice dei fiori
Che Dio prepara all’augellin che migra.[63]
Sono i versi più affettuosi che l’Aleardi abbia rivolti ad una donna, e sono terribilmente aridi, malgrado lo sforzo di farli apparire appassionatissimi.
Tutte queste confessioni spigolate qua e là nelle duecentotrentaquattro lettere dell’Epistolario, sono documenti preziosi per studiare il poeta. L’Aleardi è un artista di secondo, forse anche di terz’ordine, e, tolto dall’ambiente che lo formò, non può venir mai giudicato con imparzialità; giacchè se la sua [235] opera è spenta, un’orma di essa resterà nella forma poetica italiana. Non è molto, certamente; ma non è nemmeno poco. Gl’ingegni che lasciano dietro a sè un piccolo germe di forma e di sentimento poetico sono altrettanto scarsi quanto quelli che hanno l’invidiabile fortuna d’incarnare nei loro canti un sentimento poetico nuovo.
Quando Vittorio Imbriani pubblicò, nel 1864, il suo Studio sull’Aleardi, alcuni amici di questo gli scrissero da Napoli di non leggerlo «dicendo che quel povero figliuolo odia tutti quelli che il paese ama e stima, che tiene arsenico invece d’inchiostro, che vive dell’ingegno, come le vipere del loro dentino forato.[64]» E l’Aleardi (se dobbiamo credergli) non lo lesse nè allora, nè poi. Non ne avrebbe avuto un gran gusto. Per quanto l’Imbriani s’ingegnasse di dividere l’uomo dal poeta, non era riuscito a mantenere nel suo scritto quell’assurda distinzione e l’acerbità della forma contribuiva a far apparire più grave un difetto che, senza dubbio, era contrario alle sue intenzioni.
Riletto, dopo quindici anni, lo scritto dell’Imbriani non fa più la cattiva impressione della prima volta. Il preteso veleno del critico si riduce ad una elevatezza di criterî che allora parevano un po’ assurdi. Egli non si era lasciato commuovere da nulla, nemmeno dall’innegabile influenza patriottica esercitata dall’Aleardi sull’intiera penisola. Aveva guardato [236] soltanto all’arte, alla forma, in modo assoluto; e senza accordargli attenuanti di sorta, aveva inesorabilmente condannato il poeta quando il pubblico italiano sentiva ancora freschissime le forti impressioni dei Sette soldati e del Canto politico.
Lo studio letteraturografico dell’Imbriani, com’egli bizzarramente si compiacque chiamarlo, aveva un peccato d’origine: era un lavoro di reazione. Giudicava un uomo del 1848 colle idee di un uomo del 1864, e pareva mettesse perfino in dubbio il patriottismo dell’Aleardi, perchè questo non riusciva a manifestarsi nell’opera di arte altrimenti che come un sentimento rettorico. Nel 1865 il periodo romantico era chiuso da un pezzo. Molte cose, dal 1830 al 1848 stimate nobili e belle, già apparivano sciocche o ridicole, perchè non se ne scorgeva più l’immediata ragione: molte aspirazioni, uscite dal loro stato di nebulosa, si erano concretate in un fatto certamente assai lontano dal loro ideale, ma che valeva più di esse precisamente perchè era già un fatto.
L’Aleardi, che rappresentava la parte più patologica di quel periodo, non si trasformò con esso. La sua piccola individualità, esaurita completamente la propria forza, si agitava nel nuovo periodo come uno di quegli asteroidi, frammenti di mondi scomparsi, trascinati nell’orbita di altri mondi viventi. E l’essersene poi accorto, e l’aver portato nel sepolcro il profondo rammarico di quella sua incapacità di rivelare artisticamente i tempi nuovi, non è [237] forse il minore dei meriti, nè sarà la minore delle scuse agli occhi severi della storia letteraria.
Questo l’Imbriani non lo vide o non volle badarci. E faceva carico all’Aleardi del suo nome di battesimo mutato in Aleardo, senza badare che verso il 1836 la moda di mutar i nomi troppo comuni in quelli altisonanti e ritenuti poetici era una delle tante maniere colle quali si intendeva protestare contro la tristizia delle condizioni sociali e politiche; maniera primitiva, fanciullesca, esteriore, tutto quello che vuolsi, ma che non deve giudicarsi coi sentimenti e colle idee di quarant’anni dopo.
Per noi, generazione del 1860, la bandiera tricolore ha un valore molto relativo. È il simbolo della nostra libertà, del nostro statuto, della nostra esistenza come nazione indipendente; tutte cose concrete, assodate, rispettate, per le quali le minute vicende politiche, le lotte dei partiti, le strettezze finanziarie, gl’interessi e le passioni giornaliere c’ispirano piuttosto una specie di diffidente scetticismo che un entusiasmo eccessivo. In un uomo del 1848, che patì le oppressioni della dominazione austriaca e sentì gli orrori del dominio borbonico, la bandiera tricolore doveva destare sentimenti ben diversi. Le angosce del passato, le aspirazioni lungamente insoddisfatte e ferocemente compresse, tutti i ricordi delle lotte, dei martirî, degli entusiasmi dei quali pars magna fuit, si incarnavano in quel simbolo dei tre colori veduti così liberamente spiegati alla luce del sole.
[238]
All’Imbriani parvero ridicoli i versi dell’Aleardi che dicevano:
Certo mia madre,
Santa com’era, divinando il figlio,
Me al nascere di panni
Tricolori fasciò...
Ma se avesse saputo che l’Aleardi portava dovunque con sè una bandiera per spiegarla, legata all’asta, ai piedi del letto ove dormiva, acciocchè i suoi occhi, al primo svegliarsi, potessero salutare il signum del risorgimento nazionale, se lo avesse saputo, per puerile che potesse sembrargli questo bisogno d’un oggetto materiale a conforto d’un sentimento patriottico, egli non avrebbe più detto che quei versi erano una posa sguaiata.
Questo provi quanto sia pericoloso il giudicare certi artisti e certe opere d’arte fuori del lor tempo e delle circostanze che li produssero. Bisogna ricordarsi che vi fu un momento in cui le poesie dell’Aleardi ebbero una perfetta identità col sentimento nazionale d’un quarto d’ora storico; e questa perfetta identità forma appunto la principale cagione della loro fiacchezza come opera d’arte. L’Imbriani aveva ragione quando non trovava in esse il carattere d’una grande creazione poetica; quando non riusciva a scorgervi il nuovo sentimento che avesse potuto metterle a paro alle opere dei nostri grandi passati o dei non meno grandi delle letterature straniere contemporanee; aveva ragione quando non riconosceva nell’Aleardi quel profondo sentimento della [239] Natura, ultimo soffio che animi la moribonda poesia moderna... Però aveva il torto di non badare che in quel mondo poetico aleardesco c’era il germe di un sentimento e d’una forma poetica altrove già grande ma che faceva con esso la sua prima apparizione nella poesia italiana. Il modo era informe, se così vuolsi, insufficiente, più esteriore che intimo, più rappresentazione che sentimento. Non vuol dir nulla: se non un’originalità, era un’acclimazione, un innesto, un tentativo che per sè stesso non lascerà segno, come tutte le forme iniziali del mondo della Natura. Ma la prima scintilla, la prima nota è venuta di lì, e lì andranno a cercarne le origini coloro che vorranno fare la vera storia della nostra forma poetica. Il paesaggio moderno nella nostra poesia comincia assolutamente coll’Aleardi.
Guardato coi criterî d’oggi il suo mondo poetico è un mondo artifiziale, un aggregamento di parti diverse spesso cozzanti fra loro, piuttosto che un tutto organico il quale abbia in sè stesso la sua ragione di esistere. E questo non si scorge dall’insieme dei suoi lavori o solamente da ciascuno di essi, ma anche nelle loro parti secondarie, nelle immagini spicciole, nel colorito, nel movimento del periodo e della frase. Il suo mondo poetico, insomma, è qualcosa che resta estraneo a lui; non è una compenetrazione della sua immaginazione coll’oggetto, del suo cuore col sentimento, bensì un riscontro, un riflesso che brilla alla superficie e non va più in là. L’Aleardi è un poeta flaneur, un osservatore, [240] ora curioso, ora distratto, che si ferma capricciosamente innanzi a tutto quello che scontra per via; talchè spesso gli accade di prestare grande attenzione a cose insignificanti, d’analizzarle minutamente quasi non avesse altro da fare, e poi passare coll’occhio affrettato o incurante innanzi a quelle che avrebbero dovuto fissare maggiormente la sua attenzione.
È naturale. La facoltà pittorica che predomina in lui gli fa scambiare l’accessorio col principale. Il canto Monte Circello dal primo all’ultimo verso è una prova di quello che dico. Ma è con Monte Circello, bisogna convenirne, che il vero paesaggio moderno entra nella nostra forma poetica e ne rompe il vecchio convenzionalismo. Se si pone mente alla storia generale delle forme poetiche, questo fatto non ha un gran valore; ma per la poesia italiana ha il vero valore di un’iniziativa, e non bisogna defraudarne l’Aleardi; sarebbe ingiustizia.
È superfluo rammentare che nell’arte ci sono le grandi e le piccole forme, i grandi e i piccoli artifizî e che tanto le une che gli altri si sviluppano e crescono con un processo del quale abbiamo già in mano la formola scientifica. È un continuo rinnovarsi, un continuo crearsi di organismi uno migliore dell’altro, nei quali avvengono precisamente gli adattamenti, le selezioni, le evoluzioni constatati nell’ordine inferiore dei fatti naturali e biologici. Tali adattamenti, selezioni ed evoluzioni non [241] hanno tutti lo stesso valore e la stessa importanza. Si trasmettono per eredità, spariscono nell’insieme dell’organismo poetico; ma la scienza della forme letterarie deve ravvisarli ad uno ad uno, e studiarne l’efficacia, e valutarne il lavoro. Studio importantissimo e difficilissimo, che costituirà la parte più nuova e più elevata della critica avvenire.
Allora l’Aleardi non sarà dimenticato. Il paesaggio è una delle tante piccole forme poetiche che hanno fatta la loro evoluzione più specialmente nei tempi moderni. A poco a poco si è staccato dal grande organismo poetico, come da un organismo gemmiparo, ed ha preso un’esistenza a parte, precisamente come nella pittura ha lasciato lo sfondo del gran quadro storico ed è diventato un quadro da sè.
Il paesaggio aleardesco ha ancora un po’ dell’antico convenzionalismo, o meglio, ha il suo convenzionalismo. Vede la natura com’è, ma non la intende; la scorre ma non la compenetra del suo sentimento. Infine è quel che poteva essere. Cominciato dal di fuori, lascia l’addentellato perchè altri passi più in là e dica il motto italiano anche di questa forma poetica.
Fuori del mondo dell’arte, la storia del nostro risorgimento nazionale non potrà sconoscere che i canti dell’Aleardi ebbero una bella parte tra i così detti fattori della grand’opera, anzi dirà che in lui il cittadino valse meglio del poeta.
Si prova una profonda tristezza riflettendo sulla sua gloria poetica tramontata così presto. Una maggiore [242] tristezza invade l’animo pensando a una vita che passò fra tante aspirazioni sublimi e la desolante impotenza di giungere dove la mente, il cuore e l’immaginazione miravano. A leggere tra le righe di questo meschino epistolario si capisce che la vera poesia dell’Aleardi si nasconde tutta in quella lotta inane, in quegli scoraggiamenti, in quei sconforti, in quella piena coscienza della propria fiacchezza che annuvolava la fronte del poeta e lo faceva apparire e giudicare diverso da quel ch’era di fatto.
Il suo destino fu crudele. Negli ultimi anni tutti i fantasmi che gli abbellirono la vita crollarono e la piaga del suo cuore di patriotta fu certamente superiore a quella del suo cuore di poeta.
Aveva avuto un figlio da una delle sue amanti, e si compiaceva di riconoscerlo per suo. Era un giovane pieno d’intelligenza, ma ambiziosissimo; e in Brescia, a Venezia, all’Università di Pavia fu cagione al padre di così gravi dispiaceri che infine avvenne una completa rottura delle loro relazioni. Quando l’esercito tedesco lasciò il lombardo-veneto, questo giovane seguì un commissario viennese che era stato l’ultimo amante della madre, e colla protezione di lui fu ricevuto in un collegio militare di Vienna... Oggi ha il grado di maggiore di stato maggiore nell’esercito austriaco.
L’Aleardi non avrebbe mai creduto che il cinismo del caso potesse arrivare fino a questo!
[243]
Sentendo pronunziare o leggendo il nome del Settembrini subito mi si presenta innanzi gli occhi la camera mortuaria ove lo vidi per la prima ed ultima volta il giorno 4 novembre 1877. Era morto il giorno precedente verso le cinque pomeridiane, di un improvviso sbocco di sangue. Il cadavere, imbalsamato la notte, stava esposto nel centro di un salottino sopra un piccolo catafalco coperto da un gran drappo rosso con frangia d’oro. Vestito di nero colle mani stese lungo i fianchi, pareva dormisse. Quattro grandi candelabri illuminavano di una luce rossastra quel volto sereno e un po’ sorridente. Suo figlio Raffaele si alzava di tanto in tanto dall’angolo ove stava seduto immerso nel dolore, passava [244] sul viso dell’estinto un fazzoletto bianco, come per asciugargli il sudore, e lo baciava sulla fronte con rispettosa cautela, quasi temesse di svegliarlo. Una folla straordinaria invadeva le scale e le due camere aperte al pubblico. Tutti stentavano a credere di trovarsi innanzi il cadavere di un uomo che il giorno prima aveva ragionato a lungo con alcuni suoi discepoli dei lavori fatti, di quelli che si proponeva di fare, della buona stagione e della speranza di veder presto alleviati, se non vinti, quei dolori e quelle piaghe che lo tormentavano da quattr’anni.
Leggendo le Ricordanze mi è sembrato di veder rianimarsi quel cadavere e di sentirlo parlare. Pochi libri producono, al pari di questo, l’illusione del suono della voce e dell’inflessione dell’accento. La impressione è affatto immediata, come se tra il lettore e la cosa raccontata non ci fosse di mezzo lo scrittore. Un mondo che credevamo scomparso per sempre, si ricostruisce potentemente nella nostra immaginazione per non sparire mai più; diventa un ricordo, un’impressione personale, o meglio, produce una sensazione stranissima, come se inattesamente ci si fossero svegliati nella memoria tutti i particolari di una vita anteriore della quale finora non avevamo nessun’idea.
Il De Sanctis ha spiegato da pari suo questo miracolo: «Sincera è la sua parola, il suo sentire e il suo pensiero; e dietro non c’è fine e non c’è interesse che si vergogni di comparire. Quest’assenza [245] compiuta di fini e interessi personali, questa purità lo innalza fra’ contemporanei... Settembrini non si accorge neppure di essere grande e di essere buono. Questo gli par cosa naturale. Ed era davvero in lui natura. La sua modestia non è virtù, è innocenza, una inconsapevolezza spensierata del suo valore... Di qui nasce l’infinita semplicità e spontaneità del suo dire, quasi fanciullesca ingenuità. Rara è l’analisi. Piglia le cose come gli si porgono a prima guardatura e a prima impressione e le rende intere, con quel calore e quella luce che gli viene dall’anima. Ed è soddisfatto, non ci torna più, non ci si ferma, non analizza, non accarezza, non ricama. Di questa maniera semplice e rapida era perduta la memoria.»
Come render conto di un tal libro? L’analizzarlo si ridurrebbe una profanazione. Non dovrei far altro che citare, ma finirei per trascrivere più di metà del volume. Dirò le mie impressioni, senz’ordine, come mi vengono in mente.
Quello che più colpisce è la completa assenza di un protagonista. In tutte le Memorie la figura dello scrittore sta sul davanti del quadro e lo domina. C’è una sproporzione fra la sua e le altre figure, una sproporzione che piace perchè concentra l’interesse sul personaggio principale. La luce viene da tutte le parti, lo illumina nel miglior modo, e lascia nell’ombra soltanto quello che è bene si vegga velato. Anche quando l’autore si propone di non cedere a nessuna delle tante seduzioni dell’amor [246] proprio, si scorge la posa di non cercare la posa, e s’indovina ch’egli ha mosso tutta la sua arte per far spiccare un risalto in un certo punto della figura; malizie, accorgimenti, artifizî di forma che si tradiscono fin sotto la più indifferente bonomia dello stile. Nelle Ricordanze del Settembrini non vi è nulla di questo. La sua figura ha le proporzioni di tutte le altre, non viene più avanti, non ha un fascio di luce che la metta in maggiore evidenza. Chiuso il volume, ricordando gli avvenimenti che lo scrittore ci ha messo sotto gli occhi, bisogna fare un po’ di sforzo per trovare il protagonista, come bisognava farlo nella vita reale, quando il gran patriota nascondeva il suo eroismo, la sua bontà, il suo ingegno in quella modesta casa di via dell’Orticello, fra i giovani suoi discepoli che egli amava come figli e che l’adoravano più che un padre.
La sorpresa si accresce allorchè si riflette che pochi caratteri furono più appassionati del suo. Per una particolare conformazione della sua mente le idee astratte gli si trasformavano subito in sentimenti, anzi non entravano in lui, e non avevano vaglia che unicamente sotto questa forma primitiva ma potente. Il suo patriottismo, che non ebbe mai intermittenza, si reggeva su due pernî: la libertà civile e la religiosa. La storia italiana non racchiudeva altro significato per lui; la letteratura, la vita pratica erano state e dovevano essere, secondo lui, una guerra all’assolutismo nazionale e straniero, e [247] al grande assolutismo papale. E questo era sentito, ma non riflesso; non un partito preso, ma una spontanea e quasi rude naturalezza, una specie di fissazione ingenua, che per la sua semplicità diventava elevata, qualche volta sublime. Chi ha letto le sue Lezioni sulla Storia della letteratura italiana ricorderà benissimo come l’insieme di quel vasto quadro appaia un po’ declamatorio appunto per la appassionata ristrettezza di vedute che le rende più un’opera d’arte che un lavoro di storia e di critica.
Ora, perfino questa ristrettezza di passione è sparita dalle Ricordanze, almeno dalla miglior parte di esse dove il Settembrini si abbandona intieramente alla sua sincera genialità di artista. Si direbbe che egli non ricordi, ma riviva nel passato, coll’assoluta preoccupazione di quel breve momento. Le circostanze, i personaggi si rizzano allora attorno a lui colla solida energia della realtà, ed egli non ha agio di rifletterci su, e di penetrarli; ma li subisce colla loro influenza esteriore, colla loro buona o cattiva accidentalità. Appena ne ha afferrato le linee e il colorito, appena li ha fissati nella schietta limpidezza del suo stile, passa oltre, non si rivolge addietro per dar loro un’occhiata, proprio come accade nel via vai della vita, dove la preoccupazione presente è più insistente ed efficace d’ogni altra.
Così l’intiera società napoletana ch’egli vide e conobbe, rivive in queste pagine colla precisa verità del suo essere, da sè, libera, piena di movimento, [248] quasi fuori dell’opera d’arte. È un mondo che sembra un’assurdità, tanto è lontano da quello ove ora noi ci agitiamo coi nostri sentimenti e colle nostre idee. Mondo triste, brutale, in mezzo al quale sorprende il trovare tanto vigore di ribellione, tanta costanza di fede politica, tanta abnegazione di sacrifizî, tanta naturalezza di eroismo.
Il marcio veniva dall’alto. Re Francesco I morì «dopo cinque anni regnati coi preti, con le spie, col carnefice.» Ferdinando II, che disse nel suo Manifesto voler rimarginare le piaghe che da più anni affliggevano il Regno, non era cattivo, ma ignorante e scettico per aver visto troppa corruzione attorno a sè nella reggia. Il ritratto che il Settembrini ne fa è severamente imparziale, lo raccolgo di qua e di là, da molte pagine, ma colle sue stesse parole.
Cominciò bene. Scacciò parecchi ministri e servitori che durante il regno di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa; restrinse le spese della casa sua, tolse via la caccia, e volle vivere con certa semplicità e parsimonia che il popolo chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese, perchè dava udienza a tutti, domandava, rispondeva, provvedeva subito e ricordava i nomi di quanti aveva una volta veduti. Attese principalmente a formare un esercito; richiamò gli antichi ufficiali già dimessi per politiche opinioni, creò nuovi reggimenti, riordinò ed accrebbe gli antichi; ai soldati favori e carezze e le sue maggiori cure; stava sempre in mezzo ad [249] essi, se li menava dietro, li esercitava continuamente, li rivestiva di nuove divise, e quando li comandava pigliava aria di gran capitano. Maria Cristina di Savoia, sposata nel 1832, gli fu consigliera di mitezza. Finchè ella visse tutti i condannati a morte furono aggraziati. Quando nel 1848 egli scelse a suo nuovo confessore monsignor Antonio de Simone, questi gli disse: Sire, ricordatevi le parole della santa regina che prega per voi in paradiso: punite sì, sangue no. E il re con le mani giunte sul petto chinando il capo, rispose: Sangue no, lo prometto. E mantenne la parola.
Per ingegno e per costume era il migliore tra i suoi fratelli. Eppure egli era ignorante, non leggeva mai libro, scriveva con molti errori di ortografia. Egli, come il padre e come l’avo, non credeva virtù in altri, ne beffava il sapere, rideva dell’ingegno, non pregiava che la furbizia; chiunque sapesse leggere e scrivere era suo nemico e lo chiamava pennaiuolo; si circondò degli uomini più ignoranti e bestiali. Educato da bassi servitori di Corte, che i Borboni sogliono tenere come i fedeli amici e consiglieri, egli ne apprese due vizî proprî del più feccioso popolazzo: la bugia e la beffa.
Le parole cortesi, le promesse, le strette di mano erano per lui arti di bugia, perchè voltava le spalle e ghignando ammiccava ai suoi, e diceva che il mondo vuol essere canzonato, e un re deve sapere meglio d’ogni altro l’arte di canzonarlo. Non gli veniva innanzi un uomo a cui non mettesse un soprannome [250] di beffa; a tutti gettava il motto pungente; deliziavasi di frustare le gambe al cav. Caracciolo della Castelluccia, e di vederlo saltare, gridare, piangere, ed ei rideva degli scontorcimenti del vecchio. Giunse a beffare sinanche il proprio figliuolo ed erede del trono, e lo chiamò sempre Lasagnone. Uomo volgarissimo, avaro, superstizioso; si sentiva dappoco e credeva tutti gli altri dappochi; per lunga pratica di governo pareva accorto, ma era bassamente furbo; fedele solo alla moglie, tenero dei figliuoli, costumato e modesto in casa, pessimo sul trono. Dopo cinque mesi dalla morte di Cristina egli andò a Vienna, e tolse a seconda moglie Maria Teresa figliuola dell’arciduca Carlo. Costei scaricò una dozzina di figliuoli; odiò cordialmente i Napoletani, che parlavano sempre di Cristina, e ripeteva sempre al marito: Casticate, Fertinante, casticate. Egli seguì subito e bene il consiglio della nuova moglie, la quale gli stava sempre attaccata al fianco, come chiodo alla scarpa, ed egli la chiamava Centrella.
Dopo il re, l’aristocrazia; una vita chiassosa, spensierata, corrotta, «gran casa, gran conversazione, pranzi, balli, buon cuore.» Una bella processione era un grand’avvenimento; la gola della Malibran faceva andare in visibilio; pel Natale, il presepo in casa e la messa nella cappella di famiglia. «Uomini non tristi, ma inetti, donne non brutte, ma insipide, giovani frollati e ignoranti che non parlavano d’altro che di femmine, di vestiti, [251] d’impieghi, nobili goffi come servitori, qualche magistrato che sapeva più di gastronomia che di legge; non parlar mai di cose pubbliche, nè d’arti o di scienze o di lettere; pettegolezzi, maldicenze, devozioni.»
E sotto e dentro questo corpo il pensatore negletto e il congiurato, eroe, lazzaro, brigante; e in fondo la canaglia che grida: viva il re! e ammazza, stupra, incendia, saccheggia!
Tutto questo mondo rivive nelle Ricordanze, si muove, s’agita, si contorce tra i patimenti e le carceri, muore con sublime sprezzo della vita, animato, sorretto da un soffio superiore e incosciente, che poi si accheterà nel completo organismo dell’unità italiana.
Le Mie prigioni sbiadiscono innanzi ai quattro capitoli della prima prigionia del Settembrini, settantadue pagine che non morranno. Qui il sentimento artistico domina e sopraffà ogni altro sentimento, perfino il politico, per rendere schiettamente, di prima mano, la realtà. Appena il prigioniero... cioè appena lo scrittore varca colla narrazione la porta del carcere di Santa Maria Apparente, anche il suo stile prende un’animazione più vibrata, una plasticità più potente. Quei terribili criminali, quei trapassi, che hanno una storia o una leggenda nelle tradizioni dei custodi e dei prigionieri, covi e tane immonde dove il reo politico, il ladro volgare e l’assassino sono confusi insieme, ci appaiono sotto gli occhi colla loro schifosa nudità. «Una finestra [252] alta dal suolo umido e freddo, mura ingrommate di muffa, due poggiuoli di pietra e non altri arnesi che un vaso immondissimo, una lucerna di creta, un piattello ed una brocca d’acqua... luce fioca, aria grave, puzzo stomachevole e continuo, una vôlta bassa che pare ti caschi sul capo; nell’inverno vi si agghiaccia, nella state pare di essere in un forno.»
I custodi non sono brutali, ma corrotti, e spesso si fingono buoni per fare la spia. Siamo assai lontani dall’idealità del bravo Schiller dello Spielbergo. — «Non vi fidate neppure di me, diceva uno di essi al Settembrini, e ricordatevi che chi confessa è impiso. — Come vi chiamate? — Io? eh! Raffaele Serio. — Serio! — Sono nipote a Luigi Serio, poeta, che morì nel 1799 combattendo sul ponte della Maddalena. — Ma Luigi Serio morì coi due nipoti. — Io ero terzo nipote ed ora fo il carceriere!» Sopraggiunse il Porco, un prigioniero addetto ai servigi del carcere (il Settembrini l’ha dipinto poche pagine innanzi: un omiciattolo tarchiato, col naso schiacciato, le canne sporgenti e un vocione fragoroso, scalzo e sudicio) il quale avendo udite le ultime parole del custode fece un visaccio con cui mi volle dire che costui era un bugiardo. — Un altro custode vuole dal Settembrini i numeri del lotto. «Prese in mano il Nuovo Testamento, e apertolo mi domandò: Che lingua è questa? — È greca — E voi sapete anche il greco? — Un poco. — Signore, io vi debbo cercare una carità. Levatemi da questo mestiere, che non è per me, che sono nato [253] un galantuomo. Ho quattro figlie zitelle, e sono carico di debiti. Aiutate una famiglia sventurata. — Ma io non sono ricco, e non posso darvi nulla. — Non voglio danari. — E che volete da me che son carcerato? — Voi potete tutto. — Io non v’intendo, dite. — Io vi serberò il segreto, non dirò niente a nessuno. — Ma che cosa volete? — Tre numeri. — Poh! e credete che io sappia i numeri del lotto? — Quando leggete questa sorte di libri, voi li sapete tutti cinque i numeri.»
E i compagni di prigionia! Par di averli conosciuti tutti. Quel vecchio prete che si chiamava lo Zio Natale era stato in galera vent’anni per omicidio. Pareva un uomo piacevole, ma che belva! L’ho innanzi agli occhi, con quel fiasco di vino stretto al petto, coi suoi movimenti da gatto. Seduto sulla sponda del letto bacia e ribacia il suo fiasco finchè non l’ha vuotato, poi si butta sul fardo e si addormenta e russa. Quel fiasco è il suo breviario. — Via, diciamoci l’ufficio! — È la sua frase per significare: vuotiamolo.
Il Settembrini non ha l’intenzione di far dei ritratti. Le figure dei suoi personaggi vengono fuori vive da poche righe, da pochi tratti di dialogo. «Mentre mi scaldavo al sole, ecco battere alla parete della stanza contigua, e una voce: Ehi, chi sei tu? — Io batto anch’io, poi mi fo alla finestra, e ascolto — Santo Diavolo, vuoi dirmi chi sei? — E che t’importa chi sono io? — E va a malora!»» Era Pasquale Musolino, fratello di Benedetto il deputato. [254] Egli canta, bestemmia, scherza, annoda corrispondenze coi ladri, ai quali manda del tabacco (ed essi lo chiamano il Mastro di casa), dà mancie ai custodi ed è lasciato fare; conosce tutti, è conosciuto da tutti, non perde nel carcere l’allegra spensieratezza dei suoi vent’anni.
E tutto, luoghi, personaggi, avvenimenti, tutto mostra il suo carattere particolare, senz’ombra di artifizio, senza stento. Si capisce bene che quelle cose e quegli uomini non potevano esser dipinti con altro stile; ed è per questo che, come notavo sul principio, le Ricordanze danno l’illusione del suono della voce e dell’inflessione dell’accento. I puristi o gli stilisti, forse diranno che è troppo; diranno che di questo passo si finirà per scrivere in dialetto; mentre il supremo dell’arte è il rendere le cose coi mezzi suoi, colla lingua e collo stile veramente letterario come, per esempio, la scultura rende colla candidezza del marmo e le carni e le stoffe senza aiutarsi col colorito. E non mi sembra che abbiano torto. Solamente tali questioni è quasi impossibile farle quando ci troviamo rimpetto a un libro dove la vita scoppia da tutte le parti con foga meravigliosa, dove il concetto e la forma sono talmente tutt’uno che bisogna lasciar raffreddare le prime impressioni per riflettere e fare gli schizzinosi.
E sono appunto le prime impressioni che ho voluto comunicare al lettore. Quando sarà pubblicato il secondo volume tornerò su queste Ricordanze e [255] tenterò di fare il ritratto di quell’eroe da Plutarco che si chiamò Luigi Settembrini. I caratteri della sua tempra esercitano un’influenza benefica; gridano: sursum corda nel putridume che ci circonda e si solleva, si solleva da tutte le parti e minaccia di soffocarci. Un eroe per davvero ci farà sorridere di pietà di quegli eroi a buon mercato che urlano: Viva la repubblica! e scrivono versi petrolieri senza timore di birri e di commissari di polizia.
Il male è che i veri eroi cominciamo a scordarli. «Sei stato tre anni e mezzo in prigione, hai perduto una cattedra acquistata con onore, la tua famiglia ha sofferto tutti i dolori e tutte le privazioni, hai ingoiato tante amarezze, e tutto questo perchè? Per una poesia, anzi per una pazzia. Hai fatto un gran male a te ed ai tuoi, e qual bene hai fatto agli altri? Chi ti ringrazia? Chi ti compatisce? Chi ti conosce pure di nome? Nessuno. — Così mi diceva taluno ed aveva ragione allora.» Queste parole mi ricordano che mentre il corteo funebre sfilava dalla casa del Settembrini, in un angolo della via Orticelli era venuto a piantarsi un venditore di castagne lessate. Urlava colla sua vociona sguaiata, e picchiava col ramaiolo sull’orlo della caldaia per attirare gli avventori. A lui poco importava il dolore di tanta gente che aveva le lagrime agli occhi. La sua faccia grassa e bestiale si chiazzava di macchie rossastre per lo sforzo degli urli; un sorriso tra lo stolido e l’abbietto gli illuminava gli occhi larghi e la bocca rigurgitante di [256] saliva. Indignato di quel bruto, gli imposi di tacere. Mi guardò fieramente: — Faciteve gli affari vuosti! mi rispose, e continuò ad urlare.
Ecco il popolo! pensai. E dire che il povero Settembrini ha sofferto anche per questa gente!
E mi allontanai sorpreso e dolente che di centinaia di persone di ogni classe affollate lì, nessuna aveva fatto eco alla mia giusta indignazione.
14 Ottobre 1879.
[257]
Questa traduzione è una battaglia valorosamente combattuta e gloriosamente vinta, e rimarrà forse il più originale dei lavori poetici del Rapisardi. Per un’assai rara combinazione c’è tra il poeta e il suo traduttore una così meravigliosa rassomiglianza psicologica, che, trasportando nel verso italiano le robuste immagini di Lucrezio, il Rapisardi non ha fatto altro che gettare nel classico cavo della forma latina i suoi sentimenti e le sue idee.
La sincerità, l’entusiasmo, la sdegnosa fierezza di libertà di pensiero, la quædam divina voluptas dell’uno agitano colla stessa violenza anche il cuore dell’altro e v’irritano l’acre virtù dell’animo (acrem inritat animi virtutem) che distingue i neofiti. Tutti [258] e due hanno dolorosamente lottato prima di sottrarsi al giogo del sentimento religioso, tutti e due portano ancor vivo nel cuore le profonde ferite della lotta. Un ardore febbrile li sopraffà e li rende sbalorditi della propria vittoria; una gioia baldanzosa e intollerante li spinge a partecipare agli altri i benefizî del trionfo; e l’inno sgorga impetuoso dai loro petti, ricco d’incantevole freschezza d’imagini, d’inarrivabile intensità di sentimento, un vero e sublime carme religioso cantato dallo spirito umano alla Diva Natura.
Infatti questa traduzione non è semplicemente un esercizio di stile.
Poichè agli altari rovesciati indarno
Supplichevole in atto anco s’abbraccia
L’ignaro vulgo, ed imprecando al Vero
La mercatrice Ipocrisia volpeggia,
Dritto è ben che tu sorga, o fulminato
Encelado dell’Arte, e in mezzo a tanta
Mandria di vili più terribil suoni
La voce tua nel novo italo verso.[67]
La coscienza del Rapisardi si è svolta con lenta evoluzione.
Nella Palingenesi, la vigilia d’armi del suo pensiero, com’egli la chiama, la sua mente si muoveva entro gli stretti limiti d’un protestantesimo sentimentale, e idoleggiava un avvenire di fraternità evangelica pel genero umano.
Roma era tuttavia l’eterno santuario del mondo. [259] Nelle sue mistiche visioni la Religione e la Libertà
e in mezzo al nuovo affaccendarsi dei commerci e delle industrie cantavano ancora le Muse, fide seguaci delle Sapienza,
a cui gli occulti
Di natura son cari.
La storia del mondo vi era concepita secondo lo visto teocratiche del Bossuet, incardinata nel popolo ebreo e nella venuta del Cristo. La Riforma di Lutero iniziava i tempi nuovi del cristianesimo; e le stragi di San Bartolomeo e i roghi di Filippo II vi apparivano come frutto delle mali arti di Satana che tentava impedire o ritardare il trionfo del vero.
Della Scienza e della Fede vi si cantava:
. . . . . Rubelle a Dio levò la fronte
Da pria l’irta Scienza e de la Fede
Le candide strappando infole sacre
Con sacrilega mano, in lunga guerra
La combattè, poi dall’error compunta
Al cor la strinse e la chiamò sorella.[69]
della Fede:
. . . . . Di caste imagini e di dolci
Speranze l’irrequiete alme consola
E del vergine sen fatto guanciale
Le profane baldanze affrena in Dio.[70]
[260]
Poi vennero le lotte:
Signor, che a questo brume
Doni del sole il provvido sorriso,
Toglimi al dubbio gelido
Che all’ingenua mia fede ammorza il lume!
Deh! ch’io non più ne l’orrida
Nebbia, che il cor m’intenebra,
Gema da te diviso.[71]
Finalmente
Dentro ai gelosi
Penetrali del cor caddero assai
Colpite ostie di affetti, assai ridente
Popol d’inganni![72]
Ma la vittoria non è allegra. Il suo cuore e il suo spirito non s’acquetano nella loro nuova situazione. Una rabbia contro il passato gli turba la serena contemplazione della verità e lo spinge ad insorgere, e gli fa avventare al cielo le serrate falangi dei suoi canti. Si preoccupa troppo degli altri: non guarda con occhio indulgente le calme e modeste evoluzioni che già avvengono attorno a lui. La sua è piuttosto una metamorfosi del cuore, che una larga e compiuta trasformazione della mente. Infatti la religione, per lui, è tuttavia un’astuta invenzione sacerdotale e non un epurativo e vivente processo dello spirito umano. Perciò il suo sentimento prende le forme ironiche e antifilosofiche del Voltaire, e ignora la pia tolleranza della scienza moderna.
Il Lucifero è la più schietta manifestazione di [261] questo stadio della coscienza del Rapisardi. È un caos. Gli elementi del mondo religioso così violentemente buttato giù e distrutto vi s’affollano, vi si urtano, senza mai riuscire ad organizzarvisi in un mondo migliore. Vi si scorge come una sensazione indefinita della verità, ma non il sentimento e molto meno l’idea chiara e schietta di essa. D’onde l’inane fatica della facoltà poetica per indurre il soffio vitale nelle forme plasmate, d’onde il retorico artificio di tutto il poema che alfine riducesi una terribile e deleteria ironia di sè stesso.
Tutto questo però è nobile e degno di rispetto, come ogni cosa che scaturisce dalla sincerità del cuore e della coscienza. E quando il poeta, scambiando perfino le critiche d’arte per risentimenti dell’offesa superstizione, si chiude in una sdegnosa solitudine e canta:
Solo starò, come solingo sasso,
A cui rigido bora e il ciel maligno
Nullo consente onor d’erbe o di rami;
Si dilungan da lui greggi e pastori
Passan lungi gli augelli; egli coi nembi
Pugna indefesso, infin che una nemica
Forza lo schianti, e il suol natio l’inghiotta,
è impossibile difendersi da un profondo sentimento d’ammirazione, benchè si vegga che manca al poeta il vero senso della vita moderna, intendo della vita moderna dell’intelligenza, nella quale tutti i dissidî del pensiero s’armonizzano e si conciliano in una comprensione piena di religione e di poesia.
La traduzione del poema De Rerum Natura può [262] calcolarsi come un’amplificazione del secondo canto del Lucifero. In questo era già evidentissima la tentata imitazione di Lucrezio. Lucifero dottoreggiava coll’indomita vittima di Giove, Prometeo, alla stessa maniera del poeta latino colla diletta prole di Memmo, e se n’assimilava le immagini, le frasi, perfino le transizioni:
Or deggio dir, che, di regnar mal paga, ecc.
precisamente come Lucrezio: Nunc age... espediam (lib. II, v. 60). Nunc locus est... confirmare tibi (lib. II. v. 184). Dico igitur (lib. III, v. 42). L’intiera sostanza del libro V del poema lucreziano era lì condensata e un po’ adattata al livello della coltura contemporanea, e basta rileggerlo per comprendere subito quello che c’è di identico nella situazione psicologica dei due poeti, e quello che li fa differire e forma la forza dell’antico e la debolezza del moderno.
Mi fermo su questo punto che mi par capitale.
La scienza positiva e la filosofia del Lucifero sono, per non dir altro, molto incomplete. Cantare:
Due sono
Le virtù che le cose hanno in governo
La Natura e il Pensier...
. . . . . . . Chi la temuta
Prepossanza di Dio tenne equilibre
Con perenne agitar? Fu la feconda
Lite, che il mar dall’essere commove
Con assiduo flagello e dai cozzanti
Corpi la luce e l’armonia deriva;
cantare così è assai insufficiente come scienza, ed [263] arida astrattezza come poesia. E quando, pel suo istinto artistico, il concetto del poeta tenta rivestirsi d’un’imagine, anzi assumere vita e persona, risulta insufficientissimo il metter in bocca a Lucifero il mito della lotta dei Titani contro Giove e, poco dopo, le proprie lotte contro l’implacato Jeova che lo stesso Lucifero non sa ben dire se sia un fantasma incompreso, o
. . . . . un’ombra
Del suo stesso pensiero, o una diversa
Imagine con lui nata e divisa
Fatalmente da lui.
Giacchè fra quei due miti non può avvenire fusione o idealizzazione di sorta; l’artificio mostra le sue cuciture, e le due impressioni discordanti distruggono il fantasma poetico, mettendo a nudo la vacuità e l’ingenuità veramente primitiva dell’idea.
La scienza moderna è troppo vasta e troppo rigida da permettere all’imaginazione di chiuderla e circoscriverla entro la forma poetica. E se essa contiene un suo speciale sentimento poetico (epico, lirico, talvolta anche tragico), è un sentimento indefinito che non può condensarsi in una schietta creazione. La scienza è già per sè stessa l’assoluta negazione della forma.
Tra la scienza di Lucrezio e la scienza moderna corre un’immensa distanza. «Gli antichi, ha detto il Martha[73] non osservavano gran fatto la natura ed ancor meno facevano esperienze. In cambio di studiare [264] gli effetti per rintracciarne poi le cause, cominciavano coll’ammettere certi principî i quali dovevano bastare alla spiegazione di tutta la natura. Innanzi tratto imaginavano le cause, e quando credevano di averle scoperte se ne servivano per ispiegare i fenomeni.» In altri termini la scienza antica era una specie di poesia. Le ipotesi ardite, le sorprendenti divinazioni che precorrono di lungo tratto le idee del tempo vi si mescolavano a ragioni e ad errori puerili, e spesso le diverse spiegazioni, benchè contrarie fra loro, venivano proposte con una facile indifferenza che ci lascia sorpresi.
Lucrezio ebbe la fortuna d’incontrarsi con questa scienza bambina e potè agevolmente scaldarla del suo genio poetico e animarla d’un soffio immortale. Pel suo poema accade precisamente il contrario di quello che accade coi poemi moderni di consimil genere. Gli anni, invece di diminuirne il valore poetico, glielo accrescono sempre più. Giacchè tutto è ingenuo, tutto è schiettamente sentito in quei sei libri, e non ci è ombra d’artificio anche lì dove parrebbe naturale e quasi necessario che artificio ci sia stato. Le forme, per dir così, scientifiche si compenetrano con le poetiche, e queste comunicano a quelle il loro carattere, come nel mito di Venere, la creazione più bella e più meravigliosa di tutto il poema. Anzi a dispetto delle cautele messe in opera, il sentimento artistico spesso prende la mano al poeta e lo trascina seco e gli fa accarezzare come una realtà quello che poco dopo s’affretta a ripudiare [265] come falso:
Longe sunt tamen a vera ratione repulsa.
E, malgrado le proteste, tutto vi prende corpo visibile, anche le cose invisibili; tutto si agita e vive. I suoi atomi piccoli, rotondi, lisci, uncinati non ci fanno sorridere, ma si muovono, si aggruppano, si mescolano sotto i nostri occhi epicamente. La puerilità della ipotesi scientifica è sempre trascesa e sorpassata dalla grandiosità del sentimento; e questo di là diventa poesia vergine e sublime anche nelle parti più aride dell’esposizione didattica.
«La natura, dice il Trezza, come la riproduce Lucrezio, è tutta a così dire impregnata di sensazioni vivaci e fresche che accusano gli organi sani e gagliardi che la ricevono; le imagini di cui si riflette hanno un che di largo e di schietto e direi quasi un’aura di origini che qualche volta fa ricordare il Rig-Veda. Vi è in lui sovente un vigor di riflessione plastica per cui le imagini ti si pongono con rilievo così forte e spiccato che sembrano avere polsi e nerbo di vita.[74]»
In Lucrezio, il Rapisardi ha come ritrovato sè stesso. Il lavoro di traduzione ha dovuto dargli tutte le voluttà d’una creazione originale. Certamente nessuno meglio di lui, e dall’intima natura dell’ingegno e dalle circostanze della vita, nessuno [266] era così ben disposto ad assimilarsi il sentimento e la forma del gran poeta latino. La lotta è stata gigantesca, ma la vittoria è completa.
Io ho seguito passo a passo per tutti i sei libri il poeta della Natura e il suo traduttore, confrontando questi con gli altri che lo precessero nella difficile impresa; e vorrei poter comunicare al lettore per via di ampî raffronti il risultato delle mie osservazioni o meglio delle mie ammirazioni. Non ho mai sentito come in questa occasione la tirannia del poco spazio concesso dai giornali politici agli studî letterarî.
Il Marchetti diluisce troppo i maschi concetti del testo, e talvolta li fraintende. Il Tolomei, nei saggi pubblicati, si accosta assai più di esso all’originale, ma non rende quella che il Montaigne chiamava la gaillardise de l’imagination e il gros e i plein dello stile lucreziano. L’anonimo che pubblicò la sua traduzione a Lugano nel 1827, per amore di concisione, dà allo stile una certa secchezza ed aridità che è ben lontana dalla muscolosa potenza del grande poeta.
Il Rapisardi invece si afferra al testo e vi aderisce e direi si confonde con esso, semplicemente, senza sforzo, quasi sempre parola per parola, spesso colla stessa giacitura della frase, colla stessa andatura del periodo; ed è raro che aggiunga un epiteto di suo, raro che inverta l’ordine dei concetti, o che affievolisca o che gonfi un’imagine. Si trova a suo agio. Il sentimento poetico che non giunge a diventar [267] forma viva nelle sue opere originali, qui è forma vivissima e delle più elevate; ed egli si tuffa in quest’onda mirifica di poesia come in un proprio elemento e n’esce ritemprato. Tutto quello che una traduzione può rendere del suo modello originale questa ce lo dà e senza ricorrere a mezzucci. Certamente la rubesta selvaggezza dello stile lucreziano qui è un po’ rammorbidita, giacchè il traduttore non ha provato le difficoltà del suo autore:
Multa novis verbis praesertim cum sit agendum
Propter egestatem linguae et rerum novitatem.
Lo strumento adoperato dal Rapisardi è ripulito, perfezionato; si può dire che scherzi colle difficoltà; e perciò manca nel suo lavoro un che che si assapora nel testo per quel divincolarsi del concetto nel foggiare e quasi sforzare lo stile e il verso, per quell’impronta che questi ricevono dalle forme arcaiche, e oserei dire ieratiche, della lingua, le quali ricordano i sentimenti dei mondi primitivi dello spirito umano. Ma pretendere tanto da una traduzione sarebbe proprio un pretendere l’impossibile. E molto che ci sia in gran parte quell’alito di freschezza e di giovinezza, quella pavida solennità del profondo sentimento che si maritano nella poesia lucreziana con mirabile accordo; e citerò in prova il piccolo tratto che parla delle trasformazioni lente e continue dopo che la terra cessò dalle grandi creazioni animali,
destitit ut mulier spatio defessa vetusto,
[268]
che il Rapisardi traduce benissimo:
Cessò, qual donna per vecchiezza stanca.
Però che il tempo muta la natura
Di tutto il mondo, e d’uno ad altro stato
Devono trapassar tutte le cose,
Nè alcuna resta mai pari a sè stessa;
Migrano tutte, tutte da Natura
Sono a mutare, a trasformarsi astrette;
E mentre l’una imputridisce e affranta
Da l’età langue, dal suo stato abbietto
Vien fuori un’altra e chiaro lume acquista.
Tutta dunque così mutano gli anni
La natura del mondo, e d’una ad altra
Condizïon passa la terra, in guisa
Che quanto pria poteva or più non possa,
Quel che già non soffriva ora sopporti.
Il Marchetti ha:
Quasi per troppa età donna impotente,
che non rende il defessa;
tutto altrove fuggesi,
che sforma l’omnia migrant;
tutto volge,
che sfigura il verter cogit; e mette:
Per vecchiezza egro e languente,
dove Lucrezio dice semplicemente aevo debile languet. Nel Rapisardi, oltre alla scrupolosa fedeltà del concetto, c’è invece quello che io chiamerei il quid, il non so che lucreziano; e quasi sempre, da cima in fondo del poema, senza che mai apparisca la più lieve stanchezza, la più piccola esitanza.
Per mostrare che le mie lodi e le mie ammirazioni sono giustificato non voglio tacere i piccoli nèi che io vi ho scoperti. E dirò che il Venere bella non [269] rende l’alma Venus dell’invocazione; nè
Abbandonando stupefatta indietro
La bella testa;
il tereti cervice reposta più semplice assai; che
Ansante irresoluto ei le palpeggia
non dà l’errante incerti corpore toto (lib. IV, v. 1104); che il
discorrer con adunco labbro
I calami sonori
mi sembra, in italiano, un po’ sforzato rimpetto al
Et supera calamos unco percurrere labro;
(lib. V, v. 1406.)
che
I templi vagheggiar del cielo
è assai meno del caeli templa tueri (lib. VI, v. 1227); che
Con sospesi
Denti già già par che li abbocchi e inghiotta
esagera l’imagine del
Suspensis teneros minitantur dentibus haustus.
(lib. V, v. 1063 72.)
Dirò infine che, più di queste inezie, mi ha sorpreso il veder tradurre due volte per fede la parola religio:
Tantum religio potuit suadere malorum! (lib. I.)
Cotanto
Potea di mal persuader la Fede!
Religionum nodis (lib. IV.)
Dai ceppi tenaci della Fede;
giacchè Fede è parola e cosa tutta cristiana e moderna e mal risponde a quella che gli antichi chiamavano Religione. Il metterla in bocca a Lucrezio è [270] una vera stonatura. Così mi pare ecceduto il concetto del
Rursus in antiquas referuntur religionis
(lib. V, v. 62.)
traducendolo:
Tornan di nuovo ai pregiudizi antichi,
versione che potrebbe invocare l’appoggio dell’autorità del Trezza in un passo consimile (Religionum animum nodis exolvere pergo),[75] ma che mi sembra manchi d’una poetica sfumatura che Lucrezio ricerca e non è giusto tralasciare.
Inezie, ripeto, le quali con qualche altra non tolgono nulla all’eccellenza della traduzione, che forse resterà, come dissi in principio, l’opera più originale del Rapisardi.
Un ben venuto dunque a questo vero poeta della Natura. E il mio è un ben venuto puramente artistico. Giacchè io non credo che
a pugnar ne l’ultime battaglie
Sorge in itala veste il suo cantore,
Nec tali auxilio nec defensoribus istis
Tempus eget.
Lucrezio è la pura intuizione dell’idea scientifica moderna. Per la scienza moderna il poema della Natura non può esser altro che un documento. E soltanto per ristorarci col suo intimo e primitivo sentimento della Natura, soltanto per questo ricercheremo avidamente le sue pagine immortali.
20 Ottobre 1879.
[271]
Per imprendere, con pochi mezzi e senza speranza di gran successo, una pubblicazione come questa,[76] il signor Grande deve possedere un coraggio ed una fermezza di propositi da non poter essere lodati ed ammirati abbastanza. L’impresa però è nata sotto buoni auspicî. I due volumi pubblicati fanno attendere con impazienza gli altri venti o ventiquattro che comporranno la collana. L’ottima scelta delle opere, la diligente collazione dei testi, le traduzioni accurate e fedeli, le note parche ma dotte, la correzione [272] infine e la nitidezza della stampa (cose tutte che provengono dalla sua esclusiva ed infaticabile attività) devono naturalmente richiamare su questa, che non è una delle solite ristampe, il favore e gli aiuti degli studiosi italiani. I Municipî di Terra d’Otranto vi sono più direttamente interessati. Le materie dei libri ed i nomi degli autori significano per essi una gloria di famiglia. La Collana infatti conterrà la Storia di Taranto di Giovanni Grande; quella di Brindisi compilata sopra scritti e documenti inediti; quella della città d’Oria, ricavata dai manoscritti dell’Albanese e dai lavori del Papatodero; poi Cronache e Memorie di molte città, Biografie d’uomini illustri, le opere di Lucio Vanini, di Abramo Balmo e d’altri filosofi tradotte dal latino, ecc., che saranno quasi per tutti una vera sorpresa, perchè riveleranno nomi e lavori o mal conosciuti o perfettamente ignorati, gemme insomma preziosissime che vedransi brillare nuovamente alla luce con gran piacere, come è accaduto cogli Opuscoli di Antonio De Ferraris detto il Galateo.
Ho sotto gli occhi i primi due volumi della Collana.
Nulla dirò del poema storico di Guglielmo Pugliese scritto nel secolo XI, scoperto dal Tiremeo in un monastero della Germania e da lui pubblicato nel 1582, indi ristampato dal Leibnizio e dal Muratori. Non già perchè esso non abbia quell’importanza che il signor Grande ha dimostrato nella prefazione con lucidità di criterî e con patriottismo nobilmente sentito; [273] ma perchè non presenta nè l’allettamento della novità, nè il carattere che rende più gradita e più fruttuosa la lettura degli scritti del De Ferraris. Il poema del Pugliese non si distingue in nulla dai moltissimi poemi storici composti in quell’epoca. Gli opuscoli del De Ferraris invece, mostrano una figura così particolare e così piena di attrattive che convien riguardarla come un fenomeno raro tra i latinisti del quattrocento. Non voglio però cominciare a parlarne senza aver prima citato alcune calde parole, che manifestano lo scopo elevato propostosi dal signor Grande con questa raccolta. «Se giungessimo a persuaderci, egli dice, che questo cielo limpidissimo è quello della Magna Grecia; che l’onda la quale ora batte sui nostri lidi deserti, un tempo portava ai nostri padri la ricchezza del mondo; che la terra calpestata dai nostri piedi è la polvere di cento città illustri; che non siamo dirazzati da quelli che abitarono Napoli, Amalfi, Cuma, Pesto, Reggio, Siracusa, Crotone, Metaponto, Eraclea, Taranto, Turio, le quali ebbero tanta parte alla civiltà ellenica; forse allora scuoteremmo quella ignavia orientale che ci rode le ossa, e che mostriamo sul volto come un marchio d’impotenza.»
Gli opuscoli del Galateo posseggono anch’essi un valore storico, e non solamente allorchè versano intorno a memorie storiche propriamente dette, ma più quando senza volerlo apprestano documenti del suo tempo che vincono in pregio cento storie messe insieme.
[274]
Quel che rende maggiormente caro questo scrittore dimenticato (confesso senza vergogna che m’era appena noto il suo nome) è una specie d’interpretazione negativa ch’egli fa del suo secolo. Onorato Urfé scrisse l’Astrea in mezzo alle crudeltà, al fanatismo e alle licenze del secolo XVI. Giorgio Sand pubblicando la Petite Fadette dopo le funeste giornate del giugno 1848, diceva: «Dans les temps où le mal vient de ce que les hommes se méconnaissent et se détestent, la mission de l’artiste est de célébrer la douceur, la confiance, l’amitié, et de rappeler ainsi aux hommes endurcis ou découragés que les moeurs pures, les sentiments tendres, l’équité primitive, sont ou peuvent être encore dans le monde.» Il Galateo, fra gli errori d’ogni sorta che sconvolsero l’Italia dal 1450 al 1517, sembra l’espressione dell’ideale, verso cui gl’italiani d’allora dovevano sospirar coll’animo in segreto e in palese. E questo sospiro all’ideale non trasparisce unicamente dai suoi pensieri, ma pur dalla forma con cui li esprime. Aprendo il libro, istintivamente non vien fatto di buttar gli occhi sul testo latino, che giace a piè di pagina. Ma procedendo nella lettura, si subisce una dolce opera d’incanto, e si abbandona la traduzione per vedere le idee sotto l’antica lor veste. Già s’indovina subito che non si ha da fare con uno di quei pedanti latinisti, pazienti cucitori di frasi e di periodi ciceroniani, che inocularono il malanno dell’imitazione alla nostra vergine letteratura. Si comprende che le cose lette nella traduzione devono infondere [275] allo stile dell’autore quella certa fervida vita, che manca pel solito a coloro che scrivono in una lingua morta; e non ci s’inganna. Egli non bada all’eleganza della frase o al giro del periodo in discapito delle idee; è purgato, è accurato; ma soprattutto, più che latino, vuol esser lui, il Galateo, un uomo del secolo XV, che pensa, che sente e che ragiona a suo modo, senza affettazione, senz’arte, o almeno colla sola di dir le cose alla buona. Ed è forse per conservar sempre questa sua diletta libertà di maniera, ch’egli si serve quasi costantemente pei suoi opuscoli della forma epistolare, trattino di storia, di morale, di filosofia, di fisica, di cosmografia o di medicina.
Nato da un sacerdote greco in Galatone, piccola borgata di Terra d’Otranto; addottorato in medicina nell’Università di Ferrara; versatissimo nelle scienze tutte del suo tempo; profondo nel greco e nel latino, conoscitore del francese e dello spagnuolo; medico primario di Ferdinando I di Napoli; amico del Summonte, del Sannazzaro, del Barbaro, del Giovio, del Pontano e del maggior numero dei più celebri letterati d’allora; colmato di beneficî da re Alfonso II; onorato della stima di altissimi personaggi; dopo aver fatta la prima guerra contro i Turchi, e la prima e la seconda contro i Veneziani, ritiratosi in Gallipoli, vi menò quasi sino al termine dei suoi giorni una vita operosa, tranquilla.
Gallipoli, verso la fine del 1400, sembrava la città sognata dal divino Platone, o pure l’antica Sparta. [276] Gli uomini e la natura la rendevano una mirabile oasi in mezzo allo sconvolgimento di guerre, d’invasioni, di tradimenti e di assassinî che contristava l’Italia. Situata in grembo al mare come una vaga isoletta; riunita alla terraferma da un ponte che afferra l’estremità dell’istmo strettissimo; con clima temperato, sottile, battuto dai venti; ricca d’acque limpide e salutari, lieta d’una quasi perpetua primavera, Gallipoli era abitata da una popolazione di un viso aperto, di carnagione vivace, bella per snellezza di persona e per bizzarre foggie di vesti, amabile per cortesia di parola e per isveltezza d’ingegno. Mondi, costumati, fedeli, parchi, frugali, paghi del loro, concordi, religiosissimi, integri di vita anche fuori di patria, schivi delle costumanze straniere, coraggiosi ed umani vi erano gli uomini. Caste ed astemie tutte le donne; pulite, laboriose, intente alle sole cure casalinghe, piene di rispetto verso i mariti; non vaghe di girare per le vie o pei campi nemmeno le feste; avvenenti, brunette, vigorose, piccole di statura; con occhi neri come i capelli, acuti e sfavillanti; con parola sobria e scherzevole e con un non so che di biscaglino misto di tripolitano che rammentava al nostro Galateo la bellissima rondine di Teocrito. Le giovinette filavano il lino e la lana al fianco dello loro madri, incominciando da piccine ad adusarsi al lavoro. Sposavano prima d’aver amato, a dodici, o tredici anni; e nessuna passava quell’età senza trovare un marito. Educavano i proprî figliuoli con educazione liberale [277] e modesta. All’uopo sapevano esser valoroso e morire in difesa del luogo nativo. La pace della famiglia si versava, per così dire, al di fuori e copriva la città. Per le sue vie un movimento leggiero. Non carri, non cocchi; non affaccendarsi in visite di complimenti; non fastoso urtarsi di gallonato servitorame; non delizie eviratrici, non chiassi corruttori. Invece una soave armonia prodotta dalla non grave discrepanza di fortuna nei cittadini, e dall’assoluta eguaglianza d’essi nella libertà e nei diritti. Poche le liti nei tribunali. Le carceri vuote. Rari i delitti, rari gli odî; i rancori celati ignoti affatto. Libera d’ogni tributo, con un allegro panorama di collinette, colla vista magnifica del cielo e del mare, la Gallipoli che il nostro autore descrive al Summonte non parrebbe cosa vera, se quel suo schietto accento di verità non forzasse l’animo a prestargli fede.
In quei giorni ogni mattina prima dell’alba i gallipolitani vedevano andar premurosamente attorno un uomo di giusta statura, un po’ grassoccio (pinguisculus), con testa grossa, fronte alta e spaziosa, con occhi azzurri e vivaci, con fisonomia colorita, gaia e di veneranda bellezza. Era un medico che visitava i suoi ammalati, conosciuto ed amato da tutti per la sua grande dottrina e la più grande bontà del cuore. Pochi ignoravano il suo tenore di vita. Egli andava a letto alle dieci di sera. Si alzava allo quattro dopo mezzanotte. Leggeva, scriveva e rivedeva i suoi antichi appunti un po’ per diletto, un po’ per trarne [278] consiglio. Prima che si fosse levato il sole pregava Dio (le feste entrava in chiesa), indi andava subito in giro. Pranzava a mezzogiorno, sobriamente. Dopo sceglieva una lettura facile e divertente, aspettando chi soleva a venire consultarlo. Alle tre o alle quattro pomeridiane ritornava a visitare gli ammalati, salendo e scendendo per quelle viuzze assai scomode, affannandosi e sudando molto, benchè sul tardi. Rientrava in casa la sera, dove l’attendeva una piccola conversazione d’uomini colti che amavano discorrere con lui di filosofia, di morale, di matematica senza sottigliezze e senza sussiego. Questo medico era Antonio De Ferraris, il quale aveva preso anche il nome di Galateo (come allora usava) dalla città dove era nato.
La bellezza della natura, la serenità delle abitudini, la sincera cortesia dei caratteri, che lo circondarono sin dalla giovinezza (nel seno delle quali tornò più volte a ritemprarsi e voleva morire) traspariscono nettamente dai sette opuscoli che compongono il presente volume. Egli ha eseguito parecchi secoli innanzi il precetto inculcato da Sainte-Beuve agli scrittori moderni, quello cioè di mettere nelle loro opere quanto più possono del loro naturale, della loro esperienza personale, delle loro passioni o della loro ragione, delle loro tristezze e delle loro gioie, dei nervi, della sostanza della vita e dell’anima loro, onde arricchirle d’un interesse e d’un valore reali. Ha sdegnato di mostrarsi un imitatore servile; e per ciò in molti punti è riuscito un vero [279] artista. Se l’erudizione non lo tradisse, nessuno lo direbbe del quattrocento. Non già ch’egli ne abusi, come tutti i suoi contemporanei; ma per la qualità di essa, affatto greca o romana. La sua descrizione della Giapigia è un’opera d’arte squisita. In ogni punto l’amore della natura vi sgorga abbondantissimo. Vi si respira un senso d’umanità che vivifica il cuore. Ei ti mena da Taranto a Nardò come un precettore amoroso. Nè ti fa arrestare solamente alla vista della città e delle rovine; ma ti consiglia a riguardare quei golfi meravigliosi, quelle fertili campagne irrigate da acque purissime, e ricche di cedri maestosi e di pingui armenti. Nè ti parla soltanto d’imprese guerresche, di signori e di principi; ma ti mena in mezzo alle popolazioni, ti mette nella loro intimità, ti svela le loro superstizioni, le loro sciocche credenze, ti spiega i fenomeni fisici che le hanno prodotte. Non trascura gli aneddoti, le impressioni personali; non evita di divagarsi, come suole accaderci nelle intime conversazioni, per svolgere con larghezza un’idea secondaria, o semplicemente per isfogo dell’animo intristito ed oppresso. Giunto alla fine dei due capitoli che compongono la descrizione della Giapigia io ho posato il libro con un ardente desiderio di scorrere quei luoghi da lui descritti per vedere ciò che i secoli hanno operato in bene ed in male sulla natura e sugli uomini: e questo intenso desiderio è la prova più bella che l’opera non lascia nè indifferenti, nè annoiati.
[280]
Come i gallipolitani, dei quali ha detto: in appulsu exterorum... integritatem et constantiam servant suam, il Galateo non solo non si lasciò vincere dalla corruzione che i francesi e gli spagnuoli versarono fra noi, ma nutrì nobile sdegno contro tutti gli stranieri. E contro i nuovi usi e le nuove fogge introdotti nella vita e negli abiti, gridò calorosamente colla lettera al Crisostomo sull’Educazione, che mostra quale tempra d’anima italiana sia stata la sua. Sventuratamente l’opportunità de’ suoi consigli non è scemata di nulla. Nel leggerli talora m’è sembrato veder rizzare dal sepolcro l’austera persona del vecchio per rimproverare i nipoti.
Non potendo riportare molti brani di questo volume, porrò termine alle mie parole con due brevi citazioni. Nato da genitore greco, egli ama la Grecia come sua vera patria, e trasportato dall’affetto in un punto della descrizione della Giapigia esclama: «O Spinello (teco io parlo senza giudici) mi vergogno d’esser nato in Italia qualunque la terra Giapigia sia posta fuori d’Italia da taluni scrittori. La Grecia perì per vecchiaia e per sua avversa fortuna, l’Italia per i suoi consigli e per le sue discordie; ambedue ora servono agli stranieri; questa spontaneamente, quella per forza. La Grecia spesso liberò l’Italia dalla servitù dei barbari, ma l’Italia lasciò che la Grecia servisse ai barbari. Ma noi scontiamo il fio dei nostri delitti, e lo sconteremo; imperocchè i nostri mali, come vedremo, non ancora giunsero al colmo. Deh, non si tragga augurio dalle [281] mie parole, perchè dico quel che sento, non già quello che io voglio!»
Nato in terra italiana, non sa frenare i palpiti del suo cuore, quando in mezzo ai mali d’essa vede spuntare un raggio di virtù e di gloria. Pochi giorni dopo la famosa Sfida di Barletta egli scriveva al suo amico Crisostomo la storia di quel combattimento così onorevole per gl’italiani, e chiudeva la lettera con queste parole, vero specchio dove si riflette la simpatica figura dello scrittore: «Noi vincemmo li Francesi in quel giorno, non solamente nelle armi ma nei voti e nelle preghiere. Più valsero presso Dio le preci del tuo Galateo medico, che quelle d’un certo santo monaco francese. In quel giorno che si combattè, io, assistendo ai sacri riti, facevo voti ai quattro santi cavalieri Giorgio, Demetrio, Martino e Niceta non sordi alle preghiere, i quali hanno sempre in abominio i superbi. Quei divi ascoltarono le mie voci. Il monaco, o quel druido, cinto di bende giaceva prostrato in terra prima della pugna, e con quanta voce poteva invocava i suoi Dei e, come credo, a preferenza il padre Dite, dal quale dicono esser discesi i Galli, e a cui i loro padri con pessimo rito sacrificavano, prima che passassero in Gallia le mitissime e pie armi dei Romani. Questi, come vide che i Galli cessero il luogo per virtù dei nostri, prima ammutolì come chi fosse stato visto, come si dice, dal lupo; poscia gettò ai Galli l’infula e il libro, rivolse le mani contro la faccia e i capelli, e finalmente, non senza molto riso dei nostri, piangendo come femmina, andò via.»
[282]
Sono certo che non verranno mono al signor Grande nè l’ingegno nè la volontà. Così possa ricevere quegl’incoraggiamenti o quegli aiuti che gli son necessarî alla impresa! Et sit verbo omen conchiuderò col Galateo.
5 Dicembre 1867.
[283]
Era forse Madama Roland quella che si presentò giovedì sera sul palco scenico del Manzoni? No. Le mancava tutto: la grazia, l’eloquenza, la passione, il misticismo dell’amore, il tratto più strano e più particolare di questa eroica figura che par vissuta proprio ieri, così di recente ci è nota in tutta la profondità del suo nobil carattere. Il Salmini ha voluto farne, innanzi tutto, una donna politica, e si è ingannato. Certamente Madama Roland ebbe anch’essa il suo ideale politico sognato a traverso le lunghe letture del Plutarco, del Locke, della Bibbia, del Bossuet, del Dizionario filosofico, e del Sistema della Natura; ma non andò più in là di quel sentimentalismo vaporoso ch’esalta colla sua indeterminatezza e fa passare da un estremo all’altro [284] quando la realtà non corrisponde all’ideale sognato. «Voi conoscete, ella scriveva a Bancal, il mio entusiasmo perla Rivoluzione: ebbene! io ne ho vergogna! Essa è insozzata da mille scellerati: è diventata odiosa!» Allorchè suo marito salì al ministero, Madama Roland gli fece da segretaria, redasse le circolari, le istruzioni, e scrisse quella famosa lettera al Re che fece destituire Roland due giorni dopo; ma fu una parte nascosta, quasi familiare, non una vera partecipazione alla vita politica.
Ella ebbe in supremo grado quel delicato senso pratico che la faceva rifuggire da quanto sconveniva al suo sesso. Durante le riunioni politiche tenute in casa sua, stavasene sempre seduta in un canto, occupata in lavori femminili o a scriver lettere. Non perdeva una sola parola delle cose discusse; e quantunque, a sentire quegli uomini veri modelli di onestà, eccellenti, ragionatori, arguti filosofi, dotti politici, ma che facevano en pure perte de la science et de l’esprit, s’impazientisse talvolta sino a volerli schiaffeggiare, pure mordevasi piuttosto le labbra che cedere all’impulso di prender parte alla discussione.
Madama Roland entra nella vita pubblica e nella storia colla sua difesa alla sbarra dell’Assemblea, quando le ingiurie del Père Duchesne e le denuncie di Marat e di Chabot indussero anche suo marito a domandare che venisse chiamata a dar degli schiarimenti. La bellezza della sua persona, la nettezza della sua frase, la lucidità dei suoi ragionamenti le [285] procurarono un trionfo che poco dopo le costò molto caro. Questo trionfo il suo arresto, il suo interrogatorio, la sua eroica morte: ecco quello che ha contribuito ad illudere il Salmini sul vero carattere di Madama Roland. Questi avvenimenti che mescolano il nome di lei a quanto di più grande o di più terribile ha la Rivoluzione ingrandiscono inavvertitamente le proporzioni della martire politica, a discapito della nobile ed appassionata figura di donna dipinta nelle sue Memorie e nelle sue lettere familiari. Ma se rendono in qualche modo spiegabile l’illusione, non possono far scusare il poeta d’essersi lasciato vincere da essa fino a non scorgere che in Madama Roland mancavan le essenziali condizioni d’un soggetto drammatico.
Madama Roland potrà far scrivere, come osserva lo Scherer, un capitolo della storia dell’amor platonico, ove si troverebbe in compagnia di Dante, del Petrarca, di Goethe e di madama de Stein, e di madama Récamier col suo gran corteggio di spasimanti: potrà proporre uno dei tanti enimmi del cuore umano, innanzi ai quali la scienza e la morale si arrestano come due edipi imbarazzati, quello, per esempio, racchiuso nelle strane parole: je suis restée sage par volupté; potrà finalmente porger materia ad uno studio psicologico anche assai più attraente di quello che non ne ha fatto il Dauban nel suo Étude sur madame Roland et son temps; ma non saprà uscire dal posto che occupa nel gran quadro della storia o nel quadretto di genere, per [286] assumerò l’emozione, il vigore, dirò anche la posa del personaggio drammatico.
A guardarla con occhio d’artista, Madama Roland, in privato ed in pubblico, apparisce sempre una figura incompleta. Nata ed educata ai soavi affetti di famiglia, sul punto di sposare a 25 anni un uomo il quale ne aveva venti di più di lei e le sembrava un essere senza sesso, un filosofo che vivesse di sola ragione, Manon (come la chiamavano) scriveva alla sua amica Sofia: «Commossa intimamente senza essere inebriata o stordita, io guardo il mio destino con occhio tranquillo e compiacente. Doveri teneri e variati riempiranno il mio cuore e le mie giornate: non sarò più una creatura isolata, inconsolabile della sua inutilità, intenta ad occupare con qualunque mezzo la sua attività per prevenire i danni della sensibilità inasprita...» e via di questo tono pretenzioso, sentenzioso, assai comune nel secolo XVIII, sotto cui si vede benissimo una tal quale aridità di cuore, o meglio il predominio della ragione che le fa accettare quel matrimonio per trovar finalmente una soluzione all’irto problema della sua giovinezza.
E vive infatti serena, ritirata, felice: «La verità, la tendenza del mio cuore, la mia facilità a secondare ciò che giova agli altri senza nuocere nè recare offesa a ciò che è onesto, mi fanno quella che io sono, naturalmente, senza il menomo sforzo.»
Ma gli anni passano e arriva anche per lei quel terribile momento della vita in cui la donna prova [287] un forte bisogno di moltiplicare le sue grazie, le sue attrattive per ritenere ancora un poco il regno di amore e di piacere che la gioventù reca con sè al suo arrivo e porta via col suo sparire.
Madama Roland non aveva nulla perduto della sua aria di freschezza, di adolescenza e di semplicità, quando suo marito aveva già preso l’aspetto di un quacquero, come dice il Lemontey, e sembrava suo padre.
Il romanzo del suo cuore comincia allora ad annodare le prime fila d’una mistica tela che la mannaia del carnefice doveva tagliare appena cominciata ad intessere. Lauthenay e Bancal sembrano come dei tentativi, dei saggi, degli abbozzi di quell’amore ideale, dietro cui anelava il suo fervido cuore; Buzot lo incarna con tutta la più splendida realtà. Di nobile aspetto, elegante, tra il selvaggio e il sentimentale, tra l’indomito e il fantastico, indolente, malinconico, facile ad andare in ogni cosa agli estremi, coraggioso, generoso, perseverante, Buzot aveva molte analogie col carattere di lei, specie la purezza dei suoi principi repubblicani, e l’assoluta devozione alle sue convinzioni.
Queste convinzioni aiutano a sviluppare, a moderare, a infrenare una passione delicata e violenta nello stesso tempo; tanto violenta e delicata da far ingannare Madama Roland intorno alla legittimità del suo sentimento, e spingerla a palesare al marito il secreto del suo cuore. Ingenuità senza pari! Ella non aveva saputo misurare le conseguenze di questo [288] inconcepibile passo; e quando le gelosie, le collere, i sospetti del marito vennero ad accrescere i turbamenti della sua anima, a complicarne le emozioni con le sorde ribellioni del cuore non intieramente domate, ella se ne meravigliava e se ne stizzava. «Io onoro, io amo mio marito come una figlia affettuosa ama un padre virtuoso al quale sacrificherebbe persino il suo amante; ma io ho trovato l’uomo che potrebbe essere cotesto amante, e rimanendo fedele ai miei doveri ho avuto la dabbenaggine di non nascondere i sentimenti che sacrificavo ad essi. Mio marito, estremamente sensibile, per affezione e per amor proprio, non ha potuto sopportare l’idea della menoma alterazione nel suo dominio; la sua imaginazione si è offuscata, la sua gelosia mi ha irritato; la felicità è fuggita da noi; egli mi adorava, io mi immolavo a lui, ed eravamo entrambi infelici! Se io fossi libera, seguirei dappertutto i suoi passi per addolcirgli i dolori e consolargli la vecchiezza; un’anima pari alla mia non saprebbe fare dei sacrifici a mezzo. Ma Roland s’indispettisce all’idea d’un sacrificio: e il sapere che io ne faccio uno per lui sconvolge la sua felicità; soffre del riceverlo, e non può intanto farne di meno.»
I tormenti di quest’anima sincera e pura si possono meglio intendere leggendo le lettere scritte al Buzot dalla prigione dell’Abbaye. Il dovere e l’amore vi si equilibrano, vi si fondono in un’intonazione sublime: ma qua e là trapela qual grave fardello di dolore le pesasse sull’anima al ricordo della vita di famiglia [289] che la sua imprudente confessione le aveva reso insopportabile. Ed ora ella gode della sua prigionia ove dee render conto solamente a sè stessa dell’impiego delle sue ore. Qui nulla che la distragga, nulla che le richiami alla mente le contraddizioni delle leggi e dei pregiudizî della società colle più dolci ispirazioni della natura. Come le son cari quei ferri ove è libera d’amare senza dover dividere in due, e occuparsi di lui che l’ama e merita d’esser riamato!
E in quella solitudine, in quel continuo fantasticare, chi sa quai lampi di speranza, chi sa quanti sogni ove ogni mondano impedimento si spezzava e le due anime, i due cuori, i due corpi si univano per non dividersi che colla morte! «Et si le sort ne nous permettais pas de nous réunir bientôt, faudrai-il donc abbandoner toute espérance d’être jamais rapprochés, et ne voir que la tombe où nos éléments puissent être confondus?»
Quest’episodio della vita di madama Roland non ha una soluzione nella realtà; è più un frammento d’opera d’arte, che un soggetto capace di diventare un’opera d’arte. La soluzione della mannaia è una cosa tutta accidentale, esteriore; l’arte non sa che farne. Essa potrà posarsi innanzi tutti gli elementi di questo problema psicologico, incarnarli in un’altra persona e trovarvi, nella libertà del suo mondo, la vera soluzione, la intima, la razionale: ma per la stessa madama Roland c’è la storia che glielo vieta. Così l’episodio più drammatico di questa [290] nobile vita rimane per l’artista proprio come non avvenuto.
Lo stesso accade riguardo all’episodio politico, Madama Roland sconta, più che altro, la colpa di esser moglie d’un ministro girondino. La sua catastrofe ha la propria ragion d’essere quasi tutta fuori di lei. Anche qui c’è il capriccio della sorte, l’accidente, la cosa meno artistica di questo mondo: e l’episodio rimane assolutamente un episodio, senza che possa trasformarsi in un germe d’opera d’arte, cioè d’un tutto vivente ch’abbia in sè stesso gli elementi e la ragione della propria vita.
Mi son diffuso su questo per mostrare che il Salmini vide le difficoltà, le manchevolezze del suo soggetto che impedivano ai grezzi materiali storici la trasformazione drammatica: e tentò anche coraggiosamente d’evitarle e di correggerle. Ma già lo stesso tentarlo era un grave errore. Si può dire che egli abbia quasi fatto il meglio che poteva per dare al suo quadro delle proporzioni grandiose, e un movimento esterno con cui sostituire il vero movimento drammatico; ma bisogna però confessare che questo rimedio è stato peggiore del male. Giacchè non ci sia peggio dell’accorgersi che manchino ad un soggetto le condizioni più essenziali per ridurlo un’opera d’arte, e del supporre intanto che con ripieghi, con sotterfugi, con lustre d’ogni genere si possa agevolmente dissimulare il difetto.
Il lavoro del Salmini riuscì quindi privo d’efficacia e d’affetto, in onta al severo studio impiegato [291] nella scrupolosa rappresentazione dei fatti storici e delle figure dei personaggi che vi agirono o li produssero. Non c’era in quel prologo, in quei 5 atti nè l’atmosfera dei grandi avvenimenti del 93, nè uno spiraculum da trasformare le immagini dei giganteschi personaggi della Rivoluzione in veri fantasmi poetici!... Ed ecco perchè il pubblico si impazientiva, si annoiava, motteggiava, rideva.
La sua attenzione non era afferrata da alcun che di potente che la tenesse ferma; la sua curiosità non era aizzata, il suo cuore non era commosso. Se non applaudì la Marsigliese, non fu per non compromettersi politicamente, come dice il Filippi forse scherzando e come un altro giornale ha detto sul serio, ma unicamente perchè quella declamazione era fuori posto, perchè quel prologo non preparava nulla, e poteva esserci nel dramma o non esserci, senza che l’azione ne soffrisse. — Il pubblico rimase di diaccio! — Ma diede anzi prova di buon gusto. — Rise alla descrizione della morte di Marat! — Ma come non ridere ad un racconto fatto nella circostanza e colla forma del racconto di Carlotta Corday?
Questo benedetto pubblico può avere, se così si vuole, tutti i difetti del mondo; però non avrà mai certi pregiudizî retorici che gli facciano dire: La Madama Roland del Salmini è un lavoro letterario, non è un lavoro teatrale! Per lui un lavoro teatrale è un lavoro letterario, precisamente ed unicamente perchè è un lavoro teatrale. Potrà esser benissimo un lavoro letterario cattivo, un lavoro [292] letterario eccellente, un lavoro letterario mediocre; ma questo corrisponderà all’essere un lavoro teatrale cattivo, un lavoro teatrale eccellente, un lavoro teatrale mediocre. Il pubblico va in teatro colla fisima, credo, niente stramba d’andarvi a sentire un’opera d’arte, un’opera cioè che risponda più o meno a tutte le caratteristiche d’un lavoro teatrale, e non sia nè la storia dialogizzata o sceneggiata, nè un concetto astratto predicato alla nausea in tutti i toni, appartenesse pure alla più sublime morale e al patriottismo più nobile. E allorchè si trova ingannato dalle promesse, allorchè quel che doveva essere esclusivamente ed assolutamente un’opera d’arte gli si trasforma in un trattato di storia a uso giardini Froebel, o in un’azione morale a uso Berquin, il buon pubblico, che ignora le ipocrisie della critica e non sa fare in arte tanta distinzione del mio e del tuo, preferisce senza complimenti ciò che sprezzantemente noi usiamo chiamare l’effetto scenico dei lavori francesi (preciso come la volpe chiamava agresto l’uva matura a cui non poteva arrivare); e non si preoccupa affatto della morale, della storia e di cento altre simili belle cose, ma fa coda alla porta del teatro per rivedere Margherita Gautier che ha vista e rivista da quasi trent’anni; e a petto delle nostre mummie la trova scandalosamente ringiovanita, e torna a piangere sulla sorte di lei, come so non si trattasse d’una mantenuta e di peggio!
Oh! su questo punto io sono col pubblico.
25 Gennaio 1877.
[293]
Renè. Qu’est-ce que c’est done que les affaires, monsieur Giraud?
Jean. Les affaires, c’est bien simple, c’est l’argent des autres.
(Dumas fils. La question d’argent, acte deuxième, scène VII).
Il titolo richiama subito alla memoria Mercadet, La question d’argent, Maître Guérin, La Contagion. (Non cito nè l’Honneur et l’Argent, nè le Bourse del Ponsard perchè, più che commedie, son delle satire dialogate.) Si pensa anche a Turcaret, al Ludro e al suo predecessore Scapino, gli affaristi di bassa lega.
Già Ludro è un gran progresso su Scapino; è un personaggio serio. Ha fiutato la nuova società, ha intravveduto che il suo ingegno d’intrigante potrà [294] poscar nel torbido di quest’alta marea di súbiti guadagni che invado tutto le classi; si è ripulito, si è rimpannucciato, ha lasciato la campagna per la città od è diventato Mercadet. Vive ancora di espedienti, di piccole ma abili risorse, sa piangere, sa svenire, sa fare il milionario quando non ha nemmeno un soldo nel taschino del panciotto; sa tornare a tempo Ludro e Scapino e raccorre con premura da terra il cappello del suo creditore e ripulirlo colla manica del suo abito, per torgli di mano mille scudi. Fatto attore, ride per far ridere, e passa improvvisamente dalla farsa alla tragedia: — je suis au desespoir, je vais me brûler la cervelle — sempre fra lo scettico e il sincero, tra il cinico e l’ingenuo, capace d’esser intrigato anche lui, il grande intrigante, ma pronto a rivolgere in suo favore gli stessi elementi che lo han combattuto.
Nel momento della più grande disdetta, quando tutti i piani con tant’arte combinati gli si sbaragliano dinanzi, Mercadet come il gigante della favola si sente rinvigorire dalla sua caduta a terra. Oui, toutes mes dettes seront payées!... Et la maison Mercadet remuera des millions! Je serai le Napoléon des affaires! Et sans Waterloo!
Però siamo a mille secoli di distanza, siamo nel 1839! Mercadet era un semplice faiseur; aveva per moglie una donna virtuosa, borghese al pari di lui, che lo aiutava negli intrighi, ma che glieli scombussolava quando ci sospettava sotto un che di disonesto. Dal 1839 al 1857 Scapino-Ludro-Mercadet [295] ha avuto tempo di diventare il Jean Giraud della Question d’Argent. Il faiseur è già speculatore, affarista, comico ancora un poco, ma intrigante a viso aperto. Mercadet potrà esser sorpreso a mormorare fra sè: il a de l’aplomb! dopo un tratto di franchezza del suo avversario. Jean Giraud è la franchezza in persona; non si meraviglia di nulla: sa quel che vale, cioè quel che valgono i suoi milioni, e quando si ride di lui, gli basta osservare: «cettc fois, j’ai dit une bêtise, une vraie!»
Il mondo di Mercadet è borghese, esclusivamente borghese; Jean Giraud tenta sollevarsi più alto: vuol penetrare nel mondo aristocratico; si contenterebbe di sposare una fanciulla povera, ma che avesse un bel casato, la signorina di Roncourt, per esempio: «Que voulez-vous! le monde, le monde c’est ma tocade. Les gens comme il faut me tournent la tête!» Ma non bisogna crederlo sulla parola. Il suo matrimonio sarebbe una speculazione anch’esso. Nel contratto egli vorrebbe riconoscere un milione di dote alla moglie che non ha nulla. Gli affari sono come una grande scala. La scala può rompersi, ed allora è bene saper di trovare in qualche posto un milioncino sul quale i creditori non avrebbero presa.
Benchè frequenti il gran mondo, il Giraud è ancora rozzo, mal destro e, sopratutto, un po’ vigliacco. Non si batte, ma minaccia di fare uno scandalo. La sua forza consiste nel sapere che nel gran mondo, come nel piccolo, l’intérêt passe avant tout. Egli, [296] Girami, è il denaro, e il denaro non si mette mai alla porta. Infatti non sa rinvenire dalla sorpresa quando, riapparendo dopo una finta scappata all’Hâvre che ha fatto guadagnare delle centinaia di migliaia di lire ai suoi clienti, egli si vede rifiutati i guadagni e si sento giudicare a questo modo: «Voi non siete un uomo cattivo; voi siete un uomo intelligente che ha perduto nella baraonda di certi affari la nozione esatta del giusto e dell’ingiusto, il senso morale alfine. Avete voluto acquistare la stima per mezzo del denaro; dovevate fare all’inverso: guadagnare il denaro per mezzo della stima!» Giraud, è vero, fa un’alzata di spalle sdegnosa e va via; ma la sua sorpresa, il suo sbalordimento sono così grandi che sbaglia perfino nel prendere il cappello.
«Mathilde. Vous, vous trompez, monsieur, vous prenez le chapeau de mon père.
»Jean (avec fierté). Je l’aurais rapporté, mademoiselle.»
Scapino-Jean Giraud non si perdo d’animo. Riapparirà sul teatro in un campo più modesto, con ambizioni più limitate, più possibili; ma sempre col suo sogno di penetrare nel paradiso terrestre dell’aristocrazia. Gli sembra impossibile che l’angelo custode d’esso non debba lasciarsi corrompere dalle pile d’oro dei suoi pezzi di 100 franchi e da una manata di biglietti da mille, che son più comodi e valgon lo stesso. Si farà dunque notaio, si chiamerà Maître Guerin, e non penserà per sè, ma per [297] suo figlio. Questi è un semplice ufficiale di linea; vorrà farne un barone di Valteneuse. Quanta finezza, quanta tattica, quanto spirito in questo suo lento intrigo! Maître Guérin ha proprio perduto il senso morale: è perverso. E prima di esserlo con gli estranei comincia dalla famiglia. La povera sua moglie, un angelo di bontà, vien da lui trattata come vera schiava. Ella trema al suo cospetto, non sa dire una parola; ubbidisce, sopporta piangendo i disprezzi, gli insulti, i sarcasmi, ma piange in segreto.
Solo, dominatore, con elementi che paion docili ai suoi disegni, Maître Guérin si crede finalmente sicuro della sua vittoria. Ed ecco che, sul meglio, tutto il suo edificio va giù. Nè sono gli estranei che rifiutano i suoi beneficî, i suoi guadagni, ma (quel che è più tristo) lo stesso suo figlio! Il senso morale prende ancora una rivincita, non l’ultima forse, contro l’avidità, contro la mala fede, contro tutto quel viluppo di bassezza, di tradimento, di menzogna e d’infamia che formano il carattere d’un affarista. La povera schiava, l’umile moglie rizza anch’essa dignitosamente la fronte, umiliata per tant’anni, e lascia insieme al figlio la casa del suo tiranno...
Il colpo è forte, ma dà la sua lezione. Scapino-Maître Guérin non è uomo da non approfittarne. — La famiglia? Ecco un impaccio! — Nella sua nuova incarnazione non avrà famiglia... avrà une maîtresse, che giocherà con lui alla borsa e vincerà [298] sempre, anche quand’egli perderà. Il D’Estrigaud della Contagion è l’ultima incarnazione di Scapino. Il personaggio ha fatto una continua epurazione di sè stesso; si è ingentilito, quasi nobilitato; non lo si riconoscerebbe più, a guardarlo di fuori. È un bell’uomo, culto, elegante, di una galanteria squisita; dà l’intonazione alla moda; i suoi motti vengono ripetuti dagli imbecilli che lo copiano in tutto, nel modo d’annodar la cravatta, e nel modo di rovinarsi colle cene alle attrici. Solamente D’Estrigaud la sa lunga, e cava profitto anche dai suoi scialacqui, anche dal lasciarsi tradire dalla sua mantenuta. Però non riesce nemmen lui. Sembra che gli autori drammatici, sdegnosi di veder trionfare i veri Scapini, i veri Mercadet, i veri Giraud, i veri D’Estrigaud sulla scena del mondo, si vogliano dare il gusto di umiliarli, di avvilirli per lo meno sul palco scenico. L’Augier infatti farà rifiutare la mano del D’Estrigaud dalla sua stessa mantenuta, e lo invierà in California con un semplice: bonne chance! della Navarrette.
Il signor De Renzis si contenta di mettere alla porta il suo Armando Armandi, uno di questi tipi di speculatori che fanno gli affari col denaro degli altri. Ma via, non meritava altro questo imbecille! Rimpetto ai suoi colossali predecessori, dei quali ho tracciato un rapido schizzo, che cosa può rappresentare nell’arte una figura così sbiadita?
Il Dio milione! ecco un gran titolo. Ma rimane come un portico greco innanzi a un’osteria di campagna. [299] E possibile che nella nuova Italia non vi siano delle nuove incarnazioni di Scapino da ritrarre, anche dopo l’ultima stupenda incarnazione del D’Estrigaud?
Scapino ministro sarebbe un gran soggetto! Solamente non è facile che lo tratti il De Renzis.
4 Febbraio 1877.
[300]
Sono degli studii di soggetto diverso (letteratura generale, letterature neo-latine, letteratura tedesca) tutti seriamente pensati ed accuratamente scritti. Li precede una dedica che è un vero programma: Ad A. E. Lessing e a G. Gervinus morti, questo volume che mira a tener vive le loro idee. Mi rallegro coll’autore perché ha avuto il coraggio d’affrontare a viso aperto l’accusa, ora di moda, di germanizzare.
Servirsi del gran patrimonio di studî, di osservazioni, di confronti, di resultati che ha ricevuto, è vero, più specialmente in Germania un incremento straordinario, ma che, diventato ormai la scienza moderna senza particolare nazionalità, è tedesco [301] quanto è italiano, francese ed inglese; ecco quello che oggi suol venir chiamato con aria di scherno: germanismo. È un’accusa che fa onore. Certamente tale immenso patrimonio non può affatto trovarsi alla mano di tutti. Senza una preparazione che costa fatica, molti dei suoi scopi, dei suoi metodi e delle sue illazioni non solo non possono venir intesi, ma (quel che è peggio) debbono facilmente venir fraintesi. Infatti i positivisti volgari li veggono avvolti da una fitta nuvola di trascendentalismo che loro non garba. Invece la nuvola non esiste, e il difetto sta tutto nella miopia di chi pretende vederci bene senza provvedersi di occhiali. È giusto avvertire che questi scritti del signor Canello non sono pei miopi: l’autore pensa e fa pensare.
Il volume comincia con un largo studio sul Classicismo e sul Romanticismo. Il concetto dell’autore in brevi parole è il seguente: L’arte è la rappresentazione dell’ideale, del meglio, del bello, tre vocaboli che pel signor Canello hanno lo stesso significato. L’arte classica e la romantica hanno cercato tutte e due di presentare il meglio; l’arte classica però ha dipinto l’ideale delle età civili, l’armonia tra il fatto e il pensiero; l’arte romantica ha dipinto quello delle giovanili e senili che si somigliano, lo squilibrio tra il fatto e il pensiero. L’arte classica dunque rimane superiore alla romantica. A dimostrare questo suo concetto l’autore percorre a volo la storia universale delle lettere e ne tratteggia i periodi che gli sembrano più appropriati al suo scopo.
[302]
L’autore dice: «Mi terrò lontano da ogni spirito di parte; e per giudicare con maggior sicurezza dei moderni, risalirò la montagna dei secoli, e cercherò d’invasarmi del buon gusto antico; e per giudicare l’arte antica mi porrò nella gran luce della critica moderna.»
Questo studio si legge con piacere e con frutto.
L’autore ha una cultura seria, non ripete cose altrui, ma presenta quasi sempre delle osservazioni, dei raffronti nuovi, arditi, giudiziosissimi; però, in quanto alla sua tesi, mi pare lasci il tempo che aveva trovato. La chiarezza, la precisione dei particolari non giovano a renderci chiaro e preciso il suo concetto principale. Anche rileggendo non si arriva ad afferrare un’idea netta di quelle due benedettissime parole classicismo e romanticismo, e si finisce col dubitare che non siano, invece di due idee, due vocaboli vuoti.
A questa indeterminatezza contribuisce, secondo il mio modo di vedere, il concetto troppo vasto, e quindi un po’ astratto, che il signor Canello ha dell’arte. Per lui, la ragione ultima d’ogni progresso e d’ogni civiltà è la tendenza al meglio; disconoscere questa tendenza o errare nel soddisfarla, è barbarie; bisogna ch’essa venga coltivata e ben corretta: ecco l’ufficio civile dell’arte: «l’arte sola riesce a rappresentare con evidenza questo meglio e a proporlo alla laboriosa umanità come meta sicura.» Alla pittura e alla scultura il meglio della forma, alla musica il meglio dei sentimenti, alla poesia il [303] meglio dei fatti: o per dirla alla darwiniana, alla pittura lo scopo di aiutare la specie umana nella scelta sessuale; alla poesia quella di aiutarla nella scelta naturale, i due massimi fattori, nell’opinione del Darwin, dell’evoluzione animale verso il meglio. Sono press’a poco le precise parole dell’autore.
Il signor Canello ha dimenticato soltanto una cosa, che arte innanzi tutto vuol dire forma, e che farne la storia dovrebbe significare principalmente fare la storia della forma. L’arte così riguardata riman sempre, in un certo modo, la storia dello spirito umano, ma dello spirito umano in quanto forma artistica che è una cosa molto diversa.
La forma non è un accidente, è una necessità creativa. La sua evoluzione somiglia su per giù a quella che si riscontra nella creazione delle forme naturali, e deve perciò studiarsi cogli stessi metodi delle scienze naturali. Non si avrà per questo studio il microscopio perfezionato dal Ross, ma si avrà quello dello stesso pensiero umano, della riflessione, che saputo adoperare può valere di più.
Le forme si sieguono ma non si rassomigliano, e sopratutto poi non si ripetono. Le diverse letterature costituiscono infatti un gran museo. Anche in esse vi sono dei lepidodendron, dei megalosauri, mastodonti, dei mesopitechi che non rivivranno: e vi sono delle specie che si riproducono per una mera accidentalità generativa, oltrepassate nel loro sviluppo da specie superiori che costituiscono la viva realtà della forma e paiono, agli occhi dell’osservatore [304] superficiale, una negazione di quelle. Anche nella letteratura ogni specie, cioè ogni forma, oltre alla ragione generale, ha le sue particolari che si rivelano nelle ramificazioni di forme e di sottoforme, precisamente come accade nella flora e nella fauna: al pari nella creazione naturale, una forma minore si perde in un’altra superiore e cessa confondendosi in questa o, per dir meglio, diventando questa.
C’è di già una scienza delle religioni; c’è anche, o dovrebbe esserci una scienza delle letterature. Come non è un accidente che dal feticismo siamo arrivati al cattolicismo (la forma religiosa più perfetta e quindi la più vicina alla corruzione di tutte le forme religiose), così non è un accidente che dall’epopee primitive si sia arrivati al Fausto del Goethe (un capolavoro il più vicino alla corruzione della vera forma poetica). Chi vorrà dire che il poema, la tragedia, la commedia, la lirica, il romanzo siano forme accidentali? Si poteva forse cominciare dall’Assommoir e finire al Mahabarata e all’Iliade? Si poteva forse cominciare dall’Amleto e dall’Otello e finire all’Edipo re ed all’Antigone? Si poteva cominciare dal Tartufo e dal Demi-monde e finire alle Nuvole, alla Lisistrata, ai Cavalieri? Si poteva, infine cominciare dall’Intermezzo, dalla Ginestra e finire agli inni Orfici o alle Olimpiche e agli Epicinicii? No certamente.
In che modo il poema epico è diventato prima tragedia e poi commedia? In che modo le vediamo oggi assolutamente lirica e romanzo? Ecco alcuni [305] dei problemi che la scienza della letteratura si è proposti ed ha sciolti con una precisione di metodo da non invidiar nulla a quello delle scienze naturali. Manca forse un lavoro che, riassumendo questi criteri di metodo e i risultati ottenuti, li faccia apprezzare nel loro valore complessivo anche dai profani della scienza. Si sentirà presto il bisogno di farlo. Si vorrà per lo meno scevrare ciò che oramai è un fatto acquisito, un puro assioma scientifico, da quello che è un’ipotesi in via di diventare una tesi.
Il Trezza meglio d’ogni altro in Italia, potrebbe scrivere oggi un tal libro: anzi in parte l’ha fatto. Il suo lavoro sulla Critica moderna ha solamente il torto di aver circoscritto a poche pagine ciò che riguarda quella che io chiamo la scienza della letteratura. È vero però che quelle poche pagine valgono, per chi sa leggervi, parecchi volumi.
Portare nella storia della letteratura il metodo di osservazione positiva già adoperato per le scienze naturali ed ora anche per lo studio delle religioni, non è un tentativo pericoloso e di semplice analogia. I tre mondi umani della sensazione, del sentimento e della ragione corrispondono ai tre mondi minerale, vegetale ed animale della natura. L’arte, uno di quei tre mondi, non è certo il migliore e il più perfetto.
Il signor Canello si serve spesso felicemente di questi mezzi della critica moderna, ma talvolta ha delle strane esitanze che mettono nelle sue idee quell’incertezza di cui ho parlato sul principio. La forma [306] e l’idea sono per lui la stessa cosa; l’arte, per lui non è l’idea in quanto forma ma quasi l’opposto, la forma in quanto idea. E per questo egli non trova la soluzione del suo problema del classicismo e del romanticismo, il quale poi non ha nessuna ragione di essere un vero problema. Vi è una forma letteraria che raggiunse nell’antichità la sua perfezione assoluta (il poema); un’altra che raggiunse una perfeziono relativa (la tragedia). Vi sono nei tempi moderni, romantici, come il signor Canello e il Trezza direbbero, delle forme che in essi soltanto toccarono la perfezione assoluta (la tragedia, la commedia, la lirica).
Naturalmente queste forme corrispondono precisamente a degli stati particolari dello spirito umano; ma sembrami molto ingiusto, se non affatto erroneo, il dire che oggi lo spirito umano sia decaduto, sia ammalato, sia senilmente imbecillito perchè ha rotto l’equilibrio che produsse il miracolo dell’arte greca.
La supremazia dello spirito umano moderno sta appunto nel suo predominio, nella rottura del limite di quell’equilibrio; e se l’arte ne ha sofferto, peggio per l’arte: era questo il suo destino.
Applicando tali idee all’altro lavoro del signor Canello intorno allo favole, Fablieaux e fiabe su Renardo ed Isengrino, molte osservazioni di lui sulla forma della favola e dei fablieaux si modificherebbero. Per esempio, si vedrebbe che l’esser la favola brevissima fra i greci, di larghe proporzioni nel medio-evo e corta di bel nuovo nell’età moderna non [307] proviene soltanto dalla maggiore o minor civiltà. C’è anche lì una questione di forma puramente letteraria e il Canello l’ha sorvolata.
Un giudice competentissimo, il Trezza, parlando dello studio su Goethe che chiude il presente volume, ha detto: è uno dei più completi e si legge fruttuosamente anche dopo la stupenda monografia del Levy. Questo elogio è meritato.
Certamente parecchie idee sul teatro del Goethe e sul Fausto non possono accettarsi senza benefizio d’inventario. Predomina nel giudizio dell’autore, specie quando parla del Goethe di Berlichingen, del Tasso e dell’Ifigenia, quello stesso criterio che gli fa riguardare l’opera d’arte più come concetto che come forma.
Il teatro del Goethe potrà avere, anzi ha un gran valore per lo studio del carattere dell’artista e delle sue evoluzioni; ma nella storia della forma drammatica ne ha uno ben piccolo. Soltanto la luce riverberata su di esso dalle altre opere poetiche dell’autore farà accorti gli avvenire che il Goethe ebbe un teatro.
Gli studi di critica letteraria come questi del signor Canello son così rari tra noi che non si può ringraziare abbastanza l’egregio autore di averceli dati raccolti in un bel volume. Il cielo gli accordi intanto i lettori che merita!
19 Luglio 1877.
FINE.
[308]
ERRATA | CORRIGE | ||||
Pag. | 7 | linea | 30 | e ne fece | se ne fece |
» | 43 | » | 15 | a piedi | ai piedi |
» | 45 | » | 29 | marchiati | marcati |
» | 47 | » | 23 | a morte | a morto |
» | 52 | » | 8 | una paraventa | un paravento |
» | 91 | » | 27 | sdruscio | sdrucio |
» | 96 | » | ivi | non potevano | non poteva |
» | 104 | » | 7 | impalbilità | impalpabilità. |
» | 42 | » | 20 | trascico | strascico |
» | 51 | » | 3 | piume dei polli | piume di pollo |
» | ivi | » | 15 | del burro della Bretagna e della Normandia. | del burro di Bretagna e di Normandia. |
[309]
Prefazione | pag. V | |
I. | Giulio Michelet. | |
Le Banquet | 1 | |
II. | Teofilo Gautier | 16 |
III. | Lionardo Vigo | 35 |
IV. | Emilio Zola. | |
L’Assommoir | 50 | |
Une Page d’Amour | 65 | |
V. | Edmondo De Goncourt. | |
Les frères Zemganno | 77 | |
VI. | Giovanni Prati. | |
Armando | 93 | |
Psiche | 113 | |
VII. | Lionardo Vigo e Mario Rapisardi. | |
Il Ruggiero, poema. — La Palingenesi | 119 | |
VIII. | Mario Rapisardi. | |
Lucifero | 146 | |
[310] | ||
IX. | Ferdinando Fontana e Lorenzo Stecchetti. | |
Poesie — Postuma | 158 | |
X. | Luigi Gualdo. | |
La Gran Rivale | 175 | |
Un mariage excentrique | 180 | |
XI. | Roberto Sacchetti e Emanuele Navarro. | |
Candaule ed altri racconti. — La Nana | 187 | |
XII. | Giuseppe Pitrè. | |
Studi di poesia popolare | 195 | |
XIII. | Il Libro di Giobbe | 206 |
XIV. | Aleardo Aleardi. | |
Epistolario | 216 | |
XV. | Luigi Settembrini. | |
Ricordanze della mia vita | 243 | |
XVI. | Una Traduzione. | |
La Natura, libri sei di T. Lucrezio Caro tradotti da M. Rapisardi | 257 | |
XVII. | Antonio Galateo. | |
Opuscoli | 271 | |
XVIII. | Madama Roland | 283 |
XIX. | Un tipo Comico | 293 |
XX. | A. Canello. | |
Saggi di critica letteraria | 300 |
DELLO STESSO AUTORE.
Il teatro contemporaneo. Saggi critici. Palermo, Pedone Lauriel, 1873. Un vol.
Profili di Donne. Milano. Brigola, 1878. Un vol.
Giacinta. Milano. Brigola e Comp.º, 1879. Un vol.
Di prossima pubblicazione:
GIACINTA
2.ª edizione riveduta e corretta, con prefazione.
1. Le Banquet, papiers intimes, première édition. Paris, Calmann Lévy, 1879.
2. E. Bergerat, Théophile Gautier, souvenirs, entretiens, correspondence, etc. Paris, Charpentier, 1879.
Feydeau, Théophile Gautier, souvenirs intimes. Paris, Plon, 1876.
T. Gautier, Histoire du Romantisme. Paris, Charpentier, 1874.
T. Gautier, Portraits contemporains. Paris, Charpentier, 1876.
3. Vedi più innanzi uno studio su questo poema.
4. Paris, Charpentier, 1877, 1 volume.
5. Paris, Charpentier, 1878, 1 volume.
6. Marius Topin. Romanciers contemporains. Paris, Charpentier, 1878, pag. 254.
7. Les frères Zemganno. Paris, Charpentier, 1879.
8. Jacques Vingtras. Paris, Charpentier, 1879.
9. Firenze, Barbèra editore, 1868.
10. Vedi: Taine, L’Ideal dans l’art, passim.
11. Armando, ai Lettori, pag. 5.
12. Armando, luogo citato, pag. 6.
13. Armando, luogo citato, pag. 7.
14. Parte prima, XIII.
15. Parte prima, XXXI.
16. Parte seconda, XVIII.
17. Parte seconda, IV.
18. Montaigne.
19. Sonetti. Padova, Sacchetto, 1875, 1 vol. di pag. 588.
20. Il Ruggiero, poema. Catania, Galatola, 1865.
21. La Palingenesi, canti dieci. Firenze, Successori le Monnier, 1868.
22.
Oggi a cui dici sisiri in Sicilia
Si cci tagghia lu coddu ppi so gloria:
E quannu si dirà: qui fu Sicilia,
Finirà di la Francia la memoria.
23. Giovanni di Salisbury, allora vescovo di Chartres.
24. Guglielmo Pugliese nel suo poema Delle gesta dei Normanni chiama Palermo
Urbs inimica Deo, divini nescia cultus
Subdita Daemonibus (lib. 3).
25. Saputo che dovevano passare d’Amalfi a Melfi alcuni mercatanti, Ruggiero «non minimum gavisus, equm insiliens, cum octo tantum militibus mercatoribus occurrit, captosque Scaleam duxit, omniaque quae secum habebant diripiens, ipsos etiam redimere fecit. Hac pecunia roboratus, largus distributor centum sibi milites alligavit.» È il suo panegirista Malaterra che così scrive nel lib. I, cap. XXVI.
26. Come nei canti VII, 96; X, 33; XII, 49; XIX, 35 e 37.
27. Foscolo, Ragione poetica del carme Le Grazie.
28. Lucifero, poema. Milano, Brigola, 1877.
29. Poesie e Novelle in versi. Milano, Galli e Omodei, 1877, un volume.
30. Postuma, Canzoniere, edito a cura degli amici. Bologna, Zanichelli, 1877, un volume.
31. Novelle. Milano, Treves, 1877.
32. Paris, Lemerre, 1879.
33. Candaule, Vigilia di nozze, Riccardo il tiranno, Da uno spiraglio, racconti. Milano, Treves, 1879.
34. La Nana, racconto di Blasco. Milano, Brigola, 1879.
35. Biblioteca delle tradizioni siciliane. Volume terzo, che contiene gli studî di poesia popolare. 340 pagine in-16 gr. Palermo, Luigi Pedone-Lauriel, editore, 1872.
36. Nuova Antologia, ottobre 1872.
37. Nuova Antologia, agosto 1870.
38. Studî di poesia popolare, pag. 8.
39. Job, drame en cinq actes, avec prologue et épilogue par le prophète Isaïe, retrouvé, rétabli dans son intégrité, et traduit littéralement sur le texte hébreu, par Pierre Leroux. Paris. Dentu, 1866. Un vol. di pag. 454.
40. De sacra Poesi Hebræorum, prælectiones.
41. Conversations de lord Byron, tom. 1, p. 156.
42. Vedi, per esempio, a proposito della parola Ideale il cap. XLV dell’Appendice e i seguenti, pag. 360.
43. Epistolario, con un’Introduzione di G. Trezza. Verona, Drucker e Tedeschi, 1879.
44. Lucifero, canto XII.
45. In una nota al Canto politico in morte della contessa Giusti.
46. Epistolario, pag. 343.
47. Epistolario, pag. 124.
48. Epistolario, pag. 145.
49. Epistolario, pag. 102.
50. Epistolario, pag. 153.
51. Epistolario, pag. 115.
52. Epistolario, pag. 112.
53. Epistolario, pag. 145.
54. Epistolario, pag. 207.
55. Epistolario, pag. 138.
56. Epistolario, pag. 235.
57. Epistolario, pag. 250.
58. Epistolario, pag. 203.
59. Epistolario, pag. 145.
60. Epistolario, pag. 281.
61. Epistolario, pag. 383.
62. Epistolario, pag. 402.
63. Lettere a Maria.
64. Epistolario, pag. 231.
65. Ricordanze della mia vita, con prefazione di Francesco De Sanctis. Napoli, cav. A. Morano editore, 1879.
66. La Natura. Libri sei di T. Lucrezio Caro, tradotti da Mario Rapisardi. — Milano, Gaetano Brigola e Comp. 1879.
67. Epistola a Lucrezio, messa in fronte alla traduzione.
68. Palingenesi, Canto I.
69. Palingenesi, Canto X.
70. Palingenesi, Canto X.
71. Rimembranze, Sole d’inverno, pag. 51.
72. Epistola ad Andrea Maffei premessa al Lucifero.
73. Le poëme de Lucrèce. Paris, Hachette, 1869.
74. Lucrezio, pag. 259.
75. Lucrezio, pag. 134, in nota.
76. Collana di opere scelte edite ed inedite di scrittori di Terra d’Otranto, diretta da Salvatore Grande. Lecce, tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone. — (Opere pubblicate: I Normanni, poema storico di Guglielmo Pugliese, cronache e diplomi dei secoli XI e XII. La Giapigia e varî opuscoli di Antonio De Ferraris detto il Galateo, traduzione dal latino, vol. I.)
77. Dramma in un prologo e cinque atti di Vittorio Salmini.
78. Il Dio Milione, commedia in quattro atti di F. De Renzis.
79. Saggi di critica letteraria, Bologna, Zanichelli, 1877. — Un volume di 500 pagine in-16.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 308 sono state riportate nel testo.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.