The Project Gutenberg eBook of Il castello di Trezzo: Novella storica This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il castello di Trezzo: Novella storica Author: Giambattista Bazzoni Release date: June 23, 2021 [eBook #65680] Most recently updated: October 18, 2024 Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CASTELLO DI TREZZO: NOVELLA STORICA *** IL CASTELLO DI TREZZO NOVELLA STORICA DI GIAMBATTISTA BAZZONI. PARIGI. BAUDRY, LIBRERIA EUROPEA, 9, RUE DU COQ, PRÈS LE LOUVRE. 1838. DALLA STAMPERIA DI CRAPELET, 9, RUE DE VAUGIRARD. IL CASTELLO DI TREZZO. CAPITOLO I. E voi degli altri secoli feroci Ed ispid’avi... co’ sanguinosi Pugnali a lato, le campestri rocche Voi godeste abitar, truci all’aspetto E per gran baffi rigida la guancia Consultando gli sgherri. PARINI. Nell’età di mezzo, età d’armi e di fanatismo, in cui rade volte i principi s’avevano di mira il pubblico bene, l’Italia non offriva quell’aspetto florido e ridente che attualmente presenta. Non vedevansi allora comode ed ampie strade, non sodi ponti sui molti suoi fiumi e torrenti, non villaggi ben costrutti e popolosi. Nell’alta Lombardia specialmente a piè de’ colli e a dilungo de’ fiumi erano vaste foreste e boschi antichissimi; il suolo in molte parti non appariva che nuda brughiera o inculta landa; le strade erano torti viottoli, la maggior parte ne’ dì piovosi impraticabili, ne’ villaggi stavano ammucchiati gli abituri dei contadini, fabbricati parte di legno e parte di sassi e creta, che mal valevano a proteggerli dalla intemperie delle stagioni. Surgevano all’incontro pel contado castelli di massiccie mura, cerchiati da profonda fossa e chiusi da porte ferrate: quivi o nobile, o feudatario, o guerriero stava rinchiuso per esercitare prepotenze sopra i vassalli, per tendere agguati a’ vicini, o per sottrarsi alle pene meritatesi coi delitti e co’ tradimenti. Qua e là sparsi per le borgate e la campagna erano conventi e certose, i di cui superiori od abbati possedevano sovrani diritti. Le città presentavano l’aspetto più di fortezze che si guatino minacciose, che d’asilo di pacifici cittadini: l’una dell’altra inimiche, sempre tementi d’assalti, andavano tutte cinte d’altissime mura; e si amava più tosto con fossati e bastite di renderne l’avvicinamento difficile, di quello che procurarle ingresso comodo ed ornato. Nè a que’ tempi era agevole attraversare le acque: i torrenti si passavano a secco od a guado; e quanto ai fiumi, se ne togli i luoghi più importanti per vie militari, ove gittavansi ponti, da per tutto il passaggio si mostrava disastroso, e il più delle fiate impossibile. E dove scorgi presentemente il maestoso ponte sull’Adda tra Canonica e Vaprio, allora non t’abbattevi che in due altissime ripe, entro cui quasi avvallate correvano le acque, inette a guadarsi. Surgevane pel vero un altro, erettovi dal duca Bernabò Visconti, allorchè rialzò dalle rovine il Castello di Trezzo; esso era guernito a due capi da torri, ma non porgeva altro ingresso fuor che al castello: e però niuno ardiva, anzi che passarlo, nè pure accostarvisi: chè chiunque fosse stato trovato o su una strada, o sovra un ponte di Bernabò, era crudelmente tormentato e quindi ucciso. Alla necessità de’ passaggeri s’era però provveduto presso Vaprio con un porto costrutto rozzamente, come quella età comportava. Appena si usciva di Canonica, scontravasi un sentiero che, passando tra ciottoli ed arene, attraversava qua e là i rigagnoli del Brembo (il quale scende dalle valli bergamasche per iscaricarsi nell’Adda), e dopo breve tratto di cammino, mettea capo a quel fiume in sito ove partitosi in due rami presentava nel di lui seno un’isoletta. Quivi la fiumana, men rigogliosa d’acque pei non ricevuti torrenti e per la partizione sofferta, dava facile adito al porto, il quale constava di due zattere locate agli opposti lati dell’isola ed aventi nella parte di mezzo un grosso palo, alla cui cima correva una fune infissa alle due bande del fiume. La prima di queste recava il passeggiero dalla sponda sinistra dell’Adda persino all’isola; la seconda dall’isola al destro lido; e qui si arrampicava novellamente un viottolo che adduceva alla via detta del bosco, tra Vaprio e Concesa. Quest’isola era chiamata la Ca di Mandellone, perchè abitata da Nicola di Mandello, che per esser pingue appellavasi _Mandellone_; ed era uomo sollazzevole e di gaio aspetto, non che fino amatore del danaro. Guidava egli le zattere, e s’era per ciò edificata in mezzo all’isola una casuccia ove dimorava con sua figlia ed un famiglio; vendeva anche vino e cibi a’ viandanti, i quali astretti a passare di là, vi si fermavano volentieri, adescati da sue lusinghe a vuotarne un bicchiere. La casa di Mandellone sorgeva in luogo un po’ elevato: un praticello ombreggiato da alte piante vi si stendea di prospetto, ed offriva qua e là de’ sedili foggiati coi tronchi d’albero, e qualche tavola per gli avventori. Circuiva il prato un orticello che forniva i legumi per la cucina, e quivi mettean capo le due stradicciuole che si volgeano tra le piante ver gli opposti lidi dell’Adda. Allorchè l’albergatore udiva la chiamata di chi volea passar l’acque (ed era un grido od un fischio), soleva affacciarsi ad una finestretta per dove scorgeva i passeggeri senz’essere veduto: e se era tempo o persona opportuna, si muoveva a passarla, altramente fingeva di non udirla. Imperocchè capitando alla Ca di Mandellone ogni maniera di gente, siccome gabellieri, contrabbandieri, ladri, sgherri, venturieri, donne, frati, pellegrini, e simil fatta di persone, l’accorto nocchiero-albergatore evitava succedessero in sua casa incontri che valessero a porne a repentaglio la sicurezza, o cagionare disgusti agli avventori: e da che un _non vi ho inteso_ per sua parte, qualche rimbrotto dal canto di chi non veniva passato, accomodavano ogni faccenda, in tal guisa adoperava il brav’uomo, che tutti gli restavano amici. Volgeva l’anno 1385, ed era il venticinque maggio, giorno di giovedì, allorquando un’ora avanti al cader del sole Mandellone, che quetamente si stava nel suo casolare, udì dalla riva del bosco di Concesa partirsi un acutissimo fischio a cui varii altri si succedettero a brevi intervalli. Spiò a prima giunta dal fenestruolo, e tosto corse a staccare le zattere per levare un passeggero che lo pressava a gesti dalla sponda, e volgevasi ogni tratto a guardarsi alle spalle. Era costui un uomo a trent’anni, alto della persona, di fieri lineamenti forte adusti dal sole; sotto le larghe alaccie di un logoro cappello colla testiera a cono muoveva due occhi vivi ed agitati: aveva il mento coperto da folti peli nerissimi. Il suo vestire constava d’un rozzo giubbone di lana scura e di due ampie brache; le sue gambe erano nude, tranne i piedi calzati in grosse scarpe acuminate; teneva tra le mani uno stocco irrugginito, la di cui punta luccicava tuttavia; e due pugnali stavangli infissi ai fianchi entro larga coreggia di cuoio, «Per Sant’ Afra! (egli gridò) che ti possa affogare; sei più lento di una lumaca a muovere quelle tue quattro tavole mal connesse. — Vengo, vengo; non t’arrabbiare, Tencio (rispose Mandellone): aspetta che mi ti accosti.» Ma fu indarno, perchè Tencio spiccò un salto; e sebbene arrischiasse di capovolgere la zattera, datosi tosto a tirarne la corda a tutta possa, la fece retrocedere velocemente. Appena giunti all’isola, cacciossi fra le piante. Costui era un fuoruscito, il quale si aggirava per que’ dintorni con due suoi compagni a fine di svaligiare i viandanti; e pel suo viso abbronzato s’avea avuto il soprannome di Tencio. Raccontò desso a Mandellone d’aver veduto uno stuolo d’uomini armati a piedi ed a cavallo, i quali s’avviavano dalla strada di Vaprio verso Concesa: per lo che avea divisato di porsi prestamente in salvo. «Crederesti (gli disse Mandellone) che debbasi muovere un’armata per prender te, o il Carbonaio, o il Brescianino? Sarà Bernabò che si recherà colla sua corte al Castello di Trezzo. — E sia chi diavolo si voglia (rispose Tencio); se ci trovassero, pensi tu che ristarebbero dal porre le nostre teste in una gabbia di ferro sovra qualche albero ad uso di lanterna per la strada maestra? — Eh sì certo, che non faresti gran lume! (soggiunse Mandellone).» Mentre muovevano simiglianti discorsi, videro alla sommità della sponda donde era calato il Tencio alzarsi fra le piante un polverìo, ed udirono un calpestío di cavalli e un rumore di ruote, senza però scorgere persona: chè i folti rami degli alberi glielo impedivano. Quel calpestìo allontanandosi svanì del tutto; e Tencio e Mandellone si ritrassero in casa, persuasi essere quegli il principe che si recava a villeggiare al suo castello. Trascorsi pochi istanti si udirono novelli fischi dalla stessa sponda; Mandellone guardò, e conobbe essere i due compagni del Tencio: sicchè temendo del lasciar solo in casa quell’uccellaccio da preda, sia a riguardo di sua figlia Maria, sia a riguardo delle botti, si diè a chiamar Trado il famiglio perchè lì passasse. Giunti i due compagni, strinsero a Tencio la mano, e gridarono festanti: «Novità, grandi novità: evviva Galeazzo! Quel can di Bernabò vien condotto fra soldati al Castello di Trezzo a guisa di un assassino.» Tutti fecero le maraviglie; e il Carbonaio e il Brescianino proseguirono la rozza narrazione del fatto interrotta di quando in quando da contumelie indiritte a Bernabò: quel racconto non era che una fedele sposizione di quanto avevano veduto essi medesimi, mentre si stavano celati nel bosco che correva a’ fianchi della strada. «Dinanzi a tutti venivano (dissero essi) due lancie[1] ed ogni caporale di lancia aveva il roncone in resta, ed abbassata sul volto la celata: indi sur un cavallo fulvo si avanzava il capitano della compagnia, che distinguevasi per le alte piume del suo cimiero e per la bella armatura damascata. Dietro a costui erano altre quattro lancie; e poscia circuito da due alabardieri, uno de quali teneva le redini della mula, veniva Bernabò coverto d’un abito cremisino, col solito suo cappuccio in testa; ma non gli vedemmo spada, nè bacchetta: teneva le braccia incrocicchiate al seno, e il capo piegato, quasi dicesse orazioni. Alle terga gli stava sovr’altra mula un frate che aveva un largo cappello da eremita; ravvolgevasi in veste bigia, gli calava sul petto una lunga barba bianca, e nelle mani recava un grosso libro. Venivano quindi altre lancie e quattro alabardieri a cavallo che tenevano in mezzo due giovani, l’uno vestito di velluto azzurro, l’altro di rosso, entrambi incatenati: poscia seguivano altri soldati; e a coda di questi una paraveréda[2] tirata da quattro mule con uomini a piedi che le guidavano; e pareva racchiudere donne. Altre lancie chiudevano la comitiva.» Aggiunsero essere certi che questa dovette prendere la strada di Vaprio, quantunque più lunga per giungere a Trezzo, perchè la sola da cui potesse passare la paraveréda. E posero fine a sì fatta narrazione collo esporre la novella, raccolta da uno del paese, che il maestro delle gabelle e il daziere del transito di Vaprio venivano richiamati, e se ne mandavano due altri i quali tenevano aspetti meno burberi, onde giovava sperare che le loro faccende coi contrabbandieri del Bergamasco sarebbero andate a maraviglia. Terminato il racconto, tutti fecero gli evviva a Giovan Galeazzo: imperciocchè erasi divulgata una voce in que’ giorni che a cagione del Conte di Virtù (così Galeazzo chiamavasi) fossero accaduti a Milano importanti avvenimenti. Ma a quei tempi le notizie si propagavano con tanta difficoltà e lentezza, che non si potevano conoscere che tardi i particolari del fatto. Arguivano però che la prigionia di Bernabò essere dovesse opera del di lui nipote Giovan Galeazzo: e quindi a questi, siccome spogliatore del potere d’un principe che per le sue crudeltà era abborrito da tutti, portarono unanimi le loro acclamazioni. Mandellone rivóltosi allora alla brigata, disse: «In segno d’allegria vo’ imbandirvi uno squisito banchetto; e cápiti chi può a far da spia, saprò ben tenere la lingua in bocca.» Così dicendo s’avviò vèr l’orto, diè mano ad una zappa, scavò la terra a piè di un albero e ne trasse due lepri non che un pezzo di cinghiale, da lui fatti uccidere nei boschi dell’Adda. Erano vivande queste che di consueto gelosamente celava per poi farne parte a’ più fidati amici; imperò che sotto Bernabò l’uccidere una lepre od un cinghiale delle sue caccie era cotale misfatto da averne strappata la lingua, o peggio ancora. I tre masnadieri, riposte da un canto le armi, si adoperarono allo scorticare le lepri, raunarono legna in mezzo al prato, infilarono le cacciagioni sur uno spiedo, che era l’arma del Brescianino; ed appoggiatolo a due bastoni forcuti, se ne servirono da girarrosto. Maria intanto recava due ampii vasi del vino brianzesco più eccellente, giacchè l’accorto Mandellone soleva esser cortese con quei ladri che non isminuzzavano le lire di terzoli, ma davano generosamente fiorini d’oro, senza mai chiederne il resto. Alloraquando le lepri si furono cotte, sdraiaronsi sull’erba sotto gli alberi; e dopo avere invocato la protezione della Vergine, si posero a mangiar festosamente, ed a trar lunghe golate dai vasi a salute del Conte di Virtù e ad ignominia di Bernabò, mescendo però saviamente agli augurii le invocazioni del passaggio di ricchi viandanti, onde cavarne buono scotto. Compivano appena il loro pasto, quando udissi risuonare in voce nasale, sulla medesima sponda destra del fiume, un _Deo gratias_. Si volsero presti, e videro all’estremo del sentiere che scendeva dall’erta un frate in aspettazione della zattera. Mandellone avvertì i suoi commensali che avrebbe mandato a passarlo, perocchè non era quegli persona da cagionar loro timore di sorta. E pel vero non sarebbonsi per lui scostati d’un passo, siccome fecero tosto, se scorto non avessero dall’altra banda venire da Canonica per le arene del Brembo alla volta dell’Adda due uomini a cavallo preceduti da un contadino. Presero essi le loro armi, calarono sulle fronti il cappello, e ripararono da un lato dell’isola dietro un gruppo di piante. L’ombra gittata dall’alta sponda a ponente del fiume spandeva sulle acque e sull’isola una sufficiente oscurità per toglierli facilmente all’altrui vista, giacchè i raggi del sole già vicino al tramonto si riflettevano appena sui rami più elevati degli alberi. Intanto il frate, che aveva attraversato il fiume sulla zattera, s’avviava pel sentieruolo dell’isola inverso il prato. Sebbene le scorrevoli acque dell’Adda mantenessero quivi una grata frescura, pure il calore della stagione e il sereno dell’aere erano tali da invitare allo starsi a testa scoperta: ciò nulla meno quel monaco portava sul capo il suo pesante cappuccio, e lo teneva abbassato sin quasi sugli occhi. La grossa veste di lana a colore ulivigno che gli scendea sino ai piedi, sembrava chiusa superiormente ed avviluppata intorno al mento: per lo che non appariva del di lui viso altro che un naso adunco, due occhi neri, e alcuni peli rossastri che gli ombravano le guancie. Era uomo costui d’alta statura, di portamento franco ed altiero, ben diverso da quello che convenivasi ed un religioso mendicante: teneva ambe le mani insaccate nelle larghe maniche, e procedea lentamente. Giunto innanzi alla casa di Mandellone, porse a Trado una picciola moneta; e gli dimandò se nel primo paese, varcato il fiume, si trovassero conventi. Trado rispose che no: e il frate, girato uno sguardo intorno, chiesegli se avrebbe quivi potuto passar la notte: il famiglio soggiunse, attendesse il padrone: che se quegli assentiva, avrebbero cercato di ricoverarlo alla meglio nella loro povera casetta. Il frate chinò il capo, e andò ad assidersi sovra un sasso locato alla porta dell’abituro. Mandellone, a cui il ricco vestire de’ due viandanti che venivano a dilungo del Brembo avea fermato il pensiere, lasciò si ritraessero gli amici, corse alla zattera, e addottala all’altro lido, quivi fe’ alto onde riceverli. Accostatiglisi i passeggeri, scesero dalle loro cavalcature, e vennero a due riprese passati: il villico che avea loro servito di guida, ebbe la mercede, e fu rimandato. Il primo de’ due stranieri che s’avea valicato le acque, era un giovane di bellissime forme, snelle insieme e robuste: il di lui viso andava altiero per maschie tinte, e ne’ lineamenti sentiva altamente di un far nobile ed espressivo. Sebbene atteggiasse lo sguardo imperiosamente, pure le sue pupille apparivano sede di sentimenti dolci ed appassionati; il suo capo era coperto da uno scuro berretto adornato da due candide piume; e sotto questo cadevagli sugli omeri nerissima capellatura foggiata a leggiadre anella. Il collo mostravasi nudo; e l’abito color ranciato non gli scendea che al ginocchio, mentre lo difendeva internamente una fina corazza d’acciaio; ne’ fianchi lo cingea larga cintura di pelle, rafferma all’avanti da aurato fermaglio; ed a tracollo portava una ciarpa azzurra, a cui s’appendeva la spada di ricca impugnatura. Egli conduceva a mano un bianchissimo destriero, il cui arcione e le briglie erano fornite di ricami e dorature. Quegli che lo seguiva, mostravasi abbigliato quasi alla stessa foggia, benchè meno riccamente; e il di lui cavallo portava in groppa un grosso involto, lo che dava indizio dell’essergli scudiere. Quando pervennero all’abituro di Mandellone, questi disse loro se amavano ristorarsi: ed iva loro esagerando la lunghezza e l’andar malagevole del cammino di Vaprio. Gli stranieri fiaccati dal caldo, colle fauci esauste dalla polvere della strada, sedotti d’altronde dalla freschezza e amenità del luogo, assentirono al prendere un po’ di posa, ed ordinarono a Mandellone di recar loro un vaso di vino. Chiamò questi la figlia Maria, chiamò il famiglio, e li pressò a ben servire quei signori. Egli intanto si diè cura di acconciare con eleganza sur un gran piatto di rame i rimasugli del suo pasto coi ladri, e venne a presentarglielo siccome vivanda degna d’eccellente convitto. Sulla rozza tavola ov’egli depose il piatto delle lepri, aveano di già Trado e Maria arrecato i vasi del vino, il pane e gli altri utensili della mensa. Lo scudiere non fu tardo a gittarsi su que’ cibi come avoltoio, e trangugiarseli a grossi bocconi. Il cavaliere all’incontro bevette alcuni sorsi di vino, quindi s’adagiò sur un tronco d’albero, e volgendo gli occhi tra quelle piante, assunse in viso una tinta di soave malinconia: chinò il capo, appoggiandolo al palmo della mano, e parve assorto in profonda meditazione. Il frate, che all’arrivo di que’ due forestieri s’era precipitosamente ritirato dietro le piante, sostò fra quelle a guatarli per alcun tempo, esternando tratto tratto atti di stupore. Avanzossi di queto verso di loro; e avvicinatosi, inchinò umilmente la testa; e portandosi le braccia al petto, disse: «Dio vi salvi, o fratelli.» Lo scudiere gli porse uno sguardo di dispetto, quasi credesse costui uom venuto a dividere le sue provvigioni: ma il cavaliere al suono di quella voce alzò lo sguardo; e miratolo fisamente per qualche istante, levossi in piedi siccome chi è côlto da maraviglia. Il frate gli andò dappresso con circospezione, e preselo per mano, seco il condusse lungo il sentiero a man ritta: quivi, dopo aver data un’occhiata d’intorno, trasse subitamente indietro il cappuccio, e scoverse un’altiera testa ricinta da rossi capegli. Attonito a quella vista il cavaliere, esclamò: «Come, Aldobrado, tu qui?» Ma l’altro ricopertosi immediatamente, portò il dito alla bocca accennandogli di tacere. Indi accostatoglisi all’orecchio, con voce bassa e interrotta gli disse: «Voi non sapete, Palamede, quali terribili avvenimenti siano accaduti in Milano da venti giorni? Bernabò, i suoi figli, la signora Donnina de’ Porri, Ginevra (a questo nome il cavaliere impallidì) furono imprigionati, e quest’oggi stesso vennero condotti al castello di Trezzo.» Il cavaliere sbigottì a sì fatta novella, ed eccitò Aldobrado a narrargli come si fossero queste venture accadute. Ritornarono a questo fine nel prato, ove Palamede per allontanare lo scudiere intimògli andasse ad abbeverare i cavalli nel fiume: indi, seduti a fianco l’un l’altro, Aldobrado gli fece minuto racconto dell’imprigionamento del vecchio Principe. Narrò egli siccome Giovan Galeazzo, nipote di Bernabò, il quale sino a que’ giorni portava soltanto il titolo di conte di Virtù, e che tenea sede in Pavia, vivendo vita tranquilla, e servando fama d’uom bacchettone e dappoco, si fosse partito dal suo castello il giorno sei di maggio, spargendo voce di volere pellegrinare per divozione al Santuario della Vergine del Monte sopra Varese. A mal disegno però s’aveva menato con sè più di quattrocento uomini armati. Giunto alla distanza di due miglia da Milano, eranglisi mossi incontro fuori di Porta Ticinese i signori Rodolfo e Ludovico, figliuoli maggiori di Bernabò, i quali vennero da lui accolti con atti di cortesia: poscia arrivato alle mura della città, non entrò già per Porta Ticinese, ma girando a mancina lungo il fossato s’incamminò verso il Castello di Porta Giovia[3]. Pervenuto appena alla _pusterla_ di Sant’Ambrogio, s’abbattè presso le mura di quello spedale in Bernabò, il quale cavalcando una mula traeva innanzi con pochi de’ suoi, onde riceverlo. Giovan Galeazzo, fattoglisi vicino con ilare aspetto, diè di subito un segnale: e Giacomo del Verme, il quale capitanava le lancie di Galeazzo, fu il primo a por le mani addosso a Bernabò, e gridare ch’egli era prigioniero. Ottone da Mandello gli tolse dalle mani le briglie e la bacchetta; e recidendogli il pendon della spada, lo disarmò: il che fu pure eseguito verso gli altri cortigiani e verso i figliuoli del principe. Fatti in tal guisa prigioni, vennero trascinati al castello di Porta Giovia, e chiusivi nella torre con buon numero di guardie. Poscia Giovan Galeazzo entrò co’ suoi militi in Milano; e sparsasi novella dell’accaduto, trasse a lui tutto il popolo gridando: _Viva il conte di Virtù: muoiano le colte e le gabelle_. Galeazzo venne riconosciuto per signore; e si piacque permettere alla plebe il saccheggio dei palazzi di Bernabò e de’ suoi figli: sicchè in breve vi andarono a ruba tutti gli argenti, le gioie, i denari e ricchissimi arredi; indi si posero a sacco gli uffizi de’ dazi e delle gabelle, e se ne arsero i libri. Il principe e la di lui famiglia stettero rinchiusi nel castello di Milano sino al giorno venticinque, in cui di buon mattino vennero spediti sotto scorta armata, condotta da Gasparo Visconti, acerbo inimico di Bernabò, al Castello di Trezzo. Co’ prigioni erano il padre Leonardo degli Eremiti di Sant’Ambrogio _ad nemus_, Donnina de’ Porri, di cui conoscevasi il generoso carattere, e che s’aveva ottenuto licenza da Galeazzo di poter seguitare Bernabò nel luogo della di lui reclusione, unitamente alle sue figlie Ginevra e Damigella, le quali colla vecchia Geltrude, chiuse in una paraveréda, doveano cogli illustri prigionieri essere già entrate in castello. «Io (proseguì Aldobrado), che voi ben sapete di quale amicizia fossi legato a Bernabò, paventando l’ira di Galeazzo, e assai più del popolo, che nel bollore della rivolta uccise Baldizone e il Malaspina, stetti celato sino a questo istante da mia sorella Lucia, sperando che la plebe, o le milizie fossero per volgersi novellamente a nostro favore. Ma allorchè mi fu narrato che tutti i cittadini di Milano avevano acclamato signore Giovan Galeazzo, ed il vecchio Bernabò doveva venire tradotto dal castello di Porta Giovia al forte di Trezzo, divisai di recarmi a salvamento. Questa istessa mattina fuggii col nome e gli abiti di mio fratello Bernardo cappuccino, col pensiero di farmi soldato da ventura, e pormi a servigio o dei signori della Scala, o dei Veneti; oppure congiungermi a’ Ghibellini di Toscana, che ben sapete quanto amino Bernabò. Così mi sarà dato tentare di muovere qualche potente soccorso a vantaggio del mio antico signore.» Palamede, a cui avean trafitto l’animo le narrazioni di quel funesto successo, prese la mano d’Aldobrado e gli disse: «Sa la Vergine Santa se io non retrovolgerei con tutta la brama il mio cavallo per teco ritentare la sorte dell’armi a fine di trarre Bernabò dalla prigionia ove l’ha gittato il tradimento; ma ripartirmi senza vedere dopo due anni di dura assenza le torri e le mura della mia Milano, riedere senza fisarmi in Ginevra, senza parlarle, non posso. Io ho abbandonate le più belle speranze di gloria e di potere che mi si apparecchiavano da’ Veneziani, per ritornare a lei. Non sarà un mese che la laguna e S. Marco risuonarono d’applausi tributati al mio valore: ma tutto feci per lei. Ella mi cinse la spada: e allora giurai per lei stessa e per Sant’Ambrogio di deporla dopo due anni coperta di gloria a’ suoi piedi. Ned io posso mancare al giuramento: nè fia che alzi lancia o spada in guerra, se prima non ho veduta Ginevra.» Aldobrado, sebbene della nobile stirpe de’ Manfredi, aveva costumi da sgherro anzi che da amico intimo d’un Principe (se pure Bernabò ebbe intimi amici): laonde era troppo estranio ai sentimenti d’amore e d’onore cavalleresco per concepire nella loro forza le parole di Palamede; e ritornando alle abituali sue idee di crudeltà, proruppe con ironico sogghigno a così dire: «Voi penderete appiccato senz’occhi dal più alto merlo delle torri di Trezzo prima di satisfare al vostro giuramento. Ginevra è chiusa fra impenetrabili mura; e a cento passi del castello sta indubitatamente la morte. Nè vale bravura: ch’io ben mi so quali soldati abbiano scelto per far quivi la guardia. Rimontate a cavallo, date a me quello dello scudier vostro, e andiamocene a Verona. — No (rispose l’altro), se mi dovessero gittare nel forno di Monza. — Ma come credete riuscire nella vostra pazza impresa? — Me ne andrò da Galeazzo, invocherò da lui di vedere Ginevra, e meco menarla sposa in altre regioni. Quali timori potrà destargli, quali sospetti una giovinetta timida, innocente, la di cui forza sta nella bellezza, e la di cui sola ambizione sarà la gloria del proprio sposo! Oh certo egli saprà accordarla alle mie preci. — Lasciatevi scorgere entro le porte di Milano (disse l’altro freddamente), e vorrei essere arruotato vivo se voi non marcite nella Malastalla[4].» Palamede cadde a queste parole in seria meditazione, interrotta a quando a quando da profondi sospiri. Aldobrado si alzò, fisò un momento lo sguardo sovra di lui: indi, movendo l’occhio irrequieto, e concentrandosi in riflessioni, fece qualche moto colle braccia, come se gli si allacciassero dispiacevoli idee; indi a lui vòlto: «Ebbene (disse) giacchè volete assolutamente veder Ginevra, io ne conosco il mezzo, ma è ardito e terribile. — Spiégati (disse l’altro con ansietà, sorgendo da’ gravi pensieri in cui tutto erasi immerso): dovessi affrontare un’armata (e portò la mano alla spada), io non tremo. — Sappiate (proseguì Aldobrado) che ho veduto, saranno tre lustri, a ricostruire ed ampliare il Castello di Trezzo, e ne conosco le fondamenta più che il palmo della mia mano. Allora io vidi scoprirsi, e qualche volta dappoi (e sì dicendo espresse col volto un atto involontario di ribrezzo) io mi trovai per ordine di Bernabò in un sotterraneo che ha l’uscita in fondo agli scogli dell’Adda, e l’ingresso in un sepolcro della cappella dei morti della chiesa del castello: se voi trovate il modo di avvertire Ginevra, perchè vi si rechi, e se avete coraggio di penetrarvi, potrete seco voi condurla, senza aver d’uopo d’invocare concessioni da Galeazzo.» Un lampo di gioia brillò a questi accenti sul viso di Palamede, abbracciò Aldobrado: «Eh ch’io possa (esclamò) vederla, parlarle, premere la sua mano sulle mie labbra, e saprò sostenere animoso tutte quelle venture di disagio e di perigli che al cielo piacesse prefiggermi. — Ma vi avverto (Aldobrado continuò) che l’impresa è scabrosa; ch’io v’addito i luoghi, nè vo’ seguitarvi: d’altronde saranno indispensabili due uomini molto pratici di questi dintorni, e sperti vogatori, onde guidare e tener ritta una barca sulla corrente dell’Adda. — Quanto al pericolo, io so sprezzarlo; ma dove (disse Palamede, disanimandosi), dove rinvenire due fidi ed intrepidi rematori che vogliano meco dividere sì grave rischio?» Aldobrado ristè a queste parole alcun tempo sopra pensiero; poscia disse: «Avete dell’oro? — Non me ne manca. — Ciò basta, venite meco.» E in così dire s’avviarono verso la casa di Mandellone. Il giorno in tanto era sparito del tutto, e già vedevansi da mezzo i rami delle piante luccicare le stelle. Lo scudiere di Palamede, dopo avere abbeverati i cavalli, scorto il suo signore in istretto colloquio col frate, avea levato i freni, e lasciate ire le bestie pel prato pascolando: e’ si stava intanto sulla porta della casa a ragionare con Maria, a cui le sue belle vesti ed i modi meno aspri di que’ di Tencio e di Trado aveano cagionato un’assai aggradevole sensazione. Palamede entrando in casa disse allo scudiere d’aver cura de’ cavalli, e di levar loro anco gli arcioni, poichè avrebbero passata la notte nell’isola. Quest’annunzio riuscì graditissimo allo scudiero ed alla figlia di Mandellone; la quale facendogli lume con facella di rami accesa, mentre esso stava spogliando i cavalli, tutta si ringalluzzava alle graziose parole con che l’andava tratto tratto vezzeggiando. Aldobrado e Palamede entrarono allora in una stanza le di cui pareti erano formate di grosse travi insieme connesse ed appoggiate ad alberi vivi, de’ quali apparivano le ruvide scorze; ed era addobbata con pochi arnesi di cucina e qualche attrezzo da barca. Sedettero entrambi all’intorno d’una tavolaccia su cui ardeva un lume in vase d’olio: Aldobrado diessi a chiamar Mandellone. Questi non attendeva che d’essere domandato per sapere se essi intendevano fermarsi quella notte da lui; e nel caso contrario, già s’avea preparato una lunga narrazione dei pericoli che avrebbero incontrato, se fossero partiti a quell’ora. «Senti (gli disse il finto frate, vibrandogli un’occhiata minacciosa e indagatrice, mettendosi nello stesso istante colla persona fra l’oste e la porta): io ti conosco da lungo tempo. Tu devi aver degli amici che sarebbero da molt’anni appiccati, se non sapessero ben maneggiare una barca e nuotar come pesci, allorchè hanno gli uomini d’arme alle calcagna: io m’ho bisogno di loro.» Mandellone impallidì a queste parole pronunziate con tanta asseveranza, e volea protestare contro sì fatta asserzione. «Padre (diss’egli in atto umile), io non vi ho mai veduto... — T’ho veduto io più volte, e ti basti. Pensa per domani prima del partir nostro, che sarà all’alba, a far sì che si trovino in quest’isola due uomini i quali sappiano ben trar di remi e di stocco: e saravvi dell’oro per essi e per te; altrimenti (e cavò dalla larga manica uno stile a tre punte) prima di mezzogiorno te ne andrai all’inferno. — Se così vogliono (rispose tremando Mandellone), potrei farli venire sull’istante. — Tanto meglio (riprese Aldobrado); e lasciò che Mandellone uscisse dalla camera. «Sono varii anni (proseguì con Palamede) ch’io conosco quest’isola; e se Bernabò ora non fosse prigioniero, dovea questo grosso bue di Mandellone, al primo villeggiare di quel principe, dileguare sull’eculeo, come le lepri ch’egli va rubando e mettendo allo spiedo.» S’intese in questo mentre un fischio, e dopo breve intervallo diverse pedate le quali s’avvicinavano alla casa. Palamede e Aldobrado furono presi dalla tema di essere traditi, perchè un momento prima l’isola era loro sembrata perfettamente deserta: per il che al vedere spalancarsi la porta, e presentarsi tre figuraccie da sgherri, che il chiarore fosco e giallastro del lume rendeva ancor più terribili, Palamede rizzossi in piedi, e portò la mano alla spada; e Aldobrado si trasse dietro alla tavola, mirando a un grosso palo di ferro che stava appoggiato alle pareti. «Sono gli amici (gridò Mandellone al di fuori);» e Tencio, che s’era avanzato pel primo, fermandosi a certa distanza, e levandosi il cappello in atto di rispetto, rassecurò l’animo loro: onde Aldobrado rimessa sul volto l’espressione della fierezza e del comando, fattosi avanti disse: «Dovete giurare su questo crocifisso (e ne trasse uno di legno dall’abito) che voi non ci tradirete, nè paleserete ad alcuno quanto vi diremo, e comanderemvi di fare.» E que’ tre posero la mano sul crocifisso, e giurarono: poichè sebben gente da masnada e ferocissima, pure era tale in quella età il fascino della superstizione mista alla più crassa ignoranza, che si giurava di commettere i delitti, si commettevano per adempiere al giuramento. Aldobrado continuò dicendo che prometteva dieci fiorini d’oro per ciascuno, purchè trovassero una posizione sicura, daddove l’un di essi stesse ad attendere l’avviso per muovere un battello in certo punto dell’Adda superiormente a Trezzo, in cui sarebbevi entrato egli medesimo con quel cavaliere: e di quivi avessero ad ubbidirli ciecamente, e condurli colla maggior diligenza ove accennerebbero; e gli altri in quel mentre dovessero star pronti ad eseguire arditamente quanto loro verrebbe imposto. I tre ladri assentirono; e il Tencio soggiunse che alla mattina averebbeli condotti per la via del bosco di Vaprio in sito sicuro e segreto, da cui potere con sicurezza ordinare tutte le loro operazioni. Palamede, a cui que’ ceffi davano non lieve noia, intimò si ritirassero; e ingiunse a Mandellone di dar loro quanto avessero voluto. Indi si stese vestito sur un giaciglio di foglie di faggio composto in un canto della stanza: il che pur fece Aldobrado, volgendo ciascun d’essi nell’animo diversissimi pensieri. CAPITOLO II. E nel mezzo su un sasso avea un castello Forte, e ben posto, e a meraviglia bello. Ma ahi lasso, che poss’io più che mirare La rocca lungi ove il mio ben m’è chiuso! ARIOSTO. Veloce e fragorosa travolge l’Adda le molte sue acque uscendo dal Lario da cui è formata, e versandosi nel Po, che maestoso attraversa l’alta Italia, ricogliendo nel di lui seno i fiumi tutti che scendono dall’Alpi. Poco lungi dai moni che l’Adda abbandona, fluendo in retta linea verso mezzodì, e correndo avvallata fra sponde di enormi massi, incontra a man destra una rupe, che protendendosi a settentrione la astringe a ripiegarsi per superarla, ed a girarle d’intorno onde riprendere la primiera direzione. Su questa rupe, cinta da tre lati dall’Adda a maniera di penisola, surgevano un tempo le mura del forte di Trezzo, di cui a dì nostri poche rovine attestano la passata grandezza. Primi i Longobardi innalzarono colà una rocca onde proteggere i colli della Brianza dalle scorrerie de’ feroci Orobii: e se la fama non erra, la stessa Teodolinda avrebbene poste le fondamenta. Egli è certo però che verso il mille dell’era nostra, quel forte fu venduto al duca Ottone III da Liutefredo, vescovo di Tortona, a cui fu vinto da un suo campione in singolar conflitto tenuto alla presenza dell’Imperadore di Germania, contro Riccardo Vaidrada che ne era signore. La rocca a quella età s’ergeva sul ciglione della rupe che rade il masso a settentrione: gotica erane l’architettura, ma non vasta nè adorna; ed era solo fiancheggiata da piccola torre. Da Ottone passò in podestà di più baroni e nobili lombardi, sinchè discese con formidabile esercito, a danno dei Milanesi, Federigo detto il Barbarossa, il quale nell’aprile del 1158, valicata l’Adda a Cassano, invase la Brianza tutta, e si rese padrone anche di Trezzo e della sua rocca. Quivi lasciò un forte presidio, capitanato dal marchese di Wenibach e da Corrado di Maze. Erasi allora formato in que’ dintorni un contado detto della Bazana, e Trezzo vi fu eletta a capitale. I due comandanti imperiali che ivi stanziavano, si diedero ad abbellirne il forte siccome luogo di loro residenza, e vi costrussero in giro tre torri quadrate, una delle quali eretta per intiero con oscuri macigni, prese il nome di _Torre nera di Barbarossa_. Di là sbucavano que’ duci a devastare il territorio, esigendo enormi tasse; mettevano a ruba il contado, ed esercitavano il barbaro _jus foderi_. Simili vessazioni durarono sino a che i Milanesi, congiuntisi alla Lega Lombarda, ebbero rotto l’esercito di Federigo; e mentre essi ritornavano trionfanti dall’assedio posto a Lodi per gastigarne i cittadini riluttanti ad associarsi alla Lega, assembratisi co’ Bergamaschi, si diressero vér Trezzo a fine di espellervi gl’Imperiali, che stavano nella rocca soccorsi da alcune bande paesane. Costò a’ Lombardi non poco travaglio il possederla: nè a tanto pervennero se non dopo due mesi di assedio, e mercè l’astuzia di Praello Imblavato, il quale fe’ all’uopo construrre un gran ponte galleggiante sull’Adda. Espugnato quel forte, ne uscirono gl’Imperiali cogli onori di guerra: ed i Milanesi, postevi a sacco le molte ricchezze in oro, argento e vasellami preziosi, che gli Alemanni vi aveano accumulate colle depredazioni, incendiatolo l’abbandonarono. Stette quella rocca deserto albergo de’ gufi e degli assassini sino al 1211, nel quale anno venne da papa Innocenzo inviato per suo legato in Lombardia il cardinale Gherardo da Sessa, abbate di Tiglieto e già vescovo di Novara. Il Legato, pervenuto in Lombardia, elesse Trezzo a sua dimora, ed ordinò si riattasse la rocca; al che convennero coll’opera e colle sostanze gli abitanti dei contorni, eccitativi dalle esortazioni delle compagnie degli Umiliati o Berretani[5]: ordine dal Cardinale singolarmente protetto, e che a norma del suo instituto iva per le piazze e per le chiese predicando ogni benedizione a quel prelato. Allontanatosi da Trezzo il cardinal Gherardo, quella rocca passò in possesso di varii signori; uno dei quali (e vuolsi fosse Guazzone da San-Gervaso) costrussevi un ponte, opera arditissima per que’ tempi, poichè con un solo arco attraversava l’Adda dalla sponda milanese a quella del Bergamasco. Acutissima ne era la volta, e constava di grosse pietre rozzamente connesse; e dal capo opposto del castello surgeva a sua difesa una barricata di pesanti travi, chiusa alla testa del ponte da enorme catena di ferro. Erano scorsi pochi anni da che quella rocca era stata restaurata, ed il ponte edificato, quando il feroce signore della Marca Trivigiana, Ezzelino da Romano, devastando furibondo tutte le città e i villaggi che incontrò sul suo cammino, pervenne sino al di qua dell’Adda. Irritato perchè a vuoto gli fossero tornati gli assalti con cui aveva tentato d’impadronirsi di Monza, difesa valorosamente dai cittadini, salì coll’armata alla Brianza ed a Trezzo; e come avea fatto degli altri paesi, così pose a ferro ed a fuoco pur questa terra, e ne rovinò coll’incendio la rocca. Nove anni dopo, nel 1278, impadronissi della demolita Trezzo, Cassone Torriano. Covando que’ signori della Torre acerbissimo odio contra i Milanesi, ed in ispecial modo contro la famiglia de’ Visconti, che privati li aveva della signoria di Milano, scacciandoli dalla città colle armi, tennero secrete pratiche co’ Tedeschi, co’ Vicentini e coi Parmigiani, sinchè, ragunata grossa mano d’uomini, piombarono sovra Lodi, e la presero. Duce di quella gente era Cassone Torriano; e con lui combattevano i suoi fratelli Leone e Rainaldo. Presa Lodi, si aggiunse ai Torriani, con molti suoi guerrieri, il Patriarca d’Aquileia, e coll’armata riunita avanzatisi persino a San-Donato, ivi al 13 di luglio ebbero uno scontro co’ Milanesi. Feroce e sanguinosa durò la battaglia, sino a che i Milanesi andarono vôlti in fuga, e Cassone vittorioso ebbe campo d’invadere gran tratto di paese e rimontare sino a Trezzo. In quella zuffa varii combattenti caddero prigionieri in potere di Cassone, il quale tradottili alla rocca di Trezzo, ivi ne fece scelta; e rimandati liberi i Milanesi, fe’ rinchiudere i Comaschi nella Torre nera di Barbarossa, ove li pose a cruda morte a fine di vendicare Napo Torriano, il quale preso dai Comaschi nella battaglia di Desio, non venne reso nello scambio de’ prigionieri, ma fu lasciato perire in un gabbione di ferro nella torre di Baradello, in pena dell’aver fatto uccidere Simon da Locarno. Nè per la rotta di San-Donato i Milanesi si perdettero d’animo: condotti dal loro arcivescovo Otto Visconti, e fatta lega col marchese di Monferrato, cacciarono nel seguente anno di bel nuovo i Torriani al di là dell’Adda, e ripreso Trezzo, ne ricostrussero il ponte, che dai Torriani era stato spezzato. Poco tempo dopo, variando la sorte delle armi, ricadde la rocca di Trezzo nelle mani torriane; e vi si stabilirono Napino e Rainaldo, i quali l’abbellirono, ed a prova del loro dominio fecero scolpire sulle torri e lungo le mura i loro scudi cogli stemmi della famiglia. Ma fu pur breve quella loro signoria; perchè, assediativi dalle armi de’ Milanesi condotti dai Visconti, vennero fatti prigioni e poscia scacciati: sicchè quella rocca, rovinata di nuovo dagli assalitori, pervenne verso il 1320 nelle mani de’ Visconti, i quali datisi interamente alle cure di stato di cui ambivano, come infatti ne ottennero il reggimento, più non pensarono nè a Trezzo nè al castello, il quale per que’ potenti sarebbe riuscito una troppo meschina dimora. Passata la signoria di Milano e di tutte le città di Lombardia da Lucchino Visconti all’arcivescovo Giovanni suo fratello, questi chiamò eredi al sovrano potere i suoi tre nipoti, figli di Stefano Visconti, Matteo, Galeazzo e Bernabò; de’ quali i due ultimi erano stati da Luchino cacciati in esiglio per la loro prepotente audacia e sfrontata inobbedienza. Que’ tre fratelli succedettero allo zio arcivescovo nel 1350, e si divisero lo stato in tre parti. La parte orientale, che abbracciava le città da Lodi a Bologna sino a Pontremoli, toccò a Matteo; l’occidentale e meridionale, a Galeazzo, e si dilungava da Como a Novara colla Lumellina, e da Pavia sino ad Asti ed Alessandria; e la settentrionale a Bernabò, che dal lago di Garda, con Brescia, Bergamo e Valle Camonica, toccava sino a’ confini del Comasco. Si tennero a podestà comune le due città di Milano e di Genova. Matteo però, sei anni dopo esser pervenuto alla signoria, morì: e il popolo reputò fosse vittima della eccessiva libidine a cui sfrenatamente era inchinato; ma chi lo avvicinava ben si accorse com’egli periva per veleno propinatogli dai due fratelli, che per tal guisa assecuravano la propria vita contra gli attentati della di lui ambizione, ed ampliavano i proprii dominii. Rimasti assoluti signori Bernabò e Galeazzo, spartirono fra loro i possedimenti di Matteo, e si tenne ciascuno la signoria di quattro porte e quattro pusterle della città di Milano. Ebbe Bernabò la Romana, la Tosa, l’Orientale e la Nuova, e Galeazzo la Comasca, la Vercellina, la Giovia e la Ticinese, le quali mettevano a’ suoi dominii in cui egli abitava di consueto, recandosi rade volte a Milano; e precipuamente stanziava a Pavia, dove avea fatto erigere un ricco castello. Bernabò, amante siccom’era della caccia, appena le molte guerre glielo permisero, pensò eleggersi abitazioni ne’ luoghi più adatti al suo diletto diporto. E sebbene allora corressero tempi in cui le ricchezze non abbondavano nè pur nelle mani dei principi, pure Bernabò non ne pativa mai scarsezza: tanto colle estorsioni, gli esorbitanti tributi, le regalie forzate e le dispotiche confiscazioni, egli seppe procurarsi lauti mezzi di scialacquo! Ordinò l’innalzamento di magnifici castelli ne’ siti che gli parvero più ameni ed accomodati alle caccie. Restaurò quel di Desio, ne eresse di nuovi a Melegnano, a Senago, ad Umbro ed a Pandino. Cacciando un giorno per gli ampii boschi che al piè de’ colli briantei si stendevano dal Lambro all’Adda, frammezzati soltanto di distanza in distanza da qualche villaggio e da pochi campi, copiosi oltremodo di salvaggiume, in ispecie di lepri, cervi e cinghiali, pervenne sino a Trezzo. Quivi giunto, fu d’un subito rapito da quella felice posizione, che dominava tanti boschi vicini e che presentava col suo ponte sull’Adda un breve passaggio alle selve del Brembo. Osservò la vecchia rocca, e trovandola devastata, sdegnò abitarla; ed ordinò si erigesse un nuovo castello de’ più grandi ed adorni che mai vi fossero a quella età. Nel 1370 fu data opera dai più valorosi architetti ed artisti lombardi alla costruzione di un castello, che a forza d’oro e d’uomini fu in sette anni e tre mesi condotto a perfetto compimento. Surse questo castello sull’istessa rupe che è ricinta dall’Adda, e sulla quale già esisteva l’antica rocca; ma non fu inalzato come quella rasente il masso a settentrione, di cui a picco si guarda nel fiume, ma sibbene assai più vêr mezzogiorno. Aveva esso la forma d’un ampio quadrato, le cui ruvide mura alla sommità andavano cinte di merli, ed alla base erano costrutte con grossi massi tagliati. Nel lato vôlto a mezzodì, surgeva nel mezzo una quadrata torre, merlata anch’essa, alla cui cima, siccome di tutte l’altre pareti del castello, allargavansi le mura a risalto, lasciando fra l’intervallo delle mensole lo spazio per altrettante balestriere. Questa torre era fasciata a metà da una zona di marmo, su cui stavano scolpiti a basso rilievo i ritratti di Bernabò e di Regina della Scala di lui moglie, e frammezzo ad essi grandeggiava uno scudo acuminato, su cui era rilevata la biscia incoronata, che ripiegata addenta un uomo nudo. Nel lato istesso scorgevasi doppio ordine di finestre con archi a sesto-acuto, ornati all’intorno da bellissimi fregi, tratteggiati nello stesso ammattonato di cui erano costrutte le mura. La porta d’ingresso del castello stava alla destra della torre, e vi si giugneva attraversando la fossa, su cui dava passaggio il ponte levatoio, tutto di ferro: era questo raffermo da due enormi travi sporgenti sotto la vôlta della porta, ed incassate al di sopra dell’arco, cui era attaccata doppia catena di ferro, per la quale e si poteva abbassarlo, ed a piacere rilevarlo, facendolo entrare nelle imposte di sasso che contornavano la porta: col che essa veniva a chiudersi perfettamente. Stava sovra la porta un’apertura, ed era la vedetta per cui una guardia che vi facea di continuo la scolta, valeva a dar presto avviso di tutte le persone che si fossero presentate per avere ingresso. Valicato il ponte levatoio, non penetravasi di botto nel castello, ma era d’uopo aggirarsi in un andito lungo il lato destro del forte, sinchè si giugneva al fianco settentrionale, ove affacciavasi un’altra porta da cui si aveva entrata all’interno del castello: lungo le pareti di quest’ultimo ingresso eransi praticate molte feritoie corrispondenti a due stanze, in cui dimorando i soldati potevano non visti offendere agiatamente quelli che entravano, se così si avesse voluto. Penetrati nel castello, scorgevasi un ampio cortile, detto la piazza d’armi, intorno al quale girava un porticato ad archi gotici, ricinti ne’ contorni da pietre alternate a quadrati bianchi e cilestri, e sostenuti da immani, ma rozze colonne. Lungo le mura si difilavano in bell’ordine le finestre, parte ferriate e parte no; ed erano quelle de’ varii appartamenti del principe e della corte. A pian di terra giacevano le armerie da guerra e da caccia, i quartieri, le cucine, le stalle ed i canili. Magnifiche scale conducevano agli appartamenti superiori addobati fastosamente con arrazzi, ed in cui molte sale vedevansi dipinte a suggetti di caccie, di guerre e di religione; ma tai dipinture erano grette, quantunque di vivace colorito, siccome dava l’arte di que’ tempi. Era in quel castello una picciola chiesa dedicata alla Vergine, a cui aderiva una cappella, detta dei morti, perchè conteneva arche ed ossami ivi trasferiti dalla vecchia rocca. Nè mancavano pure tenebrose carceri e camere appartate, in cui si erano praticate ribalte, o siano trabocchelli, i quali consistevano in mobile pavimento artificiosamente sospeso, sul quale se taluno saliva, levandosi una sosta si rovesciava, e precipitava lo sgraziato in un pozzo armato a punte che lo trafiggeano. Correva voce altresì che quivi fossero sotterranei ed altri luoghi spaventosi e secreti di cui si parlava con sospetto, ma de’ quali tutti ignoravano e l’ingresso e l’uscita. Taluno però asseriva d’avere inteso voci e lamenti partirsi dalla cappella de’ morti e dalla torre nera di Barbarossa, la quale stava rovinosa nel fondo del parco vicino all’antica fortezza. Perocchè al lato di tramontana del castello eravi una porta la quale adduceva ad un picciol parco, che occupava quello spazio che stendevasi tra ’l castello e l’isolata estremità del ciglione della rupe. In fondo al parco, difeso in giro da grossa muraglia, stavano gli avanzi della vecchia rocca. In questo muro eransi praticate varie porte munite di forti cancelli, ed a cui mettean capo alcune stradicciuole che scendendo a scacco per la rupe, o si recavano al piano dell’Adda, o si dirigevano pei villaggi e pei boschi. Ove il parco avea fine, eravi altra porta fiancheggiata da due torri, la quale dava passaggio al ponte sull’Adda, novellamente ricostrutto, assai più grandioso e massiccio del primo. All’altro capo del ponte eransi erette due altre torri quadrate che ne difendevano l’ingresso, chiuso inoltre da una barricata di travi a punte di ferro. Già da dieci anni sorgeva questo castello, ed il parco era folto d’alti e fronzuti alberi, ed alla sommità degli archi di pressochè tutte le porte vedevansi appesi ove teschi di cinghiali, ove la ramosa fronte d’un cervo, ove falchi ed avoltoi, trofei delle molte caccie date da Bernabò, alloraquando sul finire del giorno, per noi già annunziato[6], giunse Bernabò stesso, condottovi prigioniero colla comitiva descritta a Mandellone dai due ladri, che dissero d’averla iscorta per la via del bosco di Concesa. A pena la guardia posta alla vedetta del castello vide spuntare le lancie fuori del bosco, diè fiato al suo corno d’avviso, e accorse tosto il castellano, che era Tadone Fosco: veduto egli soldati lombardi, e fra essi il cappuccio di Bernabò, fece immediatamente abbassare il ponte levatoio. I due capi di lancia che erano all’antiguardia, passato a pena il ponte, si posero vicini alle catene interne delle travi che servivano a rialzarlo, facendone sgombrare i due uomini che vi si trovavano. Gasparo Visconti, spronato il cavallo, fu a dosso al castellano, e curvandosi sull’arcione levò d’un colpo il mazzo delle chiavi che appese ei teneva ad una cintura di cuoio; la quale per la strappata spezzossi, ed il povero Tadone cadde a terra dimandando pietà: poichè mal sapendo la causa di sì inusato procedere contra di lui, temeva la mala ventura. Ma Gasparo Visconti gli fe’ cenno s’alzasse, e lo precedesse al castello; il che Tadone eseguì senza trar fiato. Tutti i soldati, i prigionieri e la paravéreda entrarono nella prima porta, e da quella volgendo lungo l’andito, passarono nella seconda; dove le guardie, vedendo quella comitiva preceduta dal castellano, non opposero al loro ingresso resistenza alcuna. Non sì tosto il seguito fu entrato, che Gasparo Visconti fece rialzare il ponte levatoio, ed intimò a Iacopo del Verme, che teneva il comando sotto di lui, di dar subitamente la muta alle sentinelle, disarmando i soldati di Bernabò, e coloro fra questi che non giurassero fede a Giovan Galeazzo, facesse chiudere nella torre. Iacopo del Verme dispose i suoi soldati alla porta maggiore del castello ed a tutte le altre entrate. Ne pose una parte anche alla porta del parco, e fece chiudere le barricate del ponte, collocando soldati nelle torri che lo fiancheggiavano; poscia ordinò alcune scolte, onde si aggirassero intorno alle mura del castello. Bernabò frattanto e i suoi due figli Rodolfo e Lodovico erano stati condotti nella sala maggiore dei superiori appartamenti, dove li aveano seguiti frate Leonardo, Donnina de’ Porri, e le sue due figlie colla vecchia Geltrude. Poichè furono i prigionieri assecurati nel castello, Gasparo Visconti usò seco loro maniere più gentili, siccome eragli stato imposto da Galeazzo, il quale voleva che a Bernabò ed a’ suoi, sebbene prigionieri, si avessero que’ riguardi che erano dovuti alla dignità ed al grado di parentela in cui gli erano congiunti. Appena infatti tutte quelle persone si furono raccolte nella gran sala, argomentando il capitano che la sua presenza non poteva riuscire che di peso a Bernabò ed agli altri, partissi di là per far disporre a comodo comune il restante dell’abitazione. La bella luce del declinare del giorno penetrava nella maggior sala del castello per le vetriate a più colori di due ampie finestre rivolte ad occidente, e da due altre al lato opposto si vedeva riflettere rosseggiante sulle mura merlate e sugli archi del cortile. Stavano in quella sala appese intorno alle pareti varie armature e scudi con fascie e campi a diversi colori; e vi erano disposti ampii seggioloni riccamente coverti di drappi trinati in oro, ed altre sedie minori. Sopra un seggiolone si assise Bernabò, rigettando dalla testa la pelliccia d’ermellino con cui di consueto si ricopriva: pingue era la sua persona, aveva elevata e calva la fronte, bianchi i capelli che ne velavano le tempie, oblungo il viso e di lineamenti marcati e severi. Si adagiò, tutto abbandonandosi colla persona nel sedile; alzò gli occhi alle pareti: un lampo di sdegno rifulse nel suo sguardo, che girò torbido e minaccioso, sinchè lo abbassò raccogliendo in atto doglioso le braccia al petto. Alla sua destra stava ritto in piedi frate Leonardo eremita, il cui rozzo saio, la lunga barba, le macre guancie e lo sguardo umile ed inclinato, spiravano i patimenti e la sofferenza. Alla sinistra di Bernabò era seduta Donnina della nobile famiglia de’ Porri, che Bernabò aveva eletta a marchesa della Martesana, infeudandola d’un ricco dominio. Essa fu l’ultima e la più fedele fra le molte di lui amate, poichè soffrì dividere con esso la prigionia unitamente alle proprie figlie, per continuargli le sue cure, e temperarne gli affanni. L’età di lei era oltre i quarant’anni; e sebbene non conservasse nel volto la leggiadria e la freschezza di sua prima beltà, vi avea però ancor dipinta tutta la dignità e quella nobile elevatezza dell’animo, ch’è pregevole ne’ prosperi, e sublime nei contrarii eventi; mostravasi taciturna, ma cogli sguardi spiava in volto a Bernabò quali idee lo agitassero, onde arrecargli conforto di qualche consolante parola. Presso a lei era Damigella sua seconda figlia: appena il quattordicesim’anno faceva in essa spuntare i primi fiori della giovinezza; il tondeggiante suo viso, colorito dalla salute, annunziava l’innocenza ed il brio della tenera età; i di lei occhi, nerissimi al pari de’ suoi capegli, piegavano mesti verso il viso di sua madre, il cui melanconico contegno ne frenava l’usata vivacità, ciò null’ostante svolgea scherzando intorno alle proprie dita il cordoncino d’oro che le allacciava la veste, quasi fosse incapace di starsi in perfetta quiete, e si rivolgea di quando in quando a guardar Geltrude, che seduta da un canto era tuttora disaggradevolmente sorpresa dell’improvviso cangiamento di sue abitudini. Più in là verso la vetriata, in atto meditativo, stava dai cristalli contemplando il cielo, Ginevra, la primogenita di Donnina; il color roseo della luce si mesceva al pallido del suo volto, e le dava un non so che di trasparente. Ne’ suoi grandi occhi azzurri, entro cui la melanconia e le lontane memorie spremevano una lagrima, si leggeva il bisogno di teneri sentimenti; una reticella formata d’un filo misto d’oro e verde le annodava le biondissime treccie, di cui alcune ciocche ricadevanle sulla fronte; un corpetto ricamato a neri fiori sopra fondo scuro, il quale era aperto e rannodato sul seno da una cordicella d’argento, ed una veste di drappo azzurro formavano il di lei abbigliamento. Più lungi Rodolfo e Lodovico sommessamente andavano cangiando qualche motto fra loro; la ricciuta capellatura di Rodolfo e la fierezza dello sguardo e de’ robusti lineamenti davano alla sua persona un aspetto più tosto minaccioso che abbattuto; mentre la chioma liscia e inanellata che ricadeva sul collo a Lodovico, non che i tratti gentili del di lui viso atteggiati a mestizia, appalesavano quanto riuscisse doloroso al suo cuore lo stato del proprio padre e della famiglia. Tutti questi personaggi serbavano già da qualche tempo un profondo silenzio, meditando forse ciascuno la sua trista fortuna presente e l’incerto avvenire che gli si preparava; fors’anche eran compresi dalla solennità dell’ora che precede la notte, in cui la desolazione ed un segreto spavento penetrano nelle anime afflitte, quasi se sparendo la luce, sparisse un amico consolatore, allorchè entrò in quella sala un paggio, annunziando a Bernabò che se, come era suo costume, intendeva discendere nella chiesa del castello per recitare le preghiere della sera, tutto era disposto; e udissi in questo mentre la campana suonare il segno usato per chiamare alle orazioni vespertine. Bernabò fu più scosso da questo suono che dalle parole del paggio; e frate Leonardo a lui rivolto disse: «Scendiamo, o Principe, ad impetrare dalla gran Madre di Dio un sollievo ai nostri mali. Se ella degna ascoltare le nostre preghiere, e infonderà nel cuore quella pace e quella rassegnazione che la nostra umana fralezza non saprebbe ritrovare in tutte le vanità della terra.» E in così dire gli si accostò per porgergli braccio ad alzarsi dalla sedia su cui stava assiso; ma Bernabò, alzandosi da sè francamente: — «Per Sant’Ambrogio (gridò), io pregherò assai meglio nostra Signora di Trezzo che quell’ipocrita di Giovan Galeazzo non avesse pensato di pregare la Vergine del monte di Varese.» Nè potè trattenersi dal dire fra i denti la sua solita e terribile espressione di vendetta: «Che egli venga squarciato da’ miei cani.» Ma Donnina, che lo intese, tremando che alcun altro l’avesse udito, vibrògli uno sguardo significante, e Bernabò s’avviò silenzioso verso la porta della scala. Il principe era appoggiato all’eremita; Donnina al suo fianco sinistro; dietro le venivano Ginevra e Damigella con Geltrude; indi Rodolfo e Lodovico. Le guardie che stavano al piede della scala abbassarono l’alabarda al passare di Bernabò, e la comitiva, attraversato il cortile, entrò nella gotica porta della chiesa. L’oscurità che ivi regnava non era diradata che dalla luce rossastra di due lampade che ardevano innanzi all’immagine della Vergine; e questa luce diffondendosi sotto quella volta rischiarava alcuni avelli di marmo trasportati dalla vecchia rocca, che forse erano quelli de’ suoi primi fondatori, e ripercuotevasi sui profili delle statue che vedevansi distese sopra le arche, atteggiate all’eterno sonno; penetrava pur anche fiocamente quel lume entro il cancello che chiudeva la cappella de’ morti; e facea luccicare alcune ossa pulite dal tempo e dalle mani di chi toccandole invocava pace allo spirito che le aveva animate, e le quali stavano disposte in giro sulle pareti. Collocatisi ciascuno in divota posizione, disse l’eremita un sermone sulla caducità delle umane grandezze; indi intuonò le preci con canto monotono e cupo, ma con voce pietosa. Rispondevano a quel canto nello stesso tenore alternativamente i supplicanti; e quelle voci di dolore replicate dagli echi della volta della chiesa, perdendosi in un mormorio indistinto nella cappella de’ morti, incutevano negli animi un terrore e una mestizia profonda. Ma nessun cuore fra tutti quelli che palpitavano in seno a que’ preganti, era commosso ed agitato al pari di quello della bella Ginevra. Genuflessa, col volto raccolto nelle proprie palme, ella talora lasciava scorrere la sua mente sulla folla delle tenere memorie che in lei si destavano; ma oppressa da crude ambascie e dal doloroso aspetto dell’avvenire, traeva in segreto affannosi sospiri; tal fiata, condannandosi come rea, perchè nella casa di Dio attendesse a sì fatti pensieri, alzava gli occhi all’immagine della Vergine, e ne invocava il possente aiuto. Alfine il tenebrore di quel sacro luogo, i tristi oggetti che la circondavano, l’alternare di quelle voci, i terrori che l’agitavano, addensarono un velo così funesto sulla di lei fantasia, che le forze sarebbonle mancate sotto l’angoscia che la premeva, se fosse durata nello stesso stato più a lungo; ma in quell’istante terminarono le preci, e tutti rialzatisi si mossero per uscire di chiesa. Pallida, tremante, ella si rilevò: appoggiossi a Geltrude, e a lenti passi si avviò fuor del tempio. La freschezza dell’aere, e il bel color d’argento di cui la rivestiva la luna nascente che già imbiancava i merli delle mura e delle torri, e il brillar di varie stelle che scintillavano nell’azzurro del firmamento, sollevarono quel peso di terrore e di affanno che si era concentrato nel cuor suo; più liberamente ella respirò; e il pallore quasi mortale che si era diffuso sulle sue guancie divenne debilmente animato da un lievissimo color di rosa. Attraversato di nuovo il cortile, tutti risalirono nella sala maggiore, e di là, dai paggi che Gasparo Visconti aveva a ciò destinati, vennero condotti in varii appartamenti. Bernabò fu posto in quello in cui era accostumato abitare, e che stava nel lato meridionale del castello, al fianco sinistro della torre; presso a sè egli volle ritenere frate Leonardo, e nelle attigue stanze Donnina. Rodolfo e Lodovico furono collocati in ricche camere al fianco destro della torre; e Ginevra e Damigella con Geltrude furono poste nel lato orientale del castello, ove da un verone guardavasi nell’Adda; ed era un appartamento da Bernabò un tempo addobbato per ospiziarvi le dame che egli accoglieva in quella dimora. Gasparo Visconti e Iacopo del Verme, colle altre persone d’armi di maggiore conto, ebbero buon alloggio nelle molte camere dal lato occidentale. Vennero apprestate le cene, e tutti furono nelle diverse camere serviti. Gabriella, che era la guardiana del castello, siccome moglie di Tadon Fosco, donna accorta, di modi franchi e gioviali, perchè accostumata a trattar soldati e cortigiani, fu destinata al servizio di Donnina e delle sue figlie. Salita nelle stanze di queste, recando loro una cena ch’ella stessa avea allestita, vedendo che Ginevra mesta e taciturna non era punto dai cibi solleticata a mangiare, si pose barzellettando a farle animo per divagarla dalla melanconia; e le disse che sarebbe stata sì agiatamente in quel castello quanto nel suo palazzo di Milano. Fece una pomposa descrizione del parco, e narrò meraviglie dei due cervi addimesticati che vi passeggiavano; parlò delle rovine della vecchia rocca, della torre nera di Barbarossa e degli spiriti che la abitavano; i quali durante la notte correvano per il parco cavalcando i cervi: spiriti però all’intutto innocui, poichè Tadone suo marito, che tal fiata ella astringeva a passar la notte da lei discosto, trovandosi nel parco, fu sommamente spaventato dal loro incontro, ma giammai ne patì offese. Vedendo però Gabriella che tutte le sue narrazioni nessun sollievo arrecavano all’animo di Ginevra, pensò, da donna accorta qual era, che il di lei male tenesse radice ben più profonda che non nel semplice dispiacere della reclusione in tal luogo: sicchè, fissandola con uno sguardo malizioso e penetrante, e parlandole sommessamente, le disse: «Se mai, signora, v’accrescesse il disgusto di abitare in questo castello, l’idea di non potervi procurare a piacer vostro qualche velo o drappo di que’ de’ Segazoni[7], oppure di non poter mandare a qualche vostra amica un nastro da voi trapunto, sappiate che qui abita un aríolo[8], detto Enzel Petraccio, il quale sa tutto e va per tutto; e se pur vi fossero dieci capitani d’armi e diecimila soldati a custodire il castello, e se queste mura avessero lo spessore d’una montagna, egli entra ed esce a suo senno dal castello, senza che alcuno lo possa nè scorgere nè arrestare. Io e mio marito l’abbiam sempre lasciato abitar qua liberamente, perchè esso ci racconta tutte le novelle del paese, e ci serve fedelmente in tutto ciò che gli comandiamo; e se a voi piacesse aver notizia degli avvenimenti di qualunque persona che gli chiediate, ve li narrerà dalla nascita sino al momento in cui vi parla; se desiaste inviarlo a recare, o ricevere qualche cosa, gli è come se vi andaste voi stessa... Ah! pur troppo egli sa tutto!.. Sapeva già da un mese la disgrazia che doveva accadere a Bernabò; ma siccome racconta le cose con motti stravaganti, non l’avevamo compreso chiaramente.» Ginevra al sentire che esisteva un uomo capace di rischiararla sul destino di persone lontane, fu punta da viva brama di parlare all’Aríolo per intendere che mai fosse di una persona che il suo cuore forte ardeva di rivedere; ma temè di fidare il segreto suo più caro ad un uomo che esser poteva un astuto ingannatore di quelle genti ignoranti, e porne sì a parte una donna che ancora non conosceva. Quindi dopo un istante di riflessione ringraziò Gabriella di sue cortesi offerte, e licenziolla dicendo volersi recare al riposo. Partita Gabriella, Ginevra si accostò al verone, e le si stese alla vista un vasto piano variamente illuminato dalla luna, nel quale scorgevansi grandi spazii, erano i folti boschi dei dintorni; spinse indi lo sguardo al più lontano orizzonte, dalla parte d’oriente, sospirò, e ricadde in una tetra melanconia. Universale era il silenzio e la quiete intorno a lei, rotta soltanto dal romoreggiare incessante dell’Adda che frangevasi contro la rupe del castello, o da qualche lontano grido, o scoppio di risa che partiva dalle stanze inferiori, ove i soldati ed i paggi stavano lietamente gozzovigliando. CAPITOLO III. Di terra passarono in terra, Cantando giulive canzoni di guerra, Ma i dolci castelli pensando nel cor. Per valli petrose, per balzi dirotti Vegliaron nell’armi le gelide notti Membrando in fidati colloquii d’amor. MANZONI. A pena la luce del primo biancheggiare dell’alba trapelò per entro i fessi delle travi della capanna di Mandellone, Palamede, che ansiosamente fra gli interrotti sonni aveva atteso il giorno, si levò dal giaciglio di foglie su cui aveva passata la notte. Girando lo sguardo fra quel lume incerto, il primo oggetto che gli occorse alla vista si fu il crocifisso di legno sul quale Aldobrado aveva a’ ladri fatto prestar giuramento, e che pria di coricarsi avea riposto sovr’una tavola. Palamede alzò colla destra quel crocifisso, e piegatoglisi innanzi con un ginocchio a terra, mandò alcune fervorose preghiere, invocandone il potente patrocinio nell’impresa che stava per assumere; indi rilevossi, e lo ripose. Staccò poi da un uncino di legno la sua spada che appesa vi avea la sera, baciò tre volte la ciarpa a cui andava rafferma, e, siccome per voto soleva, fecesi il segno della croce colla impugnatura su cui stava effigiata a cesello l’imagine di Sant’Ambrogio contornata di pietre preziose, e se la mise a tracolla. In questo mentre svegliossi anche Aldobrado, balzò in piedi d’un salto, e volse intorno gli occhi con sospetto, parendo ne’ primi moti intricato nella lunga veste che lo avviluppava; ma assecuratosi dell’esser solo con Palamede, si rinfrancò, diè di piglio al crocifisso, e toccatosi con quello il petto, se lo ripose sotto la tunica: indi uscirono ambedue dalla capanna. Già i primi raggi dell’aurora imporporavano la dentata cima del Segone e degli altri monti di Lecco e del Bergamasco, e dalla parte del Brembo il cielo s’investiva della lucida tinta del crepuscolo, sebbene dal lato opposto risplendesse ancora qualche rara stella. Si udiva per entro i folti rami degli alberi dell’isola uno stormire di uccelletti, e uno zirlare di tordi e allodole, a cui si univa un mormorio delle foglie per l’alitare d’una brezza mattutina, che increspava le correnti acque dell’Adda. Nel praticello poco lungi dalla porta della capanna, già stavano intesi al partire il Tencio, il Brescianino e il Carbonaio, muniti ciascuno delle proprie armi; un po’ più discosto eravi lo scudiere di Palamede, il quale teneva pel freno il suo destriero e quello del cavaliere, a cui aveva addossati gli arcioni e le armi; e vi era pur Mandellone con sua figlia Maria, che avea costretto a dormire al suo fianco sulla zattera; e il servo Trado. Tutti, all’aprirsi della porta della capanna, ed all’uscirne di Palamede ed Aldobrado, s’inchinarono, scoprendosi il capo; ma più d’ogni altro inchinossi umilmente Mandellone, che si accostò al cavaliere, chiesegli scusa pel disagiato letto su cui aveva dovuto passare la notte, e gli offrì con voce melata una refezione per disporsi al viaggio. Ma Aldobrado interruppe bruscamente il suo parlare, e volgendosi a Palamede gli disse con voce sommessa: «Per l’impresa che meditammo, e pei compagni che ne deggiono seguire (ed accennò i tre ladri), fa d’uopo che cangiate quegli abiti di troppo ricchi ed appariscenti; armatevi il capo, e riponete le piume. — E che farem noi dei cavalli?» soggiunse Palamede: «È necessario (riprese l’altro) o qui lasciarli, o mandarli a qualche vicino contado al di là dell’Adda, onde si trovino pronti sulla strada al ritorno che faremo, compiuta l’impresa.» E in così dire fe’ cenno a Mandellone ed allo scudiere che gli si avvicinassero; e trattili in disparte, disse loro: «Tu, Mandellone, terrai in quest’isola questo scudiere e quei due cavalli, e loro presterai tutto quanto sarà d’uopo; e tu, scudiere, attenderai qui il ritorno o del tuo signore, o di me che ti recherò i di lui comandi.» Ambedue mostrarono la loro grata sommissione a tale ordine; il primo, perchè isperava una lauta ricompensa; l’altro, perchè il bel volto e gli occhi espressivi della figlia di Mandellone aveangli reso piacevolissimo il soggiornare nell’isola. Palamede, fattesi recar le armi, si levò l’abito ranciato e la maglia, ed addossò una fina armatura d’acciaio non pesante, ma salda a tutte prove, che avanti la sua partenza aveale donata il marchese Azzo Liprando, che teneagli luogo di padre, e lo amava qual figlio; acconciossi i bracciali ed i guanti; lasciò il berretto, e si coverse il capo con un elmo a celata, ma senza cimiero; ritenne la spada in una catenella che si cinse, v’infisse un pugnale di una forma singolare che acquistato egli aveva a Venezia da un Greco della corte di Bisanzio, e gittossi alle spalle un bruno mantello. Porse a Mandellone due imperiali d’oro; indi raccomandossi allo scudiere perchè avesse special cura del suo cavallo, a cui innanzi al partire palpeggiò la groppa, ed accarezzò il muso ed il collo, acquetandolo colla voce, mentre egli ergeva la testa nitrendo e scalpitando, impaziente che il suo signore gli salisse sul dorso onde mettersi in cammino. Affrettato da Aldobrado si pose in via. Mandellone corse a staccare la zattera, e li trasportò al di là dell’Adda. Giunti a piè della ripa, il Brescianino, il quale, velocissimo di gambe, soleva prestamente ire e redire spiando da lungi se a caso si avessero ad incontrare persone sulla strada, salì all’uopo pel primo, quasi servisse d’antiguardo; indi seguivalo il Tencio, e dietro a lui Aldobrado e Palamede; a retroguardia stette il Carbonaio, il quale indossando abiti alla foggia de’ villici di que’ luoghi, e portando una scure da taglialegne, non valeva ad incitare sospetto alcuno, se iscorto lo avessero i gabellieri od i soldati: potea così dare avviso se taluno li sorprendesse alle spalle. Salita l’erta ed elevata sponda, trovaronsi sulla strada del bosco di Concesa, la quale fu da loro abbandonata per cacciarsi dirittamente nella foresta che le sorgeva a’ fianchi. Foltissimo era quel bosco, formato da spesse ed antichissime piante: le quercie, gli olmi, i faggi, le elci, qualche pioppo e platano occupavano i fondi paludosi, e s’intralciavano fittamente coi rami in guisa da produrre un’ombra densissima. Al loro piede i vepri, le spine, i vimini ingombravano il terreno; a cui si mescevano ne’ siti umidi, canne e giunchi; ne’ più silvestri, rose e pruni selvatici. Su pei tronchi serpeggiavano l’ellera, ed altre piante parassite, le quali in varii luoghi slanciandosi come le liane da un albero all’altro, attraversavano il cammino a guisa di verde tenda. Quivi eran piante per vecchiezza cadute; altre là si sfasciavano ritte sulle morte radici: tutto in somma nel folto di quella selva annunziava che la mano dell’uomo non l’avea da gran tempo tocca. Il Brescianino però frammezzo a quegli inviluppi s’avea messo per un sentiero che non potevasi discernere che da chi n’aveva gran pratica, il quale, aggirandosi in volte e rivolte per lo intrecciarsi delle piante, conduceva fra levante e settentrione al centro del bosco. Gli altri lo seguivano a varie distanze, spiando attentamente i di lui moti, per iscorgere se mai per la selva vi fossero appiattate insidie. E siccome ad ogni tratto da una parte o dall’altra, spaventati dal rumore che essi facevano nel passare fra i rami e le foglie, sbucavano dalle macchie fuggendo pel bosco o cerbiatti o lepri, e tra le fronde svolazzavano uccelli, o saltellavano scoiattoli, Palamede e Aldobrado si arrestavano insospettiti; chè pel vero accostumati siccom’erano a percorrere le selve nel frastuono delle caccie, giammai fu loro dato di udire quella pressa di animali, che il guaire de’ cani suol volgere in fuga anzi l’arrivo del cacciatore: così tra l’aspetto selvaggio del luogo e le antiche abitudini tenevano opinione di null’altro ritrovare colà fuorchè silenzio profondo. Dopo aver camminato lungo spazio di tempo fra un labirinto di piante, giunsero ove il bosco, diradandosi, presentava un aspetto di solitudine più gradevole; indi pervennero in un largo spazio verdeggiante, in cui s’ergeva un’antica solitaria chiesa; chè tale parve sulle prime a Palamede l’edifizio che gli si offerse dinanzi. Era questo una rotonda non molto vasta che serbava le forme di un tempietto romano; e scorgevasi che un tempo andava decorata in giro da ornamenti architettonici, di cui però non apparivano qua e là che pochi avanzi. Sull’ingresso, che era volto a ponente, stava un peristilio di gusto gotico, il quale constava di una guglietta acuta sostenuta da quattro sottili colonne, che appaiate s’appoggiavano alla base sul dorso di due leoni, a cui o il tempo o gli accidenti aveano ad uno mozzato il capo per intero, all’altro per metà. Sull’avanti della guglietta, in un campo triangolare, stava effigiata a bassorilievo una donna incoronata, rivolta verso un’altra figura di cui non si scorgeva più l’aspetto, ed in giro vi erano alcune lettere scolpite, che nessuno di loro seppe, o si curò di leggere. Palamede ammirò, compreso da una certa meraviglia, quell’edifizio locato in un luogo sì solitario, e gli parve destarglisi una sensazione, non dissimile da quel sacro orrore, che già infondevano gli antichi templi che, per farne più solenne ai profani l’avvicinamento, si ergevano nelle foreste. Il Brescianino intanto era penetrato per la non difesa porta di quel tempietto (che que’ ladri nel loro gergo chiamavano la _tana del cervo_), allorchè diè d’un subito indietro, gridando spaventato: «Il diavolo! il diavolo!» E s’intese in quel mentre come un lungo e lamentoso ruggito partirsi dall’interno dell’edifizio. Tutti arretraronsi sulle prime inorriditi, e ad Aldobrado un visibilissimo pallore salì alle guancie; ma il Tencio, accortosi ben tosto di ciò che fosse, alzò lo stocco che tenea fra le mani, e voltosi al Brescianino disse: «Se tu andassi allo spiedo, siccome io vi metterò quest’oggi il diavolo che sta là dentro, sarebbevi al mondo un vigliacco infingardo di meno.» Resi impertanto avvertiti i compagni a star colle armi preparati al colpire, si cacciò nel tempio. Palamede sguainò la spada; Aldobrado, non avendo armi all’uopo, levò un grosso masso, uno dei tanti ruderi caduti dall’edifizio e giacenti sull’erba; il Brescianino, benchè ancor tremante dallo spavento, dirizzò il suo spiedo; e il Carbonaio, che era giunto in quell’istante all’orlo della boscaglia, subitamente arrestossi, alzando la scure. S’intese nel tempio gridare il Tencio a tutta gola, al che successe un parapiglia, uno incalzarsi rumoroso; indi si vide sbucare dalla porta un nero animale zannuto, ed era un cinghiale, il quale, scoperti que’ che fuori lo attendevano, tentò di arretrarsi; ma il Tencio, pungendolo collo stocco nel dorso, lo costrinse ad uscire. I tre al di fuori gli furono addosso, e il ferirono in varie parti; ma sarebbesi tuttavia recato in salvo, se Aldobrado col colpo di pietra non gli spezzava una gamba, per cui venne a cadere ai piedi del Carbonaio, che gridando «A me, a me!» gli spaccò il cranio con un colpo di scure vibrato a due mani. Il Tencio rientrato nel tempio, ne uscì portando nella destra sospesi per un piede due cinghialini a pena nati; e ben si avvidero che l’ucciso animale era una cinghialetta che colà avea deposto i suoi parti. «Male per chi va nella tana del cervo che ha le corna di ferro (disse il Carbonaio, accennando la scure): così per un po’ di giorni noi avremo l’arrosto. — Vedi come abbiamo trattato il tuo diavolo?» soggiunse il Tencio volgendosi al Brescianino, il quale presa la scrofa per una gamba se la trascinava nel tempio, in cui tutti penetrarono. Nude erano le interne pareti di quell’edifizio, e la volta dal lato meridionale appariva diroccata: quivi trapelava per ampio foro la luce. Il pavimento si offriva tuttora lastricato di marmi; e nel suo mezzo si ergevano disposti in foggia quadrangolare dei massi che formavano una specie di altare o d’ara, a cui si ascendeva per due in allora sconnessi gradini. Recatisi dietro quest’ara, il Tencio e il Carbonaio, l’uno collo stocco, l’altro colla scure, puntarono ad una lastra di pietra, facendo sì che questa levandosi, aprisse il varco ad una angustissima scala che metteva sotterra. Appuntellata la pietra invitarono Palamede e Aldobrado a discendere, senza tema di sorta, in quella che essi appellavano la _fontana_, di cui dissero mille elogi, tanto per la freschezza che vi si godeva, di grande ristoro in quella stagione, quanto per la sicurtà del nascondiglio. Discesero la scala essi pei primi; chè d’alquanto furono ritrosi da principio il finto frate e il cavaliere, cui mosse non lieve ribrezzo quell’entrare là sotto; ma presa fidanza ne’ giuramenti dei ladri e nella guarantia delle proprie armi, pronti alla fine vi si risolvettero. Ultimo a discendere si fu il Brescianino, che calò al basso prima la uccisa scrofa; indi, fatti alcuni gradini; levò il ferro che sosteneva la pietra, la quale abbassatasi chiuse il sotterraneo. Affatto tenebrosa parve a prima giunta quella sotterranea stanza ai due che vi erano stranieri, e solo a’ loro orecchi risuonò un lieve gorgoliar d’acqua. Scorsi alcuni istanti, e dileguatasi dalle loro pupille la impressione della viva luce esterna, cominciarono ad iscorgere varii fori praticati in giro delle pareti, per dove penetrava uno scarso lume: indi si avvidero di trovarsi sotto una volta sostenuta da due massiccie colonne, e il vano del sotterraneo corrispondere in estensione al pavimento superiore del tempio: osservarono pure che la scala per cui eran discesi girava a spira intorno ad una di quelle colonne. Presso la parete in fondo, era un avello di marmo, da cui la soverchiante acqua ricadeva con debile mormorio in sottoposto bacino, e appese qua e là per le muraglie stavano armi ed altri arnesi. Nel mezzo eravi un grosso tavoliere di legno, ed in giro vani sedili. «Qui, signori miei (disse Tencio ai due che si erano seduti a canto di quella tavola, guardando intorno con atti di meraviglia), qui voi potrete abitare securi, anche sino a quando quella santa, di cui nessuno sa il nome, abbia tratto la freccia.» E in così dire, accennò una rozza scultura sulla volta, che rappresentava una Diana in atto di tender l’arco. «Sappiate che niuno ha mai ardito di penetrare nella tana del cervo, e molto meno qua sotto a ber di quell’acqua, da che Guandaleone da Dongo, mio zio, detto l’Eremita bruno, venne a stabilirvisi, al tempo che il signor Bernabò, fabbricando il castello di Trezzo, chiuse nel parco la vecchia torre di Barbarossa, sua prima abitazione. Perocchè Guandaleone era un uomo penitente, il quale non amava che tre cose: sant’Uberto, di cui portava sempre seco l’imagine, la solitudine, e la borsa dei passeggeri. — Ma che? di’ tu il vero? (esclamò Aldobrado il quale al nome di Eremita bruno era balzato in piedi atterrito.) Questa è la grotta dell’Eremita bruno? di quello spirito spaventoso del bosco, di cui narravasi esserne così tremendo l’aspetto? di colui che or prendeva le forme di un falco, or di un cinghiale, ora di una vipera, per assalire spietatamente que’ che s’avessero la disavventura di essere da lui veduti prima di scorgerlo. Dalla cui grotta narravasi uscisse un fumo, il quale aveva il potere di incenerire chiunque vi si accostasse? e però i contadini non solo, ma Bernabò, io stesso, e tutta la gente di corte, quando scorgevamo per questo bosco levarsi in qualche sito del fumo, recedevamo rapidamente. — Ah! Ah!» a que’ motti diedero in uno scroscio di risa i tre ladri. «Il fumo, proseguì il Tencio, non era che quello delle legne con cui egli faceva qui sotto arrostire le lepri, che io stesso uccideva pel bosco; e que’ che si accostavano, non rimanevano morti che per mezzo dell’asta uncinata che là vedete, e colla quale il romito, mirandoli qui celato da quel foro, sapea colpire sì bene da trapassare un uomo con maggiore destrezza ch’io non faccia d’una lepre: così non era dato pur mai al tapino di accorgersi da qual banda partisse il colpo. «E dove trovasi adesso codesto terribile Guandaleone?» disse Palamede. «Qui sotto (rispose il Tencio, percuotendo con un piede il terreno); ma credo che il diavolo si porti via le ossa ad uno ad uno, perchè veggo qui ogni giorno, abbassarsi il suolo. — E voi tre (riprese Palamede), a che veniste a compagni di Guandaleone, se, come tu dicesti, o Tencio, egli amava la solitudine?» «Questi due (rispose Tencio) ci vennero quando l’anima di Guandaleone era già volata in giù, mercè un colpo di lancia che un bravo sulla strada di Vimercate, non volendo perdere il proprio denaro, seppe vibrargli: sicchè appena ebbe forza di rientrare nel bosco, e strascinarsi fin qui, dove innanzi al morire imposemi di seppellirlo nello stesso luogo ove sarebbe spirato, il che ho eseguito appena ebbe chiusi gli occhi, perchè non venisse la notte, urlando e fischiando, a rompermi colle catene il sonno. Non erano allora che tre anni da che io mi trovava con lui, e ciò fu per ben tenue cagione. Sappiano, signori, che recatomi un giorno a Milano, andai con uno mio compare in una taverna, entro cui venne pure un soldato, che sul morione[9] teneva un bel pennacchio rosso. Mio compare, che amoreggiava Bertranda della pusterla Fabbrica, alla quale piaceva il pungerlo del continuo, perchè innanzi le comparisse con qualche ornamento della persona, pensò farsi bello con quel pennacchio: lasciato che il soldato deponesse il morione sopra un sedile, staccògli la piuma, e se la nascose fra le pieghe de’ scoffoni[10], che ricoprì col guarnello, accennandomi che partissimo. Avevamo già tocco la porta, quando accortosi il soldato dello smarrimento del suo pennacchio, si slanciò sovra ambedue, serrandoci fra le sue braccia, e gridando: «Alla ruota i ladri! alla ruota!» Io allora per divincolarmi gli menai sulla testa un colpo del mio martello da fabbro, che sempre teneva appeso alla cintura, e lo feci cadere colla fronte insanguinata sul pavimento: ma il taverniere frattanto se ne era ito di fuori gridando «aiuto, soccorso!» e fe’ giugnere alcuni uomini d’arme che stavano alla guardia del gonfalone di porta Ticinese, i quali mentre s’impossessavano di mio compare, diedermi campo di saltare per la finestra nel cortile di attiguo monistero, dal quale rapidamente mi fuggii per la porta, e mi recai a salvamento. Due ore dopo, il mio compare era già sulla ruota colle braccia e le gambe spezzate ad assordare i corvi, e ad attendere dal carnefice il colpo di grazia. Spaventato dal pericolo di vedermi frante le ossa, non volli più fermarmi a Milano, e pensai far ritorno a Brivio nella mia fucina: il giorno era già prossimo ad oscurare quando io mi posi in istrada; camminai tutta la notte, sebbene la oscurità mi astringesse più volte a sostarmi, e verso il mattino io mi trovai un po’ al disopra di Gorgonzola lungo la Molgora, ed al limitare di questo bosco. Procedendo allora più veloce nel cammino, m’abbattei in un uomo assai bruno in viso, e vestito da eremita, il quale guardatomi fisamente, mi disse: «Dove vai a quest’ora, o Tencio da Brivio?» Atterrito al sentire il mio nome pronunziarsi da uno sconosciuto, dubitai forte dapprima che quei si fosse uno spirito infernale; e ne presi certezza, allorchè mi sovvenne al pensiero che quegli si era l’Eremita bruno. Laonde credendo ch’ei fosse venuto a portarmi negli abissi pel mio peccato, girandomi al suolo, mi feci più volte il segno della croce; ma quegli, accostatomisi, disse: «Non temere, o Tencio; alzati, e narrami qual causa ti condusse a quest’ora da solo in vicinanza di questo bosco?» Ed io gli raccontai, senza mai fisarlo in volto, la disavventura di mio compare e il spavento. «Ebbene, pel sangue che mi lega a tua madre Berta da Dongo, tu verrai meco, e nessuno ardirà alzare la mano sopra di te.» Io non sapea per il timore dove mi fossi; ma egli prendendomi per mano, fecemi entrare nel bosco, e qui mi addusse, dove mi rinfrancò, mi ristorò, e palesatomi il grado di parentela che a lui mi univa, essendo io figlio di sua sorella, mi significò qual fosse il modo di vita a cui doveva accostumarmi. Da quell’istante non lo abbandonai sin che visse, e morto che egli fu mi associai a questo poltrone di Castel Martinengo, a cui le scrofe sembrano diavoli (ed additò il Brescianino), e che fu da me tratto dalle unghie di Ubaldo Ugoni, perchè altrimenti sarebbe stato appiccato. — E strinse pur lega con me (interruppe il Carbonaio), cui il mestiere di tagliar alberi sul Legnone[11] fra gli orsi, onde a stento accattarmi un tozzo di pane dai minatori del ferro, non mi andava per nulla a grado.» Questi cenni delle avventure dei ladri, e il ritrovarsi in quel sotterraneo luogo diffusero in Palamede una tetra amarezza, prodotta da riflessioni che già gli si erano svolte nella mente sin dal mattino, per cui cadde in un assopimento meditativo. Pensò egli quanto fosse indegno e pericoloso per la sua fama l’essersi unito ad assassini di quella fatta, qualunque scopo pur avesse nel giovarsi dell’opera loro: comprese che ad un cavaliero le leggi di onore imponevano che in campo aperto e colla forza del proprio braccio dovesse compiere le imprese; ed egli diveniva immeritevole di portar spada e sprone adoperando gli infami e vili maneggi dei ladri, onde venire a capo de’ suoi progetti. Agitato nel bollore dell’ira e dell’indegnazione, stava per iscagliarsi con pungenti parole contro Aldobrado, che tratto lo aveva a quel turpe partito: quando accortosi costui, per l’indole generosa che conosceva in Palamede della causa che il faceva pensieroso, e veduti gli sguardi moltiplici e sdegnosi volti sopra di sè, ruppe il silenzio, dicendogli sommessamente: «Egli è tempo che pensiamo alla vostra Ginevra.» Un brivido improvviso scosse a tal nome il cuore di Palamede, e ne scemò il tumulto dell’ira non a segno però ch’egli non riprendesse con voce risentita: «Dove mi avete voi mai condotto? e fra quali persone? Se fossimo qui, o per la bosacaglia, sorpresi dai soldati di Giovan Galeazzo, qual vituperosa fine non sarebbe a noi riservata? Io fremo in pensarvi. — Non bramaste voi stesso (rispose bruscamente Aldobrado) vedere ad ogni costo Ginevra? Guerriero da poco voi mi sembrate, se tremate a’ perigli cui vi espone il tentativo di conseguire il possesso della vostra innamorata. Io, che non nutro passione alcuna per lei, non mi trovo forse in pericolo al pari di voi? Pensate (proseguì con voce più espressiva) che in questa notte istessa, o dimani, Ginevra sarà vostra; e voi cui non mancano nè in patria nè fuori molte ricchezze e ornate abitazioni, potrete condurla al talamo, e trarre con lei onorata e comoda vita. Mentre all’infelice Aldobrado proscritto e ramingo null’altro avanza che l’errare di città in città, armando il braccio alla ventura per accattare il pane della miseria. — Ah! (soggiunse commosso Palamede) perdonatemi, Aldobrado, io ebbi torto di lagnarmi di voi: guidatemi dove volete, purchè Ginevra sia mia. A voi non mancherà giammai nè un tetto, nè una mensa ospitale.» E dicendo queste parole si porsero la mano, e con trasporto di affetto parve la stringessero l’un l’altro; ma se sul volto di Palamede traspariva la sincerità d’un’anima leale e generosa, negli occhi e sul viso di Aldobrado apparve un maligno sorriso di trionfo, per la di lui credulità. Per convincere però maggiormente Palamede dell’interesse che lo animava, onde la impresa fosse presto condotta a felice compimento, chiamò i ladri per disporli alla ricerca dei mezzi opportuni. Eransi costoro, mentre i due stranieri ragionavano fra loro, sdraiati in un angolo del sotterraneo, e quivi stavano con una lama di spada iscuoiando un pezzo della cinghialetta uccisa, e ripulendo dalle ceneri una buca nel suolo che loro serviva di focolare; alla chiamata di Aldobrado, gli si avvicinarono, ed egli disse: «Su via, degni successori di Guandaleone, diamo mano all’opera per la quale ci addussimo nel nido degli avoltoi a pericolo d’aver tutti le ali traforate dallo stesso giavellotto. È d’uopo impossessarsi dapprima di una barca, e tenerla disposta a’ nostri cenni lungo la sponda dall’Adda in sito superiore d’un miglio al Castello di Trezzo. In qual modo, o Tencio, diviseresti di fare? — Datemi cinque o sei lire di terzoli (rispose Tencio), e la barca si troverà tosto in pronto a’ vostri comandi.» Aldobrado cavò dalla tunica una manata di monete, e le porse a Tencio; questi consegnolle al Carbonaio dicendogli: «Va tosto a Brivio nella fucina di Filippo, dàgli questo denaro, e degli che pagherai il valore di tanto pesce quanto Tedrigello d’Olginate ne vende in una settimana ai signori di Lecco, purchè ti porga la chiave della catena colla quale assecura alla spiaggia il suo battello, e vi passi quattro remi per gli anelli. Se egli acconsente a quanto tu sei per chiedergli, digli pure che se terrà brighe co’ gabellieri di transito, o cogli sgherri, troverà degli amici; altramente bisbigliagli il mio nome all’orecchio.» Il Carbonaio, preso fra le mani un nodoso bastone, salì tosto la scala del sotterraneo, uscì dall’apertura, e la turò novellamente. «Ora, o Tencio (proseguì Aldobrado), io m’aspetto dal tuo ingegno l’eseguimento di altra impresa assai più ardua. — Se vi riesci (dissegli Palamede) noi ti daremo un premio doppio di quanto ti abbiamo promesso. — Tu devi trovare (proseguì Aldobrado) un uomo fidato il quale rechi alla persona che ti additeremo un viglietto entro il castello di Trezzo. — Intendo (rispose il Tencio): le signorie loro vorrebbero spezzare uno staggio del gabbione in cui sta rinchiuso il vecchio orso, affinchè ei si fugga. — O l’orso, o l’armellino (riprese Aldobrado), questo a te non deve importare: rifletti a quanto hai giurato, alla mercede che ne ritrarrai, e risolviti. «Ho giurato (replicò il Tencio) di adoperarmi alla cieca per loro, e ben vi sono disposto, perchè, avvenga che può, se io non do questa fiata nella rete, ho in animo di abbandonare la tana del cervo, e se avrò tanto da comperarmi una tunica, mi ritirerò in un convento a pentirmi de’ miei peccati, ed a levarmi dagli occhi quella maledetta ruota, su cui parmi ancora di scorgere mio compare a penzoloni. Rispetto all’inviare il viglietto nel castello, le cui porte sono sì gelosamente guardate a questi giorni, non è di certo agevole faccenda. Io però ho conoscenza di due garzoni spenditori di Tadon Fosco castellano, i quali per lo addietro erano destinati a recarsi nei contadi a comperare le provvigioni pel castello. Amighetto, l’un d’essi, è il più fidato ragazzo ch’io mi conosca, e se gli si paga una misura di quel di Montevecchia, chiude in corpo un secreto più che nol siano i bizantini nell’arca di un avaro; nè gli trarrebbono un terzuolo colla corda. Consegnatemi il viglietto ch’io m’andrò in cerca di lui, e se lo trovo, l’impresa è assicurata.» Poco mancò che Palamede per gioia lo abbracciasse, se non che trattenendosi gli disse: «Senti, o Tencio, se le mie speranze saranno coronate da un esito felice, io penserò a far sì che nè tu nè i tuoi compagni abbiate mai più a temere di sgherri o di ruote; voi sarete tre prodi soldati a cui la spada e il valore sapranno cancellare le macchie della vita trascorsa.» Mentre il Tencio indossava una larga zimarra da bifolco, Aldobrado si trasse un pezzo di pergamena che avea seco, e diella a Palamede, il quale colla punta dello stilo fattasi una picciola ferita in una mano, vergò col sangue una lettera a Ginevra. In essa narravale il suo ritorno e l’amor sempre ardente che per lei nutriva; la scongiurava per amor suo a discendere nella cappella de’ Morti attigua alla chiesa del castello, in quell’ora della notte in cui avrebbe udito una voce dir forte sotto le sue finestre «_È l’ora._» Descrisse il modo per ivi rendersi inosservata, uscendo dalla sua camera di riposo, e calando per una tribuna di cui le additava la posizione, e giusta gli andava mano mano dettando Aldobrado conoscitore espertissimo di tutti gli andirivieni del castello; e chiuse il suo dire altamente pregandola a intervenirvi, se desiderava rivederlo anzi morire. Scritta la lettera, la involse strettamente nel nastro che legava la vagina della sua spada colla ciarpa, e ravviluppolla eziandio entro una tela su cui scrisse in minuto: _Ginevra_. Consegnolla indi al Tencio, dicendogli che incaricasse il messo, che arrecar la doveva in castello, a far sì che pervenisse nelle mani di quella fra le due donzelle la quale avesse riconosciuto ivi scritto il proprio nome: al che aggiunse esser dessa di bionda chioma; che se mal riuscisse l’impresa, dovea rendere il viglietto, minacciandolo fieramente se fosse caduto in altre mani. Il Tencio, assecurando di tutto eseguire appuntino, pose alle spalle una vanga; salì la spirale scalea, e sparve, ingiugnendo al Brescianino che acconciasse di che satollarsi per essi e gli ospiti novelli. Partito costui, Palamede rimase dubbiante ed agitato da mille speranze e timori, che si succedevano senza tregua nel suo cuore; ed ora sentiasi rimordere, perchè affidato avesse un’impresa di sì alto momento a mani tanto vili, ed ora gli arrecava conforto la certezza di rivedere colei per cui s’era fatto cavaliere, quella per cui solo avea cercato rinomanza nelle guerresche venture. In quella foga di affetti parve accrescergli angustia il vedersi cinto dalla oscurità che regnava nel sotterraneo: laonde bramò di uscirne, a fine di spirare aura più lucente e più libera. Il Brescianino lo precedette, sollevò la lastra che chiudeva l’ingresso, e lo rese avvertito che non si discostasse dal tempio; che se avesse bisogno di lui, o pur amasse rientrare, replicasse un lieve batter di mani. Vagò Palamede per la tranquilla ombra delle altissime piante che circondavano il tempio; e all’ondeggiare affannoso della sua mente, trovò consolante ristoro nel ripensare a’ più cari momenti de’ passati suoi giorni. Rapida gli rinasceva la memoria di quel tempo felice in cui, giovinetto, in una splendida corte vestiva la prima volta le armi; pensava a’ torneamenti di Milano ed alle gualdane che si correano per le contrade e per le piazze, ov’egli primeggiando attraevasi gli occhi di tante nobili donzelle e matrone pomposamente ornate, che lo miravano dai veroni e dai palagi: ma tremando gli risovvenne quel primo sguardo che, irridiato da una luce celeste, incancellabile gli penetrò nel cuore. Una serie di ineffabili ricordanze gli corsero alla mente; e la voce, e gli atti, e le parole, e gli amorosi colloquii per le domestiche sale, o per l’aule festose, o ne’ solitarii giardini; e quando gli cingeva la ciarpa da lei trapunta; e il piangere e lo svenire dell’ultimo addio. Indi gli si schierarono innanzi le sue prime battaglie guerreggiate con Bernabò, poi le Venete bandiere, e i singolari combattimenti sostenuti per terra ferma e per le isole; le sue vittorie e la sua gloria. Gravato dalle ricordanze del passato, stanco, si assise, e l’animo corse festivo a’ futuri avvenimenti che lo attendevano. Aldobrado, il quale era rimasto nella fontana sotterranea, trattasi la fratesca tunica ulivigna, apparve vestito con farsetto e calzamento stretto alle membra. Diessi intanto ad esaminare le varie armi irrugginite e gli attrezzi che stavano appesi alle pareti; e tratto tratto arrestavasi colle braccia conserte al petto, e col capo inchinato, girando l’occhio inquieto, e svolgendo in se stesso cupi pensieri. Ora un sorridere di compiacenza, ora uno aggrinzarsi di rabbia apparivano a vicenda sul di lui viso; e qualche volta movea tronche parole al Brescianino che era intento a cuocere lentamente sotto le ceneri un pezzo di cinghiale. Dopo alcune ore di aspettazione, udissi il fischio del Tencio, che trafelato dal caldo e dal cammino, rientrò nel sotterraneo con Palamede, il quale lo pressava ad inchieste sull’esito del di lui invio. Ma vide egli con inesprimibile angoscia il Tencio trarsi dalla cintura l’involto, e riporlo sulla tavola, dimenando mestamente il capo per segno della fallita impresa. Anche Aldobrado restò vivamente colpito dalla mala riuscita del tentativo; ma mentre l’amante cavaliere ricogliendo il volto nelle mani si abbandonava ad un totale abbattimento, quasi per lui fosse tutto perduto, l’altro in vece concentratosi stette investigando quali altre vie rimanessero a compiere il meditato disegno; voltosi quindi a Tencio gli disse: «Forse allorchè tu giugnesti a Trezzo e ne’ paesi d’intorno l’ora era già tarda: dimani vi tornerai più per tempo, e se non ti abbatterai in Amighetto, troverai pur qualche altro che sia amico di Tadone ed abbia viso miglior del tuo. Gli consegnerai con qualche fiorin d’oro il medesimo involto, onde lo arrecchi al castellano, il quale se borbotta le parole su certi vecchi fogli di cui io non comprendo sillaba, saprà anche leggere questo indirizzo: ed è persona da rimetterlo così fidamente come farebbe di un cartoccino di polvere di san tossico.» Il Tencio fe’ cenno che eseguirebbe, e Palamede riprese speranza. Dopo alcune ore ritornò il Carbonaio che avea sortito miglior esito del compagno nella sua impresa, e semibriaco qual era pel molto vino che avea bevuto coi terzoli, di cui a Filippo di Brivio non avea data che piccolissima parte, narrò il modo di sua spedizione, e mostrò le chiavi della barca e de’ remi. Quel prospero evento temperò alquanto il rammarico arrecato dal primo andato a vuoto; e fu argomento a ciascuno di buono augurio. Passò quel giorno, e ver l’alba del dì vegnente il Tencio, a cui Palamede avea dato alcuni imperiali, partissi dalla tana del cervo, e frugò tutte le taverne de’ villaggi per più miglia d’intorno a Trezzo, ma invano: scontrò qua e là sparsi de’ soldati di Giovan Galeazzo, dal cui contatto si astenne; nè mai gli fu dato di abbattersi in uomo che fosse il ben trovato pel suo bisogno. Ritornò afflitto alla tana, ove i due lo attendevano impazienti: così furono convinti della impossibilità di pervenire al loro scopo, essendo il castello guardato con troppa avvedutezza ed entro e fuori. Deposta da Palamede ogni speranza di rivedere Ginevra nel modo consigliato da Aldobrado, fermò quindi nell’animo di tentare altre vie. Chiarì ad Aldobrado il suo proposito di abbandonare la impresa; e checchè questi gli dicesse onde impegnarnelo nuovamente, tutto parve vano. Venne perciò statuito che al mattino venturo, pagato un premio a’ ladri, sarebbero ritornati alla Ca di Mandellone per riprendere i cavalli, ed avviarsi ciascuno ove il proprio destino li avrebbe condotti. Era vicina la notte, e Palamede, a cui il fine male avventurato del suo disegno avea resi ancor più odiosi i ladri e la loro sotterranea abitazione, uscì all’aperta per meditare da solo che mai dovesse intraprendere, onde venire a capo d’una impresa da cui dipendeva unicamente la sua felicità, ed alla quale era legato per religione e per le leggi di amore e di onore. Sparso era il cielo di oscure nubi, e il vento forte fischiava tra le frondi del bosco; udivasi da lungi mormorare il tuono e scorgevasi un balenare incessante. Quell’aspetto tempestoso dell’aere consuonava pur bene coll’agitazione dell’anima di Palamede. Rimase questi colà sino al completo oscurarsi del cielo, ora scorrendo pel bosco, ora appoggiandosi alle colonne del peristilio del tempio a contemplare l’addensarsi ed abbuiarsi delle nubi; ora ascoltando con segreto compiacimento il soffiare del vento e il rimbombare del tuono. Quando la notte si fu alta, e gli oggetti d’intorno ravvolti in una profonda oscurità, Palamede destatosi da quella intensa concentrazione in cui l’aveano condotto i suoi mesti pensieri, si ritrasse nell’interno del tempio, e cerchi gli sconnessi gradini dell’ara, vi si pose genuflesso ad invocare il patrocinio di Sant’Ambrogio e della Vergine, nelle cui chiese di Milano avea tante volte aperto i più segreti affetti del cuore, ponendoli sotto il loro patrocinio. Leniva così il peso del suo affanno, esalandolo nell’entusiasmo religioso, che in lui era caldo al pari dell’amore. E siccome abborriva il ridiscendere nel covo co’ ladri, pensò vegliare quella notte nel tempio, attendendo il primo albeggiare per ritornare all’isola di Mandellone. Cedendo però ad un certo languore delle membra inoperose, si avvolse nel bruno mantello, e si stese sul nudo macigno de’ gradini, facendosi del braccio guanciale. Per la rotta volta del tempio vedevasi uno spazio di cielo che a pena pel tenebrore che l’ingombrava si distingueva da’ contorni della nera volta: e mentre Palamede vi intendeva lo sguardo l’oscuro seno di una nube diradatosi, lasciò scorgere uno spazio sereno di firmamento in cui ardeano luminose le stelle. Fu argomento di non poca gioia al cavaliere quell’apparirgli d’un subito la veduta degli astri, dalla cui posizione si traevano in allora tanti felici od avversi auspicii. Egli pensò che si fosse qualche prospera congiunzione di pianeti a suo favore; ed osservando quello spazio sereno che incominciando dalla parte di Milano, avanzatasi per dilungo delle rotte nubi ver Trezzo, non dubitò punto gli recasse l’annunzio che l’appagamento dei suoi voli sarebbesi compiuto nel castello di Trezzo, dopo aver tratto principio da Milano. Le nubi intanto si rinserrarono; il sereno affatto disparve, e il vento soffiò più forte. Palamede, immerso in gradite illusioni, fu vinto a poco a poco dalla stanchezza de’ sensi, e si assopì in profondissimo sonno. Cupa, sommessa, sconosciuta una voce, ruppe il sonno al cavaliere, chiamandolo per nome. Levò esagitato la testa appuntellandosi sul marmo colla destra, e addomandando chi fosse ad una nera figura ravvolta in un manto, la quale si inchinava versò di esso, e che da lui fu scorta, perchè il cielo rasserenatosi del tutto tramandava per entro il foro della volta uno scarso raggio di luna. «Non destate, o cavaliero (gli disse l’incognito), i serpenti nella tana che li rinchiude; seguitemi per amor di Ginevra; la colomba difesa dall’aquila non temerà gli artigli del falco.» Sprezzatori de’ perigli e amanti delle strane avventure e del maraviglioso, siccom’erano i guerrieri di que’ tempi, non esitavano certo a slanciarsi là dove un arcano avvenimento apriva loro un campo di far mostra d’intrepidità e di valore. Palamede, a cui si risvegliarono in quell’istante nell’animo tutte le credenze ne’ prestigii e nelle apparizioni di esseri soprannaturali a guida delle umane azioni, giudicò che colui il quale mosso gli avea quelle voci si fosse uno spirito a lui inviato da’ santi suoi patroni. Laonde, levatosi tostamente in piedi, si chiuse nel mantello e si dispose a seguirlo; ma appena uscito dal tempio, forte paventò ch’ei fosse uno spirito infernale, o l’anima di Guandaleone che frequentava que’ luoghi: gli si accostò allora, e di celato toccògli il manto coll’imagine di Sant’Ambrogio che serbava sculta sulla spada, e fecesi il seguo della croce. L’incognito per ciò non disparve nè urlò: ond’egli prese fidanza, e seco lui internossi fra le piante del bosco. Buio, inestricabile, incerto era il cammino della selva: chè lo intrecciarsi foltissimo de’ rami non lasciava penetrare il debilissimo raggio della luna nascente. Avanzatisi quindi un trar d’arco, parve impossibile a Palamede il procedere più oltre per quella oscurità piena di ostacoli innumerevoli: ma ad un tratto sentì che l’incognito agitava qualche corpo nell’aria, e vide con maraviglia accenderglisi nella destra una fiaccola, che rischiarò di repente con una luce improvvisa que’ luoghi. Gialliccia, offuscata da un denso fumo che effondeva, sventolava la larga fiamma di quella face, tramandando un lume che spandeva sui tronchi e sulle foglie degli alberi un livido colore, ed iva a perdersi fra il denso della boscaglia. Scorse allor Palamede che la sconosciuta sua guida si era un uomo di non alta statura, tutto ravvolto in bruno ammanto che gli si avviluppava sino al capo; aguzzo avea il mento, e coverto da una ciocca di peli; larga la bocca; protendenti, ma scarne le mascelle; gli occhi assai incavati. «Chi sarà mai costui, al quale è noto il mio nome e l’amor mio per Ginevra!» disse Palamede fra sè, mirando l’incognito la di cui fisionomia, sebbene negromantica e di straordinario aspetto, teneva pur assai del terreno per presupporlo uno spirito, o celeste, o infernale. «Sarebb’egli uno sgherro di Gian Galeazzo? Sarebb’egli uno stregone abitatore di questa selva?» Ma fidando nel proprio coraggio, serbando la destra sull’impugnatura della spada, e colla manca affrancandosi il mantello sul petto, proseguì intrepido a tenergli dietro. Dopo un breve tratto di cammino per la boscaglia, lo sconosciuto, soffermatosi, infisse in un tronco per l’acuta estremità la face che portava, e disse a Palamede: «Voi udirete il canto di Ginevra a piè delle mura che la rinserrano: mal volle ella credermi quando le susurrai che voi le eravate vicino; io deggio dunque mostrarvi ai di lei occhi. Che se non bastassero le vostre forme, ch’ella vedrà lontane, porgetemi un segno od una parola per cui indubbiamente vi riconosca.» Maravigliato il cavaliere a sì fatto parlare, da cui comprese quanto egli sapesse de’ suoi amori con Ginevra, fu punto dalla brama di chiedergli di lei più cose: quando un suo guardar penetrante ed istrano gli impose silenzio. Per cui tacitamente trasse la lettera involta nel nastro che già porto aveva al Tencio, e gliela diede. L’incognito, presolo allora per mano, proseguì seco lui il cammino per la selva lievemente rischiarata dalla face rimasta nel tronco, e che dileguossi alla loro vista un momento prima che uscissero fuori interamente del bosco, ove nessun ingombro divietò che la luna loro apparisse splendente di tutta luce. Torreggiavano poco lungi di là le mura del castello di Trezzo, di cui irradiava la luna il fianco orientale, verso la qual banda Palamede si volse coll’incognito. Quivi pervenuti, ascendendo ad un masso che sorgeva a’ fianchi del castello, lo sconosciuto disse a Palamede: «Arrestatevi qui sino a che un lume là sopra (ed additò le finestre) verrà acceso, indi spento; e tosto che spegnerassi ritornate nel bosco alla tana del cervo, da cui non partirete pria di rivedermi.» In così dire accostossi dippiù alle mura, e cacciatosi nell’ombra, sparve d’un subito agli occhi di Palamede, attonito a sì strana ventura. Era il cielo stellato e sereno, e la luna diffondeva per l’aere una limpida luce: il mormorare dell’Adda rompea solo il silenzio che regnava d’intorno. Stava il cavaliero con un’ansia inesprimibile attendendo surgesse la voce di Ginevra; allorchè vide un lume riflettersi, e passando per le vetriate delle finestre, in pria oscure, che a lui sovra stavano, arrestarsi nella camera presso il verone. Dopo pochi istanti un improvviso toccar di corde di un liuto dolcemente risonante partì dall’unica finestra illuminata del castello, e si diffuse in melodiose voci per l’aria silenziosa. Irruppero dapprima rapide note, scorrenti velocemente dai gravi agli acuti; alle quali a grado a grado mancanti succedette uno arpeggiare armonioso, che vagando con risentiti passaggi in tuoni variati, ricercò e si trattenne sul toccare di una affettuosissima minore. «O mano d’amore! Ginevra, mio unico bene!» disse fra sè Palamede premendosi le mani congiunte al seno, e volgendo lo sguardo ove udiva que’ suoni, rapito dall’entusiasmo del più puro trasporto. E chi potrebbe esprimere la piena di affetto che invase l’anima del cavaliero, udendosi risuonare all’orecchio, dopo tanta lontananza e sì fieri avvenimenti! il preludio della canzone del ritorno del guerriero crociato, ch’egli stesso aveva a Ginevra insegnata? L’estasi sua toccò il colmo, allorchè ascoltò la di lei voce proferirne le parole che così suonavano: Da lontane estranie terre, Dal sepolcro del Signor, Dai perigli e dalle guerre Io ritorno vincitor. Altri raggi in altri suoli Irradiaro il mio cimier: E le vampe d’altri soli Abbruniro il cavalier; Ma il mio tetto ed i miei cari Sempre fissi in cor restâr, Nello scorrere dei mari, Nella foga del pugnar. Ah! mio ben, che in queste mura Fida attendi al mio venir, Frena il pianto e l’ansia cura: Io ritorno a’ tuoi desir. Due volte ripetè questi ultimi accenti; e a pena cessò il canto, apparve la bella sul verone. Il manto del cavaliero gli era in quel mentre caduto dagli omeri senza ch’ei nel rapimento della passione se ne avvedesse, e un raggio di luna brillava vivissimo sul terso acciaio della sua armatura e dell’elmo. Al vedersi si riconobbero l’un l’altro quegli amanti, e nella piena dell’affetto che loro ardeva in cuore avrebbero forse alzata la voce a parlarsi: quando Palamede scórse ispegnersi di repente il lume entro la stanza del verone, e Ginevra da quello ritrarsi rapidamente. Stette un istante sospeso il cavaliero; ma ripensando alle parole dello sconosciuto, diè ratto di volta verso il bosco, e vi si internò camminando alla cieca: sino a che, scoperta allo splendore la fiaccola infissa al tronco, la riprese, e colla scorta di essa ricalcò il sentiero già percorso dapprima. CAPITOLO IV. Questi in diverse lingue era eloquente, E sapeva in ciascuna all’improvviso Compor versi, e cantar sì dolcemente, Che avrebbe un cor di Faraon conquiso. TASSONI. Lo sconosciuto, che aveva guidato Palamede fra le tenebre del bosco ad udire il canto di Ginevra, niun altro si era fuorchè quell’Enzel Petraccio, aríolo, i di cui buoni uffici aveva offerto Gabriella (la moglie del castellano) a Ginevra, nella prima sera che questa si trovava nel castello. Era Enzel venuto da lontani paesi al di là di Lamagna, e capitato in Lombardia al seguito di Ernesto il Bavaro, duca di molti castelli, allorchè questi menò in moglie Lisabetta la Piccinina, una fra le dieci figlie legittime di Bernabò. Enzel si era introdotto fra la schiera dei servi del Duca, e con essi recatosi a Trezzo, rinunziò al vivere errante che per tanti anni avea condotto, e pensò fermar stanza colà, dove, a motivo delle sue arti che sapevano di negromanzia, era richiesto dal volgo, e tenuto in gran pregio. Sapeva però celare con astuzia quegli artificii ai frati ed ai ricchi, per tema di avere a sperimentare il suo magico potere contro le fiamme di accesa catasta, o nella gola arroventata di un forno. Enzel parlava talvolta una lingua stranissima, ed era il solo che servisse d’interprete fra le genti del paese e gli alabardieri alemanni, gli arcieri svizzeri, e i cavalieri francesi e normandi, di cui qualche schiera sempre si trovava a Milano e ne’ dintorni, condotti dai tanti principi che si recavano alla corte di Bernabò, od attraversavano la Lombardia per guerreggiare in Italia. Aveva egli veduto Vienna d’Austria, dopo essere stato a Rodi, a Bisanzio, e persino a Trabisonda. Tratteneva le persone narrando maraviglie di spaventose montagne, di fortune di mare, di singolari costumi di popoli lontani, di guerre, d’assalti, di giostre e duelli di cavalieri; mesceva a’ suoi racconti amori di dame e di regine, storie di maghi, di miracoli e d’effetti d’influssi di pianeti. Astuto indagatore de’ fatti altrui, richiesto di consiglio e d’aiuto nelle traversie, sapea di tutto giovarsi, penetrando ne’ segreti di chicchessia: andava nelle case, nelle taverne, e frequentava le corti dei castelli e de’ conventi: spiava i moti di ognuno, meditava sulle parole che inavvedutamente isfuggivano; e combinando con accortezza tratti che sembravano i più disparati, spesso giungeva alla scoperta di fatti segretissimi: quindi molte fiate sapea prevedere ciò che taluno di celato divisasse intraprendere. Aveva fatto lega coi tempestarii, ed altri aríoli, i quali dicevasi tener possanza sulle meteore e sugli spiriti che abitavano l’aria: eglino venivano consultati non solo dal volgo, ma anche da’ cavalieri e signori di castelli, e in ispecial modo dalle donne, a cui la molta ignoranza e superstizione dei tempi facea credere infallibili gli oracoli che pronunciavano. Per tal guisa adoperando, Enzel avea cognizione delle insidie e de’ tradimenti che celatamente si preparavano; sapea le corrispondenze più ignote e le violenze praticate fra impenetrabili mura. Amico de’ sgherri e degli assassini, de’ contrabbandieri e de’ gabellieri, egli penetrava sicuro in tutti i boschi, in tutte le trabacche dei soldati; derisore in suo secreto di gran parte de’ pregiudizi che esso co’ suoi racconti tenea vivi negli altri, punto non temea di cacciarsi per luoghi oscuri e disabitati, ne’ sotterranei e nelle caverne, qualunque pur fosse la fama tremenda che s’avessero. Infatti egli aveva scoperto nel castello di Trezzo, entro la torre nera di Barbarossa, l’ingresso ad un sotterraneo a cui niuno ardiva accostarsi, e ne approfittava onde uscire e rientrare a suo senno nel castello: il che non eseguiva che in casi importanti, mal volendo qualche fiata essere scorto da taluno; così, comunque pur fossero guardate le mura e le porte, per esso riuscivano mai sempre libere come aveva a Ginevra narrato Gabriella. Questa singolare persona vestiva calzoni di una foggia particolare, a color nero, e rannodati al confine del piede; talvolta portava un mantello e un cappello a larghe falde, e tal altra un guarnello con cappuccio, da cui le sue guancie sporgenti e gli occhi da gufo ricevevano uno stravagante risalto. Petraccio era stato introdotto nascostamente da Gabriella nelle camere delle figlie di Bernabò: imperocchè ella amava ad ogni patto che Ginevra abbandonasse quel malinconico e segreto affanno che la opprimeva, od almeno desiderava scoprirne la vera cagione. Quindi avea caldamente raccomandato all’aríolo che tutte ponesse in opera le arti sue a fine di alleviarla, o dir le sapesse qual fosse l’origine del suo secreto dolore: l’aríolo, che sempre compiaceva a Gabriella, siccome quella che usavagli di molte cortesie, assunse con tutta premura tale impegno. Entrato in quelle camere, diè principio al narrare istorie scherzose, che vivamente ricrearono Damigella, la quale pendeva ammaliata dalla voce strana di lui, da’ suoi gesti, dagli sguardi ed atteggiamenti variati del volto, non che dalla verità e vivezza delle sue descrizioni. Col racconto delle sue fiabe guadagnossi pure, a grado a grado, l’attenzione della vecchia Geltrude, e finalmente s’accorse che anche Ginevra porgeva orecchio a’ suoi detti, per cui, mutata insensibilmente maniera di narrativa, parlò d’amori, di sventure, e fece quadri di avvenimenti diversi, sino a che venne ad un racconto che parve destare in Ginevra il più vivo interessamento: arguì tosto che le cose ch’ei diceva fossero le più conformi a’ sentimenti da cui era quella fanciulla travagliata, e perciò su quelle insistendo, iscoprì dagli affetti che si pingevano variamente sul di lei viso, e dalle mozze parole che involontarie ella pronunciava, la qualità delle idee che fitte le stavano nel pensiero. Allora quando Enzel pose termine a’ suoi racconti, e si partì dalle stanze delle figlie di Bernabò, erasi già seco stesso assicurato che gli affanni di Ginevra procedevano da una segreta fiamma d’amore, e che l’oggetto de’ suoi pensieri si trovava da molto tempo da lei discosto fra le venture dell’armi. Diessi quindi con arte a ricercare fra i vecchi servi di Bernabò, se pur taluno serbasse memoria delle persone che frequentavano la casa di Donnina de’ Porri, e così rintracciare qualche filo a guidarlo alla conoscenza dell’amante di Ginevra; ma le sue ricerche furono vane. I servi erano a que’ tempi sì umilmente suggetti a’ loro padroni, che se questi fossero stati persone principesche, dir si potevano più tosto schiavi che domestici; eseguendo esattamente quanto veniva loro imposto, si tenevano a tale distanza dai loro signori, che ne ignoravano le segrete relazioni, o conoscendole non ardivano palesarle. Enzel uscì dal castello, e meditando la scoperta in cui s’era impegnato, si pose in traccia d’un altro aríolo il quale era stato lungo tempo a Milano, e tutti sapea gli avvenimenti delle persone di corte di Bernabò; nè lo rinvenendo, si diresse ver la casa di Mandellone a cui quasi tutti recavansi o per sollazzo o per passaggio, onde quell’ostiere gli additasse ove potea rintracciarlo. Attraversata l’Adda sulla zattera, a pena pose piede nell’isola, apparve maravigliato in veggendo fra quelle piante due bellissimi cavalli ir pascolando: si avanzò, e vide alla porta della capanna Mandellone e sua figlia, e dall’un canto starsi un estranio in abito da scudiere. Giuntogli vicino, l’oste il conobbe ben tosto, e facendogli gran festa si volse allo scudiere, che quello si era di Palamede, dicendogli: «Signor scudiere, questi è Enzel Petraccio aríolo, il quale è stato in paesi più in là di tutte le montagne le cento miglia: e’ sa tutto, e va per tutto senza neppure il soccorso dello spirito maligno. Standosi qui, ei sa vedere le cose che avvengono a Milano così chiare siccom’io dalla sponda veggo un temolo nel fiume.» Lo scudiere squadrollo più volte, indi sorrise, facendosi beffe della figura di questo singolare personaggio; e ciò si era perchè non gli garbava l’annunzio della costui onniscienza, poichè temeva non isvelasse le molte menzogne che, per farsi tenere in conto di guerriero valoroso, egli avea narrate all’oste ed alla di lui figlia: quindi si persuase facilmente che quanto di costui gli avea detto Mandellone, proveniva dalla di lui ignoranza, della quale ei stimavasi scevro siccome soldato ed uom di ventura. Chiamò quindi per ischerno ad Enzel se sapea che facesse in quel momento il boia di Milano: e questi, fisandolo con occhi grifagni, rispose all’istante che stava sulla piazza di Santa Tecla frustando uno scudiere poltrone. Diede a tale risposta Mandellone uno scroscio di risa, che intese da qual dente fosse morso lo scudiere; ma questi si irritò fieramente, e volendo ad ogni patto porre a terra la vantata scienza dell’aríolo, e beffarlo alla presenza dell’oste istesso e di Maria, gli fece gran numero di dimande sulla posizione e singularità di moltissimi paesi, certo di coglierlo in fallo, e così schernirnelo acremente. Ma Enzel rispose a tutto, narrando le più minute particolarità de’ luoghi pe’ quali aveva viaggiato lo stesso scudiero, per cui questi, udendo che l’aríolo tanto sapea, e che d’altronde non lo smentiva, prese gradatamente interesse al parlare di lui, ed andava ripetendo, secondo i nomi delle terre che Enzel rammentava, le guerre e le avventure a cui era stato colà presente; ed aggiungeva molti fatti del valore del cavaliere che egli aveva ovunque seguito, non poco esagerando per vanità la di lui e la propria bravura. Quando Enzel si vide amicato lo scudiere, pel campo che gli porse a darsi vanto presso Mandellone e Maria di uomo famoso nell’armi, imperocchè quegli zotici prestavano piena fede a ciò che lo scudiere diceva a motivo che l’aríolo stesso sembrava e crederlo e confirmarlo, a lui rivolto disse: «Valoroso voi siete, e intrepido è il cavaliero che avete seguito, ed i suoi fatti onorano la nobile sua patria. — Oh al certo (rispose lo scudiere) Palamede de’ Bianchi sta fra i più prodi cavalieri di Milano; alla corte di Bernabò veniva stimato de’ più leggiadri di volto, e valorosi di braccio: egli diè prove stupende colla spada e la lancia ne’ tornei di Verona, ma più che in altri luoghi nel campo de’ Veneziani.» Quando Enzel intese che il signore di quello scudiere era un cavalier di Milano stato alla corte del Visconte, e che tornava da lontane guerre, gli nacque dubbio improvviso, potesse essere quel cavaliere l’amante di Ginevra: per cui si raccolse un instante; indi sorridendo guardò in viso allo scudiere, e gli disse: «Quante dame e ricche figlie di potenti signori avranno desiderato che il valoroso cavaliere vestisse il loro colore, facendolo trionfare nelle giostre e ne’ tornei?» «Molti sguardi (riprese lo scudiero) e molte soavi parole erano a lui dirette; ma egli è ammaliato da una ciarpa che porta sempre sul petto, e da un nome che proferisce sovente, per cui quanto io mi curava di mostrarmi innamorato di tutte le belle figlie dei guardiani di castelli e delle damigelle che sfuggivano un istante sull’imbrunire agli sguardi delle loro gelose signore, altrettanto il mio cavaliere era riservato nel trattare con queste. Nè nei tanti castelli e palagi ove abbiamo albergato, mai un marito, entrando secretamente nelle sale della sua donna che con Palamede conversasse, colse questi in qualche atto per cui si sguainassero spade o pugnali. Ed io potrei far sacramento, che persino in Venezia stessa, che è la città dell’allegria e degli amori, tutte le lusinghe delle leggiadre e libere patrizie cadevano al nome di Ginevra. — Al nome di Ginevra,» ripetè ad alta voce l’aríolo, la pelle bruna del cui volto, raggrinzandosi, espresse un riso di trionfo; ma poscia accostatosi allo scudiere, e posandogli sulle spalle una mano, gli disse sommesso: «Credevate voi ch’io m’ignorassi che il cavaliere de’ Bianchi ama Ginevra la bella, figlia di Donnina de’ Porri e di Bernabò, e che ne va con pari ardore corrisposto? Conosco la storia degli amori di Palamede, come vedo in cuore alla figlia di Mandellone tutto l’affetto che ella sente pel di lui gentile scudiere.» La lusingata vanità di costui, che non gli lasciò scorgere quanto era facile l’avvedersi dai lunghi sguardi che a lui porgeva, e dall’interessamento con cui tutte Maria ne raccoglieva le parole, ch’ella era di lui innamorata, e l’avere udito l’aríolo nominare i parenti di Ginevra, che egli credeva che a sì rustica persona esser dovesse affatto incognita, produssero in esso lui tale meraviglia, che diessi a credere con tutta certezza ciò che di Enzel gli avea Mandellone narrato. Quindi gli fece grandi interrogazioni, da cui seppe lo scaltro aríolo schermirsi per non iscemare l’opinione che si aveva acquistata, pago in suo cuore d’aver quanto ei cercava rinvenuto. Non sapea però Enzel rendere a sè stesso ragione della causa per cui lo scudiere si trovasse solo coi cavalli nell’isola di Mandellone; si volse all’oste dopo aver entro sè stesso pensato, e disse: «Chi detto avrebbe, o Mandellone, che l’erba del tuo prato, la quale non è brucata che dalle mule dei mercanti, o dalle rozze del priore di Caravaggio, dovesse essere mangiata da due sì bei destrieri? — E sì, rispose l’oste, che ne hanno già mangiata più d’un fascio, e non so se tutta basterà, perchè il cavaliere si è cacciato con un falso monaco insieme al Tencio e gli amici dentro il bosco: e il motivo di ciò non puoi saperlo che tu, che tutto sai; per me lascio lor fare quanto vogliono, perchè mi hanno tinta la mano col giallo dell’oro. Ma ho sospetto da certe parole che intesi pronunciare da quel frate e dal cavaliere sul castello di Trezzo, che si voglia ricondurre alla selva quel vecchio cignale di Bernabò, che il signor Giovan Galeazzo ha fatto rinchiudere nel castello. — Segreta è la tana del cervo (rispose l’aríolo assumendo un’aria misteriosa); ma le sue corna non giungeranno innosservate presso le porte di cui vegliano a difesa le spade e le alabarde.» E in così dire si accomiatò da Mandellone, che invano gli offerse una buona misura di vino brianzolo, e trasportato da Trado colla zattera, attraversò l’Adda, salì la sponda, penetrò nel bosco della strada di Concesa, e venne sin presso al tempio, che era quella stanza de’ ladri detta _la tana del cervo_. Colà si ascose fra le piante spiando, e vide in leggiera armatura uscirne dalla porta un giovane di belle forme, che si diede pensoso a passeggiare. Esaminollo attentamente, e vedendogli una ciarpa azzurra ritenne ch’ei fosse, siccom’era di fatto, Palamede; ma senza lasciarsi da lui scorgere, a pena ebbesi fitto in mente la sua imagine, chetamente ritirossi, e lieto di quanto avea scoperto rientrò nel castello. Ginevra, nella cui anima gli artificiosi racconti di Enzel avevano reso più intenso il fuoco che la consumava, non seppe più a lungo resistere al desiderio di chiedere a costui, ove si trovasse il cavaliero oggetto de’ suoi sospiri, e se a lei sarebbe dato ancora una volta di rivederlo: poichè si era di già persuasa che vero fosse che l’aríolo conoscesse anche le cose che di lontano accadevano, non che i futuri avvenimenti, siccome la avea accertata Gabriella. Attese un istante in cui sola trovossi con questa, e le palesò che ella bramava avere una conferenza coll’aríolo. Nulla potea riuscir più gradito alla moglie del castellano che una tale richiesta, perchè alfine era sicura di penetrare la causa de’ secreti affanni che angosciavano Ginevra. Discese ella, e trovato Enzel che stava meditando una storia la quale contenesse tutto ciò che egli aveva scoperto per narrarla alla figlia di Donnina, ne lo avvertì che seco lei salisse nelle camere di Ginevra. Era sull’ora del declinare del sole, e dal verone, le cui colorite vetriate stavano aperte, penetrava viva e serena la luce entro una camera ornata nella volta da arabeschi dorati; un ricco drappo cremisino a fiori d’argento ne vestiva le pareti, intorno alla sommità delle quali, in larga zona orlata da gotici fregi, vedevansi rappresentate le nozze di Bernabò con Regina della Scala. Nel mezzo della camera un liuto, che parea coperto da una sottilissima rete di madreperle ed oro, stava appeso con verde nastro ad un leggío di legno prezioso, intagliato elegantemente a fogliami, sul quale era stesa una pergamena coperta di note musicali, e sulla cui sommità posavano libri con ricche coperte ed aurei fermagli. Sola, mesta, e tutta in un pensiero raccolta, stava colà Ginevra adagiata sovra un sedile, sul cui appoggio, che serbava le forme d’un drago d’oro alato, posava il destro braccio, su quello colla persona languidamente abbandonandosi. Cheto e quasi di soppiatto fu l’aríolo colà da Gabriella condotto, la quale tosto si ritrasse, recandosi a favellar con Geltrude e Damigella onde tenerle occupate. L’aríolo scoprisi il capo, e rivoltosi con modo rispettoso a Ginevra, animando il viso e dando cert’aria solenne di profetica ispirazione alla sua voce, le disse: «Fate cuore, o leggiadra figlia di Donnina, e ridonate il sereno alla vostra candida fronte, perchè io ho consultati i segreti vuoti dell’aria, abitati dagli spiriti invisibili, ho meditato sul soffio de’ venti, ed i segni formidabili delle nubi e dei lampi, e le potenze misteriose si sono accordate nel pronosticare un fortunato passaggio di pianeti sul vostro capo. Dall’oriente si levò un’aura che riposava da molto tempo, per disperdere le nebbie che si addensavano intorno a voi. — Che dici mai? (rispose Ginevra) è egli vero che è surta un’aura d’oriente che mi deve liberare dagli affanni che mi circondano? Oh soffii, soffii con forza quell’aura in questo cuore; la mia felicità da colà solo mi deve ritornare.... o dalla Vergine, che mi accoglierà nel suo grembo, quando avrò espiate le mie colpe. Ma ora mi spiega tu, cui sono palesi i profondi arcani e le cose ignote, che vuol egli significare il sollevarsi di quest’aura orientale? — Quest’aura a me significa (Enzel riprese) che un cavaliero cui cinge il petto una ciarpa azzurra, dopo essersi fatto acclamare fra i più prodi in campo chiuso ed aperto, ritorna valoroso alla nobile donzella, il cui nome fu sempre sulle sue labbra e l’imagine dentro il cuore.» Una gioia vivissima apparve a queste parole nello sguardo e nel viso di Ginevra. «Rieda (ella esclamò) il cavaliere a chi con tanti e lunghi sospiri ne ha incessantemente invocato il ritorno; ma come rivederlo (proseguì ella ricadendo nella usata mestizia) se io son chiusa fra le custodite mura di questo castello, cui nessuno può ardire appressarsi?» Enzel le si accostò, fisolla in volto; poscia girando lo sguardo per la camera onde assecurarsi che le sue parole non erano da altri intese, le disse sommesso: «Datemi fede di eseguire ciò che vi dirò, ed io vi giuro per le tre punte del fulmine, che fra pochissimo tempo vi mostrerò il cavaliero che amate.» Ineseguibile parve sulle prime così fatta promessa a Ginevra; e sebbene ella ardentemente lo bramasse, e avesse fede eziandio nel potere dell’aríolo, tanti erano gli ostacoli che la sua mente le depinse opporsi a sì fatto disegno, che le sembrò impossibil cosa il mandarlo ad effetto, e temette un istante non volesse l’aríolo prepararle un inganno; ma trasportata dal pensiero della gioia che avrebbe provato se la promessa dell’aríolo si fosse avverata, non volle affatto dubitare di lui, ma pensò previamente assicurarsi di sua scienza con prove maggiori. Chiese quindi all’aríolo il nome del cavaliere e le di lui forme, non che i paesi dove avea guerreggiato; e dimandogli ove ella lo avesse conosciuto, da quanto tempo essi si amavano, e molte altre circostanze della loro affettuosa corrispondenza. Ed Enzel a ciò che avea saputo dallo scudiero satisfece con precisione: a tutte le altre domande rispose involgendo i concetti in oscure parole, e frammezzandoli colla narrativa di quei fatti che sono indivisibili da simigliante passione; per lo che tanto persuase la mente di lei, che le si affidò intieramente, e sicura che l’aríolo avrebbe condotto a lei davanti Palamede, gli promise di far tutto ciò che a quest’uopo fosse per imporle. La notte istessa di quel giorno in cui l’aríolo ebbe sì fatto colloquio con Ginevra, si recò alla _tana del cervo_, ove trovando Palamede dormiente sui gradini dell’ara, lo condusse a traverso al bosco sino sotto al verone di Ginevra, e colà lasciandolo, dopo averlo ammonito di ciò che avesse a fare, penetrò pel sotterraneo nel castello, e salì inosservato nelle camere di Ginevra, recando l’involto che racchiudeva la lettera col nastro, che Palamede invano cercò dal Tencio far consegnare all’amante. Quando Ginevra vide Enzel entrare da lei a quell’ora, fra il palpito della speranza e del timor di un inganno, gli chiese se ei veniva ad adempiere la promessa che le aveva giurata. Enzel, senza rispondere alla sua inchiesta, svolse il nastro che rannodava il foglio, e glielo presentò, certo che Ginevra l’avrebbe riconosciuto per un oggetto che apparteneva a Palamede. Non è esprimibile la maraviglia ed il trasporto con cui quella innamorata mirò, e riconobbe il nastro, che ella avea trapunto e rannodato di propria mano alla guaina della spada del suo cavaliero nel giorno di sua partenza. Ella guardò fiso l’aríolo, e poco stette nell’entusiasmo della sua gioia, se non era la sua figura troppo stravagante e brutta, ch’ella nol venerasse come un essere potente disceso dal cielo per renderla felice. Applaudivasi l’aríolo in sè stesso di cagionare tanta contentezza ad una fanciulla, il cui grado e la cui beltà la rendevano sovra ogni altra interessante; ma sollecitandolo il tempo e il timore non venisse dalle guardie scoperto Palamede, disse a Ginevra: «Io vi assicurai che vedreste il cavaliero; e voi lo vedrete. Questi oggetti saranno però inutili per accertarvi che quegli che vi si offrirà allo sguardo sia Palamede, perchè l’occhio dell’amore ne scorgerà le sembianze anche al pallido raggio della luna.» Ginevra slanciossi a questi detti avidamente verso le vetriate onde mirare a piè del castello; ma Enzel ne la impedì, dicendole che tutto tornerebbe vano s’ella non eseguiva quanto era per dirle; e le intimò si recasse nella sala del verone, ed accompagnandosi col liuto intuonasse un canto noto al cavaliero: poichè alla sola sua voce questi sarebbesi a lei fatto palese. Ginevra eseguì infatti ciò che l’aríolo le impose, e fu solo quando ebbe dato fine al canto che affacciatasi al verone scorse brillare ai raggi di luna l’armatura di un guerriero, ch’ella immantinente riconobbe essere Palamede. L’aríolo, che in quel mentre erasi posto in agguato, onde gli amanti non fossero sorpresi, udì farsi qualche rumore, benchè lieve, nel cortile del castello; ed era una scolta, che avvedutasi della presenza di un armato sotto le mura, mandò ad avvertirne Iacopo del Verme, il quale, siccome gli s’indicò, veniva per assicurarsene alle stanze di quelle fanciulle: l’aríolo, udendo l’alternare dei passi di taluno che si appressava, ritrasse Ginevra dal verone, spense il lume, e uscito rapido qual lampo rasente il muro di un andito opposto si perdette nelle lontane camere superiori. CAPITOLO V. Quel guerrier, come ardito, invitto e franco, Si volse indietro, e vide il traditore Che ferito l’avea nel lato manco, E gridò forte: O crudel peccatore, A tradimento mi desti nel fianco. PULCI. _Il Morgante._ Sebbene Palamede fosse rientrato nel bosco prima di essere scorto palesemente dagli uomini d’arme, che facevano la scolta sull’alto della bastita, e l’aríolo fosse scomparso senza essere veduto dal loro capitano, pure non era ancora surto il mattino, che già una voce erasi sparsa fra le genti del castello d’uno straordinario avvenimento, accaduto la notte sotto le mura. E siccome la prigionia di un principe che avea per tant’anni signoreggiato, non che quella dei di lui congiunti, si riguardava come un avvenimento a cui dovevano concorrere cause soprannaturali, dicevasi quindi già averlo preconizzato la comparsa di una cometa a coda sanguinea, e l’essersi, come allora divulgarono gli astrologi, congiunti i pianeti di Giove, Marte e Saturno nella casa dei Gemini; oroscopo che si credeva fatale ai principi, al che s’aggiungeva il pronostico più patente e terribile del replicato scagliarsi dei fulmini sul palazzo di Rodolfo figlio di Bernabò. Per tal guisa gli animi delle genti erano di leggieri preparati a dar fede a qualunque strana novella venisse narrata. E ciò tanto maggiormente, in quanto che sebbene Bernabò fosse da tutti come crudele e capriccioso tiranno abbominato, pure molti erano stati nella coscienza offesi dal modo con cui suo nipote Giovan Galeazzo lo aveva sorpreso e imprigionato, simulando un divoto pellegrinaggio alla Madonna del Monte presso Varese. La qual cosa a que’ tempi dava agio alle fantasie di mescere a tal fatto l’intervento di demonii, di vendette celesti, di spaventose apparizioni. Gli uomini all’incontro meno servi delle favole grossolane dai più credute, e conoscitori delle variabili ed armigere inclinazioni di che allora iva animata la plebe ed alcuni signori, non furono dal primo istante dell’imprigionamento di Bernabò senza sospetti di una rivolta a suo favore, contra il conte di Virtù. Quindi, secondo il modo che ciascuno dei militi che erano nel castello considerava nel proprio pensiero quel fatto, andava diversamente ripetendo le cose che si raccontavano avvenute la notte sotto le mura, e vi facea varie conghietture. Nei cortili del castello, nelle ampie e rozze stanze delle torri, e lungo il porticato ove stavano i soldati ripulendo le armature, gli uni andavano dicendo che si erano la notte uditi per l’aria suoni e canti di angeli, e s’era veduta una gran luce a cui stavan per entro molte persone danzanti in candide vesti: ciò che era segno di un felicissimo avvenimento. Altri sostenevano al contrario, che ad un tratto videsi ardere il bosco di Trezzo, e comparire al piè delle mura del castello un gran demonio lucente, che cantò con voce femminina per addormentare le guardie, e così divorarle; e che non vi riuscendo, si era gettato nell’Adda. Ma negli appartamenti superiori, i principali fra i caporali di lancia che si erano raccolti, con Iacopo del Verme, dal capitano Gasparo Visconti, pensarono esser potesse qualche tradimento con cui si avesse tentato sorprendere quel forte onde liberare i prigionieri, e determinarono doversi addoppiare la vigilanza, e spedire a Milano ad avvertirne Giovan Galeazzo. La novella pervenne ben tosto anche all’orecchio di Bernabò e suoi figli, non che di Donnina e di frate Leonardo. Accesi tutti dal desiderio e dalla speranza della loro liberazione, credettero esser potesse alcuno de’ loro amici e fautori di Milano, o di altra città soggetta al dominio di Bernabò, che radunata gran mano d’uomini, venisse a trarnelo da quel luogo di prigionia. Il vecchio principe per le lunghe esortazioni del frate eremita, con cui l’andava dissuadendo della vanità delle terrene grandezze, e gli infondeva in cuore, coi consigli della religione, la pazienta nelle traversie, invitandolo a sofferire quel doloroso rovescio di fortuna ad espiazione delle proprie colpe, aveva piegato l’animo a deporre ogni desiderio di grandezza e di signoria; e innanzi all’altare della Vergine avea promesso che nessun altro pensiero sulla terra lo avrebbe padroneggiato fuorchè quello di un amaro pentimento de’ suoi peccati. Appena però gli balenò allo sguardo un lampo di speranza di riprendere il potere de’ suoi vasti dominii, la brama d’impero, di vendetta e di tirannia, che avea messe radici profonde nell’omai decrepito suo cuore, si risvegliò con somma violenza, squarciando quel velo di forzata sommissione penitente a’ decreti della Provvidenza, creata più dalla necessità delle cose, dallo spavento della disgrazia e dei rimorsi, che non da vero sentimento di pietà, troppo straniero all’orgoglioso, fantastico e nella crudeltà corrotto animo di Bernabò. Quando egli ebbe udito che correa voce essere stati veduti nella notte soldati estrani aggirarsi intorno alle mura del castello, e che forte dubbiavasi fossero stati spediti per liberarlo, d’un subito i lineamenti tutti del di lui viso, piegati a mestizia ed abbattimento, furono animati dall’avanzo di quel fuoco guerriero che tanto, durante la sua vita, l’aveva agitato: quindi fieramente alzando il capo con tuono d’impero, mirando in volto a’ suoi due robusti figliuoli, e girando lo sguardo alle armature che stavano appese come trofei intorno alle pareti di quella sala, parve loro accennasse che ad ogni evento ei non sarebbesi con essi rimasto inoperoso. Rodolfo, inteso il cenno del padre, strinse colla sinistra la mano a Lodovico; e protendendo la nerboruta sua destra, assecurollo silenziosamente ch’egli ne agognava l’istante. Donnina, a cui non facevano illusione que’ vaghi racconti, ma sempre tremava che irritandosi, o insospettendosi Giovan Galeazzo non venisse inasprito il trattamento di Bernabò, e frate Leonardo del pari, a cui solo stava a cuore la di lui eterna salute, gli si fecero incontro per rattemprarne lo spirito esaltato, e Donnina gli disse: «Volesse il Cielo, che ai nostri amici di Milano avesse conceduto San Giorgio la sua lancia e il suo cavallo, che a quest’ora non sarebbevi più dentro le otto porte un solo dei militi del conte di Virtù nè de’ suoi Francesi! E potrebbe anch’essere vero quanto si va dicendo degli armati, che questa notte furono veduti tentare di sorprendere questo castello; io però credo esser questo null’altro che ciance de’ soldati, sparse fors’anco ad arte dai capitani, per tenerli in maggior vigilanza, o per trarre il vostro generoso e ardito cuore a qualche movimento, che riferito a Giovan Galeazzo aumenti verso di voi e di noi tutti l’odio ed i suoi scellerati disegni. Ond’io scongiuro voi ed i vostri valorosi figli per l’istessa vostra salute a nulla operare nè dimostrare che vaglia ad infondere sospetti in chi ci tiene qui rinchiusi, perchè non abbia la loro mano ad aggravarsi sopra di noi: e pregovi attendiate con pazienza la fine di questi mali, che se così piacerà alla Vergine sacrosanta, non saranno, siccom’io spero, di una lunga durata.» Frate Leonardo stava per avvalorare colle sue le parole di Donnina, ma Bernabò vibrò ad ambedue uno sguardo feroce, talquale e’ soleva allorachè minacciava un tremendo gastigo. «Voi, Marchesa (le disse), dovreste arrossire di consigliare in tal guisa una vile soggezione ad uomini che sino dalla infanzia trattarono le armi, e combatterono tante battaglie. Io non presto fede alcuna a’ rumori che si spandono; penso solo che grandi signori d’Italia e stranieri ebbero le mie figliuole e le loro ricche doti, che molti principi vanno a me legati di sangue, ed in Milano istessa lasciai de’ miei figli, e assai cavalieri che io ho creati nobili e doviziosi. Antonio della Scala, nipote della mia Regina, ed or signore a Verona, odia mortalmente Giovan Galeazzo; i Bresciani sono per me, e il ponte di Cassano non è difeso. Qual meraviglia che mille de’ suoi cavalieri fossero poco lungi da queste mura? Io m’ho perduto i miei castelli, i miei boschi, i miei palazzi: uso a vincere i miei nemici, guidando tanti soldati e prodi guerrieri, venni a tradimento, e da un ipocrita malvagio serrato in questo forte, e forse già pensa chiudermi nelle sue torri di Pavia a far la tormentosa quaresima. Perchè dunque tremerò nel tentar di sottrarmivi? temerò l’esporre questo capo e questo petto, invecchiati sotto il ferro, alle spade de’ militi di Galeazzo? È men dolorosa una lancia nel cuore, che questo maladetto carcere, e questi volti abborriti che comandano a chi non fu mai suggetto che a Dio.» Placato l’animo con questo sfogo del suo sdegno, si rivolse a frate Leonardo, che lo guardava con occhio pietoso, addolorato che sì profani pensieri fossero rientrati nel cuore di lui, dopo che avea protestato nella chiesa a’ suoi piedi di non nutrire altra speranza che quella del celeste perdono; ed a lui disse: «Molti gravi peccati, o Eremita, stanno sull’anima mia, ed io dovrei benedire la mano che mi percuote; ma pure penso che il Nostro Salvatore avrà misericordia di me: perchè se ho comandato punizioni di tormenti e di morte, fu il più delle volte per vendicare il sangue de’ poveri e deboli suggetti, da prepotenti signori con assassinii versato, e non ho sprezzato la giustizia quando lo spirito maligno non acciecavami la mente con violente passioni. Ho soccorso i carcerati della Mala Stalla, ordinando lor si recasse il pane giornaliero; ho arricchite le chiese ed ordinati molti divini uffizii. Concederà ella dunque la Vergine che io stia nelle mani abbominevoli di chi l’ha codardamente sprezzata?» Troncò il parlare di Bernabò, e in grave agitazione pose tutti gli animi l’annunzio della venuta colà di Gasparo Visconti; il quale, come soleva ogni giorno, recavasi a visitare il prigioniero, ed in modi cortesi, sebbene poco accetti, esibissi a soddisfarlo in qualunque cosa gli piacesse, soggiungendo così avergli imposto Giovan Galeazzo. Dai prigionieri, nè dal Visconti, nulla si accennò intorno alle notizie che si erano sparse; se non che si serbò un contegno grave più dell’usato per la speranza di vendetta nell’animo degli uni, e per sospetto di esterne intelligenze nel cuore dell’altro. Bernabò, invelenita l’anima dalla presenza di quel capitano d’armi, in cui balía si ritrovava, tosto si ritrasse alle proprie stanze, seguito da Donnina e dall’eremita. In questo frattempo le idee ed i sentimenti che si succedevano nella mente di Ginevra erano affatto opposti a quelli che colà si svolgeano. L’influenza delle avversità, della rozzezza dei tempi che teneva desto il sentimento del maraviglioso e più viva la concentrazione e l’entusiasmo delle passioni, congiunta ad una squisita sensibilità ed una viva tenerezza di affetto, aveano composto l’anima di Ginevra ad un sentimento sublime d’amore, il quale dispiegossi in lei altamente alloraquando conobbe il giovinetto Palamede de’ Bianchi, la cui leggiadria e prodezza lo rendeano stimato fra i più compiti cavalieri che vestissero armatura. Questi due amanti dovevano tosto andar congiunti coi nodi nuziali, siccome avea promesso lo stesso Bernabò allorchè li ebbe fidanzati, attendendo il ritorno di Palamede quando si fosse procacciata fama e scienza nell’armi, esercitandosi fra i guerreggianti a capitanare soldati. Ma avvenuto il disastroso mutamento di fortuna per questo principe, mentre il cavaliere era lontano, Donnina non volle abbandonare la figlia in potere di Giovan Galeazzo, dal quale potea ricevere onte e maltrattamenti: amò meglio, come le venne conceduto, di tenerla presso di sè, conducendola nel castello di Trezzo, ove venne con Bernabò rinchiusa. Immensa si fu e inesprimibile la desolazione che angosciò il cuore di quella innamorata fanciulla, cui la lontananza del cavaliero, il proprio rinchiudimento in un castello gelosamente difeso da tanti armati, l’odio che ella credette nutrir dovesse il conte di Virtù contro il cavaliero stesso, facevanla disperare non solo di possederlo giammai, ma nè pure di vederlo ancora una sola volta. Quanto straziante era stato quel dolore, altrettanto si fu viva la speranza che le destò l’aríolo, il quale detto le avea di condurle innanzi l’amante, per il che gli si fe’ ardente sopra ogni dire il trasporto di rivederlo. Ed appena ebbe posato su di lui lo sguardo, benchè per un istante, più non tremò per la sua vita, chè fra i combattimenti poteva esserle ad ogni momento rapita: sapea che egli le era vicino, e a questo solo pensiero, come se la luce divenuta più viva e il cielo reso più sereno avessero dissipate spaventose tenebre, tutto si era fatto ridente a lei dintorno. Ella teneva fra le mani quel nastro e quel foglio scritto col sangue di Palamede, che le aveva recato l’aríolo; ed ora il premea sul cuore, or sulle labbra, e nella piena della sua gioia si prostrava innanzi ad una imagine della Vergine, che stava nella sua camera dipinta, e la ringraziava con un sentimento il più vivo di riconoscenza, da lei ripetendo l’adempimento di quel suo ardentissimo voto. Invocava poi ch’ella le rischiarasse la mente, quando letto lo scritto di Palamede, dopo averne a prima giunta assecondata colla imaginazione la richiesta, nacquele vivo contrasto e tema di darvi esecuzione; poichè, sebbene s’applaudisse dell’amore che per lui sentiva, essendogli stata solennemente fidanzata, nè per la innocenza de’ suoi pensieri, e la riservatezza divota che negli atti e nelle parole avea sempre seco lei usato Palamede, ombra di colpa ravvisasse in un colloquio da sola con lui, pure l’idea di sottrarsi nascostamente a Geltrude, e venir di notte per anditi sconosciuti nella cappella dei morti onde parlargli, le infondeva nell’animo un palpito che aumentava la sua naturale timidità. Nella tenzone de’ suoi affetti, dopo aver ricorso alla Vergine, ella rivolgeva il pensiero all’aríolo, confidando nella di lui sapienza per avere una retta guida in questa circostanza da lui stesso preparata; quando appunto lo vide entrare cautamente nella propria stanza, ove approfittando della di lei sorpresa, assunto un far grave, e voce repressa e interrotta, le disse che il suo amante sarebbe stato inevitabilmente dalle guardie del castello condotto a mal fine. Atterrita Ginevra gli dimandò in qual modo si fosse scoperta la venuta del cavaliero sotto il di lei verone, e se corresse pericolo che egli venisse sorpreso. «I demonii (riprese l’aríolo) sono entrati in corpo degli uomini d’arme e del loro capitano: questi fan loro immaginare di vedere fuoco, spiriti, nemici intorno alle mura, e pare che l’inferno s’abbia a scatenare per venir costà. Duplicarono le sentinelle sugli spaldi e presso le porte, e dall’alto delle torri, due soldati posti in vedetta debbono render conto per sino delle cornacchie e degli sparvieri che vedranno levarsi a volo da tutti i boschi dintorno. Temono che i Milanesi vengano a prendersi Bernabò. Guai se un guerriero si accostasse un tiro d’arco o di pietra a questi baluardi! avesse egli l’acciaio della armatura incantato con cento spergiuri e segni diabolici, verrebbe d’un subito traforato e schiacciato come debile insetto. — O santa Vergine (esclamò Ginevra cui tutta invase un terrore profondo), chi salverà Palamede? Chi lo terrà lontano da questa castello in cui esso tenterà forse questa stessa notte di penetrare? Deh per pietà, corri, vola, trovalo: fa colle tue arti che egli non s’accosti a queste mura; digli che si allontani rapidamente, che l’ira del conte di Virtù contra di noi si calmerà; digli infine che io invoco con tutto il fervore ogni giorno dal cielo la nostra unione, ed ho ferma speranza che i nostri voti saranno esauditi.» Stupì grandemente l’aríolo a queste parole: «E come sapete voi (le disse con passione) che Palamede tenterà questa notte di qui penetrare, ed in qual guisa porlo ad effetto? — In qual modo, l’ignoro (soggiunse Ginevra); ma che egli debba trovarsi nella vicina notte in questo castello, lo ha scritto egli stesso in questo foglio, che tu mi hai recato.» Prese tosto l’aríolo quel foglio, e rapidamente leggendolo, non poca si fu la sua maraviglia nel ritrovare ivi descritti esattamente gli anditi e le camere che conducevano dalle stanze di Ginevra alla chiesa e nella cappella dei morti. Non sì tosto ebbe letto quel foglio, che bene scoprì la causa per cui il cavaliero si era ritirato nel bosco coi ladri, e non esitò a credere che uno di costoro gli doveva servire di guida in sì fatta impresa. Ignorando però egli affatto che esistesse un sotterraneo il quale dall’Adda conducesse alla cappella, altri non conoscendone che quello antico per la torre nera di Barbarossa, mal sapeva concepire in qual maniera il cavaliero sarebbe colà pervenuto. Meditando però fra sè, e richiamandosi alcuni racconti per lui intesi di rumori uditisi per quelle parti, non che di gente scomparsa da luoghi ignoti, nacquegli sospetto che ivi pur anco esistesse sotterranea via per la quale di certo avea Palamede divisato di penetrare in castello. Se le voci sparsesi quella mattina e la raddoppiata vigilanza nelle guardie non lo avessero intimorito di qualche danno, egli non avrebbe esitato a secondare questo tentativo premeditato dal cavaliere, che potea ridonar pace a quella fanciulla, per la quale un po’ di vanità e una segreta simpatía che le avea ispirato in veggendola, lo aveano mosso a vivamente interessarsi. Ma riflettendo alla gelosia con cui era il castello difeso, pensò essere più vantaggioso per lui e per quelli amanti il dissuaderli da tale disegno; e quindi rivolto a Ginevra: «Signora (le disse), se le mie arti bastassero ad addormentare tutti questi soldati, o a renderli di sasso per una notte intera, mi adoprerei con tutto l’impegno per farlo, affinchè voi possiate liberamente trattenervi con Palamede; ma ciò è a me impossibile, ed a lui pericoloso, mentre nessun vivente potrebbe approssimarsi impunito a queste mura. Ubbidirò quindi a’ vostri cenni, ed andrò ad avvertirlo, perchè rapidamente si allontani da questi luoghi. — Prendi (rispose Ginevra staccandosi il fermaglio d’oro a forma di croce greca, contornato di perle e gemme, col quale rannodavasi al petto un nastro trapunto d’argento, che servendogli di cintura ricadea colle estremità lungo la veste; e raggruppatosi intorno il nastro, consegnò il fermaglio ad Enzel): Prendi (proseguì) questa croce che mi donò mia zia Matilde, quando io era fanciulletta, nel suo convento di Sant’Agnese, e che sempre ho portata sovra di me perchè possiede una mirabile virtù: consegnala a Palamede, e digli che quando vedrà queste perle annerirsi, ed impallidire i diamanti, s’abbia per certo ch’io mi muoio. Preghi egli allora il Signore onde mi raccolga in pace là dove io lo starò attendendo; ma lo assecura che sin che dureranno candidissime le perle, e lucenti i diamanti, serberassi del pari intatto nel mio animo l’amore ardentissimo che per lui nutro, e la brama irresistibile di esser sua per sempre.» Tosto che la fanciulla ebbe pronunciate queste parole, ed Enzel, riposto per entro i panni quel prezioso fermaglio, si disponeva a partire, udissi un veloce mutar di pedate di persona che si appressava a quella stanza. Presi ambedue da instantaneo timore, mal sapendo chi si fosse, si racquetarono in veggendo Gabriella, la quale entrando precipitosa colà si volse all’aríolo e: «Presto (tutta ansante gridò) spiega, metti in campo tutte le tue arti, i tuoi poteri; chiama gli spirti, le nubi che ti portino lontano mille miglia, perchè se non voli come un falco, o non ti profondi come una vipera sotto terra, non ti rimangono tre minuti di vita.» Il viso dell’aríolo a queste parole divenne cinericcio pel pallore, ed i suoi occhi, fattisi protuberanti, girarono spaventati intorno, e con voce tremante disse: «Perchè mai una tal cosa? Che è egli avvenuto? — E tu, che tutto sai, lo ignori? (riprese con maraviglia Gabriella). Non sai tu dunque che Tignacca, caporale di lancia, il quale conduceva la scolta alla guardia del ponte, ha detto di averti veduto entrare nella torre nera di Barbarossa, ed uscirne al momento dell’apparizione dei demonii, intorno alle mura, e che dopo attraversato il parco sei entrato nel gran cortile del castello? e non sai che per questo ed altre voci che si sparsero delle tue arti, i soldati credono che tu con sortilegi e magia evocasti in questo luogo gli spiriti infernali per liberare Bernabò; e per tal motivo frugano per tutti i nascondigli del castello onde ritrovarti, ed hanno già preparata un’ampia catasta di vecchie legna nel parco per gettarti ad arrostire, onde vedere tutti i diavoli uscire dalla tua bocca. E buon per te che fosti in queste camere, mentre non vennero qui pel rispetto che fu loro imposto per queste fanciulle; ma da un istante all’altro alcuno de’ più arditi potrebbe salire quassù, perchè ti stanno sulla traccia con tutta la foga. E tu ignoravi questo imminente pericolo? Vola, ti dico, celati rapidamente, chè non hai un momento da perdere.» Il coraggio, che l’aríolo aveva affatto perduto quando intese che il parco era guardato dai soldati, riuscendogli in tal modo impossibile lo uscire pel sotterraneo della torre, ritornò in lui colla usata freddezza di spirito e ardimento ne’ perigli, quando il suo sguardo cadde sulla lettera di Palamede che stava sopra una tavola innanzi a Ginevra: il suo volto si ricompose, cessò il tremito delle sue membra, si allacciò più strettamente una cintura di pelle intorno alla persona; e mentre fuori si udiva Geltrude in alterco con uomini di voce aspra e minacciosa, ed il gridar con ispavento di Damigella, Enzel promise a Ginevra, la quale era quasi dal terrore tramortita, che si sarebbero riveduti; assicuratosi in fronte il cappello, spalancò le imposte di una finestra che da quella camera mirava in un corridoio, e attaccatosi colla destra alla colonnetta che dividevala in due archi acuti, spiccato un salto, l’attraversò allontanandosi a rapidi e leggieri passi. Mentre tali cose avvenivano nel castello di Trezzo, nell’asilo de’ ladri dentro al bosco componevasi un nero tradimento, che doveva costar la vita a Palamede. Aldobrado, a cui il mal esito del progetto di penetrar nel castello aveagli tolta ogni speranza di compire uno scellerato disegno contro il cavaliere, che s’avea nutrito sino dal primo istante che a lui suggerì quell’impresa, meditò in suo segreto un altro mezzo onde riuscire egualmente a quello scopo. Abituato ai delitti ed alle uccisioni che commetteva impunemente qual sicario di Bernabò, la rea anima di costui determinavasi ad un assassinio, benchè minimo fosse l’interesse che gliene poteva scaturire. Profugo da Milano, ove avrebbe pagato il fio di tanti misfatti, travisatosi in abito fratesco, egli s’era proposto di vagare in cerca di qualche forte truppa di banditi, per farsi con loro ad assalire e depredare villaggi e baronie. L’oro e gli osceni piaceri ch’egli si gustava anche con mani fumanti di sangue, costituivano i soli diletti di Aldobrado, il quale in pochi anni era stato carnefice, spia di guerra, soldato e cortigiano quando scontrò Palamede nell’isola di Mandellone, e rilevò come questi avesse con sè molti fiorini d’oro, gli vide una ricca armatura, ed intese che ad ogni costo volea favellare alla bella prigioniera del forte di Trezzo, egli pensò tosto alla strada sotterranea che conduceva alla cappella dei morti nella chiesa del castello, e suggerigli i mezzi di penetrarvi, non già per favorire ai desiderii del cavaliere, ma perchè in quella via tenebrosa e segreta, piena di rivolte e di perigli, e nota esattamente a lui solo, poteva agevolmente impossessarsi e dell’amante e dell’oro di Palamede, che con un colpo del proprio stilo trafiggeva, e quivi lasciava celato. A questo fine, trovandosi da solo nella tana del cervo col Brescianino, mentre Palamede passeggiava pel bosco, e il Tencio e il Carbonaio erano usciti, aveva tentato di guadagnarlo a sè, e facilmente ne venne a capo colla promessa di molto oro, e di condurlo seco in lontani paesi. A questi però non isvolse la trama che avea disposto; gli impose soltanto che entrando nel sotterraneo del castello non gli si scostasse giammai dal fianco, e stesse pronto ad eseguire alla cieca e arditamente ciò che gli avrebbe ordinato, badando principalmente che se gli avesse affidato una donna, le impedisse, per qualunque causa si fosse, emissioni di grida, turandole, se occorreva, la bocca co’ proprii lini. Ito a vuoto un tale disegno per causa che il Tencio non potè far pervenire nel castello il foglio di Palamede, e questi stabilì irremovibilmente di partire da quel bosco al mattino seguente, Aldobrado, cui sempre ardeva il desiderio dell’oro del cavaliero, non depose il pensiero di rapirglielo. Quando sul far della sera Palamede uscì dalla fontana sotto terra, onde passar la notte nel tempio, pensò di lasciarlo addormentare, e silenziosamente sbucare dal sotterraneo, e ovunque si trovasse, assalirlo e spogliarlo. Infatti lasciò si avanzasse la notte, e già stava per eseguire tale progetto, allorchè intese nel tempio un lieve rumore di pedate: stette cheto credendo si fosse Palamede risvegliato; ma all’incontro era Enzel, sconosciuto al cavaliere, il quale colà era venuto per condurlo sotto il verone di Ginevra. Udì quel traditore l’uscir che fece il cavaliere dal tempio, ma pensò fosse causa l’interna agitazione che nol lasciava riposare, e non disperò che sarebbesi racquetato. Infatti dopo molto tempo, non ascoltando più moto alcuno, uscì chetissimamente dalla tana, ma non lo scorgendo nel tempio, venne all’incerto lume di luna nel bosco, e qual fu la sua meraviglia in vederlo avanzarsi fra le piante colla fiaccola nella destra! Palamede appena lo vide, ebbro di gioia pel canto e per la vista dell’amata fanciulla, tutto a lui narrò, dello sconosciuto che lo aveva destato e condotto al castello, e del cantar di Ginevra, e del foglio a lei mandato, e di ciò che lo sconosciuto gli aveva detto, cioè di non partirsi di colà sino a che non lo avesse riveduto. Questo intervento di uno sconosciuto andò per nulla a sangue ad Aldobrado, che temeva potesse attraversare i suoi perfidi disegni. Quindi fingendosi lietissimo di questa avventura, rallegrossene con Palamede; ma in suo cuore pensò di ucciderlo al primo momento che all’uopo gli si presentasse. Intanto i ladri, udendo rumore, osservarono dagli spiatoi; e non vedendo che i loro ospiti, uscirono tosto dalla fontana. Palamede allora disse che avrebbe quel giorno sicuramente dimorato ancora con essi; e per ciò quando spuntò il mattino, il Tencio e il Carbonaio se ne partirono per recarsi ne’ vicini contadi a procurarsi le provvigioni. Aldobrado e Palamede si trattennero lunga pezza ragionando con maraviglia del chi potesse essere quella ignota persona comparsa con tanto mistero in quel luogo, e come mai fosse consapevole de’ di lui amori con Ginevra, e in qual modo tenesse seco lei relazione, serrata siccom’era in un castello sì custodito. Dopo avere a lungo favellato, Aldobrado domandò a Palamede se il corsaletto d’acciaio che vestiva non gli dasse noia pel caldo ardente che il sole già alto spandeva intorno. Il cavaliere rispose che sì; e disse di volersene spogliare, poichè sembravagli inutile tale arnese in sito tanto remoto. Aldobrado, a tale risposta, si offerse tosto a sfibbiargli le piastre delle reni; ma Palamede, che era uso addossarlo e levarlo sempre da sè, non glielo permise; e solo il pregò gli slacciasse dagli spallacci i bracciali: per cui dovendogli Aldobrado rimanere sempre da lato, gli fu impossible eseguire il suo reo disegno; oltre che il cavaliere proseguiva a ragionare cogli occhi ver lui rivolti: il che non sarebbe avvenuto standogli alle reni, dove appena slacciato il corsaletto poteva inosservato, siccom’era suo pensiere, trarre il pugnale e infiggerglielo nella nuca o nella schiena. Più cupida e più ostinata fece in quel traditore la smania di togliere al cavaliere la vita e la fallita speranza del colpo in quel momento, e il vedere fra i lini sul petto di lui una collana di smeraldi e crisoliti, a cui certamente stava unita qualche santa reliquia, e la cintura di pelle che correvagli intorno a’ fianchi, ch’ei si pensò, come era difatti, carca di molt’oro. Aggravasi quindi a lui dintorno intento, inquieto, spiandone i movimenti come un lupo alla preda; ma siccome Palamede si era ricinta la spada, non si azzardava di scagliarsegli addosso, persuaso che se il colpo mancava, egli era morto. Ma in quel mentre tutto allegrossi lo scellerato avendo udito dal cavaliere ch’egli bramava colà riposare all’ombra di quelle piante, poichè sentivasi assalito da un sonno prepotente; ed infatti ricolto il corsaletto, se lo acconciò per guanciale, e adagiossi. Affinchè nella perfetta solitudine più celeremente e con più agio egli si addormentasse, pensò Aldobrado di ritrarsi, ed attendere col Brescianino, il quale stava entro il sotterraneo disponendo qualche refezione, e di cui avrebbe abbisognato allo svegliarsi del cavaliere. Disceso nella fontana, si assise sul masso a piè del quale era sepolto Guandaleone; e fissando in volto il Brescianino, che stava arrotando sull’orlo della vasca della fontana il suo stocco, volse nel pensiero il dubbio se avesse o no ad associarlo nel fatto che era per commettere: e si risolvette di farlo, perchè questi poteva accorgersene, mentre egli lo eseguiva, e sturbarnelo; e perchè di tal guisa avrebbe avuto un compagno di cui giovarsi in avvenire, e che era in sua balía il togliersi d’intorno quando il volesse. Appena concepito tale divisamento, si alzò, prese al ladro una mano, e stringendola gli disse: «Brescianino, la tua sorte è fatta: tu puoi essere ricco quanto un castellano, e non temer più nè sgherri nè ruota. E ciò con far null’altro che trapassare con quello stocco la gola ad un uomo che dorme. — E chi sarà costui? (rispose sorpreso da tale proposta il Brescianino) — È quel cavaliere (proseguì Aldobrado) che venne con noi dall’isola di Mandellone; egli è stato questa notte al Castello di Trezzo, ed attende qui alcune persone, sicuramente per tradirci e farci prendere ed appiccare. Egli ha sopra di sè molti danari; ed è il più bel colpo che tu possa fare, e di cui ti avanza tutta la vita onde pentirtene, racquistandoti il cielo. Andiamcene, egli è addormentato sul limitare del bosco fuori di questa tana: non incontreremo alcun pericolo nell’assalirlo.» Detto questo, Aldobrado colla mano sull’impugnatura dello stilo, il Brescianino brandendo lo stocco, salirono queti queti i gradini della scala del sotterraneo: venuti nel tempio, Aldobrado si affacciò cautamente alla porta, e vide Palamede che giaceva sotto le piante immerso in profondo sonno; lo additò al Brescianino: quindi assicuratosi, porgendo orecchio, che realmente il suo sonno era greve, s’avanzarono verso di lui a passi lenti e dubbiosi, soffermandosi ad ogn’istante: sino a che giuntigli sopra, Aldobrado, tratto il pugnale, glielo appuntò al cuore, e il Brescianino lo stocco alla gola, quando una voce improvvisa e stridente dal bosco gridò: «Svégliati, svégliati, Palamede!» Indietreggiarono un passo a tal voce improvvisa; e Palamede, sull’istante risvegliato, mirando intorno a sè que’ due colle armi, balzò d’un salto in piedi ponendo mano alla spada. Il Brescianino, che gli era più da presso, e che teneva lo stocco ancora a lui rivolto, pensando, se tardava a fuggire o difendersi, essere perduto, gli si slanciò alla vita, vibrandogli la punta al petto; ma nol colpì che nel braccio sinistro, con cui sosteneva la guaina della spada; colla quale tosto cacciatoglisi contro ne ribattè due colpi, ed al terzo gliela conficcò nel petto trabalzandolo a terra insanguinato. Aldobrado, al rapido rialzarsi di Palamede, si era velocemente ritratto dietro un albero, onde la persona che avea gridato nol sorprendesse; ma non iscorgendo alcuno, e vedendo il Brescianino alle prese col cavaliero, slanciossi egli pure contro di esso per ferirlo da un fianco; e se un momento di più durava la zuffa col ladro, Palamede veniva trafitto; ma invece ei menò tosto un fendente ad Aldobrado, gridandogli: «Vile assassino, pagherai colla vita il tradimento.» Ma Aldobrado si schermì d’un salto; e gettatosi nel bosco, sparve fuggendo a tutto corso. Palamede non l’inseguì; ma si arrestò trasognato per quell’inatteso avvenimento, e mirava al suo braccio ferito che grondava, e al ladro che boccheggiava spirando steso al suolo, immerso nel proprio sangue. Risuonavagli tuttora all’orecchio quella voce che desto lo aveva, e voce parevagli non ignota; mal però valeva a concepire quale di tutto ciò fosse stata la causa. Ad un tratto, uscendo dal bosco, si appresentò a lui un uomo che tosto dal volto e dai panni riconobbe per quello stesso che gli era apparso nella notte; e si accorse che la voce che avea gridato era appunto quella di costui. Era infatti Enzel l’aríolo, il quale sfuggito dal castello pel sotterraneo della cappella de’ morti alla ricerca dei soldati, si era cacciato nel bosco per venire in traccia di lui, siccome avea promesso a Ginevra; ed era giunto a veduta di Palamede, nel momento che questi stava per cader vittima degli scellerati. Siccome non teneva armi di sorta, osato non aveva di uscire all’aperto per difenderlo, per non essere anch’egli ucciso se il cavaliere succombeva. Palamede, a lui rivolto, disse: «Chiunque tu sii, che certo mi sembri inviato da un mio santo protettore, io a te debbo la vita: dimmi quindi se ho a venerarti come un amico dei celesti, o premiarti con oro, o cosa io debba fare perte; ma spiegami, te ne scongiuro, come tu mai avesti di me conoscenza e di Ginevra, e per qual motivo volevano costui, che ho ucciso, ed Aldobrado togliermi la vita, e in qual modo tu mi hai salvato.» «Cavaliero (rispose l’aríolo), ora non è tempo da dirvi tutte queste cose; pensate a riparare la ferita del vostro braccio, ed a partire tosto da questi malaugurati luoghi, ricovero di assassini; ritornate all’isola di Mandellone, riprendete il vostro cavallo, ed avviatevi alla volta di Milano, ove io verrò seco voi, e vi narrerò cose che vi riusciranno di sommo aggradimento.» E in così dire, accostatosi a Palamede, gli fasciò il braccio con una benda che tolse d’addosso al Brescianino che era già affatto morto; si armò collo stocco di questo; e addossatosi il corsaletto d’acciaio che Palamede a causa della ferita non potea rivestire, si pose frettolosamente sul sentiero che guidava alla strada di Concesa. CAPITOLO VI. Indi partimmo, e senza più riposo Lambro passammo per trovar Milano; Nè non ne fue per lo cammino ascoso Veder Cassano, Monza e Marignano. . . . . . . . . . . . . . . Dimmi, diss’io, per cui si apre e serra Questa città che vive sì felice Con fede, con giustizia e senza guerra. FAZIO, _Dittamondo_. «Chi non cangerebbe il convito del più fastoso principe d’Italia con questo insipido pezzo di lepre, per avere il piacere, mangiando, di fissare lo sguardo ne’ due occhi più belli che il signore abbia infissi sotto la candida fronte d’una sua creatura?» Così, divorandosi il fianco d’un leprotto abbrustolito sulle bragie, favellava lo scudiero di Palamede alla bella figlia di Mandellone, che stava ritta innanzi alla pietra che a lui serviva di desco. Egli aveva astutamente voluto farsi disporre il pranzo sul margine dell’isola, all’ombra d’un gruppo di piante, ond’essere discosto dall’ostiere, che, occupato in altre faccende, era costretto mandare la figlia a recargli quelle poche mal condite vivande che gli apprestava; e lo scudiero approfittava di questi momenti per amoreggiar con Maria, ch’era essa pure innamorata di lui, e sulla quale in ogni altro istante il sospettoso Mandellone invigilava gelosamente. «T’avvicina, bella Maria (proseguiva lo scudiero, prendendole una mano, mentre ella tutta arrossendo a lui s’accostava), riempi tu stessa questa tazza di vino: poichè io ho giurato di non beverne una goccia, fossi anche sulle sabbie della Palestina, se tu prima non ne assorbi un sorso con que’ tuoi labbruzzi più rossi del sangue di tutti i guerrieri che io ho ammazzati.» Maria s’accostò, sorridendo, quella tazza alla bocca; e resala allo scudiere, questi se la tracannò d’un fiato. «Eh, che vernaccia! che vin greco! (esclamò). Qui, qui dentro stanno tutti i sapori. Ah! Maria, la tua bocca ha trasfuso in quel vino il fuoco o il veleno. Per pietà siedi qui su questo sasso vicino a me; sta preparata a soccorrermi, perchè io sento un ardore circolarmi per le vene che tutto m’abbrucia.» La semplice Maria, dal timore, dall’ansia amorosa, dall’agitazione, dalla forza delle braccia di lui fu costretta a sedersi; allora lo scudiero serrando ambedue le mani di lei fra le sue: «Tu non sai (le disse) quante dame e principesse, le più ricche e belle donne del mondo, hanno sospirato per me; ma io sempre resistetti alle loro attrattive. Tu, tu sola, o Maria, con que’ tuoi occhi vivissimi, che mi han penetrato il fondo del cuore, mi hai vinto, ed acceso di un fuoco violento a cui non posso resistere. Io voglio farmi tuo cavaliere, condurti nelle più grandi città, darti palazzi, ricchezze, tutto ciò che potrai desiderare; ma....» Gli occhi di lui sfavillanti, il rosseggiare delle sue guancie, il moto inquieto della sua persona e delle sue braccia misero gran paura a Maria; che, rialzatasi, faceva forza per divincolarsi da lui; e la lotta ineguale sarebbe durata a lungo se un fischio che s’intese dalla sponda dell’Adda, facendo venire Mandellone a quella volta, non vi avesse posto fine. Lo scudiero lasciò Maria, che fuggì verso la capanna, ed ei si recò indispettito verso la riva onde vedere chi fosse che sì a contrattempo per lui veniva a passare il fiume. Agli atti replicati di rispetto che faceva Mandellone, alla diligenza con cui accostò alla sponda la zattera, e porse mano al passeggiero a salirvi, lo scudiero riconobbe in questo il suo signore; e nell’altro che lo seguiva, quell’aríolo con cui aveva il giorno avanti ragionato: corse perciò anch’esso al luogo dello sbarco a riceverli, mostrando tutta la premura e il contento di rivedere il cavaliere. Appena questo fu a terra, gli chiese dove fosse il suo cavallo; e lo scudiero rispondendogli ch’era dall’altro lato dell’isola che stava col suo proprio pascolando, gli impose di condurli tosto presso la capanna per sellarli e porli in arnese onde partire immediatamente. L’oste gli aveva preceduti, e stava affaccendato chiamando Trado e Maria, comandando loro ad alta voce che disponessero deschi, tondi, tazze per servire il cavaliero; ma questi, sopraggiunto coll’aríolo, disse che null’altro gli abbisognava fuorchè un vaso di fresca acqua, e pregò Maria gli arrecasse de’ lini ed un nastro; sedutosi poscia sopra un sasso, sentendosi gravemente addolorato il braccio a causa della ferita, ch’era profonda, se lo dispogliò dei panni. L’oste e la figlia, che gli si fecero dintorno, mentre Enzel era andato in cerca di erbe, rimasero attoniti allo scorgere il suo braccio ravvolto in una benda tutta intrisa di sangue. Mandellone, cui aveva recato sorpresa la mutata compagnia con che vide ritornare il cavaliero, pensò a quella vista, ed all’abbattimento che scorse a lui in volto, che loro fosse accaduta qualche mala ventura; ma nulla nè chiese, nè disse; e porse mano a Maria, che lo veniva con gran cautela sfasciando. Tramandava la piaga nuovo sangue ancora su quello che le stava intorno aggrumato: essi gliela lavarono; e allorchè fu ripulita, ritornò Enzel recando un fascetto di erbe e fiori, fra cui ne scelse alcuni, che tritò, pose in un vaso, e pestili a gran forza, ne versò poscia il succo a varie gocce nella ferita; quindi vi sovrappose altre erbe fresche; e ravvolto entro bianco lino il braccio, glielo cinse d’un nastro. Subito dopo questa medicazione, fosse la freschezza dell’acqua con cui fu lavata la ferita, o qualche naturale virtù delle erbe, Palamede disse di non provare quasi più dolore alcuno, per cui potè rivestire gli abiti che indossava la prima volta che venne nell’isola; e quell’immediato giovamento ridondò a grande onore dell’aríolo, poichè si attribuì alla di lui sapienza nella scelta delle erbe, ed al suo potere di renderle salubri. Avendo lo scudiero condotti colà i cavalli, loro riposti gli arcioni e gli altri arnesi, Palamede trasse alcune monete d’oro, e le diede a Mandellone, il quale appunto, colla speranza di riceverle, venía porgendogli tutti i voti per la di lui prosperità e la speranza di rivederlo; ed appena ebbe quel denaro nelle mani, facevan contrasto visibilissimo sul suo volto la contentezza di possederlo, e l’afflizione esagerata che forzavasi di dimostrare per la partenza e la ferita del cavaliero. Non così Maria, i cui occhi si gonfiarono di lagrime allorchè vide lo Scudiero avviarsi al fiume guidando a mano i due cavalli, preceduto dal suo signore, dall’oste e dall’aríolo; quando furono saliti sulla zattera, e che lo scudiero, fissandola, sorridendo la salutò della mano, ella diede in uno scoppio di pianto, pel quale tutti a lei si rivolsero, ed ella si tolse dalla sponda, nascosto il viso nel grembiale, ritirandosi alla capanna. Superata l’erta riva dell’Adda, Palamede e lo scudiero salirono i loro destrieri; e l’aríolo veniva camminando dietro al cavaliero, il quale tratteneva il cavallo, ardente di slanciarsi in corsa, ad un lento passo, a causa che la picciola strada su cui viaggiavano, essendo al margine dell’erta sponda del fiume, era piena di scoscendimenti. Dopo poca via il cavaliero, bramosissimo di favellare con quell’uomo per lui misterioso, che avevagli resi sì segnalati servigi, chiamollo al proprio fianco, e gli chiese instantemente chi egli mai si fosse, e in qual modo avesse conoscenza di lui e di Ginevra. «Chi io mi sia (rispose Enzel), nulla vi gioverebbe il conoscerlo: quindi null’altro vi dirò di me, se non che mi chiamo Enzel Petraccio l’aríolo, che già da varii anni abitava il castello di Trezzo, d’onde non sarei ora sloggiato se non mi fossi fitta in capo la voglia di veder rasserenato il volto della bella Ginevra, su cui mi sembrava che troppo ingiustamente regnasse la tristezza cagionata dalla prigionia. Conducendo voi a questo fine sotto il di lei verone, mi posi a pericolo d’essere arrostito come un mago alleato dell’inferno; ma mi sottrassi a tempo dalle unghie de’ soldati, e giunsi a voi vicino nel vero momento in cui la mia venuta vi valse la vita. Per lo che se voi mi accorderete la vostra protezione, sono contentissimo di aver abbandonato quel castello. — Non dubitare, o Enzel (a lui rispose Palamede): poichè ti debbo la vita, dovessi perderla per giovarti, non mi vedrai punto esitare; ma ora vorrei sapere, se Ginevra stessa ti appalesò qual fosse la causa della sua tristezza, e come mai tu giungesti a scoprire che io mi trovava entro quel bosco coi ladri. L’aríolo, a lui rispondendo, non gli spiegò il modo vero ingegnoso con cui venne a capo di tale scoperta; ma usando parole artificiose e stravaganti, il lasciò sospettare ch’egli possedesse arti secrete, ma naturali, con cui senza il soccorso di spiriti maligni conosceva gli avvenimenti ignoti; poscia gli manifestò che Ginevra nutriva per lui un amore sempre ardentissimo; gli narrò tutto ciò ch’ella faceva nel castello, e come veniva per ordine del capitano rispettosamente trattata; finalmente, ripetendogli gli ultimi discorsi ch’ella gli aveva tenuti: «Che ciò che io vi narro sia la verità, aggiunse, e che la vostra Ginevra abbia piena fidanza in me, ve lo provi questo gioiello maraviglioso ch’ella mi diede ond’io a voi lo consegnassi.» E così parlando si trasse dal di sotto dell’abito quel prezioso fermaglio che aveagli dato Ginevra, e lo porse a Palamede. Questi lo riconobbe all’istante, perchè tante volte ne avea vedute brillare le gemme sul petto a Ginevra, quand’ella, collocata fra varie nobili giovanette nelle sale o ne’ tempii, attraeva i suoi sguardi, che posando su di lei incessantemente, avevano imparato a distinguerne i più minuti ornamenti. Mentre egli avidamente contemplava questo prezioso dono, l’aríolo gli ridisse quel portentoso potere di cui gli avea narrato Ginevra essere dotato: cioè di appalesare, coll’impallidirsi delle perle e l’annerirsi de’ diamanti, il momento della morte di chi glielo donava; e con tutta l’eloquenza gli descrisse l’ardore col quale ella aveva pronunciata la promessa d’essergli costante sino agli estremi della vita. Il cuore di Palamede s’intenerì profondamente alle di lui parole, ed un trasporto d’amore trasse sull’occhio del guerriero una stilla di pianto, che cadde su quella croce, sacro pegno del più puro affetto. Le ruinose mura del castello di Vaprio si appresentarono a capo della strada; il giorno s’avanzava; e il cavaliere, riposto il gioiello, e calmata l’agitazione soave del cuore, propose all’aríolo di salire in groppa al cavallo dello scudiero, chè in tal modo avrebbero fatto più rapido cammino. Ciò fece infatti l’aríolo; e messisi sulla strada di Vaprio, che era assai più della prima restaurata, posero i cavalli a buon trotto. Il canale che porta il nome di Naviglio della Martesana, il quale, uscendo dall’Adda poco al di sotto di Trezzo, corre dirittamente sino a Groppello, indi volgendosi a ponente discende a Milano, giovando colle abbondanti sue acque al commercio ed all’irrigazione, e che ora s’incontra circa alla metà della strada fra Vaprio e Gorgonzola, non era stato a que’ tempi scavato, per cui la via s’allungava fra terreni incolti, sparsi qua e là di qualche rustico e miserabile casolare. Arrivarono que’ viaggiatori a Gorgonzola, che loro s’indicò da lungi colla sua bruna torre, entro cui era stato rinchiuso nel 1245 Enzo figliuolo dell’imperador Federigo, il quale, fatto prigioniero da’ Milanesi, venne reso in cambio dell’intrepido Simon da Locarno. Passarono quel borgo, che portava ancora in alcune devastate case i segni della terribil lotta fra i Torriani ed i Visconti colà consumata. Attraversata la Molgora, pervennero, dopo un bel tratto di cammino, al Lambro, dove, pagato il pedaggio per passarne il ponte, entrarono in Carsenzago. Ben lungi allora dal fare lieta mostra di se, siccome ora avviene a causa degli ameni e gentili casini disposti lungo il naviglio che lo fiancheggia, Carsenzago non era in que’ tempi che un villaggio di rozzi abituri rusticali e di edifici cinti da grosse mura a foggia d’altrettanti piccioli castelli, ne’ quali albergavano i ricchi del contado. Fermarono i cavalli que’ viatori vicino alla chiesa di quella terra presso la canonica, che era un convento di Sant’Agostino; ed essendone uscito un monaco, Palamede lo richiese se vi si trovasse ancora frate Baldizone Scaccabarozzo. «Voi mi chiedete del nostro abbate (rispose il monaco): ecco ch’egli a noi sen viene.» Balzò da sella il cavaliere, ed accorse ad un vegeto e venerando vecchio, che era l’abbate suo zio, il quale ver lui si avanzava; in atto umile gli prese la mano, e la baciò. Frate Baldizone riconobbe il nipote; e pieno di gioia per il di lui ritorno, se lo strinse affettuosamente al seno; e voleva a forza che, riposti i cavalli, sì lui che i due che lo seguivano pernottassero nel convento; ma Palamede insistendo di voler giungere a Milano, il frate l’obbligò a prendere almeno un reficiamento: il che venne accettato, con gran giubilo dello scudiero, cui dava maggior pensiero la fame che la memoria dell’abbandonata Maria. Levati i freni ai cavalli, che si lasciarono nel cortile del monastero a pascer l’erba, vennero gli ospiti condotti a capo d’un lungo porticato entro una sala prossima al refettorio, dove in un istante, per ordine dell’abbate, dai frati serventi fu imbandita una mensa. Mentre Palamede si ristorava coi cibi, frate Baldizone, sedutoglisi di prospetto, dopo averlo richiesto de’ suoi viaggi e delle sue venture: «Senti, figliuol mio (gli andava dicendo), tu ritorni in una città in cui la dimora è assai pericolosa e per la vita temporale e per l’eterna. Per la temporale, perchè, come avrai inteso, pel recente cambiamento di principe gli odii e le vendette hanno ora un libero campo; e quantunque valoroso di braccio, o potresti essere a tradimento offeso, o dal signore dello stato, per ingiustizia, fatto prendere e mal versare; dell’eterna corri pericolo, non già per i molti vizii che infestano quelle mura, per la licenziosa e corrotta vita de’ signori fra cui tu abiterai, chè di ciò ti guarderanno i riserbati e saggi tuoi costumi, ma bensì per le massime perverse che si vanno spargendole che qual veleno sottilissimo s’insinuano nella mente, corrompono lo spirito, e lo portano all’eterna perdizione. Queste massime, di cui ti parlo, sono quelle de’ Ghibellini, sacrileghi disprezzatori degli ordini del pontificato, contro cui van cercando d’armare tutte le città d’Italia ed anche i principi lontani. Ti guarda da loro siccome da serpi insidiosissime.» Palamede, che era in cuor suo Ghibellino, perchè nutrito alla corte dei Visconti, che, sempre in guerra con Roma, favorivano le parti ad essa nemiche in Firenze, in Parma, in Bologna, e più nella loro propria città, rispose con un cenno di capo ai consigli dello zio, che, essendogli noto qual ardente Guelfo, non osava contraddire. «Tu non avrai di certo sopra di te (proseguì l’abbate) un salvacondotto di Giovan Galeazzo; e siccome fosti amico di Bernabò, io ti consiglio a non entrare in Milano nè da Porta Renza, nè dalla Tosa, nè dalla Nuova, specialmente avvicinandosi la sera, ma ci entrerai dalla Pusterla Brera del Guercio[12]; ove, se t’avvenisse contrasto alcuno, potrai farti giovare dal padre Lanfranco Guinicelli, detto il Guelfo Bolognese, priore del colà vicino convento di San Marco del nostro ordine degli Agostiniani. Io ti darò per lui un foglio, ed a quello potrai aver ricorso in qualsiasi traversia, ch’egli ti gioverà co’ suoi santi consigli e coll’oro, e troverai entro le mura del suo convento un inviolabile asilo.» Terminate queste parole, chiamò un frate, e gli bisbigliò qualche motto all’orecchio: questi tosto si ritrasse; e Baldizone fece invito a Palamede di salire nella parte superiore del convento, onde vedere e venerare la camera in cui avea dormito la notte dei dieci maggio 1251 il papa Innocenzo quarto. Due frati li precedettero per i schiudere e spalancare alcune massiccie porte; e il cavaliero seguito dall’abbate entrò in una vecchia camera, assai meno delle altre ornata, che accusava l’antica povertà del convento a raffronto della sua allor vigente prosperità. Entro quella camera stava un letto con grossolane cortine, e pochi altri mobili mezzo rosi dal tarlo. I frati s’abbassarono ginocchioni, e baciarono le cortine di quel letto e l’inginocchiatoio che gli stava a fianco, sul quale il papa aveva fatte le sue serali e mattutine preghiere; e Palamede fu costretto a far lo stesso. Uscendo da quella camera, l’abbate indicò a Palamede le mura del vicino spedale da poco tempo da loro stessi riedificato ed ingrandito. Quando furono a piè delle scale, quel frate a cui Baldizone avea parlato, gli si presentò con una pergamena scritta in latino, su cui l’abbate impresse il sigillo nella cera, che a tal uopo vi stava distesa; e arrotolatala, la consegnò al cavaliero, dicendogli essere la lettera per frate Lanfranco di San Marco. Il cavaliero la ripose, porgendogliene vive grazie; ordinò allo scudiero di allestire i cavalli, abbracciò lo zio; e salito in arcione, uscì, seguito dagli altri due, dalla porta del convento. Lasciato Carsenzago, pervennero rapidamente a Gorla, e poco dopo questo villaggio cominciarono a discernere fra le piante alcuni campanili di Milano. Già forte batteva a quella vista il cuore a Palamede; e tutto l’indomabile amor di patria invadendolo, con dolcissimo palpito il commoveva nell’imo petto: se non che sorse crudelmente ad amareggiare quella contentezza il pensiero della lontananza di Ginevra, e l’idea dei tanti ostacoli ed umiliazioni che dovea affrontare onde giungere a farla sua; nè dall’ondeggiamento doloroso di timori e speranze, che forte l’assalì, valse a distrarlo l’ampia vista che al cominciar d’una diritta via a lui si offerse, delle torri, delle cupole, delle mura di Milano. Immerso in tristi pensieri, là dove avea sperato non risentir che gioia, rallentò il moto del proprio cavallo; e procedendo verso la città, deviò sulla destra dalla strada maggiore che entrava per Porta Renza, dirigendosi per un viottolo al sobborgo di San Marco, onde entrare nella città dalla pusterla Brera del Guercio, come lo zio gli aveva detto di fare. Non era allora Milano compreso entro lo spazioso giro di mura in cui ai nostri giorni si trova. Quest’ampia e ricca città, regina d’una fra le più belle parti d’Italia, la Lombardia, in mezzo alle cui feconde pianure s’innalza maestosa, era antichissimamente villaggio degli Etruschi; andò d’età in età ampliandosi a cerchii concentrici, ed ai nostri tempi la vediamo ciascun giorno ripulirsi dalla ruggine de’ barbari secoli, e gareggiare colle più cospicue d’Europa per l’eleganza delle sue vie, de’ suoi palagi, de’ templi, de’ teatri, de’ pubblici monumenti. Ammasso di capanne di pastori allorchè l’Insubria era abitata da’ suoi primi popoli, prese Milano, siccome d’età in età se ne sparse la storia, il nome e la forma di città, sei secoli circa avanti l’era nostra, da una colonia di Galli Senoni, che condotti dal loro capo Belloveso valicarono le Alpi, scacciarono gli Etruschi, e si fecero abitatori di questa florida terra. Quattrocento anni dopo, la Romana repubblica, che già potente dispiegava le grandi ali del suo dominio, essendo consoli Gneo Cornelio Scipione e Marco Marcello, vinse e s’impossessò di tutto il paese fra il Po e le Alpi, il quale venne chiamato col nome di Gallia cisalpina. Milano allora divenne sede d’un presidio romano. Non offrendo questa nè per coltura nè per scienze, arti o ricchezze, attrattive a quei dominatori del mondo, non figura nella loro storia che a causa d’un tratto di spirito di Giulio Cesare, che dona risalto alla semplicità della vita e de’ costumi di quei cittadini che veniano dai corrotti Romani derisi. Sebbene però quasi pel corso di cinque secoli fosse tenuta in nessun conto, essendo in questo tempo la Gallia cisalpina stata compresa nelle provincie d’Italia, Milano, divenuta città romana, ebbe qualche maggior decoro; e vuolsi fosse allora per la prima volta cinta di mura, le quali comprendevano uno spazio assai angusto a fronte del vasto cerchio entro cui attualmente si stende; e si può dire che la città d’allora non fosse che il nucleo di ciò che dovea col tempo diventare. Designando i luoghi coi nomi che presero dopo lunga età, si ha fondamento di credere che quelle mura passassero nel sito ove ora stanno San Giovanni in Conca, Sant’Ambrogio alla Palla, San Maurilio, le Meraviglie, la Scala, l’Agnello, San Fedele, e di là si ricongiungessero con una linea poco eccentrica. L’innocenza e la bontà dei costumi degli abitanti, la semplicità del loro vitto, delle vesti e di ogni abitudine della vita, la rozza e semplice forma degli edifizii, de’ templi, delle mura durarono in Milano fino a tanto che i Germani, superate le Alpi, incominciarono nel terzo secolo dell’era a molestare colle scorrerie l’impero. I romani imperatori, ond’essere più pronti alla difesa de’ confini che i Barbari tentavano violare, portarono la loro sede in questa capitale dell’Insubria, recando seco loro il lusso e la magnificenza, e fecero di Milano una seconda Roma. Massimiano Erculeo sul finire del terzo secolo, dopo avere abbellite Cartagine e Nicomedia, venuto in questa città, si diede ad ornarla con opere grandiose. Fu per ordine di lui che nuove fortissime mura, erette con grossi massi e munite di distanza in distanza di quadrate torri, cinsero Milano con un giro assai più vasto del primo. Nove furono le porte aperte in quelle mura; ed a ciascuna di esse corrispondeva un quadrivio, cioè uno spazio in cui concorrevano molte strade, un solo dei quali ritenne fino a’ dì nostri quel nome sotto il corrotto vocabolo di Carrobbio, che sta ove aprivasi in allora la Porta Ticinese. Le altre si erano la Porta Erculea, che trovavasi al terminare dell’ora contrada degli Amedei; la Romana, che era al cominciare del Corso presso la contrada della Maddalena; la Tonsa, al finir di San Zeno; l’Argentea, detta Renza od Orientale, al Leone; la Nuova, presso San Francesco di Paola; la Comasina, a San Marcellino presso la contrada del Lauro; la Giovia, al terminare di San Vicenzino; e la Vercellina, detta, come si vuole, di Venere, a Santa Maria alla Porta. Oltre queste mura, Milano fu in que’ tempi decorata d’un circo, d’un teatro, di varii palazzi imperiali, di molti tempii, fra i quali magnifico era quello di Ercole fuori della Porta Ticinese, la cui grandezza ci è ancora attestata da un avanzo delle colonne del peristilio, che stanno presso San Lorenzo. Ebbe monumenti ed archi di trionfo, il più celebrato de’ quali fu l’Arco Romano, che era una gran torre quadrata sostenuta da quattro immani pilastri, ornata di trofei, e formante una gran porta trionfale che esisteva ove ora trovasi il Ponte di Porta Romana. Durante tutto il quarto secolo Milano gareggiò con Roma, e la vinse in fasto ed in potenza; ma al finire di quello s’ecclissò la gloria della nostra città, per non risorgere che dopo una lunga serie di anni. I destini del mondo stavano per cangiarsi. Torrenti di Barbari piombati sul colosso dell’impero di Roma lo crollarono affatto, e immersero l’Europa nelle guerre, nelle superstizioni, nell’ignoranza profonda. Sola, in tanto naufragio, una nuova religione, la cristiana, prosperava ed ergeva vittoriosa l’emblema di un divino sagrificio sugli altari dell’abborrito politeismo. Milano accolse la nuova dottrina allorchè essa era ancora in fiore; e l’importanza delle sue ecclesiastiche dignità fu pari a quella delle politiche. Ai vescovi metropolitani di Milano furono suggette tutte le città da Coira a Genova, da Brescia a Torino. Questo potere dei vescovi milanesi salvò in varie epoche la città dallo sterminio totale, e le ridonò un grado di splendore fra le città italiane. Il primo colpo funesto fu recato a Milano da Attila, che, guidando gli Uni nel 452, assediò, vinse e pose la città a ferro e fuoco; mal ristorata ancora da questa offesa, nel 539 fu da Uraia, condottiero de’ Goti, riconquistata; e così acerbamente, come a lui dettava l’amore della vendetta, trattata, che più non apparve che quale ammasso desolato di ruine. Quasi tutti i monumenti della passata grandezza perirono sotto il gotico ferro, e appena ne rimasero i nomi. I Longobardi, fattisi sovrani dell’alta Italia, cui diedero il loro nome, si rifiutarono di soggiornare in una città per gran parte distrutta; e scelta per loro sede reale Pavia, Milano venne posta nel numero delle minori città. Cinque secoli bastarono appena per ricomporre sugli atterrati avanzi di Milano, capitale dell’Insubria e residenza dei romani imperatori, una città longobardica, senz’ordine nella distribuzione, e con forma o gotica o affatto barbara negli edifizii, con poche chiese del gusto di que’ tempi, sparsi qua e là di spazii non riedificati, che divennero campi coltivati, detti Broli, Brere e Pasquari. I soli vescovi, che presero titolo d’arcivescovi, tenendo una corte cardinalizia, mantenendo con pompa la loro dignità, che dura stabile fra il continuo cangiare del politico dominio, divennero poco a poco quasi principi; e il popolo più a loro obbediva, che ai duchi e ai conti che qui sedevano governatori pei Longobardi e pei Franchi. Agli arcivescovi si deggiono molti ristauri ed erezioni di edifizii; specialmente ad Ansperto di Biassonno cui va ascritto l’ingrandimento della città dal lato di Porta Vercellina. Guerre intestine ed esterne per frivole cause, ribellioni, sottomissioni, furono i fatti dei Milanesi sino verso il mille; nella qual epoca, sottrattisi al dominio degli Imperatori di Germania, si eressero in repubblica, che durò sino al 1162, nel qual anno furono vinti da Federico Primo Barbarossa, che presa la città la fece per la terza volta distruggere, non in modo però, come fu scritto, che tutte le chiese e gli edifizii venissero pareggiati al suolo, poichè varii fabbriccati costruiti anteriormente a quel tempo sussistono ancora a’ nostri giorni. Dopo replicate battaglie, stabilitasi la pace, i Milanesi rientrarono nella loro città; e la ricostrussero, tenendola dentro il giro di fortificazioni che aveano fatto contro Federigo, le quali consistevano in una gran fossa ed un terrapieno, detto allora Terraggio, che cingeva la città nella linea stessa su cui corre attualmente il Naviglio; e così stette sinchè nel 1330 Azzone Visconti, signore di Milano, fece dare a quel terrapieno la forma di mura, e fece costruire massicce porte munite di ponti levatoi, di stanze per le guardie, e di sarasinesche che pesantemente le chiudevano. Varie di quelle porte furono atterrate a’ dì nostri per abbellire la città, ma alcune ne esistono ancora presso i ponti del Naviglio. Dentro questo giro di mura stava Milano quando Palamede collo Scudiero e l’Aríolo, dopo aver fiancheggiato il baluardo che divideva dalla città il convento e la chiesa di San Marco, arrivarono alla pusterla detta Brera del Guercio. Sebbene i cavalli, passando sul ponte levatoio, ne facessero rimbombare del suono delle ferrate spranghe la volta della porta, il portinaio, o si trovasse lontano, o negligentasse d’uscire per assicurarsi se erano cittadini o stranieri, loro non si presentò, ed essi procedettero innanzi. Già la sera s’avanzava, e appena gli ultimi raggi del crepuscolo vedeansi leggiermente rischiarare i tetti delle alte case e le sommità dei bruni campanili e delle chiese: pochi passi dentro la pusterla, a sinistra folte piante, avanzo dell’antica Brera, cingevano il piccolo convento degli Umiliati, che stava ove ora s’innalza il palazzo delle scienze ed arti; più avanti si apriva la contrada, che s’internava ristretta fra alte case, le cui sporgenti tettoie ne aumentavano l’oscurità, ed offriva in quell’ora più l’aspetto di un sotterraneo che d’una via cittadinesca. In quella strada, preceduti dall’aríolo, posero i cavalli Palamede e lo scudiero, rallentandone il passo, perchè essa era, come tutte le altre di Milano, piena di inciampi e di buche, e nella notte pericolosissima. Non iscorgevasi luce alcuna, fuorchè quella di qualche rado lume che vedevasi trasparire qua e là dalle vetriate delle finestre di alcune elevate case; poche persone, di cui non si scorgeva che in nero la forma, vedevansi entrare ora in una, ora in altra delle porte che erano per la maggior parte già chiuse. Al terminare della contrada di Brera la strada s’allargava innanzi ad un monastero che era detto la Casa delle Umiliate di Blasonno; poscia restringevasi tosto alla chiesa di San Silvestro e continuava così ristretta sino a Santa Maria della Scala, che Palamede stupì di scorgere innalzata, non essendosene, quand’egli partì, che poste le fondamenta per ordine di Regina della Scala moglie di Bernabò. Passata la Scala, entrarono in un viottolo che passava per mezzo alle ampie ruine delle case dei Torriani, che da settant’anni e più stavano ammucchiate là dove surse e si trova tuttora San Giovanni alle Case Rotte: proseguendo il cammino lungo il muro della chiesa di San Fedele vennero nella contrada di San Raffaello, una delle sei chiese che contornavano il tempio di Santa Maria Maggiore Iemale, la quale occupava una parte dello spazio su cui un anno dopo dovea innalzarsi il grandioso Duomo; e lasciata alla sinistra questa chiesa, ed alla destra Santa Tecla che le stava di fronte, giunsero al palagio del marchese Azzo Liprando. Serrata ne era cautamente la porta, cui ricopriva una lastra di ferro cesellata; e l’aríolo coll’impugnatura dello stocco battendovi ripetutamente, per ordine di Palamede, ne trasse un rumor forte. A quelle busse s’affacciò il portiere ad uno spiatoio, e addomandò chi fosse; «Sono Palamede (disse il cavaliero); non mi riconosci, o Gottardo?» Gottardo il riconobbe, e corse colle grosse chiavi a disserrare la porta e spalancare i battenti. Al cigolar di questi, al calpestio de’ cavalli sul lastricato del cortile, tutti gli abitanti della casa furono in moto: in un istante la novella dell’arrivo di Palamede vi si sparse; molti doppieri risplendettero sulle scale e sulle finestre. Leone e Guido, figli del marchese Azzo, discesero rapidamente all’incontro del cavaliero che amavano più che fratello, e si precipitarono l’uno nelle braccia dell’altro. Dopo lunghi amplessi, Palamede, salendo le scale fra loro e le altre persone della casa, entrò nella sala ove l’attendevano Azzo colla moglie Ricciarda, che l’abbracciarono teneramente, ed Adelaide loro figlia, la quale arrossendo ricevette e gli porse sulla fronte un fraterno bacio. Al primo sfogo di un’affezione viva e sincera succedette uno scambio d’inchieste e di risposte, ed uno interessarsi a vicenda delle disavventure e delle prosperità, che avrebbe protratto quel conversare troppo a lungo, se non fosse stato interrotto da Ricciarda, che consigliò Palamede a ritrarsi al riposo, di cui già da molto tempo abbisognava, e che in quella notte a causa della ferita, della cui doglia si risentiva, e dell’agitazione dell’animo, ardentemente bramava. CAPITOLO VII. La bellicosa ampia Milan di lieti Inni eccheggia, e di cantici devoti. Splendon del maggior tempio le pareti Per cento fiammeggianti auree lumiere. GROSSI. Allorchè Palamede schiuse gli occhi dal sonno, che avea ristorate le sue forze e recatagli la calma nel cuore, splendeva già il sole sul rustico muro che di prospetto alla finestra della sua camera chiudeva il giardino. La luce, gli addobbamenti, gli arnesi che ornavano quella stanza, destarono un’impressione vivissima nel suo spirito, che rinfrancato dal riposo si riaprì pieno di sensibilità alle tenere sensazioni. Ancora fanciulletto avea Palamede perduti entrambi i genitori. Alberto de’ Bianchi, conte di Velate, suo padre, essendo stato creato console di giustizia della città di Milano, era perito, vittima dello zelo pel pubblico bene, nella peste che desolò questa città nel 1361; e sua madre Gella Pusterla scese col marito nella tomba, uccisa dal velenoso miasma che le sue cure per lui le avevan fatto assorbire. Alberto andava congiunto in istretto parentado con Ricciarda, venuta allora a nozze col marchese Azzo Liprando, uno de’ più fidati di lui amici, per cui, vicino a spirare, fece ad essi loro consegnare l’infante Palamede, affidandogli la cura d’educarlo e d’amministrarne il ricco patrimonio. Troppo era sacra pel generoso Liprando la parola d’un moribondo amico, onde egli ne tradisse i voti usurpando gli averi, o trascurando pensatamente il suo pupillo: ciò che in que’ tempi sarebbe stato per un iniquo assai facile impresa, poichè ne porgevano agevoli mezzi e i molti chiostri, in cui racchiusi giovinetti inesperti venivano con lusinghe o spaventi forzati a vestir l’abito monacale, ed a rinunziare a doviziose sostanze, e i facili raggiri forensi in tanta confusione e assurdità di leggi, e le molte guerre, in cui se aizzato con mal consiglio un giovane guerriero rimaneva indubitatamente estinto. Azzo all’incontro tenendo sempre il giovinetto Palamede presso di se, ne coltivò con tutto il potere il mansueto animo, lo svegliato e dolce ingegno, la destrezza e la forza; e fece di lui uno de’ più compiti giovani signori di quell’età, che a tutti veniva proposto a modello di bravura nelle armi e di moderatezza e leggiadria di costume. Tante doti e il suo candido animo l’avean reso assai caro a tutte le persone di quella famiglia, dove era amato qual figlio e qual fratello, e nella cui casa, prima della sua guerriera spedizione, avea sempre dimorato. Quante aurore nella sua infanzia e ne’ primi anni della giovinezza lo avevano veduto in quella camera istessa, nella quale nulla era alterato, risvegliarsi, colmo il cuore del sentimento felice che abbella la prima esistenza, e di cui non si perde mai la rimembranza, o colla mente assorta nei pensieri della gloria dell’armi, o nella speranza e le gioie d’amore! Trapassò al cavaliero come un lampo fugace della fantasia la memoria delle sue lontane imprese, e di ogni fatto accaduto; e ripensando ai dolci momenti che prima della sua partenza egli aveva in Milano e in quella istessa casa trascorsi, immerso nel pensiero della sua Ginevra, gli sembrava che l’ora consueta battesse in cui concesso gli era vederla nel di lei palazzo; e stava in questa soave illusione, quando un rumoreggiare di turbe e gridi di _Viva Giovan Galeazzo_, _Viva il conte di Virtù_, che a lui dalla sottoposta contrada salivano, gli ridestarono con maggior vigore l’amara riflessione della realtà: onde un dolor cupo l’invase, poichè pensò al suo ed al destino della fidanzata prigioniera. Al tumultuare del popolo, ch’ora s’allentava, ora andava crescendo, si frammischiò il tintinnare delle campane delle chiese vicine e delle lontane torri. Palamede stette sulle prime in forse, fosse nata qualche sollevazione di plebe; ma distinguendo fra i suoni, a cui porse attento orecchio, il tocco grave e rimbombante della campana del gran consiglio, si persuase che dovea essere la chiamata a radunanza degli ottocento, onde stabilire qualche nuova legge o statuto: per tale fatto egli determinossi di recarsi fra il popolo, o riunirsi, secondo avrebbe dato il caso, agli uomini d’armi della sua parrocchia, di cui era uno de’ capitani, e al possedimento del qual grado tanto maggior titolo s’aveva per la fama di valoroso ed esperto acquistata nelle guerre dei Veneziani. Così operando, rifletteva fra se, gli sarebbe dato scoprire quali pensieri nutrissero i Milanesi intorno alla loro nuova signoria; e se nulla egli poteva intraprendere a favore di Bernabò, avrebbe cercato almeno di guadagnar l’animo d’alcuno fra quelli che avvicinavano il principe, onde ottenere che gli fosse conceduta in isposa Ginevra. Entrarono in questo mentre i servi nella stanza di lui ad abbigliarlo, ed egli fece chiamare Enzel Petraccio, il quale si presentò recando una fiala d’acqua ch’ei diceva portentosa, onde rimedicargli la ferita del braccio, già quasi all’intutto rimarginata. Allorchè furono i servi allontanati, «Da che proviene (disse il cavaliero all’aríolo) il gridare di popolo e suonar di campane che già da qualche tempo mi ferisce l’orecchio? — Oh! (rispose Enzel) non vi potete immaginare, signor cavaliero, qual movimento ci sia quest’oggi in Milano! da che provenga, di certo io ancora non lo potei scoprire; ma parmi da ciò che si va narrando qua e là, che sia a causa delle novità che il signor Giovan Galeazzo ha ordinate, le quali debbono riuscire molto gradite a questa gente. — Pur troppo (mormorò fra se Palamede) Bernabò lasciò largo e facile campo a chi gli successe nel dominio di farsi amare dai soggetti!... — Per tutto (proseguì l’aríolo) s’incontrano uomini e donne festeggianti e genti allegre che fanno gli evviva; per tutto veggonsi ricchezze, che sembra che l’oro e l’argento sian caduti dalle nuvole; i soldati delle porte e delle parrochie hanno pulite le loro armature e infisse le penne nei morioni; i capitani si scorgono risplendenti come soli; le tuniche nere dei signori del consiglio appaiono in ogni strada, e dicesi che l’arcivescovo, i vicarii di provvisione e il podestà s’abbiano a raccogliere nel broletto nuovo. Non vi saprei ben dire quanti forestieri trovansi ora in questa città, tanto si è il loro numero: Pavesi, Veneziani, Francesi, se ne incontrano assai. Basta ch’io vi narri che a causa della solennità di questo giorno, per sino messer Beltramo speziale avea tutta adorna la sua bottega con paramenti, quand’io v’entrai per comperar quest’acqua, segreto mirabile che possiede egli solo, e mi narrò, che deve verso il mezzodì recarsi a Sant’Ambrogio, per porsi a fianco di maestro Arnolfo capo del Paratico degli speziali, il quale ha ad assistere al gran consiglio. — Ho grand’uopo, in questo giorno, dell’opera tua (l’interruppe Palamede abbassando la voce, e dispiegandola in modo d’additargli che gli confidava un importante incarico); tu devi recarti fra il popolo, ascoltare, penetrare, interrogando ciò che si pensa di Giovan Galeazzo e Bernabò e ritenere quanto si va dicendo di questo e di quello; scoprire, se puoi, quali siano i partigiani dell’uno e dell’altro, ed isvelare se il principe prigioniero possegga ancora qualche caldo amico; devi spiare cosa sente il nuovo signore ed i suoi, de’ partigiani di Bernabò, e se contro questi si tramino sorprese o tradimenti; e fra i forestieri devi porgere orecchio per udire se qualcuno mal vegga questa usurpazione di stati, e se ne mediti vendetta: in somma cerca di scoprire i pensieri, i divisamenti del popolo, dei signori, degli estranei, per riportarmeli fedelmente, poichè tutto io mi prometto dalla fina arte tua. — Non dubitate, signor Palamede, io farò tutto quello che sarà in mio potere per compiacervi; poichè vi assicuro che tanto la vostra, quanto la felicità della signora Ginevra mi stanno veramente a cuore — Ebbene sappi (rispose Palamede a tai detti, stringendogli una mano affettuosamente), quanto io ti debbo per avermi salvo da un assassinio, sarà un nulla nella misura della mia riconoscenza a fronte di quanto meriterai da me se giungerò per tuo mezzo ad ottenere la figlia di Donnina.» Dopo queste parole, l’aríolo, fatta riverenza al cavaliero, pieno di allegrezza per la persuasione che possedeva la confidenza e l’affezione di lui, uscì aguzzando gli occhi, tutto in se raccogliendosi, torcendo il collo ed avanzandolo, come se si trovasse di già fra la moltitudine di cui dovea osservare i moti e raccogliere le parole. Palamede, preceduto da un valletto, lasciò le sue camere e recossi nella sala dove l’attendeva la famiglia di Azzo. Quivi entrato abbracciò Leone e Guido, ed a Ricciarda, che amorosamente qual madre l’accogliea, baciò con trasporto la mano. S’immaginò bentosto la cagione per cui vedeva Guido involto in una bruna zimarra col nero berretto del consiglio, e Leone vestito a tutto punto d’una armatura lucente colle piume ondeggianti sul cimiero. Stava per ritrarne, interrogandoneli, più certa cognizione, allorchè spalancati i battenti della porta entrò colà il marchese Azzo. Una ricca veste di colore scarlatto broccata in oro lo ricopriva, e vedevasi su di essa nella parte che gli vestiva il petto, da destra ricamato lo scudo argenteo di Milano colla croce rossa, da sinistra due vipere ondeggiate, collocate paralellamente in senso opposto, chiuse in gira da questo motto in caratteri gotici colore di sangue: _Vipera victrix audet_, lo che era lo stemma della famiglia Liprando; tenea sul capo un berretto pure scarlatto con fiori d’oro, sotto cui rìcadeangli sul collo le chiome che incominciavano a incanutire; a fianco gli pendea una lunga spada in ricca guaina, e tale era l’abito dei vicarii di provvisione, uno de’ quali era appunto il marchese Azzo. I figli e Palamede al suo apparire gli si fecero incontro ad abbracciarlo; il marchese rendendo l’amplesso, e fissando con molta compiacenza gli occhi in volto a Palamede, ad un tratto si turbò, scorgendogli nelle pupille le lagrime che stavano per ispuntare. Palamede abbassò il capo; Leone e Guido si fecero muti, e tutti intesero qual segreta causa spingeva sul ciglio di lui quella stilla involontaria di pianto. «Mio diletto figlio (rompendo pel primo il silenzio, disse il marchese con voce affettuosa rivolto a Palamede), conosco che tu sei già fatto consapevole del grande avvenimento che cangiò le sorti nostre e di tutta questa città, per cui vedi che siamo stati in oggi chiamati a riordinare e creare nuovi statuti, onde migliorare le condizioni generali della nostra patria. Se la mano di Dio e del glorioso Sant’Ambrogio hanno gravitato sul capo di Bernabò, egli, è d’uopo confessarlo, provocò questo castigo colle sue azioni, poichè eravamo oramai da’ suoi capricciosi scialacquamenti, dalle sue tirannie e dalla prepotenza de’ suoi figli ridotti agli estremi; nè sicurezza di vita, di sostanze o di onore più ci rimaneva. Ciò che al cuore veramente mi pesa, si è che la marchesa Donnina de’ Porri, mal fidente nella moderazione del conte di Virtù, s’abbia condotta seco in prigionia la tua Ginevra. Pensai quanto recasse affanno a lei l’essere strascinata lontana da queste sue native mura, pressochè nello stesso istante in cui tenea per fermo che il tuo ritorno avrebbe coronate le sue vive speranze; e sento per te quanto t’angosci una sì ardente brama delusa, da poi che tanto ti eri adoprato ad ottenerla. Ma ti conforta, mio Palamede, e t’assicura: Giovan Galeazzo è principe umano, saggio, generoso, egli non vorrà or certo opporsi a’ tuoi desiderii negando concederti che ritrar possi dal castello Ginevra; nè ciò ti negheranno Bernabò e Donnina che teco l’han fidanzata. Io, te ne accerto, non poserò in quiete il capo sugli origlieri che non abbia con tutte le posse adoperato per ottenerti la donna che il tuo cuore ha scelta a compagna.» A tali parole, che la dolce ed autorevole voce e la fisonomia imponente, ma nel tempo stesso assicurante, del marchese rendevano insinuanti e solenni, il cuore di Palamede fu penetrato da consolatrici riflessioni che lo riapersero alla speranza: quindi il rasserenarsi dell’anima si palesò sul di lui volto con un sorriso, e Guido e Leone gli si accostarono, parlandogli ciascuno della bontà di Giovan Galeazzo, e traendone sicuro argomento che avrebbe ottenuta l’amata fanciulla. Ricciarda e la figlia Adelaide avevano, siccome il lungo amichevole affetto ad esse imponeva, appressate Donnina e Ginevra sino agli ultimi momenti in cui eran rimaste libere in Milano; e fu innanzi a loro che l’innamorata donzella diè libero sfogo alla piena di dolore che opprimeva il suo cuore, lacerato dall’orribile idea di essere condotta lontana, e forzata, come ella pensava, a perdere per sempre l’oggetto dell’amor suo più ardente, alla cui mano per le nuziali promesse avea acquistato diritto. Avevano esse miste le loro alle lagrime di Ginevra, ed ogni via tentata per consolarla, ma vanamente: per cui, quando videro Palamede trafitto dall’angoscia della di lei perdita, cedere al pianto, nella mente loro s’appresentò l’immagine della desolata Ginevra; e vivamente commosse dalle sventure di que’ fidanzati, intenerite, a grave stento frenavano i singhiozzi e le lagrime; ma al racconsolarsi di Palamede per le parole di Azzo, esse pure si allegrarono, sperando che un giorno esso sarebbe felice; ed Adelaide a lui s’appressò con seducente ingenuità, e fisandogli in viso gli occhi ancor umidi di pianto, disse: «La tua Ginevra m’impose d’invocare ogni giorno dalla Vergine il tuo ritorno, e ti assicuro che mai non passò sera che io prostrata innanzi alla sua immagine, a cui offriva i più freschi fiori, non gli chiedessi con tutto il fervore una tal grazia, ed ella m’esaudì, ed esaudì pure nostra madre, che tante volte mi guidò nella chiesa a pregar seco per la tua salute.» Palamede affettuosamente abbracciandola palesò a lei, a Ricciarda e ad Azzo la sua gratitudine per la cura che di lui s’eran presa, e disse a Leone che bramava, qual capitano dei militi della parrocchia, porsi in arnese guerriero, ed uscire seco lui ond’essere spettatore della radunata del gran consiglio, se però l’essere stato uno degli amici di Bernabò non gli poteva attirare l’odio o le insidie dei governanti. Leone gli rispose che erano stati prescelti alcuni de’ capitani d’armi per accompagnare i gonfaloni delle Porte al Broletto nuovo, e ch’esso, come uno de’ più distinti, ne verrebbe ricercato; e l’assicurò che scacciati i figli di Bernabò e i ministri delle loro perfidie, nessun altro cittadino era stato molestato; per cui poteva ciascuno vivere tranquillo, e più di ogni altro gli uomini valorosi, pe’ quali il Conte di Virtù avea grande stima. S’allontanò Palamede, e ritornò coperto delle sue armi, portando a tracolla la ciarpa azzurra, dono di Ginevra, da cui pendeva la ricca sua spada; s’accompagnò con Leone, e, seguito dagli scudieri, lasciò il palazzo. Era prossima la metà del giorno, e le campane ripetevano coi romorosi suoni la chiamata al gran consiglio. Per tutte le molte strade che conducevano da Sant’Ambrogio al Carrobbio di Porta Ticinese, di là per San Giorgio alla Piazza del Broletto nuovo (ora de’ Mercanti) era un’onda di popolo innumerevole. Dovea l’arcivescovo, che trovavasi essere in quell’epoca Antonio di Saluzzo, assistere coi principali del clero alla grande adunata. Abitava esso nel monastero di Sant’Ambrogio, imperocchè il palazzo arcivescovile, che sorgeva poco lungi dall’attuale, ma più dal lato di santo Stefano, ruinoso e disadorno com’era, non offriva una degna abitazione a sì eminente prelato. Al tempio di Sant’Ambrogio s’eran quindi recati sei vicarii di provvisione, un distinto numero di consiglieri, consoli di giustizia, rettori della comunità scelti da ogni porta, e due vicarii del principe Giovan Galeazzo, onde assistere alla celebrazione de’ divini ufficii, indi condurre l’arcivescovo alla sala del consiglio. Dopo avere con gran pompa Antonio compite le sacre funzioni, s’avviò col numeroso seguito al Broletto. Sui terrazzi delle case, sui balconi e sotto gli acuti archi delle finestre stavano affollati i fanciulli e le donne spettatrici del generale movimento, e in attenzione del passaggio dell’arcivescovo colla sua nobile comitiva. Ai balconi de’ palazzi scorgeansi le dame e le ricche donzelle far gran mostra di drappi d’oro, di piume, di cinti e catenelle, ed aversi da un lato panieri di fiori, onde tenere profumata l’aria d’intorno. Anche nelle case però de’ meno agiati cittadini e della plebe miravansi le donne non prive di ornamenti, ed alcune portare assai preziosi gioielli: il che non doveva a que’ giorni recar meraviglia, poichè nel sacco dato dal popolo ai palagi di Bernabò che era la rocca di Porta Romana, ed a quelli de’ suoi figliuoli, furono rinvenuti ed involati gioielli, addobbamenti, preziose vesti e suppellettili pel valore di molte migliaia di fiorini d’oro, oltre ingenti somme di denaro, e ciò tutto era passato nelle mani delle persone del popolo e de’ cittadini. Quel luccicare dell’oro e delle gemme, lo splendore delle vesti per le finestre ed i balconi, che si prolungava variatamente lungo le pareti delle contrade, ottenea vivace risalto dal contrasto che vi faceano i bruni colori delle rozze muraglie delle case, delle chiese, de’ palazzi, le quali ove erano costrutte di pietre le aveva il tempo annerite, ed ove formate di mattoni, si lasciavano senz’intonaco, chè così volea l’uso de’ tempi: quindi gli edifizii nuovi rosseggiavano, e i vecchi imbrunivano a norma dell’età rispettiva. La folla eziandio, nelle vie stivata, non presentava il monotono aspetto che a’ nostri giorni offrono le adunate di gente per il quasi uniforme moderno vestire d’ogni classe di persone tanto ne’ colori degli abiti che nella forma. Era in quell’epoca una varietà grandissima di maniere e di coloriti; e sempre o nelle armi o negli adornamenti risplendevano i metalli, il che ammirabile e svariatissimo spettacolo porgeva, atto a recare una viva e profonda impressione, ne’ nostri tempi svanita. Vedeansi in allora uomini d’armi tutti ruvidi di ferro dai capelli alla punta de’ piedi; e diverse erano le forme delle armature, poichè l’uno copriva il capo col semplice elmo, ed aveva giaco di maglia; l’altro portava visiera e gorgiera a lamine sovrapposte, e corazza d’acciaio; questi tenea cimiero cesellato con piume ondeggianti, e quello berretto di ferro puntuto; spade, targhe, brandistocchi pendeano a’ fianchi, sospesi a ciarpe e pendagli di varii colori. I nobili, i semplici cittadini e gli artigiani vestivano abiti con proprie foggie, e scorgevansi agli uni sopravvesti guernite di pelliccie e di passamani di molte maniere; agli altri, guarnelli, farsetti a più colori, e brache che aderivano alle membra, o s’allargavano alle coscie smisuratamente: collari larghi ed elevati, berretti ora acuminati, or distesi, variatamente tinti, diversificavano gli abbigliamenti delle molte classi di patrizi, ricchi ed artieri. Così eran pure distinti i magistrati ed i dottori per le toghe e le assise. Ma ciò che fra tanta diversità di costumi produceva un singolare contrasto, si erano gli abiti de’ numerosi frati, de’ confratelli, de’ pellegrini e degli uomini della plebe. Per le vie talvolta scorgevasi un eremita curvato dagli anni, coperto il dosso da un rozzo saione olivastro, e il capo d’un largo cappuccio, la di cui incolta barba e il macilento viso mostravano la rigida astinenza, collocato fra un baldo guerriero lucente d’acciaio, e un patrizio sfolgorante per drappi d’oro, porgere una vivente immagine congiunta della forza, della umiltà, dell’orgoglio. In quella età, meno dal sociale attrito contusi e rammorbiditi i costumi, i sentimenti animavano gli spiriti ed i volti d’un’aria originale e caratteristica: maniere franche, risolute, e fors’anco fiere, lineamenti risentiti, variati e pittorici, e gli abbigliamenti che davano alle forme un piccante risalto, manifestavano lo spirito d’un secolo incolto, pregiudicato e feroce, ma in cui però erano passioni ardentissime, affetti infrenati e robusti, e un non so che di più vivo, animato e risentito delle altre successive età. Il Broletto nuovo, verso cui dirigevasi tutta la folla del popolo, era il palazzo del comune o del podestà, perchè colà questi abitava: contenea esso la loggia degli Osii, che è quell’antico edifizio che ancora esiste nella parte meridiana della Piazza de’ Mercanti, adorno d’antiche statue di santi, ed in una fascia, sul prospetto del quale vedonsi scolpiti degli scudi con varii stemmi, che erano quelli delle diverse porte di Milano. Antichissimo fabbricato era quello, e venne nel 1316 ristorato, abbellito ed ampliato da Matteo Visconte, il quale, fatte atterrare molte casupole che lo deformavano, lo ridusse ad un vasto edifizio oblungo ed isolato, che da San Michele al Gallo si prolungava sino al vicolo della Foppa. Era in esso una grandissima sala in cui si radunava il consiglio degli ottocento, e contenea con quella del podestà l’abitazione de’ suoi ufficiali: s’aveva congiunta una piccola chiesa dedicata a Sant’Ambrogio, e gli sorgea nel mezzo una quadrata torre, su cui stava una grossa campana e tre altre più piccole per chiamare a raccolta i consiglieri ed il popolo. Dalla parte ove ora sta l’archivio notarile, la piazza era affatto sgombra e si stendea sino al cominciare di Santa Margherita, cinta intorno di alte case e palagi; questa piazza era destinata a contenere il popolo accorrente ad intendere le decisioni del consiglio. Zeppa per la moltitudine era quella piazza, quando il ridestarsi più rumoroso del suono delle quattro campane della torre, e lo stivarsi più fitto della folla, annunziò l’avvicinarsi dell’arcivescovo. Precedevano que’ ch’eran puri membri del consiglio, seguivano questi i consoli di giustizia, i quattro vicarii di provvisione, indi i priori, gli abbati de’ principali conventi, ed i sacerdoti maggiori delle basiliche di Sant’Ambrogio, San Lorenzo e Santa Maria Iemale; dietro a questi veniva l’arcivescovo sovra un bianco cavallo, con gualdrappa d’oro e ricchissima bardatura, guidato a mano da un giovine patrizio pomposamente vestito, con bianchi guanti di serica stoffa ricamata in oro; ai lati del cavallo stavano i due vicarii di Giovan Galeazzo, e due di provvisione, e dietro altri monaci, sacerdoti, magistrati e municipali. Seguivano la comitiva i vessilli delle sei principali porte della città, portati ciascuno da un gonfaloniere, fiancheggiato da quattro capitani d’armi delle quattro più distinte parrocchie d’ogni porta. Precedeva il vessillo di Porta Ticinese, ch’era una candida bandiera con asta d’oro, e questo fu il primo, siccome quello che apparteneva ad una parte della città già soggetta alla signoria di Giovan Galeazzo prima del consolidamento in lui di tutto il dominio di Milano; quindi non volle andar a paro con quello di Porta Orientale, come soleva per lo addietro, perchè il signore di questa era caduto: onde l’Orientale veniva seconda, portando nel suo vessillo un leon nero. Notavansi fra i capitani d’armi, che seguitavano questo vessillo, Palamede e Leone, il primo de’ quali per la lunga assenza, la ricca armatura, il nobile e mesto aspetto s’attraeva gli sguardi della moltitudine; seguiva lo stendardo di Porta Vercellina, ch’era bruno con una bianca stella; poscia quel rosso di Porta Romana; indi lo scaccato bianco e rosso di Porta Comasina, e finalmente il vessillo di Porta Nuova col leone bianco; chiudevano la comitiva gli anziani de’ Paratici, ossia capi delle università delle arti, gli operai di ciascuna delle quali, come barbieri, armaiuoli, tessitori, fabbri, pellicciai, avevano un capo o maestro, che era loro giudice e presidente, ne decideva le controversie e manteneva i diritti. Il podestà, ch’era Liarello da Zeno, veneziano, accompagnato da’ suoi militi ed ufficiali, venne al peristilio della maggior porta del palazzo per farsi incontro all’arcivescovo, il quale, disceso dal suo cavallo, offrì al bacio del podestà l’anello che tenea in dito contenente una rara reliquia, e dopo essersi rivolto a benedire il popolo che stava prostrato, entrò, con tutti quelli che ne formavano il seguito, nel gran consiglio. Cessò in quell’istante il rimbombare dei bronzi, e quattro trombettieri con trombe d’argento, ed altrettanti banditori, sopra i cui cappelli stavano alte piume, apparvero sulla loggia del palazzo. Si fece universale silenzio, ed essi annunziarono che il gran consiglio dava incominciamento alle decisioni. Una sana e previdente politica, anzi direm piuttosto il solo amor dell’ordine, tanto necessario nelle cose di pubblico momento, non avevano fino a quell’epoca portata luce alcuna o chiarezza nella direzione delle città e dei popoli. Il principe, sdegnando i consigli d’una scelta di personaggi sapienti ed esperimentati, dettava a capriccio assurdi ed ingiusti decreti; un’unione di uomini ignoranti o servili che rappresentava la popolazione, riceveva, o rigettava tumultuariamente, contendendo sulle leggi e gli statuti ciò che quasi sempre le era svantaggioso. Le armi, le rapine, i patiboli costringevano i meno resistenti a sostenere il carico di enormi spese fatte per guerre ingiuste, per lusso esorbitante, per largizioni delittuose. Non registrazione di pubblici atti, non raccolte o promulgazioni di leggi e prescrizioni: per tutto era un operare alla cieca, un eludersi e paralizzarsi di forze mal dirette, e un dominare dell’astuzia, della ribalderia, della prepotenza. Se pubbliche calamità o penuria affliggevano i popoli, si consultavano del rimedio gli astrologi, che da sognate combinazioni di pianeti, dall’apparizione di sanguigne comete, o dalle meteore facean sempre derivare i mali di questa terra; si erigevano chiese e conventi, e si trascuravano tutti gli altri mezzi che poteano recare riparo o salvezza. Bernabò non ebbe mai più di due vicarii e tre consiglieri; non volle segretarii, scrittori, persone istruite in somma che tenendo conto delle entrate, dei consumi della corte e della nazione, ne accennassero le fonti, le cause, e ne dirigessero i modi. Suo fratello Galeazzo, padre di Giovan Galeazzo, dotato d’uno spirito intraprendente, ingegnoso, pel primo pensò che gli uomini scienziati potevano giovare, concorrendo allo sviluppo delle ricchezze, del commercio, della popolazione, ad ingrandire la potenza del principe. Spinto da tale considerazione e dal consiglio di alcuni letterati e filosofi de’ suoi tempi, e in ispecie da Signorello Amadio e Baldo giureconsulti, da Emanuello Crisolora bizantino e da Ugo sanese, diede principio alla famosa università di Pavia, ch’era la capitale de’ suoi stati; quivi raccolse con generosi stipendii molti uomini dotti, ed aviò la gioventù alle scientifiche discipline. Giovan Galeazzo, la cui mente profonda e intellettiva era stata, nella corte del padre, da uomini saggi, con una educazione per que’ tempi raffinatissima, resa adorna, acuta, calcolatrice e ripiena di vastissime idee, aveva fatto tesoro di molte massime della sapienza politica degli antichi filosofi e legislatori, che quel maraviglioso ingegno di Francesco Petrarca, uno de’ suoi precettori, gli svolgeva, corredandole di gravissimi ed esperimentati consigli. Dappoi che per un ritrovato della propria mente con somma astuzia condotto, ebbe fatto il primo passo verso l’elevata meta a cui mirava fisso in suo segreto, concentrando nelle proprie mani l’impero degli stati dello suocero zio, lasciò scorgere con universale sorpresa parte di quell’energia ed intelligenza di cui era dotato; giacchè più non necessitava a’ suoi scopi il farsi credere un ignorante pinzochero, stupidamente dato ai soli atti d’una superstiziosa devozione, coi quali ingannando sul proprio carattere non il solo Bernabò lontano, ma ben anco i suoi più intimi famigliari, era giunto a far cessare nello zio ogni pensiero di vigilanza sovra di lui, a segno di trarlo nell’agguato che gli aveva disposto sotto le mura della stessa Milano. Conceduto, pei primi momenti del suo insignorirsi dell’intera città, uno sfogo all’ira della plebe e de’ cittadini, lasciandoli scagliare sulle dimore di Bernabò e de’ suoi figli, d’onde trassero gli ammassati tesori, permettendo di lacerare i libri delle gabelle e de’ dazii, e di imperversare liberi per qualche giorno; assodato il suo potere col favore dell’aura popolare, meditò di dar opera al compimento del suo disegno di perfezionare il dominio. Aveva appreso Giovan Galeazzo, e teneva per assoluta sentenza, che l’ordine era il primo cardine d’ogni civile consorzio; considerava che le magistrature, i regolamenti distribuiti a seconda de’ diversi bisogni dello stato, ed una forza coattiva congiunta a ciascun d’essi per l’esatta esecuzione delle incumbenze, doveano produrre inesprimibile vantaggio alla politica società. Meditava sulle greche e le romane istituzioni; quegli areopaghi, que’ senati, que’ tribunali erano gli ordini ch’egli agognava di costituire ne’ suoi dominii; ma a’ suoi concepimenti frapponevano sommo incaglio le cangiate circostanze de’ tempi e delle indoli nazionali, e la di lui ostinatezza nel non volere che s’allentasse menomamente nelle sue mani il potere, onde l’ardimento altrui non rendesse vani i suoi divisamenti. In tale tenzone di pensieri, riservando a più opportuno momento l’esecuzione di vasti disegni, pensò che gli era d’uopo giustificare la sua usurpazione presso la propria e le estranee nazioni; fece a questo fine stendere dai giureconsulti un atto d’accusa contro Bernabò, in cui enumerandosi i molti di lui delitti, attentati e malie a danno della vita di Giovan Galeazzo, si deducesse non essere stato l’imprigionamento di Bernabò che un atto di difesa, di giustizia e la liberazione della patria; volle nello stesso tempo, onde accaparrarsi sempre più l’amore dei popoli, esentarli da varie imposizioni pesantissime, le quali alla fin fine venivano dai gabellieri consunte: a fin poi di fondare le prime radici dei futuri più stretti regolamenti, fece stendere varii statuti pei quali alle università delle arti, i cui membri essendosi attribuiti molti privilegi che le consuetudini avevano resi inviolabili, erano insubordinati all’autorità, congregandosi ne’ proprii quartieri, e così congiunti ammutinandosi, veniva prefissa una dipendenza in varii determinati casi dai consoli di giustizia, la quale dovea metter freno al loro insorgere; ma negli statuti però s’accordavano titoli d’onore agli anziani ed alcune facoltà illusorie. Finalmente ad esecuzione delle leggi fece decreti che i consigli tenessero registro delle decisioni, le quali scritte, venissero solennemente depositate negli archivii. Statuite queste disposizioni, Giovan Galeazzo ne dimostrò il vantaggio a Liarello da Zeno podestà, a Piosello da Saratico vicario di provvisione; e fatti molti de’ consiglieri, del clero, de’ capitani d’armi, degli anziani favorevolmente prevenire, ordinò l’adunanza del gran consiglio, ch’era quella che in quel giorno si raccolse, onde i suoi decreti venissero letti, approvati, ed ottenessero esecuzione; mandò quivi suoi vicarii, ossia rappresentanti, Biagio Pelacane parmigiano e Demetrio Cidonio di Tessalonica, il primo eletto ingegno, il secondo parlatore facondissimo. La sala del consiglio era un’aula amplissima, la cui volta, non molto elevata, andava dipinta a fondo azzurro con stelle d’oro, le mura delle pareti erano di marmo con una fascia superiormente d’ornati in rilievo rappresentanti figure d’animali ed arabeschi; in ciascuno dei quattro angoli stava uno stemma della città di Milano. Sur un gran seggio elevato coperto di velluto cremisino sedeva il podestà, a’ suoi fianchi stavano pur seduti i due vicarii del principe, e dietro a loro eran paggi e cancellieri, poscia quei di provvisione, indi tutti i consoli di giustizia, i rettori delle comunità, i consiglieri a varii ordini; di fronte al podestà stava sur una elevata sedia, protetta da un baldacchino con frangia d’oro, l’arcivescovo circondato dal clero. Alla destra parte del podestà, dietro ai consiglieri, stavano ritti in piedi i gonfalonieri coi vessilli ed i capitani d’armi, alla sinistra gli anziani delle arti ed i loro collaterali. Quando furono quivi tutti raccolti e disposti i numerosi componenti del consiglio, s’avanzò un cancelliere, davanti a cui un giovinetto paggio recava una guantiera d’argento su cui vedeansi varii rottoli di pergamena coi contorni dorati; il cancelliere venuto innanzi a Demetrio Cidonio vicario del principe, che stava alla destra del podestà, l’inchinò profondamente, e dal paggio, che piegò un ginocchio sui gradi dell’alto sedile, fece a lui porgere quelle pergamene. Demetrio, alzatosi in piedi, una ne prese, la svolse e si fece a leggerla con robusta voce. Era l’accusa di Bernabò. Quasi tutti gli uditori, o vinti da Giovan Galeazzo, o stati offesi dall’altro signore, applaudirono e confermarono quelle imputazioni, sebbene molte ve ne fossero false ed altre assurde, siccome quella delle arti magiche che si dicevano adoperate da quel principe onde il nipote non avesse prole; ed allorchè il vicario conchiuse che per giustizia e diritto, imperocchè Venceslao imperator d’Alemagna avea il solo Giovan Galeazzo investito della signoria degli stati Lombardi, a lui solo appartenea il dominio, tutti si alzarono gridando: _Viva Giovan Galeazzo, viva il conte di Virtù nostro signore_; e s’udirono le trombe annunziarlo al popolo, ed il popolo far eco con altri viva. Fra i pochi avversi all’applaudire al nuovo signore, il più ardente si era Palamede che, offeso dalle calunnie con cui udiva venir Bernabò incolpato, poco stette, dimentico d’ogni altro affetto, dallo slanciarsi in mezzo al consiglio a difenderlo colla voce e la spada; ma Leone che gli era al fianco il trattenne colle parole, e il marchese Azzo cogli sguardi che a lui volgea imperiosi dal seggio ove stava assiso. Dopo l’accusa di Bernabò venne letto il decreto di abolizione e diminuzione delle gabelle del grano, e degli istrumenti, che così chiamavasi la tassa che veniva esatta nei contratti, e delle ruote ferrate che si sborsava da chiunque teneva cocchi o carri. Non ponno descriversi le espressioni di gratitudine e i segni di contento che dai consiglieri e dal popolo si diedero alla lettura di tale decreto. Quindi generale fu l’assentire alle innovazioni ordinate nel modo di tenere i consigli, ed agli statuti per le università delle arti; per cui chiuso che fu il consiglio, uscendo i vicarii di Giovan Galeazzo dal Broletto nuovo, vennero coi più rumorosi applausi ricevuti dal popolo che si disperse, persuaso essere venuta l’età della vita felice. CAPITOLO VIII. Fra l’ombra della notte e degli incanti Ei muove dubbio e mal securo il piede. Sul limitar d’un uscio i passi erranti A caso mette, nè d’entrar si crede; Ma sente poi che suona a lui diretro La porta, e in loco il serra oscuro e tetro. TASSO. Lunghi e dolorosi scorrevano i giorni pei prigionieri di Trezzo. Il destino di Bernabò e de’ suoi congiunti formava argomento al ragionare di ogni persona. Era pensiero di tutti che da Giovan Galeazzo non sarebbesi giammai ridonata loro la libertà, e quindi facile il prevedere che avrebbe cercato ogni via di togliersi la briga di custodirli. Chi passando pe’ boschi d’intorno, o battendo i sentieri che salivano le alture vicine al castello, vedea la sommità delle torri e delle mura merlate sorgere fra gli antichi alberi che il circondavano, anzichè ritrarne pensieri di caccie, di feste, di principeschi passatempi che soleva quella vista produrre, non provava che sentimenti di pietà o di soddisfatta vendetta, secondo che amava od odiava quel principe; ma tutti però i riguardanti risentivano una certa impressione di meraviglia e tristezza che le disavventure di personaggi potenti sogliono infondere nell’anima, forse per le secrete riflessioni che ci destano sull’instabilità delle umane sorti, e fors’anco perchè mettendoci colla mente in loro, pensiamo quanto debba riuscir doloroso il rapido passaggio da uno stato di impero e ricchezza a quello di soggezione e miseria. Nell’interno del castello regnava di continuo una tristissima quiete. Abbenchè racchiudesse molti abitatori, avea esso l’aspetto d’un castello deserto: solitarii se ne vedevano i cortili, gli atrii, i porticati, ed il silenzio che per tutto si manteneva non era interrotto che d’ora in ora dal risuonare dei pesanti passi degli uomini d’armi che distribuivansi per scolta alle porte, alle torri ed al ponte dell’Adda. Ciò solo che recava qualche movimento fra quelle mura, si era al cader del sole il suono della campana della chiesa, alla cui chiamata tutti attraversando il maggior cortile venivano nel tempio. Vero è che la mestizia che scorgeasi dipinta in volto ad ognuno, il procedere lento e taciturno di tutti, in vece di porgere conforto, aumentava il cordoglio ne’ cuori. Dopo quel giorno che nel castello s’era sparsa la voce d’una notturna apparizione che aveva dato motivo a quanti vi abitavano di formare diverse congetture, a norma delle proprie speranze o timori, un avvenimento era seguito per cui s’accrebbe d’assai l’amarezza di quel soggiorno in Bernabò e negli altri ivi seco rinserrati. Il capitano Gasparo Visconti avea, come vedemmo, creduto, coi principali de’ suoi armati, che quell’apparizione altro non si fosse che un tentativo per liberare il principe prigioniero. Venne in tal sua opinione confermato dalla scomparsa che gli fu riferita dell’aríolo, ch’ei pensò dover essere uno degli interni cooperatori ad agevolare la fuga di Bernabò o la presa del castello, se i di lui liberatori fossero stati numerosi. Il Visconti spedì quindi immediatamente un messo a Giovan Galeazzo a recargli avviso di tale evento, onde avvenendo nemica sorpresa stesse parato a mandargli soccorso. Recò grave agitazione tale annunzio a Giovan Galeazzo, che mal rassicurato era ancora sull’usurpato seggio, e per tutto temeva congiure e nemiche fazioni: pensò esso sulle prime che l’impresa di togliere dalle sue mani Bernabò non potesse essere tentata fuorchè da Carlo figlio di quello, il quale all’insignorirsi ch’ei fece di Milano s’era alle sue ricerche sottratto colla fuga; ma allorchè seppe che questi stava a Verona presso Antonio della Scala, che gli era cognato, fatto da molti soldati ricercare tutti i luoghi contigui a Trezzo, e non vi ritrovando armati, nè sapendo che vi fossero macchinazioni, mandò ad accertare il capitano Visconti che non temesse d’ostili insidie, nè per tanto cessasse d’invigilare gelosamente su i prigionieri. Giovan Galeazzo non rimase però pago di questo. Paventando sempre che i figli di Bernabò, aiutati da principi stranieri, o da partigiani nello stato, avessero a ritrovar qualche mezzo di render liberi il padre ed i fratelli, fece più strettamente rinchiudere addoppiando la vigilanza sovra Sagramoro e Galeotto altri di lui figli che teneva prigioni nel castello di Monza, e diede comando si togliesse Rodolfo da quello di Trezzo onde disgiungerlo dal padre e dal fratello Lodovico, e fosse condotto nel forte di San Colombano. Venti uomini d’armi capitanati da Giovanni Ubaldino partirono da Milano, e si recarono a Trezzo per eseguire tal ordine di Giovan Galeazzo. Quando que’ soldati comparvero presso le mura del castello, e riconosciuti amici, loro fu abbassato il ponte levatoio per riceverli al di dentro, un secreto terrore invase il cuore de’ prigionieri. Ubaldino si recò da Gasparo Visconti, ed a lui presentò una lettera del suo signore, nella quale gli veniva ingiunto di consegnarli Rodolfo. Gasparo Visconti recossi tosto da questo, e il fece avvertito si disponesse a partire coi soldati novellamente giunti nel castello, poichè era volontà del principe ch’egli fosse tolto da Trezzo, e condotto a San Colombano. Rodolfo a tale comando pensò che ciò null’altro si fosse che un pretesto per trarlo a morte lungi dagli occhi del padre: tale pensiero gli si affacciò tosto alla mente, poichè conoscendo gli usi del tempo, era quanto ei s’attendeva sin dal momento che era stato fatto prigioniero, e sperando di potere sottrarvisi altrimenti, fece in suo cuore una disperata risoluzione: stabilì, appena si fosse trovato fuori di quelle mura, sul sentiero presso all’Adda, di scagliarsi, inerme com’era, sui soldati che lo scorterebbero, e pervenendo a sciogliersi da loro, precipitarsi nel fiume e salvarsi a nuoto colla fuga, o perire piuttosto trafitto dalle spade o nelle acque dell’Adda, anzichè sui patiboli secreti di Giovan Galeazzo. Con questa determinazione nell’animo, ed anelando l’ora di trovarsi nella lotta, recossi nelle stanze del padre a prendere congedo da lui, da Lodovico, da Ginevra, Damigella e Donnina, che tutti quivi convennero. Quando furono raccolti, Rodolfo con ferma voce spiegò che veniva a dar loro l’addio, forse estremo, essendo costretto a separarsi da essi per essere rinserrato fra altre mura. A queste parole un disperato dolore trafisse il cuore di Bernabò, e il furore si dipinse sul suo volto: egli non s’aspettava tal colpo doloroso che tutte annientava le sue speranze, privandolo del più fidato appoggio che s’avesse, chè tanto era per lui quel suo vigoroso ed ardito figlio, quando si fossero offerti i soccorsi ch’egli mai sempre sperava. La di lui fronte si raggrinzò, gli occhi rosseggiarono per lo sdegno, e un tremito di rabbia gli si sparse per le membra. Alzatosi, gridò furibondo, maledicendo Giovan Galeazzo ed i suoi fautori; ma i figli e le figlie, e frate Leonardo e Donnina gli furono d’intorno, e col pianto e le preghiere pervennero a racquetarne lo spirito. Allorchè, calmato, fissò lo sguardo in Rodolfo, larga copia di lagrime gli rigò le guancie, e porgendo a lui la destra, con voce tremante, che palesava quanta fosse l’angoscia che chiudeva in petto: «Ah! figlio mio (esclamò), tu mi sei tolto per sempre: sì pur troppo m’accorgo che si vuole ch’io chiuda questi miei occhi nel sonno eterno, senza che stia a me vicino un solo de’ miei figliuoli che m’invochi la grazia del signore nell’ultim’ora, e preveggo che non vedrò intorno al mio letto di morte che i volti degli abborriti sgherri del conte di Virtù. Ma che dico?... Non si stanno forse già preparando le trame per me, per voi tutti, onde toglierci l’uno lontano dall’altro la vita? Tu, mio Rodolfo, ne sei la prima vittima.» A tali detti i singhiozzi di tutti quegli astanti si raddoppiarono; il solo Rodolfo, intrepido in viso, e con sguardo sicuro, animando ferocemente la voce, disse: «Non temere per me, padre mio: se lo spirito infernale non mi toglie le forze, io non perderò al certo la mia vita entro le mura d’un castello; se il cielo mi protegge, potrebbe avvenire che io riesca ancora formidabile al nostro oppressore.» In così dire piegò un ginocchio davanti a Bernabò, ed in tale attitudine ne baciò la mano; ma questi il rilevò, e gli porse un bacio in fronte bagnandolo di lagrime. Rodolfo, toltosi all’amplesso del padre, abbracciò Lodovico e le sorelle, strinse a Donnina ed a Leonardo la mano; a tutti il pianto soffocava la voce, ed una visibile commozione atteggiava quasi alle lagrime anche i fieri lineamenti di Rodolfo, quando, raccolta tutta la sua forza, pronunciò un «Addio,» ed uscì da quelle stanze. Bernabò rimase immobile pel dolore; Ginevra cadde svenuta a’ suoi piedi; Donnina e Damigella, pallide e tremanti, accorsero a soccorrerla; Lodovico, straziato da così funesta scena, stava dubbiando o di seguire il fratello, o di restare a conforto del padre; ma attenendosi a questo partito, rimase accanto a Bernabò in mestissimo atteggiamento: frate Leonardo ergeva ammutolito lo sguardo al cielo invocandone la pietà sovra quei desolati parenti. Bernabò, scosso alfine da quella tremenda concentrazione, si volse al frate, e gli disse: «Ah! Leonardo, ora sento sinceramente che non mi resta altra speranza che quella del Cielo;» e così dicendo riprese in volto i tratti dell’usata severità. Rodolfo, posto fra mezzo agli uomini d’armi, salendo un cavallo di cui un soldato tenea la briglia, uscì dalla gran porta del castello sempre fermo nel suo ardito proposito. Giunto ch’ei fu colle scorte d’appresso alla ripida sponda dell’Adda, guardò all’acque, e d’un salto balzato di sella, si slanciò per calarsi dalla riva; ma uno dei militi fu pronto ad attraversargli col cavallo la via, e mentre Rodolfo mirava ad evitarlo, gli altri gli furono addosso. Robustamente ei si dibattè. Ma i soldati, essendo di molto numero ed armati, l’atterrarono, e cintolo di nodi duramente il riposero sul cavallo, e fu così tradotto sino a S. Colombano, dove venne rinchiuso nel mastio della torre. Quando Rodolfo fu disgiunto dal padre, il capitano Gasparo Visconti venne chiamato a Milano da Giovan Galeazzo, ed a comandante del castello di Trezzo ed a guardia de’ prigionieri rimase Iacopo del Verme. I piovosi giorni e le melanconiche nebbie dell’autunno, che s’inoltrava, rendevano sempre più triste l’abitar quivi: ingiallivano i boschi d’intorno, e denudavansi i rami; non più s’udiva l’usignuolo rallegrare le notti, nè il gaio canto degli uccelletti salutare il mattino; lunghe schiere di corvi vedevansi la sera attraversare con alto volo il castello recandosi ne’ boschi dell’Adda; il loro gracchiare, lo stridire di qualche sparviero che si posava sui merli delle torri, o il grugnire pe’ boschi d’affamati cignali, erano le sole voci di esterni esseri viventi che pervenivano a quelle mura. Dal dì della partenza del figliuolo, neri presentimenti travagliavano lo spirito di Bernabò. Conscio di ciò che avea praticato assai volte per togliere di mezzo uomini potenti che si opponevano a’ suoi fini, pensava che il conte di Virtù non sarebbe stato meno scellerato con lui, di quello ch’egli stesso era stato con altri. La profonda malizia d’infingersi per tanto tempo uomo nullo, senza pensieri di regno o d’ambizione, e l’arditezza con cui condusse il tradimento di prenderlo prigioniero, bene il persuadevano che Giovan Galeazzo, quantunque suo nipote, e marito d’una propria figlia, era atto a commettere qualunque misfatto quando gli fosse tornato utile l’eseguirlo. I veleni, i pugnali, i capestri erano in quella età modi frequenti di morte entro le mura de’ castelli; ed una ricca pompa funebre onorava spesso la vittima dell’occulta prepotenza, e persuadeva al popolo che un assassino, un parricida era uomo umano e religioso. Per ciò Bernabò paventava ad ogni istante di finire violentemente i giorni, quantunque considerasse che non si sarebbe tralasciato di porre il suo cadavere in magnifica arca sotto le volte d’una cospicua chiesa di Milano. La crudele aspettativa di maggiori delitti non contristava Ginevra, poichè il suo cuore innocente, non agitato che dai dolci moti della pietà e della tenerezza, era straniero a tutti i calcoli di uomini feroci, il cui sommo bene stava nell’imperare e nell’opprimere. Ma ciò null’ostante la vivissima afflizione che le aveva cagionato il distacco del fratello, l’ignorare che fosse avvenuto di Palamede, il non avere persona da cui ricevere conforto, o nel cui seno versare le proprie pene, bastavano a rendere infelicissima l’esistenza di quella sensibile fanciulla. Aumentavano i mali della sua addolorata mente la mestizia de’ giorni autunnali, l’imponente aspetto di quelle mura che parevano doverla racchiudere eternamente, e le truci sembianze de’ soldati che alcune volte scorgea ne’ cortili e nella chiesa. Non più Gabriella co’ suoi motti vivaci potea giungere a trarle il sorriso sulle labbra, nè i racconti della vecchia Geltrude attiravano la di lei attenzione: un affanno profondo inconsolabile le occupava tutta l’anima, ne consumava con interno martiro la freschezza de’ giorni. Solo raggio di gioia in tante angosce era per lei la memoria di quel momento in cui le comparve allo sguardo Palamede sotto il verone del castello; ma le arcane parole colle quali l’aríolo l’aveva preparata a quella inaspettata apparizione, il rapido dileguarsi di questa, e la strana fuga di Enzel, le lasciarono una tinta misteriosa di quell’avvenimento, per cui talora lo dubitava accaduto per opera d’incanto: e quindi pensava che Palamede fosse estinto, e che quello apparsogli altro non si fosse che la larva di lui; tal altra fiata, persuadendosi che quella era stata un’illusione della sua fantasia, credeva che l’amante suo giacesse in qualche carcere, o si fosse congiunto coi nodi nuziali ad altra donzella. Spesso però questi dubbii le erano sospesi dalla vista e dalla lettura del foglio di Palamede che le avea recato l’aríolo, e in cui le ripeteva la costanza del suo affetto: ella riconosceva que’ caratteri siccome stesi dalla mano dell’adorato cavaliero; ma nascevale temenza talvolta che fossero fatti per arte negromantica, tremava al toccarli, e si ritraeva da loro spaventata. In mezzo a tali ambasce si effondeva ogni giorno in fervidissime preghiere alla Vergine, e ne bagnava di lagrime il simulacro, invocandone la protezione; ma sentendo sempre più le pene aggravarlesi nel cuore, credeva che le proprie colpe e il troppo amore per un essere terreno l’avessero resa indegna delle grazie del cielo, e con riscaldata fantasia paventava l’eterna perdizione, e meditava ai tormenti dell’abisso. Abbandonato giaceva il liuto appeso alle pareti della camera di lei, e nè pur esso giovava a raddolcire co’ suoni le ore di quella giovinetta infelice, la cui anima, in tutti i più soavi sentimenti straziata, agognava alla pace della tomba. In questo intervallo stando in Milano Palamede sempre incitato dall’amore ardentissimo per la fanciulla prigioniera, nè d’altro pensiero curandosi che di ottenerla, tutto aveva posto in opera per piegare l’animo di Giovan Galeazzo ad accordargliela. Da prima il marchese Azzo Liprando s’era presentato a questo fine al principe onde richiedergliela, certo che questi, ch’egli reputava umanissimo e cortese, non gli avrebbe dato rifiuto; ma ciò appunto fu quello che avvenne con somma sua sorpresa e rammarico. Allorchè Azzo gli fece richiesta di Ginevra, era a Giovan Galeazzo da poco tempo giunto il messo di Gasparo Visconti, recando la novella della tentata liberazione de’ prigionieri: il sospettoso signor pensò che quella richiesta fosse fatta ad arte per favoreggiare la trama d’introdurre stranieri in quel castello, e il rimandò non solo inesaudito, ma con pungenti e minacciose parole. Palamede fu sopra modo desolato da questo fallito tentativo, poichè s’avea riposta gran fidanza nell’impegno del marchese Azzo, la cui dignità e potenza sembravano dovere ottenergli molti riguardi dal nuovo signore; e già paventava gli venisse Ginevra negata per sempre, poichè vedendo l’accanimento di Giovan Galeazzo contro la famiglia di Bernabò, tremava facesse ad essa pure togliere la vita, o la chiudesse in un chiostro costringendola a vestir abiti monacali, onde per lei non si estendesse la discendenza di quel principe, la cui rimembranza volea in tutto spenta. Non arrischiandosi quindi a far sì tosto nuovamente richiedere Giovan Galeazzo del concedergli la sua fidanzata, per non destarne contro di lei lo sdegno, ed irritarne i sospetti, dispose l’animo a pazientare, siccome Azzo stesso lo consigliava, attendendo più opportuno momento, che sarebbesi al certo offerto quando la sicurezza del dominio avesse tolta ogni tema di tradimento dall’animo del principe. Il vivissimo affetto del cavaliero non gli lasciava intanto riposo. Egli non viveva che per Ginevra, e tutte le sue idee s’aggiravano intorno al modo di avvicinarlesi, o di darle di se contezza. Più volte aveva instato presso l’aríolo onde il giovasse colle arti sue a penetrare nel castello di Trezzo; ma l’aríolo sempre rifiutossi a secondarlo; anzi l’aveva dissuaso da questo progetto siccome ineseguibile, e certa via a perder se stesso, e peggiorare la sorte dei prigionieri. Ciò non pertanto Palamede s’era più volte recato nelle vicinanze di Trezzo; seguito da Enzel. Lasciava i cavalli nell’isola di Mandellone, e guidato dall’aríolo, esperto conoscitore dei luoghi, s’accostava inosservato al castello, ed era pago del contemplare le mura impenetrabili che rinserravano colei che avea in suo cuore giurato di ottenere, o di perire. L’aríolo gli additava il verone e le finestre nelle stanze ove abitava Ginevra, e d’onde era partito quel canto che il rese una notte felice; e il cavaliero meditava fra se, e poneva l’ingegno e la cupidigia di Enzel a tutte le prove, onde ritrovasse qualche mezzo per cui pervenire a parlare, o almeno vedere l’amante: ma quel castello era troppo da vigilanti armati in ogni punto esattamente guardato, e l’appressarvisi a tiro d’arco sarebbe stata pericolosissima prova; nè Enzel, il quale teneva al vivo impresso nella mente per qual raro caso fosse sfuggito alle ricerche de’ soldati che volevano abbruciarlo, s’arrischiava porre in uso arte o raggiro per cercare di introdurvisi, dal sotterraneo della torre nera, o della cappella de’ morti. Onde per quanti disegni componesse colla fantasia Palamede, nessuno gliene s’appresentava che valesse a suggerirgli un mezzo o di forza, o d’astuzia, per impossessarsi di Ginevra, ed era necessitato ad attenersi a quel solo di averla per consenso di Giovan Galeazzo. Questo principe frattanto, chiamato da gravi cure di stato, s’era recato a Pavia, nel castello della qual città, sua corte paterna, soleva abitare con sua madre Bianca di Savoia, e la moglie Caterina, che, come figlia di Bernabò, non volle fosse presente in Milano al tradimento commesso contro il di lei padre. Allorchè ciò seppe Palamede, avendo spesse volte veduta Caterina nei palazzi di Bernabò e nella casa di Donnina de’ Porri, pensò che questa avrebbe per lui e per Ginevra preso caldo interessamento, ed avrebbe assunta ogni cura per rendere assenziente il marito alle loro nozze. Ma gli fu detto che era assai difficil cosa il poter favellare a Caterina, mentre per ordini secreti di Giovan Galeazzo, che di tutto temeva, ella veniva guardata con molto rigore onde non le si accostasse persona invisa od ignota a Giovan Galeazzo, sebbene la tenesse d’altra parte circondata di pompe e di principeschi onori. Palamede tentò pure di vincere tale ostacolo. Immerso com’era di consueto in tristi pensieri, soleva passare alquante ore del giorno nei solitarii recessi del convento di San Marco, dove fra molti libri e religiosi pensieri trovava occupazione. Aveva fatta per ciò stretta conoscenza con frate Lanfranco Guincinelli priore di quel convento, quello stesso per cui lo zio Baldizone gli diede in Carsenzago un foglio in cui lo raccomandava calorosamente. Palamede aveva a Lanfranco palesata la causa della sua melanconia. Lanfranco, finissimo conoscitore degli uomini, intendeva di leggieri che Giovan Galeazzo non si era tale da lasciarsi piegare da guelfeschi maneggi, quantunque a questa parte piuttosto che alla ghibellina era sembrato inchinevole quando viveva a null’altro dato che agli atti religiosi: dubbiando perciò dell’essere ben accolto dal principe, non aveva offerta l’opera sua a Palamede. Allorquando però il cavaliero narrògli che stando Giovan Galeazzo a Pavia egli si prometteva felice riuscita alle sue speranze, se fosse pervenuto ad istruire Caterina di quanto chiedeva, il che era per lui impossibile, Lanfranco si esibì di superare per lui non solo qualunque ostacolo a ciò s’opponesse, ma di aggiungere in favor suo le parole di Bianca madre del principe. Era desso amicissimo di Alberigo da Bereguardo priore degli Agostiniani di San Pietro in Ciel d’oro di Pavia, il quale aveva a suo talento per molto tempo governato lo spirito di Giovan Galeazzo; e morto esso lui, aveva sempre continuato a possedere l’intimità di Bianca, ed era il solo che tenesse libero accesso in Pavia presso di lei e di sua nuora Caterina. Lanfranco, ammaestrato uno de’ suoi monaci di quanto dovesse operare, lo mandò a Pavia a frate Alberigo, e rincorò Palamede onde stesse d’animo sicuro, che finalmente avrebbe ottenuto ciò che tanto desiderava. La trepidazione in cui visse il cavaliero aspettando da un istante all’altro il momento di poter volare a rivedere Ginevra, fu pari al suo dolore, o piuttosto alla disperazione, quando un mattino dopo tre giorni dall’invio del messo, con mesto viso appresentatosi a lui frate Lanfranco gli disse: «Figliuol mio, il Signore non ha concesso che le tue brame siano esaudite. Bianca e Caterina hanno tutto adoperato per ottener da Giovan Galeazzo che ti sia data Ginevra; ma egli fermo in suo proposito rigettò le loro istanze: perciò ti do consiglio a non tentare più l’animo di lui; chè se non si piegò alle richieste della madre e della moglie, nessun’altra persona vorrà cedere se Iddio non gli cangia il cuore, e tu insistendo attireresti l’ira sua; però ti raccomanda alla divina Provvidenza, ch’ella suole con impreveduti avvenimenti, quando meno si attende, esaudire i voti di chi sa meritarne le grazie.» Ma il cavaliero, sordo a miti consigli, più non spirava a queste parole che odio e vendetta. La durezza di Giovan Galeazzo gli sembrava sì tirannica e capricciosa, e tanto addentro lo feriva nel cuore, che ei meditava le più disperate imprese per vendicarsi: e certo a qualche tremendo fatto si sarebbe lasciato condurre se un singolare avvenimento non fosse sorto di mezzo a variare il destino di lui. Enzel Petraccio si era legato ad amicizia con molti altri aríoli, tempestarii e vagabondi, alcuni de’ quali andavano al servizio de’ potenti ne’ castelli e nelle città, e servivano loro di spioni, o di guide negli assalti e nelle guerre; altri seguivano le torme de’ soldati di ventura, i quali spesse volte facevano il mestiero degli assassini: non formavano però gli aríoli lega coi _bravi_ e cogli sgherri, perchè questi usavano nei loro fatti la prepotenza colla forza dell’armi, e quelli, sebbene portassero sempre tra i panni pugnali, punte, mezzelame, e prezzolati commettessero ogni sorta di delitti, pure aveano per divisa la pacatezza ed il far umile, nè vestivano armature, ma abiti plebei, e larghi cappelli: in somma adoperavano tutti que’ modi che giovassero ad ingannar la gente facendosi credere o mendicanti, o pellegrini, o villici, o uomini del popolo. Essi però costituivano una società, e si riconoscevano per certi segni, parole e costumanze particolari. In Milano eranvi molte persone di questa professione, poichè vi venivano da tutte le parti d’Italia, e qui s’avevano una specie di riunione centrale d’onde poi si diramavano in diversi altri paesi. Per non dare di loro sospetto, e non arrischiare d’essere arsi come maghi o stregoni, del che era facile in que’ tempi destare dubbio se si fossero lasciati scorgere a congregarsi in secrete combriccole, avevano gli aríoli un luogo di convegno, fuori dalla città dalla parte occidentale, affatto appartato, sebbene non molto lungi dalle mura. Enzel, che venne riconosciuto da loro per sapientissimo, siccome esperto nell’astrologia, nelle arti di formare secreti farmaci e pozioni, fu ricercato si portasse un giorno nel luogo del loro convegno, ed egli v’acconsentì. Era questo un giorno sul finir di novembre; giusta il convenuto Enzel sul far della sera s’appostò presso la muraglia dell’orto del Monastero Maggiore, e quivi attese un altro aríolo di nome Gallinaccio. Allorchè questi passò, avvertito dal di lui fischio, Enzel il seguì, ed uscì seco da Porta Vercellina, che trovavasi, come abbiam detto altrove, nel luogo in cui ora sta il ponte del Naviglio, che a que’ tempi non era che una larga fossa la quale si passava sovra un ponte levatoio: fuori della porta incontravasi il Borgo delle Grazie, al terminar del quale non eravi, come al presente, una strada diritta, solida, larga, ma bensì una ristretta via, guasta, avvallata fra due alte sponde, tutta ingombra di sassi e pantani. Giunti al cominciar di questa via Enzel e Gallinaccio si riunirono, non essendovi persona alcuna a cui questi due insiem congiunti potessero cagionar sospetto. Quando ebbero fatto qualche tratto di strada entrarono sulla destra in un piccolo sentiero che s’innoltrava fra alte piante. Il giorno non era caduto affatto, ma la nebbia che s’alzava oscurava l’aria, e la rendeva umida e fredda; a traverso ai nudi rami degli alberi, da cui il gelido soffio del vento staccava le ultime foglie disseccate, appariva un cielo di tristo color cenericcio, alcun poco biancastro ad occidente, verso cui camminavano gli aríoli. Dopo alquanti passi il sentiero cessò, il bosco divenne più folto, ed essi entrati in quello giunsero alla sponda dell’Olona. Sopra un dossetto presso a quel piccolo fiume stava un diroccato edifizio cinto da rottami incespati di spine e di roveti; dal lato da cui vennero que’ due, scorgevasi un elevato muro che aveva costituita una parete di quel fabbricato, e che ora stava solo eretto fra le ruine, e dalle finestre del quale vedeasi l’opposto cielo. Gallinaccio condusse Enzel fra gli spinai verso questa muraglia, e pervenutivi dappresso, discesero in un fossato asciutto che circondava l’edifizio, nel quale scorsero una porta, dalle cui fessure intravedevasi un lume lontano. Gallinaccio bussò tre volte a quella porta, e diede altrettanti fischii; si udì taluno appressarsi, che tolse ai battenti una spranga, e li aprì. Entrarono que’ due, fu richiusa la porta, ed essi, passando sotto una lunga oscura volta, giunsero in un’ampia stanza, la metà superiore della quale era ripiena dal fumo che tramandava un gran fuoco acceso in mezzo ad essa. Dintorno a questo stavano molti aríoli disposti in variate posizioni. Taluno era sdraiato sul pavimento, altro seduto sovra le legna che servivano ad alimentare il fuoco; questi incrocicchiava le gambe alla turchesca, quegli rannicchiato sporgeva il capo fra i ginocchi, ma tutti però tenevano il volto in verso alla fiamma, la quale, secondochè risplendeva vivace, od andava calando, ne illuminava variatamente le strane fisonomie e gli abbigliamenti, progettandone le ombre, fatte per la distanza gigantesche, sulle ruvide pareti di quella camera, o direm piuttosto cantina o sotterraneo. Vestivano essi tutti in foggie particolari. L’uno andava coperto da una zimarra a doppio colore, rossa sul petto, verde sul dorso, ma lacera e rattoppata; l’altro aveva sul corpo un saione fratesco, questo indossava una schiavina; portavano tutti però o gabbani, o casacche, o tabarri di colori oscuri, rossi o cilestri, ma di grossolani tessuti. Alcuni coprivansi la testa con cappe e cappucci, altri la tenevano scoperta, e mostravano calve fronti od irte e scarmigliate capellature, e ruvidi crini cadenti in ciocche a mischiarsi colle scomposte barbe e le folte basette. «Ecco una nuova volpe che viene al covo (disse una rauca voce rivolta ad Enzel appena questi fu colà entrato). — Nuova a questo covo (egli rispose), ma vecchia per i pollai e le lepri. — Ti conoscono assai bene (disse Gallinaccio), e puoi stare fra noi ed esserci maestro. Ti ritira (soggiunse ad uno che stava più degli altri presso la fiamma), e lasciaci, o Calabrese, sedere vicini al fuoco, perchè veniamo da dove spira un’aria di neve che ci ha intirizziti.» Si ritrasse il Calabrese, ed accovacciatosi in altra parte: «Prosegui (disse con accento di sua nazione), Masiello, a raccontare come sia finita la storia della regina Giovanna.» Masiello, che stava a lui di prospetto, e verso cui tutti rivolsero ansiosamente gli occhi, con voce di chi riprende una storia così parlò: «Andò all’inferno nell’istesso modo che vi aveva fatto andare otto de’ suoi innamorati e due mariti. Due giorni dopo che fummo giunti ad Aversa, Cecarello, che ivi ne aveva condotti, eseguendo l’ordine del signor duca Carlo Durazzo, mi palesò cosa avessi a fare, e mi fece aprire l’uscio della camera della torre ov’ella dormiva. Vecchia così come era tentò trarmi ai lacci, e vedendo di non riuscirvi invocò il cielo e tutti i santi; ma Cecarello m’avea prefisso il tempo, e il di lei collo era sì sottile, che non sudai a sbrigarla. Mi fu dato per sì picciola fatica più oro che quando venni mandato da Napoli, attraversando di verno gli Appennini, a Bologna a prendere da certo speziale un’acqueruola che non seppi poi mai chi l’abbia bevuta. — Per quant’oro toccasse allora la tua mano, o Masiello (riprese un altro), non sarà certo stato tanto quanto quello che un barone Piccardo tolse al duca d’Angiò ch’era venuto per quella stessa regina in Italia, e metà di quell’oro lo recai io a Venezia, dove il Francese mi fece seco a parte a scialacquarlo. Ma ti debbo però dire che me lo era guadagnato con maggior fatica della tua. Il Papa d’Avignone mi avea spedito a Parigi a portare lettere al duca d’Angiò, imponendomi di servire ad esso di guida a discendere per l’Alpi: eseguii tale comando, e quando fummo di poco col Francese inoltrati in Italia, il duca d’Angiò mi diede ordine che mi recassi a Roma dai Colonna, ed a Napoli da Giovanna per certe intelligenze: giunto nella prima città, il Papa di Roma mi fece prendere, e voleva mi appiccassero in castel Sant’Angelo, ciò che avveniva di certo se non mi fossi calato per le mura; ma finalmente arrivai anche a Napoli, ed adempiute le commissioni, a traverso all’armata di Carlo Durazzo pervenni a Bari, dove il duca d’Angiò m’aveva imposto di recarmi; egli era colà, ma più non aveva nè soldati nè danari, e null’altro possedeva di tutto ciò che aveva recato di Francia fuorchè la spada e il valore: perciò senza nulla darmi, ma facendomi grandi promesse, pregommi riconducessi nella sua terra il barone Piccardo, che avrebbe recato molto oro e soldati: il feci infatti; e il Piccardo, giunto a Parigi, ebbe l’oro dal re e dai fratelli del duca; ma soldati non ne ricercò, nè volle, perchè piacevagli marciar spedito: quest’oro ce lo distribuimmo sulla persona e sui cavalli, e per le vie diaboliche del paese degli Svizzeri tornammo in Italia, ed andammo a Venezia; dove lo si profuse _gaîment pour dames et bon vin_, come soleva dire il Piccardo; e il duca d’Angiò seppi poscia che morì a Bari di fame.» Dopo questo racconto, l’un l’altro eccitandosi, narrarono moltissimi fatti da essi loro eseguiti, o di cui erano stati spettatori: quasi tutti consistevano in astuzie, raggiri, insidie adoperate per impedire od anche agevolare conquiste di terre e castelli, incendii, assassinii, rapimenti di donne e fanciulle; ciò che rendeva singolari quelle narrazioni, era l’influsso sugli avvenimenti umani che attribuivano ai prestigi, ai pianeti ed alle magiche virtù di molte sostanze naturali preparate con certe arti o segni stravaganti. Poscia che ebbero a lungo favellato, l’ultimo che parlò disse ad uno che gli stava di fianco: «Andreazzo, è tempo oramai che ci bagniamo la gola; non hai tu portato qualche poco di vino? — Non beveremo, per Satanasso, sin che non abbiamo detto qualche cosa di meglio delle ciancie che si son fatte finora.» Così pronunciò con voce grave e rude, che non s’era mai intesa durante i ragionamenti, una persona la quale, involta sino alla metà del viso in un mantello a lungo pelo nero, e tenendo calato un berretto pur di pelo sino alle ciglia, movendo sotto assiepate palpebre due bigi occhi feroci, s’aveva la forma piuttosto d’orso che d’uomo. «Non abbaiare, Can-di-monte (a lui rispose Andreazzo), se bevessimo anche tosto, io tengo qui tal liquore che non ti parrà certo decotto amaro, ma se tu hai a dire alcun che d’importante, dillo col malanno che ti porti, che ti ascolteremo.» Can-di-monte, che tal era il soprannome di quell’ispida figura, volse ad Andreazzo uno sguardo minaccioso di sdegno, quindi disse: «A ciò che è avvenuto io non penso mai, e lascio ai cantafavole le parole o le novelle: io voglio fatti ed azioni, e perciò bado a quel che faccio o che dovrò fare; il passato è come se non fosse mai stato. Voi v’avete stancata la lingua con vecchie storie, e nessuno ha palesato ancora ciò che farà domani, onde possiamo porgerci mano a condurre a buon fine qualche impresa.» — «Hai ragione, Can-di-monte (soggiunse l’un d’essi); io non so come mai m’abbia a lungo garrito in inutili baie, mentre ho un rilevante messaggio da farti da parte di un tale, che ieri ritrovai presso Magenta, e che mi disse che ti risovverresti chi fosse, rammentandoti il Frate Rosso. — Oh! il conosco assai bene, è Aldobrado Manfredi; e che ti disse egli per me? — Ei mi ha detto che domani a notte ti attende nelle valli di Ticino, presso al gran pioppo nel bosco del Crocifisso, dove saranno seco lui i soliti amici. — Ma non sai tu, Squarcia (chiese Can-di-monte), per qual motivo? — Te lo dirò, ma non lo seppi da lui: esso vuole appostarti sulla strada di Novara per dargli segnale del momento in cui passerà il duca Lodovico di Francia, e gli altri signori i quali vengono a Milano a nozze, poichè egli ha disegno di guardar loro ne’ forzieri per vedere quali doni rechino alla signora Valentina. — Si è assunto un difficile impegno (disse quello che aveva narrata la storia del duca d’Angiò), poichè conosco i cavalieri di Francia, ed hanno spade affilate, e le menano di taglio e punta, che guai dove colgono. — Sappi (gli rispose Can-di-monte), che Aldobrado non mette rete che non prenda pesce; sai che è stato più anni confidente di Bernabò: allora ho fatto per suo comando delle operazioni che s’avevano altre spine, ed egli ha date prove sufficienti di quanto valga. — Mi fu narrato (proseguì Squarcia) che, dopochè il suo padrone venne mandato a Trezzo, si è dato a condurre una masnada a svaligiare i passeggieri, e non vi sono fanti che battano la sua traccia, perchè si è reso formidabile. — Ma come deve esser ella la faccenda dei Francesi? (disse Enzel Petraccio, che si fece attentissimo a raccogliere tutte le parole su tale argomento). — Come vuoi che sia? Aldobrado fu avvertito che il duca Lodovico volendo far grata sorpresa a Giovan Galeazzo, onde giungere inaspettato a sposarne la figlia, passerà fra tre giorni con pochi cavalieri e senza scorta dalla strada di Novara, ed Aldobrado co’ suoi li assalirà, perchè miglior bottino a’ nostri giorni non si potrebbe sperare.» Can-di-monte volgendo ad Andreazzo gli occhi, da cui trapelava l’allegrezza recatagli da tale notizia: «Porgi ora da bere (disse), e se è vino che mi piaccia, ti voglio fra quattro giorni donare una delle più belle gioie del duca Lodovico. — Potresti anche fra quattro giorni (disse Andreazzo) lasciare il pelo sotto il rasoio del boia;» e in così dire s’alzò, e venne in un angolo di quella stanza, smosse una tavola dal muro, e levò un gran vaso che a due mani portò in mezzo al circolo presso al fuoco: molte legna furono gettate ad avvivare la fiamma, ed una scodella di terra girò d’intorno, riempiendosi ad ogni istante del vino che quel vaso conteneva. Riscaldati da quel liquore, lunga pezza fecero i socii parole, risa e gridi; ma a poco a poco i più s’addormentarono, altri rimasero ragionando a bassa voce: la fiamma mancando d’alimento si spense, e restarono nell’oscurità rotta solo dal rosseggiar de’ carboni attizzati di quando in quando da alcuno de’ più vigilanti con una palla di ferro. Sorto finalmente il mattino, ad uno ad uno uscirono tutti da quella casa, e si dispersero disgiuntamente. CAPITOLO IX. Ma qui pur gli oppressori omicidi Or s’accampan la legge insultando; Qui si sente un tumulto di stridi Prorompente lontano lontan. ........................... E non sai che col vanto di prode Or sovente dal laccio si pende? GUIDOBALDO IL CACCIATORE. _Mel. Lir._ L’antico arco, che in Milano dicesi volgarmente _voltone_, che sta al ponte del Naviglio di Porta Ticinese, formava a’ tempi de’ quali parliamo la porta stessa, per cui la chiesa di Sant’Eustorgio e l’unito convento di Domenicani, che sono alquanto al di là di quel voltone, si ritrovavano in un sobborgo della città. Per entro un’appartata via di questo sobborgo, alla quale facevan parete da un lato il muro del cimitero posto a canto alla chiesa di Sant’Eustorgio medesimo, e dall’altro San Barnaba al fonte, con varie antiche case, s’inoltrava a passi rapidi Palamede. Era esso ravvolto in un mantello che scendendogli al ginocchio lasciava vedere al di sotto una parte della lunga spada che teneva sospesa al fianco, e il suo capo era coperto con un berretto senza piume od altri adornamenti. Camminò egli frettoloso sin presso alla metà di quella via, poscia ad un tratto soffermossi in atto pensoso. Già spuntato era il sole, ma il cielo nebbioso rendeva incerta la luce: rade persone scorgevansi passare per quella via, e queste erano o villici o servi che recavano le provvigioni al convento. Palamede girò lo sguardo, investigando se alcuno lo tenesse di mira; indi, colla risolutezza di chi prende irrevocabilmente un partito, proseguì il cammino. Giunto al terminare di quella strada, stava per porre il piede sul limitare d’una casa, quando sentendosi afferrare pel mantello, udì dire: «Dove andate, cavaliero?» Ei si rivolse con isdegno; ma veduto chi era, «Che vuoi tu, Enzel Petraccio? (gridò con sorpresa). — Io voglio, signor Palamede (disse Enzel con certa voce di preghiera e di comando insieme), che voi non andiate in questa casa.» Un lampo d’ira balenò a questi detti in volto a Palamede; poichè un cavaliero armato non era uso soffrire da altri il benchè minimo contrasto senza por mano alla spada; ma riflettendo tosto che l’aríolo non poteva aver così parlato che col pensiero d’arrecargli vantaggio, «Sai tu (disse rappacificato) perchè io qui venni a quest’ora? — Non v’ho io provato che sapeva tante altre cose che v’appartenevano? Or vi persuaderò che non ignoro neppure la causa per cui siete qui venuto: in questa casa prese alloggio Gherardo Cappello, il quale è stato mandato a Milano dal signor di Verona per ragunare e disporre alla rivolta i nemici di Giovan Galeazzo: così egli fa credere ai varii che diedero retta alle sue parole, e voi, uno fra questi, venite a riporvi nel novero dei congiurati. — Sì tu lo sai (rispose Palamede): io vengo a congiungermi a quelli che hanno giurato di vendicare Bernabò; ma è Giovan Galeazzo stesso che mi vi spinge. Egli, non sazio d’usare del suo tirannico potere contro quelli che potrebbono a buon diritto disputargli l’usurpato dominio, sta fermo per crudeltà in negarmi una fanciulla che è a me legata per sacre promesse, oh! sentirà quando questo ferro gli passerà il cuore, che non stanno tutti nel castello di Trezzo quei di cui deve paventare. — Ah, signor Palamede, che dite mai! (esclamò l’aríolo, fissandolo con occhi pel terrore di tale idea allargati con ispavento) questo pensiero vi fu al certo posto in cuore da uno spirito infernale: tutti i segni del cielo stanno contro di voi se durate in tale proponimento. Allorchè mi deste l’incarico di gire scoprendo quali cose si dicessero dal popolo in riguardo di Bernabò e di Giovan Galeazzo, non v’ho io rapportato, siccome aveva udito, che tutti mostravansi accaniti contro l’antico, ed affezionati al nuovo signore? Or bene, non pensate voi che assalire Giovan Galeazzo è lo stesso che rendersi tutto il popolo nemico, dalle cui mani non riesce facile il sottrarsi, e quindi la corda o la ruota sarebbe il genere di morte men doloroso a cui anderebbe incontro chi attizzasse la rivolta?» Si accostò in così dire all’orecchio di Palamede, che alle di lui prime parole s’era fatto meditabondo, stando immobile colle braccia incrocicchiate sul petto; e traendolo dolcemente lontano da quella casa, con voce a cui, sebbene sommessa, cercava dare un tuono profetico e misterioso: «Ancorchè aveste certezza (disse) di compire da voi solo il vostro disegno, non vi fidate di questo Veronese. Dove sono i suoi soldati, i capitani atti a resistere a quelli del conte di Virtù? Credetemi! egli cerca di attirarvi nella rete per darvi nelle mani di Giovan Galeazzo, onde renderlo amico del suo signore.» Palamede, colpito da tali detti volse uno sguardo fiero a quella casa, indi disse con instanza all’aríolo: «Sai tu questo di certo?» Ed Enzel, sempre traendolo più da quel luogo lontano: «Dovreste essere persuaso che io non soglio ingannarmi; ma vi lascio supporre che il Veronese abbia realmente a sostenervi in un tale fatto: non è egli inevitabile che al primo manifestarsi d’un movimento di ribellione Giovan Galeazzo fa togliere la vita a Bernabò, ai figli, a Ginevra? — Qual via dunque mi rimane per ottenerla? (proruppe con forza il cavaliero, interrompendo l’aríolo, quasi non potesse sostenere ch’ei proseguisse con tali per lui terribili parole). — La via (continuò l’aríolo, contento del trionfo che conobbe di aver riportato sull’animo di Palamede), la via si troverà; forse essa non è tanto discosta o difficile come potete credere: per ora però è d’uopo che facciate forza a voi stesso, e vi astenghiate da qualunque tentativo.» Un atto d’impaziente dispetto s’appalesò sul volto a Palamede; e il di lui mantello, che s’aprì, lasciò vedere la sua mano, che portata all’elsa della spada la premeva con forza al fianco: involontario moto che indicava l’interno sforzo nel comprimere l’ira, che tante opposizioni alle sue brame gli destavano in seno. Enzel, il quale penetrò che la mente del cavaliero era agitata da fiera tempesta, pensò essere quel momento opportunissimo a prepararlo ad un progetto che egli aveva in suo capo formato nella congrega degli aríoli; quindi, «Non dovete (disse) rimanervi frattanto in un ozio che la vostra abitudine alle vicende delle armi vi renderebbe penoso. Io voglio darvi una notizia che vi porgerà campo di vendicarvi d’un traditore e di reprimere l’audacia di un ribaldo assassino.» Palamede gli chiese ansiosamente chi questi si fosse; e l’aríolo palesando essere Aldobrado Manfredi che a lui aveva tentato togliere la vita nel bosco di Trezzo, narrò il divisamento che quegli avea fatto d’assalire sulla strada di Novara, presso al Ticino il duca Ludovico di Francia, che veniva alle nozze della signora Valentina, figlia di Giovan Galeazzo. Gli ascosi e secondarii pensieri che la narrativa delle disposizioni dell’assaltamento del duca aveva fatti nascere nell’animo dell’aríolo, non sorsero a tale novella in cuore a Palamede, la cui mente fu invasa da tutto lo spirito guerriero e di vendetta, di cui in quella età non andavano esenti anche i più umani fra quelli che facevano professione delle armi. Tutto pieno del desío di trovarsi al cimento, e concentrando in questo solo ogni altro pensiero che lo conturbava, rifece a passi rapidi, seguito dall’aríolo, quella stessa strada per rientrare in Milano. Pervenuti alla via che passando innanzi a S. Eustorgio metteva a Porta Ticinese, videro un improvviso accorrere di popolo, uno affacciarsi di genti alle finestre, ed udirono le campane di quella chiesa dare in suoni festosi. «Arriva il signor Giovan Galeazzo da Pavia (disse l’aríolo a Palamede); ora che qui sta solo a far da padrone, troverà nelle sale dei ricchi palazzi, e fra le dame di Milano, un più aggradevole soggiorno che nelle sacrestie della sua chiesa del castello e tra i monaci di Pavia.» Si vide infatti il principe coperto da un fino drappo orlato di pelliccia venire sovra un bianco destriero: gli cavalcavano al fianco alcuni nobili capitani d’armi, e lo seguivano molti militi armati in tutto punto. Il popolo, che stava stivato in ale lungo la strada, faceva eccheggiare l’aria di evviva al suo passaggio. Quando Giovan Galeazzo fu giunto dappresso al tempio di Sant’Eustorgio, rivolse verso la porta di quello il proprio cavallo, e così fecero gli altri. I frati Domenicani usciti dalla chiesa gli vennero incontro: due persone del suo seguito, balzate da sella, si recarono a lato del di lui cavallo; e tenendogliene le staffe, gli diedero braccio a discendere. Egli porgendo con affabilità il saluto a que’ frati, che con atti di umiltà e di sommo rispetto lo accoglievano, s’avviò alla chiesa, dicendo essere desideroso di assistere alla celebrazione d’una messa avanti all’altare de’ tre Re Magi, per rendere grazie a Dio della sua felice venuta. I battenti della porta della chiesa furono spalancati, e Giovan Galeazzo col seguito vi entrò. Un inginocchiatoio adorno di preziosi ornamenti, con cuscini di seta frangiati in oro, venne recato innanzi alla cappella dei Re Magi; e il principe piegato su quello, fosse abitudine, fosse sincero sentimento di religiosa pietà, si compose in attitudine d’intenso pregare. Da tutte le celle e le stanze corsero alla sagrestia i frati ed i servi del convento, e si affaccendarono ad allestire speditamente quegli oggetti che potevano servire a rendere più splendido l’altare e pomposa la celebrazione della messa: venne accesa gran quantità di lumi; si scoprirono le più belle reliquie, e tra tutte la più preziosa, quella di S. Pietro martire, racchiusa in aurea conserva da molti gioielli coperta; si trassero i più ricchi paramenti e gli abiti sacerdotali di maggior riserbo, e col massimo decoro incominciò la religiosa funzione, che l’incessante suonare dei bronzi annunziava. Le porte della chiesa eran rimaste aperte; e il popolo, cui i militi impedivano d’entrarvi, stando al di fuori affollato, rimirava con divozione e maraviglia quegli splendori dell’altare, ed il raccoglimento di Giovan Galeazzo e de’ nobili suoi seguaci. Palamede e l’aríolo trovaronsi essi pure frammisti a quella turba, e guardavano anch’essi curiosamente il principe; ma i loro pensieri erano d’assai diversi da quelli delle persone da cui erano circondati. L’aríolo, astuto e conoscitore siccome era delle altrui ipocrisie, non lasciavasi dalle apparenze sedurre, e stimava entro di se che quel fervor religioso del conte di Virtù fosse, piuttosto che al vero scopo della preghiera, diretto ad ingannare il popolo; nell’animo del quale quegli esterni atti di pietà sì pubblicamente praticati infondevano venerazione, e recavano convincimento essere dotato di grande bontà chi li eseguiva. Nel cuor di Palamede all’incontro quella vista non mosse che sdegno: egli teneva per fermo che l’eccesso della tirannia fosse stato da Giovan Galeazzo consumato contro di lui in rifiutargli replicatamente la prigioniera di Trezzo; quindi si persuadeva che avendo esso un animo così duro e cattivo, falsa e simulata era l’aria di divozione con cui stava innanzi agli altari; e poco avvezzo a frenare l’impeto de’ proprii sentimenti, «Cuor di serpe (esclamò), i santi non ascolteranno i tuoi bugiardi voti....» ed avrebbe proseguito imprecando contro di lui, con pericolo d’attirarsi l’attenzione e l’ira degli astanti, se Enzel noi costringeva con rapide parole al silenzio, ed aprendogli un passaggio in mezzo alla folla, nol traeva di là lontano; per buona sorte nessun individuo del popolo aveva prestato orecchio a que’ detti, per cui, senza che persona al mondo loro abbadasse, ripresero la strada di Porta Ticinese e rientrarono in Milano. L’aríolo, cui pressava sommamente l’impresa del cavaliero contro l’aggressione del duca di Francia, meditata da Aldobrado, si diede con ogni studio a ricercar di sapere il giusto momento in cui questi sarebbe passato presso il fiume Ticino, luogo ove l’assassino ritrovavasi; e col mezzo degli altri aríoli venne a capo d’aver notizia che il duca Ludovico era pervenuto di già a Novara, e il giorno seguente sul far della sera sarebbe giunto a Milano: fece per ciò calcolo che al mezzodì all’incirca dovea giungere al fiume, e corse ad ammonirne il cavaliere, che ansiosamente ne attendeva l’istante. Appena comparve l’alba di quel giorno, Palamede abbandonò tacitamente le piume e il palagio del marchese Azzo Liprando, mentre, per non cagionare in quella casa agitazioni per lui, avea già mandato lo scudiero coi cavalli e le armi in una lontana abitazione. Quivi l’attendeva l’aríolo che si era svisato addossando abiti da taglialegna e portando una scure, onde mischiarsi, se ne veniva il destro, fra i ladri, per meglio spiarne i moti senza essere riconosciuto. Palamede vestì la sola armatura del petto, chè non stimava degno di prode guerriero l’armarsi a tutto punto per combattere assassini; ricoperse il capo con una celata lombarda senza cimiero, e con visiera e fori traversali; prese una lunga spada, non volle nè scudo nè lancia; e salito in arcione, seguito dallo scudiero, armato esso pure, e dall’aríolo, prese via ver Porta Vercellina. Lasciate le mura della città, Enzel si pose di buon passo a camminare a fianco del cavaliero. Indurata dal gelo era la strada, gli alberi e il terreno biancheggiavano per le brine; sorgeva il sole come un rosso disco, ravvolto nelle nebbie, dietro le torri di Milano. L’aríolo, per distrarre Palamede dai tristi pensieri che la melanconica vista dell’invernale squallore e il languire della natura gli andava aumentando, si fece a narrare varii racconti tratti da storie, vere in parte ed in parte con fino artificio da lui adattate alla di lui situazione di animo; e frammezzando queste narrazioni col dispiegare il modo a cui dovea egli attenersi nell’eseguire l’impresa alla quale si era accinto, manteneva nel di lui cuore un entusiasmo che lo spirito d’avventure dei tempi e il desiderio di vendetta facevano ancor più vivo. Passata a guado l’Olona, povera d’acque nella stagion delle nevi, incontrando qualche rustico casolare e villaggio di distanza in distanza, pervennero presso Magenta. Enzel consigliò il cavaliero di non passare per quel borgo, onde non dar sospetto di ciò a cui intendevano; ma ponendosi per un sentiero che correva fra i campi ne andasse oltre al di fuori: «Io (disse) che con questi abiti sarò sconusciuto, entrerò nel borgo e andrò nella casa dell’oste, per osservare se vi si trovino persone le quali sappiano quanto sta per accadere; e ci porrei il capo che alcuno della squadra d’Aldobrado vi sta in sentinella per correre a recar avviso a compagni se mai apparissero sgherri o soldati.» Il cavaliero seguì il consiglio di Enzel; ed attraversando collo scudiero, rasente una siepe di piante, alcuni campicelli, riprese al di là dell’abitato la strada principale; soffermò il cavallo attendendo l’aríolo, il quale dopo alquanti minuti il raggiunse a frettolosi passi; ed appressatosi gli disse: «Due spioni dei ladri, travestiti da miserabili storpi, stanno appostati alle estremità del borgo; e fingendo chiedere l’elemosina, si accostano alle persone che vi entrano od escono, e le esaminano attentamente: io li ho ravvisati sotto i loro cenci, ma essi non conobbero me al certo. Nell’osteria, ho chiesto carne di cervo all’oste; ed egli mi rispose che già da qualche tempo più non ne cuoceva, a causa che occupando gli assassini i boschi e le vallate d’intorno, nessuno oramai s’arrischia girne alla caccia; e soggiunse che i signori del contado ed i villici, che talvolta sono da loro molestati nelle proprie case, hanno fatta determinazione d’armarsi in massa e sterminarli. — Troncherò io la testa del serpente (disse il cavaliero, che la vicinanza del cimento rendeva più ardente d’incontrarlo): presto, o aríolo, mi guida sulla traccia di queste vipere; saprò io rintuzzarne le velenose loro lingue.» Indi, alzando gli occhi al cielo, con voce solenne: «Siccome (disse) i più nobili cavalieri non isdegnarono mettere le loro spade nel sangue degli scellerati per liberare innocenti vittime dalle oppressioni, così io voto il capo del traditore Aldobrado al glorioso Sant’Ambrogio ed alla mia Ginevra.» Ciò detto, ripresero cammino alla volta de’ boschi. Quanto però s’era aumentato l’ardore del combattimento nell’animo del cavaliero, altrettanto se n’era scemato il desiderio nell’aríolo; pensava egli che trovandosi senza elmo e corazza, la punta d’una squarcina o d’uno spuntone gli potevano entrare nel corpo agevolmente; giacchè se i ladri erano in gran numero, Palamede avrebbe trovato molte faccende alla spada per proprio conto, senza vegliare alla di lui difesa; ed Enzel teneva assai poca fidanza nella bravura dello scudiero. Tali riflessioni agitavano la mente dell’aríolo, e stava avvisando ai modi di scansare il periglio, allorchè guatandosi dintorno vide che i coltivati campi andavano terminando, e la strada s’inoltrava fra un’alta selva. Un tremito di paura l’invase tutto; ma mirando al cavaliero che ancor teneva la visiera alzata, vedendone il contegno fiero e sicuro, e temendone le rampogne se mostrasse viltà, riprese coraggio, e nello scaltro spirito fece calcolo dei mezzi di porsi in salvo senza guastar l’impresa; s’accostò quindi a Palamede, e disse: «Non è convenienza il rimanere su questa strada, poichè io so che poco lungi deve ritrovarsi Can-di-monte, posto a guardia per dar segnale ai ladri, che saranno appiattati in vicinanza della strada del momento in cui passeranno i viaggiatori Francesi; se esso ci scorge, darà loro qualche segnale; ed essi rientreranno nel bosco, e il colpo ci va fallito: meglio si è che cerchiamo di guadagnare la sommità della valle di Ticino; tenendoci così alle loro spalle, noi potremo vedere l’avvicinarsi di questi signori di Francia, e appena verranno assaliti, accorrere improvvisi al luogo della zuffa.» Sebbene il cavaliero fosse impaziente d’adoperare la spada, ed avendo in costume di combattere il nemico di fronte in campo aperto, stesse qualche istante in forse che quel prendere nascoste vie non offendesse le leggi del valore; pure, persuadendosi che tale si era l’unico modo di venirne a capo, piegossi alla proposta dell’aríolo, e pose il cavallo nella selva. Gli alberi spogli di fronde, le boscaglie e gli spineti disseccati e rotti non frapponevano che lieve ostacolo al loro passaggio; essi si diressero alquanto all’interno: indi ripresero via in direzione della maggior strada, e dopo non lungo andare pervennero al margine superiore della gran valle, nel mezzo della quale scorre il Ticino. L’aríolo, fattosi innanzi, trovò un luogo eminente nel terreno; ed ivi chiamò il cavaliero, e glielo additò siccome opportuno ad arrestatisi. Libera da quel sito scorrea la vista sovra la sottoposta valle, che più estesa che erta s’allarga d’alcun miglio; i contorni occidentali di essa si disegnavano sul lontano giogo delle alpi candide di neve, che il sol meriggio irradiava. Selvaggi come natura li giva creando, s’appresentavano per l’inclinato piano immensi boschi; le elci e pochi altri alberi, che il verno non spoglia, porgeano all’occhio qua e là le loro verdi foglie tra le altre infinite piante che i nudi rami intrecciavano. Nel fondo della valle scorgevansi per varii tratti le azzurre acque del fiume di cui i boschi impedivano di vedere la continuità. Poco al di sotto dell’elevato luogo ove trovavasi Palamede, la strada per Novara scendeva verso il Ticino, e se ne seguiva coll’occhio lunga pezza il giro: indi essa perdevasi, e ricompariva al di là del fiume salendo l’opposto lato della valle; ma la distanza e le folte selve ne la celavano tosto interamente. «Vedete voi là (disse l’aríolo al cavaliero) quell’uomo con nera giubba e cappuccio che stando sulla strada taglia lentamente colla falce i rami sporgenti degli alberi, quello è Can-di-monte che attende i passeggieri per avvertirne la masnada d’Aldobrado che certamente sta in agguato poco lontano da lui, e forse tra quella massa d’alti alberi. — Il veggo (rispose Palamede, cui scorgeasi in volto che gli era penoso il più oltre frenarsi); ma dimmi, Enzel, or che sappiamo dove Aldobrado si trova, perchè mi trattieni dal ritrovarlo anzi che giungano questi passeggieri? Essi incontreranno più facile cammino quando il ribaldo sarà ucciso.» L’aríolo, al compimento de’ cui disegni ed alle precauzioni per la propria sicurezza premeva l’intervento dei nobili francesi, con tutta la propria facondia si fece a dissuadere il cavaliero da quella richiesta, e guardando il sole: «Già da un’ora (disse) è passato il mezzodì; d’assai non ponno stare a pervenire in questi luoghi.... Ma.... non m’inganno.... eccoli.... eccoli.... li vedete voi?.... là.... dicontro a noi.... tre.... quattro.... cinque uomini a cavallo.... discendono verso il fiume. Che c’è dietro a loro?... Una _paraverèda_... donne.... dame sicuramente, e poi tre cavalli con altre some.... È il duca Lodovico senz’altro. Che bottino per Aldobrado se potesse riuscire a porvi le mani! Presto scendiamo: entrate in questo letto di torrente, esso giunge vicino alla strada: quivi attenderemo il giusto momento per uscir loro addosso. Se ci scoprissero, perdiamo tutto il frutto della nostra fatica.» Veduti i viaggiatori da lungi ed udite queste parole, Palamede mosse il cavallo: lo scudiero il seguì, e l’aríolo si tenne dietro a loro: per greppi e ciottoli discesero sin dove aveva indicato Enzel, e quivi si fermarono cheti. Pochi istanti erano scorsi, quando uditosi uno appressarsi di cavalli e di ruote, s’intese un fischio; un rumore gli successe di genti accorrenti, ed un gridare improvviso, e percuotersi di armi. Palamede diè di sprone al cavallo, calò la visiera, sguainò la spada, e in pochi slanci fu sulla strada; il seguitava lo scudiero, ma l’aríolo era scomparso. Di rapido galoppo il cavaliero fu in mezzo alla zuffa. Presso un cavallo atterrato, stava facendo forza per rialzarsi uno de’ passeggieri giovane e riccamente abbigliato; ma un ladro, tenendolo a terra, gli misurava al cuore una pugnalata: il cavaliero con un fendente spaccò a questi il capo e lo stese al suolo. Tre altri viaggiatori assaliti ciascuno da più assassini, tratte le spade, s’andavano difendendo; e un quarto più vecchio, già disarmato, veniva violentemente strascinato da cavallo; altri ladri s’erano posti intorno alla _paraveréda_, e ne discendevano le donne; ed alcuni, scaricate le some, scioglievano i forzieri. Palamede, slanciatosi fra loro, menando colpi maestri con vigoroso braccio, quanti colpiva, tanti poneva a terra. Gli assassini, sopraffatti da questo inatteso assalto, avevano abbandonati i passeggieri; e già ritraevansi al bosco, quando l’un d’essi coperto da una pelle di lupo che vestivagli le spalle, il petto e la testa, alzando furiosamente una mazza di ferro, con voce orrenda gridò: «Giuro per l’inferno di fracassare il cranio a chi non mi segue: stringiamoci insieme; uccidiamo.» Tutti a queste parole corsero dintorno a lui; e in tal modo congiunti, scagliatisi con estrema forza contro il più prossimo de’ passeggieri, lo rovesciarono a terra in un fascio col cavallo. Palamede, udendo quelle voci, e vedendo l’inferocito capo degli assassini, «Ti conosco (esclamò), ribaldo traditore; ora tu stesso non potrai sottrarti alla mia vendetta.» Così dicendo, verso di lui precipitando il destriero, mirògli colla punta alla gola. Aldobrado iscansò il colpo, che venne a ferire un altro di sua schiera, ed «atterriamolo, atterriamolo» gridava disperatamente. Tutti gli assassini furono colle armi addosso al cavaliero, che roteando la spada rapidamente d’ambo i lati, ribattè una tempesta di colpi; e cogliendo il destro, e pungendo a due sproni il cavallo, drizzò al volto d’Aldobrado sì giusto l’acciaro, che coltolo alla guancia, lo traforò, facendoglielo uscire per la nuca; e così trafitto il trascinò per la violenza della spinta più passi lontano; ove cadendo, gli si scopersero i rossi capelli del capo, ed il feroce viso apparve deforme e insanguinato. I passeggieri, vedendo gli assalitori tutti dintorno al cavaliero, si slanciarono essi pure alla lor volta contro di loro. Questi mirando ucciso il condottiero, e sentendosi da forti spade incalzati, si diedero alla fuga, cacciandosi verso i boschi; ma a toglier loro tale scampo, sbucarono fuor della selva improvvisamente molti taglialegna, che atterrando i fuggenti a colpi di scuri, li presero presso che tutti, e con forti lacci gli uni agli altri avvinsero, onde non potessero più sottrarsi al destino che li attendeva. Primo fra loro fu Enzel Petraccio, che innanzi a tutti uscì dal bosco gridando: «Vivano i prodi cavalieri! Viva Palamede!» il che gli altri ripeterono con alto frastuono. All’aríolo era dovuta la presa dei ladri: egli mentre faceva via pei boschi, udendo un lontano succedersi di botte per la selva, persuaso che fossero villici intenti ad atterrar piante, aveva formato il progetto di condurli alla zuffa, onde prestar soccorso se per avventura Palamede perigliasse. Infatti mentre questi discendeva dall’alto della valle pel letto del torrente alla strada, s’allontanò da lui; e dirigendosi verso il luogo d’onde partiva quel martellare di scuri, vi trovò molti taglialegna. Ansante e premuroso, come chi rechi notizia di grande avvenimento, a loro narrò che quella banda di ladri tanto in que’ boschi terribile era stata da valorosi guerrieri sorpresa, e posta in ispavento e fuga; che oramai gli assassini non potevano aver salvezza che ritraendosi pei boschi, e che essi accorrendo avrebbero loro tolto questo rifugio, e sarebbonsi liberati da sì funesti vicini. Con tali detti destò in quei lavoratori gran curiosità e coraggio, e li guidò correndo in truppa giù pei burroni al sito dell’assalto, ove giunse al momento che il successo aveva fatte verificare le sue parole. Grandissima, come è da credere, fu la sorpresa e la maraviglia de’ nobili viaggiatori francesi per questo evento. Il repentino assalto da tanti uomini contro di loro eseguito, lo sconosciuto guerriero che con stupende prove di valore li rese salvi da sì grave periglio, avevano ad essi recata l’impressione che far sogliono i più straordinarii avvenimenti; e la comparsa in quel momento quasi magica di molti villici la fece loro ancor più sorprendente. Allorquando di quella schiera di ribaldi molti furono uccisi, e il dar delle armi cessato per la presa degli altri, essi si fecero intorno a Palamede, e in lingua di Francia gli porsero, colle lodi per sua bravura, le più grandi attestazioni di riconoscenza, ed il pregarono a render loro manifesto come fosse sì singolare accidente accaduto: quegli però le cui parole appalesevano maggior gratitudine, e che colle più affettuose espressioni dicevasi al cavaliero debitore della vita, si era il più giovane fra loro, e lo stesso che stava sotto il pugnale d’un assassino quando primamente sovraggiunse Palamede. Non difficile fu l’accorgersi ch’egli era il duca Lodovico, poichè gli altri, vedendolo a terra, erano tutti discesi da cavallo, a gara ciascuno offrendo a lui il proprio, e gli stavano a fianco con atti di rispetto e premurosa attenzione: istantemente questi chiese a Palamede che alzasse la visiera e si desse loro a conoscere. Palamede, il quale era istruito della lingua provenzale, poichè le amorose e cavalleresche canzoni che si cantavano per le corti d’Italia erano pel maggior numero in tale idioma, intese il loro parlare; e levando la visiera dal volto, loro rispose, con simil favella, ch’era dovere d’ogni cortese cavaliero il distruggere gli uomini infesti, e ch’egli così operando s’era vendicato d’un traditore; poscia, rivolgendo da se il discorso, disse ch’era d’uopo per l’istante dar opera a rincorare le dame da quel trambusto agitate, ed assettare gli equipaggi, onde riprendere cammino per abbandonare il luogo di così orribile scena. A queste parole i nobili Francesi, cui quel solo sommo dovere della riconoscenza aveva fatto per un momento dimenticare la galanteria, si volsero frettolosi alla _paraveréda_; ma le dame in numero di due, con due damigelle, erano di già discese da quel cocchio, e stavano intente a soccorrere il viaggiatore più vecchio giacente al suolo, poichè la furia de’ ladri nell’istrapparlo da sella lo aveva in più parti offeso. A tal vista fattisi tutti a lui vicini: «O mio Montaigu (disse con grave cordoglio il giovane duca Lodovico), sei tu ferito? — No (egli rispose con una serenità che nel di lui animo, sempre lieto e inalterabile, non valeva quel lieve disastro a turbare): io sono smontato da cavallo un po’ sgarbatamente; ma starei ritto e franco sulla persona come sta qui avanti a me il cavaliere di Beaumanoir, che ebbe pochi momenti sono la mia stessa sorte, se non mi tenessero a terra gli anni, doppii de’ suoi.» Mentre i Francesi ragionando intorno al conte di Montaigu davansi mano a recarlo nella _paraveréda_, e le dame lo interrogavano delle circostanze di quel fatto e dello sconosciuto loro difensore, Palamede ordinava all’aríolo ed allo scudiero di fare da alcuno di que’ contadini ricaricare le some sui cavalli de’ viaggiatori, e spogliare dai ricchi arnesi l’ucciso destriero del duca, riponendoli fra gli altri loro oggetti. Di que’ taglialegna, varii infatti si fecero a raccogliere gli sparsi forzieri e rinchiuderli; altri ricercavano le armi dai masnadieri perdute, e frugavano loro ne’ panni per levar ad essi i denari o gli oggetti preziosi che possedevano. Alcuni stavano a guardia di quelli presi e legati, ed andavano con poca umanità ingiuriandoli, rinfacciando ad essi i commessi delitti, e minacciandoli di prossimo patibolo; alcuni altri finalmente, levando sulle spalle gli uccisi, gli appendevano ai rami delle piante di lato alla strada; ed un di loro arrampicandosi ad alta quercia, trasse per una corda a quella sommità il cadavere d’Aldobrado, e lasciollo quivi legato pendere penzoloni. Allorchè furono le cose rimesse in ordine, e i viaggiatori risaliti in sella, tutti presero insieme cammino, salendo la vallata. Precedevano i taglialegna conducendo i malfattori annodati; seguivano a qualche distanza i nobili Francesi, frammezzo ai quali stava Palamede; indi venivano le dame nella _paraveréda_, e dietro più lentamente seguitavano i caricati cavalli. Enzel Petraccio camminava presso allo scudiero, restando il più che gli era possibile inosservato: poichè essendo il di lui piano riuscito felicemente, temeva che venendo egli veduto colà da alcuno degli aríoli che erano stati in quella notturna adunanza presso l’Olona, avesse a segnarlo qual traditore, che aveva tratto profitto d’una notizia quivi palesata per far distruggere quella masnada d’assassini fra cui ve ne erano molti stretti con essi in amicizia; e paventava, se ciò avvenisse, di essere vittima d’una loro secreta vendetta. In un tratto essendosi sparsa la voce di ciò ch’era avvenuto, tutte le genti del contado si recavano in folla sulla strada ad incontrare quella comitiva, e numerose voci applaudivano ai cavalieri, ed obbrobriavano i ladri. Gli abitanti del borgo di Magenta rimasero stupiti che uomini stranieri avessero così prestamente ed a loro insaputa eseguita un’impresa ch’eglino stessi stavano con gran sollecitudine disponendo: andavan essi chiedendo come fosse avvenuto quel fatto, e sebbene ne fosse la storia di già travisata in mille guise, pure una voce generale ne indicava Palamede come autor principale: onde tutti si affollavano ad ammirarlo, e facevan le maraviglie per la sua prodezza. Egli però, poco ambizioso di que’ popolari applausi, giva sollecitando i Francesi ad affrettare i cavalli, poichè essendo il giorno avanzato assai, necessitava far veloce cammino per giungere pria che fosse notte alle mura di Milano. I Francesi infatti seguirono il di lui consiglio, e di buon trotto tutti si tolsero alla vista di que’ terrazzani, i precipui fra i quali stavano divisando di festeggiarli; ma non potendo ciò eseguire, occuparono il rimanente di quella giornata all’orribile spettacolo di vedere innanzi alla casa del comune torturare ed uccidere gli assassini stati presi. CAPITOLO X. Qui sono le famose e sacre soglie Di Giovan Galeazzo primo duce Che è de’ Visconti ancor splendida luce, Unde ogni esemplo di virtù si toglie. BERNARDO BELLINZONE, _Sonet._ Gastone conte d’Armagnac, che era stato spedito da Carlo re di Francia a Milano per trattare le nozze del di lui fratello Lodovico colla figlia di Giovan Galeazzo, abitava in una magnifica casa di questa città. Egli aveva avuto secreto avviso che il giovane duca sarebbe giunto a Milano all’insaputa del Visconte, a cui voleva, coll’improvviso suo comparire, recare grata sorpresa; ma ignorava però il giorno in cui doveva pervenirvi, imperocchè la malagevolezza delle vie non permetteva di formar calcolo esatto del tempo ch’era d’uopo impiegare nel viaggio. Fu questa la causa per cui non si recò ad incontrarlo, e che col maggior contento lo accolse coi cavalieri e le dame che ne formavano il seguito, allorchè giunsero a sera avanzata nella di lui abitazione. Palamede aveva accompagnato il duca sino alla casa del conte d’Armagnac, e quivi preso da lui congedo ritirossi nel proprio palazzo. Il valore di lui, e forse più di questo la dolcezza congiunta alla nobiltà della persona e dei modi, si erano sì addentro impressi nell’animo di Lodovico, che spiacevole sommamente gli sarebbe stato il distacco del cavaliero, se non avesse questi data parola di venire nel seguente giorno a visitarlo. Il dì appresso infatti Palamede recossi alla dimora di Gastone, ove il duca e gli altri cavalieri e le dame di Francia lo ricevettero con somma cortesia, presentandolo al conte siccome quel prode cavaliero che era stato loro liberatore nel tremendo periglio che avevano corso nel viaggio, e di cui, appena giunti, fecero ad essolui minuta narrazione. Il conte rese esso pure le più vive grazie a Palamede per sì segnalato favore fatto al fratello del suo re, e mostrò molta meraviglia per non aver mai veduto alla corte di Giovan Galeazzo un cavaliero lombardo di tanto valore. Lodovico, nel cui animo la giovanile età e l’affetto che gli si era destato per Palamede, producevano un entusiasmo di riconoscenza, dichiarò che se un sì degno cavaliero non veniva dal Visconte onorato, egli lo avrebbe condotto seco a Parigi, ove sarebbe stato ricevuto fra i più distinti baroni della corte di re Carlo. Palamede, protestandosi a Lodovico gratissimo, rispose che egli non ambiva distinzioni dai principi, poichè la sua spada e il suo braccio erano i soli mezzi a cui affidava la propria gloria; ma, soggiunse, che Giovan Galeazzo, ben lungi dal porgergli segni d’onore, era ver lui crudelissimo, offendendolo nel più vivo del cuore. A questi detti, tutti mostraronsi compresi da sdegno e da dolore, e Lodovico istantemente pregò il cavaliero a palesare per qual causa il conte di Virtù fosse a lui nemico, e qual modo tenesse nell’essergli tiranno. Con quella veemenza ed espressione che il risentimento d’un’offesa congiunto all’idea della propria forza accendono in un animo vigoroso ed ardente, Palamede, svelando il proprio lignaggio, narrò la storia dell’amor suo per Ginevra, e rammentando il rovescio della fortuna di Bernabò, disse come Giovan Galeazzo tenesse con irremovibile ferocia quella sua fidanzata rinchiusa in un castello per null’altra cagione che per farla languire disperatamente, onde accrescere per tal barbaro modo il dolore ed accelerare la morte del padre di lei, di cui si voleva spenta nella mente di tutti la memoria. Tale racconto, che l’espressive sembianze di Palamede, dipingendosi nel dirlo a varii affetti, rendevano più vero ed interessante, penetrò d’un senso di tenerezza e pietà i cuori di que’ nobili Francesi, e quello del giovane duca più d’ogn’altro, che, commosso, esclamò: «Falsa era dunque, o Gastone, la rinomanza che del conte di Virtù suonava in Francia, come di generoso e saggio signore!... Il Re mio fratello venne tratto in inganno, poichè egli non vuol certo congiungermi alla figlia d’uno sleale oppressore, ed io abborro il farmi suocero un principe che calpesta così empiamente i nodi del sangue.» Il conte d’Armagnac, cui doleva l’ira impetuosa del duca, lo assicurò con molte parole, che Giovan Galeazzo dimostravasi coi soggetti d’animo giusto ed umano, di che faceva prova l’amore a lui dai vassalli attestato con molteplici omaggi; ed accertò Palamede che il rifiuto fattogli della prigioniera di Trezzo non poteva derivare che da cautele di dominio, e non da tirannia; ed egli stesso lo accertava che assumendosi il duca Lodovico l’impegno di ottenerla, il principe non gli avrebbe fatta negativa, nè sarebbero scorsi lunghi giorni che egli potrebbe condurre libera la sua fidanzata al giuro nuziale innanzi agli altari. A queste parole Lodovico esclamò che non avrebbe giammai dato mano di sposa alla figlia di Giovan Galeazzo, se questi pria non porgeva sacra promessa di concedere Ginevra al cavaliero. Le speranze di Palamede, già tante volte deluse, rinacquero a tali detti; ed ebbe convincimento che la dignità del duca e la solennità del momento in cui chiederebbe per lui quel favore, avrebbero di certo costretto Giovan Galeazzo ad accordarlo: sicchè più non dubitò che verrebbe al fine l’istante che sua sarebbe colei per possedere la quale, se gli fosse stata ancora contrastata, era ormai per appigliarsi alle più violente e disperate risoluzioni. Il contento che tale pensiero gli infondea nel cuore si manifestò nel suo volto, e, fattosi lieto, stette lunga pezza fra que’ nobili Francesi intrattenendosi de’ gioviali colloquii che vennero posti in campo dal conte di Montaigu, che, pienamente risanato della caduta, facea scopo di allegro racconto quel disastroso avvenimento che lo aveva posto in necessità di percorrere la strada dal Ticino a Milano chiuso colle dame nella _paraveréda_. Dopo molti altri ragionamenti Gastone fece al giovane duca un quadro della corte di Giovan Galeazzo, descrivendo i personaggi più distinti che v’intervenivano, ed ogni elogio prodigalizzando alla bellezza, alle grazie ed all’ingegno di Valentina, dandogli fede che non era dessa in ogni pregio inferiore ad Isabella di Baviera, di cui a Parigi s’eran celebrate da poco tempo le nozze con re Carlo, la quale aveva vinte tutte le dame francesi sì per l’avvenenza della persona, come per la novità e l’eleganza degli abbigliamenti. La fantasia di Lodovico, già per indole focosa, fu più che mai accesa da queste narrative, e voleva recarsi incontanente alla corte del principe per vedere Valentina, ed ottenere Ginevra a Palamede. Ma Gastone fece a lui presente ch’era d’uopo a tal fine attendere la sera, tempo in cui Giovan Galeazzo soleva adunar la corte a festoso convegno, al quale intervenivano Caterina di lui moglie, con Valentina e le più nobili dame; poichè in altri momenti chiudevasi in appartate stanze, nè alcuno ammetteva alla propria presenza se non fosse stato dapprima minutamente istruito del chi si fosse, e che chiedesse, e sarebbesi in tal modo svanito l’effetto della gentile sorpresa che aveva meditata venendo celatamente a Milano. Accettando questo consiglio, in cui tutti come ottimo convennero, Lodovico prefisse la sera di quel giorno istesso per recarsi alla corte, e diè comando si disponessero le più ricche vesti che avea recate di Francia, e che erano al suo nobile grado convenienti. Quando la signoria di Milano venne divisa tra i due fratelli Galeazzo e Bernabò, s’avevano essi scelta per loro dimora l’uno il castello di Porta Giovia, e l’altro quello di Porta Romana, abbandonando entrambi il magnifico palazzo che Azzone Visconti, essendo solo signore della città, aveva fatto costruire circa l’anno 1335 nel luogo detto del Broletto vecchio. Giovan Galeazzo, allorchè s’ebbe sbarazzato dello zio, fattosi così unico padrone dello stato, amando il fasto principesco, ed aspirando alle grandezze d’un più esteso potere, volle per luogo di sua corte il palazzo di Azzone, e lo fece più riccamente addobbare che ai tempi d’Azzone stesso non fosse. Quell’edificio innalzavasi presso che sull’area stessa, ove trovasi ai nostri giorni il reale palazzo, se non che stava più al lato destro di questo, stendendosi tra la regia cappella di San-Gottardo e il Duomo, occupando una parte del suolo ora coperto da quest’ultimo tempio. Era desso di forma quadrata: le porte e le finestre ad archi acuti vedevansi intorno ornate d’arabeschi e figure: in mezzo alla sua fronte s’innalzava una larga torre, lungo i cui profili scorgevansi sottili colonne e statuette di varie foggie; da settentrione stavagli presso la chiesa di Santa Maria Iemale, e a mezzodì San-Gottardo, di cui il campanile, che ancora vediamo, quello stesso si è, fatto da Azzone elevare, e su cui venne posto a que’ tempi il primo orologio che si vedesse in Milano, e forse in Italia, il quadrante del quale era distinto in ventiquattro ore che venivano annunziate dai tocchi d’una grossa campana, lo che recava una generale meraviglia, e fu causa che alla contrada che vi passa dappresso s imponesse il nome di Contrada delle ore. In mezzo a quel palazzo stava un vasto cortile cinto da porticato, d’onde ampie scale conducevano agli interni appartamenti ripartiti in sale e stanze adorne con gran magnificenza: erano le volte coperte d’oro e di smalti, le porte contornate di fregi scolpiti in marmi preziosi, e dai battenti risortivano figure cesellate in bronzo; la luce entrava da grandi vetriate infisse in imposte dorate, dipinte a vivaci colori. La gran torre nel centro andava divisa in varii piani, ognuno dei quali era un’elegantissima camera, fra cui v’aveva quella le cui aperture erano chiuse da una rete dorata che conteneva moltissimi uccelli rari con isplendide penne. Ritrovavansi uniti al palazzo ameni giardini in cui stava un chiostro tutto ricco al di dentro di pregiati dipinti, e di gotica architettura al di fuori, al piede del quale stendevasi un laghetto, nelle cui limpide acque esso si specchiava. In mezzo al laghetto sorgeva sovra un’alta base una colonna sostenuta sul dorso di quattro leoni, dalla bocca dei quali scaturiva un largo getto d’acqua, alla cui sommità stava un angelo portante nella destra una bandiera, nel cui campo vedevasi la vipera d’oro. Eravi eziandio un serraglio di animali stranieri, fra cui contavasi uno struzzo, l’unico che in que’ tempi vivesse in Europa. Questa dimora, piuttosto degna d’un gran re che d’un principe resosi da poco tempo signore dello stato, soddisfaceva pienamente alle brame di Giovan Galeazzo. Amava che tutti quelli che entravano nella sua corte restassero presi d’ammirazione per la magnificenza che vi vedevano spiegata, e teneva per fermo che pensieri e modi sovrani guidavano le potenti persone ad assumerne la dignità. Egli però di tutto quel vasto palazzo tenevasi di consueto in una sola appartata stanza, nel cui addobbamento più all’agiatezza che alla sontuosità s’aveva avuto riguardo, contiguo alla quale stava un segreto oratorio. Nella stessa camera vedevansi in ricchi scaffali riposti molti libri, alcuni de’ quali andavano stretti in coperture ornate di pietre preziose e di lamine d’oro; altri, aperti sui tavolieri, mostravano larghi fogli di pergamena scritti in gotici caratteri, le cui iniziali erano abbellite da miniature che occupavano gli spaziosi margini. Tra questi volumi i principali erano stati trascelti e pel principe acquistati da Francesco Petrarca, che li disseppellì dai polverosi ammassi raccolti ne’ monasteri. Ivi scorgevansi i libri della filosofia d’Aristotile, gli Annali di Tacito, i poemi d’Omero e di Virgilio, le opere teologiche di Sant’Ambrogio e di altri Santi Padri, la Bibbia, molte sacre preci, il Canzoniere e l’Africa del Petrarca istesso, le Poesie di Pietro Bescapè, le Romanze dei trovatori e le storie dei tempi. Giovan Galeazzo racchiudevasi ogni giorno in quella stanza, ove non ammetteva che i più fidati ministri de’ suoi disegni, che consultava intorno ai più importanti affari, e passava del resto solingo molte ore attendendo alla lettura delle istorie degli antichi, le cui grandezze ed i famosi fatti tanta brama gli destavano di imitarli; e meditando agli interessi dello stato, non per migliorarne le condizioni, ma per consolidarne in se il dominio, ed allargarne i confini, onde ottenere una possanza tale che valesse a porgli nella destra uno scettro reale. Sebbene egli possedesse quasi tutta l’alta Italia, dal Mincio al mare Mediterraneo, sentiva che non teneva ancora sufficienti forze da opporre con esito certo a quelle de’ Veneziani, del Pontefice, o dei Germani in caso di loro discesa; e faceva calcolo che ad ottenere un’assoluta preponderanza su tutti gli stati d’Italia era d’uopo stendesse il proprio dominio fino all’Adriatico; per venirsi a frapporre tra lo stato della Chiesa e la Veneta Repubblica. Seguendo questo pensiero guardava con occhio contento, assoggettando alle sue politiche riflessioni, le contese insorte tra Francesco di Carrara signore di Padova, ed Antonio Della Scala signor di Verona; e poichè gli era noto che i Veneziani porgevano secreti aiuti allo Scaligero per togliersi la vicinanza del Carrarese, egli stabiliva fra se di farsi in soccorso di questo, impossessarsi di Verona, scacciando lo Scaligero, che gli era anche particolar nemico per aver dato rifugio ai figli di Bernabò, e sotto velo di difesa mandar soldati a Padova, da dove gli riescirebbe poi facile allontanarne Francesco di Carrara, e fattosi così padrone di quello stato venire a porsi alle porte della repubblica, e rendersi signore di quasi tutto il corso del Po. Pervenendo a questa meta, rifletteva che avrebbe potuto dettare a tutti gli altri principi le condizioni che gli andrebbero a grado, e nessuno avrebbe osato opporsi al suo disegno di assumere il titolo e le insegne di re d’Italia. Dappoco egli frattanto stimava se stesso, perchè non teneva la signoria che come vicario degli imperatori d’Allemagna; e benchè mirasse più alto, voleva nel frattempo fregiarsi la fronte della corona ducale, come primo passo al regno; per il che tenevalo assai in pensiero il progetto di spedire un ambasciatore alla corte di Venceslao imperatore, ed avea frequenti colloquii a questo fine con Guido Pallavicino, uomo assai accorto e delle arti cortigianesche espertissimo, che sembravagli il più atto ad ottenergliene a forza d’oro o d’intrighi l’imperiale diploma. Vero è che mezzo più certo e pronto onde avere da Venceslao la concessione del titolo di duca sarebbe stato il trattare le nozze della propria figlia Valentina con alcuno della famiglia di quell’imperatore, il che era pure desideratissimo da tutti i potenti lombardi signori; ma in ciò l’ambiziosa cupidigia di Giovan Galeazzo cesse all’amor paterno. Egli amava la Francia, perchè una bella Francese era stata sua prima moglie, e sempre gli era rimasta dolce in cuore la memoria delle feste cavalleresche e del lusso della corte di Parigi: onde per sì fatta inclinazione sua e per l’indole di pompeggiare, ch’egli vedeva con compiacenza svilupparsi in Valentina, volle fidanzarla al duca di Turenna, fratello del re di Francia, per mandarla ad una corte in cui la sua tendenza alla splendidezza avesse avuto campo di segnalarsi; e per ciò davagli eziandio in dote la città di Asti, tutti i castelli del Piemonte e quattro centomila fiorini d’oro. Ma il desio di farsi grande e dominatore non era il solo che la smisurata ambizione nutriva nell’animo di Giovan Galeazzo; egli voleva eziandio recare stupore ai presenti, e mandar famoso il suo nome ai posteri, innalzando monumenti di sorprendente grandezza e maestà. Era per ciò anche oggetto di sua meditazione l’idea di far erigere presso il proprio palazzo un tempio di cui un simile non si vedesse al mondo. Fu infatti questa idea del principe effettuata il vegnente anno nell’erezione del nostro maestoso Duomo, che dimostrò, sin da quando gli si diede incominciamento, ch’essere dovea la più vasta chiesa di tutta Cristianità, e che non ancora ai nostri giorni, a causa dell’immensità dei lavori, a perfezione condotto, è soggetto di meraviglia ai riguardanti per la colossale sua mole e gli innumerevoli ornamenti, attestando quanto dovevano essere grandi le idee e la vanità di un principe di piccolo stato, che in tempi d’ogni prosperità pubblica difettosi ne concepiva il pensiero, e lo faceva eseguire. La Certosa eretta più tardi nel suo parco di Pavia, pel compimento della quale fece assegno della rendita di molte terre, si può credere a buon diritto dovuta alla stessa di lui brama di gloria, sebbene egli dicesse che facevala costruire per mantenere un voto fatto per la salute di sua moglie Caterina, ed in espiazione delle proprie colpe, come era l’uso dei tempi. Tutte queste immagini di potenza e di gloria che signoreggiavano lo spirito di Giovan Galeazzo erano però sovente, nell’epoca di cui parliamo, offuscate e sospese da un terribile pensiero. Nel castello di Trezzo, egli rammentavasi, esisteva ancora Bernabò. Per quanto fosse certo che da quelle mura non potesse sottrarsi, pure la fantasia spesso glielo rappresentava trionfante e libero in atto d’entrare in Milano a strappargli il potere e la vita: quando agitavangli il cuore tali spaventose idee, un truce disegno gli si affacciava alla mente; ma la sete di regnare non valeva a soffocargli i rimorsi e il terrore di che l’esecuzione di quel progetto il minacciava. Abbenchè molte pratiche di pietà, da Giovan Galeazzo tenute, fossero false od esagerate, avea egli non pertanto una viva religiosa fede, nè era spoglio di tutte le superstiziose credenze che in quell’età dominavano: per lo che le scellerate brame, sebbene non spente, erano in lui frenate dal pensiero della divina vendetta, che combattendo in suo cuore coll’avidità del potere, il teneva di frequente dolorosamente angosciato. Da tali gravi cure, che durante il giorno gli incatenavano la mente in profonde meditazioni, egli prendeva la sera sollievo recandosi frammezzo a numerosa scelta di dame, cavalieri, scienziati, artisti, che faceva chiamare a serali veglie nella propria corte, con tutti piacevolmente intrattenendosi ragionando. L’adunanza si raccoglieva in quel palazzo nella gran sala detta della _Gloria_, che era la più vasta e magnifica che mai si vedesse. L’ampia sua volta era tutta ricoperta da uno smalto azzurrino a fiori d’oro: le pareti ne erano maestrevolmente dipinte, vi si scorgea la Gloria raffigurata da una alata matrona con ricchissimi abiti, a’ cui piedi stavano armi e corone; intorno ad essi eranvi molti personaggi favolosi e storici, come Ercole, Teseo, Enea, Attila, Carlo Magno ed Azzone Visconti. Vedevansi appesi in bell’ordine alla sommità delle pareti stesse varii scudi a modo di trofei, sui quali stavano gli stemmi del principe e di sua famiglia; v’era la biscia coronata, v’erano i due secchii pendenti dal tronco acceso, insegna che il padre di Galeazzo si acquistò guerreggiando in Fiandra; e v’era l’albero carico di frutti, impresa di Giovan Galeazzo come conte di Virtù. I tavolieri posti intorno alla sala erano di squisito lavoro, ed i sedili andavano ricoperti con velluti preziosi; varie lamiere pendevano dalla volta sospese a catene d’oro, e molti doppieri ne aumentavano la luce. Nella sera dal duca Lodovico prefissa a recarsi alla corte, il consueto adunamento fu oltremodo splendido e numeroso. Trovavansi quivi i più nobili signori di Milano, di altre città soggette al Visconti e straniere; v’erano gli ambasciatori di varii stati, ciascuno dei quali vestiva con proprio costume; notavansi tra questi Ottonello Discalzo, famoso dottore in legge, mandato dal Gonzaga signor di Mantova, Alvise Pepoli, spedito dalla repubblica di Venezia, il legato del papa Urbano VI e l’ambasciadore di Firenze. V’erano tra i varii capitani d’armi i due celebri giovani Sforza e Braccio da Montone, venuti di quel tempo in questa città col conte Alberigo Balbiano: era in loro notabile, oltre l’intrepido virile aspetto, la foggia conforme dell’abito partito a quarti di diversi colori. Alla metà destra del petto ed alla coscia sinistra vedeasi di colore incarnato, ed alle opposte parti di color bianco e cilestro. Ritrovavansi in quell’adunanza giureconsulti, medici, poeti, non che architetti, pittori e musici distinti: ciò però che ivi recava il maggior brio, ed appagava più dilettosamente lo sguardo, erano le dame e le patrizie donzelle, in cui le venustà delle forme givano pari alla ricchezza e bellezza dell’abbigliamento. Allorchè quel principesco crocchio fu compiutamente nella sala raccolto, preceduto dai paggi e dai servi, vi venne Giovan Galeazzo accompagnato colla moglie Caterina e seguito dalla figlia Valentina che stava fra varie nobili damigelle. Il principe contava gli anni trentotto; era ben fatto della persona, e siccome addestratosi in gioventù al maneggio delle armi, aveva presenza maschia e robusta; i suoi lineamenti erano carraterizzati e virili; ma benchè vi si scorgesse l’impronta di famiglia, apparivano più dolci e maestosi di quelli de’ suoi avi; nell’alta sua fronte qualche ruga immatura accusava le fatiche del suo spirito; il suo sguardo era vivo e indagatore; usava affabilità nei modi, ma sapeva imporre ad un tempo soggezione e riverenza a chi l’appressava; portava una sopravveste di drappo d’oro, sulla quale, al petto, ricamata a bruno, vedevasi la serpe spirale di cui formavano gli occhi due grossi rubini. Caterina toccava il sesto lustro; le sue forme non erano belle, ma una mestizia e un pallore le si scorgea nel volto, che la rendevano assai interessante: causa di tale di lei tristezza era la prigionia del padre e dei fratelli voluta dal proprio marito, a cui le era vietato farne parola: vestiva essa un abito di drappo bianco con larghe maniche di seta a fregi d’oro, e portava sui fianchi una cintura contornata di perle, i di cui opposti capi le ricadeano pel dinanzi sino al lembo della veste, ove congiungevansi in una larga rosa formata da pietre preziose. Valentina portava una veste di stoffa d’argento listata a cerulee striscie, simili recava i calzari; e il farsetto di velluto, del colore dell’amaranto, era tutto da fili d’oro trapunto, ne’ suoi neri capelli vedeasi un nastro che si aggirava tra il volume delle treccie, indi le scendeva diviso sul candido collo. Presso al ventesimo anno, ella s’avea congiunta nella bella persona l’alterigia dei Visconti e le grazie d’Isabella sua madre; i suoi neri occhi si volgevano con impero d’intorno, tutto il suo viso era composto alla severità; ma se avveniva che piegasse al sorriso le labbra, un non so che di così amoroso e gentile le si diffondeva pel volto, che avea una irresistibile attrattiva. Fra le donzelle compagne di Valentina una ve n’era la cui beltà vinceva quella di tutte le altre ivi adunate, se non che alla figlia di Giovan Galeazzo in ciò solo cedeva, che da’ suoi lineamenti non traspariva principesca maestà, ma piuttosto dolcezza affettuosa e inclinazione alla tenerezza. Era questa Agnese Mantegazza, le grazie del di cui viso è più agevole immaginare che descrivere: un’idea potrebbesi desumere dalle tele divine di Leonardo da Vinci, che seppe ritrarre o crear volti in cui la verginità, il sentimento ed il sapore squisito delle forme vanno congiunte ad una nota caratteristica dei tempi di cui non havvi modello ai nostri giorni. Leggiadre pozzette, morbida increspatura di capelli, sorriso in cui, unita a tutta l’innocenza e il pudore, v’avea l’espressione dell’amore, erano i pregi della beltà d’Agnese. Quando questa e Valentina pervennero nella gran sala, i cupidi sguardi de’ giovani conversanti si portarono tosto su loro; ma mentre Valentina li rintuzzò col contegnoso portamento, Agnese abbassò gli occhi al suolo arrossendo. Nessuno però ardiva insidiare al cuore di lei, poichè sapevasi che era prediletta da Giovan Galeazzo, il quale, non capriccioso e incontinente nelle amorose passioni come gli altri principi di sua casa, amando unica questa, affetto per affetto cercava, ed ottenutolo, con lei sola per tutta la vita ebbe corrispondenza. Quel nobile convegno formossi in cerchio intorno al principe, rispettosamente attendendone, come era di costume, le parole. Giovan Galeazzo volse primamente il discorso a Sforza e Braccio, e con gli elogi di loro bravura li lusingava, perchè nutriva desiderio di trattenergli presso di se, onde giovarsene nelle guerre che meditava. Parlò affabilmente all’ambasciatore veneziano e al pontificio legato; dopo avere favellato di caccie, di tornei, di statuti coi signori di varie città, si volse a Matteo Selvatico celebre poeta, e con lui più a lungo ragionò di poetiche composizioni. Poco ambiziosi delle principesche parole, e della propria arte caldi amatori, i due architetti Odoardo Balbi milanese e Nicolò de’ Selli aretino stavano in un canto della sala disputando dei modi architettonici italici e germanici con un Gamodía alemanno, famoso maestro esso pure di tal arte: quando Giovan Galeazzo gli scorse, si fece tra essi, e volle proseguissero nei loro ragionamenti. Benchè i due Italiani con evidenza invincibile dimostrassero che, per buon gusto di forme e maestà, l’edificio all’italiana maniera ad ogni altro fosse preferibile, pure nel principe, che in tutte le cose al lusso ed allo straordinario mirava, fece più breccia la descrizione postagli innanzi dal Gamodía d’un fabbricato di nordico stile, per la bizzarria che narrò richiedersi nelle sommità, l’abbondanza e la minutezza degli ornamenti; per lo che raccogliendo piacevolmente quelle impressioni nello spirito, le riferiva al grandioso tempio che pensava innalzare. Lasciati gli architetti, recossi presso le dame, loro di femminili oggetti ragionando, e dall’una all’altra venendo, giunse presso a Valentina. Balenato un amoroso sguardo ne’ begli occhi d’Agnese che stava a lei dal lato, fece le meraviglie per non vedere quella sera Gastone d’Armagnac, che soleva sovente con Valentina stessa intrattenersi, dispiegandole i costumi della corte di Parigi. Valentina, ansiosissima di farsi nel numero delle principesse di Francia, viveva alquanto indispettita pel ritardo che frapponeva a giungere in Milano il suo fidanzato duca; ma serrando in cuore tale doglia, chiese al padre, con aspetto d’indifferenza, se non avesse ricevute notizie del duca di Turenna. Giovan Galeazzo stava rispondendole, afflitto che già da alcun tempo era privo di novelle di Francia, quando un paggio entrò ad annunziargli che il conte francese con altri cavalieri e dame chiedeano l’ingresso: ordinò si facessero tosto entrare; e spalancate le porte, si vide il giovane Lodovico, alla cui sinistra era Armagnac, avanzarsi seguito da’ suoi cavalieri e dalle dame. Generale fu la sorpresa, ignorando tutti chi si fossero quegli stranieri sì pomposamente abbigliati. Gastone condottosi davanti a Giovan Galeazzo, gli presentò Lodovico, nominandolo, qual era, duca di Turenna, conte di Valois, e fratello del re di Francia. Fattosi lietissimo a tali nomi, il principe abbracciò Lodovico con vero trasporto di contentezza, reso più vivo dalla sua improvvisa comparsa, e con affabili saluti accolse gli altri cavalieri e le dame. Non è da esprimersi la meraviglia che a tutti recò l’arrivo inaspettato del duca. Sollecito e curioso ciascuno s’appressava per mirarlo: chi il nobile portamento e la leggiadria ne ammirava, chi la espressiva fisonomia e la bellezza. Le donne al volto ed alle sfarzose vesti osservando, invidiavano Valentina, d’un sì grande e vago signore prossima posseditrice; ed ella, tutta da una secreta compiacenza compresa, col viso imporporato dal pudore, riceveva i primi omaggi che Lodovico colla più nobile galanteria tributavale. Dopo il duca, i cavalieri e le dame di suo seguito furono soggetto di tutti gli sguardi. La novità del costume, degli abiti femminili in ispecie, destò l’interessamento universale. Quelle Francesi vestivano conforme alle mode recate allora recentemente a Parigi da Isabella di Baviera[13], e di cui in Italia non si aveva ancora sentore alcuno, particolarmente di certi alti ornamenti del capo a maniera orientale, da cui ricadevano collane di perle ed altri intrecciamenti. Giovan Galeazzo vide con molta soddisfazione, tra i cavalieri del duca, il conte di Montaigu, che più d’una volta era stato alla sua corte di Pavia, e l’aveva accompagnato giovinetto in Francia: festeggiandolo insiememente a Lodovico, andava l’un l’altro interrogando di re Carlo, de’ suoi zii e fratelli; e nel mentre che replicava parole di contentezza per l’inatteso loro arrivo, rimproverava dolcemente a Lodovico la non partecipatagli venuta, per ciò solo che gli aveva tolta la possibilità di preparargli almeno nel proprio dominio gli onori del ricevimento a lui dovuti. A queste parole scherzosamente il conte di Montaigu: «Gli onori del ricevimento (rispose) ci vennero fatti nei vostro stato alla vostra insaputa, un po’ ruvidamente per altro; ma credo che ciò avvenisse per provare la verità di quel motto, che un cavalier francese è pronto a brandire la spada dovunque e contro qualsiasi assalitore.»[14] Il principe fu sommamente sorpreso da tali parole, e il richiese narrasse speditamente che fosse loro accaduto di sinistro. Prese a rispondergli Lodovico; e col calore ch’egli mettea nell’esposizione dei fatti che al vivo l’interessavano, fece il racconto dell’assalto da essi sofferto presso il Ticino da una banda di masnadieri, del pericolo che avevano tutti corso per il numero degli assassini scagliatisi improvvisamente addosso a loro, che per essere in terra amica e popolosa non vestivano armatura: disse come atterratogli il destriero egli stesso fosse per rimaner trafitto, quando apparso un ignoto cavaliere, con maravigliose prove di valore sterminando molti di que’ ribaldi, li fece salvi e sicuri. Doppio cordoglio risentì Giovan Galeazzo alla narrazione di tale periglioso avvenimento: lo assalì il pensiero dell’onta e del danno che gli sarebbero derivati, se il duca fosse stato assassinato ne’ suoi dominii; e l’offese il sapere che nei boschi delle sue caccie stavano numerose truppe di malviventi, nè egli ne fosse conscio, nè dai guardasele si rintracciassero. Condolendosi con Lodovico per tale infausto evento, ed accertandolo che avrebbe tratto di quell’attentato assassinio la più fiera vendetta, il domandò con premura, se quel prode guerriero che loro aveva recato sì inaspettato soccorso si fosse appalesato. «Sì (ripose il duca); ma ora non dirò io il suo nome. Chieggo, o principe, un’ora domani, perchè debbo a lungo favellarvi di lui.» Mille congetture diverse si destarono nella mente di Giovan Galeazzo, e degli altri che tale richiesta intesero; ma il principe, dissimulando, disse a Lodovico che in qualunque momento gli fosse piaciuto parlargli potea liberamente recarsi da lui; nè per quella sera più oltre si tenne su tale argomento discorso. Tutti andavano a gara nel fare ogni cortesia e festeggiamento ai Francesi, e musicali concenti e magnifici rinfreschi protrassero giulivamente ad inoltrata notte quella veglia; terminata la quale, e il duca ed i suoi furono per ordine di Giovan Galeazzo ne’ ricchi appartamenti di sua corte principescamente albergati. CAPITOLO XI. Oh voce!... Oh vista, oh gioia!... Parlar... non... posso... O meraviglia!.. E fia Ver ch’io t’abbraccio?.. Oh quale Qual mi dà forza il sol tuo aspetto! Io tanto Per te lontan tremava. ALFIERI. _Saul_. At. 1. Era di poco scorso il mezzodì del giorno seguente, allorquando un messo del principe si presentò alla casa del marchese Azzo, a chiedere di Palamede de’ Bianchi. Fu ad Enzel Petraccio, il quale oziando presso la porta del palazzo, che quel messo diresse tale richiesta. Enzel gli domandò con gran premura che volesse da Palamede; e il messo rispose che aveva ricevuto ordine da Giovan Galeazzo d’invitarlo a recarsi all’istante alla di lui corte. A primo tratto si volsero dubbii a tali parole i pensieri in capo all’aríolo, poichè l’essere chiamati al cospetto del principe non era sempre indizio di riportarne segni di benevolenza; ma allorchè fece riflessione che quell’invito poteva essere effetto del racconto, che dovevano aver fatto quei signori di Francia dell’avvenimento dei ladri, lieto salì rapidamente alle camere di Palamede a dargliene avviso come di felice novella. Il cavaliero, avendo fede nella parola datagli e nella dignità del duca, stava attendendo ansiosamente quella chiamata, e le sue speranze all’annunzio di essa si fecero più che mai vive e sicure. Nobili vesti frettolosamente indossò; e colmo il cuore della lusinga di pervenire alfine al possesso del desiato bene, discese, s’avviò col messo al palazzo del principe. Giunto a quelle soglie, le guardie, come ne avevano avuto comando, il lasciarono liberamente entrare, e i paggi lo guidarono per molte camere ad una sala in cui trovavasi Giovan Galeazzo con Lodovico. Il duca corse ad abbracciare Palamede, e il principe l’accolse con un benigno sorriso. Il cavaliero però nel mirare Giovan Galeazzo sentissi ridestare un lampo di quello sdegno che contro di lui aveva per tanto tempo nutrito; ma la cortesia di Lodovico e la dolcezza dell’aspetto del principe gli temperarono quell’ira involontaria, e fecero sì che, frenando i moti del proprio cuore, a lui si volse con rispettoso saluto. «Il vostro valore (gli disse Giovan Galeazzo con affabile e insieme dignitoso modo) e il segnalato servigio che avete reso a questo mio caro parente, e quindi a me stesso, vi danno diritto a tutta la mia riconoscenza. Seppi con dolore che voi foste quello di cui disgustose circostanze mi costrinsero replicatamente a rigettare un’inchiesta; ma voglio ora che vi sia caparra della mia gratitudine e della stima che sento per voi, il concedervi volontariamente ciò che bramate. Domani allo spuntar del giorno due miei capitani d’armi ritroveransi alla vostra abitazione, e voi, se ancora vi piace, partirete seco loro alla volta di Trezzo, nel cui castello sarete per mio comando accolto colle distinzioni al vostro merito dovute. Quivi potrete trattenervi il tempo richiesto a disporre la vostra fidanzata alle nozze, a celebrare le quali però desidero che a questa città ritorniate, poichè voglio intervenirvi io stesso, e bramo che stiate poscia presso di me, poichè non debbono essere per la vostra patria negletti la guerresca perizia e il valore che possedete.» Queste espressioni di bontà cancellarono in un baleno l’astio che durava in cuore a Palamede contro il principe: egli ne porse a lui affettuose grazie, dandogli fede che quanto bramava sarebbe stato da esso puntualmente eseguito, e appena Ginevra si fosse congedata dai parenti, l’avrebbe a Milano condotta, dalle cui mura non sarebbesi in seguito allontanato che per prestargli il suo braccio in guerra. Il duca Lodovico, giojoso e soddisfatto oltremodo nel vedere appagato Palamede, mostrandosi di ciò gratissimo a Giovan Galeazzo, stringendo al cavaliero la destra, a lui rivolto disse: «Vivete sicuro, o principe, che se questo guerriero ha tanta scienza di campo quanta forza e destrezza di spada, egli sarà uno de’ più periti duci d’eserciti, nè alcuno straniero assoldare potreste che più di questo valoroso Milanese valga a far trionfare le vostre insegne.» Di null’altro era più desideroso Giovan Galeazzo che di rinvenire tra i suoi soggetti prodi capitani, giacchè sapeva per esperienza che quelli che si assoldavano a ventura, non bramosi che dell’oro, facilmente venendo dagli avversarii corrotti, commettevano ogni sorta di tradimenti: quindi fu lieto assai in apprendere che Palamede avea sostenute molte battaglie dei Veneziani, seguendo esperimentati capitani, e guidando egli stesso non rade volte gli assalti; e perciò gli nacque tanta brama di lui, che usò seco sì gentili espressioni allorchè prese congedo, che Palamede ebbe intimo cordoglio d’avere odiato un principe di tanta cortesia dotato. Quando fu partito il cavaliero, Lodovico prese commiato, e Giovan Galeazzo si ritrasse solingo nella sua appartata e consueta stanza. Appena si fu quivi assiso, il funesto pensiero che soleva frapporsi e rompere i suoi più arditi disegni, lo assalse più che mai spaventosamente. Egli meditò, fremendo, a ciò che avea concesso: dare assenso ad un guerriero esperto e forte di recarsi nel castello ove stava Bernabò rinchiuso, per isposarne una figlia, era porgere un certo mezzo al prigioniero di concertare secreti maneggi a propria salvezza. Il cavaliero uscito dal castello si sarebbe adoperato ad ordire trame in seno alla sua stessa corte; gli amici del vecchio principe, la propria moglie, diverrebbero per ciò suoi secreti nemici: quindi non viverebbe più vita sicura da domestiche insidie, nè dalle esterne terrebbe lo stato difeso. Da sì fatte idee agitato già rivocava la data concessione a Palamede, già stabiliva esiliarlo da Milano e da tutte le terre a lui soggette, quando, riflettendo più maturamente, e pensando alle calde richieste di Lodovico pel cavaliero, alla promessa fatta in compenso del suo valore, si persuadeva che oramai l’opporsi diverrebbe un atto troppo indegno, che avrebbe gli animi contro di se inaspriti. Combattuto da tali opposti pensieri, e meditando più addentro in se stesso, si convinse che mai tranquillità di vita nè certezza di dominio vi sarebbero state per lui, sinchè respirasse Bernabò; che l’esistenza di questo era la vera causa d’ogni sua più fiera pena; e che vivente lo zio non l’avrebbero abbandonato un momento quei palpiti crudeli. Questo convincimento in quell’istante, più che in ogni altro tempo profondamente sentito, superò i terrori della sua coscienza. Vinte tutte le altre voci del cuore, e solo compreso da una tremenda risoluzione che accolse e fermò irrevocabile, chiamò immediatamente un paggio, e il mandò in traccia di Giovanni Ubaldino, imponendogli d’inviarlo tostamente a lui. Era Ubaldino quello stesso capitano d’armi che aveva condotto Rodolfo dal castello di Trezzo a quello di San Colombano: uomo di duro cuore e d’una impenetrabile segretezza, odiava mortalmente Bernabò ed i suoi figli, da cui era stato con molti insulti inasprito; per ciò Giovan Galeazzo lo adoperava nelle esecuzioni che comandava contro di loro. Quando questi giunse a corte fu subito nella secreta stanza del principe introdotto. Stava Giovan Galeazzo scrivendo sovra un foglio; un visibile turbamento gli si scorgea nella fronte e negli occhi, e un’inquietudine nelle membra. Veduto ch’egli ebbe Ubaldino, compì frettolosamente e chiuse il foglio; indi consegnandoglielo, con voce da sensibile interno commovimento alterata, gli disse, che nel mattino del seguente giorno dovesse recarsi con altro capitano d’armi, ch’egli avrebbe trascelto, alla casa del marchese Azzo Liprandi, d’onde guiderebbero il cavaliere Palamede de’ Bianchi nel castello di Trezzo; ed ivi giunto desse a Iacopo del Verme quel foglio; ma due cose gli imponeva colla minaccia di tutto il proprio sdegno se le trasgrediva o palesava, ed erano: che sullo scritto a lui dato nessuno dovesse portare lo sguardo, eccetto quello a cui era diretto, al quale, pervenuto nel castello, doveva in tutto ciecamente ubbidire; e che siccome lo avrebbe in quella spedizione fatto seguire da Ambrogio Lanza proprio fidato domestico, dovesse tenerlo celato sotto nome di suo scudiero, e come tale a chi ne chiedesse annunziarlo. Ubaldino rispose, giurando al principe che come non aveva mai per l’addietro violati i suoi comandi qualunque si fossero, così anche quelli che attualmente gli imponeva verrebbero da lui con ogni esattezza adempiuti. Giovan Galeazzo, tanto da Ubaldino ottenuto, il licenziò, e fatto chiamare Lanza famoso manipolatore di farmaci potenti, che qual famigliare in corte abitava, secreti discorsi tenne pure a lungo con questo, il quale allontanatosi dalla presenza del principe, si chiuse tutto quel giorno e la notte in una recondita cameretta ad ogni persona impenetrabile, che era l’officina delle sue distillazioni, dei filtri e di altre arcane preparazioni. Appena Giovan Galeazzo ebbe gli ordini distribuiti pel compimento del terribile meditato disegno, sentissi da più violenta interna guerra assalito: la solitudine di sua stanza gli piombò con ispavento al cuore: balzò dal sedile esterrefatto, e verso il contiguo oratorio rapido si mosse; ma come se un’invisibile mano da quelle soglie il respingesse, ne ritorse con terrore lo sguardo: compressa l’anima sua da troppo orrendo peso, già stava per annullare i dati comandi, quando gli si attraversò più evidente allo spirito l’immagine di Bernabò trionfante: a questa idea la di lui sorte fu decisa: per non cedere ad un più aspro conflitto della mente, Giovan Galeazzo abbandonò quel solingo ricetto, e venuto tra suoi, fatti allestire i destrieri, cercò distrazione al pensiero, velocemente con numerosa comitiva per le aperte campagne cavalcando. Palamede in questo frattempo, pieno il cuore della dolce aspettativa del tanto desiato momento, era corso in seno della famiglia di Azzo a versare tutta la sua gioia colla felice novella del concessogli ingresso nel castello di Trezzo. Il marchese, i suoi figli, Ricciarda, Adelaide, da tale impreveduto annunzio maravigliati, ne risentirono la più viva contentezza. Narrato il fatto lietamente scorse per loro quel giorno, dei nuziali arredi ragionando, e delle festose pompe da disporsi pel pronto ritorno del cavaliero colla fidanzata, che doveasi guidare all’altare tosto che fosse giunta in Milano: l’un d’essi parlava degli addobbi della casa, l’altro delle vesti e dei doni; chi assumevasi di far allestire i conviti con vivande dorate come era costume, chi si accingeva all’ordinamento dei giuochi e delle feste: quanto in somma era stato il dolersi agli affanni di Palamede, altrettanto fu il gioire a’ suoi contenti. Enzel Petraccio per l’udita fausta notizia era sovra ogni dire lieto e soddisfatto: le ascose fila da lui tese con arte aveano finalmente condotto al preveduto scopo, ed egli in se stesso si dava tutto il vanto della riuscita di quell’avvenimento. Chiamato in quella sera da Palamede, salì alla sua camera, e venne accolto da lui colla più grande espansione d’affetto: ripetendo che solo a causa della intromissione del duca di Francia s’era piegato volonteroso il principe alle sue richieste, il cavaliero confessò che tale favore del duca eragli derivato dall’impresa eseguita contro Aldobrado, e da lui suggerita, e disse che perciò anche questo evento era a lui dovuto, e gli rinnovò la promessa che sempre lo terrebbe presso di se, che di tutto ciò che aveva desiderio ed era in suo potere liberamente disponesse, perchè i molti resigli servigi non potevano essere mai da lui abbastanza ricompensati. L’aríolo, porgendogli grazie per sì generose offerte, ed accertandolo che egli null’altro bramava che di rimanersi tra i suoi servi, gli disse che volentieri, se glielo concedeva, l’avrebbe seguito al castello di Trezzo, poichè aveva gran desiderio di rivedere la signora Ginevra per narrargli come avesse eseguita la commissione datagli l’ultima volta che aveva con lei favellato: «Nè adesso (proseguì) dovrò temere che i soldati mi ardano temerariamente i panni indosso, poichè vestendo abiti vostri saranno forzati ad avermi rispetto.» Palamede acconsentì di buonissimo grado a questa brama dell’aríolo, perchè ovunque si ricasse seguito da lui s’aveva fiducia che nulla di avverso potesse accadergli, e il pregò vegliasse per tempo nel seguente mattino per attendere i due capitani d’armi che Giovan Galeazzo avrebbe inviati. Enzel rispose che prima che il gallo salutasse il giorno egli porrebbe in piedi tutti i famigli, ed augurando lieti sogni a Palamede, discese al riposo. Giovanni Ubaldino, Marco Ferro, altro capitano d’armi, e Ambrogio Lanza in abito da scudiero, posti in sella, quando fu l’albeggiare si presentarono al palazzo del Liprandi: le porte ne erano di già aperte, e il destriero di Palamede, tratto dalle scuderie, stava nel cortile coi servi che il ponevano in arnese. Entrati que’ capitani, Palamede, il marchese Azzo ed i suoi figli scesero loro incontro, e dopo uno scambio di gentili saluti, salito il cavaliero in arcione, il che pur fece sovra un proprio cavallo l’aríolo, tutti congiuntamente presero cammino. Era ciascun d’essi involto in un mantello foderato di soffici pelliccie per difendersi dalla rigidezza del mattinale aere dicembrino, che quando ebbero lasciate le mura della città fecesi sentire più rigoroso, accusando le molte nevi cadute dalla sommità delle Alpi ai colli verso cui dirigevano il loro viaggio. Pensando Ubaldino che la strada presso l’Adda tra Vaprio e Trezzo esser dovea più che mai malagevole e perigliosa per l’alta neve che ricoprendola celerebbe gli scoscendimenti che la fiancheggiavano, tenne proposito di prender la via di Monza, e per Vimercate giungere a Trezzo. Palamede, abbenchè non ardesse che di pervenire alle mura che chiudevano Ginevra, e sarebbe passato per mezzo alle spade onde giungere alcuni istanti più presto a quella meta, convenne esso pure per cortesia nella proposta di prendere la via più comoda. Seguendo tale direzione, e cavalcando di buon trotto, pervennero prestamente a Monza. Entrati in quella città, giunsero, fiancheggiato il castello, innanzi alla chiesa di San Giovanni; ivi presso la porta maggiore fermarono i cavalli in ischiera, e, trattisi i berretti, orarono brevemente; indi riprendendo il cammino, attraversato il Lambro su gotico ponte, uscirono dalla città per opposta parte. Fatto poco viaggio, incominciarono a vedere il suolo biancheggiante di neve, la quale mano mano che s’avanzavano facevasi più alta. Essa però non fu a loro sino a Vimercate di così fastidioso inciampo, quanto allorchè, passata questa terra, pervennero al di là della Molgora. Tra i nevosi sentieri di folto bosco inceppati dai rami che il verno e l’età avevano schiantati, trovavano i destrieri penoso passaggio. Per alleviare la noia prodotta dalla lentezza a cui i disagi di quel cammino li costringeva, trasse Marco Ferro argomento a ragionare dai molti fatti che si narravano accaduti in quei boschi istessi per cui camminavano. Fece racconto dell’Eremita bruno, terribile abitatore di quella selva, ripetè le maravigliose istorie che intorno a lui correvano; disse pure dei ladri che vi dimoravano, e d’un loro nascondiglio in cui nessuno aveva avuto l’ardimento di penetrare. Non nuove riuscirono al certo a Palamede le narrazioni di Marco Ferro, poichè egli era stato istruito del vero essere di quell’Eremita e dei ladri dalla bocca stessa di questi nella loro segreta _tana del cervo_: tacque però d’averne cognizione; e siccome dolorosa anzi che piacevole impressione recavangli quelle memorie, così tutto abbandonando il pensiero alla dolcezza dell’istante che lo attendeva, e l’occhio rivolgendo alla strada, seguiva il cammino senza porgerli orecchio. L’aríolo, investigatore e conoscente com’era, per indole e per uso, degli altrui pensieri, aveva al cominciare di quel viaggio esaminato collo sguardo lo scudiero che seguiva i capitani d’armi. Una certa aria che vi scorse nella fisonomia, non dura, non franca, come ad un milite servo si conveniva, ma piuttosto meditabonda, e che appalesava abitudine al riflettere anzi che all’affaticare, gli fe’ nascere alcun sospetto sulle qualità di quella persona. Lontan lontano, lungo il cammino, con fina arte, il venne prendendo con ragionamenti di guerreschi esercizi e delle servili incombenze di sua professione. Lanza, accostumato agli agi di corte ed al lambicco della sua officina, rispondeva alla cieca alle parole di Enzel: per lo che questo accortosi fondatamente che esso non era mai stato uomo d’armi o di battaglie, sentì svegliarsi gran desiderio di scoprire chi mai esso si fosse, e come due guerrieri si facessero seguire da uno scudiero che ignorava tutti gli usi di tale servigio. A questo fine approfittando delle angustie della strada in que’ boschi, standogli d’appresso, mentre i cavalli mutavano lenti i passi, fingendosi uomo affatto rozzo, di varie cose l’andava interrogando con sembiante di chi tutto ascolta maravigliando. Il finto scudiero, credendo che quello a cui parlava fosse di massiccia ignoranza, pensando recargli sommo stupore, dopo varii ragionamenti venne a discorrere dei prodigii e delle trasmutazioni ch’egli sapeva far prendere alle erbe, ai sassi, ai metalli, e nel calore del suo dire, narrando delle prove che aveva date della sua arte maravigliosa non istette sì guardingo di non lasciar penetrare all’attento e veggente spirito dell’aríolo, ch’egli aveva molto uso di corte e la confidenza del principe stesso. Grande fu la sorpresa di Enzel a tale scoperta. Chi poteva essere quel personaggio, non di certo nè uno scudiero nè un servo? A qual fine seguiva i capitani al castello? Chi ve lo mandava? Tali riflessioni volgendo l’aríolo pieno di diffidenza, e agitato da mille dubbii, stava tentando di disvelare più addentro quell’arcano, quando, terminata la via tra i boschi, uscì la comitiva allo scoperto, e si vide da lato il borgo di Trezzo, e di fronte il suo castello. La sommità delle mura e delle torri del castello erano coperte di neve, che stando rilevata eziandio sulle pietre e gli ornati sporgenti dalle muraglie, faceva colla sua candidezza singolare contrasto al loro bigio colore. L’aspetto di esso ne era reso per ciò più tetro e imponente, e sembrava che quelle torreggianti mura minacciassero della loro ertezza i riguardanti. Palamede non risentì però a quella vista che i più vibrati moti d’amore. Ivi stava Ginevra, ivi la rivedrebbe fra un istante: in questo pensiero si concentrarono tutte le memorie dei proprii e de’ di lei passati affanni, e amore, pietà, timori, dolci speranze gli assalirono con un sol palpito il cuore. Giunti in vicinanza del castello, Ubaldino fece tutti gli altri sostare, e da solo accostossi alla porta di esso che ferree imposte chiudevano. Diè il grido di _Viva il conte di Virtù_, ed al soldato che dalla vedetta gli intimò di palesare chi fosse, e che chiedesse, rispose che era un capitano di Giovan Galeazzo che recava ordini per Iacopo del Verme, e chiedeva l’ingresso nel castello. Comunicato alle altre guardie tale avviso, venne tosto recato al Del Verme, che affrettossi alla porta, e riconosciuto dagli spiragli della vedetta Ubaldino, diè comando si calasse il ponte levatoio per riceverlo. Entrato questi gli consegnò immediatamente la lettera del principe, dicendogli che conteneva l’ordine che altre persone che stavano presso al castello dovessero quivi essere ammesse. Del Verme aprì il foglio, e lo scorse collo sguardo rapidamente, dando non pochi segni in viso di inaspettate e gravi sensazioni; ma lettolo, spedì tosto varii soldati ad invitare i fermati ad avanzarsi. Mossero essi i cavalli a quella volta, e venuti al ponte, Del Verme si fece loro incontro accogliendo Palamede con onorevoli parole: questi ricambiandole, giunto sotto l’arco della porta balzò da sella, il che fecero tutti gli altri, e stringendo la mano a quel duce, garbatezza per garbatezza rendendo, seco lui avviossi coll’altre persone verso il cortile. Due paggi furono tosto mandati ad annunziare a Bernabò l’arrivo di Palamede, e questi nel frattempo venne condotto nelle proprie sale da Del Verme, onde prendesse ristoro del faticoso viaggio. Ma il cavaliero nessun altro uopo sentendo che quello ardentissimo d’appresentarsi a Ginevra ed a’ suoi, accertò il duce che nulla abbisognavagli, e il richiese istantemente lo conducesse da Bernabò. Del Verme, ch’aveva avuti ordini d’accondiscendere in tutto al cavaliero, s’offrì pronto a compiacerlo. Il vecchio principe, immerso ne’ suoi tristi pensieri, stava in una delle stanze a lui destinate insieme a Donnina ed a frate Leonardo, che rade volte scostavasi da lui; ivi gli venne l’avviso recato della venuta di Palamede al castello: maravigliando cogli altri ch’erano seco, udì tal novella, e stava dubbiando se libero o prigioniero vi fosse giunto, quando Palamede istesso entrò in quella sala. Somma consolazione recò l’apparire di lui a Bernabò e a Donnina, che gli si levarono incontro ad abbracciarlo e affettuosamente richiederlo se volontariamente od a forza era egli quivi venuto; ma soddisfatta con loro contento tale richiesta, reiterarono gli amplessi. Allorchè fu calmata in loro quella piena d’affetto che invade potentemente il cuore al rivedere dopo lunga lontananza amate persone, ricomposti, stettero per chiedersi l’un l’altro delle loro vicende. Ma, volgendo la mente al passato, occorse alla memoria di ciascuno d’essi l’istante in cui si separarono; e il confronto delle grandezze e delle speranze di quel momento posto a paraggio colle presenti sventure, mosse in tutti sì dolorosi sentimenti, che, abbassando al suolo gli sguardi dalle lagrime inumiditi, stettero immobili e silenziosi: così fu manifesta con maggior eloquenza che di discorso quanta fosse la forza dell’affanno che a loro pesava sul cuore. Bernabò vincendo però pel primo il doloroso risentimento delle proprie disgrazie, diradata la tristezza dal volto, drizzò la parola a Palamede, interrogandolo del modo con cui era pervenuto al castello. Questi, in risposta narrò, come nutrendo sempre vivissimo l’amore e la fede per sua figlia Ginevra, a cui esso stesso l’aveva fidanzato, ritornasse dalle lontane guerre colla ferma speme di compire i suoi voti, nè deponesse tale pensiero saputa la di lui prigionia, ma con replicate inchieste, intercedendone Giovan Galeazzo, giungesse dopo molte ripulse, per un singolare avvenimento, a vincerne la renitenza, per cui gli era stata data concessione di venire entro quelle mura per guidare alle nozze quella donzella che dal sacro nodo d’una giurata parola era a lui legata, e che s’avea certezza che esso non avrebbe alle sue brame ed alla sua costanza rifiutata. Dolce insieme e tormentoso fu questo parlare di Palamede tanto a Bernabò quanto alla madre di Ginevra: diletta idea era per loro che la propria figlia, anzi che languire in tristo carcere, tornasse alla libertà ed alle agiatezze, congiungendosi in decoroso e splendido maritaggio con sì nobile e valoroso cavaliero; ma li angosciava ad un tempo il pensiero di doversi da lei disgiungere, e di viverne forse per sempre lontani. Simili idee volgendo nella mente, rimasero il principe e Donnina per qualche tempo ammutoliti; ma Bernabò ruppe ancora il silenzio, dicendo: «Insanabile è la ferita che lascia ogni ramo che si tronca dall’albero antico, altiero un giorno e frondoso, ora sterile e presso a morte; ma se il ramo deve trapiantarsi in dolce suolo per dare soavi frutti, è d’uopo soffrirne il distacco. Io sento appressarmi al mio tramonto, nè conforto deggio altrove trovare che in cielo; ingiusto ed empio per ciò sarei se trattenessi spettatrice del misero avanzo di mia esistenza una figlia alle cui preghiere forse concesse la Vergine più venturosi giorni. Sì, cavaliero, a te è dovuta, e tua sia Ginevra; ed io renderò azioni di grazie ai santi del poterti chiamare marito d’una mia figliuola.» Indi rivolto a Donnina, soggiunse: «Voi, sua madre, ite a Ginevra, e qui conducetela a rivedere un cavaliero a lei per sposo in dì più felici promesso, e di cui non le avranno il tempo e gli affanni cancellata la memoria dal cuore.» Palamede a tali detti, non sapendo esprimere l’immenso suo trasporto, precipitossi ai piedi di Bernabò, che, rialzatolo, l’accolse al suo seno coll’effusione del più grande paterno affetto; Donnina intanto, obbedendo agli ordini di questo ed alle voci del proprio cuore, che era a Palamede inclinato, recossi frettolosa a ricercar della figlia. Dopo alcun tempo da che ella era uscita, udendo l’alternare di passi femminili che s’appressavano a quella sala, la trepidazione di Palamede fu al colmo; e quando, spalancata la porta, vide Ginevra entrare, seguita dalla madre e dalla sorella, a lei incontro slanciatosi, senza articolare parola, la mano prendendole, se la compresse con forza alle labbra. Diè un grido Ginevra a sì inaspettata vista, e oppressa, vinta dalla piena di gioia, non reggendo le sue forze a quel potente assalto, svenne, abbandonandosi, pallida come neve, nelle braccia di Palamede: egli stesso era per venir meno all’eccessiva violenza della tenerezza, se non fosse stato penetrato in quel punto da un sentimento di terrore e pietà, che allo svenire di lei tutto il comprese. S’atteggiò a sostenerla, appoggiandone il capo al proprio petto, e l’andò chiamando coi più dolci nomi, sinchè, fosse effetto del suono di sua voce, o vigor di natura, ricomparvero i segni di vita sul viso di lei, che aprendo gli occhi, languidamente in quelli fissandoli di Palamede che la riguardava, entrambi con un lungo inenarrabile sguardo tutta espressero l’immensa fiamma d’amore di che ardevano nell’anima. Ritornate intiere a Ginevra le smarrite forze, staccossi lentamente da Palamede, ed al braccio affidossi della madre, con un soave sorriso misto a lagrime di gioia, tutta significando la dolcezza di quel momento. Allo scorgere sì fatte prove della potenza del loro amoroso trasporto, quelli che stavano mirandoli, pensarono agli affanni che in tanto tempo di loro separazione dovevano quegli amanti aver durati. Bernabò con più affettuosa voce che non solesse, dimenticando i propri mali, e perdendo la severità del volto: «Questo tuo amato (disse), o mia diletta figlia, ti sarà sposo: il cielo, di tante nostre sventure pietoso, volle un suo raggio mandare sovra di noi; e te, la più degna, consolando nelle tue fervide brame, far risplendere per tutti un giorno sereno. Seguiranno, è vero, neri nembi la bella calma d’un momento; ma il mio spirito, già a lungo provato nei giorni dell’avversità, riprenderà vigore da questo lampo di luce, che mi convince che il mio soffrire è accetto a Dio, e cancella le mie colpe alla sua presenza. Io accolgo devotamente questa grazia come un segno della divina clemenza, e benedico al nodo che fra poco vi stringerà, abbracciandovi come i miei più cari figli: se l’indegna mia voce sale al trono dei Celesti, invoco che tu, o Ginevra, dimentica della funesta dimora in questo mio carcere, porti, premio alla fede del tuo sposo, ogni ventura in lieto soggiorno; e tu, o cavaliero, fatto padre di bella prole, non possa negli anni di tua vecchiezza vederti strappare i figli barbaramente d’intorno.» A questi accenti Ginevra e Palamede, che s’erano precipitati negli amplessi di Bernabò, versarono nel suo seno più largo pianto di contentezza e di commozione. Donnina obbliando essa pure il dolore che l’attendea nel disgiungersi dalla figlia, e non mirando che al di lei contento, l’accolse dopo Bernabò nelle braccia, unendo alle sue, materne lagrime di tenerezza. Lodovico, accorso alle sale del padre, Damigella e Leonardo a tale affettuosa scena inteneriti, attestavano col pianto quanta parte prendessero alla felicità di quegli amanti. Così tra i più dolci sentimenti e l’espressione della reciproca gioia tutto scorse il giorno dell’arrivo di Palamede al castello di Trezzo. La profonda ambascia che avea per tanto tempo l’anima angosciata di Ginevra, e spentale ogni speranza in cuore, all’apparirle innanti del cavaliero, al saperlo suo, sparve, quasi da portentoso balsamo sanata; nuove soavi idee rifluendo in lei, recaronle in cuore una beata aura di vita. Quel bene che si era convinta che non sarebbe più mai stato suo in terra, e collocandolo colla mente in cielo, ivi contemplava, agognando, per ottenerlo, la morte, inaspettatamente le era dato possedere; più volte in un istante dubitava essere in preda ad una tenera illusione; ma quanto ha di più puro e di più espressivo l’amore, la convinceva che era reale quel suo sentire. In Palamede, quando fu al di lei fianco assiso, svanirono dal pensiero le rimembranze delle passate cure: assorto ne’ di lei sguardi, sentì paghi tutti i suoi voti; e la sua felicità sarebbe rimasa a lungo inalterata, se al dividersi da lei nelle ore notturne, una sinistra novella, che gli venne secretamente recata, riempiendolo di sospetto e d’agitazione, non gli avesse amareggiato il cuore. CAPITOLO XII. Un cadaver qui giace; lacerate Son le squallide fibre, e l’ossa peste, Le chiome sulla fronte rabbuffate, E le luci terribili e funeste: Ha l’insegne regali... GIANNI, _Poes. estemp._ Enzel Petraccio, entrato che si fu nel castello, ruminando le parole intese nel viaggio da quello ch’ei suppose finto scudiero, s’era fitto in capo di scoprire ad ogni patto chi egli realmente si fosse. Recatosi seco lui alle stalle, veggendolo in ambarazzo nel dissellare i cavalli, s’avea dato con premurosa opera a prestargli mano; per il che Lanza, alleggerito da quelle servili fatiche a lui poco gradevoli, gli si dimostrò sommamente obbligato. Enzel per tale amichevole di lui disposizione d’animo, venuto seco a confidenziali parole, il seguì nelle stanze prossime alle cucine, destinate alla dimora dei servi. Pochi istanti eran quivi rimasi, attendendo fra le ciance d’altri paggi e domestici che loro s’allestisse il pranzo, quando portossi colà il capitano Ubaldino, e disse alcune secrete parole a Lanza; che levatosi, uscì tosto con lui da quelle camere. Una lunga ora stette esso lontano: indi rivenne solo e con fisonomia più meditabonda di prima. Ritornato ch’ei si fu, vennero tosto ivi recate molte vivande ed ampii vasi di vino. Mentre mangiavano, assisi ad un desco, ristorati dal calore d’un gran fuoco che ardeva quivi d’appresso, e vuotando molti bicchieri, l’aríolo non perdendo mai di mira il proprio divisamento, circuiva Lanza traendolo con molt’arte a famigliari discorsi. Dopo varii cibi fu portato innanzi a loro un piatto con legumi saporitamente conditi. «Noi siamo da più di un principe (disse Enzel sorridendo): il signor Bernabò forse non mangiò mai fagiuoli più gustosi di questi[15].» — «Egli li mangerà però gustosissimi (rispose Lanza) la prima volta che si assiderà alla mensa: v’è tal cuoco che glieli cucinerà ottimamente.» Siccome avea esso la testa già alterata dal vino, pronunciò queste parole con tal aria misteriosa e con sì sinistro sogghigno, che penetrate nel profondo del cuore dell’aríolo, il colpirono di spavento. Avanzando le labbra e spalancando gli occhi, come chi fiuta alcun che con gran sospetto: «Non ne mangio altri (esclamò rimescolando que’ legumi col cucchiaio): sentono odore di cataletto. — Mangiane, scudiero, mangiane ancora (soggiunse Lanza mirandolo collo sguardo fatto più torvo dal vino e dai truci pensieri): il sale che vi è sparso non fu liquefatto sui miei carboni.» Questi tronchi detti, il volto di Lanza su cui stava una malefica espressione come d’uomo dato alle malie ed agli incantesimi, persuasero l’aríolo che egli era stato spedito colà per consumare nascosamente qualche delitto o contro Bernabò ed i suoi, o contra Palamede. Perturbato, tremante per tale convinzione, temendo a se stesso grave danno se ciò avveniva, torturò lo spirito per trovare un riparo al tradimento che si preparava; ma nessun modo gliene si offriva alla mente. Pensò di recarsi a svelare l’arcano a Bernabò; ma fece calcolo nell’istesso tempo che se si fosse scoperto ch’esso l’aveva palesato, sarebbe stato immancabilmente ucciso, e il colpo consumato per diversa via. Da mille sospetti agitato, nè sapendo a qual partito appigliarsi, stette in quelle sale con Lanza sino all’ora del riposo, pel quale furono loro indicate due contigue camerette presso una torre del castello. Ivi recatisi, Lanza si rinchiuse nella propria a chiavistello; ed Enzel non potendo prender sonno, vedendo trapelare lume pei pertugi dell’uscio della stanza del finto scudiero, si pose per quelli a mirare attentamente che facesse. Vide che spogliatisi gli abiti servili era sotto coverto da fini drappi; e lo scorse trarsi dai panni un involto, e scioltolo da molti nodi levare da quello una fialetta cristallina piena d’un bianco liquore, e sturatala infondervi una polvere che tenea chiusa in una picciola scatola di metallo che aveva nascosta sotto i lini del petto: quel bianco liquore tocco dalla polvere, intorbidatosi, illividì: allora Lanza turata di nuovo la fialetta, la scosse innanzi al lume a più riprese; indi la ripose nell’involto, che rannodò diligentemente; ed ascosala sotto il guanciale, sdraiossi, e spense il lume. L’aríolo, che aveva più volte veduti e maneggiati veleni, s’accorse ben tosto dal colore verde-giallo che veleno appunto era quella polvere infusa da Lanza nella fiala. Tosto gli occorse al pensiero che in un angolo del parco del castello avea altre volte veduta crescere un’erba la cui radice, bollita con fresco latte, era ottimo antidoto alle inghiottite velenose sostanze. Racconsolato da tale scoperta, e gioiendo in sè stesso pel colpo di difesa che poteva recare a quello che stava per iscagliare il finto scudiero, proponendosi, appena spuntasse il giorno, di disporre il suo contravveleno, s’adagiava al riposo; allorchè udendo rumore di persone, le quali uscendo dagli appartamenti di Bernabò attraversavano il cortile, e distinguendo in esso la voce di Palamede, pensò essere saggio consiglio il recarsi ad avvertirnelo di tutto, giovandogli per far ciò celatamente la fitta oscurità della notte. Seguendo tale idea, cheto cheto lasciò la sua cameretta; ed a passi leggieri venendo lungo il porticato, entrò nelle stanze in cui s’era ritirato il cavaliero. Palamede, che non respirava che pensieri d’amore e di gioia, fu preso da stupore nel vedersi apparire davanti l’aríolo a quell’ora; e s’accrebbe la sua sorpresa quando questi fatto cenno col dito che tacesse, accostatoglisi: «Con grave mia pena (disse a voce sommessa) son costretto a porvi in cuore una spina che parte vi distruggerà della contentezza recatavi dalla signora Ginevra. — Che mai avvenne? (chiese palpitando Palamede, cui si trasfuse subito in cuore l’agitazione che stava in volto ad Enzel, recandogli un’affannosa tema). — Nulla sinora di disastroso (rispose questo); ma discoprii una serpe che attende la letizia dei conviti per addentare una segnata vittima. Sì, ad alcuno di voi dee scorrere di certo per le vene il veleno: esso è già in pronto; domani a quest’ora potrebbe avervi colpito ed ucciso. — Che dici? (esclamò Palamede atterrito) è preparato per noi il veleno? Giovan Galeazzo mi avrà forse lasciato entrare in questo castello per togliere in una sol volta la vita a me, a Bernabò, a suoi figli?... Qual tradimento?» A questo pensiero trasportato da un impeto di furore, impugnata la spada: «M’indica, aríolo (gridò), chi deve eseguire sì infame comando: io gli passerò questo ferro dieci volte nel cuore.» Enzel all’infuriare del cavaliero fu preso da doppia paura: temeva che qualche persona avesse ad udire quegli accenti pronunciati con forza dal cavaliero, o che questi acciecato dall’ira volesse eseguire ciò che minacciava; il che riusciva per lui egualmente fatale. Adoperossi perciò con atti e parole ad acquetarlo; e paventando di non poterne frenare lo sdegno se palesava tutto ciò che aveva visto ed udito, determinò in sua mente che bastava a’ suoi fini l’aver posto Palamede in avvertenza, onde mirando a calmarlo, fingendo di ritrattarsi, ed addolcendo la voce: «Potrebbe essere (disse) che false immagini m’abbiano illuso, facendomi veder veleno là dove non eravi forse che un liquido innocente; ma comunque però sia la cosa, vivete tranquillo: io tengo disposta una bevanda che ingoiandone poche goccie al manifestarsi dei sintomi d’attossicamento ne distrugge affatto la forza. Se per disavventura si avverasse il mio sospetto, io non sarò mai lontano da voi: chiamatemi, e vi porgerò l’infallibile medicina.» Queste parole ritornarono più queto il cuore di Palamede. Egli mirò Enzel attentamente; e vedendone la faccia sconvolta e il guardo vagare incerto esprimendo interna paura, rammentossi che in quel castello avea esso corso altre volte pericolo della vita, e pensò che fossero le sue visioni mosse da panico terrore che il facesse delirare: onde così rapidamente come avea ricevuta la dolorosa impressione, accolse quella consolante idea, che la prima cancellava; ma sentendo nell’istesso tempo pietà dell’aríolo, che credeva trasognante, affabilmente gli prese una mano, e gli disse: «Ritorna al luogo del tuo riposo; chiudi pure con placidezza gli occhi al sonno, che io ho certezza di qui ritrovarmi frammezzo a uomini che non vorranno attentare alla nostra vita; ne tengo franchigia nei sensi stessi espressimi da Giovan Galeazzo. Va sicuro; e se funesti pensieri ti turbano la mente, pensa che domani deve essere per noi tutti un giorno d’allegrezza. — Un giorno d’allegrezza!... (esclamò l’aríolo con tuono mesto e solenne, crollando il capo) Lo voglia la Vergine e il glorioso Sant’Ambrogio!...» Indi serrando la mano a Palamede, e dandogli un ultimo espressivo sguardo, uscì da quelle stanze. Il cavaliero seguitollo sino al limitare del cortile. Ivi la densa oscurità che regnava l’arrestò; da cento diversi moti in seno agitato, fissò con terrore quelle imponenti tenebre. Appena il profilo delle mura distinguevasi dal cielo nero; la debole luce d’una lampada della chiesa che trapelava dalle vetriate, era il solo lume che si scorgesse: profondo dominava il silenzio, e non udivansi che i passi di Enzel che s’allontanava, e l’incessante romoreggiare dell’Adda a piè del castello. Una paura, un segreto palpito di spavento lo assalì; parvegli scorgere aggirarsi per l’aere oscuro ombre di morti, ed udire stridule infauste voci. Si ritrasse velocemente nella propria stanza: ivi si chiuse, e si piegò innanzi ad un sacro dipinto in fervorosa preghiera. Svanirono a poco a poco i suoi timori, e l’immagine di Ginevra possedendolo tutta sola, gli ritornò la gioia nell’anima. Allorchè però si fu coricato, pensando alle parole, al volto, agli ultimi accenti di Enzel, crudeli presentimenti lo invasero di nuovo e dolorosamente gli contristarono il cuore. Al sorgere del diciannove dicembre, giorno che seguì quello della venuta di Palamede al castello, Bernabò destossi da un lungo profondo sonno; e la prima fiata da che era in quelle mura sentissi scendere in petto un dolce conforto nel pensiero delle vicine nozze della propria figlia. Levatosi, si recò nella sala maggiore, e volle che tutti i suoi venissero a fargli corona: essi infatti colà si raccolsero, e con festosa ilarità molti beni da quel giorno si auguravano. Ginevra appariva oltre ogni dire bella e ispirante soavi sentimenti: le si scorgeva in fronte la contentezza, e i suoi azzurri occhi amorosi si volgevano pieni di contentezza; più ricche e leggiadre portava le vesti; le bionde chiome con maggior grazia inanellate, ed in più vaghe treccie sul capo ravvolte. Appressando la madre, attendeva con ansia Palamede; ed allorquando ivi giunse, da quel desiderato aspetto inebbriata, d’un roseo colore suffuse le guance, appalesò sul viso il tripudio del cuore. La notte fra le agitazioni trascorsa, e il malaugurato sospetto aveva fatto pallido il volto del cavaliero; ma al primo mirare la sua bella fidanzata, sparve dal suo spirito come sogno fugace ogni tristezza, e i suoi pensieri si fecero ridenti. Accolto con un amplesso da Bernabò, venne poscia ad imprimere, palpitando, sulla destra a Ginevra un bacio d’amore. Lodovico fraternamente abbracciollo; e fra l’espressione del reciproco affetto, rammentando la loro passata intimità, ridestarono mille dolci memorie di Milano e delle loro usate occupazioni, delle armi, de’ privati tornei e delle corse. Palamede tenendosi stretto al fianco il giovin figlio di Bernabò: «Ginevra (disse, mirandola con tenerezza), amaro sommamente riuscir dee al vostro cuore il disgiungervi da questi cari parenti, abbandonandoli entro le triste mura d’un castello; ma io ho la ferma speranza, e ciò sia per voi consolante pensiero, che venuti al cospetto di Giovan Galeazzo, potremo, colle nostre replicate istanze, cangiare in meglio la sorte loro.» A Ginevra per questi detti si bagnarono gli occhi di pianto, e delle braccia cingendo Donnina, ascondendole il volto in seno: «Madre mia (esclamò), se chi vi tiene qui rinchiusa non ha cuore di ferro, io tanto da lui e dal cielo invocherò colle lagrime e colla voce, che voi, e con voi questi altri tutti, verrete liberi nel mio soggiorno, ed allora potrò chiamarmi compiutamente felice. — Il mio destino (rispose affettuosamente Donnina additando Bernabò) dipende dal suo; sposa tu stessa, sentirai fra poco che ogni diletto di moglie sta nell’essere vicina e nel recar sollievo all’uomo cui si va congiunte. Per me il mondo più non possiede attrattive; qualunque dimora mi è egualmente cara, purchè io possa giovare a quello cui ho consacrata la mia vita. Iddio conosce se mi duole il lasciarti; ma dandoti ad un prode cavaliero che ti provò sì altamente l’amor suo, io m’affido in lui che ti avrà ogni tenera cura; e fatta madre de’ suoi figli, addoppierà per te la stima e l’affetto.» Palamede, a lei ed a Ginevra rivolto, giurò che morrebbe cento volte anzi che cessare un istante d’aver cara la sua sposa sovra ogni altro oggetto; ed espose di volerla tener sempre in quell’elevato grado a cui i di lei nobili natali l’avevano destinata. Bernabò da lunga pezza era rimasto in attitudine meditabonda; ma all’udire questi detti del cavaliero, parve risentirsi; e con certa lentezza di voce come di chi vaga col pensiero su lontane memorie, e con sguardo immobile affissato nelle immagini della propria fantasia. «L’altezza del grado (disse), le ricchezze e il potere sono forse i più tristi doni della fortuna. Io li possedetti per lunghi anni, or ne conosco il giusto prezzo. Che mi hanno essi recato di bene? Non mi sforzarono a mantenere sempre vive atroci guerre, a comandar punizioni, ed ohimè... a commettere chi sa quanti delitti? Fra il sangue versato e il terrore dei tradimenti non v’è calma, non v’è pace pel cuore. — I trionfi — le feste — l’oro profuso non giovano — no — a far paga l’inquietudine profonda che agita lo spirito e lo tormenta. Nei palagi, nei castelli, fra i cortigiani e le armi ebbi io mai tranquillità e contento? — O miei boschi di Marignano! Per le vostre ombre camminando solingo, io mi sentiva più sicuro che cinto da bastite e da spade — là scorrevano per me placide ore — quante volte fra l’alte piante, sui bei pendii del Lambro, guidando lento il destriero, mi sorprese la notte — allora — allora soltanto svaniva il peso che mi gravava il seno, nè temeva pugnali, nè agognava vendette. — Chi vi dava, o acque, nel vostro solitario corso un suono soave? — Chi porgeva un’armonia al vento della sera che agitava sul mio capo le frondi? — Io trovai nelle selve i diletti che non rinvenni più mai nelle mie corti. — E tu, o contadino, che mi fosti guida in una notte oscura ad uscir dal bosco, tu, la cui miseria ti toglieva il dividere il pane co’ tuoi figliuoli, non ti vid’io più lieto del dono di poche monete, di quello ch’io nol fossi stato giammai per le più grandi vittorie? Ancor mi rammento le tue parole: Tu mi chiedevi qualche cosa per amor di Dio, perchè avevano usurpati i tuoi campi. Ah! perchè non t’ho io dato le mie città, i miei tesori, e non ho cangiato i miei palazzi colla tua capanna! — Or qui non sarei... (ma abbandonando ad un tratto questo pensiero che gli chiamava sul volto la tristezza e lo sdegno, e cangiando corso all’immaginare, converso a Palamede, proseguì) — Io spero che il conte di Virtù non avrà estesa la sua mano rapace anche sui beni ch’io donai nei giorni della mia prosperità: se la cosa è così, tu avrai ventimila fiorini d’oro che io costituii in dote a Ginevra sul marchesato della Martesana, da me regalati a sua madre; quel danaro si trova ora in custodia di Rinaldo de Porri suo zio; da lui ti reca, ed egli te lo sborserà.» Palamede lo accertò che ancorchè il conte di Virtù avesse privato di quella dote Ginevra, il che non credeva fosse avvenuto, egli possedeva bastevoli mezzi per farla andar pari alle più doviziose dame di Milano. Era tra questi ragionamenti venuta l’ora del pranzo, e due paggi entrarono ad annunziare che la mensa stava disposta. Per ordine di Iacopo del Verme fu la tavola preparata in una delle più adorne sale, e fregiata cogli utensili più ricchi che ivi si ritrovassero. Smaltati a diversi colori vedeansi i vasi di cristallo che capivano i vini, i bicchieri avevano gli orli d’oro, d’argento erano i tondi, con vaghi contorni, e le saliere di belle forme stavano con simmetria sul desco disposte. In mezzo della mensa vedeasi entro gran piatto la testa d’un grosso cignale con arte rivestita degli irti peli, ed a cui risortivano dalla bocca candide le zanne; le facevano cerchio lepri, fagiani ed altro selvagiume. Tutti vi si assisero intorno: Bernabò stette a capo di essa, e gli si sedette d’appresso Palamede. La squisitezza dei vini ed i gustosi cibi posero da loro in bando ogni men lieto pensiero, e dettarono sollazzevoli motti. Dato termine al primo servito, mentre alcuni donzelli portavano le zuppiere colle minestre per gli altri commensali, un paggio s’avanzò recando sovra una sottocoppa d’oro una scodella coverta, e venne a deporla innanzi a Bernabò: conteneva essa fagiuoli, suoi favoriti legumi[16]. Scoperchiata la scodella, ne esalarono densi vapori: Bernabò si diede a ghiottamente mangiarli; ma allorchè n’ebbe la maggior parte consunti, arrestossi d’un colpo, e disse: «Qual infernale sapore m’ha offeso il palato! io non ho mai inghiottita più disgustosa vivanda; toglietemela davanti.» I servi obbedirono. Passò a tali parole un lampo funesto per la mente di Palamede, che impallidì; ma vedendo che Bernabò, accostatosi altro cibo, ne mangiava con cupidigia, nessuno sgomento dimostrando, ritornò tranquillo. Il pranzo lietamente procedea: molte vivande erano state successivamente recate, quando a Bernabò, che gettò da se lontano il cibo tralasciando tutto ad un tratto di mangiare, manifestossi in volto un eccessivo pallore; portò le mani al petto, come forzandosi di contenersi, ma involontariamente fece dolorosi contorcimenti. Tutti si alzarono sorpresi, e raccerchiarono chiedendo che avesse: tacque egli un istante ancora, ma poscia dovette palesare che sentivasi acuti dolori allo stomaco. Una mano gelata piombò sul cuore di Palamede: senz’altro dire abbandonò quella sala, e precipitoso corse a ricercare dell’aríolo. Frugò le stanze, i cortili, le stalle, per tutto il chiamò e richiamò, senza che quello mai gli rispondesse; ne chiese replicatamente agli uni, agli altri: tutti asserivano di non averlo in quel giorno veduto; affannato recossi presso la porta del parco; ivi addomandando un milite che incontrò, udì dirsi che Enzel era entrato sul far del giorno nel parco, ma che non s’era più veduto uscirne. Palamede entrò quivi rapido; e vedendo la neve da molte orme segnata, le seguì e giunse dove eravi uno spazio di terreno scoperto; ma quivi presso non stava alcuno, se non che vide di là cominciare una striscia di sangue, ch’egli seguendo atterrito, il condusse alla torre nera di Barbarossa, entro cui quella sanguigna traccia finiva, ma ivi pure non eravi persona vivente. Gridò forsennato, chiamando Enzel; ma non gli rispose che l’eco di quelle diroccate mura con un cupo rimbombo; ricalcò desolato quella via, rientrò nel cortile; e fatte invano nuove ricerche, risalì disperato nelle sale del principe prigioniero. Bernabò, cui s’erano aumentati dolorosi sintomi, tolto da quella sala, era stato portato sul proprio letto: ivi giaceva col viso squallido, le chiome scomposte, e rigettate dal seno le coltri, irrequieto si dibatteva anelando. Donnina, le figlie, frate Leonardo, dalla più grande costernazione compresi, s’adoperavano intorno a lui per recargli sollievo. I suoi dolori si facevano di momento in momento più acerbi; un calore abbruciante gli si sparse per le membra, e venne assalito da una ardentissima sete. Gli fu tosto recata fresca acqua, che avidamente bevette, e pel consiglio di Donnina prese tiepidi brodi. Ma poco stette che da fieri sussulti il suo petto sconvolto rigettò quelle bevande e parte dei cibi che aveva inghiottiti. Ciò parve giovargli, poichè dopo quel rigurgito d’alimenti i suoi dolori si alleviarono, il calore si fece meno ardente, e la sete si mitigò. Riconsolati a tal vista pendevano tutti dal suo aspetto colla speranza che avesse termine quel suo terribile sconvolgimento. Ma i dolori gli si ridestarono più forti, tutte corrodendogli le viscere; un’arsione feroce gli investì le carni, e la violenza del tormento portò alla sua anima una mania; gli si fece lo sguardo deliro, tentò rialzarsi; e rabbiosamente strappandosi i lini dal seno, mandava disperati lamenti; tremende visioni in quella demenza gli assalirono lo spirito; con ansia faticosa profonda, con voci aspre e tronche: «Tu (gridava) mi fai porre su queste brage.... e non vuoi perdonarmi?.. Cessate... allontanate quei tizzoni... io sono Bernabò... Incatenate i cani; essi mi lacerano il corpo... Io solo ho fatto voi tutti tormentare ed uccidere, ma io era vostro signore, voi non mi avete obbedito... è troppo atroce la vostra vendetta... E tu, Matteo... fratello... non io... Galeazzo... Galeazzo ti ha dato il veleno. — Oh Dio!... quali pene!... i santi, la Vergine non mi ascolteranno?... Sarà così eternamente?...» Una sincope lo oppresse. Palamede, Donnina, le figlie, pallide, tremanti, lacerate da un’indicibile angoscia, credettero fosse morto; ma egli destossi dal breve letargo, e tramandò per le fauci un vomito nero. Un livido contorno gli si dipinse alle pupille, e un sudor freddo gli coprì le membra. Il delirio della mente cessò, volse intorno gli occhi incassati e semispenti, e fermògli sul Crocifisso che frate Leonardo gli teneva con una mano levato innanzi al volto. Appena il frate lo vide in tal attitudine: «Bernabò (disse pietosamente), a Questo, a Questo innalzate il pensiero, e sperate nella sua immensa misericordia, invocate pentito l’onnipossente sua destra, ed egli la stenderà su di voi, e vi darà forza di sostenere i patimenti che vi tormentano, onde vi aprano la via al celeste soggiorno, ergete l’anima al trono d’Iddio: questi brevi mali della carne possono valervi l’eterna salute; egli vi chiama per una difficile strada a compire la mortale carriera; voi benedite la mano del Signore.» Bernabò, le cui forze erano ormai estenuate, raccolte le braccia, e incrocicchiatele al petto, tenendo sempre fisso lo sguardo, bagnato di lagrime, nell’immagine di Cristo: «Mio sommo Dio (pronunciò), voi che non colpiste mai colla tremenda ira vostra un cuor contrito che vi si rivolse con umile preghiera, non isdegnate questi estremi accenti d’un misero peccatore affranto dalle pene. Perdonate a me i miei gravi e numerosi delitti, come io perdono a Giovan Galeazzo tutte le sue offese, e questa tormentosa morte, che ben m’accorgo che da lui mi viene; degnatevi, nel giudizio che mi attende, ricevere le preci de’ miei santi protettori, ed accogliere il mio spirito nel vostro seno.» Indi dopo alcuni momenti di silenzio allungò la mano; e presa quella di Donnina, che stava a fianco al letto quasi tramortita d’affanno, e serrandogliela con quella potenza che gli rimaneva: «Perdona (disse), o la più diletta compagna de’ miei giorni, i molti mali che per me soffristi. Tu dividendo meco, volontaria, questo carcere, me lo rendesti meno grave: io non ho accenti per render grazie a te ed al Cielo che mi ti diede e mi accorda di morirti vicino.» Scorgendo poscia Palamede mirarlo lagrimante, e Ginevra per celare la propria desolazione coprire colle palme il volto: «Sembrommi (proseguì) che questo dì fosse sorto per me felicemente: io gioiva nel pensare ai vostri contenti; ma nel convito di nozze mi versarono in seno la morte. Ciò non vi sia infausto presagio. Io era la meta dell’odio degli uomini e dei celesti castighi; l’ultimo colpo fu scagliato: io scendo nella tomba. D’ora innanzi voi vivrete sicuri. Rammentatevi di pregarmi pace dal Signore: presso la pietra del mio sepolcro invocatelo per me con lunghe orazioni — ivi insegnate ai vostri figli il mio nome e le mie disgrazie — io — non posso — che benedirvi....» Tutti caddero genuflessi al suolo; ed egli, alzata la destra tremante, fe’ il segno di croce. Proruppe uno scoppio di pianto e un sospirare invano represso. Bernabò tentò parlare ancora; ma la sua lingua e la bocca inaridite non emisero che rauchi suoni indistinti — Gli sopravvenne un mortale singhiozzo; crebbe l’ansia del petto — gli si manifestò un convulso palpitare delle fibre — gli occhi si intorbidarono — il singhiozzare addoppiò — stirò le membra gelate, le distese irrigidite — e spirò. Un raggio occidentale trapelando per rotte nubi, illuminava nel castello di Trezzo quella funerea scena. Dietro l’altare maggiore di San Giovanni in Conca sorgeva un mausoleo, sostenuto da sei colonne, sovra cui stava in bianco marmo scolpito un destriero di naturale grandezza, il quale recava sul dorso un cavaliero armato, che era l’effigie di Bernabò. In tale mausoleo, da lui stesso fatto innalzare, venne per ordine di Giovan Galeazzo deposto con magnifica pompa il suo cadavere, e celebratene in quella chiesa le solenni esequie con isfarzo regale. Lodovico fu condotto nel forte di San Colombano col fratello Rodolfo. Ginevra e Palamede seguirono Donnina, che si condusse con Damigella al suo castello della Martesana; ivi furono compite le nozze: nè essi più apparvero alla corte del Visconte. FINE. NOTE: [1] Gl’Inglesi furono i primi ad introdurre in Italia verso la metà del secolo XIV l’uso di condurre la gente a cavallo per lancie. Ogni lancia era composta di tre uomini, cioè del caporale di lancia, che era un cavaliere armato in tutto punto d’armadura pesante; dello scudiere, con elmo, usbergo, gambiere, spada e coltello; e di un paggio o ragazzo armato alla leggiera. Sulle prime chiamavansi _barbute_ o _bandiere_, ma allora non constavano che del solo caporale e scudiere. [2] Vettura di que’ tempi. [3] Antica porta di Milano, che esisteva di prospetto all’attuale _Castello_, a que’ tempi chiamato Castello di Porta Giovia o Zobia. [4] Antica prigione presso la chiesa di San Galdino. [5] Ordine religioso di que’ tempi, frequente in Lombardia, e detto _Berrettano_ da una special foggia di berretto con cui que’ monaci si coprivano il capo. [6] Venticinque maggio 1385. [7] La fabbrica di veli e di drappi de’ Segazoni di Milano era a que’ tempi famosa, non solo in Lombardia, ma per tutta Europa, e specialmente ne erano ricerche le stoffe a maglia per le sopravvesti. [8] Gli aríoli erano i zingani di que’ tempi: così detti, perchè supponevasi avessero potere sull’aria. [9] Il morione era un elmo dei soldati gregarii. [10] Brache de’ poveri a larghe pieghe. [11] Alto monte del lago di Como. [12] Chiamavansi _pusterle_ le porte minori della città, che non sussistendo nelle antichissime mura, vennero nella loro nuova ricostruzione aperte per maggior comodità dei cittadini. Nominavasi Brera la pusterla che sussiste tuttora al Ponte Beatrice presso il palazzo di tal nome, già collegio de’ Gesuiti. Fu detta, _Brera_ dal latino vocabolo _Prædium_ (campo) corrotto in _Braida_ e _Brera_: gli si aggiungevano gli epiteti del _Guercio_ e d’_Argisio_, perchè tali si vuole fossero i nomi degli antichi possessori di quella Brera, ossia campo, dove fu aperta la pusterla. [13] Dicevasi di lei: _On donne le los à la gracieuse reine Isabelle de Bavière, d’avoir apporté en France les pompes et les gorgiasetez pour bien habiller superbement et gorgiasement les dames._ [14] Il motto intero era così: _Le cavalier françois jouste contre tous venans en champ clos ou ouvert, fust de glaive de paix ou de guerre_. [15] Essi erano a Bernabò favorita vivanda. _Bernard. Corio._ [16] Bernard. Corio. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CASTELLO DI TREZZO: NOVELLA STORICA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. 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Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.