The Project Gutenberg eBook of I due Desiderii This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: I due Desiderii Author: Salvatore Farina Release date: April 16, 2022 [eBook #67850] Language: Italian Original publication: Italy: Alfredo Brigola Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I DUE DESIDERII *** SALVATORE FARINA I DUE DESIDERII (Prologo ed Epilogo) MILANO ALFREDO BRIGOLA & C. EDITORI Proprietà Letteraria riservata Milano, 1889 — A. Colombo & A. Cordani, tipografi. _A Salvatore Delogu — Roma._ _Natale, 1888._ _Salvatore mio caro,_ Come vedi, ho scritto un’altra novella che tu giudicherai almeno almeno curiosa, perchè si compone unicamente del Prologo e dell’Epilogo d’un gran romanzo, il quale ognuno di noi, più o meno, ha vissuto. Ragioni d’arte che non sto a dichiarare, ma che tu intenderai senza fatica, mi avevano consigliato fin da principio a non disporre questo romanzo in capitoli, e in ultimo a tacerlo, accennandovi solo da lontano il tanto che bastasse a illuminare lo studio psicologico. Vorrei dire lo “studio filosofico„ se non avessi paura di far la voce troppo grossa, chè si sa bene essere la filosofia e la poesia e qualunque cosa altissima negata sopratutto a chi fa il romanziere, negata non tanto dai profani di lettere, ma da molti burbanzosi che di lettere insegnano dalla cattedra. Dunque il mio romanzo è lasciato all’immaginazione del lettore, il quale non stenterà a farsene uno con le traccie che gli ho dato; io ho scritto solo il principio e la fine. Tu leggi con la bontà che mi hai sempre dimostrato, pensando che se la mia scrittura non avesse altro pregio, questo ha almeno agli occhi miei d’essere intitolata a te, che, fra i molti amici cari, sei uno dei pochissimi avanzati. Gli altri sono morti o peggio che morti. Così ti siano risparmiate le afflizioni, e concessa lunga vita ai tuoi affetti. S. FARINA. PROLOGO I. Il primo a svegliarsi nell’ampio dormitorio, era sempre Desiderio; quando entravano per i finestroni le luci smorte dell’alba, il piccino si era già messo a sedere sul letticciuolo ad aspettarle, e per non ricadere nel sonno, aveva contato i letti del camerone, che erano trentadue, oltre quello del sorvegliante, in fondo in fondo, sotto l’immagine della Madonna. Tutti quei piccoli dormenti, che empivano l’aria di strani suoni, visti di scorcio o di profilo, alla scarsa luce mattutina, con le bocche aperte e gli occhi chiusi, offrivano a Desiderio un po’ di svago. Ma gli davano anche un certo sgomento dal giorno che, svegliandosi, e non udendo la respirazione del piccolo Giulio, il quale dormiva nel letticciuolo accanto al suo, avea poi riconosciuto che il letto era vuoto: nella notte Giulio si era sentito male, e l’avevano trasportato nell’infermeria. Quel Giulio era un buon ragazzo, ma piangeva sempre, perchè avendo conosciuto la mamma, che gli era morta, si ostinava a volerla ancora. Desiderio si era provato tante volte a consolare il suo vicino, dicendogli che le mamme si ritrovano poi in paradiso; ma un giorno Giulietto gli aveva risposto che lui di queste cose non ne poteva sapere, perchè la mamma non l’aveva conosciuta, e forse non l’aveva avuta nemmanco. Era vero; Desiderio la mamma non l’aveva conosciuta, e forse non l’aveva nemmeno avuta; di modo che, non si sentendo l’autorità di far cessare le lagrime di Giulietto con quest’argomento, non aveva più saputo che cosa consigliare... Però se cercasse di svagarsi, di leggere, per esempio... Oibò! a Giulietto non piacevano i libri se non sulle ginocchia della mamma, e voleva morire per andare a leggere in paradiso. Dunque ogni mattina Desiderio, svegliandosi quasi al buio, stava ad ascoltare se mai fra i varii suoni dei compagni russanti potesse discernere anche la respirazione debole del piccolo Giulio; ma non udendo nulla, e riconoscendo il letto vuoto prima ancora che l’alba glielo facesse vedere, si domandava, con un po’ di terrore, se Giulietto fosse proprio morto per andar a trovare la mamma, e il suo piccolo criterio gli diceva di no, che se Giulio fosse morto, il suo letto non sarebbe rimasto tanto tempo vuoto. Poi la luce entrava dai finestroni, Desiderio cavava di sotto il guanciale un libro, un magnifico libro pieno di storielle, e dimenticava Giulietto ammalato e tutti i suoi compagni che russavano nel camerone, per pensare solo a Puccettino e alla Bella addormentata nel bosco. Il letto di Desiderio era l’ultimo del dormitorio; un vicoletto largo una spanna lo separava appena dal muro, poi vi era un altro vicoletto più largo, poi il letto vuoto di Giulio; così il fanciullo era quasi isolato in mezzo ai compagni. Non ne era scontento, tutt’altro, perchè da soli si viaggia meglio con gli stivali delle sette leghe. E poi quella barriera che la malattia di Giulio metteva fra lui e il mondo, gli faceva pensare a un altro personaggio, di cui aveva inteso a parlare, a un certo Robinson, che si era perduto in un’isola, e aveva vissuto tanto tempo senza la zuppa di latte, perchè non aveva pane e nemmeno latte, facendo però delle scorpacciate di frutta. Desiderio una buona scorpacciata di frutta non l’aveva potuta fare ancora, ed era press’a poco convinto che non la farebbe mai, salvo di capitare anche lui in un’isola disabitata. Ma chi sa se d’isole disabitate ne sono rimaste? Dopo che Robinson ha insegnato ai ragazzi come si fa a vivere nelle isole deserte, tutti ci saranno voluti andare, e sarà forse là come in Milano, la zuppa di latte la mattina, la minestra e la carne lessata al mezzodì, la zuppa di brodo la sera, e qualche mela nana ogni tanto. Una notte Desiderio si svegliò, e tese l’orecchio; la lampada notturna, che per solito ardeva all’estremità opposta del dormitorio, sopra il letto del sorvegliante, s’era spenta; ma il buio non era fitto: penetrava dagli ampi finestroni, insieme con la luce diffusa delle stelle, un bagliore incerto e rossigno, il raggio smarrito d’un lampione lontano. Era difficile anche agli occhi avvezzi di Desiderio, comporre in quello spazio nero la visione che gli appariva ogni mattina; pure vi si provò, tanto non aveva sonno. Ecco... in faccia a lui, là, proprio là, ci deve essere il letto di Gabriele, il piccolo Gabriele dagli occhi scerpellini, dalla faccia rossa; ma che è stato? dov’era il letto di Gabriele non vi è più nulla e in quella direzione, ma lontano, lontano, ecco apparire il corpo accoccolato di un gigante nero. Desiderio capì che se fosse stato solo, avrebbe avuto paura di quel corpo nero, ma siccome sapeva d’essere in compagnia numerosa, fissò audacemente il gigante per costringerlo a smascherarsi e a dirgli: “ho fatto per celia, non sono un gigante, sono il cassettone a piedi del letto di Gabriele.„ Ma il corpo nero non mutò positura. Desiderio perdette la pazienza e volle dormire, oibò... non aveva sonno. Allora si voltò in modo da porgere l’orecchio destro per udire il respiro di qualcuno... Ed ecco un altro fenomeno; accanto a lui, così vicino che par che gli soffii addosso, qualcuno russa leggermente. E proprio lì, vicino vicino, più vicino del letto di Giulio, ma non può essere se non nel letto di Giulio.... Chi mai nella notte era venuto ad occupare il letto di Giulio, se non era Giulio stesso? Desiderio ascoltò lungamente; era un respiro regolare, non sonoro ma robusto, senza quei gemiti che qualche volta gli avevano fatto venire in mente l’orco quando va per iscannare Puccettino e i suoi fratelli e scanna invece le proprie figliuole. Quella respirazione, sceverata di mezzo al suono delle altre respirazioni più lontane, dopo alcune cadenze ritmiche precise si faceva più complicata e più ricca; aveva accenti singolari, smorzature flebili, sospensioni misteriose: poi a un tratto cresceva d’intensità, si avviava deliberatamente come a dire qualche cosa di tremendo, in cui entrassero la morte e la dannazione eterna fino ad esaurire il suo tema,... e silenzio, un gran silenzio oratorio prima di tornare da capo. Desiderio, che non aveva avuto paura del gigante nero raggomitolato in distanza, cominciava a sentire il fascino tormentoso di quello strano linguaggio che gli empiva l’orecchio, e per romperlo addirittura chiamò a bassa voce: Giulio! Nessuno gli rispose, ed egli chiamò più forte: Giulio! — Che cosa è? domandò qualcuno svegliandosi in sussulto. Non pareva la voce di Giulio, ma il fanciullo non sapendo più di che cosa fidarsi in quel buio, ripetè ad ogni buon conto: Giulio? — Che cosa è stato? chiese una voce grossa. Parlava dal letto di Giulio, ma non era Giulio. — Che cosa vuoi? insistè la voce. — Credevo che mi avessi chiamato.... disse Desiderio. — Io no, dormivo.... — Chi sei? Come ti chiami? domandò Desiderio. — Desiderio! rispose l’altro, ho sonno... e tu come ti chiami? — Desiderio! Ma l’incognito, invece di rispondere all’immenso stupore del suo vicino con uno stupore simile, ricominciò a russare. In quel momento entrò la luna nel dormitorio degli orfanelli, e Desiderio volse l’occhio prima di tutto a cercare il gigante nero lontano. Scomparso. Ecco il letto di Gabriele dagli occhi scerpellini ed ecco tutti gli altri letti in fila; ma lì presso, nel posto rimasto vuoto per tanto tempo, dorme ancora qualcuno che gli volta la schiena, Giulio senza dubbio, sebbene abbia detto d’esser Desiderio! Curiosa idea di volersi chiamare Desiderio, ma forse sognava. Anche il vero Desiderio non tardò a sognare. E sognò d’essere arrivato al castello della bella addormentata, la quale assomigliava ad una bambina che aveva visto un giorno in parlatorio; perchè era bionda come quella bambina, perchè era vestita color di rosa come quella bambina. Subito si era svegliata e gli si era buttata al collo per dirgli: “è un pezzo che ti aspetto!„ E anche la voce era la stessa di quella tal bambina. Quella tal bambina, per dire addirittura tutto quello che sapeva di lei il piccolo orfanello, si chiamava Speranza. II. Siccome aveva perduto un’oretta di sonno, il piccino si svegliò un po’ più tardi del solito, cioè quando le prime luci dell’alba erano già entrate nello stanzone bigio e melanconico. Aprendo gli occhi vide un ragazzo dell’età sua, che stava a sedere sul letto di Giulio e lo guardava fissamente. Non era Giulio. Aveva una faccetta angolosa, una gran fronte sporgente, due occhioni neri e profondi e i capelli rossi. Senza dargli tempo ad uscire dallo stupore, quell’ignoto gli domandò. — Come ti chiami? e perchè l’interpellato non fu pronto a rispondere, ripetè: come ti chiami? — Desiderio! balbettò il piccino. — Mi hai preso il nome! disse l’altro, anch’io mi chiamo Desiderio, però a bottega non ero più che Derio, perchè tutto il nome, vedi, era troppo lungo! chiamami anche tu Derio, se lo preferisci. — Io no.: ma tu avrai un altro nome giusto, ti chiamerò con quello per non confonderci. — Allora il Matto.... mi chiamavano anche così. — Preferisco Derio. — Ho anche un altro nome.... Coppa, Desiderio Coppa, il Matto. C’è da scegliere. — Dove sei stato finora, che non ti ho mai visto? — A bottega; mi è morto il babbo, che faceva il calzolaio, un mestieraccio da cane; non mi ci divertivo proprio, te lo assicuro. La zia è povera e mi ha fatto entrare qui. Per farmici venire mi ha detto che ci si sta tanto bene, che il luogo è bello, che qui si vive come i figli della gente ricca. Stavo appunto guardando, non mi pare poi così bello come in casa dei signori. Io in casa dei signori ci sono andato tante volte quando viveva il babbo... Se tu vedessi! altro che qua!... — Ma qui non si sta male, osservò Desiderio, sentendosi attratto da una strana simpatia verso quel fanciullo, che portava il suo medesimo nome e che gli si era messo accanto in un modo così insolito, vedrai..... — Ho già veduto abbastanza, ribattè l’altro con sussiego, il luogo è nero; a me piacciono le case tutte bianche, dentro e fuori, oppure rosse, blu e dorate, con gli scaloni di marmo. — Come la casa della bella addormentata nel Bosco! esclamò Desiderio. — Non ci sono mai stato, osservò il Coppa serio serio. È bella? — Altro! E Desiderio cominciò a descriverla; ma quando stretto dalle domande del suo omonimo, confessò di non averla veduta se non in un libro, il Matto alzò gli occhi al soffitto e allungò le labbra ad una smorfia di compassione. Non disse altro per lasciar intendere il proprio pensiero, ma non ce n’era bisogno. — Vuoi che facciamo un patto? — Facciamolo. — Promettiamo d’essere amici per tutta la vita. Vuoi? — Altro! disse Desiderio abbassando troppo la voce, perchè il matto l’alzava troppo. — Come lo dici! — Perchè non si svegli il sorvegliante; altrimenti ci fa star zitti; sono appena le cinque... — Aspetta, disse il nuovo venuto, bisogna giurarlo.... E uscendo quasi dal letto e allungando le braccia presentò al piccolo amico i due indici messi in croce.... — Che cosa devo fare? — Mettici la mano sopra e giura che saremo amici, per la vita e per la morte. Desiderio non capiva bene come ci entrasse la morte, ma quel giuramento solenne fatto a quel modo misterioso, durante il sonno di tutta la camerata, lo lusingava, e giurò, per la vita e per la morte, non senza ammirarsi un tantino. Il Matto fece subito altrettanto, poi disse: “Più tardi ti darò da bere il mio sangue, ed io berrò il tuo.„ Oh! Come? In un modo semplicissimo; intanto Desiderio non doveva chiedere altro. — Ora che siamo amici, ripigliò il Coppa, ci dobbiamo proporre di andare poi insieme a visitare quel magnifico palazzo.... — Quale palazzo?... — Quello della bella che dorme; l’andremo a svegliare noi due.... Sei contento? Desiderio manifestò il proprio dubbio che quel palazzo non esistesse più, o non avesse esistito mai, ma il Matto non gli volle credere. Se l’aveva letto in un libro, ci doveva essere. Il libro non diceva dove fosse quel palazzo? — No, non lo diceva. — Ebbene, non importa, lo troverebbero poi lo stesso. — Ancora non mi hai detto come hai fatto a venire nel letto di Giulio, senza che io ti abbia visto. — Dormivi quando io sono arrivato; non mi volevano ricevere, perchè era troppo tardi, ma un signore con la barba, non so chi sia, ha creduto a tutte le bugie che gli ha detto la zia per iscusarsi, e mi ha lasciato venire.... Mi hanno messo qui, per questa notte soltanto, ma se credono di cambiarmi di letto, sbagliano.... io qui sto bene. Vi era qualche cosa nel linguaggio del Matto, che a Desiderio non andava a versi; e pure la sua simpatia per il nuovo amico non ci pativa nulla. — Quant’anni hai? gli chiese il Coppa. — Io, dieci compiti... — Ed io, dieci non compiti, rispose l’altro, e parve umiliato di essere più giovine; ma sono più alto di te, guarda.... E di botto, senza dir altro, lasciò penzolare le gambe sotto le lenzuola, e quando fu ritto, ripetè: guarda! Forse non era vero che fosse più alto di Desiderio, ma il fanciullo non si curò di correggere quella piccola vanità, accontentandosi di dirgli che tornasse subito in letto, perchè era proibito levarsi prima che sonasse la campana. — Quando suona la campana? domandò il piccolo insofferente, ricacciandosi sotto la coltre. — Sono le cinque.... fra mezz’ora. Il Coppa non udì neppure questa risposta; pareva distratto da un’altra idea, e Desiderio stette un po’ a guardarlo con una grande indulgenza, come se sapesse già la parte che gli spettava nella nuova amicizia. — Tu ed io siamo due Desiderii; disse a un tratto il Coppa; tu che cosa desideri? Il fanciullo, così interrogato, stette un po’ perplesso; non sapeva bene nemmanco lui che cosa desiderava, forse nulla — Non è vero, osservò l’altro; pensaci bene; devi desiderare qualche cosa. Allora il piccino confessò che desiderava passassero due anni, per poter entrare nella seconda sezione, dove gli orfani imparano il disegno. — Ma questo non è un desiderio, disse il Coppa. — Perchè? — Perchè è una cosa sicura; che gusto ci è a desiderare le cose quando devono proprio succedere? È lo stesso come desiderare che fra sette ore sia mezzodì. Desiderio non era preparato a rispondere a questo argomento, e si accontentò di ripetere che per ora non desiderava altro. — Per ora; insistè il Coppa; ma per dopo? — Per dopo, non so, disse Desiderio. Era sincero nella propria ignoranza come il Matto nel suo stupore. — Io invece, annunziò solennemente quest’ultimo, penso sempre al _dopo_; io desidero, lo vuoi sapere che cosa desidero? — Sì, dillo. — Desidero di diventar ricco, ricco, ricco, di poter sempre avere le tasche piene di monete d’oro e d’argento, e spenderle senza contare, e regalarne agli amici, ma averne poi sempre delle altre. — Ma tu desideri l’impossibile.... — Chi ti dice che sia impossibile?... — Ma.... mi pare. Che speranza hai di diventar tanto ricco? — Io, nessuna.... — Lo vedi! esclamò baldanzosamente il piccolo filosofo, ma subito, accorgendosi di aver detto qualche cosa che impensieriva il suo interlocutore, e di cui non vedeva bene il fondo egli stesso, stette in silenzio a riflettere. — Temo anch’io che sia una cosa impossibile, concluse il Matto, ma a desiderarla non ci è alcun male. Desiderio allora non rispose nulla, ma un momento dopo, scotendosi ai suoni prolungati della campana mattutina, disse più a sè stesso che al suo nuovo amico: — Non so. — Che cosa non sai? — Se a desiderare l’impossibile non ci sia del male. E balzò giù dal letticciuolo. L’aspetto del dormitorio era interamente mutato, e sopra ogni letticciuolo era ripetuta in diverso modo la medesima scena: un fanciullo seminudo, in piedi, o seduto, o giacente ancora, ma con le braccia alzate al soffitto; sbadigli che fendevano similmente le guance paffute e le smunte. In pochi istanti tutta la camerata fu a terra, a frugare nel cassettone, a infilare i calzoni di tela, a lustrarsi le scarpe posando i piedi sullo sgabello di ferro, poi a lavarsi la faccia con gran chiasso nel lavatoio comune, e in ultimo a rifare i letti. Desiderio dovette insegnare al nuovo amico come si rifà il letto, e il Matto imparò subito; in compenso volle che Desiderio apprendesse da lui a rendere lucide le scarpe senza molta fatica, alternando sul cuoio l’alito caldo e i colpi di spazzola rapidi e leggieri. In sostanza quella scenetta del risveglio non aveva infastidito troppo il signor Coppa; ma rimaneva ancora a fare qualche cosa che Desiderio non sapeva come sarebbe accolta dal novizio: la rimboccatura ai letti. Anche questa andò benone; appena il Matto udì ripetere di bocca in bocca per tutto il dormitorio: “la corda, la corda„ e vide venti braccia agitarsi per afferrare una corda, subito, senza nemmeno intendere di che si trattasse, a furia di spintoni allontanò quanti gli stavano dinanzi e spiccando un salto afferrò la corda lui. Ma quando l’ebbe in mano non avrebbe saputo che farne se Desiderio non gli avesse detto che bisognava tenderla da un capo all’altro del dormitorio, sui letti, per.... perchè mai? per allineare le rimboccature. Un risultato simile dopo una prodezza non iscoraggerebbe l’eroismo del novizio? Desiderio ne ebbe un po’ di timore, ma s’ingannò, perchè il Coppa, dopo d’aver tesa la corda, parve contentone di poter accomodare la rimboccatura del proprio letto. Gli orfani erano lavati, asciugati, spazzolati; il piccolo tumulto non poteva più durare, e pure durava ancora per opera di pochi volonterosi, che si erano imbrattati le dita e correvano un’altra volta al lavatoio, o non si erano asciugata bene la faccia, o avevano dimenticato di chiudere le spazzole nel proprio cassettone, mentre i più tranquilli erano già schierati in fila, dinanzi all’immagine della Madonna, per udire la preghiera del mattino. Il sorvegliante, dominando con l’alta statura quel piccolo drappello, radunò gli sbandati e fece affrettare i tardivi; poi ad un cenno s’inginocchiarono tutti insieme. Quella mattina toccava a Desiderio leggere la preghiera del mattino, ma egli l’aveva tutta in mente e non ebbe neppur bisogno di guardare la scritta. Quando egli incominciò con la sua vocetta limpida e dolce: “La notte è passata, ed io vivo ancora, o Signore, mentre chi sa quanti sono comparsi questa notte medesima dinanzi a voi per essere giudicati....„ il Matto che gli si era inginocchiato accanto, lo guardò fisso in bocca per non perdere una sillaba. Quando Desiderio a nome di tutta la camerata promise al Signore di approfittare dell’educazione intellettuale e di prepararsi da buon cittadino ad onorare la patria, la sua voce tremava un tantino come per una segreta commozione, e quando disse che “sebbene questa terra non fosse la sua patria eterna, la vita era un dono col quale poteva prepararsi la corona del cielo„, egli abbassò la voce e rallentò la lettura quasi pigliasse tempo per intendere tutto il significato di quelle mistiche parole. Poi la vocetta di Desiderio squillò un’altra volta nella sala, per assicurare ai compagni che gli avrebbe amati, cercando d’essere loro di buon esempio. A questo punto una mano strinse di nascosto un lembo del camiciotto di Desiderio, tanto per stringere qualche cosa; ed era la mano del suo nuovo amico. “Tutto questo vi prometto, o Signore, conchiuse il piccino, voi datemi la grazia di non mancare. Mandatemi l’angelo vostro, che m’illumini, mi custodisca, mi governi e mi salvi da tutti i pericoli che incontrerò in questo giorno„. — _Amen_, disse l’assistente, e gli orfanelli balzando in piedi ripeterono _amen_. Poi s’avviarono deliberatamente al refettorio. Uno solo rimaneva ancora in ginocchio, come smemorato, a guardare Desiderio che riattaccava al chiodo la scritta delle preghiere. Il sorvegliante si accostò al piccino e gli disse: — Non ti ho mai veduto; come ti chiami? — Desiderio Coppa il Matto; rispose l’interrogato levandosi in piedi. — Perchè il _Matto?_ — Non lo so. — Bisogna essere savio, piccino mio, savio come questo tuo compagno, che ha appunto il tuo nome.... Lo prometti? Il Coppa gettò un braccio al collo del nuovo amico e dichiarò senza scomporsi: — Allora non bisogna cambiarmi di letto, bisogna dire a quel signore con la barba che io voglio dormire sempre dove ho dormito stanotte. Scesero anch’essi in refettorio a mangiarsi la zuppa di latte caldo; ma il Coppa non aveva fretta, sebbene avesse un appetito!... Egli si piantò sul pianerottolo, dopo la prima scala, e trattenne il suo piccolo amico per dirgli: — Dimmi un poco, è la stessa cosa tutte le mattine? — Sì, tutte. — Ogni mattina tu dici al Signore che ti mandi l’angelo?... — Non sono sempre io che leggo, si va per turno; leggerai anche tu. — E quest’angelo, insistè il Coppa, fisso nella sua idea, è mai venuto? — Io credo di sì.., — L’hai visto tu? Desiderio avrebbe potuto rispondere che l’aveva veduto tante volte, guardando dal cortile attraverso i vetri del parlatorio, e che era un angelo color di rosa, e che veniva accompagnato dalla sua mammina, a visitare uno dei grandi della prima sessione, e che si chiamava Speranza; tutto questo avrebbe potuto dire, ma non sapeva ancora se il Coppa fosse degno di una confidenza simile. — Ho capito, disse il piccolo indiscreto leggendo nella faccia del nuovo amico un po’ di titubanza — me lo dirai più tardi. — Sì, più tardi, esclamò Desiderio, lieto in fondo di aver sotto mano un confidente. — Più tardi, ripetè il Matto con accento misterioso, di cui Desiderio intese con raccapriccio tutto il senso arcano. Ancora egli non aveva bevuto il sangue del Coppa, nè il Coppa aveva bevuto il suo. III. Desiderio non aveva dimenticato Giulio, sebbene dopo tanto tempo che lo conosceva non si sentisse legato a lui da quel misterioso laccio, che in poche ore gli aveva stretti così bene, il Coppa e lui. L’ingenuo orfanello se ne faceva quasi un rimprovero, e cercando di scusarsi, non trovò altro che una piccola bugia da dire al cuore. “Non è vero, si provò a dire, che questo nuovo venuto che ieri non conoscevo neppure, mi sia più caro del piccolo Giulio che ha pianto tante volte dinanzi a me e persino sul mio capezzale.... Non è vero....„ Ma sì, era proprio vero, e Desiderio comprese allora come le bugie che qualche volta diciamo al cuore non abbiamo la minima fortuna. Dunque Desiderio pensava a Giulio, ma pensava anche alla solenne cerimonia del sangue, la quale gli metteva un po’ di paura, prima perchè immaginava che non si potesse far uscire il sangue senza pungersi in qualche parte del corpo, poi perchè, non avendo mai bevuto il sangue di nessuno, non sapeva che effetto straordinario avesse a produrre nella sua amicizia per il Matto. Quando il Coppa, dopo la colazione, fu chiamato dal rettore, Desiderio sentì uno sgomento, pensando che se il suo nuovo amico non sapeva rispondere alle domande di catechismo e di grammatica, non lo avrebbero lasciato nella stessa scuola e nella stessa camerata. — Che cosa sai tu? gli domandò in fretta. — Non so, rispose ingenuamente il Coppa. — Chi ci ha creati? insistè Desiderio. — La mamma, rispose il Coppa impassibile. — No, non bisogna dire così; se il rettore ti domanda chi ci ha creati, devi dire che è _Dio_; poi il rettore ti domanderà per qual fine Dio ci ha creati, e tu risponderai: per amarlo ed onorarlo.... Il Coppa crollava il capo. — Ma se non sai queste cose, ti metteranno in prima, e allora ci toccherà separarci. Fu un gran colpo pel povero Coppa. — L’articolo lo sai? E il pronome? E le coniugazioni dei verbi, le sai?.... Ma che cosa sai? — So leggere e scrivere, so far le somme e le sottrazioni. Era già qualche cosa. — Non sai altro? — Aspetta, che mi ricordi, disse il Coppa.... — Va, va, gli disse Desiderio, non bisogna far perdere la pazienza al rettore. E il Coppa s’avviò a capo chino, cercando di radunare le poche cognizioni dimenticate a bottega. Desiderio durante la mezz’ora di ricreazione che precedette la scuola, vagò come un’anima smarrita nel cortile: si era dimenticato perfino del piccolo Giulio, e non aveva occhi se non per la porticina, da cui doveva da un momento all’altro affacciarsi la testa rossa del Coppa. Ah quanto tardava! Finalmente il Coppa fece irruzione nel cortile: coi capelli rossi tagliati a spazzola e con la gioia che gli balenava negli occhioni pareva un raggio di sole perduto in quel luogo melanconico. — Mi lasciano con te! gridò da lontano, mi lasciano con te, gridò anche quando fu addosso al suo nuovo amico, e lo scrollava tutto in un amplesso. — Come hai fatto? — E stata una cosa facile. Ha voluto sapere chi mi ha creato ed io gli ho risposto: Dio, per fargli piacere; mi ha fatto fare una somma, mi ha fatto leggere, mi ha fatto scrivere.... voleva anche che gli dicessi che cosa è il pronome possessivo, ma io gli ho risposto che una volta lo sapevo e che se mi lasciava con te, mi sarebbe venuto in mente. Ci ha pensato un poco. Poi voleva che gli dicessi almeno che cosa è l’articolo.... E dalli! fra otto giorni saprò ogni cosa. — E lui? — E lui ci ha pensato un altro poco, mi ha messo la mano sulla testa, e mi ha detto che andassi pure, che voleva contentarmi. Tu m’insegnerai quello che non so, e staremo sempre insieme.... che piacere! — E Giulio? chiese allora Desiderio. — Quale Giulio? quello che dormiva nel mio letto? — Sì, quello..... — Hanno detto che sta male, molto male. Allora venne in mente a Desiderio che per legittimare l’irresistibile simpatia da cui si sentiva legato al suo omonimo bisognasse far visita al piccolo Giulio ammalato e fargli conoscere il Coppa. — Vieni, disse a quest’ultimo e si avvicinò al vice-rettore, che attraversava in quel mentre il cortile. — Signore, gli disse col berretto in mano, il Coppa ed io, invece di giocare, vogliamo far visita al piccolo Giulio ammalato; ce lo permette? Non era la prima volta che l’uomo con la barba nera dava indizio di avere il cuore tenero, ed il Coppa notò il sorriso melanconico con cui accolse la richiesta. — Venite con me, disse il vice-rettore, il quale non era uomo da abbandonare ad altri lo spettacolo melanconico e sano che offrono talvolta l’affetto e la sventura uniti insieme. I due piccini, tenendosi per mano, con quella trepidanza che danno anche le azioni generose, risalirono le scale, attraversarono parecchi stanzoni bigi e melanconici e giunsero all’ingresso della infermeria. Nel primo stanzino erano due letti, e in uno di essi un piccolo infermo col corpo abbandonato su due guanciali moveva a fatica alcuni soldatini di piombo, che non volevano star ritti sulla rimboccatura del lenzuolo. Non alzò nemmeno la testa al lieve rumore che fecero i due bambini, e Desiderio tratteneva il respiro, guardando la larva di colui che era stato per tanto tempo il suo vicino di letto. — Giulio! balbettò finalmente. L’infermo alzò gli occhi, riconobbe il suo piccolo amico e gli sorrise; e allora Desiderio corse al capezzale. Il Coppa, rimasto sull’uscio, era commosso ed agitato da qualche cosa che somigliava alla gelosia, e si sentiva solo, sebbene avesse alle spalle il vice-rettore. — Giulio! disse Desiderio con voce in cui tremava una lagrima repressa, Giulio, come stai? — Sei venuto, ora sto bene, rispose il fanciulle continuando a drizzare i soldatini caduti, con quella suprema indifferenza di chi si sente nulla più che un soldatino caduto nell’ampio mondo. Desiderio non sapeva che dire, e allora l’ammalato volse il capo verso di lui, con gran fatica, e mormorò: — Hai fatto bene a venire. — Povero Giulio! disse Desiderio perchè gli ripugnava discolparsi, io credeva di trovarti quasi guarito. — Presto, disse Giulio, e lasciò ricadere la testa stanca sui guanciali. Al lieve urto anche i soldatini di piombo si rovesciarono come persone stanche. Dopo un istante di silenzio, che Desiderio occupò accarezzando il visino patito di Giulio, l’infermo chiese: — Chi è questo ragazzo? — È il Coppa, rispose Desiderio con titubanza pensando che forse non conveniva far sapere a Giulio che il suo antico letto era occupato, ma non sapeva come prevenire il nuovo amico. — È un nuovo? domandò Giulio. — Sì, è un nuovo; gli ho detto che venivo a vederti ed ha voluto venire anche lui, perchè abbiamo parlato tanto di te.... Desiderio si fece rosso appena ebbe detta questa bugia innocente, che gli era sembrata necessaria. — Perchè sta lì? disse Giulio. — Coppa, disse Desiderio, avvicinati. Giulio ti vuol vedere. Il Coppa si fece innanzi e domandò bruscamente: — Come stai? quando guarisci? L’ammalato non rispose; ma fissò un momento gli occhi luccicanti dalla febbre sulla faccia del Coppa. — Hai la mamma tu? e quando seppe che non l’aveva mai avuta (perchè il Coppa rispose così), egli chiuse gli occhi, mormorando qualche cosa che i fanciulli non intesero bene. In quel momento si udì la campana, e Giulio disse: “La scuola!„ Allora Desiderio si curvò sul guanciale del piccolo ammalato e lo baciò in fronte. — Ritornerò, disse, guarisci. — Guarisci, disse il Coppa. Giulio fissava gli occhi nella finestra dirimpetto; giungeva fino a lui, dal cortile sottostante, un rumore confuso; erano i compagni che facevano irruzione nella scuola. — Mi pare di vederli, disse l’ammalato, mi piacerebbe venire alla lezione ancora una volta per salutarli tutti. Desiderio non rispose, aveva il cuore stretto, ma il Coppa rispose per lui: li saluteremo noi.... ma tu prometti di guarire. — Presto, disse Giulio. Quel giorno alla lezione del pomeriggio tutti gli scolari della seconda elementare poterono leggere, scritte a grossi caratteri, queste parole che occupavano tutta la lavagna: _Giulio ammalato manda tanti saluti ai suoi compagni di scuola_. Anche il signor maestro lesse la scritta, e non ebbe cuore di cancellarla, nemmeno per ispiegare la sottrazione dei numeri decimali. IV. Due giorni dopo il piccolo Giulio era morto, e i suoi compagni aggiunsero un _de profundis_ alla loro preghiera prima d’andare a letto. Il Coppa quella notte non potè chiudere occhio; il cadaverino di Giulio affascinava, da lontano, la sua giovane immaginazione; se il regolamento non lo avesse vietato, egli sarebbe balzato dal letto nel cuore della notte per andare ad empirsi l’anima di terrore al capezzale del morticino. Però non versò una lagrima, ingegnandosi di consolare sottovoce il suo piccolo amico, il quale aveva soffocato i singhiozzi sul guanciale, finchè il sonno lo aveva preso a tradimento. Quando il giorno successivo tutti gli orfani della seconda elementare furono chiamati ad assistere all’uffizio mortuario nella cappella, e si avviarono a due a due dietro la piccola bara, dall’ospizio al camposanto, Desiderio ricominciò a piangere e il Coppa ripigliò a consolarlo. E quando Giulio fu calato nella fossa e i suoi compagni cominciarono a buttare le manate di terra sulla bara sonora, il Coppa, che avea guardato ogni cosa attentamente, tirò in disparte Desiderio e gli disse: non era un ragazzo coraggioso, è meglio che sia andato con sua madre, non avrebbe mai fatto fortuna. — Sì, è forse meglio, disse Desiderio, asciugandosi la faccia lagrimosa. Per tutta la via, finchè furono tornati all’ospizio, i due fanciulli non dissero nulla, ma durante l’insolita ricreazione, che gli aspettava appena arrivati, invece della scuola, il Coppa prese Desiderio in disparte e gli disse: ora che Giulio è morto il tuo amico son io, non è vero? Desiderio accennò di sì, ma non era punto rassicurato da quel preambolo, che annunziava pur troppo una cerimonia temuta. — Dobbiamo bere il nostro sangue, assicurò il Matto, è necessario. Non aver paura, è una cosa da nulla, beverai tu prima il mio, sta a vedere come si fa.... Così dicendo cacciò la punta d’un ago nel polpastrello dell’indice e ne fece spicciare alcune goccie di sangue, ma Desiderio si rifiutò ostinatamente di fare altrettanto. — Non ci è bisogno del sangue, disse, per essere amici; non l’abbiamo noi giurato? Quella debolezza non fece un grand’onore a Desiderio nel concetto del Coppa, ma egli fu generoso, e perdonò. Solo disse con severità: — Se è vero che mi sei amico non devi avere segreti con me; dimmi tutto quello che pensi, tanto vedi, io ti ho già capito: tu sei innamorato. Terribile omino il Coppa, egli aveva messo il dito proprio in mezzo al cuore del suo piccolo amico, a cui fu impossibile negare una verità che cavava gli occhi alla gente. Non perciò Desiderio fu sconfortato, tutt’altro; egli aveva, come tutti gli innamorati, un gran bisogno di confidare il gran segreto ad uno che lo sapesse intendere, tanto più che tra la sua innamorata e lui non ci era stato se non scambio d’occhiate, le quali dicono fino a un certo punto, ma si sa.... — Si sa, approvò il Coppa; però qualche volta si dice anche meno con la bocca... io stesso vedi... — Tu? Sì, proprio lui, si era già innamorato due volte, e non era mai stato capace di dichiarare la sua fiamma. — Ma si era mai trovato da solo a solo coll’innamorata? — Sicuramente, quando era a bottega e per ragioni di professione andava nelle case dei signori, una volta aveva visto una donna. — Una donna? — Già una donna, tanto bella, tanto bella.... bella come.... non sapeva come, non c’era nessuna altra donna bella a quel modo, la chiamavano donna Lucia, era maritata ad una specie di colonnello.... un pezzo di diavolaccio alto così, ma non era stato per paura del marito, non sapeva neppur lui perchè era stato; non le aveva mai parlato. Desiderio rimaneva a bocca aperta, ascoltando la storia di questo amore straordinario. — E l’altra volta? chiese. — L’altra volta ho parlato, rispose, perchè era dipinta.... Però, si affrettò a dire per parare la beffa, mi guardava sempre, io girava di qua e di là ed essa mi accompagnava con gli occhi sin sull’uscio; mi pareva perfino che movesse la testa, ma non n’ero sicuro.... — Dove hai veduto quella donna dipinta? chiese Desiderio. — Nell’anticamera d’una casa di signori. — Oh! quanto mi piacerebbe saper dipingere una donna così bella. — Tu la dipingerai, ed io quando sarò ricco te la pagherò bene e la metterò nel mio palazzo.... Accomodate così le cose, non rimaneva alcun pretesto di ritardare la confidenza, e Desiderio cominciò titubando: — La mia innamorata ha solo otto anni, non l’ho vista se non in parlatorio attraverso i vetri della finestra, ha già capito che io le voglio bene e mi ha fatto intendere che anche essa me ne vuole. Io non so quando le potrò parlare; essa viene con una donna a visitare uno dei grandi, ed io in parlatorio non posso mai andare, perchè a vedermi non viene mai nessuno. Diceva queste parole senza falso sentimentalismo, ma con la melanconia di chi vede un ostacolo al proprio sentimento e non sa ancora in che modo superarlo. — Come si chiama? domandò il Coppa. — Si chiama Speranza. — Senti, tu me la farai vedere domenica, attraverso i vetri ed io le parlerò per te; mi dirai che cosa le dovrò dire; non aver paura che te la rubi; prima di tutto a me non piacciono le bambine, e poi siamo amici. — E tu le parlerai? — Sicuro che le parlerò. Mia zia viene qualche volta a trovarmi, io le dirò che non posso stare senza vederla tutte le domeniche.... Sonò la campana; — la ricreazione era finita. — Ragazzi a scuola! Era stato concesso al Coppa di provare le proprie forze nella seconda elementare, sebbene la sua dottrina messa per tanto tempo al contatto delle ciabatte più logore di Porta Garibaldi avesse perduto tutta la freschezza e in più luoghi abbisognasse di toppe. Ma egli aveva promesso al signor maestro di far sue prima di un mese tutte quelle suppellettili scientifiche che fanno l’ornamento dell’ingegno in seconda elementare, e si poteva star sicuri che non avrebbe mancato di parola. Aveva una memoria pronta e tenace, e fu per lui un gioco il colmare le lacune grammaticali ed aritmetiche che lo separavano dai colleghi. Quando ebbe assicurato per tutto l’anno il proprio posto, a scuola e nella camerata, accanto al suo nuovo amico, si tenne contento. Il maestro gli diceva che continuando così (cioè ad ornarsi delle suppellettili scientifiche) poteva essere uno dei primi della scuola, ma egli non continuò così, aveva ben altro per la testa che le suppellettili del signor maestro. Viveva già in un suo mondo fantastico, oltre le mura di quell’ospizio che gli aveva tutta l’aria di una prigione; aveva aspirazioni ignote all’infanzia, desiderii strani e curiosità a cui nessuno dei libri di scuola sapeva rispondere. — Perchè tu non sei nato ricco? domandò un giorno al suo compagno. — E tu? rispose Desiderio ridendo. Il Coppa non rise. — Perchè vi è della gente che nasce ricca, e dell’altra che ha sempre appetito? Lo sai tu? Desiderio non sapeva; forse il signor maestra lo sapeva, ma non glielo avrebbe voluto dire. — Ci è però della gente che nasce povera e poi si fa ricca.... osservò il Coppa. — Lavorando, disse Desiderio, senza pensarvi troppo. — Già lavorando, brontolò il Coppa; ma non a fare il ciabattino; vorrei avere tante lire quante toppe ha messo il babbo finchè ne è morto. Eppure ci è della gente che non metterebbe una toppa nemmeno per due lire, nemmeno per quattro. Farò così anch’io quando sarò ricco. E tu? Desiderio non spingeva ancora l’occhio fino a quel tempo remoto; l’unico avvenire che lo tentava era lontano due anni; quando egli fosse nella sezione dei grandi, e potesse imparare il disegno, non vorrebbe più nulla. — Ti pare, disse il Coppa; ma quando ci sarai, vorrai dell’altro; io invece no.... Egli furbo voleva addirittura una bella carrozza, con due cavalli, e due servitori incipriati; però non aveva ancora deciso se dovesse bastargli un milione, o se ci volesse un miliardo; ci penserebbe poi. Intanto giunse la domenica. — Mi viene un’idea, aveva detto il Coppa al compagno; scrivi alla tua innamorata ed io le consegnerò la lettera, le dirò che sei tu che gliela mandi. — Essa non sa il mio nome.... — Non importa; tu ti metterai dietro i vetri, io farò un segno verso di te, ed essa comprenderà subito.... le ragazze sono furbe. — E se qualcuno se ne accorge.... — Lascia fare a me.... tu scrivi.... Ed allora Desiderio non aveva saputo resistere alla tentazione ed aveva scritto: “_Speranza mia_, “Io sono quello che ti guarda sempre dai vetri del parlatorio, e che ti vuole tanto bene. Io non posso andare in parlatorio perchè nessuno viene a vedermi; non ho più la mamma, non ho più parenti; ma se tu non mi abbandoni non sarò mai solo. Ho saputo il tuo nome un giorno che tua madre venne senza di te; tuo fratello, appena entrato, domandò: E _Speranza?_ Non udii altro perchè la porta si chiuse, ma tua madre gli rispose di sicuro che eri un po’ malata. Io vidi dalla faccia che soffriva parlando. Ho sofferto molto tutta quella settimana, era come se mi fossi perduto in mezzo alla gente; non lo so esprimere bene, ma era una cosa così. La domenica dopo, vedendoti, mi sembrò di ritrovare la mia strada. Dunque, Speranza mia, non mi lasciare; promettimi di esser mia per tutta la vita. Mi pare che con te al fianco, io non mi perderò in mezzo alla gente. Mi chiamo Desiderio, ho già dieci anni compiti, e ti voglio tanto bene.„ Il Coppa lesse questa lettera con molto raccoglimento, e si degnò di lodarne la struttura. “Non vi sono errori di grammatica, disse, va benissimo.„ Ma era chiaro che diceva così per non scoraggiare un principiante; le lettere che egli aveva scritto alla moglie del colonnello erano ben altro; non certamente calligrafiche, e forse nemmeno in pace con la grammatica, ma calde; parlavano meglio il linguaggio che bisogna usare colle innamorate.... Se quella donna superba le avesse lette.... — Perchè vedi, spiegò il Coppa, alle donne piace sentirsi dire: “Mia bella, mio tesoro, anima mia,„ e poi bisogna sempre promettere qualche cosa alle donne... Vediamo se tu promettessi alla tua Speranza di coprirla di pietre preziose.... no? non vuoi? sarà per un’altra volta — del resto la tua lettera va benissimo. — La mia Speranza è modesta, rispose il fanciullo, guardando attraverso i vetri del parlatorio; e d’improvviso esclamò: — Eccola!... Guardala, soggiunse mostrando al suo compagno la faccia illuminata dalla gioia, guardala.... — È quella biondina cogli occhi azzurri? chiese il Coppa accostando l’occhio alle commessure dei vetri smerigliati, quella che ha i capelli sciolti.... quella che.... Era proprio quella, e Desiderio non gli poteva rispondere. Bisognò tirarsi da parte per non farsi scorgere troppo, essendo l’affacciarsi ai vetri del parlatorio una delle tante cose proibite dal regolamento. Un momento dopo si venne all’uscio a gridare il nome del Coppa. — Presente, rispose il piccino mettendosi alle spalle del sorvegliante che si affacciava a cercarlo con gli occhi. Dammi la lettera, mormorò all’orecchio di Desiderio, sta vicino ai vetri e vedrai.... La raccomandazione era soverchia; il suo nuovo amico non era ancora scomparso quando Desiderio appiccicava la faccia ai vetri a rischio di guastarsi col regolamento. Il Coppa, appena entrato nel parlatorio cominciò ad essere imbarazzato della parte difficile che si era preso senza riflettervi molto. Sua zia lo trovò distratto più del solito e glielo disse, ed egli rispose distrattamente che era verissimo. Un’idea lo tentava. Quando la faccia di Desiderio appariva dietro i vetri smerigliati col nasino schiacciato, il Coppa sentiva venuto il momento di precipitarsi verso la piccola Speranza, fingendo di raccogliere qualche cosa che le fosse caduto per metterle in mano il bigliettino. Ma se non capisse? Intanto pensava: “È bella questa biondina, troppo piccola e troppo insipida per un uomo come me, ma è proprio bella. In tutto il parlatorio non ce n’è nemmeno una da metterle a confronto.„ Egli volle assicurarsi meglio se non ce ne fosse almeno una e fece delle risposte così strambe alla zia, che per poco non la mise in collera. — Che cos’hai questa mattina? gli disse. — Non ci badare, rispose il fanciullo serio serio; sono tanto contento che tu sia venuta a vedermi; promettimi di non mancare mai.... — E allora dimmi qualche cosa.... — Non ho nulla da dirti; mi piace vedere la gente ed esserti vicino.... La povera donna pensò che non per nulla suo nipote si chiamava il Matto; sedette sopra una panca e si contentò di tenere nelle proprie una mano del piccino, lasciando che tutto il resto, anima e corpo, fosse da un’altra parte. No, in tutto il parlatorio non v’era alcuna donna che potesse paragonarsi a Speranza. Era pur fortunato Desiderio! Oh! sta a vedere che egli invidiava la sorte del suo disgraziato amico, costretto per vedere la sua bella di mostrarle il naso schiacciato e perduto nella nebbia. Non lo invidiava, ma veniva cercando intorno a sè qualche donna di cui innamorarsi. Non ce n’era proprio! Erano tutte troppo vecchie, o troppo brutte. “Il biglietto, il biglietto!„ sembrò dire il nasino di Desiderio picchiando contro il vetro e il Coppa senti la necessità di essere un eroe. Egli si sprigionò dalla stretta della zia, si cacciò attraverso la folla dei visitatori e passando rasente a Speranza le prese coraggiosamente una mano e v’introdusse il biglietto. “È di lui,„ disse senza arrestarsi; il nasino di Desiderio in quel momento scomparve. La fanciulla si era fatta rossa fossa, ma aveva capito benissimo; passato il primo sgomento, mandò in giro un’occhiata per accertarsi che nessuno le aveva gli occhi addosso, poi guardò coraggiosamente il Coppa e gli sorrise per ringraziarlo. Dio! quanto era bella! sorridendo, lasciava vedere i dentini tersi e lucenti; gli occhioni azzurri, guardando, sembravano andare incontro alla gente. Il Coppa fece queste osservazioni, mentre la zia, tiratolo un’altra volta a sè, gli veniva aggiustando le pieghe del camiciotto perchè non gli facesse smorfie sulla persona. Era la cerimonia dell’addio; quella buona donna, che veniva in parlatorio per semplice carità cristiana, non immaginava di aver fatto il proprio dovere di zia amorosa e di potersene andare tranquillamente a casa, e più tardi in paradiso, se non avesse accomodato il camiciotto del suo ragazzo. — Me ne vado, disse la zia. — Così presto? domandò il Coppa, occupato a studiare l’innamorata del suo amico per farsene un’idea chiara. — Mi aspettano a casa. In quel momento appunto, la piccola Speranza fu presa per mano dalla mamma e fece atto di avviarsi. — Va pure, disse allora il Coppa, ma non mancare domenica. Speranza parve cercare sul vetro della finestra un nasino schiacciato che da un poco non si mostrava, poi diede ancora uno sguardo di gratitudine al Coppa, il quale pensò: “pare una donnina!„ e lo andò a dire a Desiderio. — La tua Speranza pare una donnina, ed è proprio bella; se non fosse la tua innamorata, la piglierei per me. Perchè aveva egli detto queste parole? Perchè le aveva pensate prima e perchè era schietto. Non aveva forse fatto bene a dirle? Certo che sì; eppure quando le ebbe dette come per levarsele dal capo, si trovò occupato a ripeterle mentalmente; allora gli parve di far male. Quella notte il Matto sognò che era matto davvero, che aveva rubato l’innamorata al suo amico migliore, dopo d’averlo trafitto con un temperino per bevente il sangue. Si svegliò piangendo, e anche quando si fu ben bene assicurato che Desiderio russava e ch’egli era innocente, non potè più chiudere occhio. Pensava ai casi suoi, scendeva in fondo alla propria coscienza a ricercare le magagne con una crudeltà fanciullesca. Intravvide, e ne fu atterrito, quella specie di ossessione che esercita un pensiero cattivo quando si è formato interamente; ma nella sua ingenuità ne attribuì a sè solo la virtù maligna. Sbagliando ancora, egli si provò a ripetere a bassa voce che se quella Speranza non fosse stata dell’amico gli sarebbe piaciuto farla sua; ma ancora non sentì che lo stratagemma avesse allontanato da lui l’immagine della fanciulla, come egli aveva voluto fare in buona coscienza. Nessuno era al suo fianco per dirgli che le idee malsane bisogna combatterle in embrione, negarle risolutamente mentre si stanno formando nel cervello, perchè a cacciarnele dopo non basta battere il capo nella parete. Dopo una lunga smania il fanciullo ricadde sfinito in braccio al sonno, e non si svegliò se non al suono della campana. Due idee gli erano entrate in capo mentre dormiva, e appena desto le vide e le manifestò all’amico. Prima idea: Desiderio doveva andare in parlatorio con lui, perciò basterebbe dire alla zia che lo chiamasse; seconda idea: assolutamente bisognava trovare un’innamorata anche al Coppa. V. Il Coppa fece anche di più per tornare in pace con sè medesimo; la domenica successiva trovò modo di avvicinarsi alla piccola Speranza e di parlarle dell’amico suo con un linguaggio d’innamorato. Nessuno, in quell’ampio parlatorio, badava ai due piccini, che si erano messi sopra una panca a discorrere. Mentre la zia dell’uno era intenta a far la calza e a dire il rosario, e la mamma dell’altro non aveva occhi se non per il suo figliuolo, un bel pezzo di ragazzo tredicenne, il Coppa diceva a Speranza: — Tu non hai visto ancora Desiderio?... — Sì, l’ho visto.... rispondeva Speranza senza falsa modestia. — Come hai fatto? — L’ho visto tante volte; quando fa troppa caldo, aprono la finestra e allora si può vedere in cortile. — Ti piace? domandò il Coppa. Nemmeno questa domanda brutale scoraggiò la fanciulla, la quale alzò, gli occhi per far rientrare il suo interlocutore nei confini della discrezione. Il Coppa si affrettò a soggiungere: — Se tu sapessi quanto è buono, gli vorresti anche più bene. Ha poi un talento.... ha poi un cuore.... ha poi una memoria.... Che cosa non aveva quel giorno il povero Desiderio? Aveva ogni ben di Dio, salvo uno: la ricchezza; ma a questa penserebbe lui, proprio lui, perchè non vi era dubbio che un giorno, lui, proprio lui, il Coppa, diventerebbe milionario.... e allora? Non finirono qui le confidenze che il fanciullo fece all’innamorata dell’amico; senza avvedersene, come qualche volta accade, per parlare di Desiderio era costretto a dire delle proprie aspirazioni, dei proprii sogni, dei proprii disegni d’avvenire; ma quando si accorgeva d’aver perduto il filo, lo ripigliava bruscamente dimostrando in modo repentino una nuova virtù dell’amico. Così la piccola Speranza seppe del giuramento che legava i due Desiderii per la vita e per la morte, della cerimonia del sangue e perfino del piccolo Giulio, che era morto per tornare con la mamma. Allo spirare dell’ora del parlatorio, il Coppa, che aveva già preparato ogni cosa con la zia, disse alla fanciulla che la domenica successiva avrebbe visto e parlato a Desiderio.... Speranza non osava domandar come, ma interrogava con gli occhi, e questi occhi erano così grandi e venivano così bene incontro alla gente quando interrogavano a quel modo, che il fanciullo fu costretto a guardare di qua e di là, per cercare un’innamorata. Ahi! in tutte quelle donne giovani o vecchie, che distribuivano baci agli orfanelli, non ve n’era una, il cui bacio potesse valere più dei baci appaiati che gli dava la zia nell’andarsene, e nemmeno più d’un bacio spaiato. E forse il Coppa cominciava a pensare che avrebbe baciato volontieri l’innamorata del suo grande amico, senza metterci malizia. Ma un altro amplesso lo distrasse, e gli troncò a mezzo il pensiero — era la zia che aveva intascata la calza e gli piombava addosso col suo paio di baci regolamentari. La piccola Speranza già perduta in mezzo alla folla si voltava verso i vetri della finestra, dove si vedeva ancora la traccia di due labbra, la punta schiacciata d’un nasino e qualche altra parte di una faccetta, i cui contorni si smarrivano come nella nebbia. Il Coppa raggiunse l’amico nel cortile e gli annunziò la lieta novella. — Acconsente. — Davvero? — Sì, domenica ti farà chiamare, e tu parlerai alla tua Speranza; e sarà così tutte le domeniche; non avrai più bisogno di stare dietro i vetri; se tu vedessi come sei brutto, quando hai il naso schiacciato!... Dunque, in grazia dell’amico suo, Desiderio potè un giorno andare in parlatorio. Mettendo il piede in quello stanzone, che non riceveva luce se non dalla finestra coi vetri smerigliati, udendo un bisbiglio di voci carezzevoli in ogni crocchio, il piccino si trovò come smarrito, e credette di sentire per la prima volta tutta la miseria di chi non ha altra famiglia che l’ospizio. Ma avvezzandosi a quella scarsa luce, egli vide in fondo alla stanza due occhi pieni di consolazione, i cari occhioni della sua Speranza; e fu necessario che il Coppa gli desse uno spintone amichevole per impedirgli di precipitarsi da quella parte e mandarlo prima di tutto dalla zia. — Come sta? chiese il fanciullo timidamente. — Sta benone, rispose il Coppa per sua zia; e rivolgendosi alla buona donna, che era occupata ad estrarre da una tasca profonda qualche cosa che pareva una mela, ma non poteva essere se non il gomitolo della calza, proseguì: questo qua è il mio amico di cui ti ho parlato; egli non è mai venuto in parlatorio, e si immaginava che fosse una specie di teatro.... Ma noi ci divertiremo lo stesso, concluse. La zia del Coppa si credette in obbligo di promettere il paradiso all’amico di suo nipote, se fosse savio, rispettoso, e non tralasciasse di fare le devozioni ogni giorno; quando ebbe assestato questo conticino con la propria coscienza, si cacciò un ferro da calzetta nel costato destro come se volesse per la via del martirio arrivare in paradiso più presto — e cominciò a contare tranquillamente le maglie. Allora i due ragazzi la lasciarono, e facendo gli sbadati con un’arte sopraffina, vennero entrambi dinanzi alla panca della fanciulla. Speranza e Desiderio si fecero rossi rossi, perchè erano troppo felici, e il Coppa, che aveva lavorato tanto a quella felicità, se ne sentì respinto, e voltò le spalle con falsa disinvoltura. Egli andò a mettersi in un canto, senza sapere nemmanco lui perchè e lasciò venire a sè tutti i pensieri amari. Quella donna che faceva la calzetta e diceva le orazioni, senza voltare nemmeno gli occhi a cercare di lui, era dunque la sola persona al mondo incaricata d’amarlo in terra e di insegnargli la via del paradiso! Dacchè egli era al mondo, aveva voluto bene soltanto a suo padre, un buon uomo, che lavorava troppo, digiunava troppo, e lo picchiava troppo; alla moglie d’un colonnello che non si era nemmeno accorta di lui, a una donna dipinta ed ora a Desiderio. Avrebbe amato ancora volontieri qualcuno o qualcuna perchè tutto l’affetto che non aveva potuto spendere gli faceva nodo nel cuore. Gli pareva di doversi precipitare verso i due smemorati, i quali non badavano più a lui, e dire... che cosa? che voleva essere il servo del loro amore, e che gli ordinassero subito di fare qualche grossa pazzia, e poi lo pizzicassero a sangue, o accarezzassero la sua testa matta. Eccoli là, soli, poveri, dimenticati; e lui del pari, ma più solo e più dimenticato, s’immaginava di proteggerli con lo sguardo e aveva un sentimento di tenerezza quasi materna nel ripetere a sè stesso che egli voleva essere qualche cosa per la loro felicità. Subito dopo si adirava della loro indifferenza per lui; voleva tenere il broncio a Desiderio, e intanto si provava a non degnare nemmeno d’una occhiata quella biondina — ma quando il suo sguardo aveva ramingato un poco nello stanzone nero, ritornava ai due piccoli innamorati. Seduti l’uno vicino all’altro sopra una panca, protetti dalla loro età, essi potevano discorrere come vecchi amici senza che nessuno desse loro noia. Avevano l’aria di dirsi le cose più indifferenti, e perfino la madre di Speranza, che si voltava ogni tanto a ricercare la sua figliuola, non entrava in sospetto di nulla. Quel giorno l’ora del parlatorio parve lunga al povero Coppa, sebbene avesse sentito una compiacenza malsana nello scoprire che egli era grandemente infelice. Violando per la prima volta un giuramento fatto per la vita e per la morte, il Coppa non disse nulla al suo grande amico; e per tutto il resto di quel giorno sentì crescere la propria infelicità, nella lotta tra il bisogno di confidarsi e un nuovo sentimento, come di vendetta, che gli consigliava di serbare tutto il dolore per sè solo. Anche la notte, quando fu entrato nel suo letto, egli ebbe la forza di augurare buon riposo a Desiderio e di soggiungere che aveva un gran sonno per troncare in bocca all’amico le espansioni della felicità, e per essere lasciato solo con il suo dolore sconosciuto. Per solito essi aspettavano che il sonno fosse sceso sui letticciuoli più vicini per incominciare poi sottovoce una conversazione, che aveva il sapore del frutto proibito. Peccato che il Coppa avesse tanto sonno, mentre Desiderio non poteva chiuder occhio! Purè il Coppa non russava ancora, e Desiderio si provò a tentarlo chiedendo con un filo di voce: — Dormi? Il Coppa aveva gli occhi aperti, non rispose. Era una cattiveria, e pure ci trovava gusto. — Dormi? ripetè il piccino. Sì, era una crudeltà, il non rispondere, ma gli piaceva che tutte le voci della propria coscienza gridassero insieme: cattivo, cattivo, cattivo! Quando Desiderio tacque e si voltò sull’altro fianco invocando un sonno che gli ripresentasse le vaghe immagini della veglia, il povero Coppa sentì tutta la propria miseria, e pianse, senza sapere perchè. Quel pianto gli fece bene; gli sembrò di vedere attraverso le lagrime il cadaverino del piccolo Giulio di cui occupava il letto, e s’immaginò d’essere morente anch’egli e di avere al capezzale Desiderio e la sua piccola innamorata, e dir loro prima di chiudere gli occhi per sempre: “siate felici!„ E lo disse veramente “siate felici!„ perchè Desiderio, il quale non dormiva ancora e da un poco s’era accorto che l’amico suo faceva uno strano sogno, si voltò di botto e disse: Coppa? che cosa hai? — Ho fatto un cattivo sogno, rispose il fanciullo lottando con le ultime riluttanze. Ma subito soggiunse tutta la verità, o almeno quella che a lui pareva tutta la verità, cioè che quel giorno si era sentito solo, e che gli sembrava di essere stato infelicissimo. Desiderio non capì gran che, e pure con la massima sincerità disse che anche lui, qualche volta, provava qualche cosa di simile... ma che poi passava... “Bisogna dormire, consigliò, e domandare al cielo un bel sogno...„ — Hai provato a ripetere la preghiera? Il Coppa non aveva provato, non avrebbe nemmeno potuto provare perchè non la sapeva. — Io la so tutta, disse Desiderio; qualche volta quando non posso dormire la ripeto mentalmente, e sento che mi fa bene. Mi sembra perfino che dicendola sottovoce sia ancora più bella... Senti. E con un bisbiglio che pareva una carezza, cominciò: “Ancora un giorno è passato, o Signore, ed eccomi alla vostra presenza..... “O Signore, che godete più del nome di padre che di quello di giudice, non mi trattate come ho meritato, ma secondo la grandezza della vostra misericordia.„ Egli tacque, aspettando che il Coppa dicesse qualche cosa, e in quel breve intervallo fu pigliato dal sonno. Il Coppa, rimasto un’altra volta solo, ripetè più volte prima di addormentarsi: “non mi trattate come ho meritato, ma secondo la grandezza della vostra misericordia.„ Poi dormì e sognò d’essere trattato male. VI. Da quel giorno incominciò per il Coppa la peggiore di tutte le torture mortali, quella di chi serba il cuore retto quando i sensi sono turbati. Che cosa fece il povero fanciullo in questa orrenda congiuntura? Alle prime interrogazioni della coscienza, cercò di rispondere una bugia, ma stretto dalle domande ingegnose e crudeli, si diede vinto, confessò tutto: egli voleva un’innamorata, che fosse come quella del suo grande amico, così bella, così serena, così buona, così bionda, egli voleva Speranza, egli amava Speranza, la piccola Speranza d’un amico legato a lui per la vita e per la morte. E si diceva indegno dell’amicizia, dell’amore, di tutte le cose belle che adornano il creato, e del sole che ce le fa vedere. Questo fece il povero fanciullo, ma che cosa avrebbe fatto di meglio un uomo? Quell’idea entrata nel suo cervello, l’occupava tutto, tormentandolo ad ogni ora del giorno e della notte; egli si provò a cacciarla in mille modi, studiando molto la lezione, e non studiandola affatto per essere messo in castigo, evitando di parlare di Speranza coll’amico suo, e parlandone invece fino a stancare lo stesso amore tanto per vedere da vicino l’immagine di quella felicità su cui il suo demonio lo spingeva a stendere una mano ladra. Questo fece, e inutilmente, il povero fanciullo; l’uomo non avrebbe fatto altrimenti. Desiderio intanto era così ingenuo, o così felice, che non si accorgeva di nulla; nelle parole e nei silenzii del Coppa egli non vedeva se non nuovi aspetti di quel temperamento bizzarro a cui avevano messo nome il _Matto_. La loro amicizia del resto non ci pativa; il Coppa aveva anzi per Desiderio una specie di tenerezza che somigliava alla pietà; si umiliava volentieri al suo cospetto, qualche volta avrebbe voluto farsi picchiare da lui.... o da lei. Dà lei! Oh, essere picchiato da Speranza, che dolcezza infinita! Bizzarra cosa: in quella lotta per nascondere il proprio sentimento e per vincerlo, il Coppa era contrastato senza avvedersene dalla propria vanità; egli non dubitava mai di nulla, si sa bene, non immaginava neppure che Speranza, invitata a scegliere tra l’amico e lui, non avesse a buttargli nelle braccia; anzi perciò solo aveva una gran compassione di entrambi, perchè si credeva d’aver in pugno la loro felicità. Egli non dubitava nemmeno delle proprie forze; anche quando abbandonava la testa stanca sul guanciale, persisteva in lui una falsa coscienza che, pur di volere sul serio, egli potrebbe da un momento all’altro strapparsi di dosso la strana malìa. Questa falsa convinzione che egli avrebbe voluto smentire, per trovarsi meglio con la coscienza, ma che l’amor proprio avvalorava di nascosto, gli fece del male; a poco a poco, senza avvedersi, egli cominciò davvero a lottare per stancarsi e per soffrire, ma non più per vincere. La domenica, all’ora del parlatorio, vi andava tirandosi dietro l’amico, e studiandosi di fare un ingresso decoroso. Perciò dopo aver salutato con un cenno del capo dal basso in alto la piccola Speranza, le voltava le spalle addirittura, perchè essa non gli potesse leggere nel cuore, e innamorarsi lei, povera creatura, e guastare il sacrifizio che egli voleva fare ad ogni costo. Ma quando aveva arrestato un momentino la zia nella strada del paradiso, e chiestole come aveva passata l’ultima settimana in questa terra, quando aveva udito contare le maglie della calzetta eterna, il disgraziato Coppa era spinto da una mano invisibile al cospetto dei due innamorati, per vedere da vicino che sorta di balocco essi andavano facendo della sua felicità distrutta. E quella vista era così dolorosa, che egli avrebbe voluto spirare ai loro piedi, per colpire di sgomento la loro spensieratezza. Poi si pentiva, e tornava al suo cantuccio, a girare sguardi inquieti per l’ampio stanzone, cercando inutilmente un sorriso sopra una faccia giovine e bella. Quello strazio durava da qualche tempo, e Desiderio non si accorgeva di nulla. Un giorno alla passeggiata, il Coppa, che era stato sempre silenzioso ed inquieto, vide passare entro una carrozza, tirata da due cavalli bianchi, una bellissima giovinetta. — Guarda, disse a Desiderio, guarda in quella carrozza.... guarda.... ah! non sei più in tempo, è passata. — Chi? — La mia Speranza. Allora Desiderio lo guardò in faccia, perchè non capiva, il Coppa si credette scoperto e si fece rosso. — È passata, disse celiando a stento, ma la raggiungerò; i suoi cavalli bianchi corrono molto, ma anche i miei correranno molto. — Non ti capisco, confessò l’amico umilmente. — Eppure non è difficile, disse il Coppa con calma, volevo anch’io un’innamorata, ed ora ce l’ho; è passata in questo momento; era bella, era bionda; la chiamerò Speranza, come la tua. — Matto! disse Desiderio. — Sì, matto, disse il Coppa. Tacque; ma dopo un centinaio di passi, impacciato dal proprio silenzio, tanto per dire qualche cosa, fece una strana proposta all’amico: — Ti piacerebbe andarcene pel mondo, noi due, a cercar la fortuna? Si fuggirebbe dall’ospizio insieme, e si andrebbe fuori di porta, sempre diritti, fino a Parigi o fino a Londra? Ti piacerebbe? — A me no, rispose schiettamente Desiderio. — A me invece, tanto. Si andrebbe laggiù a cercar la fortuna; al ritorno tu sposeresti la tua Speranza, io.... andrei a trovare quella ragazza, che è passata or ora, e le direi: mia cara, tu devi sapere che io t’ho vista un giorno nel viale dei giardini pubblici, allora ero orfano e povero, oggi sono.... — Oggi sei più matto del solito, interruppe Desiderio. VII. La stramba idea che, sorgendo a un tratto sul lastrico di Milano, aveva lusingato il Coppa con la sua monelleria, non lo lasciò più. Egli era così fatto, il povero orfanello, che l’insolito lo seduceva, e il pericoloso lo attirava. La notte, nel silenzio del dormitorio, quando egli cercando di dormire, poteva credere in buona fede di non ricordarle più, qualcuno gli venne presentando ad una ad una le sue medesime parole: “ti piacerebbe andare per il mondo a cercar la fortuna?„ Aprì gli occhi, e alla scarsa luce della lampada notturna, il camerone gli parve più nero; stette in ascolto, e gli sembrò che tutti i suoi compagni si lamentassero nel sonno, tranne uno, che era felice anche dormendo, Desiderio. Sì, fuggire domani stesso, questa notte medesima, subito, che bella impresa! Bella, ma difficile. Allora si finse prigioniero coll’immaginazione, e si provò ad architettare la sua fuga. Prima di tutto egli aspetterebbe ancora un’ora per assicurarsi che tutti dormissero, poi si vestirebbe di nascosto, farebbe un fardelletto delle sue robe... Di tutte? No, bisognava lasciare all’ospizio ogni cosa che l’ospizio gli aveva dato; salvo un paio di grosse scarpe, dovendo camminar molto; il difficile nell’uscire dal dormitorio, sarebbe l’aprir l’uscio così piano che non facesse rumore. Giunto sulle scale, scenderebbe tentoni fino al gran cortile. E poi? Come arrampicarsi fino al ciglio del muro? Non vi erano scale a piuoli ed egli non si sentiva capace di tirarsi su puntellandosi con le mani e coi piedi nell’angolo dei due muri, come aveva visto fare ad altri. Bisognava rinunziare alla scalata e trovare un’altra uscita più volgare. Finchè rimase sveglio, il Coppa non trovò nulla, ma appena si fa addormentato tutto ciò che gli era riuscito scabro gli si appianò dinanzi; egli trovò subito un’uscita, e fuggì, e andò per Milano e per il mondo a cercar la fortuna, e la trovò a Parigi, o a Londra, e fu ricco ed ebbe due cavalli bianchi e un’innamorata bionda. L’alba svegliandolo da quei sogni lo consolò dandogli un rimorso. Egli si accusò d’aver tradito l’amicizia, d’aver potuto pensare alla fuga abbandonando nell’ospizio l’amico a cui era legato per la vita e per la morte. Per fare la pace con la coscienza, confessò a Desiderio il proprio sogno, poi disse: — Ci ho pensato anche da sveglio, ma per celia; io non me ne vado, se tu non vieni; perchè dimmi un poco, se non ci fossi io, come faresti tu ad andare nel parlatorio? Povero Desiderio! Povero Coppa! egli compiangeva il suo rivale, e per respingere la tentatrice idea d’una fuga dall’ospizio non trovava un argomento più valido di questo: no, io devo rimanere perchè Desiderio possa andare in parlatorio a vedere la sua innamorata! E ci andò in parlatorio, il povero Desiderio, dieci volte, venti, e fa ogni volta più felice, e non vide, non sospettò mai lo strazio del piccolo eroe dimenticato, che andò egli pure in parlatorio, e fu infelice sempre più. Ma intervenne la morte a rompere questo idillio penoso. Una domenica, i due fanciulli aspettavano l’ora del parlatorio, quando si venne a chiamare il Coppa, il Coppa soltanto. — E tu? chiese il fanciullo al suo compagno, e lui? domandò al sorvegliante. Non è mia zia che mi chiama? — No, è un uomo. — Povero Desiderio! mormorò il Coppa, offeso da una pallida gioia entrata furtivamente nel proprio cuore. Nel parlatorio si vide venire incontro un certo Tita che egli conosceva appena, un vicino di casa della zia. — La zia è malata? domandò il fanciullo. — È morta! rispose bruscamente Tita. — Morta? ripetè il fanciullo come uno smemorato. — Sicuro; fino a jeri l’altro stava meglio di me e di te, spiegò l’impassibile visitatore; io dico che dev’essere stata qualche cosa che aveva dentro e che si è rotta. — Morta! ripeteva il Coppa. — Sicuro, è morta ieri mattina all’alba; oggi alle quattro la portano al camposanto. Ad ogni parola di quell’uomo, che gli parlava con una voce strascicante mettendo nel suo discorso delle cadenze pigre, il fanciullo vedeva un’immagine desolata. Fissava gli occhi nella parete dirimpetto, o guardava senza vederle le faccie indifferenti dei visitatori; egli vide così sua zia, stecchita, immobile entro una cassa d’abete e vide i ceri che ardevano nella stanzetta, e vide una calza non finita sul canterano. E intanto ripeteva, come se stentasse ad afferrarne bene tutto il significato, questa grande parola: morta! La piccola Speranza era là; ma i suoi occhioni azzurri interrogavano invano; oggi la morte soltanto parlava all’anima sbigottita del fanciullo. Più tardi il Coppa sarebbe stato sincero nel misurare la sventura che lo colpiva, ma in quel momento non la misurava ancora; e poteva accettare senza rimorso il nuovo sentimento di forza che gli veniva offerto dalla morte. Non sapeva come avvenisse, ma era quasi sicuro di non offendere nessuna religione umana, lasciandosi accarezzare da una baldanza nuova. E poi, toccato dalla sventura, egli si sentiva di tanto più alto della piccola Speranza, che non badava nemmanco più ai due grand’occhi fissi sopra di lui, e poteva lusingarsi che tutto sarebbe finito fra loro due. Intanto Tita gli veniva dicendo: — I corvi sono già venuti; sono già là, a spartirsi quella poca roba; tua zia voleva bene a te più di loro; ma se non ha fatto testamento tu non avrai nulla. — I corvi? balbettò il fanciullo. — I tuoi zii; non li conosci? — No. — Ne hai due, uno più bello dell’altro; sono là — tu non sai se tua zia abbia fatto testamento?... No?... peccato! Della bella e buona roba ce ne aveva; il canterano è un bel mobile..... il letto è vecchio, ma solido; ci sono due gran guardarobe verniciate; e poi doveva avere del denaro... A me, prima di morire, ha chiesto una calza incominciata, col suo gomitolo, e ha detto che l’aveva fatta in parlatorio per te. — Per me? balbettò il Coppa, e pianse. Non aveva potuto strappargli una lagrima la notizia che sua zia era morta, ma l’idea che la buona donna veniva ogni domenica, e si metteva a sedere là, su quella panca, e cavava di tasca la calzetta che essa destinava a lui, senza vantarsene, e che egli quasi se ne era indispettito, e una volta ne aveva riso, quest’idea gli gettò un gran turbamento nel cuore, e lo fece piangere. All’estremità del camerone, la piccola Speranza indovinò un gran dolore, ed ebbe voglia di piangere anch’essa. — Eccola! disse Tita.... ma è inutile piangere; eccola! insistè, e si cavò di tasca la famosa calzetta, lasciando cadere a terra il gomitolo, che rotolò fino a Speranza. Subito la fanciulla lo prese e lo portò all’incognito, ma il Coppa la vide appena e si compiacque di sentire che gli occhioni smarriti della fanciulla lo lasciavano freddo. — La riconosci? proseguì Tita, ravvolgendo il filo al gomitolo, è questa qui; te l’ho voluta portare io stesso, perchè è cosa tua, sebbene non sia finita, anche i tuoi zii non hanno detto di no. — Grazie, balbettò il fanciullo, e nascose la calzetta sotto il camiciotto. — Non ci ho altro, conchiuse Tita, e me ne posso andare; però se tu avessi voglia d’uscire domani per visitare tua zia in camposanto, io verrò. — Grazie.... ripetè il fanciullo — Devo venire? — Sì, sì, venga; ma bisogna chiedere il permesso al rettore. — Lo chiederò. — Venga presto. Tita se ne era già andato tranquillamente, e il Coppa rimaneva ancora nel mezzo dello stanzone. Nella vetrata della finestra appariva e spariva il nasino di Desiderio; gli occhioni di Speranza interrogavano invano. Il fanciullo la vide, le si accostò, e le disse semplicemente: — Mi è morta la zia, non verrà più nessuno a chiamarmi in parlatorio; non ci vedremo più. La fanciulla spensieratamente gli prese una mano, ed a quel contatto il Coppa sentì che la malia si rinnovava. — Mi dispiace per voi altri, disse il Coppa, e anche per me; tu sei tanto bella!... Si arrestò; tutti i suoi nervi tremavano. — Addio, ripetè a un tratto, e fuggì. La vocetta di Speranza mormorò: addio, ma il Coppa era già lontano. VIII. Il rettore dell’ospizio, quando seppe della disgrazia toccata al Coppa, chiamò il fanciullo, doppiamente orfano, e gli disse: — La morte di tua zia ti lascia solo nel mondo; ma questa gran famiglia d’orfani è la tua; molti dei tuoi fratelli, uscendo di qui, si sono fatti un gran nome nel mondo; imita il loro esempio, studia.... eccetera. Il Coppa crollò il testone rosso in una certa maniera, che non diceva nè sì, nè no, e uscì dallo stanzino del rettore per andare al cospetto del direttore spirituale. Il buon prete cominciò con le stesse parole del rettore, ma proseguì dicendo che sotto l’occhio di Dio nessuno è solo, e che coll’aiuto del cielo, il coraggio e il lavoro tolgono l’uomo da ogni impiccio. E questa volta il testone del Coppa disse propriamente di sì. Poi il fanciullo andò risolutamente incontro a Desiderio, e gli disse: — Desiderio mio, perdonami. — Che cosa? Il fanciullo fu lì lì per confessare che aveva detto a Speranza: tu sei tanto bella! ma non ne ebbe cuore. — Io ti lascio, io me ne vado. — Perchè? — Perchè sono solo nel mondo, e non ti posso essere utile.... ora che mia zia è morta, non andrò più in parlatorio nemmen io.... Desiderio si provò inutilmente a dimostrargli la stranezza del suo disegno; appunto perchè la zia era morta, bisognava rimanere.... — Me l’ha detto anche il signor rettore; ma io non la penso così; stavo qui per non dare dispiacere alla zia, e ci sarei rimasto volontieri per te.... ma ora.... — Ma ora? — Ora non posso: giurami, proseguì affrettandosi a colmare l’involontaria reticenza; giurami che anche lontani, noi saremo sempre amici, e ci ritroveremo un giorno. Parlava con tanta enfasi, che Desiderio volle secondarlo e giurò. — Di’ così: per la vita e per la morte. — Per la vita e per la morte. — Me ne andrò domani, disse il Coppa con pacatezza. — E dove andrai? chiese Desiderio con voce soffocata. — Prima di tutto in camposanto, a visitare mia zia, poi andrò pel mondo. Queste parole facevano un magnifico effetto anche all’orecchio del Coppa che le diceva; quanto a Desiderio egli era sbalordito. — Coraggio, gli disse l’amico suo. Era inutile lottare col Coppa; quando un proposito buono o cattivo era entrato in quel testone, non ne usciva più; Desiderio lo sapeva bene, e non si provò neppure a rimuoverlo, ma pianse molto, pianse troppo, e al Coppa, oltre il pensiero di preparare ogni cosa per la fuga, toccò il compito di consolare il suo piccolo amico. — Credi a me, gli diceva, tu studierai il disegno, e diventerai un pittore famoso, e sarai ricco anche tu, e sposerai la tua Speranza; ci troveremo poi nel mondo quando uscirai di qui: intanto io ti scriverò spesso, ogni settimana, o tutti i giorni, e tu mi risponderai. È inutile piangere, il pianto non serve a nulla. E così dicendo egli raccoglieva nella propria pezzuola le lagrime calde e frequenti di Desiderio. — Non piango più, disse il fanciullo mostrando gli occhi rossi.... ma tu, tu? — Io me ne andrò solo pel mondo; è il mio destino; io non avrò mai una Speranza al fianco, lo sento bene, ma non importa; ho una gran voglia di arrivare ad essere ricco, e arriverò. Vedrai.... non affliggerti per me, ti scriverò tutto... Quella notte, finchè Desiderio fu sveglio, i due fanciulli non fecero altro che discorrere del loro avvenire. Siccome sarebbero stati imbarazzati a servirsi delle Regie Poste, il Coppa fece una magnifica pensata: ogni domenica, uscendo a passeggio, Desiderio doveva raccogliere una lettera fatta a pallottola che il Coppa avrebbe deposto prima sul davanzale d’una finta finestra a terreno, dinanzi alla quale il drappello d’orfani doveva necessariamente passare. La domenica successiva vi deporrebbe la risposta. — E Speranza? — Andrò a trovarla, promise il Coppa, e le dirò che ti voglia sempre bene, e che non ti tradisca mai per un altro. Al povero Coppa tremava un tantino la voce, facendo questa ardua promessa, ma egli voleva espiare anche il pericolo corso di essere lui il traditore dell’amico suo, e questo gli pareva il modo migliore. Finalmente il sonno chiuse gli occhi di Desiderio; allora il Coppa fu libero di pensare ai casi suoi. Egli non voleva essere preso alla sprovveduta il domani; quel Tita che aveva promesso di chiedere per lui l’uscita straordinaria, doveva venire di buon’ora, e bisognava che il fardello del Coppa fosse pronto. Quale fardello? Pensandoci meglio, il povero fanciullo riconobbe che, anche volendo, non avrebbe potuto portare seco se non gli abiti che avrebbe messo in dosso, cioè quelli dell’uscita, perchè non lo avrebbero lasciato uscire con altri panni. Poteva però vestire due camicie almeno, due paia di mutande, e infilare più d’una calza, finchè ce ne potesse entrare nelle sue scarpe migliori. Voleva poi portare nel pellegrinaggio attraverso il mondo i libri e i quaderni di scuola che avrebbero trovato posto fra la camicia e il giubbetto; infine non bisognava dimenticare la penna e il calamaio per scrivere subito a Desiderio. Prese queste disposizioni mentali, si abbandonò al sonno. Come il Coppa aveva immaginato, il Tita fu mattiniero; gli orfani non erano entrati in scuola, quando egli attraversò il cortile dirigendosi al camerino del rettore, per chiedere l’uscita straordinaria del Coppa. Passando, cercò con gli occhi il fanciullo; lo vide e gli fece un cenno di complicità; pareva un brav’uomo, e al Coppa venne lo scrupolo d’ingannarlo. Ma si fece forza, perchè non era momento di debolezze, come fece osservare anche a Desiderio, che stava lì lì per tradirlo con le lagrime. — Che cosa hai da piangere? disse forte, perchè il sorvegliante lo udiva; non sai forse la lezione?... Vediamo, soggiunse tirandolo in disparte, non bisogna essere come le bambine. Fra pochi minuti ci separiamo; ti ricorderai di tutto? — Sì, balbettò Desiderio, il quale non si sentiva tanto forte da lottare contro il capriccio del suo grande amico, ma in cuor suo aveva sperato che, dormendoci sopra, il Coppa avesse a pentirsi dell’ardito disegno — sì, ma non te ne andare. — La finestra finta a terreno... ricordalo bene; tutte le domeniche all’ora della passeggiata. — Sì, ripeteva Desiderio, ma non te ne andare; ritorna, pensaci ancora.... sarai in tempo un’altra volta... — Per la vita e per la morte, conchiuse solennemente il Coppa, stampando due baci sulle guancie dell’amico. Il Tita riappariva allora. Desiderio lo guardò sperando di leggergli in faccia che il rettore non avesse concesso l’uscita; ma vi lesse il contrario. — Andiamo, disse Tita. — Addio, disse il Coppa a Desiderio. Un sorvegliante venne a dirgli d’andarsi a vestire, perchè gli era concessa l’uscita per tutto il giorno. Gli orfani, che si mettevano in fila per entrare in iscuola, guardarono il loro fortunato compagno con invidia; il solo Desiderio non vide più nulla, perchè aveva dinanzi agli occhi un velo di lagrime. Quando il Coppa scese tutto corazzato di libri e di quaderni, aveva quasi un aspetto battagliero; si doveva capire, solo a guardarlo, che egli andava a sfidare la vita, e che il mostro non gli faceva paura. Era già sull’uscio, ma si arrestò. — Ho dimenticato una cosa.... disse; torno subito. E via di corsa, su per le scale, fino al dormitorio; colà giunto, aprì il suo piccolo canterano e ne tolse una calza incominciata, quattro ferri e un gomitolo, l’eredità della zia. Cacciò ogni cosa in una tasca, raggiunse la sua guida, ed uscì a respirare l’aria libera. — Andiamo a casa, disse il Tita. — No, rispose risolutamente il Coppa, io vado al cimitero. L’uomo stava dubbioso. — Ci sai andare al cimitero? — Altro! esclamò il fanciullo, a cui non sembrava vero di poter essere libero così presto; ma sentì un’altra volta lo scrupolo d’ingannare quell’uomo che si era incomodato per lui, e ripetè con accento più dimesso che al cimitero ci sapeva andare. L’uomo guardò a diritta ed a mancina, come cercando un’uscita all’irresolutezza, poi concluse: — Ebbene, vacci; io ti aspetto in casa; bada a non arrestarti in piazza Castello, dinanzi alle baracche dei giocolieri. Il Coppa crollò il capo, e si pose in cammino. — Coppa! gli gridò il Tita alle spalle. Il povero fanciullo credette che il suo liberatore si fosse pentito, ed affrettò il passo. — Coppa! ripetè l’altro, e il Coppa si arrestò. — Per sapere dove è seppellita tua zia, disse il Tita, domandalo al custode. Il fanciullo chinò il capo, e tirò innanzi frettoloso. Eccolo solo nell’ampio mondo. EPILOGO I. La portinaia doveva essere entrata senza far rumore; aveva deposto, lì accanto, sulla scrivania, quella lettera voluminosa, e se n’era andata in punta di piedi, per non svegliarlo; sicuramente egli si era riaddormentato a tavolino, sebbene si fosse levato appena di letto. Così pensò lungamente il vecchio Desiderio, e fu un pensiero languido, quasi inconscio, a cui seguì quest’altra riflessione: “Il sole è entrato in camera da un’ora almeno; già dev’essere alto sull’orizzonte, perchè la striscia d’oro ha lasciato il letto di Speranza, ed è scesa sull’ammattonato.„ Per un poco non pensò più nulla, finchè il lavorìo pigro della sua mente gli disse: “La striscia d’oro è impallidita; il cielo è nuvolo.„ Al vecchio Desiderio non importava affatto che il cielo si annuvolasse; dacchè era venuto in terra, egli aveva preso il cielo come il Signore glielo mandava, e da un poco in qua lo accettava anche con più rassegnazione; pure a un pallido riflesso dei sentimenti modesti che lo avevano animato una volta, vide nel proprio cervello l’idea fuggitiva che quella giornata bigia non sarebbe piaciuta a Speranza. “Poveretta! pensò; essa avrebbe spiato tutta la mattina un raggio di sole, assicurandomi che prima del mezzodì la giornata si sarebbe accomodata. E molte volte si accomodava per davvero, a quel tempo!„ Ora no; il bel sole non sarebbe più entrato nella casa che la vecchia Speranza aveva lasciato da un mese, per sempre; o forse vi rientrerebbe, una volta ancora, presto, appena Desiderio avesse spiccato anche lui il gran volo. Quel giorno sarebbe festa solenne nel melanconico nido. Sì, era ben questo il solo, forse l’ultimo, desiderio di quell’anima battuta e contenta; assomigliava a tutti i desiderii del passato, perchè era modesto come quelli, e si sarebbe compiuto del pari, ma anche più securamente. Teneva gli occhi fissi sul letterone, e non gli nascendo ancora la volontà di pigliarlo in mano, per indovinare chi gli avesse scritto, continuava ad essere con la sua morta, rifaceva nel pensiero i cinquanta anni di vita passati insieme. Appena due mesi fa, Speranza era viva, sana, allegra; aveva ancora un viso gentilino, in cui le rughe erano disegnate appena; ancora i grandi occhi di lei gli promettevano la serenità del cielo; ancora la voce nota gli mormorava parole che sonavano come la musica di chiesa. Contenti entrambi, ringraziavano il cielo ogni sera perchè dalla loro casa aveva allontanato la morte, la disgrazia e il turbamento d’ogni brama smodata, avendo avuto cento occasioni, non una, di toccare con mano quanta sia l’infelicità della gente che non si sa contentare del poco. Una volta sola, quarant’anni prima, Desiderio aveva guardato troppo in alto; e fu quando, maestro di disegno in una scuola serale, sposato appena alla sua Speranza, immaginando che il nido luminoso dovesse splendere più ancora se l’arte vi avesse mandato un raggio di gloria, si lasciò tentare dall’idea ambiziosa di mettere un cartone sopra il cavalletto. — Farò il tuo ritratto, aveva detto pomposamente; sei contenta che io veda se sono artista? Speranza avendo battuto le mani, si era andata a mettere, come suo marito aveva voluto, accanto alla finestra, in modo che la luce battesse in pieno sulla faccetta bianca e sui capelli d’oro. E subito erano venute due voglie all’artista novellino: coprire di baci il volto ridente, e fare un capolavoro. Una voglia fu contentata subito; ma inutilmente il povero maestro d’ornato consumò molti carboncini per fare una figura che somigliasse press’a poco a Speranza. Sbricciolò molta mollica di pane per cancellarla, dopo di che mise il cuore in pace e scrisse allegramente sul foglio cancellato appena queste poche parole che erano tutta la verità: “Desiderio mio, rassegnati; tu non sei nato pittore, e ti manca la forza di diventarlo.„ Anche sua moglie prese la cosa celiando, ma le rimaneva in cuore un sentimento: “chi sa? la forza che ora ti pare di non avere, ti verrà forse in seguito.„ — Forse; speriamolo. La forza non gli venne mai, e il maestro di disegno si accontentò di ammirare senza invidia la pittura degli altri. Solamente non era persuaso che egli non fosse un pochino artista; scandagliando tutto sè stesso, trovava in un cantuccio della mente il germe di qualche cosa che poteva essere l’arte; e la sera, dopo la scuola, menando a spasso la sua Speranza per i viali ombrosi, o ascoltando il mormorio delle foglie, si sentiva tentato dallo stimolo. Diceva allora dopo un lungo silenzio: — Sai? mi pare proprio che qualche cosa di buono ci sia qua dentro; il difficile è metterlo fuori. Un giorno assicurò bonariamente che l’arte non è facile a nessuno, e un altro giorno ebbe l’intuizione fuggitiva che i pittori veramente grandi _forse_ erano stati quelli a cui la pittura aveva prima voltato le spalle per darsi poi interamente all’artista importuno. Desiderio volle essere importuno un’altra volta; solamente in luogo di ostinarsi a pretendere che il cartone gli ripetesse la figura che aveva sempre nel pensiero, sempre nel cuore, si provò a riprodurre sulla tela e con colori un lembo del giardino in cui andava a spasso ogni sera. Non riesci meglio. Il suo paesaggio, dopo aver rallegrato molto i monelli che si avvicinavano al pittore in silenzio, e se ne andavano gridandogli forte una parola sola, ma significativa, disse a lui stesso quella parola schietta: cerotto. Il maestro di disegno non se la lasciò dire due volte; si arrese alla prima, e quel giorno tornò a scuola con lo sgomento di scroccare le poche lire che il municipio gli pagava ogni mese per insegnare ogni sera il disegno d’ornato ai monelli, i quali un giorno forse gli griderebbero in coro: cerotto! Fu uno sgomento passeggiero, chè anzi in fine d’anno l’assessore municipale, avendo fatto una visita alla scuola, espresse al giovine maestro la propria soddisfazione per il profitto e per la disciplina della scolaresca. Ah! sì; quanto alla disciplina il maestro di scuola poteva farsi bello; non se ne vantava perchè Desiderio era prima d’ogni cosa ingenuo, e dopo aver confessato a sè stesso che quella disciplina non gli costava ombra di fatica, sarebbe stato capace, capacissimo di dirlo anche all’assessore. — Tener a segno i miei scolari mi è facile, perchè essi sono buoni e mi vogliono bene; ma è merito degli scolari, non del maestro. Ti pare? Questo diceva alla sua compagna, e Speranza gli rispondeva che a buon conto non lo stesse a ripetere alla gente. Campavano allegri, potendosi quasi dire felici, se questa parola avesse un significato preciso; anzi sì, felici propriamente perchè i due sposi novellini vivevano sognando sempre, ma poco, e che altro è la felicità se non un sogno bello e discreto? Ahi! quanti ne avevano già conosciuti, ammalati di aspettazione, rosi dall’impazienza, scontenti della sorte e di sè stessi, che avevano sempre l’aria d’esser destati appena da un sogno audace! Il Coppa per esempio. Quello era un sognatore di prima forza! Dacchè se n’era andato per il mondo, fuggendo dall’ospizio, egli non aveva fatto altro che seminare le avventure; facendo cento professioni, in cento paesi, attraverso tutti i mari dell’orbe terraqueo; innamorandosi molte volte, e non capitando mai bene. Sebbene vivesse con molta più larghezza del necessario, si sentiva nelle angustie di un creditore, il quale non possa riavere il fatto suo. Questo lo aveva appreso molti anni prima, quando si erano riveduti a Milano nel teatro Santa Radegonda; allora il Coppa era un prestigiatore famoso e faceva stare a bocca aperta il pubblico affollato; allora, come sempre, Desiderio continuava a campare della disciplina dei propri scolari, della disciplina dei propri sogni. Perchè a quel tempo felice ne aveva ancora dei sogni belli. Avendo imparato a sonare l’organo, era entrata nel suo cervello l’idea che potesse diventare organista d’una chiesa, per accompagnare la messa cantata e la benedizione prima e dopo la lezione di disegno; egli appunto aveva il resto della sera libero, e poteva disporre delle domeniche e delle altre feste comandate come ogni buon cristiano. Quando il Coppa gli aveva confidato tutte le vicende fortunose della sua vita, la quale ancora non era riuscita a contentarlo, e il proposito immutabile di pigliar la fortuna per il ciuffo e costringerla a darsi vinta, il povero Desiderio si era creduto in dovere di confessare anche lui qualche cosa. — E tu che desideri? che speri? gli aveva detto il Coppa. — Unicamente di avere il posto di organista, nella chiesa di San Babila. Appunto l’organo era ancora occupato da un vecchio prete, malandato in salute, e Desiderio aveva paura che la propria speranza affrettasse la catastrofe di Don Gioachino. Per placare la coscienza, non solamente sonava invece del vecchio prete, senza intascare mai un quattrino, ma ogni sera aggiungeva alla preghiera imparata nell’ospizio una parola buona, perchè il Signore tenesse in vita lungamente l’organista ammalato. E perchè il Coppa, a cui la vita aveva insegnato qualche cosa di più, si era messo di buon umore a questa affermazione, Desiderio andando a letto disse all’Eterno Padre: “Il mio cuore vi è aperto; se le mie intenzioni non sono giuste, correggetele voi, Signore, mandatemi l’angelo vostro che m’illumini.„ Don Gioachino si era fatto aspettare molto in paradiso, ma finalmente fece l’improvvisata e vi andò; al funerale del vecchio prete, Desiderio accompagnò la messa di morto a capo chino, col cuore stretto, e al _De profundis clamavi_ due grosse lagrime gli gocciolarono fra le dita. Ma il nuovo organista di San Babila asciugò prontamente la tastiera, e lavorò forte col pedale, per confondere, nel medesimo stordimento, l’organista morto, l’organista vivo e le sue quattrocento lire annue, e perfino la soddisfazione d’aver versato quelle lagrime sulla tastiera. Messo una volta a sedere davanti all’organo di San Babila, Desiderio non la finiva più; sonava Palestrina, Marcello e Bach, e qualche volta, ma solo dopo la benedizione nel mese di Maria, lasciava scattare una pioggia di note allegre, che faceva alzare la testa ai fedeli e gli inchiodava in chiesa, intanto che il sagrestano spegneva le candele dell’altare maggiore. A piè della scala dell’organo, Speranza sua era sempre pronta a stringergli la mano in silenzio, e lo menava subito fuori di chiesa per mostrargli la faccia illuminata dalla contentezza. — Hai sonato come si suona in Paradiso; aspetta che sia a casa, e sentirai che cosa ti farò... Desiderio sorrideva un po’ di compiacenza, ma più perchè sapeva già che cosa lo aspettava a casa, un bacio, due, dieci bacioni filati. Ma non perciò si era impuntato a voler diventare un organista famoso. Contento del suo pubblico di donnette, che non sarebbero mai andate a cena fino che egli lo avesse permesso, contento dei suoi allievi di disegno, egli aveva rinunziato volontieri alle smanie dell’arte per essere semplicemente un uomo felice. La striscia d’oro pallido dell’ammattonato era scomparsa, brontolava il tuono annunziando il solito temporale d’ogni mattina. Desiderio, indifferente a tutto, allungò il braccio, e la mano sua trovò la lettera all’estremità del tavolino. I bolli, il suggello, dissero al vecchio che quel letterone veniva da Buenos Ayres; la scrittura gli annunziò dalla soprascritta che si preparasse a leggere le grandi imprese che in questi ultimi mesi erano state osate dal Coppa. E parve a Desiderio che qualche cosa o qualcuno sorridesse nell’anima sua. Staccò lentamente il suggello di ceralacca, in modo che la busta rimanesse intatta, e andò pensando da quanto tempo il Coppa non gli dava notizia dei fatti suoi. Da sei mesi almeno; l’ultima Volta aveva scritto da Nuova York, dove aveva ripreso in teatro gli esercizi di magia bianca e nera, dopo aver venduto per poco danaro un pozzo di petrolio nel Canadà, perchè si era stancato di vivere in mezzo ai boschi di Petrolea. Aveva intanto levato dalla busta il foglio e spiegatolo innanzi a sè; ma quando volle leggerlo, se lo lasciò cadere di mano alle prime parole, e gli occhi gli si empirono di lagrime, perchè la lettera cominciava così: “Miei buoni amici.„ Il Coppa dunque non sapeva in che miseria fosse piombata quell’anima contenta; non poteva saper nulla, perchè, dopo la disgrazia, Desiderio si era fatto neghittoso e sonnolento, svegliandosi appena dalla melanconia taciturna, per empirsi l’orecchio e la mente delle parole solenni di Bach. La stanza melanconica fu empita da un lampo e subito da uno scoppio tremendo e lungo come l’ira di Dio, poi la pioggia si rovesciò con impeto. Desiderio levatosi per chiudere la finestra, stette un poco a guardare a traverso le vetrate i goccioloni che, rimbalzando sul davanzale, sembravano animati da un’allegria furiosa; ma non si sentiva invasato da quella furia; non gridava, non batteva le mani come aveva fatto più d’una volta in compagnia della sua morta; e solo quando lo scrosciare della pioggia ebbe preso quell’andatura solenne, confacente col proprio sentimento, egli si andò a sedere davanti al vecchio _harmonium_ che gli ripetè gli accordi del _De Profundis_. Quando cessò la pioggia ed entrò un raggio di sole nella stanzetta, Desiderio asciugò la tastiera silenziosa. Non piangeva più, poteva ascoltare quello che il Coppa avrebbe detto da Buenos Aires ai buoni amici suoi. II. Miei buoni amici. — L’ultima volta che vi ho scritto mi pareva d’essere giovine ancora; oggi mi sento vecchio, sebbene da quel tempo siano passati sei anni appena. Fino a poco fa, mi sono creduto padrone della sorte; non avendo mai dubitato un momento che il voto mio si avesse a compiere un giorno, ora che finalmente è compiuto, ho paura di aver sbagliato strada. Ho camminato tutta la vita verso la ricchezza soltanto; eccomi ricco, non perciò felice. Anzi il contrario, perchè soltanto ora mi pento di aver sprecato tanta vita e tanto ardore nell’inseguire un’ombra. Direte: ti rimane però la soddisfazione di essere riuscito nel tuo intento. No, non mi rimane nemmeno questo. Non è stato il mio lavoro, non è stata una mia idea a farmi ricco; è la fortuna cieca ed imbecille, che per un peso me ne mette in tasca cento mila. Lo volete sapere? Ho vinto il primo premio in una lotteria. Continua, in una nuova forma, la mia miseria vecchia. Miei buoni amici, voi non sapete tutto quello che possa confessare a se stesso un uomo beffato lungamente dalla fortuna. A me premeva d’essere forte, e perciò di dimostrarmi sicuro di tutto quanto facevo; ma oggi guardo la mia vita male spesa e mi confesso a voi, che siete buoni e mi volete un po’ di bene. Sì, ho sciupato il meglio delle mie facoltà. Avevo dell’ingegno e che ne ho fatto? tante cose sbagliate, una sola riuscita: il prestigiatore; ho avuto e sento di avere ancora un po’ di forza, sono stato amico della verità, della giustizia, del bene, e non mi è riuscito _veramente bene_ altro mai che l’inganno, prima in piazza, ora sul palcoscenico; ebbi sempre il cuore aperto agli affetti, ma per fatalità ho sbagliato l’amore, e se non fosse di voi, non mi rimarrebbe nemmanco un amico. Un attento esame di tutto il mio passato mi ha lasciato persuaso d’una verità che ho notato così sul mio taccuino: “ho visto l’amore generare il dolore, dalla grave fatica nascere la felicità; e la vita non ha nulla di meglio che l’amore e il lavoro.„ Ma vuol essere lavoro utile, come quello che si faceva in cerca di pozzi di petrolio al Canadà, in mezzo ai boschi con l’accetta in pugno per aprirsi il sentiero, scavalcando le macchie e lasciando lembi di carne alle spine. O come quello che avevo fatto prima a Nuova York, di modellare figurine di gesso e venderle in piazza. Ma queste fatiche mi stancarono, appena potei temere che non mi conducessero diritto alla ricchezza; e allora disperando di me stesso, tornai di mala voglia all’inganno più rimunerato del prestigiatore. Spesso vedendo un facchino vacillare sotto un peso enorme, o un minatore fendere col piccone il granito del monte, o un contadino vangare al sole cocente, mi fermai a guardare la loro fatica; non già che mi paresse meno aspra o meno ingrata, pure mi tratteneva, senza desiderio, senza compianto, ma non indifferente. Non sapendo nemmeno io che cosa sentissi a quella vista, qualche volta mi parve di indovinare lo scoraggiamento per la inettitudine di chi si è posto innanzi agli occhi una meta da raggiungere, e che intanto si balocca per via, corbellando il prossimo e un po’ sè stesso. Dunque finalmente sono ricco! Non quanto ho sognato nell’ospizio, ma tanto da poter contentare molti dei miei desideri d’una volta se me ne fossero rimasti. Ahi! l’infelicità di ognuno è proprio questa, di non desiderare più nulla quando si ha ottenuto tutto; ma l’infelicità mia è peggio, perchè all’assenza di ogni bramosia si aggiunge il rimpianto. Mi dolgo di non essere stato felice, di non avere avuto al mio fianco una compagna, se non bella e amabile come la tua, ma tale almeno a cui potessi dire oggi: tu sei invecchiata aspettando il mio amore; ora questo amore eccolo; è tutto tuo, se ancora lo vuoi. E anche m’affliggo di non aver dato all’arte o alla scienza la forza che ho speso per inseguire la felicità senza afferrarla mai. Non sarei stato felice, perchè me ne mancava il temperamento, ma se non altro nel mio paese sarei stato buono a qualche cosa, forse uno scrittore onesto e povero, o un inventore di qualche macchina, o magari un filosofo solitario poco apprezzato dai contemporanei, ma che avrebbe parlato forte e lontano alla posterità. Da una settimana sono in possesso dei miei pesos fiammanti, e già mi danno battaglia per non sapere che buon uso farne; e mentre nella mia povertà avevo speso la ricchezza avvenire, dandole tante buone opere da compiere per me stesso e per gli altri, ora guardando intorno non vedo gli altri; scendendo in me stesso, quasi non mi ritrovo. Il mio sogno, ve lo ricordate? era di arricchire più presto, e anche meglio, cioè con un po’ di soddisfazione, intanto che tu, Desiderio mio, combattevi ancora per l’arte ed eri giovane e povero, per poter, io solo, dare un po’ di luce e d’aria alla vostra casa. Ma ora molto tempo è passato, e voi non avete più bisogno di nulla. Mi par d’udire la voce mite e buona della tua compagna: “ci sono tanti ammalati unicamente di miseria; ne guarisca più che può.... Non ha detto così, signora Speranza?„ Desiderio non resse oltre; tutto il passato che il Coppa era andato rimescolando, empiendogli il petto di singhiozzi repressi, diè una lunga voce di pianto. “Ma no, non ha detto nulla, non dirà più nulla; essa è là sotto, muta, fredda ma non indifferente... ed ama ancora.„ “Non ha detto così, signora Speranza? Ci ho pensato, sa? Ma mi sono convinto che per cominciare a guarire il prossimo ammalato di miseria non sono ricco abbastanza; a fare l’elemosina, non mi si apre altra via che beneficare un ospedale; quanto a correre in traccia di miserie vere per portarvi io stesso il rimedio, non m’illudo già più, ed ho incominciato appena. Mi sono convinto che siamo tutti quanti un po’ prestigiatori; io trasformo l’acqua in vino, quando il pubblico mi guarda; ma a quattr’occhi ho trovato dei compari più forti di me, compari sanissimi, i quali mi hanno fatto credere d’essere paralitici, zoppi, pieni di malanni e di appetito, mentre non era vero nulla, vivevano di rendita, erano capaci di digerire i miei bussolotti. Non ho rinunziato a fare un po’ di bene, ma mi scoraggiano le prove fatte fin qui. Una sola mi rallegra, se anche non mi contenta. Talvolta, dopo aver desinato all’aperto, adocchio un miserabile che va in giro fra i tavolini, cacciato inutilmente dai camerieri, per raccogliere croste di pane e mozziconi di zigaro che egli raduna in una tascaccia; chiedo al mio vicino una moneta per fare un giuoco, la moneta mi vien data, sparisce, la si trova poi nella tascaccia fra i mozziconi di zigaro e le croste di pane. Qualche volta veggo splendere una gioia ingenua sulla faccia dell’accattone: _grazie_, mi dice, e se ne va allegramente; ma non sempre è così; ieri soltanto ne ho trovato uno così ladro e così sciocco che sostenne a faccia tosta d’aver avuto quella moneta da un signore, e giurava su Dio, sulla Madonna, sui Santi, sulla salute eterna dei suoi morti, perchè aveva paura di dover restituire la moneta. Oggi dunque, sono ricco, ma questa ricchezza che ho tanto desiderato non mi contenta ancora; non mi contenterà mai più, essendo sceso nella mia coscienza a vedere da vicino che il mio desiderio aveva preso un nome falso; si doveva invece chiamare la _felicità_. E vedo che anche la ricchezza come l’ho desiderata io doveva venirmi dalla mia volontà e dalla mia intelligenza; ma per arricchire a questo modo, come arricchirono tanti, bisognava scegliere una via sola, e avviarsi per quella senza arrestarsi mai, contento di sapermi ogni giorno più vicino alla meta. Non perciò sarei stato felice, perchè la meta era troppo lontana dal desiderio mio. Rallegratevi, amici cari, che almeno voi siete stati più savi. Tronco il piagnisteo con una nota allegra; non sono io che rido, è la sorte beffarda. Vi ricordate della eredità avuta dalla zia dell’ospizio? Quella calza incominciata dalla buona donna, è sempre rimasta intatta. Viaggiò in fondo alle mie valigie e molte volte la guardai per farmi cuore, pensando che era press’a poco tutto quanto il capitale che il mondo mi aveva dato per sfidare la vita. L’altro giorno mi cadde sott’occhio e non mi parlò con parole amare e forti; mi suggerì invece di servirmi del gomitolo, nella rappresentazione d’addio facendovi trovare un biglietto da cinquanta pesos che vi avrei fatto entrare prima per regalarlo poi ai poveri italiani di Buenos Ayres. I miei giochi me li preparo da me e la cosa fu lunga. Non sospettereste mai che cosa trovassi in capo al filo? Un biglietto di cinquecento fiorini austriaci che la povera zia aveva sottratto all’avidità dei suoi fratelli per favorire me senza svegliare rancori. La scoperta m’intenerì e mi fece dispetto, pensando che quella somma trovata in un buon momento avrebbe forse mutato interamente la mia condizione. La mia lettera è già lunga, e ancora non ho detto il meglio. Sappiate dunque che io abbandono il teatro, e che me ne torno in Italia, e che non tornerò solo. Ho conosciuto una buona ragazza italiana, povera e ancora onesta; ha diciotto anni, è bella, andava cantando al suono del suo mandolino per le osterie e per i caffè. Molti avventori dicevano che ha una voce meravigliosa, e non è vero; da una settimana non canta più, perchè io me ne sono impadronito. E come? L’ho semplicemente comprata da suo _nonno_; i cinquecento fiorini della calza non bastando al contratto, ne ho aggiunto degli altri in _pesos_. Ed ora Bambina è _nostra_, perchè voi le vorrete bene. Speranza le farà di mamma, e tu sarai un magnifico padre. Io non mi conto, perchè non so quello che farò del rimanente della mia vita, e poi mi conosco tanto da dubitare di un disegno che ora mi sembra bello bello bello. Bambina è in festa; l’idea di tornare a Milano che essa ha lasciato a dodici anni, d’imparare il canto nel Conservatorio e l’organo alla tua scuola, Desiderio mio, e di non dover più trascinare la sua giovinezza per le bettole di Buenos Ayres, le sembra un sogno. Facciamo lunghe passeggiate per la campagna; essa ha la chiacchierina affettuosa d’una vera bimba; mi narra il suo breve passato con tanta ingenuità da intenerirmi. Sono convinto che è rimasta onesta per miracolo, o a dir meglio che la stessa sua ingenuità invece di perderla l’ha salvata. Ma, quando indovino le trame che erano già state messe in opera per corromperla, complice il vecchio _nonno_, l’ira mi manda dal cuore una parola che vorrebbe arrivare fino a Dio.... e forse non arriva. Sì, ho promesso a me stesso di salvare Bambina; a lei ho detto che se non potremo farne una gran cantante, almeno a tempo giusto le... daremo marito. Bambina ha riso e giurato (perchè le hanno imparato a giurare) che non saprebbe che fare d’un marito. Infine mi pare che sia entrato un raggio di sole nell’anima mia; non sono proprio sicuro, ma ringrazio il cielo di avermi dato una buona opera da compiere, un’opera che non mi lascierà sconsolato, se mi aiutate voi pure. Partiremo di qui col _Sud America_ fra dieci giorni, che tanti ce ne vogliono per preparare ogni cosa. Addio, ottimi cuori; a rivederci presto. Il fratello vostro DESIDERIO COPPA. III. La lunga lettera era finita, e ancora Desiderio non sapeva se il contenuto di quelle sedici pagine lo contentasse interamente. Certo la notizia della prossima venuta del suo amico migliore portava una pallida luce in quell’anima addolorata, ma non era come una volta, no, non era come una volta. Rilesse qua e là, a spizzico, qualche periodo senza quasi intendere il senso; pensava, o meglio aspettava che il pensiero neghittoso si formasse a poco a poco, e solo quando si formò tutto, fu contento di dire a sè stesso: “Coppa non poteva sapere quanta era la mia felicità! Ora che l’ho perduta, gli dirò che io stesso non lo sapeva bene.„ Poi il suo pensiero interrogò: “Che faremo di Bambina? Ah! se ci fosse ancora la mia morta, che festa sarebbe per tutti! Essa sì, saprebbe accomodare la nostra vita; quella ragazza deve essere proprio una buona figliuola; non avendo più la mamma, avrà tanto più bisogno di carezze; e Speranza mia era carezzevole tanto! Lungamente si fermò in quest’idea e solo quando il portinaio gli portò la ciotola di latte fresco e la pagnotta della colazione, Desiderio rialzò il capo affrettandosi a cancellare le idee melanconiche col sorriso buono con cui era solito accogliere quel servizio. Il portinaio brontolò: — Ha visto che sorta di lampi, ha sentito che carambola? — Che carambole? che partita? — M’intendo, i tuoni! e che diluvio eh! Ah! sì, Desiderio aveva sentito, visto e anche pianto.... ma non lo disse; ora sorrideva per placare il suo portinaio. — Quella lettera che ho messo sul tavolino?... ah! l’ha letta.... Lei dormiva, e io l’ho lasciato dormire e me ne sono andato....“ma che idea di addormentarsi appena alzato? — Grazie, Peppino; voi siete sempre buono con me, siete accorto e indulgente. Peppino non tentò di meravigliarsi punto di questa sua indulgenza, parve anzi assicurare con un brontolìo che forse era la verità, ma per dimostrare che almeno l’accortezza era verità accertata e sacrosanta, domandò: — O che quel letterone di America ci ha dentro del buono? Io ho visto subito che veniva da lontano.... se i francobolli non le servono, me li può dare, che io ci ho la mia ragazza che ne va matta.... — Pigliate la busta, Peppino.... Peppino eseguì, senza dir _grazie_. Questa parola bassa non gli usciva mai di bocca, avendo capito che se il decoro della sua posizione umile poteva essere mantenuto di fronte alla superbiaccia degli inquilini il sistema ottimo era di parlare con voce brusca ed impaziente, malmenandone qualcuno ogni tanto. Ma era anche verissimo che Peppino aveva il verso buono e che chi lo sapeva prendere per quello con la debita prudenza, poteva maneggiarlo senza pericolo. Con i “coniugi dell’organo,„ che così venivano chiamati Desiderio e la sua compagna, Peppino si era oramai quasi mansuefatto, al punto che da quando la vecchia aveva lasciato il quartierino al quarto piano per andare “più basso che a terreno„, secondo la sua espressione pittoresca, egli si era offerto subito di salire due volte il giorno i novantasei gradini per fare i piccoli servigi di casa al vedovo sconsolato, per pochissimo salario. Non ci guadagnava nemmeno le suole delle scarpe, ma al mondo ci si è per qualche cosa, anche per far un po’ di bene al prossimo; che se Peppino per andare su e giù tutto quanto il giorno, adoperava solo le scarpe acciabattate dei vari inquilini, in un paio solo di quante gli eran state regalate non gli era riuscito d’infilare il piede, ed era appunto in quelle di Desiderio. — Che sorta di piede ha lei? gli aveva detto riportandole al donatore per confonderlo; lei ha dei fusi invece di piedi. Le sue scarpe non mi vanno, _grazie tante._ Ma Peppino fu giusto; riconobbe prontamente che il vecchio Desiderio non aveva se non i piedi che il Signore gli aveva attaccato alle gambe, tenne a buon conto le scarpe per farne un’elemosina, e continuò inalterabile a fare i novantasei gradini due volte il giorno.... per tre lire di salario. — Il latte è fresco; la pagnotta è calda calda; se la mangi subito — ordinò Peppino. Nel cervello di Desiderio si era affacciata un’idea, e pregò Peppino di fargli vedere ancora la busta della lettera di Buenos Ayres. — È in ritardo, disse dopo aver esaminato lungamente e fatto il suo conto; ha impiegato più di 50 giorni; il mare sarà stato burrascoso. Restituì la busta al portinaio e cominciò ad immollare la pagnotta nel latte riducendola in bocconcini; pensava ancora, e nel punto di sorbire la prima cucchiaiata, fece stupire l’attonito Peppino, dicendo bruscamente: — Ma se il _Sud America_ ha fatto meglio la traversata, essi dovrebbero essere arrivati; forse a quest’ora sono qui. Il portinaio si voltò istintivamente verso l’uscio, poi insistè con la solita indulgenza: — E se sono qui, li vedrà; ma intanto lei metta in corpo quella poca grazia di Dio; io me ne vado. Se ne andò infatti dopo essersi accertato che i suoi ordini cominciavano ad essere eseguiti. Desiderio, continuando a trangugiare la zuppa di latte caldo, pensava melanconicamente al prossimo incontro col Coppa; gli pareva che, avvisato da una lettera o magari da un telegramma — perchè l’amico suo era sempre stato spendereccio e tanto più doveva essere ora che sentiva il bisogno di alleggerirsi dei suoi pesos — gli pareva dunque che, avvisato da un telegramma, egli andrebbe alla stazione centrale ad aspettare il Coppa e la sua piccola compagna: “Dov’è Speranza? Come sta Speranza?„ e allora invece di rispondere Desiderio si stringerebbe al petto il testone rossigno e piangerebbero insieme. I bocconi della zuppa di latte non passavano facilmente, perchè questa immagine li tratteneva, ma infine passarono tutti, e quando l’organista solitario depose il cucchiarino nella chicchera si asciugò i pochi peli bianchi che aveva lasciato crescere sul mento e sulla faccia. Li aveva lasciati crescere per negligenza. “Tanto, diceva allo specchio se gli accadeva d’incontrarvi per caso la propria faccia melanconica, tanto a che serve radersi ora?„ In quel mentre tornò Peppino trafelato. — Sono ancora qui, era già giunto all’ultima scala quando lui mi ha detto: “L’organista è in casa?„ E in casa, ho detto, gli ho portato appena la scodella di latte fresco. — E lui ha detto: _fammi_ il piacere — già, ha un certo modo di parlare quel suo amico, dà del _tu_ grosso un braccio — _fammi_ il piacere di tornar di sopra ad avvertirlo che viene su una visita. Non mi sarei mosso, come è vero Dio, ma quel suo amico ha un certo modo di parlare, di guardare la gente.... (Poteva ben dire tutta la verità, tanto che male vi era?...) e di fare il solletico nella palma della mano. Rideva l’allegro Peppino; ma vedendo che l’organista era diventato pallido e non trovava parole guardando verso l’uscio, si affrettò a soggiungere con gravità: — Ora egli viene su a poco a poco per non perdere il fiato, come ho fatto io; la sua ragazza lo accompagna... è una bella tosa... per quello che ho potuto vedere... Eccoli! Desiderio si era sentito mancare le forze a queste parole del portinaio e stentava a reggersi in piedi; quando Peppino disse: _eccoli_! il vecchio non si mosse, come da un poco andava pensando di fare per correre incontro all’amico sul pianerottolo, ma per istinto cercò un appoggio, e trovò la tastiera dell’armonio. Era rimasto un filo d’aria nei mantici che, sprigionandosi, sembrò mandare un sospiro. — Desiderio! gridò la voce nota del Coppa; Desiderio, sono qui. Il Coppa, impetuoso come era sempre stato, non badò neppure allo stato dell’amico; gli fu addosso, lo prese per le braccia e lo baciò ripetutamente sulle guancie. Desiderio, vinto dalla tenerezza, non parlava ancora. Peppino, rimasto sull’uscio, continuava a dire a qualcuno di venire pure innanzi. — Che hai? disse poi il Coppa; non ti senti bene? — Mi sento benissimo, rispose il vecchio sorridendo; solamente sono un po’ più vecchio di te, lo sai bene, e non ho mai avuto la tua forza. Mi sento debole, mi sento debole tanto da poco tempo in qua... Il Coppa guardò con occhio indagatore la faccia sparuta dell’amico, e assicurò: — Ti darò io un po’ di forza; ma poi aggiunse: se ancora me n’è rimasta... chè ora comincio a dubitare d’essere stato mai forte. Bambina! Vieni innanzi; ecco qui il mio migliore amico; è un amico d’infanzia; abbiamo dormito in due letti accanto all’ospizio degli orfani; abbiamo detto la preghiera insieme tutte le mattine e tutte le sere; è anche un bravo organista e ti insegnerà a sonare.... Si chiama anche lui Desiderio... Desiderio Diodato. Ma dove è andata Speranza? A questa domanda, Desiderio ruppe in un singhiozzo e curvò la lunga persona per nascondere la faccia sull’omero del Coppa. Peppino, rimasto sull’uscio a guardare la scenetta, se ne andò in silenzio. IV. — Senti, disse il Coppa melanconicamente; ora hai pianto abbastanza; guardiamo insieme l’avvenire, perchè forse ancora ce ne rimane uno: a te almeno sicuramente. A queste parole Desiderio, rialzando la faccia lagrimosa, balbettava: _l’avvenire?_ — Sì, l’avvenire! Tu puoi ancora essere felice, e pregare il tuo Dio che ti conceda un lungo tempo per la nuova felicità. Bambina è savia, e tu sei amorevole. Fa tu il padre di questa poveretta, e la tua morta sarà contenta. Sentila! Dalla vicina stanza giungeva il riso allegro di Bambina, la quale preparava la colazione, aiutata da una fantesca novizia. Diceva con la sua vocetta buona: “fra tutte e due non ne sappiamo molto.„ La fantesca muggì che essa credeva di saperne abbastanza, purchè la si lasciasse fare; e Bambina rise forte fino a far ridere la stessa Togna, la quale assicurò poi che la signorina aveva buon tempo. I due Desiderii stettero un po’ ad ascoltare, finchè la risata si spense nell’implacabile mugolìo di Togna. Allora il Coppa interrogò per la centesima volta in due giorni: — Non è vero che è un fiore? — Sì, è un fiore, confermò Desiderio, ma la paura mia è che siamo troppo vecchi per essa! A questa frase che era stata accolta male già una volta, la faccia del Coppa si trasformò come per dolore, e la mano inquieta cercò una risposta nella fitta capigliatura rossa ancora, ma già velata dalla polvere del tempo. Non la trovando, tacque. Desiderio, tenendo gli occhi fissi nella sua idea melanconica, insistè: — Mi pare che essa dovrebbe aver bisogno di vedere delle faccie giovani e liete.... invece che cosa le possiamo offrire noi? E mi viene anche in mente che un giorno possa essere ripresa dalla nostalgia di vivere all’aperto, di cantare davanti alla folla col suo mandolino.... Il Coppa taceva sempre. — Ora la novità le dà un po’ di svago, ma chi sa in seguito? Potremo noi essere tutto quello che questa povera Bambina ha diritto di trovare nella vita?... — Ah! taci, taci, taci. Questa parola ripetuta, senza ombra di collera, ma con voce bassa, in cui si sentiva tremare la corda del pianto, tolse interamente Desiderio dal suo pensiero, costringendolo a levare gli occhi dall’ammattonato per fissarli in un nuovo dolore, che gli si apriva allora. E con l’anima pietosa interrogò l’anima inquieta del suo vecchio amico. Il Coppa tacque e Desiderio non indovinò quel silenzio. — Che cosa hai? chiese poi con un filo di voce. — Non ho nulla, rispose il Coppa allegramente. Ho che mi hanno sempre detto il Matto, e che a forza di sentirmelo dire, lo sono diventato un poco; ecco quello che ho... Non ho proprio nulla... cioè no, ho la certezza che l’uomo non invecchia mai perchè è fatto d’un’anima immortale; non è forse vero? So che la volontà è debole, ma diventa una forza se la fantasia prepotente l’aiuta, e che quando mi hanno dato battaglia tutte e due insieme, vi ho sempre lasciato un brandello di carne viva. Da un poco questa battaglia è ricominciata più crudele che mai. Queste ultime parole furono mormorate appena, e Desiderio non le intese. — Che cosa vai dicendo? Il Coppa tacque un momento ancora; poi rialzò la testa, disse una sola parola, ma così dolcemente che era una carezza: sentila! Desiderio cominciò a credere d’aver inteso tutto. Stettero tutti e due in ascolto, con gli occhi fissi sulla porta socchiusa della stanza attigua, da cui passava la risata squillante di Bambina. Poi Desiderio volle leggere in silenzio nell’animo dell’amico suo; e il Coppa con un gesto soltanto credette di aprirgli il proprio cuore come un libro. — Capisco; mormorò Desiderio, non intendendo ancora gran cosa. Bambina, irrompendo dalla cucina, venne ad annunziare che la colazione era pronta. Capì subito che aveva interrotto un discorso, e stette un momentino a decidere se dovesse tornarsene in cucina alla muta, oppure mettere la testina bruna a tiro di babbo Coppa, il quale per solito l’attirava al suo petto e le cacciava una mano nei capelli ricciuti. Ma in quel momento Desiderio le prese prima una mano, poi l’altra, e guardandola negli occhioni lucenti: “Lascia che ti guardi„ le disse. Dopo un esame lungo che Bambina sopportò con calma, soggiunse: — Sei proprio bella, lo sai? — Me lo dicevano tutti... — Ma tu bada a non invanire per questo... — Che cosa devo fare? interrogò ingenuamente. Desiderio ci pensò, e non trovando una valida difesa contro il sentimento della vanità che gli faceva paura, rispose crollando il capo che forse non ci era nulla a fare. — Questa tua bellezza io l’ho conosciuta, proseguì, e le parole sue erano tremanti; è la bellezza buona, è la bellezza che fa pensare, è la bellezza che sa amare, che accende, ma tien sempre caldo il cuore e non vi lascia mai una parte addolorata. Questa è la tua missione, Bambina. — Per Bacco! deve essere difficile? Non è vero, babbo? — Sì, è difficile, confermò il Coppa pensosamente; vi è della gente che si accende da sè alla vista d’un visino... come il tuo; poi soffre senza dirlo; oppure dice a se stesso tante volte: matto, matto, matto! e nondimeno soffre sempre. Che cosa può mai la bellezza buona perchè nel cuore di questa gente non rimanga una parte addolorata? — Nulla, rispose Bambina ridendo. — Nulla... è quel che dico anch’io, proseguì con accento ilare. Hai ragione tu, Bambina; questa missione è difficile; ma io voglio sperare che non sia proprio la tua; ora andiamo a tavola. Fecero colazione nella camera di Desiderio; la mensa era imbandita a piè del lettone matrimoniale, dove erano scesi per cinquanta anni tanti sogni belli, tanti sogni cari... cari anche quando portavano gli sgomenti inevitabili in un amore che campa di poco. Coppa dal suo posto vedeva innanzi a sè i due guanciali, ogni volta che alzava il capo dal piatto; l’amico suo avendo voluto voltare le spalle alle memorie, se ne sentiva afferrato ogni tanto; e allora interrompeva la chiacchierina gentile di Bambina con un sospiro. Che volevano dire gli sguardi fuggitivi che il Coppa gettava come lampi sopra Bambina e sopra di lui? Desiderio credeva d’aver inteso qualche cosa della confessione, ma ora a quegli sguardi era ben sicuro che l’amico credeva di avere detto tutto da essere perfettamente inteso; e questo lo metteva a disagio. Guardava quella faccetta tonda, fresca, quella bocca ridente d’un sorriso buono, che metteva in mostra una dentatura smagliante, scavando due fossette nelle guancie; quegli occhi profondi e neri come i capelli che scendevano inanellati fino sull’omero. E quella vista guastava il primo fantasma che, dalla confessione dell’amico, era entrato nel suo cervello; perchè il Coppa aveva il pelo rosso, gli occhi bigi, a fior di testa, impazienti. Pensava: “se Bambina fosse nata di lui, che bisogno ci sarebbe stato di venirmi a contare la frottola del mandolino e del nonno?„ A un tratto, come seguiva sempre a quell’anima monca dacchè sua moglie se n’era andata al camposanto, a un tratto l’idea vagante si arrestò e mandò una luce così viva e così crudele, che gli si empirono gli occhi di lagrime. — Povero Desiderio! mormorò, allungando la mano verso il Coppa; ora ho inteso. — Che cosa ha inteso? domandò Bambina, arrestando un boccone a mezza via. — Curiosaccia! disse il Coppa celiando. — Sì, che cosa ha inteso, me lo dica... insistè Bambina. Lei lo sa? — Sì, ma tu non lo saprai... volle promettere il Coppa; si pentì e soggiunse: Spero almeno.... si pentì ancora e disse: Ma chi sa?.... forse. E allora non fiatò più per un poco. Bambina insisteva col riso tentatore fissando gli occhioni in faccia al _babbo_, che cercò uno scampo così: — Gli affari si trattano meglio a tavola; ora è il momento di conchiudere il più importante. Dunque, Desiderio mio, vediamo: questa casa ti è cara, e si capisce, ma bisogna rinunziarvi per la nostra figliuola, la quale non può proseguire la vita che fa da quattro giorni; non può dormire nel tuo studiolo, sopra un materasso buttato su sei sedie... — Le sedie sono otto, corresse Bambina, e ci si sta tanto bene! — Le avrei ceduto il mio letto, e non ha voluto; ha detto che aveva paura di perdersi in un letto così grande... ma tu piuttosto non puoi continuare a dormire all’albergo... Ci ho pensato, sai? — A che cosa hai pensato? — Che si potrebbe comprare due letti, uno per Bambina e uno per te; tu dormiresti come una volta accanto a me. — Ma tu dimentichi che ora siamo ricchi, uscì a dire con accento nervoso il Coppa, che ora possiamo avere ciascuno la nostra camera per empirla di sogni e di smanie... I novantasei gradini della tua scala li ho contati; sono troppi per... Bambina; per me sono meno di nulla, anzi... ma per Bambina sono gravi... non dire di no, che so io quel che mi dico. Ho già il fatto nostro; sette stanze allegre, piene di sole, al secondo piano, con la vista verso un giardino... è già contratto fatto, e quando ti dirò di venirci a stare, tu non mi dirai di no. Tacque per aspettare una risposta, ma Desiderio non la diede subito, e mandava in giro un’occhiata pietosa alle pareti coperte d’una carta cenerognola tempestata di fiorellini rossi, ma non si sentiva male all’idea dell’abbandono, quanto avrebbe potuto immaginare, perchè era entrato nell’anima sua uno sgomento nuovo, che vinceva ogni altro al paragone. — Farò tutto quello che vorrai, rispose, povero Desiderio mio! — Oh! non mi stare a compiangere ancora; la partita è appena incominciata; posso guadagnare. — Che partita? domandò Bambina. — Dunque è inteso; vedi bene che tutto sta a scegliere il buon momento, e si vince sempre... ora la verità è questa, che le sette stanze non ci sono ancora, ma ci saranno prima di sera. Scarrozzeremo per Milano, Bambina e noi due, fino a tanto che abbiamo trovato il fatto nostro... Non guardare i garofani della parete; ne metteremo anche nella tua camera; ti parrà ancora di essere qui dove hai vissuto tanto tempo. E la tua Speranza, soggiunse sommessamente, ti verrà a trovare... Queste parole del Coppa chiamarono un sorriso sulle labbra scolorite di Desiderio. — Ella è sempre accanto a me; non mi abbandona mai. Intanto che Bambina sparecchiava, continuava a vagare nel cervello del vecchio organista un pensiero inquieto, e appena la ragazza fu andata nella sua cameretta per vestirsi, Desiderio interruppe: — Dunque? — Dunque l’amo, dunque soffro perchè l’amo come un pazzo; ma essa non sa nulla, e non saprà mai nulla, rispose il Coppa con accento tranquillo. — E da quando? — Da un mese forse; eravamo a bordo del _Sud-America_ quando feci la strana scoperta che la mia pazzia era cominciata. Viaggiava con noi un giovinotto, un commesso viaggiatore di una gran casa di prodotti chimici; egli adocchiava Bambina da un pezzo; una sera che il mare era tempestoso, e la piccina ed io soffrivamo entrambi, egli mi chiese timidamente licenza di offrirle un suo rimedio contro il mal di mare; e fu allora che vidi chiaro nell’anima mia, lo vidi dallo sforzo che feci per ringraziarlo, invece di percuoterlo. Ottenuto il permesso, egli si accostò a Bambina, che era al parapetto, ed io mi rizzai in piedi e gli venni accanto. A me il mal di mare era passato. “Prova, dissi a Bambina, prova, ti farà bene.„ E speravo, speravo proprio che il rimedio di quel giovinotto non avesse nessuna efficacia; e mi afflissi che invece Bambina se ne trovasse ristorata per un poco, e quando il mal di mare fu più forte della medicina mi sentii consolato, come se avessi ottenuto un trionfo. Cessò la burrasca nell’oceano, nel mio cuore, no; e fino a tanto che a Gibilterra non vidi scendere quel commesso viaggiatore della disgrazia, io non ritrovai più me stesso. — E che pensava Bambina? — Non si era accorta di nulla. — Bravo! — Perchè dici bravo?... La vigilia della fermata a Gibilterra quell’innamorato timido, che da un poco andava cercando di attaccar discorso con me per giungere meglio alla piccina, mi si mise al fianco e mi disse che il giorno dopo mi avrebbe lasciato per _fare_ la Spagna. Egli non potè penetrare la soddisfazione mia nel dirgli: “Oh!... me ne dispiace tanto! E _fare_ la Spagna, gli dissi, non sarà una cosa spiccia.„ — “Più spiccia che non crede; il mio prodotto si vende solo nelle piazze principali, e da pochi consumatori in grande.„ E mi assicurò che bastandogli un mese, dopo se ne ritornerebbe in Italia a Milano. — “Lei pure va in Italia? E ci si fermerà? E andrà a Milano?„ Risposi la verità, ma circondandola di tanti _forse_, di tanti _se_, che il povero innamorato deve aver inteso che io non gli volevo dar animo d’aprirsi meglio, come voleva fare. — “Mi chiamo Piero Corruccini, mi confessò timidamente, se posso esserle utile in qualche cosa in Spagna...„ Gli dissi gentilmente che non poteva essermi utile in nulla nè in Spagna, nè altrove. “Il mio nome è Desiderio Coppa„ conchiusi. — Non avendo potuto arrivare fino a Bambina per la mia porta, egli quella sera medesima volle tentare l’usciolino segreto, di mettere in mano di Bambina una dichiarazione scritta. Ma egli non aveva la pratica di far _passare_ nè biglietti nè altro; io lo prevenni, e quando egli per disperazione volle cacciare il biglietto in un guanto abbandonato della mia ragazza io m’impadronii del guanto, e nel consegnarlo a Bambina ne levai il contenuto. E mi venne anche il ticchio di fare una celia crudele, svolgendo la carta sotto gli occhi di Piero Corruccini, dicendo; “Stiamo a vedere che cosa si era cacciato nel tuo guanto; leggi.„ E Bambina lesse ridendo la lista del desinare ultimo. “Non serve più a nulla, feci notare all’innamorato, ora il desinare è digerito.„ Piero Corruccini mi guardò fieramente, io guardai lui; ma mentre mi sembrava di essermi vendicato, un’idea mi pigliò, e nel momento di dire _addio_ al commesso dei prodotti chimici mi venne detto invece _a rivederci_, e gli dissi dove mi avrebbe potuto rivedere, cioè in Milano, scrivesse al mio recapito fermo in posta. Se ne andò in estasi. — Bravissimo! mormorò Desiderio. — Tu dici _bravissimo_, come io direi ad altri, come inutilmente ho detto tante volte a me stesso. Dicevo _bravo_ quando mi sentivo la forza di rinunciare a questo sentimento che del mio vecchio cuore ha fatto un trastullo pietoso; non lo dico più ora... Stettero un po’ in silenzio. Parve al vecchio organista che dalla stanza vicina venisse ogni tanto un canto lieto vincendo il pedale basso di Togna. — Era la voce di Bambina. — Oh! poveretta me! diceva quella voce allegra, oh! poveretta me!... — Poveretta te! disse il Coppa, parlando quasi a se stesso, poveretta te, se la mia pazzia non mi lascia; se tu per compassione rinunzi alla tua parte di felicità, che è la gioventù e l’amore, poveretta te! — Oh! poveretta me; continuava a dire Bambina, e ad un tratto irruppe dall’uscio di cucina, e venne innanzi al Coppa: — Guarda, babbo, sono insudiciata molto? Mostrava la faccetta bruna, in cui si vedeva uno sberleffo nero di fuliggine. Il babbo rise molto nel vederla, disse che faceva orrore, che corresse subito in camera a lavarsi col sapone. E appena Bambina fu scomparsa, proseguì coll’accento di prima: — Sì, Desiderio mio, ho fatto perfino questa magnifica pensata, sposarmela; essa ha diciott’anni non compiuti, io ne ho settanta... non compiuti; ma sono ricco; a quella povera ragazza che l’altro giorno ancora sonava il mandolino nelle bettole di Buenos-Ayres, alla mercè di un argentino intraprendente o danaroso, posso dare uno stato splendido in cambio della sua gioventù, della sua bellezza. Essa non direbbe di no; è tanto bambina! Ancora non sa come è fatta la felicità, e posso farle credere che sia fatta così: lei diciott’anni, io settanta. — Il mondo batterebbe le mani come al teatro, quando un giuoco è riuscito. E ora... — E ora? interrogò Desiderio melanconicamente. — Ci ho pensato meglio; perciò te la lascio, e me ne vado... Non per sempre, però; per un poco soltanto; quando la mia pazzia sia passata, verrò anch’io a pigliarmi la mia parte di carezze; e penseremo tutti e due a darle un buon marito, sceglieremo un giovane che le voglia bene, che renda felice lei e noi contenti. Disse queste ultime parole stentatamente; Desiderio cercò in silenzio la mano dell’amico suo, e la tenne a lungo nelle sue, tacendo sempre. Poi Bambina apparve nel vano dell’uscio, e disse con compiacenza al Coppa: — Guardami, _babbo_, sono bella? Era veramente uno splendore. V. La ricerca dell’appartamento fu lunga perchè il Coppa non era mai contento delle stanze che vedeva, perchè Desiderio in cuor suo era sempre scontento di abbandonare le proprie dove aveva amato, dove aveva pianto. Ma infine si trovarono. E furono proprio sette, non contando un corridoio, che doveva servire di anticamera; a terreno, ma piene di sole, come il Coppa le aveva volute, e non solo con la vista d’ampie praterie, perchè Desiderio non si dolesse troppo di perdere la prospettiva dei comignoli, ma con un piccolo giardino dove Bambina potesse coltivare i piselli e le insalatine. La segreta cura del Coppa era stata d’andare in cerca d’una tappezzeria coi fiorellini rossi per la camera del gran letto matrimoniale; furono papaveri invece di garofani di prato, ma il fondo bigio era lo stesso, e l’insieme così ridente che Desiderio se ne dovesse contentare. Veramente se n’era contentato subito, non già che quei papaveri gli ricordassero meglio i garofani che aveva lasciato, ma perchè il povero vedovo, avendo l’animo docile e riconoscente, era incapace di resistere a una dimostrazione d’affetto anche se paresse costargli un sagrificio. E poi la sua morta si era affrettata a venire al capezzale durante il sonno per dirgli che andava bene ogni cosa, che non pensasse tanto a raggiungerla perchè, avendo ancora molto da fare in terra, a vedersi in cielo c’era tutta l’eternità. “Ma tu, Speranza cara, non ti stancherai d’aspettare?„ aveva chiesto lui — e la morta aveva assicurato che la stanchezza è una cosa della terra e di là non se ne intende neanco la parola. Siccome questa risposta non lo contentava, aveva soggiunto: “io non ho perduto nulla; ti sono sempre accanto, ti vedo meglio di prima; tutta l’anima tua ora mi appartiene; pur che tu non mi respinga, io posso leggere ciò che stenti a vedere tu stesso; e non è nemmanco vero che io non ti possa parlare; parlo al tuo pensiero, ti conforto, t’incoraggio, ti contrasto alla muta — solamente mi rimane un dolore, ed è che tu non abbia la coscienza della felicità del mio stato.„ Dunque fin da quel primo sogno era svanito ogni scrupolo di abbandonare la vecchia casa; altri sogni seguirono nei quali la morta approvò la scelta dell’abitazione vicina al Conservatorio; consentì che il Coppa se ne andasse per il mondo un pochino ancora, fino a tanto che non si fosse medicato della sua ultima ferita, e raccomandò ben bene che Desiderio insegnasse l’organo a Bambina, che lui in persona, nessun altri, accompagnasse la fanciulla al Conservatorio nell’andare e nel venire; e infine nulla impediva... (ma questo non fu la morta a dirlo, fu invece il Coppa) nulla impediva... — Che cosa? Che per Desiderio la fanciulla fosse ribattezzata Speranza. — I morti non devono essere gelosi, insinuò il Coppa, — almeno mi pare. — Non sono gelosi, assicurò Desiderio; la chiameremo Speranza. — Io no; per me rimane Bambina. Accomodate le cose in tal guisa, il vecchio Desiderio vide venirsi incontro la felicità un’altra volta; e così lietamente, e così bella e così larga di promesse al suo cuore modesto, che quasi gli pareva soverchiare non le proprie forze, chè egli si sentiva fortissimo più che mai, ma il ragionevole e il lecito ad una povera creatura mortale. E si sentiva perfino scrupolo quando confessava a se stesso che la morte di Speranza non aveva tolto nulla alla sua vita, perchè Bambina era venuta, e la morta era viva ancora. — Ma tu, povero amico mio, ma tu? interrogava spesso. — Io sto bene, rispondeva il Coppa; tu sai che io so soffrire, e so anche vincermi; ci ho la lunga pratica; chi sa, a forza di vincermi, a che eccellenza arriverò? — Ma soffri?... — Altro! ma taccio. Spero che Bambina non abbia penetrato nulla; ogni mattina, quando mi viene dinanzi e si rizza in punta di piedi perchè io le dia un bacio paterno, essa non immagina il supplizio che mi dà. Ma posso soffrire ancora: quando non potrò proprio più, me ne andrò a spasso per il mondo, e tornerò guarito. E in buona coscienza il Coppa, il vecchio Coppa, a cui la vita aveva insegnato tante cose, il Coppa che aveva visto il doppio fondo di molte gherminelle umane, il Coppa si vantava. Povero lui! Si credeva forte perchè sapeva soffrire! Desiderio, il quale lo ammirava senza restrizioni anche in questo, espresse una volta un pensiero che gli era venuto. — Lo so che tu sei forte, disse; e so che te ne compiaci; ma la forza sta nel saper poi soffrire, oppure nel non soffrire? Chi sa? Forse i fortissimi sono gl’indifferenti. — Può essere. Bambina era una scolara disattenta, e dopo poche settimane il vecchio organista potè dire che di quell’allieva non avrebbe mai fatto nulla di buono; essa rideva di tutto, assicurando che la lezione l’aveva imparata benissimo, e per pagarsi della noia che le voleva infliggere il professore con i suoi accordi, staccava dalla parete il vecchio mandolino e strimpellava una canzone d’osteria. Era un dolore per Desiderio, era anche uno strazio per il suo orecchio avvezzo alla maestà dell’organo di Bach, udire quella musicaccia sonata con quello strumento di tortura, ma quando il Coppa e Bambina ridevano, anche lui rideva. Soggiungeva poi senza rancore che l’uomo che aveva inventato il mandolino doveva essere ubbriaco, o forse paralitico, o almeno ammalato di nervi. In ogni modo Bambina per degnazione imparò le scale e gli accordi, e il vecchio organista non disperava ancora che la passione dell’organo non la pigliasse come aveva preso lui, quando la sentiva dire: “ora suona qualcosa tu, che suoni tanto bene; mi fa tanto piacere ascoltare...„ Desiderio sonando Marcello e Bach, con gli occhi fissi al soffitto, sembrava interrogare il cielo, mentre il Coppa seduto in disparte a capo chino, con la faccia nascosta fra le mani, cercava nella faccia di Bambina una ragione seria della propria pazzia. Diceva a se stesso: “ma chi mi assicura che sia proprio una pazzia?„ E veramente sapeva egli dove, nella vita sociale, finisce il senno e comincia la mania? Chi sa? La vera saviezza sta forse nel sapersi sbarazzare la strada per arrivare al proprio contentamento; ed è pazzo soltanto chi, avendo finalmente a tiro di mano la felicità, s’impunta a non allungare il braccio e dire: è mia, me la piglio. Un giorno Bambina sembrava cedere dolcemente alla tentazione di Bach, ma sorrideva ancora ogni tanto guardando ora l’uno, ora l’altro dei due babbi; mentre il vecchio organista con gli occhi sempre fissi nell’ideale era lontano, le idee del Coppa si ordinarono meglio alla battaglia. Finora l’aveva tenuto lo scrupolo d’incatenare la gioventù fiorente al vecchio egoismo, ma se qualcuno gli dimostrasse che sposando i suoi settant’anni ai diciotto di Bambina per darle un nome, uno stato, la ricchezza... e perfino, sì, perfino l’amore forte dei vecchi, perchè solo i vecchi sanno amare... se qualcuno con intelletto pietoso gli facesse questa dimostrazione piena di senno, confortandola con molti esempi ricavati da quello che si è fatto sempre nel mondo, da quello che si fa tutti i giorni, e si farà ancora: se... — Scommettiamo, entrò a dire qualcuno, che se tu facessi a Bambina la proposta di sposarla subito, essa non direbbe di no; si scoterebbe, mentre ora sta per addormentarsi, balzerebbe in piedi e, battendo le mani, griderebbe: sposiamoci subito. — È tanto bambina! rispose il Coppa; non vi sarebbe da stupire! Ma io non vorrei questo, io vorrei... Che cosa? Non lo voleva dire; non lo voleva pensare neanco lui? Egli, se non fosse stata troppa audacia il solo immaginare, avrebbe voluto semplicemente che Bambina, coi suoi diciott’anni, con la sua bellezza, s’innamorasse di lui, della sua persona lunga e magra, del pelo quasi rosso, della sua barba e dei capelli tagliati a spazzola. Ecco che cosa voleva. S’innamorasse scioccamente, da non vederci più, da perdere quella testina vezzosa; e dei molti giovinotti belli, forti ed invaghiti di lei così bella, essa preferisse il vecchio Coppa solo perchè egli le voleva più bene di tutti quanti presi insieme; e un giorno vinta da quello stranissimo amore, confidasse la propria smania a babbo Desiderio, o a lui stesso... il quale... il quale avrebbe aperto le braccia per stringerla al proprio petto, lagrimando per tenerezza come un fanciullone. E allora forse Desiderio stesso, l’amico per la vita e la morte... troverebbe finalmente la parola incoraggiante che ora gli repugnava pronunziare: “Lo vedi bene, gli direbbe, è innamorata di te; sposala e falla felice.„ Il Coppa s’immaginava l’accento di queste parole, gravi come se le dicesse il divino Bach: non ci entrava sicuramente neanco un’ombra d’invidiuzza, neanco il timore che l’avvenire non potesse bastare a dar realtà a una gran speranza; infine il Coppa non era ancora da buttar via, e si sentiva la forza di campare cento anni per amare. Non erano forse di Desiderio quelle parole consolatrici: “La felicità arriva sempre, per chi sa aspettarla.„ — “Io l’ho aspettata settant’anni, disse a se stesso il Coppa: ora è arrivata, è lì a tiro, basta che allunghi un braccio e dica: _è mia_.„ L’organo tacque e Desiderio si volse sorridendo: — Ti credevo addormentato, come Bambina... — Pensavo invece... — A che pensavi? — Pensavo che bisogna vincere, che bisogna strapparmi dal cuore questa malia... Desiderio, rizzandosi innanzi all’amico suo, crollava il capo, ma non diceva nulla, altro che la pietà. — Pensavo che bisogna darle marito... ecco ciò che Bach mi ha detto poc’anzi. — E a me pure Bach ha detto una parola che accomoderà forse ogni cosa, se gli diamo retta. Il Coppa si alzò in piedi di scatto. — Dimmela... — Tu vuoi bene a Bambina (e il vecchio si voltò per assicurarsi che la loro figliuola dormisse veramente), le vuoi molto bene, come le voglio io, ma un po’ più di me; hai bisogno di essere al suo fianco per amarla; non è vero? Il Coppa non fece cenno di sì; aspettava il resto. — Di goderti la sua chiacchierina gentile, le sue carezze, di guardare la sua bellezza buona... non è vero? e tutto questo per egoismo, s’intende; ma anche di proteggerla, di avere diritto in faccia al mondo di vantarla _tua_, di poterle dare il tuo nome... — — Dunque, interruppe il Coppa, dunque sposala; non è questo che mi vuoi dire? Desiderio rimase un po’ sbigottito dalla interruzione e dall’accento tremante con cui era fatta, non rispose subito. L’altro proseguì: — E sei tu, il compagno mio, l’amico mio d’infanzia, proprio tu che mi dai questo consiglio? Ti ringrazio di cuore; tu forse finisci con una parola la lotta che sopporto da molto tempo. Ma io vi penso, vi voglio pensare ancora... Guardala... povera Bambina! — Dorme... povera Bambina! ripetè Desiderio, rinunziando melanconicamente a finire il pensiero che gli era venuto. Dopo un poco di silenzio il Coppa interrogò: — Era questo che mi volevi dire? — Questo... sì... questo; solamente che se sposarla non ti sembrasse la via migliore per dare la felicità a lei ed a te, ci era un’altra via che forse vi avrebbe reso felici entrambi. — Un’altra via? — Sì... adottarla. Bambina si svegliò allora. — Brava figliuola mia, esclamò Desiderio mettendo una nota allegra, ma falsa, nella voce lenta e grave; brava! a te che cosa ha detto Bach? me lo vuoi dire? Il Coppa guardava sottecchi attentamente. — Non mi ha detto nulla! — Bambina! Bambina! minacciò Desiderio. Bambina, dopo aver cercato per la stanza un punto dove mettere lo sguardo securamente, uscì di corsa. — Che è stato? domandò Desiderio al Coppa, e il Coppa rispose trepidante: — Non dormiva, ha inteso ogni nostra parola. E non sapendo ancora se doveva essere molto afflitto, gli parve di sentire una contentezza strana, la vecchia contentezza d’ogni volta che gli era riuscito di fare una corbelleria col fermo proposito di non farla. VI. _Adottala!_ Con questa sola parola Desiderio aveva preparato una battaglia all’anima inquieta dell’amico suo: ma il Coppa, che non lasciava mai andar a male una goccia di fermento sol che potesse dargli un’ora di spasimo, il Coppa non s’era ripetuto ancora il consiglio di Desiderio. Però l’aveva in serbo per essere infelicissimo più tardi. Intanto pensava alla rivelazione uscita di bocca ai due vecchi imprudenti, mentre Bambina doveva dormire. Ma che ci sono più delle bambine che dormano veramente? Una volta, ai loro tempi, forse ce n’era qualcuna, ma oggi le ragazze che hanno in vista il marito sono tutto orecchi anche se hanno l’aria di essere addormentate. Così assicurava il Coppa con un po’ di celia baldanzosa, per chiedere poi in modo dimesso: — Ma perchè è andata via di corsa? lo immagini tu? che significato ci vedi? Desiderio non ci vedeva altro significato se non uno, cioè che Bambina non dormiva ed aveva inteso ogni cosa... — E allora? domandò il Coppa. — E allora, rispose a se stesso, allora aspettiamo. Volendo raccogliere qualche indizio, egli sentiva che la collaborazione dell’amico suo gli era indispensabile, ma non si faceva illusione sul sentimento di Desiderio; dalle parole incerte, dal tono rassegnato con cui le balbettava, e più dai silenzi lunghi comprendeva che il matrimonio non avrebbe contentato l’amico vecchio. Mentre era probabile che Bambina, messa alle strette, avesse a dire sì senza riflettere, era quasi possibile che, avendo riflettuto già un poco, aspettasse con impazienza. Si sa, le Bambine di quell’età non hanno paura di nulla! Vincere la ritrosia di Desiderio! ecco il punto; per ora almeno era l’indispensabile, perchè il Coppa non si indurrebbe mai a guadagnare la battaglia se prima tutti i sofismi che egli stesso aveva armati contro il suo proprio senno, contro il suo proprio sentimento di giustizia, passando nell’anima del vecchio amico, non gli parlassero con l’accento della verità. Rispetto a Bambina, la pratica del mondo e degli uomini gli aveva già detto molte parole consolatrici. — Senti, Desiderio mio, voglio che tu mi dica una parola schietta, voglio che non rimanga all’oscuro neanco un cantuccio della nostra coscienza. Così incominciò il Coppa, a cui Desiderio rispose con poca voce: — Parla, ti sto a sentire. — Ti ho detto, e tu me lo avevi letto nel cuore, che ho commesso uno sproposito, che mi sono innamorato di Bambina; facendo di tutto per resistermi, forse lo spropositaccio si è andato formando meglio; ora è fatto perfettamente. Ho cercato di leggere di nascosto nella tua coscienza, e mi è sembrato di vedere che il negozio più onesto e più leale in faccia al mondo, il negozio in cui la società non vedrebbe ombra di male, ti mette un po’ di paura. Questa povera creaturina tanto bella, tanto dolce ha diritto ad uno sposo molto diverso — hai pensato tu, come ho pensato io — ma dimmi: la felicità di due che si sposano dipende infallibilmente dai loro anni? O piuttosto molti matrimoni non vanno a male, se non perchè i coniugi sono stati legati quando l’uomo non era maturo per dargli una compagna? — Questo è vero, rispose Desiderio; ho visto tante unioni imbarcate allegramente naufragare dopo un anno solo; più raro è il caso quando il marito... La frase aveva una chiusa difficile. — Quando il marito ha settant’anni, disse il Coppa. — Non volevo dir così. So bene che a settant’anni si può essere giovani come a quaranta, quando si ha la fibra sana; — la morte picchia a tutti gli usci senza distinzione; so anche questo — e so un’altra cosa... proseguì Desiderio con un accento baldanzoso insolito in lui. — Che cosa sai? — So che contro un sentimento la discussione è inutile, che bisogna accettare l’amore in ogni età. E quando ci pare buono a darci la felicità, forse la pazzia è di contrastargli troppo. Forse... Il Coppa strinse la mano dell’amico senza dir parola. — Forse, ripetè Desiderio; ma il Coppa non lasciò luogo a pentimenti, assicurando che quello che aveva detto era proprio pieno di senno. Nondimeno resisteva ancora a se stesso. — Infine, che ricerca la ragazza nel matrimonio? un compagno che l’ami, che si occupi di lei, che le dia, se può, un figliuolo o due; a questo patto essa è innamorata, è fedele, è felice. Ti pare che io non possa far tutto questo? — Altro! — Sì, io lo posso, assicurò il Coppa; posso dare ancora la felicità alla mia donna e forse a me stesso. — Sarebbe ora! disse l’amico melanconicamente. — Sì, sarebbe ora; perchè proprio proprio, io non so come sia fatta la felicità; la immagino composta di pace, di amore, di... non so di che altro... forse di lavoro... — È fatta anche di rassegnazione. Ed è così fatta, avrebbe voluto soggiungere Desiderio, che a te, mio povero amico, non piacerà mai; ti passerà rasente e la guarderai in faccia senza riconoscerla. Ottenuto il suo intento da Desiderio, al Coppa rimaneva ancora la bramosia di accertare subito il sentimento di Bambina. Essa era schietta, e interrogata a quattr’occhi avrebbe detto tutta l’anima sua; ma appunto sarebbe stato meglio se egli, potendo gettare lo scandaglio in quel cuore turbato dalla rivelazione, lo rasserenasse poi con una parola quando mai il turbamento fosse ansietà o sconforto, senza metter lei brutalmente alle strette, povera Bambina tanto cara! Gli sembrava un egoismo abusare di quella fragile creatura per darle a sostenere una battaglia intima. Mentre lui si sentiva forte da sfidare il rifiuto, da ridere con lei di se stesso — perchè questo sentimento della propria forza non aveva mai abbandonato il Coppa — s’inteneriva al pensiero di far soffrire una persona cara. Tutto ben considerato, era ancora il meglio affidare a Desiderio il difficile incarico. — Senti, amico mio, parlale tu stesso; leggi tu nel suo cuore, prima di me; a quest’ora essa forse pensa, ed aspetta; va subito, io rimango... Desiderio accondiscese, ma il Coppa non rimase in salotto; se ne andò subito in cucina, dove, mettendo l’occhio alla toppa della porta che metteva nella camera di Bambina, sperava di poter vedere e udire quanto si diceva. Non gli passava nemmeno in mente che quel modo di leggere nell’anima delle persone care fosse basso o maligno o soltanto impertinente; sapeva bene che per una cosa importante non sono mai volgari i mezzi per riuscire. Non aveva forse, in mezzo a un pubblico strepitante d’applausi, non aveva forse fatto apparire una vaschetta piena d’acqua e con i pesci rossi... appendendosela di dietro, sotto le falde della marsina? Desiderio era entrato appena, e, stando ritto nel mezzo della camera, guardava amorevolmente verso Bambina che il Coppa non poteva vedere — taceva ancora, ma sorrideva, cercando le migliori parole per entrare in argomento. Finalmente disse adagino, come se non volesse svegliare gli echi d’un’anima turbata: — Bambina!... vieni a darmi un bacio... vieni a dire al babbo quello che non può restare troppo tempo nell’anima tua, senza farti male. Bambina s’accostò senza dir parola; e Desiderio proseguì: — Qui, sul mio cuore di padre... perchè ora devi aver compreso che, di due babbi, te ne rimane uno solo, e sono io quello... Ma non aver paura d’essere amata meno di prima; sappi che io so come si ama una creaturina buona come sei tu... solamente mi fa paura di conoscermi egoista, perchè io godo, io sono felice, e non dovrei essere tanto contento d’essere rimasto solo. Bambina, appoggiando la testina al petto del vecchio, sollevava verso di lui uno sguardo luminoso. Desiderio le accarezzava la fronte, i capelli, il visino rosato; poi proseguì con l’accento di prima: — Egli non gode, egli non è felice, e soffre... perchè ti vuol bene in un altro modo... ma se tu vuoi... sarà felice. — Come? domandò Bambina abbassando lo sguardo. — Lo hai già capito... _se puoi_... se nulla ti trattiene, nè una promessa, nè un sentimento... e se... egli non ti sembra troppo vecchio. S’interruppe. Bambina ci pensò un poco, tenendo sempre gli occhi fissi sull’ammattonato. — Mi piace com’è; disse lentamente; gli vorrei bene come gliene ho voluto finora... ma... Un lungo silenzio. Meravigliato di sentire una contentezza inesplicabile, Desiderio aspettò che Bambina proseguisse: — Ma _egli_ deve arrivare fra poco, anzi quest’oggi stesso, a quest’ora forse è arrivato... — Chi? — Piero... Piero Corruccini, così si chiama..., è un giovane con cui ho viaggiato per mare, da Buenos Ayres a Barcellona;... mi ha detto che gli piaccio tanto, che vuol sposarmi se io non gli dico di no. — E tu? — Non gli ho detto nulla... Un altro silenzio lungo. — E come sai che egli deve arrivare a Milano oggi? — Me lo disse lui stesso a bordo, me l’ha anche scritto in un pezzo di carta... che mi lasciò in mano nel salutarmi... — In questo tempo hai pensato a lui? La risposta non fu pronta, ma fu leale. — Sì, ho pensato sempre a lui; sapendo che doveva arrivare, che forse è arrivato, ho mandato or ora Togna a buttar nella buca un bigliettino fermo in posta... non gli dico altro che la via e il numero della casa... egli forse verrà. — Verrà di sicuro, affermò Desiderio, baciando la fronte bianca di Bambina — questa piccola ruga non ci dev’essere; mandala via subito. — Gli dica che gli voglio tanto bene, e che se vuole proprio io mi lascio sposare; ma allora deve pensare lui a parlare con Piero... a dirgli... Al pensiero di ciò che il Coppa dovrebbe dire a Piero per mandarlo via, Bambina sentì venire le lagrime, e nascose il viso nel petto del babbo. Il quale, mettendole le mani sulla testa, disse a bassa voce: ho capito! — Che cosa ha capito? domandò Bambina, scostando appena il viso e alzando gli occhi verso Desiderio; non è vero che io sia innamorata di Piero, ma ho tanto pensato a lui... e forse lui non ha pensato a me, e non verrà nemmeno. — Verrà, affermò un’altra volta Desiderio, e allora Bambina mostrò tutta la faccia luminosa. — Ecco Togna, disse la fanciulla sentendo rumore in cucina — ma correndo all’uscio, vide che si era ingannata, perchè Togna arrivava appena allora. Desiderio, andato in salotto a capo chino, non si aspettava di trovarvi il Coppa, e sopratutto di trovarlo tanto di buon umore. — Non hai nulla di consolante, scattò a dire; ti si legge in viso la mia sconfitta — negalo se puoi; ma non potendo consolarmi tu, mi consola la mia filosofia. Ce ne ho anch’io una! non mi serve molto a ragionare prima di commettere le corbellerie, ma mi calza come un guanto quando la corbelleria l’ho commessa. Dimmi un poco: se non fosse di questa filosofia, ti pare che avrei potuto campare settant’anni, ammucchiando spropositi senza mai imbroccarne uno che mi desse la felicità per isbaglio? Desiderio lo guardava con faccia pietosa; avendo preparato la frase con cui doveva incominciare, aspettava che il Coppa gli porgesse occasione di dirla. Aveva congiunto le mani per aver più forza. — Bambina ti vuol tanto bene, dice che se... — Dice che se voglio proprio sposarla, si lascia sposare, ma che in questo caso devo parlare io stesso al signor Piero per fargli intendere che la sua innamorata ha trovato di meglio... Ero in cucina; ho inteso tutto. Desiderio sciolse le mani una dall’altra, e le lasciò penzolare lungo i fianchi. Il gesto significava: tanto meglio. — Il signor Piero verrà domani o doman l’altro; ma stasera io parto. Che ci vuoi fare? la mia filosofia non va fino a preparare le nozze del mio rivale. È già bello avere un rivale alla nostra età — perchè tu l’hai sentito “se io voglio proprio, mi sposa„ ma io non voglio proprio, povera Bambina! Tu accoglierai bene il signor Piero, ti informerai quale stato può offrire alla nostra ragazza, e gli dirai che Bambina ha cinquantamila franchi di dote.... a patto che lo sposo permetta al babbo di finire i propri giorni in casa di sua figlia... E il babbo, resta inteso, sei tu; t’informi da un notaio come va fatta questa cosa, e adotti Bambina. Va bene così? No, non andava bene; si leggeva nel viso di Desiderio, che la cosa, combinata con tanta filosofia, non andava bene. Era troppo bella; bella troppo singolarmente per uno dei due Desiderii. Ma l’altro? Il Coppa intese quasi tutto il significato del silenzi del vecchio amico. — Vi è una cosa che non va bene, non è vero? Dimmela, e vedremo se la possiamo accomodare. Desiderio pensò un poco prima di rispondere, e rispose con una domanda: — Stasera dunque vuoi andar via? e dove vai? e quando ritorni? Il Coppa sorrise e assicurò che dopo sessant’anni non rinnoverebbe la fuga dell’ospizio; solamente andrebbe via perchè, qualche cosa di fanciullone rimanendogli anche a settant’anni, non si sentiva forte da sfidare lo sguardo di Bambina. Tornerebbe poi, quando ogni cosa fosse assestata per il contratto e per pagare la dote. Ecco: Desiderio intendeva benissimo che il Coppa avesse il bisogno d’andarsene subito; certo che se fosse tanto forte, come si era sempre vantato, e tanto filosofo come si vantava ora, rimarrebbe a pigliar per le corna il suo demonio; ma vi è filosofia e filosofia; quella che ha paura forse non è la peggiore; la chiamano prudenza, mentre l’altra più audace non è forse che temerità. Che domani o al più tardi doman l’altro il signor Piero Corruccini si avesse a presentare per chiedere il fatto suo cioè la mano di Bambina, nessuno dei due Desiderii poteva metterlo in dubbio; ma che fosse assolutamente necessario che uno dei due pagasse la dote, e l’altro desse il proprio nome, mentre era così decoroso, così bello, così filosofico per il Coppa che fosse lui solo a far tutto questo, Desiderio, per quanto gli costasse dirlo, non lo poteva intendere. — Sta bene, acconsentì il Coppa, può essere che abbi ragione tu; per ora l’essenziale è d’andarmene. I preparativi della partenza furono cosa spiccia: due valigie a mano, nient’altro; più lungo fu invece scrivere le istruzioni a Desiderio perchè nella sua assenza le cose andassero come se lui non mancasse; più lungo ancora radersi. Questa operazione delicata che il Coppa era solito fare con le proprie mani il sabato, fu fatta questa volta in venerdì. “Il meno che ti possa capitare, assicurò il Coppa parlando a se stesso nello specchietto, è di metterti una virgola sul mento. Bada a te se non vuoi guastare la tua faccia.„ Ma non ci badò abbastanza quando vide Bambina nello specchietto, la quale arrivò proprio a tempo per vedere un orrore... il sangue che guastava mezza la faccia rasa del Coppa, mentre l’altra metà avea tutto il suo pelo della settimana. — Che cosa ti sei fatto, babbo? esclamò Bambina — ti sei fatto male? domandò Desiderio. Il Coppa si voltò ridendo. — Nulla di male. E contento di potersi lavare nel catino, fin che il sangue non colasse più dalla piccola ferita, pensava che il rasoio era stato più intelligente di lui, facendo ciò che egli non avrebbe saputo fare. Ora poteva ridere forte sotto gli occhi di Bambina, la quale gli aveva detto _babbo_ come gli altri giorni e cercava con l’occhio negli angoli della stanza una tela di ragno per medicarlo. Appena il Coppa non perdette più sangue, finì tranquillamente di radersi; si voltava ogni tanto verso Bambina a ridere della paura che le aveva fatto, e quando la faccia sua fu rasa, la sua determinazione pure fu mutata. — Non me ne vado più, disse a Desiderio. — Volevi andar via? domandò Bambina, tentando leggere sul viso sbarbato. — Avrei dovuto partire per una faccenda; sarei stato assente pochi giorni; ma ho pensato che alle altre faccende vi è sempre tempo, mentre per fare la felicità d’una Bambina cara, che sei tu, proprio tu, il tempo buono è questo; perciò rimango. — Oh! in buon ora! esclamò Desiderio, ecco una parola che mi piace! Questa è la filosofia. — Che cosa è la filosofia? domandò Bambina. — Pare che sia una cosa così: farsi una virgola sulla faccia col rasoio e rimanere quando si ha fermamente deciso di partire. All’opera del rasoio miracoloso mancava ancora che il Coppa si pigliasse fra le mani la faccetta tonda di Bambina e se la baciasse in faccia a Desiderio, come aveva fatto ogni giorno — ma a questo il vecchio Coppa non si sapeva indurre, perchè anche Bambina non veniva a mettere a tiro la testina tentatrice. VII. A quattr’occhi il Coppa diede a Desiderio spiegazioni larghissime, anche più larghe del necessario, del suo repentino mutamento; voleva, come aveva già espresso, trovarsi accanto a Bambina quando Piero Corruccini venisse a prendersela; voleva assestare il contratto di nozze, voleva scrivere a Buenos Ayres, con la speranza che Domenico Lauri, il vecchio _nonno_ di Bambina, vi fosse ancora e gli potesse dire qualche cosa dei genitori, e consentire all’adozione della ragazza. Tante altre cose voleva che Desiderio intese a volo, approvando tutto. Il rimanente di quel giorno il Coppa fu sereno, così sereno che, venuta l’ora d’andare a letto, notando che Bambina dava la buona notte a Desiderio senza porgergli la fronte perchè egli v’imprimesse il solito bacio, la prese per mano e la tenne prigioniera dinanzi a sè. E le disse: “dunque la nostra figliuola non ci vuol più bene; e che le abbiamo fatto? Nulla? e allora non ci è bisogno di rinunciare al bacio che ogni sera mi hai dato prima d’andare a letto; dammelo oggi pure, se vuoi che i bei sogni scendano sul tuo capezzale.„ Bambina si fece rossa, diede il bacio voluto e rise forte; poi tornò davanti a Desiderio. — A lei non l’ho dato; sono proprio una distratta... lo vuole? Altro che volerlo! Anzi Desiderio, appena la ragazza se ne fu andato in camera sua, si accostò al Coppa e se lo strinse al petto. — Sono proprio contento, disse poi sottovoce. La mattina successiva il Coppa si mostrò un po’ nervoso, soltanto fino all’ora del pasto. Egli aveva creduto possibile, e l’aveva detto a Desiderio, che il signor Piero, appena avuta la lettera di Bambina, ne avesse subito scritta un’altra a lui per annunziargli che dopo il mezzodì sarebbe venuto a fargli visita; ma non avendo la posta del mattino portato nulla di nulla, egli poteva correggere i suoi calcoli così: “Corruccini non ha scritto, e non scriverà; verrà in persona verso l’una.„ E anche questa predizione volle affidare a Desiderio, il quale non vi trovando nulla di improbabile, aggiunse: — Bambina deve aver pensato la stessa cosa, perchè mi sembra inquieta; ha cominciato tre volte: _Una voce poco fa_... ed ha troncato subito. Sicuramente essa pure aspetta il signor Piero dopo il mezzodì. Ma il signor Piero all’ora della cena non era ancor venuto. Tutto il pomeriggio il Coppa lo aveva aspettato inutilmente; era andato su e giù un gran pezzo per il salotto, poi, sentendo venire un po’ di pazienza, si era accomodato in una poltrona a sdraio, e la pazienza essendogli cresciuta, si era perfino fatto bello dinanzi allo specchio, così, per fare qualche cosa. Il vecchio Desiderio — quello sì era vecchio! — il vecchio Desiderio aveva passato il suo tempo interrogando alla muta ora l’amico, suo, ora Bambina, la quale per verità non gli pareva afflittissima come avrebbe pensato. Senza rammaricarsi troppo, che sarebbe stato un ipocrita, e nemmeno compiacersi, dimostrandosi un fatuo ed un egoista, il Coppa a cena non fiatò di Fiero come se si chiamasse Paolo, come se non avesse lui le chiavi del cuore di Bambina. Lo aspettò in buona coscienza fino alle nove, alimentando lui solo la conversazione con molte peripezie della sua vita, scegliendo però bene, per non danneggiarsi troppo agli occhi dei suoi ascoltatori; e infine, prima che la ragazza scendesse nella sua camera, le disse a fior di labbro: _verrà domani_. Bambina rise forte e se n’andò canticchiando: _Una voce poco fa, Qui, nel cor, mi risonò_... Ma anche il domani, il signor Piero non si lasciò vedere, e nemmeno il giorno dipoi, nè l’altro. I vecchi Desiderii erano tutti e due d’accordo nel dire che era una cosa strana, perchè i viaggiatori di commercio, per abito di professione, sono puntuali alle poste date, non si dimenticano mai di visitare la casa d’un cliente buono il giorno stabilito, fosse anche alla distanza d’una stagione intera, fosse anche alla distanza di tutto un anno; e tanto più poi quando hanno un incendio acceso in qualche parte del corpo. E il Coppa, facendosi la barba tutti i giorni dacchè aveva corso rischio di farsi una guancia per aver lasciato crescere troppo il pelo rossigno, finì con l’enunziare una sua sentenza: “i giovani d’oggi sono di poco peso; vuoi scommettere qualche cosa che il signor Piero ha piantato la _nostra_ Bambina per un’andalusa; pianterà più tardi l’andalusa per una parigina.„ Desiderio, senza arrivare fino a questo punto, non scommetteva nulla. — Io invece, ci sono arrivato subito. E scommetteva volontieri, perchè conosceva il mondo, povero Coppa! Lo sgomento dei due Desiderii fu che la ragazza non ridesse abbastanza, perchè il pensiero del viaggiatore tardivo le occupasse il cuore, o che canterellasse troppo, per stordirsi e non pensarci. Ma Bambina non tenne lungamente in angustie i vecchi, che le volevano tanto bene, e appena si fu accorta della loro inquietudine li rasserenò con poche parole: “se viene bene; se non viene...„ — Se non viene? insistè Desiderio. — Se non viene, meglio. E sembrava quasi sincera. Il Coppa non fiatò, ma sentì martellare qualche cosa dentro, un desiderio forse, o una speranza. Lungamente i due vecchi aspettarono Corruccini, quando Bambina non ci pensava più. Sapendo che la ragazza aveva scritto una lettera per dare il recapito al pretendente, il Coppa andò a sincerare la cosa alla posta, e trovò la lettera che aspettava Piero da quindici giorni. L’impiegato gli domandò se fosse lui veramente Piero Corruccini, ed il Coppa confessò che egli non era quello, ma che era stato lui a scrivere, e voleva sapere quanto tempo ancora la lettera aspetterebbe il destinatario. L’impiegato postale ebbe la bontà di fare il conto sulle dita, e dirgli che quel giorno medesimo doveva mettere la lettera nelle caselle delle arretrate.... Allora il Coppa, avvedendosi che aveva da fare con un impiegato umano; (chè qualche volta accade anche questo), pregò che la lettera rimanesse ancora qualche giorno nella casella solita. — Fin che qui sono io, lo prometto; ma quando viene un altro distributore, farà quello che dice il regolamento... però se lei mi dice di dove viene la lettera... io posso consegnargliela, e lei la imbucherà un’altra volta mettendo un nuovo francobollo, così rimarrà altri quindici giorni nella casella. — La lettera è scritta da Milano, dà un recapito; niente altro; se vuole la imbuco alla sua presenza... lì c’è una buca, che sembra fatta a posta. — È fatta a posta... ma si vede bene che lei è una persona come si deve... concluse il distributore consegnando la lettera. — Grazie mille; la prego di stare attento che ora la imbuco... — S’immagini, disse l’altro, e il Coppa insistè, mentre appiccicava un francobollo nuovo: No, mi faccia il piacere di guardare... Il distributore guardò sorridendo per contentare il buon vecchio, il quale dopo aver imbucato la lettera si rivolse a salutare l’amabile distributore dicendo: è passata. Invece no, non era passata. Al momento di imbucare la lettera gli era venuto l’idea tentatrice di trattenerla; come fu in via Rastrelli la guardò lungamente per dar tempo alla monelleria che gli aveva parlato all’orecchio di dire tutto il suo pensiero. Perchè aveva egli fatto quel giochetto? Non già per la soddisfazione di corbellare un distributore di buona fede e distratto; e dunque perchè? Forse perchè Bambina aveva detto così: _se non viene, meglio_. “Ecco, ora quella lettera che dà il recapito a Piero Corruccini è in mani mie, ed io posso distruggerla; venga Piero e non troverà nulla; il distributore, se anche è lo stesso di questa mattina, non si ricorderà più di niente, o crederà che la lettera sia già stata consegnata da un suo collega — allora Piero si ricorderà di scrivere a me, fermo in posta, come gli avevo detto, ma io non vado mai alla posta, perchè le lettere mi vengono recapitate a casa. Piero Corruccini si stanca, rinunzia al suo scopo, se non vi ha rinunziato ancora, e se ne va a fare altre piazze„. Il Coppa ripetè parecchie volte a se stesso queste ed altre parole, mentre andava di buon passo al portico di piazza del Duomo; giunto colà si arrestò un momento; poi tornò indietro a passi lenti fino alla posta, ed imbucò la lettera, la quale diceva a Piero Corruccini di venire pure subito in casa di Bambina, e di chiedere la sua mano che non gli sarebbe rifiutata. Tornando a casa, il Coppa per consolarsi si ripetè mentalmente più volte, come se qualcuno le andasse scrivendo nel vuoto: “se non viene, meglio.„ VIII. Non si era più detta una parola che ricordasse Piero, e il Coppa non se lo poteva levare dal capo; invece pareva proprio che Bambina non ci pensasse più, anzi da poco in qua canterellava e rideva meglio, era più docile alle lezioni di organo di babbo Desiderio, e parlava di andare al Conservatorio ad imparare il canto teatrale. Ma il Coppa interveniva ogni volta a dire che la carriera del palcoscenico non era fatta per lei, che la sua carriera era un’altra. “Qual’è?„ interrogava la fanciulla. Il Coppa non diceva quale. Ma sempre pensava quelle quattro parole: “se non viene meglio.„ Le pensava anche Desiderio. “Che cosa aspettiamo? diceva segretamente a se stesso. Se questa corbelleria si ha a fare, almeno si faccia subito; per quanto _egli_ dica, mi pare che tempo da buttar via non ne abbia troppo; può essere che egli possa ancora fare cose grandi, ma se giudico da me...„ Zitto, neanco l’aria doveva sapere la segreta paura di Desiderio, il quale avrebbe riso volentieri della smania del suo vecchio amico, se non fosse stato un vecchio amico, se quella smania non fosse stato un dolore. Invece lui, rinato alla felicità, ringraziava il cielo ogni sera, perchè gli aveva concesso sul limitare della tomba la bellezza buona di Bambina, ringraziava la sua morta ogni mattina perchè la notte era stata un pezzo al suo capezzale. Anche gli sorgeva in un cantuccio della mente l’idea di dare il proprio nome alla ragazza. Diodato! Non era il nome di suo padre e nemmeno della mamma, perchè non aveva conosciuto nè l’uno nè l’altra; era un nome tutto proprio; glie l’aveva dato l’ospizio dei trovatelli... o forse Dio in persona. Bambina, pigliando quel nome, si ribattezzerebbe Speranza Diodato per andare a nozze! Peccato che, sposata, rimuterebbe da capo e rimuterebbe male. E veramente che sugo vi è a chiamarsi la signora Coppa? Un’altra cosa non sembrava vera nè possibile al buon Desiderio, cioè che egli dovesse diventare suocero del vecchio amico d’infanzia. Però, se il cielo lo avesse voluto, se sua figlia fosse veramente contenta, se il genero fosse finalmente felice; che festa! Di tutte queste cose non impossibili, a rigor di linguaggio, la meno probabile era l’ultima, cioè che finalmente il Coppa trovasse una contentezza che paresse a lui la felicità; sicuramente, egli vorrebbe afferrare la felicità vera e propria e così la contentezza svanirebbe subito. Lo stesso Coppa ebbe un giorno il medesimo timore. Desiderio gli aveva sparato a bruciapelo una schioppettata: “Piero Corruccini si è dimenticato di Bambina,„ gli aveva detto. “Bambina mi pare avviata a dimenticarsi di Piero; è il buon momento; se ti senti di far felice questa buona ragazza, e di fare la tua vecchiaia contenta, fa presto, sposala.„ Il Coppa arrossì come un fanciullone; ma dopo quel lampo di felicità, si accasciò subito brontolando che ci voleva pensare ancora. Mentre egli ci pensava, venne Piero. Venne di buon mattino, segretamente, quasi avesse paura di lasciarsi vedere; mandò dalla portinaia la sua carta di visita a dire che egli era da basso, a chiedere se potesse venire a quell’ora. Il Coppa corse in camera di Desiderio, per consultarsi con lui, ma ebbe appena detto di che cosa si trattava e si accostò all’uscio per dire alla portinaia: _venga_. Il vecchio Desiderio non fiatava; cercò di leggere nel volto del Coppa, mentre egli finiva di vestirsi, e l’amico andava su e giù. — Bambina dorme ancora? chiese il Coppa. E Bambina rispose essa stessa, picchiando alla porta: — Ci è un signore che cerca di te... — Entra, Bambina. La fanciulla, entrata con l’aria ridente d’ogni giorno, corse ad appiccare un bacio sulla guancia dei due vecchi. — Quel signore... interrogò il Coppa fissandola in volto... l’hai visto? — Appena, appena, rispose Bambina senza evitare lo sguardo di babbo Coppa. Sembrava sincera, non era troppo disinvolta e audace — forse non aveva riconosciuto il Piero dei sogni suoi. Ed era già un conforto all’animo del vecchio innamorato, al quale venne in aiuto Desiderio con un’altra domanda: — Come è quel signore? vecchio o giovane? — Giovine... — Bello?... — Oh! no; mi è sembrato che abbia la faccia gonfia... teneva la testa bassa... ma perchè mi fai queste domande?... Il Coppa, senza dir parola, rizzò la testa il più possibile, e andò incontro al suo rivale. Aveva ragione Bambina; quel signore era quasi irriconoscibile, ma era proprio lui. Piero Corruccini aveva passato appena il vano della porta, non osando quasi arrischiarsi fino in mezzo alla sala, così forte era lo scoraggiamento che lo vinceva; teneva la testa bassa; la faccia gonfia, in cui gli occhi quasi si nascondevano, implorava pietà. Il Coppa ne ebbe molta. Con una tenerezza che egli non spiegava a se stesso, si accostò subito al poveraccio. — Cos’è stato? gli disse. — È stato il vaiuolo. Un mese fa ero a Nizza a fare la piazza; ero contento di venire a Milano dove speravo d’essere aspettato, quando la malattia mi colse. Mi ha lasciato così, come mi vede. La signorina non mi ha riconosciuto, tanto sono mutato; essa invece è sempre tanto bella. Piero parlava con accento desolato, e quando disse: “essa invece è sempre tanto bella„ tremò nella sua voce una corda che era desiderio e rammarico. Il Coppa indovinò tutta quell’anima addolorata, e gli parve d’addolorarsi sinceramente anche lui, nel dirgli bruscamente una parola di conforto. — Ma ora è guarito! Non è vero? Dunque non si smarrisca. — Anche il medico mi ha detto così. Non voleva che io lasciassi Nizza, ma a me premeva di essere a Milano, non ricevendo risposta alla lettera che avevo scritto. — Lei ha scritto a Bambina? — No, ma ho scritto a lei, fermo in posta, come mi aveva detto; non ha ricevuto? — Non ho ricevuto nulla. — Vede! è il destino. Avevo detto alla signorina d’essere di ritorno per il primo del mese, e mi ero fatto promettere che essa mi avrebbe scritto due parole fermo in posta perchè sapessi dove potevo fare... in ogni caso... una visita al signor Coppa: corro alla posta e non trovo nulla. Allora ho detto: essa sa che io sono deformato e non mi vuole più... Ha ragione, povera creaturina: io sono tanto brutto, essa invece è sempre tanto bella! Trovandosi a guardare un dibattimento stranissimo che seguiva nel suo foro interno, il vecchio Coppa non sapeva decidere se egli fosse afflitto della faccia gonfia di Piero, come gli sembrava, o se il trionfo sicuro, imminente, della sua propria faccia, sbarbata ogni mattina, lo contentasse del tutto, come pure gli pareva. Non rispondeva nulla alle parole del disgraziato. Il quale proseguì: — Nella lettera che le scrivevo da Nizza, mi raccomandavo a lei perchè dicesse... alla signorina... che non ho più il coraggio di pensare al sogno bello fatto a bordo del _Sud America_... che perciò... — Che perciò?.. insistè il Coppa, tanto per dire qualche cosa. — Che perciò rinunziavo ad essa... Nel ripetere a voce bassa queste parole desolate che lo avevano fatto piangere scrivendole, singhiozzò come un fanciullo. — Si faccia cuore, disse il Coppa... non pianga ora. — No, non piango; non volevo nemmanco venire qui, ma è stato più forte di me... Il vecchio aveva sulla lingua altre consolazioni di parole; stentava a metterle fuori, sembrandogli parole ipocrite, condite largamente di egoismo; taceva, ma anche il silenzio era crudeltà. — Senta, signor Corruccini, mi dica che cosa vuol fare, che cosa devo dire io stesso, perchè se posso... creda... — Mi pare che non ci sia nulla a fare per me... non dica niente... cioè dica alla signorina in che stato sono ridotto... e avrà detto tutto. Io me ne andrò per il mondo, come ho fatto fin qui... Un’idea si era affacciata al Coppa, e da un poco egli si affaticava a guardarla da lontano, non intendendo bene ancora se fosse da accogliere o da respingere. — Sto pensando una cosa, disse tranquillamente; non so se sia buona o cattiva; deve decidere lei; sto pensando se sia meglio farsi vedere alla mia ragazza... Piero fece risolutamente di no col capo. — No?... Le pare che non convenga, proseguì il vecchio amorosamente, e allora aspetti che la gonfiezza cessi, perchè deve cessare; allora la sua faccia riavrà quasi l’aspetto di prima... non si smarrisca; le ragazze, come la mia, non s’innamorano soltanto d’una faccia liscia. O il cuore, la gentilezza d’animo... tutto _il resto_ non deve contare per nulla? Piero Corruccini fece un atto di sfiducia; a parer suo tutto il resto contava poco. — Preferisco che sia informata da lei... se caso mai essa volesse proprio vedere tutta la mia miseria... mi scriva... io abito in via Solferino al 41, terzo piano. Ma sono sicuro che non tornerò più in questa casa. Il Coppa non gli volle contraddire; accompagnò fin sull’uscio il suo infelicissimo visitatore, e stringendogli la mano con tenerezza gli disse _addio_. Poi raggiunse in sala da pranzo Desiderio e Bambina. IX. — Povero figliuolo! esclamò il Coppa entrando. — Chi? domandò Bambina. Invece di rispondere, il vecchio interrogò se stesso. Ora gli pareva proprio d’essere addolorato; l’accento di commiserazione che aveva messo in quelle due parole, non era ipocrisia sicuramente, e le volle ripetere variando. — Povero ragazzo! — Chi? — E di chi vuoi che parli se non di lui? Non l’hai visto sull’uscio, quando entrava? — Chi? — Pietro Corruccini. — Era lui? — Non l’avevi riconosciuto? Sì, era lui. Io stesso, per verità, con la sua carta di visita in mano, aspettavo che mi dicesse con chi avevo l’onore di parlare. Proprio. È stato il vaiuolo a sfigurarlo a quel modo. Ne fu colto a Nizza un mese fa; ora è guarito perfettamente, ma gli rimarrà il segno fin che campa. Povero figliuolo! — Era lui, e non ha voluto vedermi! mormorò la fanciulla. — Non dir così, poveraccio! piuttosto non ha voluto che tu lo vedessi per non farti ribrezzo. Siccome Bambina ripetè un’altra volta come smemorata: era lui — siccome Desiderio aspettava in silenzio, il Coppa proseguì: — Che cosa vuol fare? gli ho detto. — Non voglio far nulla; me ne andrò lontano, a nascondere la mia deformità. — È proprio così brutto? chiese a bassa voce Desiderio. — Eh! sì... non è bello; ma sicuramente il tempo accomoderà la sua faccia, da non... disgustare come ora... Sì, è proprio brutto, ripetè pietosamente a Bambina, è gonfio e rosso; pare perfino che gli manchino dei pezzettini di faccia. L’ho consolato, come ho potuto... ma la verità è... che non è bello... ecco. Bambina interrogava ancora con gli occhi pieni di lagrime; il Coppa non sapeva più trovare una parola che lo contentasse, perchè ora gli sembrava d’essere un ipocrita feroce. Andò due volte su e giù, poi uscì in silenzio dalla stanza. Appena se ne fa andato, Bambina corse a buttarsi nelle braccia di Desiderio, singhiozzando. — Dunque gli volevi proprio bene? La ragazza non rispose subito; prima pianse, poi si asciugò gli occhi. — Non credo che gli volessi bene; se non veniva, io non piangeva; e ora piango, non so nemmeno io perchè, e mi pare che gli vorrei dare tutto il mio amore per consolarlo. Desiderio raccolse nella pezzuola le ultime lagrime di Bambina e la baciò in fronte. — Tu hai una bell’anima! E che cosa vuoi fare? — Lasciarlo andar via così, come un cane, perchè è diventato brutto, non è vero che sarebbe una cosa crudele? Che colpa ne ha lui se il vaiuolo gli ha guastato la faccia? Domani non potrebbe guastare la mia? No; questo poi no: il vaiuolo non può nulla per sè stesso, il cielo soltanto lo manda a guastare certe faccie così così per far dire che prima erano bellissime; ma una faccetta così tonda, così bianca, così ridente, come quella di Bambina... La dimostrazione che Desiderio voleva fare fu interrotta da poche parole: — Senti, se io gli scrivessi? Sì; se Bambina scrivesse a quel disgraziato, che male vi sarebbe? — Egli sicuramente aspetta una parola buona... — E che cosa gli vorresti scrivere? — Vorrei fargli intendere che non sono una scioccherella, che la sua disgrazia mi fa pena;... niente più. Desiderio ci pensò e non vi trovando proprio nulla di male, finì con accondiscendere. “Scrivi; faremo poi leggere la lettera a babbo Coppa, che approverà anche lui.„ E Bambina, lì per lì, scrisse poche linee alla buona, come le pensava; poi le presentò a Desiderio perchè vedesse se ci erano molti sbagli. Non molti veramente, perchè Bambina, messa al cimento di fare la sua corrispondenza, si cavava d’impiccio benino; il poco che aveva imparato a scuola non gli avrebbe servito gran che, ma essa vi aggiungeva tutto quello che aveva appreso dalle letture, e non solo questo, ma la malizietta di evitare certi giri di frase in cui non si sentiva franca. L’ortografia che non si può aiutare col criterio e che richiede sempre molta pratica, ce la metteva per lo più il Coppa; questa volta ce la mise babbo Desiderio. L’amico per la vita e per la morte non era preparato all’idea che Bambina dovesse scrivere al signor Piero, ma si contenne bene; disse, come era la verità, d’aver voluto che quel povero ragazzo si mostrasse alla sua innamorata. — Nascondersi o fuggire, gli ho detto, non ha mai servito a nulla; bisogna sempre andare fino al fondo della cosa... La lettera fu mandata, e il Coppa si preparò alla battaglia, dinanzi allo specchio. Parendo d’essere proprio risoluto ad andare fino in fondo della cosa, aspettò di piè fermo la visita del suo rivale; e non lo confessando a se stesso, si sentiva sicuro di vincere la partita. Se non che la vergogna fece fare a Piero Corruccini la mossa che solo avrebbe saputo consigliare la prudenza; l’innamorato non si lasciò vedere; ma scrisse ingenuamente così: “Grazie, signorina; lei è tanto buona; io vorrei correre per vederla, ma mi vergogno perchè sono deformato; il medico mi assicura che se tengo il viso fasciato sarò meno brutto fra poche settimane. E io voglio essere meno brutto per presentarmi a lei.„ Quando questa letterina passò sotto gli occhi del Coppa, egli ebbe un sospetto pauroso, che tutte le arti del pettine e del rasoio non potessero salvare la sua vecchiaia da una nuova disillusione. Guardando Bambina nascostamente, egli indovinò subito sulla faccetta buona un amore fatto di pietà; espresse la propria scoperta a Desiderio e si sentì rispondere che certamente era così. — Come lo sai? — Essa non canta più, e ride solo quando uno di noi la guarda; pensa a lui... pensa a te. — A me? — Sì, anche a te: la stessa pietà che la spinge verso l’infelicità di Piero, l’accosta pure.... verso la tua... perchè quella ragazza è proprio buona. Essere amato e sposato per misericordia! Era una cosa possibile, e Piero se ne sarebbe contentato, ma il Coppa, no. Quando fu proprio sicuro che Bambina era tormentata dai due amori infelici, volle essere forte e generoso. — Vado a prendere il signor Piero e lo conduco qua, annunziò a Desiderio una mattina; fasciato o no, ha da combattere se vuol vincere. — E tu? — Io farò l’invalido, e sta sicuro che non è un’astuzia di guerra; ma tu che mi conosci sai che non saprei che cosa fare d’essere amato per compassione. Non mi dai ragione? — Non te la dò sicuramente. Che importa la causa, purchè l’amore ci sia veramente? Pensaci per non pentirti poi: Bambina ti vuol bene, sarebbe già tua a quest’ora se... quel disgraziato... — Lo so: essa avrebbe fatto un’opera di misericordia sposandomi, ma ce n’era da fare un’altra più meritoria... Non è questo che vuoi dire? Non era questo, ma press’a poco. In sostanza il Coppa quella stessa mattina andò a trovare Piero Corruccini, e fece tanto e fece così bene da indurlo a venire a casa sua. Volle essere lui a presentarlo a Bambina: — Bambina, le disse, di là ci è il signor Piero; ci è voluto fatica a farlo venire; non voleva perchè non è ancora accomodato bene; ma si accomoda ogni giorno un poco; bisognava vederlo l’altra settimana. La ragazza gli fissava in volto gli occhioni sbigottiti. — Non mi guardare così; ti dico che è di là, con babbo Desiderio; va, va, va subito. Egli si accomodò sopra il seggiolone a dondolo; Bambina, nel lasciare la stanza alla muta, si voltò un momentino a guardare il vecchio innamorato. Il quale aveva chiuso gli occhi e lasciandosi cullare da quel sedile di giunco, non sognava ancora. Anzi durava il primo proposito, di non sognare mai più, di sagrificarsi interamente, e già gli sembrava di assaporare la rassegnazione. “È amara, pensava, ma è sana; molti facendone uso sono guariti d’ogni malanno, e campano lungamente. Farò anch’io così per campare quanto Matusalemme. _Sì, no; sì, no;_ sembrava dire quel letto di vimini col suo cigolìo. “Ha ragione Desiderio; l’adotterò, si chiamerà Bambina Corruccini Coppa; sarò per essa l’uomo che l’ha amata più d’ogni altro, sarò il _padre_ suo. _Sì, no; sì, no._ “Che fanno ora? interrogò, e subito rispose; Piero è brutto ancora, ha gli occhi bassi perchè si vergogna della sua bruttezza; Bambina non osa guardarlo per non dargli soggezione, ma ha già visto abbastanza... forse vorrebbe essere rimasta con Babbo Coppa, e non sa che dire... Il mio buon Desiderio non sa nemmeno lui che fare; guarda Bambina fissamente non sapendo se essa sceglierà l’innamorato vecchio, o l’innamorato brutto. _Sì, no; sì no._ “Può essere il contrario. Bambina e Piero si sono intesi alla prima occhiata, a quest’ora si amano; fra un mese si sposeranno... La scelta era già fatta, senza che Bambina lo sapesse; vi aveva pensato la natura. Li amore la vecchiaia ha sempre torto.„ Dopo questa sentenza, il suo pensiero si annuvolò, la fantasia non seppe presentargli altro che immagini confuse di cose, di persone e di sentimenti; ed erano cose antiche, sentimenti solitarii, bambine indifferenti, che piombavano tutte in un medesimo sepolcro. Quando Desiderio si affacciò all’uscio a interrogare sommessamente: “dormi?„ il Coppa scostò la mano dal viso bagnato di lagrime. Non si vergognando di farle vedere all’amico per la vita e per la morte, interrogò con una sola parola: “dunque?„ Desiderio non rispose, e allora il Coppa rizzandosi in piedi ripetè: “in amore la vecchiaia ha sempre torto.„ Si asciugò la faccia e sorrise. X. Le valigie erano rimaste in un canto, perchè nè il Coppa nè altri si era ricordato di esse, per disfarle e riporle nell’armadio. Quel giorno le dimenticate si fecero innanzi agli occhi del Coppa, il quale, apertele e richiusele con un sospiro, quella sera medesima le aveva volute prendere in mano di nascosto per andarsene alla stazione. Ma di quella sua determinazione era trapelato qualche cosa, e al momento giusto Desiderio si accompagnò a lui in silenzio, mentre Bambina era rimasta in casa a piangere. Sulla via un facchino si offrì di portare le valigie e il Coppa acconsentì. — Tornerò presto, assicurava al taciturno amico come per iscusarsi, capirai bene il mio bisogno di mutar aria; perchè una corbelleria si rimargini interamente, e non se ne veda neanco il solco, l’impiastro che mi è riuscito meglio è un viaggio lungo. Ma questa volta sarà un viaggio breve; appena tu mi abbia scritto che Bambina e Piero si sono messi d’accordo e vogliono sposarsi, io verrò per dare la dote. Siamo intesi? Desiderio accennò di sì; dopo un poco il Coppa aggiunse: — Ho già tutto disposto; ho sollecitato l’atto di nascita di Bambina, che servirà per il matrimonio e per l’adozione. Tu stammi allegro e di’ a Bambina che non pianga più, che mi fa male; dille che rida sempre. — Dove vai? domandò Desiderio quando l’ebbe visto tornare col biglietto. — A Torino, scriverò subito. E se ne andò in sala d’aspetto sorridente, a testa alta, preceduto dal facchino che portava le sue valigie. Desiderio lo seguì con l’occhio e tornò a casa ad asciugare le lagrime di Bambina. Il biglietto dava diritto al Coppa di andare d’un fiato a Torino; ma egli poteva pure fermarsi dove gli piacesse; e allora perchè Torino invece di Vercelli, dove non era mai stato? Lungamente rimase incerto, e quando fu annunziato nella notte che si era giunti a Novara, il Coppa si sentì afferrato da un nuovo dubbio. E perchè Vercelli invece di Novara? Ci pensò sino al momento che si richiudeva lo sportello, e scese con le sue valigie. Solamente quando il convoglio se ne fu ripartito, gli parve che il fischio della locomotiva gli mandasse da lontano una longa beffa; e avviandosi all’albergo pensò ai casi suoi. “Sì, sono diventato irresoluto, perchè sono vecchio e forse perchè sono debole; la mia volontà se ne sta andando perchè io sto per arrivare alla indifferenza. — Vuole un albergo? gli domandò qualcuno. — Sì, un albergo... Ho sognato per l’ultima volta di potermi rifare una gioventù; Bambina sarebbe stata la mia pace, e in un lungo tramonto avrei guardato negli occhi la felicità. Oh! quanto avrei saputo amare ancora! Ora è finita. Ma pensandovi, dovette confessare a se stesso che tutto, proprio tutto, non era finito; tra Bambina e Piero ancora non era stabilito nulla, e solamente perchè la ragazza non aveva detto addirittura di non sentirsi il coraggio di amare una faccia buccherata come una grattugia, egli si era preso in mano le valigie per andarsene. E volle essere sincero fino all’ultimo: se invece di andare fino a Torino o anche più distante, come aveva pensato di fare, si era fermato a Novara, ci doveva essere stata una ragione inavvertita, che è forse quella che chiamano l’istinto. Quella notte non chiuse occhio, sebbene egli avesse detto molte volte a se stesso che stava arrivando all’indifferenza; spento il lume e fissando gli occhi nel buio, gli venivano scorte alcune linee d’un mobile che, entrando in camera, non gli pareva d’aver veduto; sembrava una persona immensa, che allungasse un braccio verso il suo letto, per far paura al vecchio Coppa. Ma il tempo delle vane paure era passato da un pezzo per lui. Lo minacciassero pure, egli era tanto indifferente da non voler nemmeno accertare se fosse la minaccia di un attaccapanni, come gli sembrava probabile. Chiuse gli occhi, e allora l’attaccapanni piegò le braccia e si avvicinò senza far rumore fino a mettere la faccia sua proprio accanto a quella del Coppa. Era una faccia beffarda; stette un momento così per mettere in collera il vecchio indifferente, poi si mutò in un altro sembiante. Il Coppa se ne rimase a guardare sino a tanto che, fra molte trasformazioni, gli si presentò la smorfia di una faccia butterata dal vaiolo. — Sei proprio bellino, disse forte il Coppa; no, non te ne andare così presto, lascia che io ti guardi bene; tu avrai l’amore di Bambina e la dote che io le farò. La faccia butterata svanì come le altre e il vecchio la trattenne un poco ancora: — No, non te ne andare; tu non sei bello, ma hai la gioventù; e in amore la vecchiaia ha sempre torto. Quando la faccia fu scomparsa interamente, entrò nel cervello del Coppa un’idea di battaglia: chi sa? non è forse detto che la vecchiaia non possa nulla; essa soltanto ama veramente; e se Bambina sapesse... “Ancora non ha detto la parola che deve legarla a lui, ma la dirà domani„ — pensò, e questa idea ficcandogli nel cervello come un chiodo, lo tenne desto tutta notte. A volte si proponeva di tornare a Milano col primo treno del mattino per rendere più difficile la vittoria di Piero, più tormentata la propria sconfitta. Ma si pentiva subito pensando alla pietà di Bambina. E poi con quale pretesto giustificare il proprio pentimento? Ah! se in quel letto, dove si voltolava in silenzio, lo cogliesse un febbrone, che obbligasse lui a tornare, ovvero inducesse Bambina a correre al suo capezzale d’infermo... a sanarlo con un bacio, a farlo morire con una parola d’amore! Finchè il mattino non entrò nella camera, il povero Coppa continuò la sua smania silenziosa; ma quando la nuova luce gli ebbe fatto vedere in un canto l’attaccapanni, il quale allungava ingenuamente l’unico braccio che gli era rimasto, scese un po’ di quiete nel suo spirito, e il Matto si addormentò sotto l’occhio del sole. Alle dieci del mattino mandò un telegramma a Desiderio per avvertirlo che egli si era arrestato a Novara, dove aspettava una _parola_. Questa parola giunse a Novara il giorno dopo. Era di Bambina. Diceva: “Perdonami, babbo caro; ma mi sembra di volergli tanto bene!„ Un’ora dopo il Coppa ripartiva per Milano, dove fece stupire la piccina e il vecchio amico con la sua disinvoltura: — Dov’è Piero?... domandò allegramente, come! non è qua? è mezzogiorno; che cosa aspetta? Ai nostri tempi, non è vero Desiderio? ai nostri tempi non si aspettava l’ora delle visite; quando si poteva andare in casa dell’innamorata ci si andava a tutte l’ore; quando no, si passeggiava sotto la finestra buscandosi il torcicollo. Bambina si lasciò ingannare da quella sicurezza e ringraziò ingenuamente il cielo che, fra le due misericordie da usare, le permetteva di far la scelta del giovane Piero; e oltre il cielo ringraziò babbo Coppa quando le promise di far il necessario perchè la cosa andasse liscia liscia. Il _necessario_ nel concetto del vecchio e dall’accento con cui egli proferiva la parola, comprendeva anche, anzi più che tutto, l’adozione; ma quando, a furia di lettere, ogni cosa fu pronta, e non mancò altro che fare gli atti legali, il Coppa ebbe un solo pentimento; mantenne tutto quanto aveva promesso, ma non volle il meglio: rinunziò ad essere il padre di Bambina. Ed ebbe l’aria di essere generoso agli occhi di tutti, nel dire a Desiderio: “La prima idea era la buona; sarai tu il babbo di Bambina; io me ne sento incapace.„ L’amico per la vita e per la morte gli si buttò fra le braccia, e pianse perchè era troppo felice. Ma il Matto era incapace di nascondere a se stesso il segreto pensamento, che lo aveva trattenuto nell’atto di fare della fidanzata (e più tardi della moglie) di Piero Corruccini la propria figliuola! Ed era la ripugnanza a mettere fra se stesso e Bambina una barriera legale, insuperabile, per tutta la vita. Anche quando quella faccia disgraziata di Piero ebbe, con la dote, la sua magnifica Bambina, il Coppa non si pentì d’essere stato prudente. Gli durava in mente lo stesso sentimento; non lo voleva confessare più, non lo confessava quasi, ma qualche volta in segreto pensava che... non si sa mai che cosa possa accadere... che Piero poteva anche essere felice, magari Dio dare dei figliuoli a Bambina, durar lungamente e seppellire il Coppa... ma poteva anche morire... E allora?... No, non era una speranza; forse non era nemmeno un desiderio... E allora?... E allora nessun dubbio che il Coppa avrebbe aperto le braccia perchè la vedova e tutti i figliuoli di lei vi riparassero come in un porto sicuro. FINE. OPERE DELLO STESSO AUTORE: _Oro nascosto_ — 3ª edizione con ritratto L. 4 — _Capelli biondi_ — 3ª ediz., legato alla bodoniana » 4 — _Amore Bendato_ — 3ª ed. diamante legata in tela » 3 — _Il Tesoro di Donnina_ — 3ª edizione » 4 — _Racconti e Scene_ — 2ª edizione » 2 — _Dalla Spuma del mare_ — 2ª edizione » 3 — _Frutti proibiti_ — 3ª edizione » 2 — _Un Tiranno ai bagni di mare_ — 3ª edizione » 1 20 _Il Romanzo di un vedovo_ — 3ª edizione » 2 — _Prima che nascesse_ — 3ª edizione » 1 50 _Le Tre Nutrici_ — 2ª edizione » 1 50 _Coraggio & avanti!_ — 2ª edizione. » 1 50 _Mio figlio studia_. — 2ª edizione » 1 — _L’intermezzo e la pagina nera_ — 2ª edizione » 1 50 _Mio figlio s’innamora_ — 2ª edizione » 1 50 _Il marito di Laurina_ — 2ª edizione » 2 — _Nonno_ — 2ª edizione » 1 50 _Mio figlio!_ — edizione di bibliofili » 12 — _Il signor Io_ — 3ª edizione » 2 50 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. La numerazione del capitolo V e dei tre seguenti, errata nell’originale, è stata corretta. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I DUE DESIDERII *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. Project Gutenberg eBooks may be modified and printed and given away—you may do practically ANYTHING in the United States with eBooks not protected by U.S. copyright law. Redistribution is subject to the trademark license, especially commercial redistribution. START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a Project Gutenberg™ electronic work and you do not agree to be bound by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the person or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8. 1.B. “Project Gutenberg” is a registered trademark. It may only be used on or associated in any way with an electronic work by people who agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few things that you can do with most Project Gutenberg™ electronic works even without complying with the full terms of this agreement. See paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project Gutenberg™ electronic works if you follow the terms of this agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg™ electronic works. See paragraph 1.E below. 1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation (“the Foundation” or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection of Project Gutenberg™ electronic works. Nearly all the individual works in the collection are in the public domain in the United States. If an individual work is unprotected by copyright law in the United States and you are located in the United States, we do not claim a right to prevent you from copying, distributing, performing, displaying or creating derivative works based on the work as long as all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope that you will support the Project Gutenberg™ mission of promoting free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™ works in compliance with the terms of this agreement for keeping the Project Gutenberg™ name associated with the work. You can easily comply with the terms of this agreement by keeping this work in the same format with its attached full Project Gutenberg™ License when you share it without charge with others. 1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern what you can do with this work. Copyright laws in most countries are in a constant state of change. If you are outside the United States, check the laws of your country in addition to the terms of this agreement before downloading, copying, displaying, performing, distributing or creating derivative works based on this work or any other Project Gutenberg™ work. The Foundation makes no representations concerning the copyright status of any work in any country other than the United States. 1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg: 1.E.1. The following sentence, with active links to, or other immediate access to, the full Project Gutenberg™ License must appear prominently whenever any copy of a Project Gutenberg™ work (any work on which the phrase “Project Gutenberg” appears, or with which the phrase “Project Gutenberg” is associated) is accessed, displayed, performed, viewed, copied or distributed: This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. 1.E.2. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is derived from texts not protected by U.S. copyright law (does not contain a notice indicating that it is posted with permission of the copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in the United States without paying any fees or charges. If you are redistributing or providing access to a work with the phrase “Project Gutenberg” associated with or appearing on the work, you must comply either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg™ trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9. 1.E.3. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is posted with the permission of the copyright holder, your use and distribution must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms will be linked to the Project Gutenberg™ License for all works posted with the permission of the copyright holder found at the beginning of this work. 1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg™ License terms from this work, or any files containing a part of this work or any other work associated with Project Gutenberg™. 1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this electronic work, or any part of this electronic work, without prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with active links or immediate access to the full terms of the Project Gutenberg™ License. 1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary, compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including any word processing or hypertext form. However, if you provide access to or distribute copies of a Project Gutenberg™ work in a format other than “Plain Vanilla ASCII” or other format used in the official version posted on the official Project Gutenberg™ website (www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means of obtaining a copy upon request, of the work in its original “Plain Vanilla ASCII” or other form. Any alternate format must include the full Project Gutenberg™ License as specified in paragraph 1.E.1. 1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying, performing, copying or distributing any Project Gutenberg™ works unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9. 1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing access to or distributing Project Gutenberg™ electronic works provided that: • You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from the use of Project Gutenberg™ works calculated using the method you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed to the owner of the Project Gutenberg™ trademark, but he has agreed to donate royalties under this paragraph to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid within 60 days following each date on which you prepare (or are legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty payments should be clearly marked as such and sent to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in Section 4, “Information about donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation.” • You provide a full refund of any money paid by a user who notifies you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he does not agree to the terms of the full Project Gutenberg™ License. You must require such a user to return or destroy all copies of the works possessed in a physical medium and discontinue all use of and all access to other copies of Project Gutenberg™ works. • You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the electronic work is discovered and reported to you within 90 days of receipt of the work. • You comply with all other terms of this agreement for free distribution of Project Gutenberg™ works. 1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project Gutenberg™ electronic work or group of works on different terms than are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing from the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager of the Project Gutenberg™ trademark. Contact the Foundation as set forth in Section 3 below. 1.F. 1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread works not protected by U.S. copyright law in creating the Project Gutenberg™ collection. Despite these efforts, Project Gutenberg™ electronic works, and the medium on which they may be stored, may contain “Defects,” such as, but not limited to, incomplete, inaccurate or corrupt data, transcription errors, a copyright or other intellectual property infringement, a defective or damaged disk or other medium, a computer virus, or computer codes that damage or cannot be read by your equipment. 1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the “Right of Replacement or Refund” described in paragraph 1.F.3, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project Gutenberg™ trademark, and any other party distributing a Project Gutenberg™ electronic work under this agreement, disclaim all liability to you for damages, costs and expenses, including legal fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH DAMAGE. 1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a written explanation to the person you received the work from. If you received the work on a physical medium, you must return the medium with your written explanation. The person or entity that provided you with the defective work may elect to provide a replacement copy in lieu of a refund. If you received the work electronically, the person or entity providing it to you may choose to give you a second opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If the second copy is also defective, you may demand a refund in writing without further opportunities to fix the problem. 1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in accordance with this agreement, and any volunteers associated with the production, promotion and distribution of Project Gutenberg™ electronic works, harmless from all liability, costs and expenses, including legal fees, that arise directly or indirectly from any of the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any Defect you cause. Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™ Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of electronic works in formats readable by the widest variety of computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.