The Project Gutenberg eBook of Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: January 28, 2021 [eBook #64411]
Most recently updated: October 18, 2024

Language: Italian

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DIANA DEGLI EMBRIACI: STORIA DEL XII SECOLO ***

DIANA DEGLI EMBRIACI.


DIANA DEGLI EMBRIACI

STORIA DEL XII SECOLO

DI

ANTON GIULIO BARRILI

Seconda edizione

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1882.


Proprietà letteraria.

Tip. Fratelli Treves.



INDICE


[1]

DIANA DEGLI EMBRIACI

CAPITOLO PRIMO. Ero aspetta Leandro.

Era il 20 di ottobre dell'anno 1101 dopo il parto della Vergine, giusta la frase notarile dei tempi, ed era una giornata bellissima, rallegrata da un cielo senza nuvole e dai tiepidi raggi di un sole che pareva di primavera. Miracolo, questo, che accade di sovente in Liguria, ove la limpidezza del firmamento e la mitezza del clima fanno credere talvolta che il vecchio Saturno, o chi per lui, volti a rovescio, non una, ma cinque o sei pagine del calendario.

Le case di Genova, biancastre nello intonaco delle mura e nelle lavagne distese sui tetti, splendevano a quel saluto amoroso del sole; ma più di tutte splendeva la torre degli Embriaci, la regina delle torri genovesi, superba de' suoi cento e ventisei piedi d'altezza, delle sue pietre riquadrate alla [2] foggia romana e del triplice giro delle sue caditoie sporgenti.

Ora, se i lettori benevoli si degnano di seguirmi su quella torre, che offre certamente la più bella tra le vedute della città, io farò loro assai volentieri da cicerone, e mostrerò che cosa fosse Genova, nell'anno di grazia 1101, cioè a dire centosettantasei anni dopo l'edificazione della seconda cinta di mura.

La prima cinta, siccome è noto, si ristringeva al colle di Sarzano (fundus Sergianus) e suoi dintorni, formando un quadrato irregolare, due lati del quale si bagnavano in mare, e gli altri due si prolungavano dentro terra, andando a chiudersi, verso tramontana, in cuspide di freccia, alla porta di Sant'Andrea, una delle cinque per cui si entrava in città. Senonchè, nell'anno 925, si conobbe che la vecchia cinta era strettina parecchio, di guisa che i cittadini già avevano incominciato a rizzar le case di fuori. E allora i consoli fecero una giunta alla derrata, prolungando le mura verso ponente, in modo da poter chiudere nel nuovo giro la chiesa cattedrale di San Lorenzo, le case su cui fu murato più tardi il palazzo del Comune, e tutte le altre verso il mare, dove, tra una chiesa ed una porta (il luogo dicevasi appunto San Pietro della Porta), aveva a costituirsi il centro del traffico genovese, sotto il nome famoso di piazza de' Bianchi.

Come vedete, la città non era spaziosa. Per contro, le case salivano in su, come altrettante torri di Babele, per dare la scalata al firmamento; e le strade non vedevano, la più parte, che una breve lista di cielo, mentre tante altre non ne vedevano affatto.

[3]

Fortunati erano gli abitanti del colle di Sarzano, e più fortunati ancora gli Embriaci, la cui torre, sebbene eretta a mezzo il pendìo, si alzava smisuratamente, signoreggiando la sommità delle colline circostanti e del mare vicino. La torre minacciosa presentava i suoi quattro spigoli ai quattro punti cardinali, quasi volesse sfidarli a battaglia. A levante vedeva Carignano (fundus Carinianus) su cui erano ancora da nascere le case dei Fieschi e de' Sauli; più presso, ma sempre dallo stesso lato, il vasto colmo di Sarzano, che le schierava dinanzi le torri del vecchio Castello, insieme colle case dell'arcivescovato. Da settentrione le si affrontavano i monti e le colline digradanti ad anfiteatro fino alla chiesa di Santo Stefano e a quella di Sant'Ambrogio, ove la lunga ospitalità del V secolo al clero ambrosiano avea ristretti gli antichi vincoli di fratellanza tra genovesi e milanesi. Da ponente andavano man mano allungandosi le coste dei monti, lasciando tra le loro falde e il mare un largo campo alle sparse ville, donde torreggiavano i campanili di San Giovanni di Piè, di San Siro e di Nostra Signora delle Vigne, coi loro cappelli di pietra. Lascio pensare ai lettori come avesse a destare l'invidia universale messer Guglielmo Embriaco, padrone di quella torre e delle case sottoposte.

Per molte altre ragioni egli era del resto invidiato, quel degno capitano ed ottimate di Genova. E i lettori sullodati le sapranno tutte per filo e per segno, se non darà loro fastidio lo attendere.

Nella mattina del 20 ottobre dell'anno 1101 (ripeto la data per non avere a tornarci più su) una [4] bella fanciulla, dalle forme elette e dal leggiadro portamento, stava ritta sull'alto della torre che ho detto, facendosi solecchio con una mano, tesa in arco sulle ciglia, mentre coll'altra si appoggiava lievemente alla merlata, ond'era cinto tutto intorno il terrazzo. E il sole, mentre spaziava a sua posta in capricciosi riflessi tra le bionde chiome della fanciulla, rammorbidiva la sua luce sul volto roseo, segnandone senza rigidezza i graziosi contorni, e lasciando la sua giusta parte di efficacia al profondo bagliore di due occhi pericolosamente turchini.

Ho detto pericolosamente turchini, e non mi disdico. Se forse l'ardimento della frase non trova grazia presso i castigati scrittori, io so, per contro, di aver dalla mia le ombre di tutti i genovesi che vissero nei primi trent'anni del dodicesimo secolo e si sentirono feriti dagli occhi inconsapevoli della bella Diana degli Embriaci.

Tornando alla mia descrizione (brevissima, non dubitate, e appena quel tanto che può parer necessario ai più frettolosi) vi dirò che una veste di lana bianca le si stringeva alla vita, scendendo in larghe pieghe dal fianco, senz'altro ornamento che una molle cintura di cuoio. I capegli, non rattenuti da reticella, o trecciera, apparivano poco meno che sciolti, e in dorate anella le ricadevano sul collo. Così semplice nella sua foggia di vestire, ma ricca di grazie naturali, ella era la più leggiadra figura di donna che si potesse immaginare sognando. Laonde, non ho mestieri di dirvi se facesse dar volta al cervello dei giovani cavalieri, quando essi la vedevano scendere, accompagnata [5] dalle sue donne, per recarsi a pregare nella chiesuola vicina di San Cosmo, o nell'altra, poco più lunge, di San Pietro alla Porta.

Diana, dal canto suo, non badava ad alcuno; e non già per infinta verecondia, chè ai tempi suoi le istitutrici forastiere e i monasteri del Sacro Cuore erano ancora di là da venire, sibbene perchè il cuore della bella Diana era in Terra Santa, dove stava suo padre, dove stavano i fratelli. E siccome il cuore delle fanciulle (così dispose provvidamente la divina bontà) non può contentarsi ai soli affetti di casa, è ragionevole il credere che in Terra Santa ci fosse qualchedun altro, il quale tenesse la miglior parte di quel cuoricino in amorosa custodia.

Una supposizione di questa fatta servirebbe anco a chiarirvi perchè la fanciulla, che da parecchi mesi soleva passare ogni giorno lunghe ore sull'alto di quella torre, guardando con mesta assiduità sul mare, là dalle parti di levante, da alcuni giorni usasse guardarvi con ansia irrequieta, e stancasse i suoi begli occhi azzurri su quelle liste luminose segnate dal sole là dove il mare sembra confondersi col cielo, e dove sogliono apparir le navi a guisa di punti neri.

E di punti neri ella ne aveva scorto quella mattina più d'uno; i quali erano venuti a mano a mano ingrossando e già davano sembianza d'una armata in viaggio. Al momento in cui la mia storia incomincia, quei legni erano già a due tratti di balestra dalla punta del Faro, e un occhio esercitato nelle cose marinaresche ne poteva distinguere le insegne.

La pratica navale stava per l'appunto a fianco [6] di Diana, ad una rispettosa distanza, sotto la forma di un uomo a cui le molte rughe segnate sul viso davano un'età fra i cinquanta e i sessanta, sebbene i capelli neri e lucenti mostrassero la loro ostinatezza nel volerne confessare una quarantina soltanto. Il vecchio teneva la sua berretta in mano; era vestito d'un saio, stretto ai fianchi da una larga cintura di cuoio, donde pendeva una rispettabile daga. A compiere il ritratto, dirò che portava raso il mento e le guancie, come un vecchio nostromo delle Riviere ligustiche; la qual cosa faceva spiccar meglio uno sfregio che dal fronte gli scendeva giù lungo la guancia, e colla sua tinta di rosso acceso mostrava di non essere antico.

— Ecco, — diceva egli, proseguendo un discorso che già durava da un pezzo tra lui e la giovine signora, — si ravvisano già tutte. Le son proprio ventisette, con sei navi per giunta, nè più, nè meno, di quante ne partirono un anno fa, il primo giorno d'agosto. Ecco la Embriaca, madonna; vedete come è superba di portare il vostro gran genitore, il valoroso messer Guglielmo, Testa di maglio! —

Testa di maglio, era il soprannome dato dai genovesi a messer Guglielmo Embriaco, per la sua forza erculea e per l'uso che ne aveva fatto in certo frangente. Si raccontava che nella presa di Gerusalemme, rottasi a lui la spada fra le mani, il forte uomo si gettasse col capo innanzi dove più grande era la ressa dei Saraceni, e colla cervice, rivestita com'era dall'elmo di ferro, rompesse bravamente l'ostacolo.

— Maledetta ferita! — proseguiva il vecchio. — Se [7] ella non mi avesse inchiodato sul letto quando i nostri partivano per la seconda giostra, io ora potrei esser là, di ritorno, con messer Guglielmo, a far la mia buona figura a capo dei balestrieri. I miei compagni tornano da accoccarle a quei cani d'infedeli; io, invece, sono stato qui a mondar nespole.

— Mio povero Anselmo, e non potresti anco avervi lasciato la vita? E che sarebbe allora di tua moglie?

— Mia moglie! — borbottò il vecchio balestriere. — Non è ella al vostro servizio, madonna? D'altra parte non son morto in Antiochia e non c'era pericolo che io morissi poi. Vi so dir io che il colpo era bene assestato. Cane d'un Saracino! Fortuna che ho avuto ancora il tempo a rendergli tre pani per coppia.

— Anselmo, — interruppe Diana, — tu devi conoscere tutte le galere che entrano. Potresti dirmene i nomi?

— Oh perdonate, madonna! Raccontavo le mie prodezze per la millesima volta. Ecco, quella che viene prima delle altre è l'Embriaca. Dietro a lei c'è la Raschiera e la Mallona. Quell'altre due più lontane, verso mezzogiorno, sono la Marina e la Caffara. Quella laggiù, che pare non voglia spiccarsi ancora dal promontorio di Carignano, dev'essere la Pomella. Poverina, è carica d'anni e di gloria! Essa è quella che sette anni addietro ha portato in Terra Santa il conte Goffredo di Buglione, quando il degno uomo è andato a buscarsi quella brutta ceffata dal custode del Santo Sepolcro. Questa poi, a poggia della Mallona, è la Spinola, comandata [8] da vostro cugino, il buon messer Lamberto.

— E non vedi tu.... poichè siamo tra cugini.... non vedi tu la Carmandina?

— Aspettate, ci guardo. Dovrebb'essere quell'altra là.

— Dove?

— La penultima, che vien di conserva con quella di vostro zio, il console Amico Brusco. La riconosco al suo castello di poppa, più rilevato degli altri.

— È una ventura, — soggiunse Diana, quasi parlando a sè stessa, — è una ventura che tutti tornino a casa. Beate le famiglie che vedranno i lor cari!

— Sicuro! — ripigliò il balestriere, sorridendo, — e tra essi il leggiadro Arrigo di Carmandino.

— Anselmo!

— Scusate, madonna, la mia rozza sincerità. Qualche volta mi vien voglia di mordermi la lingua.... e forse sarebbe meglio. Ma che volete? Bisogna che dica pane al pane, io! E non vi ho forse veduta alta tanto e palleggiata sulle mie braccia?

— Sì, mio povero Anselmo, gli è vero, e so che tu ci ami tutti, quanti siamo della nostra casa.

— Tutti, davvero. E come non si avrebbe da voler bene a voi, a messere Guglielmo, vostro padre, a messer Ugo, vostro fratello, e da baciare dove passate?

— Tu dimentichi qualcheduno! — esclamò la fanciulla, con accento di rimprovero, temperato dall'atto amorevole con cui posò la sua bella mano sulla spalla del balestriere.

[9]

— Ah sì; messere Nicolao. Che farci, madonna? Gli è un prode cavaliere, non lo nego, ma io non posso mandar giù quel Gandolfo del Moro, che lo ha stregato, coi suoi occhi torvi e i suoi capegli arruffati. —

A quel nome, profferito dal suo fedel servitore, la fanciulla degli Embriaci si era fatta pallida in viso, e Anselmo sentì la sua mano delicata tremargli sull'òmero.

— Vedete se non ho ragione! — continuò egli. — Anche a voi, solo quel nome ha fatto sgomento. —

Mentre la sua giovine signora cercava le parole per rispondergli, un lungo grido si levò per l'aria. Le prime galere entravano nel piccolo porto di Genova, e il popolo, che si era accalcato alla riva e lungo le mura alle Grazie, faceva le prime accoglienze festose ai reduci di Palestina.

— Scendiamo, Anselmo; — disse la fanciulla. — Corri tu primo, e fa schierare nel portico tutta la famiglia, perchè sia degnamente onorato il mio gran padre e signore. —

Il balestriero fu sollecito ad obbedire, e disparve tosto per l'abbaino. La bella Diana gli tenne dietro, dopo aver dato un ultimo sguardo alla Carmandina, che si era avvicinata anch'essa alla punta del Faro.

[10]

CAPITOLO II. Qui si narra di Arrigo da Carmandino, come pigliasse la croce per gli occhi d'una donna.

Prima di andar oltre nel racconto, e mentre Genova, affollata sul molo, festeggia l'arrivo dei suoi crociati da Cesarea, vi dirò qualche cosa di Arrigo da Carmandino, e dei suoi primi amori colla bella Diana.

Arrigo da Carmandino era il più giovine di tre fratelli, chiarissimi per nobiltà di sangue e per amore della loro terra. Prendevano essi il nome dal borgo di Carmandino, in Polcevera, e i loro antenati erano d'una medesima stirpe coi signori delle Isole e con quelli di Manesseno, più noti pel soprannome di Spinola, donde si spiccavano appunto allora i rami gloriosi degli Embriaci, dei Castello e dei Brusco, mentre da essi, i Carmandino, si spiccavano gli Avvocati, i Lusii, i Pevere, i Mari, i Serra e gli Usodimare.

Rammentate, lettori umanissimi, che siamo all'alba dei Comuni e delle spartizioni un po' chiare, [11] quando i nomi proprii, le professioni, gli stessi nomignoli dati dal volgo, incominciano a distinguere i varii rami, e questi a lor volta fan ceppo.

Tutta quella nobiltà consolare era derivata dalla feudale, che, non avendo più Franchi, nè Longobardi, a cui chiedere l'investitura, ripeteva, poco prima del Mille, i suoi diritti dal Vescovo, ultima autorità rimasta in piedi per mezzo a quella gran confusione.

Vedete, infatti; Ido, il capostipite di tante famiglie, era visconte nel 952, con larga signoria nei pressi di Genova, segnatamente nella valle di Polcevera. Ebbe tre figli, un Oberto Visconte, un Migesio, donde venne il casato delle Isole, e un altro Oberto, detto di Manesseno. Dal primo dei tre, per una genealogia di Ido, Ingo, Rainfredo, e Ingo da capo, scendiamo ai tre fratelli, Gandolfo, Ido ed Arrigo, avvocato il primo del monastero di Santo Stefano, futuro console il secondo, crociato il terzo e uno dei principali personaggi della mia storia.

Torniamo indietro fino al capostipite; lasciamo da banda il suo secondogenito Migesio, e andando a cercare il terzogenito, Oberto di Manesseno, lo vediamo padre a Belo Visconte, da cui nacque un Guido, che fu il primo ad assumere il nome di Spinola, uomo la cui liberalità e la magnificenza andavano famose per tutta Liguria. Narra il Giustiniani (e gli s'ha a credere, in mancanza d'altre autorità) che questo messer Guido usasse onorare gli ospiti suoi facendo spillare da più botti parecchie sorte di vino. Ora, in vernacolo genovese, spinolare è lo stesso che l'italiano spillare, e dicesi spinola lo zipolo con cui si chiude la cannella [12] delle botti. Per tal modo il visconte Guido fu chiamato lo Spinola, e uno zipolo diventò nome ed anche insegna di casato, perchè da quel tempo in poi la famiglia la portò d'oro, con una fascia scaccata di rosso e d'argento di tre file, sormontata da una spina di botte, di rosso, in palo. Notate la mia sbardellata scienza araldica, mentre io proseguo la genealogia, raccontandovi che questo messer Guido ebbe sette figliuoli, un Oberto, un Guido ed un Ansaldo, che si adoprarono a perpetuare il nome degli Spinola; un Primo, che tolse il nome di Castello e fu davvero il primo di tal casato; un Guglielmo, che fu capostipite ai Medici ed agli Alineri; un Amico, che assunse il soprannome di Brusco e fece anch'egli la sua brava razza a parte; finalmente un nuovo Guglielmo, il più glorioso di tutti, distinto col nome di Embriaco e salutato dai suoi soldati col nomignolo, che già conoscete, di Testa di maglio.

E adesso che vi ho dato un cenno bastevole di tutte queste parentele, torno ad Arrigo. Egli era per fermo uno dei più leggiadri cavalieri di Genova, e non avreste trovato chi lo agguagliasse in trattar lancia e spada, o cavalcare in giostra e gualdana. Neanco poteva dirsi fosse digiuno di studi; chè anzi in cotesto egli era andato più oltre che non comportassero le costumanze d'allora. Mite era dell'animo, ma pronto a metter fuori la spada contro ogni atto che gli paresse iniquo, laonde non è a dire come egli avesse il cuore aperto ad ogni affetto generoso.

A ventidue anni, Arrigo non aveva ancora amato. A chi gli toccava di ciò, egli solea dire che il suo [13] cuore avrebbe dato ad una donna, ma per sempre, e che però non si sarebbe innamorato al primo uscio. Arrigo aveva ragione, sebbene molte vaghe gentildonne tenessero contraria sentenza; e lo aspettare fu bene, imperocchè diede agio al caso di condurlo una certa mattina alla chiesa di San Pietro alla Porta, ove per la prima volta s'avvenne in quella rara bellezza della fanciulla degli Embriaci.

Quel giorno, le sue preghiere non andarono tutte all'altare, ed egli adorò il creatore nella sua creatura. Quegli occhi azzurri non si erano pure fissati su lui, quantunque egli si mettesse a bello studio accanto alla pila dell'acquasanta, quando Diana fu per uscire di chiesa; ma Arrigo non si diede per vinto, e da quel giorno gli fu caro aver perduto la pace dell'anima. Dovunque la donna andasse, Arrigo era; dovunque fosse, non indugiava ad apparire; di guisa che, finalmente, ella ebbe ad avvedersi di quel costante amatore, e il suo cuoricino incominciò ad accogliere una immagine d'uomo, il suo labbro a mormorare un nome, allorquando ella udiva, di nottetempo, sotto i veroni della sua casa, certe ballate in provenzale, che era la lingua amorosa di tutti, e parte principale della educazione dei giovani.

Se Arrigo avesse continuato di quella forma nei suoi lai di troviere, forse i posteri avrebbero parlato meno di Folchetto, suo concittadino, che doveva salire più tardi in tanta rinomanza nell'arte. Ma i canti di Arrigo ebbero fine ben presto. La voce improvvisa di Pietro Eremita aveva scosso l'Europa. Quel pazzo sublime, che, senza pure saperlo, dovea col suo grido dare indirizzo nuovo [14] alla storia, era venuto in Occidente a raccontare la caduta di Gerusalemme in balìa dei Saraceni feroci e le crudeltà patite dai pellegrini, che andavano a pregare sulla tomba del Cristo.

La cosa era grave, più grave che non si argomenti ai dì nostri. Al sepolcro del Nazareno andavano i peccatori di tutta Europa a purgarsi dei loro misfatti, e in quei tempi non ancora usciti dalla barbarie, una simile derrata abbondava anzi che no. Premeva alla chiesa, premeva alla Cristianità tutta quanta, che la via di Gerusalemme non fosse impedita. Le città marinare avevano inoltre bisogno di allargare i loro traffichi, e l'Oriente era l'Aurea Chersonesus per essi. Vi erano poi gli uomini di lancia e spada, vaghi di nuove imprese, infastiditi delle guerricciuole di casa, signori di poca terra, o di nessuna, tutti travagliati da una gran sete di possanza e di gloria.

Cotesto vi chiarirà come la voce del monaco dovesse essere udita da un capo all'altro d'Europa, e come scaldar l'animo di chierici e laici, d'uomini di cappa e uomini di spada. A cavallo su d'una mula, che meriterebbe di essere glorificata dalla storia, non foss'altro, per le sue lunghe e faticose trottate, Pietro ne andava di città in città, di terra in terra, col crocifissso in pugno, predicando, piangendo, ed incitando i Cristiani a liberare il Santo Sepolcro. Un pietoso entusiasmo, che andava spesso oltre i confini della pazzia, rispose alle concitate orazioni del monaco; le popolazioni intiere si schieravano sulle sue orme, chiedendo la guerra santa ai loro signori; ed a questi si destavano arcani desiderii, ribollivano alte ambizioni nel petto.

[15]

Il concilio di Chiaramonte, radunato nel 1095 sotto la presidenza di Urbano II, deliberò che la guerra santa si facesse. La piccola città di Chiaramonte non bastava a capire tutta quella pioggia di principi e di vescovi, di ambasciatori, di baroni e di frati, che erano accorsi al concilio. Una cronaca di quel tempo narra che, a mezzo novembre, le città e borgate dei dintorni erano così piene di popolo, che fu mestieri di rizzar tende pei campi e recarsi in santa pace un freddo, che non usava misericordia ai cristiani.

A quel concilio si presentò anche Goffredo, duca di Bouillon, che doveva capitanare più tardi i crociati. Il prode soldato, pochi mesi addietro, era andato in Terra Santa col conte di Fiandra ed altri pellegrini della sua levatura. Passati in Genova, si erano imbarcati sopra una nave chiamata Pomella, e approdati al porto di Joppe avevano proseguito il viaggio per alla volta di Gerusalemme. Si erano presentati alla porta del Sepolcro; ma i Saraceni che vi stavano a custodia ne avevano negato loro l'accesso, volendo che pagassero prima un bisanto per ciascheduno. I nostri gran signori non avevano quattrini; il tesoriere della comitiva era rimasto indietro un buon tratto di strada. Si venne a parole, e il pio Goffredo vi buscò una fiera ceffata, di cui si sarebbe fatta subitanea vendetta, se i cristiani non fossero stati così pochi e così numerosi i Saraceni.

Questo narrava Goffredo; e gli animi sempre più s'infiammarono. Urbano impartiva l'indulgenza plenaria a chiunque, pentito e confessato, si votasse all'impresa. «Dio lo vuole! Dio lo vuole!» [16] Fu questo il grido dei baroni, quando Urbano ebbe finito di parlare; e tutti si gettarono ai piedi dei padri del Concilio, per ricevere i due scampoli di lana vermiglia, assestati in forma di croce e cuciti sull'òmero. Di quelle croci ne furono distribuite oltre un milione. Ventura pei lanaiuoli, e non per la nobile impresa, che fu ben lungi dal raccogliere un così gran numero di combattenti.

A Genova, il popolo si commosse a sua volta per l'arrivo di Ugo, vescovo di Grenoble, e di Guglielmo, vescovo di Orange, i quali, caldi ancora degli entusiasmi di Chiaramonte, venivano ai genovesi per invitarli alla crociata, e parlavano alla gente dalle gradinate delle chiese, distribuendo le insegne vermiglie a quanti le chiedevano, che molti furono e dei più riputati cavalieri di Liguria. Fra i primi che pigliarono la croce furono Anselmo Rascherio, Dodone degli Avvocati, Lanfranco Rosa, Opizzone Musso, Oberto de Marini, Ingo Flaòno, Nascenzio Astore, Guglielmo di Buonsignore e Oberto Basso delle Isole.

Tornando colla mente a que' giorni di altissima concitazione di spiriti, è agevole immaginare quale onda di popolo traesse a San Siro e a Santo Stefano, intorno a quelle gradinate donde i due vescovi arringavano la moltitudine. Nobili e popolani, uomini e donne, vecchi e fanciulli, tutti si accalcavano a quei sacri spettacoli, tutti volevano la guerra santa, tutti avrebbero voluto la croce.

Ma il Papa non chiedeva a Genova guerrieri soltanto. Genova, già potente sul mare, doveva fornire navi e marinai per condurre un grosso di crociati d'Occidente in Soria; e mentre i cavalieri [17] e il popolo minuto s'infiammavano per la guerra santa, non sognando che botte da orbi ai Saracini, i Consoli vedevano in quella spedizione lontana e gloriosa, la sorgente delle nuove fortune di Genova.

Anche Guglielmo Embriaco, il nobile figlio di Guido Spinola, il consanguineo degli Avvocati, dei Marini e degli Isola che ho nominati poc'anzi, aveva posta la croce vermiglia sulla cappa bianca, e il suo fratel maggiore, Primo di Castello, aveva imitato l'esempio. Ora egli avvenne che un di quei giorni, Diana pregasse il padre di condurla a vedere il vescovo di Grenoble, che dalla gradinata di Santo Stefano teneva discorso ai fedeli. E messere Guglielmo, da quel padre amoroso che egli era, condusse la figliuola, con gran corteggio dei suoi famigliari, fuor della porta di Sant'Andrea, fino ai piedi dell'erta su cui sorgeva la chiesa del protomartire, tutta listata di marmo bianco e pietra nera di Promontorio, giusta il costume d'allora.

Il popolo accolse con liete grida il nuovo crociato, e Arrigo da Carmandino (vedete se la fortuna non aiuta gl'innamorati) ebbe in sorte di far luogo presso di sè a messer Guglielmo e alla sua bella figliuola.

L'Embriaco salutò cortesemente il Carmandino, e questi si fece tutto rosso, nel ricambiarlo della sua cortesia. Gli occhi di Diana si erano incontrati nei suoi; Diana lo aveva salutato per la prima volta, e Arrigo aveva sentito il sangue rifluirgli al cuore, chè mai gli era parso di aver provato altrettanta allegrezza.

Il tacere più oltre sarebbe stato disdicevole. Guglielmo conosceva Arrigo per un gentil cavaliere, [18] del sangue di Ido Visconte, da cui, come ho detto più sopra, scendevano anche i signori di Manesseno. E Carmandini ed Embriaci avrebbero potuto vantare un dugento anni di certa genealogia, che era già molto per quei tempi, se allora, più che da un lungo ordine di avi, non si fosse reputato più bello derivar fama dalle opere proprie. E nemmeno allora si usavano stemmi a contraddistinguere le casate. Ogni cavaliere inalberava l'emblema che più gli andasse a grado, per essere riconosciuto in giostra, o in battaglia. Soltanto dopo la prima crociata, l'emblema, illustrato sui campi di guerra, parve degno d'essere perpetuato, ad onore di tutto il lignaggio. Così ad esempio gli Embriaci lo portarono d'oro, con tre leoni rampanti di nero; i Carmandini ebbero lo scudo partito di nero e d'argento, con un leone rampante dall'uno all'altro.

Torniamo ad Arrigo. Il giovane, dopo una breve pausa, che gli fu necessaria per trovar le parole, e arrossendo da capo, come potete immaginare cercando tra le memorie della vostra giovinezza il caso consimile, si fece animo a dir qualche cosa.

— Messer Guglielmo, — cominciò egli, — voi dunque partite, per andarvene in Terra Santa a sostenere il buon nome dei cavalieri genovesi?

— Come sapete; — rispose con nobile modestia l'Embriaco; — vo a fare il debito mio e nulla più. Per quanto è di sostenere il buon nome di Genova, voi mi fate, messer Arrigo da Carmandino, troppo gagliarde le spalle. Sono dei primi pel buon volere, non già per l'efficacia delle opere.

— Messer Guglielmo, consentite, che, per amore [19] di verità, io pensi di voi l'una cosa e l'altra. Così voi mi credeste degno di combattere al fianco vostro, come io vi seguirei di buon grado, avendolo per somma grazia ed augurio fortunato. —

La lode dei buoni è grato conforto agli ottimi; e questo è tanto vero, e lo fu tanto in ogni tempo, che a Guglielmo Embriaco le parole di Arrigo da Carmandino toccarono il cuore. Egli non rispose nulla; ma, presa la mano del giovine, la strinse con indicibile affetto. Diana alzò, per guardare Arrigo, i suoi begli occhi azzurri; e traluceva da quegli occhi un sorriso di cielo.

Che cuore fu il vostro, che dolci pensieri vi passarono pel capo, messere Arrigo da Carmandino, quando sentiste la stretta di quella mano paterna e la virtù di quello sguardo virgineo? Per fermo i vicini, in quel momento, videro sulla vostra fronte un'aureola, come quella dei santi, poichè hanno goduto l'aspetto di Dio. E Diana stessa, la leggiadra Diana, ebbe sicuramente a vedere alcunchè di simile, perchè tenne a lungo i grandi occhi fissi su di voi, in atto di compiacenza e di meraviglia.

— Arrigo da Carmandino, — disse, dopo brevi istanti, il padre della fanciulla, — voi siete un nobil garzone e degno d'esser amato da quanti vi conoscono. Non avete voi ancor presa la croce?

— No, messere; — rispose turbato il giovine. — Il desiderio me ne aveva colto fin dal primo giorno che il venerando vescovo di Grenoble arringò il popolo dalla gradinata di San Siro. Ho tardato, per timore non già, sibbene....

— V'intendo, messere; — ripigliò con amichevole festività l'Embriaco; — aspettavate la fascia [20] di zendado trapunta dalla donna dei vostri pensieri.

— Non vi apponete che a mezzo; — rispose Arrigo, facendosi rosso per la terza volta. — La donna che io amo, dopo Dio e la mia fede di cavaliere, è cosa troppo alta per me, e forse io non potrò sperar mai di portarne i colori. Soltanto avrei desiderato che ella sapesse del mio disegno, per leggere nei suoi occhi un saluto. Ma lasciatemi andare; — soggiunse il giovane, dopo aver dato una timida occhiata a Diana; — io non potrei rimanere più oltre al fianco vostro, senza la croce vermiglia sul petto. —

E dette queste parole, Arrigo si mosse con giovanile baldanza verso la chiesa. Il popolo fece largo al cavaliere, sapendo che non si correva tanto in fretta verso il buon vescovo di Grenoble, se non per avere il segno della crociata. E infatti, pochi istanti dopo, il giovine Arrigo era ai piedi di Ugo, diceva il suo nome e tornava benedetto, coi due scampoli di scarlatto incrociati, verso il luogo dove aveva lasciato Guglielmo Embriaco e la sua celeste figliuola. Tutti gli astanti, che conoscevano il terzogenito di Ingo e di Rainoisa (una tra le più belle gentildonne di Genova, alla quale egli somigliava moltissimo) lo salutarono con lunghi evviva; ma il suo trionfo egli lo gustò tutto intiero negli occhi raggianti della bellissima fanciulla e nel bacio del padre di lei.

— Siate il ben venuto, — gli disse questi, — tra i cavalieri di Cristo. Ora è tempo di tornarcene alle case nostre. Arrigo, venite un tratto con noi?

Il giovane innamorato non se lo fece dire due [21] volte. E la sua gioia fu al colmo, allorquando l'Embriaco, postagli una mano sulla spalla, mentre le donne andavano innanzi per la via di Macagnana, donde si giungeva alle case di messer Guglielmo, gli susurrò all'orecchio queste parole:

— Arrigo di Carmandino, io so tutto, ho tutto veduto. Volete voi essere mio figlio, come Ugo e Nicolao? —

[22]

CAPITOLO III. Breve anzi che no pei lettori, ma sugoso per Arrigo da Carmandino.

Come la brigata fu giunta alle case degli Embriaci, il giovine Arrigo tolse commiato, non senza promettere a messer Guglielmo che sarebbe andato a visitarlo. Il lettore intenderà che Arrigo dicesse al padre, ma che il discorso, nella sostanza, andasse alla bella figliuola. Ed io glielo lascierò credere, sebbene avrei buono in mano per dimostrare che l'ossequio ad un uomo come l'Embriaco c'entrava per la sua parte.

Arrigo, dunque, tornò una e più volte in quella casa; e, bisogna dirlo a sua lode, ogni qualvolta ei metteva il piede sul limitare, il cuore gli batteva forte, come gli era battuto alla prima. Soltanto gli uomini della nostra generazione stracca possono affogare la delicatezza dell'affetto nelle acque morte della consuetudine; laonde a me, figliuolo del mio secolo, non fa gran senso vedere un amico mio passeggiare con aria uggiosa accanto alla [23] moglie, non ricordando più i giorni ch'egli era tutto fuoco e fiamma per lei, ed affrettava col desiderio l'ora in cui gli fosse dato vederla, fanciulla ancora, in quella conversazione, dove si era introdotto con tanta fatica.

Ogni giorno, al cadere del sole, il nostro giovane era al fianco di messer Guglielmo, il quale si ristorava, conversando con Diana ed Arrigo, dalle quotidiane fatiche per l'allestimento del suo naviglio. L'ospite toccava di sovente il liuto, alla maniera dei trovatori, cantando qualche cobla o serventese nella lingua di Provenza; e Diana, che avea risaputo il discorso fatto da suo padre ad Arrigo, si sentiva la più felice tra le donne.

La sua allegrezza era, a dir vero, turbata dal pensiero della partenza di Arrigo. Ogni giorno ella udiva dalla bocca del padre come andassero solleciti gli apprestamenti navali, e non era quella per fermo una consolazione per lei. Ma non s'ha a credere, per altro, che la fanciulla degli Embriaci fosse una delle nostre Malvine, che dànno negli spasimi per ogni cosa, e si strappano i capegli dalla disperazione. Diana avrebbe commesso un peccato mortale a strappare i suoi, che erano bellissimi, e, nata di padre guerriero e marinaio, in tempi d'avventure e di zuffe continue, si sarebbe mostrata indegna del proprio sangue, se troppo si fosse doluta che il suo fidanzato partisse, per andare in Soria, a romper lancie contro le schiere infedeli.

La bella Diana, scambio di pregare, lavorava assiduamente a metter punti d'oro su d'una fascia di seta. Nessuno le aveva chiesto per qual santo ella usasse tanta diligenza, ma lo indovinavano [24] tutti. In casa di messer Guglielmo non si era anche annunziato solennemente; ma tutti sapevano, congiunti, amici e famigliari, che non si poteva dare nè immaginare una coppia meglio combinata di quella.

Un uomo solo se ne rodeva, un uomo solo guardava di mal occhio il trapunto di madonna Diana. Gandolfo del Moro era amico di Nicolao, il primogenito di Guglielmo Embriaco, e Nicolao gli aveva promesso di aiutarlo presso il padre suo ad ottenere la mano della sorella. Perciò quell'altro si tenne sicuro del fatto suo; e quando tra giovani cavalieri si lodavano le grazie della bella Diana, invidiando anticipatamente il fortunato mortale che l'avrebbe condotta in moglie, messer Gandolfo tronfiava, faceva la ruota, come a dire: «invidiatemi pure, io sono quel desso.» Ma durò poco la sua gloria, ed egli si trovò scavalcato, mentre si credea fermo più che mai sull'arcione. Arrigo da Carmandino s'era fatto avanti, e gli era bastato presentarsi, per vincere. Gandolfo del Moro non volle già persuadersi che il cuore di Diana fosse libero di darsi a cui più gli piacesse, e tutta la sua rabbia si volse contro di Arrigo, come se Arrigo gli avesse rubato una cosa che apparteneva a lui, a lui, Gandolfo del Moro.

Il nostro geloso aveva pensato da prima di romperla apertamente con Arrigo e disfarsene con un buon colpo di spada. Ma il Carmandino era un osso duro da rodere, e Gandolfo era certo di averne la peggio. Allora gli venne fatto un nuovo disegno, che gli parve il migliore, tanto che volle mandarlo subito ad effetto, appostando due ribaldi in una viottola presso la torre dei Della Volta (che ancora [25] non avevano assunto il nome di Cattanei), da dove il Carmandino, tornando da casa gli Embriaci, soleva passare ogni sera. Senonchè, la mattina dopo l'agguato, si trovò un morto sulla strada, e il superstite non ardì ritentare la prova.

Arrigo aveva indovinato donde gli venisse il colpo, ma non fece motto ad alcuno di quel suo rischio notturno, contentandosi da quella sera in poi di girar largo ai canti per esser pronto ad ogni evento e non lasciarsi cogliere alla sprovveduta. In quanto a messer Gandolfo, si può argomentar di leggieri che non andasse attorno a menar vanto della disfatta.

Intanto, l'armata genovese era in assetto per prendere il mare. La partenza fu assegnata pei primi di luglio del 1097, sotto il comando di Guglielmo Embriaco. Erano dodici galere armate di tutto punto, piene di cavalieri e di arcadori, scelti tra i riputati di Liguria, e le seguiva un sandalo, nave oneraria di quei tempi. Padroni di quelle galere erano i cittadini che ho nominati più sopra, uomini prodi e navigatori esercitati nella caccia continua ai pirati, che infestavano allora il Tirreno.

Questo, come ho detto, avveniva nel 1097. Capi dei Crociati erano (lo accennerò brevemente per chi non ne avesse ricordo) Goffredo di Buglione, duca di Lorena, Baldovino ed Eustachio, fratelli di lui, Ugo fratello del re di Francia, due Roberti, l'uno figlio al re inglese e duca di Normandia, l'altro conte di Fiandra, Raimondo conte di Tolosa e Stefano conte di Bles, tutti seguiti da un numero stragrande di Tedeschi, Francesi, Inglesi, Scozzesi, Italiani. Non andarono Spagnuoli, perchè, travagliati [26] da guerra continua coi Mori, si potea dire che avessero la Crociata in casa. Ugo, passato in Italia, aveva rappattumati i due fratelli normanni, Boemondo di Taranto e Ruggero di Puglia, in discordia tra loro pel principato di Melfi. Con essi e con Tancredi, nipote a Ruggero, partivano ventimila uomini; anch'essi gente italiana.

Giunti per vie diverse a Costantinopoli, passato il Bosforo e calati in Bitinia, i Crociati espugnavano in cinquantadue giorni la città di Nicea; donde spartivano l'esercito in due corpi, l'uno destinato a correre la Licia e la Panfilia, l'altro a penetrare in Cilicia, dove occupava Tarso, Malmistro, seguitando poi alla volta d'Antiochia, capitale della Siria, a dodici miglia dal mare, dove era il porto detto allora di San Simeone. Colà approdavano i Genovesi, mentre l'esercito si travagliava nel difficile assedio. Ma di questo a suo luogo; rifacciamoci ora al porto di Genova, dove sta l'armata, sul punto di salpare le ancore.

La sera innanzi la partenza, Arrigo fu, come di consueto, alla casa di messer Guglielmo. L'Embriaco stava a consiglio coi notabili della città presso il vescovo di Ciriaco, e non v'ebbe che Diana a ricevere Arrigo.

— Madonna, — le disse il giovane, — domani si parte.

— Lo so; — rispose Diana, chinando i suoi begli occhi a terra, per nascondere due lagrime. — Addio dunque, messere! Il cielo v'abbia in custodia, e laggiù, tra le donne di Sion, che hanno fama di tanta bellezza, non vi faccia dimenticare di me.

[27]

— Oh, non temete! — esclamò egli con accento solenne. — Voi dovete credere, madonna, che Arrigo da Carmandino vi terrà la sua fede, come credete in Dio e nella lealtà del vostro genitore. Io vi amo, Diana, come la più santa cosa che al mondo sia, e un amore cosiffatto non può affievolirsi per volger di tempo nel mio cuore, dove esso rimarrà come sacro suggello ad ogni cosa che io pensi o faccia in futuro. Io, per contro, — soggiunse egli umilmente, — so quanto poco valgo al paragone delle grazie vostre, e temo.... temo che gli occhi di Diana degli Embriaci non abbiano a cadere su altri, migliori a gran pezza di me.

— Perdonatemi, Arrigo! — ripigliò la fanciulla, dicendo assai più cogli occhi supplichevoli che non facesse colle parole. — La donna che vi ama voleva celarvi le sue lagrime e nella confusione non ha trovato miglior cosa a dirvi che una scortesia. Ma non so parlare, io, come si dovrebbe parlare ad un uomo come voi; tutto il meglio dei miei pensieri mi resta qui, dentro il cuore. Ora sappiate che qui dentro c'è pure, e ben custodita, l'alterezza del sangue d'Ido Visconte, donde scendiamo ambedue, e la figlia di Guglielmo non può amare che un prode. O come vorreste, messere, che mentre mio padre, mio zio Primo di Castello, i miei fratelli, e con essi il fiore dei cavalieri di Genova, fossero in Terra Santa a sostenere il buon nome della nostra città (la frase è vostra, messer Arrigo), io potessi volger gli occhi intorno.... o al basso, — aggiunse ella prontamente, — per guardare i rimasti? —

Diana aveva profferito queste ultime parole con [28] molta veemenza. Era forse quella la prima volta che sotto i sembianti della fanciulla trasparisse la donna. Del resto il momento era solenne, e amore è gran maestro d'eloquenza per tutti. Anche Arrigo fu eloquente a rispondere.

— Di ciò non dubitavo io punto; e voi, madonna, non dubitate di Arrigo. Son vissuto finora senza amare altra donna fuor quella da cui nacqui; vivrò il restante della mia vita non amando che voi. —

Non ripeterò ai lettori tutto ciò che, seguendo un bandolo così bene avviato, andavano dipanando i due giovani in quell'amoroso colloquio. Chi non è stato innamorato? E chi dunque non sa che cosa potessero dirsi quei due nobili cuori, in un momento solenne, che era il primo e poteva anche esser l'ultimo delle loro espansioni?

Diana trasse fuor da uno stipo la fascia di seta, trapunta di sua mano, la baciò e la porse ad Arrigo; il quale la prese divotamente, come vi sarà facile argomentare, baciandola a sua volta.

Il giorno seguente, sul far dell'aurora, le galere salparono le ancore, sciolsero i provesi e si misero alla via. Tutta Genova era sulla spiaggia a salutare i suoi cari.

Il mare era cheto e scintillava tremolando ai primi raggi del sole, apparso allora allora di là dall'azzurro promontorio di Portofino. Una brezza leggiera spirava da ponente, come impromessa di fortunato viaggio alle galere della croce.

Diana accompagnò fino al lido il padre, lo zio Primo di Castello e il fratello Ugo e Nicolao. Gandolfo del Moro partiva anch'egli per Terra Santa, [29] e stava al fianco dell'amico. Ma Diana nol vide, o nol curò; ben vide Arrigo, che stava al fianco di suo padre.

La fanciulla si sentìa venir meno; pure, si fece animo, fino a tanto i suoi le furono vicini. L'addio di Guglielmo Embriaco fu quello d'un padre e d'un eroe; il che vuol dire che egli non ebbe vergogna di bagnare con una lagrima amorosa il candido fronte della sua bella figliuola.

— Le vostre preghiere, madonna, ci portino ventura. —

Furono queste le ultime parole di Arrigo; a cui Diana rispose con un gesto eloquente, alzando gli occhi al cielo, quasi lo chiamasse a testimonio del voto.

Ella stette colà, ritta, immobile, senza lagrime, sulla punta del molo, fino a tanto le galere non si dileguarono sull'orizzonte. La povera derelitta aveva la morte nel cuore.

Quando fu giunta alle sue case, nella sua fida cameretta, le forze l'abbandonarono, e pianse, pianse lungamente, colla faccia ascosa sul guanciale del suo letticciuolo. Indi, alzati gli occhi ad una immagine di Maria, che pendeva dalla parete, e che la volgare credenza attribuiva al pennello di San Luca, si fece a pregarla in tal guisa:

— Madre santa, essi vanno a riscattare il sepolcro del vostro divino figliuolo. Ma qui rimane una donna, una povera donna, senza padre, senza fratelli, senza.... Oh Maria, madre d'amore, fate voi che ritornino! —

[30]

CAPITOLO IV. Delle prodezze di Arrigo e dei sottili accorgimenti di messere Guglielmo Embriaco.

I crociati genovesi mi pigliano per sopraccarico, ed io me ne vado con essi in Sorìa; non già per farmi cronista delle loro intraprese, chè i consoli non me ne hanno commesso l'ufficio, sibbene per poter scrivere qualche pagina di storia ai lettori, in quella parte che si ragguarda alla mia narrazione.

Le galere, partite da Genova sui primi di luglio, giunsero in ottobre al porto di San Simeone, presso Antiochia, dove allora, espugnata Nicea, stavano ad oste i cristiani. Già da quattro mesi l'esercito stringeva d'assedio quella città, ma senza alcun pro, imperocchè si difettava di artiglierie. Allora, siccome è noto, portavano questo nome tutte le macchine da trarre e ingegni di guerra, come a dire le torri di legno, le briccole, gli arieti, le testuggini, i gatti ed altri arnesi consimili.

Laonde, non è a dire come tornasse grato a messer [31] Goffredo Buglione e a tutti gli altri baroni della crociata l'arrivo dei genovesi, che si sapeva essere in cosiffatte materie espertissimi. Tosto fu mandato incontro ad essi buon numero di cavalieri, per salutare i nuovi compagni e affrettare la loro venuta al campo latino.

Messer Guglielmo, a cui già si può dire che le mani formicolassero, accolse lietamente i messaggieri dell'esercito e lasciato il fratel suo, Primo di Castello, col figlio Nicolao, al comando dell'armata, mosse alla volta del campo con grossa schiera dei suoi e con un drappello di maestri da operare in ogni specie di legnami e congegni ferrati.

Quell'aiuto portò i suoi frutti; i quali tuttavia, per la fortezza del luogo, che era difeso da doppia cerchia di mura, e per la validissima resistenza degli assediati, non giunsero a maturità che nell'ultimo giorno di maggio del seguente anno 1098. Appunto in questo lungo frattempo, i genovesi ebbero a patir grandemente delle loro navi. Ed ecco in qual modo.

La campagna, tutto intorno ad Antiochia e all'oste dei cristiani, era mal sicura, per le continue scorrerie degl'infedeli, ed anco (rincresce il dirlo) di molti fedeli, datisi al lucroso mestiere di ladroni, che forse aveano già esercitato ne' loro paesi. Non tutti avean preso la croce per amore di Cristo; c'erano baroni, che agognavano impadronirsi di qualche città in Sorìa, la quale li confortasse della povertà di loro castellanie in Occidente, e c'erano avventurieri, che dopo avere ribaldeggiato per tutta l'Europa, venivano a cercare miglior fortuna in Terra Santa.

[32]

Così stando le cose e non potendosi distogliere dall'esercito una parte di soldatesche, le comunicazioni degli assediati col mare poteano dirsi interrotte, salvo nei casi eccezionali dello approvvigionamento, per cui si spiccavano grossi drappelli fino al porto di San Simeone. E quivi un bel giorno corse la voce, che lo esercito dei cristiani fosse stato disfatto, parte uccisi, o prigioni, e tutti gli altri sbandati per la campagna, senza speranza di poter guadagnare la spiaggia. La nuova era stata recata da due capitani d'oltremonte, i quali, una notte in cui gli assediati erano usciti dalla città e piombato in mezzo ai cristiani, sopraffatti dalla paura, avean preso la fuga e giù a spron battuto erano giunti fino al mare.

Il fratello e il figlio dell'Embriaco non sapeano che farsi, se lasciar le navi per andare in traccia dei superstiti e morire con essi, o salvare almeno l'armata, mettendosi al largo. Mentre così stavano incerti, non dando retta a Gandolfo del Moro, il quale parteggiava caldamente per un ritorno sollecito, ecco giungere alla spiaggia, dalle parti d'Ascalona, numerose schiere di Saracini, i quali accennavano di muovere alla volta d'Antiochia. Lo sbarco era fatto impossibile ormai; la perdita dei compagni più che sicura. Prevalse allora il consiglio di Gandolfo, e le galere genovesi usciron dal porto, per ritornarsene mestamente in Liguria.

Per colmo di sventura, sui primi giorni di navigazione, l'armata fu colta da una fiera burrasca, così che fu mestieri pigliar terra a Mirrea, nell'Asia Minore, sottoposta allora al dominio dell'imperatore Alessio, quel tale che amava i Crociati [33] come il fumo negli occhi e s'augurava di vederli cader tutti quanti sotto le scimitarre dei seguaci di Macone.

A guardare le cose dal lato suo, il Bizantino non aveva poi tutti i torti del mondo. Tra quei fieri baroni d'Occidente, che andavano al conquisto di Gerusalemme, ce n'erano parecchi, e dei più riputati, pei quali il sepolcro di Cristo era un pretesto e nient'altro. A costoro era entrato in mente che, facendo il loro tornaconto, facevano ad un tempo quel della fede. Però, giunti appena a Costantinopoli, facilmente si scordavano di Gerusalemme, pensando che la conquista dell'impero di Oriente sarebbe stata la cosa più agevole e più utile del mondo. E già aveano proposto il colpo a Goffredo di Buglione; ma quell'anima onesta non volle sentirne altro, e costrinse anzi tutti quei principi e baroni a rendere omaggio all'imperatore Alessio per tutte le terre che avrebbero conquistate.

Narra per l'appunto un cronista, che, mentre giuravano, uno di essi, conte di vecchia nobiltà, fu così ardito da andare a sedersi sul trono imperiale, e il povero Alessio non gli disse verbo, ben conoscendo l'oltracotanza dei Franchi. Il conte Baldovino, fratel di Goffredo, fece star su l'insolente, dicendogli che non era costume di sedersi in tal guisa a fianco degl'imperatori. L'altro obbedì, ma non si ristette dal guardare in cagnesco il monarca, dicendo nella sua lingua: «Voyez ce rustre, qui est assis, lorsque tant de braves capitaines sont debout!» L'imperatore si fe' voltare in greco quelle parole. Egli dice, spiegò l'interprete: vedete quel villano che sta seduto, mentre tanti prodi capitani [34] son ritti in piè! Allora Alessio fece chiamare costui e gli chiese il suo nome. — «Son Francese, rispose questi, e dei più nobili. Nella mia terra egli c'è, sull'incontro di tre vie, una chiesa antica, dove ognuno che abbia voglia di combattere entra a pregare il Signore Iddio ed aspetta il suo avversario. Io ho avuto un bello aspettare; nessuno ha ardito venirci.»

Alessio Comneno non volle udire di più, e non si tenne sicuro fino a tanto non ebbe mandato in Asia l'ultimo di quei capitani Fracassa. Io torno al racconto.

A Mirrea non c'era presidio di Greci e le galere c'entrarono come in casa loro. Così mi sembra che s'abbia a dire, poichè non dissimilmente pensarono i nuovi arrivati che andasse la bisogna, non si peritando di portar via dalla chiesa di San Nicolao le venerate reliquie di San Giovanni Battista, colà custodite da quei bravi calogèri.

Taluno dei moderni miscredenti penserà che quei monaci spacciassero una frottola ai Genovesi; e battezzassero quelle ceneri col nome di Precursore, a bella posta per farsele prendere e liberarsi da quegli ospiti un tal poco prepotenti che dovevano essere i nostri antenati. Ma per siffatta gente ci sono i documenti che parlano. Nell'Archivio di Genova si conservano le lettere di Alessandro III e di Innocenzo IV, le quali rendono testimonianza certissima che quelle non fossero ceneri da bucato, ma le vere ed autentiche reliquie del Battista. Carta canta e villan dorme; così dice il proverbio.

L'armata giunse a Genova; ma la sua lunga dimora [35] nel porto di Mirrea aveva fatto sì che la infausta notizia di cui era portatrice alla patria, fosse preceduta da più recenti e lieti messaggi del campo cristiano: come la paura di alcuni fuggiaschi avesse fatto correre la voce d'una sconfitta e come l'avesse poi malamente conformata la presenza di alcuni drappelli saracini innanzi al porto di San Simeone. L'arrivo delle galere non recò dunque nessun lutto in città, e quando per contro si riseppe che portavano le sante reliquie del Precursore, fu una gran festa da per tutto, e v'ebbe chi ringraziò la Provvidenza dell'errore, aggiungendo esser vero verissimo che tutto il male non vien per nuocere. E poco mancò che il vescovo Ciriaco non gridasse il Nicolao, collo zio Primo e con Gandolfo del Moro, salvatori della patria.

Il buon vecchio ebbe cionondimeno tanta gioia, che morì poco dopo, e gli successe Airaldo Guaraco, o Guarco, il quale resse la chiesa diciassette anni, et fue uomo di grande dottrina per li suoi tempi.

Quando le galere fecero ritorno in Soria, Antiochia era espugnata da mesi parecchi, e i Crociati erano già passati per la famosa valle di Giosafat, gridando: «Jerusalem!» alla vista della santa città.

Messer Guglielmo Embriaco, appena i messaggeri vennero a dirgli che due galere dell'armata genovese, la quale stava dalle parti d'Antiochia, erano giunte a Joppe ad aspettare i suoi comandi, lasciò Arrigo da Carmandino a capo delle schiere genovesi in sua vece, e corse al mare, seguito dal figlio Ugo e da una compagnia di balestrieri.

Il Carmandino, del quale ho taciuto finora per [36] la necessità di tirare innanzi il racconto, s'aveva guadagnato molta rinomanza in mezzo ai Crociati d'ogni nazione, per le prodezze sue non meno che per la saviezza dei consigli. Durando l'assedio d'Antiochia, uno dei capi saracini, cavalier generoso e insofferente di indugi, era uscito dalla città sfidando a singolare combattimento quello dei cavalieri cristiani che si fosse sentito da tanto. La novità della cosa, più che la fama del guerriero, la quale era del resto grandissima, avean fatto rimanere un tratto incerti i baroni crociati, e di quell'istante fece suo pro' il Carmandino per andar contro all'araldo e raccogliere primo il guanto di Bahr-Ibn, chè così avea nome il Saracino.

La giostra si tenne il giorno di poi, su d'una spianata in riva all'Oronte, presenti i capi dell'esercito latino da una banda, e quei degl'infedeli dall'altra. Guglielmo Embriaco avea di sua mano indossata la maglia d'acciaio al diletto giovane e serratagli la gorgiera dell'elmetto sul collo.

L'assalto fu violento da ambe le parti; ma Arrigo da Carmandino stette fermo in arcioni. La sua lancia si era spezzata contro l'elmo dell'avversario, che ne ebbe come uno stordimento al capo, e fu appena a tempo di trarre la spada, quando Arrigo tornò a briglia sciolta sopra di lui. Il cozzo dei ferri durò lunga pezza, chè bene combattevano ambedue; finalmente il Saracino toccò un colpo sì fiero, che gli ruppe l'elmetto e aperse ancora una lunga ferita sul fronte. In quanto ad Arrigo, egli aveva l'armatura rotta in due o tre punti e spargeva anch'egli il suo sangue per due ferite, fortunatamente non gravi.

[37]

Il cavalier saracino si diede per vinto. La sorte delle armi lo avea fatto prigioniero del Cristiano; ma il Carmandino non volle saperne di riscatto, e come Bahr-Ibn fu risanato, egli lo rimandò libero in Antiochia, non chiedendo altro da lui se non che si astenesse dal combattere contro i Cristiani fino all'espugnazione della città, o altrimenti alla levata dell'assedio. Là qual cosa essendo giusta, secondo le costumanze guerresche d'allora, fu giurata dal Saracino, che si partì dal campo, commosso per tanta gentilezza d'animo, e quasi contento d'essere stato vinto alla prova dell'armi da un cavaliere siffatto.

Torniamo ora a Guglielmo Embriaco, che abbiamo lasciato sulla strada di Joppe. Giunto colà, ebbe a mala pena il tempo di salire a bordo della galera padrona, e di chiedere novelle ai suoi della amata figliuola, che i marinai in vedetta sui calcesi annunziarono la presenza di molte vele dalla parte del mezzogiorno.

L'Embriaco salì tosto sul castello di poppa per osservarle, e conobbe esser quelle di parte nemica. Le navi dei latini erano infatti a tramontana, nel porto di San Simeone, e quest'altre venivano da Ascalona, dove sapevasi raccolta l'armata del soldano d'Egitto. Messer Guglielmo, colla prontezza d'occhio del marinaio, non istette molto ad intendere com'egli s'avesse davanti tutte le forze navali del Soldano, e, prima di scendere dal castello di poppa, aveva già formato il suo disegno nell'animo.

Passarono tre quarti d'ora, in cui le navi degli egiziani non fecero che avvicinarsi a furia di remi, [38] dacchè il vento spirava poco propizio alla loro venuta. I marinai genovesi stavano affacciati alle scale di fuori banda e lunghesso le impavesate, guardando con ansietà quei legni, il cui numero si accresceva man mano che si facean più vicini, e non levavano gli occhi da quella parte se non per guatare all'Embriaco, che stavasi ritto, colle braccia incrociate sul petto e le ciglia aggrottate.

Lo stato delle due galere non era per fermo il migliore del mondo. Erano esse ben armate e difese da uomini gagliardi, sotto il comando di un prode capitano; ma che cosa avrebbe potuto il valore contro quelle trenta navi saracene, le quali non aveano che a presentarsi in lizza per vincere?

Questi ed altri somiglianti erano i pensieri della marinaresca; ma egli bisognerà dire a sua gloria, che nessuno pensava alla resa. Già tutti si disponevano a combattere disperatamente e a farsi ammazzare sull'arrembata.

Messer Guglielmo non aveva ancora aperto bocca. Quando le navi nemiche non furono più che a tre tiri di balestra, egli fe' voltare la prora a tramontana e comandò la voga arrancata, accennando ai Saracini di voler prender il largo e fuggire.

Le galere, cedendo all'impulso dei remi, pigliarono l'abbrivo in alto mare. Allora il capitano dei Saracini si tenne sicuro di vincere, e comandò che le sue navi s'avanzassero in modo da formare un largo cerchio sul mare, dentro cui sarebbero côlti i fuggiaschi, come fiere in caccia.

Dal canto loro, gli uomini delle due galere non avevano capito nulla di quella mossa dell'Embriaco, la quale pareva ad essi il colmo della temerità. [39] Gandolfo del Moro fu il primo a dirne il suo giudizio ad alta voce, affermando che di tal guisa e' sarebbero caduti prigioni in meno di un'ora.

Ma messer Guglielmo, niente turbato, si volse, e crollando le spalle, disse a Gandolfo queste due sole parole:

— Avete paura? —

Era questa la frase consueta dell'Embriaco in simili casi, e non s'era dato mai che ella non costringesse i contradittori al silenzio. Però Gandolfo non ardì rispondere altro, se non poche parole confuse, colle quali cercava di colorire alla meglio il senso della sua osservazione.

— Non temete! — soggiunse allora Guglielmo. — Non passerà mezz'ora che noi saremo tutti in salvo, e senza colpo ferire. Vedete come que' cani si dispongono a darci la caccia! Quel povero capitano ha creduto che io volessi sfuggirgli in alto mare e subito allarga le sue ali per metterci in mezzo, senza avvedersi che sparpaglia i suoi legni e non potrà più farsi udire quando ci avrà altri comandi a dare. Suvvia, figliuoli! nel nome di San Giorgio! Leva remi! Orza, al timone! Vira di bordo! La prua contro terra! Forza nei remi! Arranca! Benissimo, così; e adesso, buon dì ai Saracini! Che ve ne pare, Gandolfo? Saremo noi fatti prigioni in mezz'ora? —

Dalle parole del capitano i lettori hanno già indovinato il suo stratagemma qual fosse: divider le forze dell'armata nemica, e, quando ella si fosse impacciata in que' movimenti disgregati per dargli caccia, voltar la prora a terra e lasciare i Saracini scornati. Appena le ciurme trapelarono l'ardito [40] disegno, levarono un grido di giubilo e si diedero con maggior lena a stringere la voga.

Ma questa non era che la prima parte del disegno di Guglielmo Embriaco. La seconda era dieci cotanti più malagevole. Importava di sfuggire ai Saracini, facendo getto delle galere e salvando tutto ciò che potea tornar utile al campo latino. In quelle due galere erano molti maestri d'operare, con gran copia di strumenti ed attrezzi, dei quali messer Guglielmo sapea per prova il difetto nei quotidiani lavori d'assedio.

— Fermi a' banchi, i rematori! — prese egli da capo a gridare. — Tutti gli altri si tengano saldi al sartiame e dove possono meglio! Ora, figliuoli, raccomandiamoci a San Giorgio il valente, e avanti contro la spiaggia! —

Un nuovo scoppio di evviva accolse questo comando di Guglielmo Embriaco. Le due galere volarono sui flutti, e le chiglie vennero in breve ora a rompere sulla ghiaia del lido, entro cui si affondarono fino a mezzo della loro lunghezza, tanto era stata la violenza dell'urto. Molti dei marinai, sebbene si tenessero parati a quel colpo, stramazzarono sulla tolda.

Ma, grazie a San Giorgio il valente, nessuno si acciaccò tanto da dover rimanere supino, e tutti, anche coloro che aveano le membra indolenzite, gridarono a squarciagola, esaltando lo stratagemma di messere Guglielmo.

Ben s'erano avveduti gli Egizii dell'inganno in cui li avea tratti il Cristiano; ma già gli era tardi per rimediarvi, e non tornava d'alcun pro mordersi le labbra. Il capitano, con tutti quei legni che potevano [41] obbedirgli, mise la prua sulla terra e giù alla disperata, con gran forza di remi e di bestemmie. Senonchè, giunti a un trar di balestra dal lido, i Saracini videro fallita ogni loro speranza. I Genovesi, profittando di un'ora di tempo che era corsa tra lo arenamento e l'arrivo dei nemici, avevano fatto un salto a terra, tagliando il sartiame e portando seco tutte le vele, i ferramenti, i congegni, le macchine, e ogni altra cosa che mettesse conto trar via. Sulla spiaggia si vedevano ancora tutte le cose salvate, ma v'erano a custodia i bravi Genovesi, con molti degli abitanti di Joppe, i quali, scaldati dall'esempio, avrebbero voluto menar le mani ancor essi.

Il nemico si provò a pigliar terra; ma non sì tosto il primo sandalo, carico d'armati, fu per avvicinarsi alla riva, i balestrieri dell'Embriaco presero a sfolgorarlo con tiri così ben aggiustati, che freddarono molti Maomettani e persuasero il loro capitano a tornarsene dond'era venuto.

E così, per sottile accorgimento dell'Embriaco, furono salve le vite di tanti valentuomini e maestri d'operare in arnesi di guerra, con tutti i loro strumenti preziosi.

Il giorno appresso, giungevano al campo latino, accolti dalle grida d'esultanza di tutto l'esercito e dalle congratulazioni di Goffredo Buglione. Questi grandemente pregiava i Genovesi che costituivano nel suo campo ciò che oggi si chiamerebbe il genio e l'artiglieria, mentre tutte quelle schiere, venute di Francia e d'altri luoghi d'Europa, non erano che cavalieri e fantaccini.

Laonde, le cose della guerra, che pareano difficilissime [42] prima, sembrarono un nulla dopo l'arrivo di que' nuovi artefici. Fu assegnato loro l'alloggiamento tra quella eletta di cavalieri e di balestrieri che erano rimasti sotto il comando di Arrigo da Carmandino e la gente guidata dal conte di Tolosa; intanto fu deliberato di metter subito mano alla costruzione di due grosse torri di legno, le quali sovrastassero, colle loro merlate, alle mura della città assediata.

[43]

CAPITOLO V. Di una gran torre di legno, che comandò a molte torri di pietra.

Era nei pressi di Gerusalemme una selva, non molto fitta, per verità, la quale fu spogliata interamente dei suoi alberi, per quelle costruzioni che l'Embriaco disegnava di fare. Nessuno aveva pensato, prima di lui, a cavar profitto da quella boscaglia; di guisa che non si aveano, per le necessità dello assedio, che poche macchine, costrutte da artefici mal destri.

Questa volta gli artefici sono valenti per ogni maniera di congegni, e il capo, disegnatore ed operatore ad un tempo, è lo illustre messere Guglielmo. In quella che una parte dei suoi manovali preparano catapulte, baliste, arieti ed altri arnesi minori, il maggior numero suda intorno ad un'opera, non meno maravigliosa, e in pari tempo, più vera del famoso cavallo di Troia; vo' dire la torre murale, che servirà d'esemplare ad altre due di pari grandezza, tutta intessuta di pino e di abete e fasciata di cuoio, per ischermirsi dal bitume infiammato, [44] con cui le genti assediate usavano allora respingere gli assalti.

Quella gran mole è il capolavoro di Guglielmo Embriaco. Ella si scommette e si ricompone, si tien ritta e si snoda, a talento dei difensori, tanto ne sono ben condotte e piene d'artifizio le mille giunture. Il piano più basso è aperto da due lati, per dar passaggio e libertà di moto ad una trave smisurata, col capo a foggia di montone, la quale ha l'ufficio di scuotere le mura dalle fondamenta; mentre la parte superiore della torre è congegnata in modo da potersi piegare a guisa di ponte sui merli, e dal corpo della macchina si spinge subito in su una nuova torre, che sopraggiudica quel ponte improvvisato, e vi scarica all'uopo i suoi combattenti. Un centinaio di saldissime ruote, cerchiate di ferro, sostengono quella macchina enorme e le danno facilità di movimenti, a malgrado del suo peso e del soprassello degli armati.

In breve spazio di tempo la torre è compiuta, e due altre, siccome ho già detto, di egual forma e capacità, le tengono dietro.

Tutto il campo traeva ogni giorno a contemplare questa meraviglia dei Genovesi. Dal canto loro, i Saracini, che dall'alto delle mura vedevano ogni mattina gran salmerie di legname essere portate dai camelli nel campo latino, si beccavano il cervello per indovinarne la cagione, e avendola finalmente risaputa, non riuscivano a capacitarsi del perchè s'innalzassero quelle moli, le quali (pensavano essi) non avrieno potuto esser tratte un palmo più lunge dal loro cantiere.

Ma gl'infedeli aveano fallato il conto. Nella giornata [45] del 3 di luglio dell'anno 1099 dopo la fruttifera incarnazione fu un continuo trar di baliste e di briccole, che rovinarono le mura in luoghi parecchi; laonde la notte fu tutta spesa dagli assediati nel riparare i loro danni e afforzare i punti che l'esperienza avea chiarito più deboli.

L'aurora del giorno quarto spuntò, e grande fu il turbamento dei Pagani, quando s'avvidero che le torri non erano più al loro luogo consueto, ma stavano in quella vece sotto alle mura. Grida di stupore e di spavento salutarono la molesta vicinanza di quelle smisurate macchine, le quali erano collocate in guisa da offendere la città per tre lati, mentre lo spazio che correva tra ognuna di esse, era colmato degli altri arnesi minori, tutti pronti a battaglia.

Alle grida dei Saracini rispondono quelle dei Crociati, e l'assalto incomincia. E qui, sebbene non sia còmpito mio, non posso resistere ad una voglia spasimata che mi ha preso, di raccontarvi, se non tutti, almeno parecchi dei particolari di quella gloriosa giornata.

Si fa un gran parlare delle nostre moderne artiglierie, e non a torto, imperocchè le palle scagliate a forza di fuoco traggono più lontano e fanno più larga la breccia. Ma le artiglierie di messere Guglielmo non eran troppo da meno, in quanto allo spettacolo che esse davano di sè. L'aria era oscurata da nugoli di dardi e verrettoni che scagliavano i Saracini; ma il danno era poco; le schiere latine si tenevano ancora distanti, e gli uomini delle macchine si stavano bene al riparo. Per contro, questi ultimi fornivano più larga bisogna; gli arieti scrollavano [46] le mura con impeto grandissimo, e la terra ad ogni colpo traballava sotto i piedi ai difensori di quelle. Dall'interno delle torri, che si levavano al paro della cresta delle mura, uscivano fischiando le frecce dei balestrieri e non cadevano in fallo. Dall'alto poi di quelle moli, ruinavano giù sui merli e ballatoi del nemico grosse palle di marmo e globi di pece infiammata, che sgominavano, rompevano, bruciavano ovunque cadessero.

Mentre questa gragnuola piombava sui Saracini, le mura per lunghi tratti s'erano sfaldate al cozzo degli arieti e all'urto dei sassi, scagliati da più che cento tra briccole e baliste. Allora parve acconcio al Buglione di far innoltrare il nerbo delle sue schiere, sotto il riparo dei gatti, che erano macchine intessute di legno e di vimini, fino ai piè delle mura. E il cenno fu eseguito; tra i rottami ammonticchiati, la grandine dei sassi, dei verrettoni e del bitume acceso, l'oste cristiana si lanciò alla scalata.

Il vento, levatosi impetuoso pur dianzi, le tornò di grande vantaggio, imperocchè gli assediati non poteano molto servirsi delle fiaccole che scagliavano sui nemici, e quelle dei Cristiani, così secondate dalla bufera, andavano facilmente sulle mura e ardevano i sacchi di strame, le stuoie e gli altri ripari, che i Saracini v'andavano sospendendo man mano, per ammorzare i colpi delle baliste.

L'incendio in breve ora si propagò; nè l'acqua valeva a frenarlo. Il fumo e l'ardore acciecavano, soffocavano gl'infedeli, lasciando una parte di muro senza alcuna difesa. Di ciò si giovarono gli assalitori per uguagliare il terreno, facendo piana la strada a quella torre, che era comandata dall'Embriaco [47] in persona, e che fu tosto avvicinata cosiffattamente al parapetto, da poter tentare la gettata del ponte.

Cotesto disegnava di fare l'Embriaco; ma gli bisognò vincere da prima un ostacolo nuovo. Era piantata sulle mura una grossa antenna, a cui gli assediati avevano sospesa per traverso una trave ferrata, e con questa pigliavano a sfrombolare di replicati colpi la torre. L'Embriaco non si perdette d'animo. Fe' dar di mano alle falci murali, che stavano piantate ai fianchi della torre, e, studiato il momento che quel poderoso arnese tornava a picchiare il gran colpo, quattro falci alzate ad un tempo colsero al passaggio la gomena di sostegno, e il tronco inerte cadde con grande rimbombo sul parapetto, pestando nella caduta i suoi medesimi serventi, che già se ne ripromettevano il trionfo contro la macchina nemica.

Allora l'Embriaco potè mandare il suo disegno ad effetto. La cima della torre, snodata da un fianco, cadde dall'altro sulla opposta muraglia e i Pagani non poterono più farle impedimento.

— Messer lo duca, — disse allora l'Embriaco a Goffredo di Buglione, che era salito sulla torre per esser pronto a balzare nella santa città, — il ponte è fatto, e, sebbene io m'abbia un gran desiderio di corrervi su, debbo pur cedervi il passo. Non sarà mai detto che Guglielmo Embriaco abbia voluto andar primo, dov'era il più prode e nobil guerriero della Cristianità.

Il Buglione non rispose a quelle parole, ma un riso ineffabile si dipinse sul suo volto inspirato. Abbracciò e baciò sulla fronte l'Embriaco, rialzò [48] la ventaglia dell'elmo, e s'innoltrò colla mazza in alto, lungo il cammino coperto. Frattanto, dall'ultimo ripiano della torre, che era stato mandato su, in luogo dell'altro arrovesciato sulle mura, gli arcadori genovesi con spessi colpi tenean lontani i nemici.

L'Embriaco, che per la sua grande modestia, non aveva voluto esser primo, si gettò sulle orme di Goffredo, e dietro a loro corsero spediti i più valenti cavalieri dell'esercito.

In quel mezzo, Arrigo da Carmandino, che stava colla sua gente a guardia della seconda torre, si struggeva di avere e rimanersi degli ultimi. E mentre Primo, il fratello dell'Embriaco, faceva con grande difficoltà innoltrare la sua gran mole di legno, egli, insofferente d'indugi, messe fuori una proposta, che trovò subitamente eco tra i più animosi. Anselmo Rascherio, Gontardo Brusco, Ingo Flaòno lo seguono, e con essi una ventina di cavalieri appiedati, facendosi sotto le mura con scale e rampini, e schermendosi dai colpi nemici colle targhe levate in alto e raccolte a mo' di testuggine. La muraglia, come si è detto, era sfaldata in più luoghi e rotta pel gran trarre di baliste e montoni. S'inerpicano per le macerie ammonticchiate, gettano i rampini alla merlata, appoggiano le scale, e su lestamente di piuolo in piuolo. Altri del campo li seguono a torme, infiammati dal nobile esempio, anelanti di afferrare la cima. Parecchie scale, già gremite di uomini, sono divelte dal muro; vanno ruzzoloni i soldati nella polvere e nel sangue; ma si rialzano, rimettono in piedi le scale, tornano più feroci all'assalto. Di questa guisa giungon parecchi [49] sulla cresta del muro; Arrigo è il primo di tutti; le pietre, le lancie appuntate, i fendenti delle spade, fan mala prova su lui, che para quella tempesta di colpi collo scudo levato.

Afferrare i merli, balzare in piè sulla feritoia e impugnare la mazza ferrata, fu un punto solo per lui. I primi che si fecero a contendergli il terreno, stramazzarono sotto la furia di quell'arma, menata a cerchio dal braccio giovanile. Frattanto una diecina dei suoi avevano agio a salire, e quel tratto di spalto fu ben presto spazzato dai suoi difensori. Il Carmandino gittò allora la mazza, e, strappata la bandiera dalle mani dell'alfiere che lo aveva seguito, sguainò la sua lama poderosa, e corse, volò da quel lato, dove la torre di messere Guglielmo, piegatasi a foggia di ponte, vomitava soldati sul baluardo.

Colà appunto Goffredo di Buglione, Eustachio conte di Bologna, suo fratello, e l'Embriaco, pugnavano valorosamente contro uno stuolo di Saracini, che facevano ressa per rovesciarli dalla merlata. L'arrivo del Carmandino colla sua gente sul fianco degl'infedeli, mutò le sorti della pugna. I Saracini mietuti cadevano e il ponte coperto dava adito a sempre nuovi combattenti. La bandiera della croce sventolò finalmente vittoriosa sovra un monte di cadaveri.

Da un altro lato, il valoroso Tancredi, principe di Taranto, entrava nella città, facendo aspro governo dell'oste pagana. Alle ore tre dopo il meriggio, per le mura cadenti, per le porte sfondate, l'esercito cristiano irrompeva in città, gridando: «Dio lo vuole!» e Gerusalemme, dopo quattrocento [50] novant'anni di servitù, era perduta pei Saracini.

Non è mio còmpito narrare per filo e per segno tutto ciò che avvenne di poi; nè la espugnazione della torre di David, nella quale s'erano chiusi i Saracini, aspettando soccorsi del soldano d'Egitto, o di Babilonia, siccome dicevasi allora, dando il nome di Babilonia alla città del Cairo; nè la battaglia combattuta sul piano di Ramnula, che fiaccò le corna e l'orgoglio al sopraggiunto aiutatore, assicurando così la conquista di Sion. Per tutti questi negozi rimando i lettori agli ultimi canti del poema di Torquato, del sommo e sommamente infelice Torquato, i quali valgono da soli tutta la prosa che io potrei buttar giù, vivendo cent'anni. Ora Iddio tolga che l'una cosa e l'altra mi avvenga; molesta la prima ad ogni ragion di scaffali; l'altra molestissima a me.

Questo solo dirò, che i crociati genovesi, com'erano stati gagliardi all'assedio, così furono alla giornata di Ramnula, e messer Guglielmo s'ebbe la miglior parte dei tesori del Soldano, oro, argento, gemme e tessuti d'altissimo pregio; laonde, come fu l'ora di tornarsene in patria, gli bisognò comperare una galèa per allogarvi il bottino. Le sue navi, s'è detto, eran andate a rompere sulla spiaggia di Joppe, in quella giornata che campò i Genovesi dall'urto di tutta quanta l'armata del Soldano d'Egitto.

— Il Babilonese me l'ha pagate a misura di carbone, le mie povere galere! — disse messer Guglielmo, ridendo, in quella che col fratello, con Arrigo e coi superstiti concittadini, s'imbarcava nel porto di San Simeone, memore di tante lor gesta.

[51]

Imperocchè, nè egli, nè altri dei Genovesi, avea voluto rimanere in Soria. A Goffredo di Buglione, fatto re di Gerusalemme, il quale gli profferiva la signoria d'una provincia, per farlo pari a tanti altri baroni che meglio s'erano adoperati alla liberazione della santa città, l'Embriaco aveva risposto, scusandosi: — Noi siamo marinari; i feudi nostri sono sul mare, ed hanno bisogno di specchiarvisi, come le torri di Genova nostra.

— Orbene, — aveva soggiunto Goffredo, — qui la bisogna non è finita; tornate, messere Guglielmo; tornate con maggior numero dei vostri, che so per prova quanto valgano, non pure come arcadori, mastri d'operare ed espugnatori di ròcche, ma eziandio come cavalieri di lancia e spada — (e queste parole rivolte in parte ad Arrigo di Carmandino, rallegrarono il paterno cuore dell'Embriaco); — tornate presto e a voi commetteremo di restituire alla Croce quanto è di spiaggia da Biblo ad Ascalona.

— E lo farò, — rispose Guglielmo; — coll'aiuto di Dio e del valoroso barone San Giorgio, lo farò. Nulla è ormai che ci abbia a tornar malagevole, sotto gli auspici vostri.

— Tornate dunque sollecito, — disse sorridendo il Buglione d'un suo malinconico riso, — imperocchè io sento tal cosa qua dentro, — (ed accennava il petto) — che non mi concederà di attendere a lungo. Non vi turbate, messere Guglielmo; quel che ho vissuto mi basterà per mandarmi contento. Chi più avventurato di me, se, la mercè vostra e di tanti prodi cavalieri, ho potuto liberare il sepolcro di Cristo dalla ignominia del culto di Macone? Ben potrei ora, alla guisa di Simeone, [52] intuonare il Nunc dimittis servum tuum, e senza esser notato di immodestia. —

Indi a due giorni le schiere genovesi, assottigliate di molto, ma liete, superbe, inebbriate dalla vittoria, scioglievano le vele dalla spiaggia di Palestina.

[53]

CAPITOLO VI. Che è tutto un miscuglio, come la minestra maritata di Anselmo.

Fu venturoso il tragitto. Le galere genovesi giunsero alle patrie rive, e salutarono le tre torri del Castello la mattina del 24 dicembre 1099. Poco più sotto di quelle, sul culmine di un'altra torre, Arrigo da Carmandino, la mercè di quella seconda vista che aiuta gli amanti, scorse alcunchè di bianco, che gli fe' battere il cuore. Egli si rimaneva immobile, estatico, sul castello di poppa, cogli occhi intenti a quel bianco, allorchè sentì una mano posarsi dolcemente sulla sua spalla.

— Non pare anche a voi, Arrigo, che sia Diana, lassù? —

Così parlava Guglielmo; e Arrigo non gli rispose; ma si fe' rosso in volto come una brace, vedendo scoverto il segreto della sua contemplazione amorosa.

Il popolo salutò festante i reduci vincitori; il focolare domestico esultò di raccogliere a sè dintorno i suoi cari per la festa tradizionale di Ceppo. In molte case furono pianti e sospiri; ma la fede ha [54] virtù di tergere le lagrime e di racconsolare i cuori, nella speranza d'un ricongiungimento che più non patisca offese dalla fortuna o dal tempo. E non erano martiri della fede, gli estinti? Non erano saliti al cielo colla palma del trionfo? Questo ed altro di somigliante disse il clero dai pergami, per modo che i superstiti si gloriarono dei caduti, e la città tutta quanta si rinfiammò ad altre imprese per l'anno vegnente.

Messere Guglielmo recava per l'appunto lettere di Goffredo Buglione e del patriarca Damberto ai consoli e al popolo tutto di Genova, nelle quali, narrata la espugnazione d'Antiochia e di Gerusalemme, era fatto invito ai Genovesi di accorrere in Terra Santa con più validi aiuti. Come fossero accolte dal popolo, argomenti il lettore, riconducendosi coll'animo a quei tempi e a quella novità d'imprese, in cui, tornaconto, religione e carità cittadina avevano la sua parte.

Nella assenza dei crociati, Genova s'era guasta colle discordie. Nobili di prosapia romana, uomini nuovi saliti a possanza consolare, altri venuti dal contado, quali investiti di feudi vescovili, quali di feudi imperiali, mal potevano durare in pace, ove un più grave negozio non fosse venuto a disviare le menti. Epperò, nel furiar delle parti, s'era dismesso il consolato; che era il terzo d'indole laica consentito alla città, poichè s'era liberata dalla intromissione del vescovo nelle cose civili. Amico Brusco, Moro di Piazzalunga, Guido di Rustico del Riso, Pagano della Volta, Ansaldo del Brasile, Bonomato del Molo, essendo usciti di carica, il comando era divenuto una res nullius, in preda ai [55] più audaci, o ai più scaltri. Ma l'annunzio dei fortissimi fatti, scaldando tutti i cittadini di nobile entusiasmo, li ridusse prontamente a più fraterni consigli e i valentuomini sopradetti tornarono di buon grado in ufficio.

La nuova crociata fu bandita in città, senza mestieri di legati pontificii; nel giro di pochi dì, ottomila uomini, il fiore della gioventù genovese, pigliarono la croce, laonde fu mestieri allestire ventisette galere. Fu questo l'esercito, ma, poichè giungevano d'ogni parte pellegrini, desiderosi di accorrere in Terra Santa, alle galere si aggiunsero sei navi onerarie, le quali andassero di conserva con quella ragguardevole armata.

E non contenti di andare eglino stessi, i Genovesi spedirono le lettere gerosolimitane in volta per le città e castella di Lombardia, dove tutti gli animi si accesero di pari entusiasmo, e laici e chierici, il vescovo di Milano, il conte di Briandate, molti conti e marchesi e grand'oste con essi, andarono per la via di Costantinopoli, dove occorse loro ciò che vedremo più avanti.

In città fu un grande rimescolìo, un'ansia, un'ebbrezza universale, fino alle calende d'agosto del 1100. Sei mesi erano pur necessari a tanti apprestamenti di guerra; che anzi è da dire, l'operosità genovese, diventata proverbiale in processo di tempo, non aver mai fatto più cose in più breve spazio di tempo d'allora. Invero, tutti ardeano di fare, e tra i reduci dal conquisto di Gerusalemme e i rimasti a casa era una gara nobilissima di scriversi alla seconda impresa, e di aiutarla con ogni possa, perchè non patisse ritardo.

[56]

Chi si doleva di tanta furia era il povero Anselmo, costretto a rimaner tra le donnicciuole, a mondar nespole, siccome egli diceva, per cagione della ferita toccata sotto le mura d'Antiochia. Quella ferita, se i lettori rammentano, gli aveva lasciato un brutto sfregio dall'alto del fronte fino al basso della guancia, e in quella istessa maniera che gli dava ad ogni tratto molestia e gli impediva di tornare uomo valido in Soria, già fin da quella prima spedizione gli avea tolto di proseguire la guerra e di fare a Gerusalemme quel che aveva fatto ad Antiochia. Fin d'allora, curato e rappezzato alla meglio, egli era stato consigliato da messere Guglielmo, che molto lo amava, a tornarsene coi primo sandalo che salpasse dal porto di San Simeone alla volta di Genova; ma lui duro, incocciato a restare.

— Non mi volete uomo d'armi? — diceva. — Orbene, tenetemi come un servo, come un di quei cani senza nome, che seguono il campo, e un tantino più utile di quelle povere bestie, le quali non sanno far altro che leccar le scodelle ai vostri balestrieri, perchè io potrò almanco mutarmi in cuoco e dispensiere, ed ammannirvi quel po' di cibo, guadagnato con tanti disagi e stenti ogni giorno. —

Nè ci fu verso di smuoverlo; così volle, così rimase, consentendolo il suo gran capitano.

Ed era egli, il povero balestriere, che, dolorandogli il capo maledettamente per quello strappo non bene rammarginato ancora, si pigliava il carico della mensa frugale dell'Embriaco, in quei lunghi e fastidiosi giorni dello assedio di Sion. Bisognava vederlo, di costa alla tenda, con tutte quelle bende intorno alla fronte, che lo faceano parere da lunge [57] un Saracino ribaldo, rattizzare il fuoco tra due grosse pietre innalzate a foggia e dignità di fornello, e invigilar lo schidione, e rimestare in un certo paiuolo fuligginoso i suoi orridi manicaretti, che agli affamati guerrieri avevano a parere le più ghiotte cose del mondo!

Ma spesso occorreva (tanto è vero che l'uomo si stucca, perfino dell'ottimo) che le dotte invenzioni d'Anselmo non ottenessero neanco una parola d'encomio e che i suoi dozzinanti si lasciassero andare a troppo fervide giaculatorie all'erbe, alle ortaglie, financo alla cicerbita e al terracrèpolo della memorata Liguria. Fu questa per giorni parecchi una spina al cuore del povero cuoco; ma come fare? dov'erano a trovarsi i camangiari, in quegli aridi campi della Terra Promessa?

Basta, l'uomo è per natura ingegnoso e la necessità suole aguzzare l'ingegno. Ora, Anselmo, a cui la necessità stringeva i fianchi, tanto si rigirò, tanto corse, che finalmente scovò il fatto suo. Dovunque fosse una pozza, un acquitrino, uno sgocciolo di rupe, anche a doverselo trovare con ore ed ore di cammino, il nostro balestriere correva, e raccattava erbucce d'ogni forma e sapore, le quali e' sceglieva con molta cura e saggiava, innanzi di metterle a mazzo. E un bel dì, tornati da sudare intorno a quelle torri di legno, che aveano a far breccia nelle mura dell'assediata città, i commensali di messere Guglielmo furono grandemente solleticati dalla vista e dalla fragranza d'un certo miscuglio a guazzo, che arieggiava la famosa minestra maritata, delizia dei figli di Giano, quando sono a casa, e loro eterno sospiro, quando il cieco caso, [58] o la ferrea necessità, li tien lontani dalla cucina domestica.

Quella volta, le lodi al cuoco furono universali e solenni; il grido d'ammirazione e di giubilo poco mancò non si mutasse in Tedeum. E a chi dei lettori notasse i miei crociati di grossolani appetiti, risponderei che essi non erano da più, nè da meno degli eroi d'Omero, gente cavalleresca se altra fu mai, pratica dello Stige come del latte di Teti, o di Venere; uomini pei quali si scomodavano talvolta dai seggi celesti Iride messaggiera e Minerva pugnace, ma che pure amavano mangiare di tratto in tratto il loro quarto di bue, inaffiandolo con quattro o cinque sorsate di quello di Samo.

E pensate che anco il Buglione, il pro' Buglione, il pio Goffredo, non si sarà pasciuto neppur lui di rugiada! Io so, per esempio, che allorquando i commensali di messere Guglielmo già stavano seduti all'umile desco, e adoravano il grato fumo della minestra che venia scodellando Anselmo, il buon duca venne per caso a passare di là, e i nostri valorosi, con quella cortese entratura che è consentita dalla comunanza del vivere, lo trattennero e gli proffersero di partecipare al frugale banchetto.

Non poteva indugiarsi a lungo il duca, chè le necessità dell'alto ufficio lo chiamavano oltre; ma volendo pure usar cortesia a quel prode uomo dell'Embriaco, fe' sosta di pochi istanti, e dimandato di quella novità dei camangiari, e saputolo, si degnò di assaggiarne, soggiungendo nella sua lingua che la era una saporitissima cosa.

Argomentate l'allegrezza e in pari tempo la confusione del cuoco. Anch'egli volle dire la sua, in [59] quella lingua che tutti, qual più, qual meno, masticavano allora nel campo crociato; ma non gli venne altro alle labbra se non questo: Le preux Bouillon!... le preux Bouillon!...

Hè bien, quoi d'étrange? — ripigliò il buon duca, percuotendo amorevolmente la spalla allo sfregiato balestriere. — Le preux Bouillon!... a tâtè de ta soupe, et, foi de chevalier, il la trouve excellente. —

Ciò detto, e tolto commiato da messere Guglielmo, inforcò prontamente l'arcione e via a galoppo, mentre Anselmo, che non capiva nella pelle, andava tuttavia ripetendo: le preux Bouillon! le preux Bouillon!

Dopo quel giorno, quando occorreva che i commensali dell'Embriaco volessero dal cuoco quel tale miscuglio innominato d'erbucce, non c'era che a dirgli: preux Bouillon! ed egli capiva senz'altro. Questa è, lettori, l'origine del preboggion, che io metto qui in vernacolo genovese, non essendoci nella lingua italiana il vocabolo corrispondente, a dinotare questa mala minestra di bietole, cappucci bislacchi, prezzemolo ed altri camangiari d'ogni generazione, mescolati col riso, ch'è un vero guazzabuglio; e ciò per l'appunto significa la parola preboggion, almeno in traslato.

Questa è l'origine, ho detto; ma badate, le mie parole non sono evangelio, e tutti, ahimè, siamo fallibili in questo povero mondo.

E adesso, dati gli spiccioli della prima spedizione dei Crociati genovesi, che già avevamo narrata in di grosso, ci asterremo dal raccontarvi la seconda, a cui si conviene altro storico, che non starà molto a giungere in scena.

[60]

Si aggiunga che il tempo stringe. Diana è già scesa dall'alto della torre, donde per la seconda volta ha veduto giungere a riva le galere della Croce; e Guglielmo Embriaco, questa volta vincitore di Cesarea, e senza aiuto d'altre braccia, all'infuori delle genovesi, scende a terra dinanzi alla porta di San Pietro, in capo al Mandracchio, tra gli evviva di tutto un popolo accalcato, sulla curva spiaggia, arrampicato su per le antenne delle navi, appollaiato sul ciglio delle mura.

L'ingresso in città volle il suo tempo. Egli non era agevole, con tutta quella ressa di popolo festante, condurre speditamente entro le mura ottomila uomini; chè tanti n'erano tornati incolumi da quella seconda impresa di Terra Santa. Messere Guglielmo, lasciata una parte dei marinai a custodia delle galere, pigliati con sè i maggiori e una scorta pei camelli, che doveano portare al vescovo la decima delle prede di guerra ed altri preziosi donativi alla chiesa e al comune, aveva dato licenza a tutti gli altri di sparpagliarsi a lor posta, e tornarsene ognuno alle case sue. Senonchè, nessuno aveva usato di quella liberalità del capitano, quantunque a tutti la famiglia premesse, e ognuno portasse con sè, spoglie opime della vittoria, due libbre di pepe e quarantotto soldi di pittavini (così detti perchè coniati nel Poitou, là dalle parti di Francia) che non erano una spregevol moneta, dacchè ogni soldo era d'oro e quarantotto di quei soldi facevano una libbra e due oncie di quel nobilissimo metallo.

Il bottino era stato lautissimo in Cesarea, come può rilevarsi dal conto di quelle ottomila parti, [61] alle quali bisognerà aggiungere quelle dei comandanti, il quinto assegnato alle galere e la decima prelevata pel vescovo. Nè, se ottimi erano i pittavini, il pepe era da meno. Derrata preziosa oggidì, bene aveva ad essere preziosissima in quei tempi, chè essa era di tanto più rara, e la si mettea da pertutto, a conforto di più saldi palati che ora non siano in Europa.

A farla breve, i nostri crociati non avevano a lagnarsi della fortuna, e considerato il prezzo dell'oro in quel secolo, poteano anche consolarsi d'aver faticato un anno per la gloria. Nè quello era il tutto, dappoichè la presa di Cesarea ben altro aveva fruttato ai Genovesi; e ne faceva solenne testimonianza un camello, più gelosamente custodito degli altri, la cui soma, ravvolta in un drappo di Balsòra, dovea racchiudere alcun che di maraviglioso.

Ma di cotesta meraviglia lascieremo le primizie ai consoli e al vescovo Airaldo, i quali attendevano in pompa magna l'Embriaco; queglino alla porta Marina, insieme coi maggiorenti della città; questi, coi suoi diaconi, sotto il vestibolo della gran chiesa di San Lorenzo. La era una festa, una solennità, che mai la maggiore, nemmeno per l'arrivo delle ceneri del Battista, ottenute tre anni addietro, siccome ho raccontato. Epperò s'intenderà come i reduci soldati dell'Embriaco non avessero voluto saperne d'andarsene spartitamente alle case loro, e si fossero tenuti in ordinanza, per esser parte di quel trionfo massimo che Genova preparava ai suoi figli.

Ed era bello il vederli, abbronzati dal sole di Palestina, sfilare in lunghi drappelli rilucenti e sonanti [62] dalla Porta Marina alla piazza che fu poscia dei Banchi, dinanzi all'antica chiesuola di San Pietro, in mezzo alla moltitudine che si accalcava plaudente sul loro passaggio, che irrompeva gridando da ogni via, che si affacciava dai veroni, che appariva dalle altane, che s'aggrappava ai comignoli dei tetti, pur di vedere, di salutare con un evviva i crociati genovesi. Viva San Giorgio! gridavano i soldati, rendendo al fortissimo barone, come lo si chiamava in quei tempi, l'onore delle loro vittorie; viva San Giorgio! e commossi dal plauso popolare, alzavano in aria, percuotevano l'una contro l'altra, le balestre, le lancie, le spade. Intanto le campane delle venti chiese di Genova (chè tante ne aveva allora edificate la pietà cittadina) suonavano confusamente a festa, ed era tutto uno scampanìo, un grido, un frastuono, in mezzo al quale non fu pur dato di udire la tromba del cintraco, che annunziava la presenza dei consoli sulla gradinata di San Pietro alla Porta.

Ma bene lo udì messere Guglielmo, che modesto in tanta gloria, e schermendosi come meglio poteva dalla ressa degli ammiratori, procedeva primo tra tutti, badando ad ogni cosa e ad ogni cosa provvedendo, giusta il debito di buon capitano. Giunto egli sulla piazza e veduti i consoli raunati sotto il vessillo del comune, corse loro incontro; essi del pari incontro a lui, chè non volevano esser vinti in cortesia, e tutti, l'un dopo l'altro, vollero stringerlo al seno e baciarlo su ambe le guancie, Amico Brusco, Mauro di Pizzalunga, Guido di Rustico del Riso, Pagano della Volta, Ansaldo del Brasile e Bonomato del Molo.

[63]

Indi, precedendo i consoli, e messere Guglielmo tra essi, la schiera s'inoltrò per la via dei Fabbri, donde, svoltata in Campetto, salì per la via degli Scudai, che metteva alla piazzetta di San Lorenzo. Fu colà un entusiasmo da non dirsi a parole; quei bravi artefici erano in visibilio; ritti sulle soglie delle loro botteghe, ammiravano quelle maglie, quelle targhe e quegli elmetti, opera loro, e applaudivano, e n'aveano ben donde. Di quelle armature che passavano dinanzi a loro, nessuna vedevasi sana; segno che il soldato avea fatto il debito suo, combattendo, e l'armatura del pari, poichè, con tutti quei danni, avea pur restituito incolume il suo possessore.

Qui raddoppiarono gli evviva a San Giorgio, che certo ebbe a sentirne il rimbombo dal cielo; e assai lungamente, imperocchè, per un'ora, se non forse di più, quelle grida echeggiarono. Nè poteva esser diverso, chè il corteggio era lungo oltremodo, non pure pel numero de' Crociati, ma eziandio delle loro salmerie e di quelle strane bestie gibbose che recavano la parte del bottino dovuta alla Chiesa. Gli ultimi erano tuttavia alla porta Marina, che già messere Guglielmo saliva la gradinata di San Lorenzo e sotto il vestibolo del tempio maggiore di Genova era accolto tra le braccia del vescovo Airaldo.

Qui sarebbe il caso di sciorinare un po' di erudizione ammuffita intorno alla prima fra le cattedrali italiane, che, sebbene non fosse ancora tanto ampia nè tanto vistosa come appare ai dì nostri, era già allora una cosa compiuta, coi suoi tre portali a sesto acuto, che sfondavano in mezzo a fasci [64] di colonnette di marmi svariati, quali avvolte a spira, quali ritte a sembianza di pali, che salissero a sostenere un pergolato. Ma queste cose oramai le si leggono in tutte le guide, ed io me ne lavo le mani, da gran signore, nel catino di Cesarea, preziosissimo tra tutti i doni che Guglielmo Embriaco ha recato alla patria.

Vi ho detto per l'appunto di un certo cammello, la cui soma era coperta da un drappo di Balsòra. Il gran capitano aveva chiuso là dentro una scodella di smeraldo, trovata coll'altre ricchezze nel sacco di Cesarea, e creduta comunemente un avanzo del tesoro di Erode Ascalonita, quel tale che ordinò la memoranda strage degl'innocenti. Era voce che in quella scodella il Nazareno avesse mangiato l'agnello pasquale; la qual cosa, se vera, non si accorderebbe troppo col ritrovamento del prezioso cimelio in Cesarea e colla sua leggenda erodiana.

La vista di quella gemma smisurata fece inarcare le ciglia al buon vescovo, ai diaconi e ai consoli radunati sotto il vestibolo del tempio. Che si fa celia? Una meraviglia di smeraldo simile non si era mai veduta a Genova, nè altrove; e nessuno aveva presente il testo di Plinio, dove dice di smeraldi anco più grossi e più finamente lavorati, per toglier pregio a quel vaso, d'un bel verde trasparente, ottagono e largo almeno tre spanne. «Il quale nondimeno (è Monsignor Giustiniani che parla), se fosse quello dell'agnello pasquale di Cristo, la quale cosa io non nego nè affermo, ovvero che in esso da quell'evangelico Nicodemo fosse stato riposto al tempo della Passione il prezioso [65] sangue del Salvator nostro, come pare, secondo alcuni, che si legga negli annali degli Inglesi, saria da preporre a tutti gli smeraldi etiam coadunati insieme, e a tutte l'altre gioie e tesori che mai si trovassero nel mondo.»

Ma basti di ciò. Il famoso smeraldo, rapito sul finire del secolo scorso dagli agenti dell'Impero francese, si ruppe in viaggio, e si dimostrò qual era veramente, un catino di vetro colorato. Ragione per cui i rapitori non fecero poi tante difficoltà a restituircelo.

La tarda scoperta non deve far ridere i nepoti irriverenti alle spalle di messere Guglielmo Embriaco e di tutti i suoi contemporanei, che credettero nella preziosità del sacro catino. Scemato il valore venale di questa reliquia, essa rimase (lo dirò coll'Alizeri) un meraviglioso esempio dell'antico magistero nella vetraria; e non iscade per nulla il pregio che gli è derivato dall'antichità e dalla storia.

— Richiama pure il tuo servo, o Signore, — esclamò il vescovo Airoldo, levando le palme al cielo, innanzi di abbracciare l'Embriaco, — perchè gli occhi miei hanno veduto il tuo nuovo trionfo.

— Padre mio, — rispose Guglielmo, — coll'aiuto di Dio i Genovesi compiranno altre laudabili imprese, e avranno mestieri perciò delle vostre benedizioni.

— Noi siamo impazienti, — soggiunse uno dei consoli, — di udire dalle vostre labbra, messere Guglielmo, il racconto della spedizione che ha fruttato tanta gloria e tante ricchezze alla patria.

[66]

— Non dalle mie, messer Pagano della Volta; — rispose l'Embriaco. — È qui tra i miei cavalieri un giovane, che sa molto di lettere, ed ha già scritto un cenno delle cose da noi operate; e voi dovete conoscerlo.

— Io? ditemi il suo nome, vi prego.

— Un vostro congiunto, nato da vostra sorella Giulia e da Rustico di Caschifellone. Caffaro, — proseguì messer Guglielmo, volgendosi alla brigata di gentiluomini che lo aveva seguito sotto il vestibolo, — mostrate a vostro zio, e agli altri onorandissimi consoli, che Genova avrà quind'innanzi uno storico delle sue gesta, e uscito dalle file dei suoi migliori soldati.

[67]

CAPITOLO VII. La presentazione del primo annalista di Genova.

Le parole di messer Guglielmo Embriaco fecero inventar rosso come una fravola il viso d'un giovane, a mala pena ventenne, che era nella sua comitiva. Consideriamolo un tratto, mentre gli occhi di tutti gli astanti sono rivolti su di lui.

Il giovane vestiva come tutti gli uomini d'arme del suo tempo: camicia di maglia d'acciaio, che scendeva fino al ginocchio, e cappuccio, anch'esso di maglia, arrovesciato sugli omeri, perchè non aveva elmo, ma in quella vece una semplice berretta d'ormesino rosso, donde uscivano in lucide anella i capegli biondi, incoronando un viso più allungato che tondeggiante, ma così fresco e gentile, che sarebbe parso di fanciulla, se le guancie e il labbro superiore, coi primi peli morbidi ond'erano ornati, non avessero fatto alla bella prima una testimonianza contraria. Del resto, lo si poteva credere un guerriero, che avesse vergogna di mostrarsi [68] tale in mezzo a tante facce d'uomini prodi, abbronzate dal sole dei campi di battaglia e fatte ruvide dalla vita sul mare, alla spruzzaglia dei marosi e al fischio dei venti; perchè, come l'elmo era messo da banda, così anche la maglia si teneva nascosta sotto una tunica di lana bianca, ornata sul petto di una modesta croce vermiglia.

All'invito di messer Guglielmo, accolto da lui come fosse un comando, il giovane uscì fuori dal gruppo, andando alla volta dei consoli.

Pagano si mosse incontro a lui e lo baciò su ambedue le guance; indi, tenendolo stretto fra le sue braccia e guardandolo amorevolmente negli occhi, gli disse:

— Eccoti qui, ragazzo mio! Sei partito fanciullo e torni uomo. Sarà felice tua madre, quando ti vedrà salir l'erta di Caschifellone!

— Ah, non sono a Genova, i miei? — chiese il giovane, leggermente turbato dalle ultime parole di suo zio.

— No, sono in Polcevera. Il castellano ha gli obblighi del suo ufficio, che passano avanti a ogni cosa.

— È giusto; — disse il crociato. — Partirò dunque subito, se voi e messere Guglielmo me ne date licenza.

— Pare che ti rincresca; di' su! — gli susurrò nell'orecchio lo zio. — Avresti per avventura qualche bel viso di donna da rivedere?

— Zio!

— Eh, non ti far rosso, via! Che cosa ci sarebbe di male?

— Sì, ho per l'appunto da vedere... qualcheduno; — rispose il giovine tutto confuso.

[69]

— Qualcheduna, vorrai dire.

— E sia, qualcheduna, ma non per me. Ho una imbasciata da fare.

— Fàlla prima e poi corri da' tuoi.

— Poterlo! — mormorò il giovane. — Non conosco la donna a cui debbo parlare.

— Che cosa mi narri tu ora?

— Storia pretta, mio zio.

— A proposito di storia, non dimentichiamo che ci hai da leggere quella delle vostre prodezze in Terra Santa; — ripigliò Pagano della Volta, alzando la voce, poichè i suoi colleghi di consolato si erano avvicinati per stringere la mano al suo valoroso nipote.

— A voi dunque, messer Caffaro di Caschifellone; — disse il console Amico Brusco, uno dei sette figli di Guido Spinola e perciò fratello dell'Embriaco; — leggete il racconto delle imprese a cui avete partecipato. Il santissimo Airaldo ve ne prega, e i consoli tutti, per mia bocca, ugualmente.

— Qui? — balbettò il giovane, facendosi piccin piccino nella sua cotta di maglia.

— E perchè no? — disse un altro personaggio, grave all'aspetto, che era il diacono Sallustio, consigliere del vescovo. — Tutto quanto voi narrerete, messer Caffaro, è gloria della croce, ed è ragione che si ascolti nella casa di Dio. —

Un mormorio di approvazione accolse le parole del vecchio Sallustio. La cosa non dee recare meraviglia ai lettori, se ricorderanno che il duomo di San Lorenzo, essendo una cosa medesima col Comune, era appunto il luogo da ciò. Diventato secolare il governo, i consoli, tuttochè non fossero [70] più gli scabini del vescovo, in ossequio alla sua venerata autorità usavano amministrare la giustizia e tenere i parlamenti sotto il vestibolo del tempio.

Colà, all'ombra della graticola di marmo, su cui era raffigurato il martire Lorenzo, si facevano adunque i decreti consolari, si ricevevano gli atti di cittadinanza e di vassallaggio di principi e popoli, si davano le investiture, si manomettevano i servi, si pubblicavano le leggi a suon di tromba dal cintraco, si deliberavano le imprese, si bandivano le guerre, si conchiudevano le paci, si stringevano le alleanze, si celebravano le vittorie.

Aggiungerò che il Duomo di San Lorenzo era compreso in ogni trattato, che i feudatarii e i vassalli giuravano fedeltà ed obbedienza ad esso, e che in ogni disposizione testamentaria dovevasi rammentar la sua fabbrica. Fu insomma il monumento più glorioso del nuovo Comune, ordinato sugli avanzi della curia romana e della barbarie feudale, e durò a lungo come il palladio della libertà genovese. Le sue case contigue e le sue torri, se occupate, davano il dominio di tutto lo Stato agli occupatori; e i Ghibellini più d'una volta minacciarono d'appiccarvi il fuoco. Ma forse prevalse la reverenza ad un miracolo dell'arte italiana, prevalse quel culto della forma, che s'infiltra a poco a poco negli animi più rozzi, nec sinit esse feros.

Il giovane Caffaro, così caldamente pregato dai maggiorenti della città, pose mano al suo cartolaro; e alla presenza del vescovo, dei consoli e dei capitani, lesse la sua narrazione, semplice, disadorna, ma veritiera e scevra di tutte quelle esagerazioni [71] che la pedissequa cura degli esemplari antichi doveva ficcare nel latino di quattro secoli dopo.

È questo un dirvi chiaro che il racconto del giovine gentiluomo era dettato in quella lingua, giusta il costume d'allora. E perchè riesca chiara anche la narrazione dei fatti, io vi compendierò lo scritto in volgare, avvertendo che questa, se Dio vuole, sarà l'ultima indigestione di storia che farete per colpa mia.

Si torna indietro fino al capitolo sesto, dove ho già detto delle ventisette galere partite nel 1100 per la seconda spedizione di Terra Santa, con sei navi cariche di pellegrini d'ogni nazione. Giunti nel porto di Laodicea, città della Siria e soggetta ad Alessio imperatore di Costantinopoli, vi si trattennero per tutta la seguente invernata. Morto era il pio Buglione di peste, nel mese di giugno, non essendo vissuto che un anno nell'amministrazione del regno di Gerusalemme. Ed essendo ridotto in ischiavitù Boemondo, figlio a Roberto Guiscardo, duca di Puglia, que' paesi, conquistati con tanta fatica ai Saracini, erano abbandonati in balìa di sè stessi. Li ebbero in tutela i Genovesi, che si può dire capitassero davvero in buon punto; e d'accordo col vescovo Maurizio, legato del Papa, mandarono a Baldovino, fratello dell'estinto Goffredo e a Tancredi, cugino di Boemondo, perchè assumessero, quegli, la corona di Gerusalemme, questi il principato di Antiochia. Consentì Baldovino, a patto che i Genovesi lo aiutassero. E così avvenne che, cavalcando alla volta di Sion, incontrati tremila Saracini, nel distretto di Bairut, li ruppe e procedette senz'altro contrasto fino a Gerusalemme.

[72]

Arrideva la fortuna ai Genovesi. Nella quaresima dello stesso anno 1101 partivano essi di Laodicea, colle galere, le navi e tutto l'esercito, costeggiando le città marittime infino a Caiffa, anticamente denominata Porfiria, che era de' Cristiani. Colà, per un violento fortunale, tirarono le galere in terra; il che tolse loro di potersi misurare, come avrebbero voluto, coll'armata del Soldano d'Egitto, forte di quaranta vele, che, sbattuta dal vento impetuoso, passò davanti alla costa, andando fino al porto di Ascalona.

Messer Guglielmo Embriaco rammentava ancora il primo incontro avuto cogli Egiziani, e volendo ricattarsi della perdita di due galere, che ho già raccontato ai lettori, fece quella medesima notte prendere il mare ad una parte dei suoi legni, per dar caccia al nemico. Ma fu tanta la rabbia del mare, che, giunti alle viste dei Saracini e già disposti a far arme in coperta, ne furono separati senz'altra speranza, e l'armata nemica ebbe campo a salvarsi.

— Sarà per un'altra volta! — disse l'Embriaco. E celebrata nelle acque di Porfiria la festa della domenica delle Palme, navigò verso Joppe; nella quale città gli venne incontro il re Baldovino colle bandiere spiegate e salutò l'armata e l'esercito con alto suono di trombe.

Colà, tirate in secco le navi, si sbarcarono i cavalieri e le ciurme. Baldovino volle i suoi Genovesi a Gerusalemme, dove entrarono, per la seconda volta il mercoledì santo, e dove, poi ch'ebbero digiunato tutto il giorno e la notte sopra il sabato, si recarono a visitare il Santo Sepolcro, aspettando che [73] dal cielo, come era fama, si facesse scorgere in quel dì il lume di Cristo; fuoco miracoloso «disceso visibilmente dal cielo, il quale si vedeva accendere tutte le lampade che sogliono stare appese intorno al sepolcro.»

Ma per tutto quel giorno, nè la notte appresso, il santo lume non si mostrò, quantunque tutti lo dimandassero con lagrime, sospiri e Kirie eleison a perdita di fiato. Il patriarca Damberto, già vescovo di Pisa, li esortò allora a recarsi tutti nel tempio di Salomone, imperocchè Dio aveva promesso di consentire ogni dono a chi lo supplicasse con mondo cuore sull'ingresso del tempio. Andarono, a piedi scalzi, divotamente pregando, visitarono il tempio, chiedendo l'aspettato miracolo, a conforto della pietosa curiosità, indi ritornarono al Santo Sepolcro. L'accenditore era pronto e i nostri buoni antenati ebbero la grazia. Il vescovo Maurizio e il patriarca Damberto furono i primi, come era giusto, a veder scendere il lume in due lampade, che sogliono stare nell'ultima camera del Santo Sepolcro. «E diffusa la voce per la città, poichè la maggior parte erano andati a desinare, subito ognuno corse al tempio del Santo Sepolcro, e in quella meridiana luce furono vedute essere accese le sedici lampade che erano di fuori intorno al Santo Sepolcro, l'una dopo l'altra; e si vedevano a modo d'un fumo affogato ed ardente, che veniva dal cielo, ed ascendeva per l'acqua e per l'olio insino allo stoppino della lampada, e facevalo scintillare tre volte, e restava il lucignolo acceso.»

Non sono io che racconto; è Caffaro giovinetto e pieno di fede.

[74]

Dopo ciò, andarono i Genovesi alla visita dei santi luoghi. Videro il Giordano e tornarono a Joppe; con Baldovino deliberarono la espugnazione di Tiro (Assur, dicevano allora), e la condussero a buon fine in tre giorni. Poscia, nel mese di maggio andarono le galere coll'esercito all'assedio di Cesarea, detta anticamente Torre di Stratone, poi Cesarea, in onore di Cesare Augusto, da Erode che la riedificò, in ultimo Flavia da Vespasiano, che la fece colonia romana. Tirati i legni alla riva, i Genovesi occuparono di primo impeto il paese e stettero accampati nei giardini e negli orti insino alle mura della città. Intanto, colla usata diligenza, si diedero a fabbricare castella di legname ed altre macchine, per condurre innanzi l'assedio.

Impensieriti da quella vista, i Saracini mandarono due messaggieri, con parole di pace.

— La vostra legge, o Cristiani, non proibisce ella di uccidere uomini fatti a somiglianza di Dio, e di pigliare la roba d'altri? E nondimeno, voi, che siete maestri e dottori della legge cristiana, comandate alle vostre genti di uccider noi e di usurpare la roba nostra! —

Così cavillavano i Saracini. Ma udite come rispondesse di trionfo il patriarca.

— Noi non vogliamo già usurpare l'altrui, ma ricuperare la terra che fu dell'apostolo San Pietro e che appartiene a noi, come suoi vicarii e successori. Per quanto è dell'uccidere, Dio vuole che sia fatta vendetta, col coltello e colla spada, di chi fa contro alla sua legge. Lo ha detto il profeta: «A me si appartiene la vendetta, ed io sarò il pagatore; a me si appartiene far piaga e sanarla, e non è [75] chi possa campare dalle mie mani.» E perciò brevemente vi diciamo che abbiate a restituire la città, e sarannovi salvate le persone e le robe; se no, Iddio vi ferirà col suo coltello, e sarete morti giustamente. —

Recata questa intimazione in città, si riconobbe che con simili avvocati non c'era a far altro. Il Cadì, capo civile della terra, avrebbe voluto arrendersi, per salvare le robe. Ma per contro, l'Emiro, che era il comandante militare, gridò che innanzi di render la terra voleva si provassero le spade dei suoi uomini con quelle dei Genovesi, sperando egli di far partire questi ultimi dall'assedio, e con loro grande vergogna. E prevalse, com'era naturale, il consiglio dell'Emiro.

Udita questa risoluzione, che gli parve arrogante oltre ogni credere, il patriarca arringò l'esercito.

— «Venerdì prossimo, che è il giorno della Passione, la mattina per tempo, dopo che ciascuno di voi avrà comunicato e ricevuto il corpo e il sangue del Signore, senza castella e senza macchina alcuna, con le sole scale delle galere, salirete sulle mura; e se avrete fede che, non per virtù vostra, ma per grazia di Dio dobbiate aver vittoria della città, io vi annunzio e profetizzo che, prima dell'ora di sesta, Dio onnipotente darà in vostra mano la città, gli uomini, le ricchezze ed ogni altra cosa che essa contiene.» —

Parlava l'entusiamo, non l'arte, e molto meno il senno militare. Ma per allora non era il caso di aver contraria opinione. Guglielmo Embriaco, pensandoci su quel tanto che può correre dal lampo al tuono, accettò l'invito del Pisano, ma a patto di [76] essere il primo a tentare l'impresa, forse per non assistere allo sbaraglio de' suoi, se falliva. Il vescovo aveva a mala pena finito di parlare, che egli secondò con infiammate esortazioni l'audace proposito, facendo giurare l'esercito che lo avrebbe immantinente seguito all'assalto.

— Con voi, capitano, alla morte e alla gloria! — gridò Arrigo da Carmandino, a cui fecero eco tutti i suoi generosi compagni.

— Orbene, andate alle galere, spiccate le scale di fuori banda e venite. Nessun invito ha da essere tenuto più prontamente di questo, che ci ha fatto il patriarca Damberto. —

Corsero le ciurme; tolsero le scale dai bandinetti, e via di corsa, a braccia tese, fino a' piè delle mura, circondati da numeroso stuolo di cavalieri. Guglielmo Embriaco, Testa di maglio, era il primo di tutti. Armato di corazza, di lancia e di spada, pose il piede sulla prima scala che fu accostata al muro, e si inerpicò veloce di piuolo in piuolo, senza pure munirsi di scudo, contro le frecce, i sassi e la rena infuocata, che gli avventavano sopra i nemici. L'elmo di ferro, e più la fortuna, schermì l'animoso condottiero, che giunse ad afferrare la merlata, mentre la scala, non potendo sostenere il gran numero di coloro che seguivano, si rompeva, facendo cadere quei volenterosi nel fosso.

— Sire Iddio! — gridò il Carmandino, rizzandosi a stento sulle ginocchia. — L'ho detto io, che si saliva in troppi!

— Vi siete fatto male, Arrigo? — chiese una voce accanto a lui.

— Chi siete? Ah, il giovine Caffaro! Bravo, eravate [77] dei primi anche voi? Non è nulla, vedete; un po' di stordimento e nient'altro. Animo, su, a quell'altra scala! Purchè giungiamo in tempo, e non accada disgrazia al capitano, che deve esser rimasto solo lassù. —

Era proprio mestieri che volassero al soccorso. Trovatosi solo ed incolume sul parapetto, Guglielmo Embriaco pregò Iddio che si degnasse di aiutarlo; siccome era uomo da poter fare due cose ad un tempo, menò attorno la lancia, atterrando i primi che gli capitarono sotto. Una torre sorgeva lì presso, e l'Embriaco vi corse a riparo. Ma appunto allora ne usciva un Saracino, che gli si avvinghiò al petto, tentando, se gli veniva fatto, di soverchiarlo. Era una bisogna difficile assai, e alle prime strette che diede l'Embriaco per svincolarsi da lui, il Saracino ebbe a domandargli mercè. Gittata la lancia, inutile in quel frangente, messere Guglielmo aveva afferrato il nemico per un braccio, e così forte, che a quell'altro parve di esser còlto da una tanaglia di ferro.

— Signore, te ne prego; — gridò egli allora con accento compassionevole; — lasciami andare e sarà meglio per te.

— In che modo? — chiese l'Embriaco, che non coglieva il senso di quella esortazione.

— Perchè i miei compagni verranno a liberarmi, o a vendicarmi: — rispose il Saracino; — e tu non farai in tempo ad entrar nella torre.

— Ragioni diritto! — esclamò Guglielmo. — Va dunque, e trova un altro che ti perdoni la vita, come io te la perdono. —

Così dicendo, lentò la stretta, sicchè il nemico [78] potè sfuggirgli di mano. E corse, non dubitate, come se avesse le ali alla calcagna, e temesse lì per lì un mutamento di proposito.

L'Embriaco già pensava a tutt'altro. La torre non era alta ed egli poteva sperare di giungere in pochi istanti alla sommità, donde avrebbe potuto vedere più largo spazio di mura. Incontanente vi entrò, salì in furia i due piani che mettevano alla piattaforma, e assicuratosi che nessuno dei difensori aveva ancora potuto seguirlo lassù, si fece al ballatoio, per guardare dalla parte del fosso, come volgessero le sorti della battaglia.

Poco lunge di là si combatteva aspramente. Un manipolo di cavalieri aveva afferrato il ciglio delle mura e vi si teneva saldo, quantunque i Saracini facessero ogni sforzo per ricacciarlo indietro. Messer Guglielmo intese allora perchè lo avessero lasciato libero lui, occupati com'erano a respingere i nuovi e più numerosi assalitori.

— Su, Genova, su! in nome di san Giorgio! — gridò egli allora, levando la spada e facendola balenare davanti agli occhi de' suoi, che avevano appoggiate le altre scale alla muraglia. — La città è nostra!

— Guglielmo Testa di maglio! Testa di maglio è padrone delle mura! — gridarono mille voci dal basso. — Animo, alla scalata! —

E infiammati così dalle loro stesse parole come dalla vista del capo, fecero impeto su per una ventina di scale ad un tempo. Tutte quelle file d'uomini, erette e minacciose come i serpenti di Tenedo sulla spiaggia di Troia, strisciarono lungo le mura, le involsero sotto un tessuto di lucide scaglie, che [79] erano le loro targhe scintillanti al sole, ed afferrata la cima, si riversarono dentro, quasi senza combattere. Fu male che la città avesse una doppia cinta di mura, perchè pochi ardirono di resistere laggiù, parendo a tutti più facile di custodire utilmente un cerchio più stretto. Così ragionava la prudenza negli uni, la paura negli altri.

Con quello sforzo simultaneo da molte parti, i Genovesi penetrarono in Cesarea, ma senza giungere in tempo per entrare nella seconda cinta, alle spalle dei difensori. Le vie strette e tortuose avevano impedito ai valorosi di raccapezzarsi alla lesta e di inseguire in numero sufficiente il nemico. Bene tentarono l'impresa i primi arrivati, ma senza pro, e la scortese saracinesca si chiuse con grande frastuono davanti agli audaci, mentre solo alcuni di loro, che si potrebbero chiamare i temerarii, erano riusciti ad entrare, proprio alle calcagna dei fuggenti.

Caffaro rimase nel numero degli audaci, fuor della cinta, ai piedi della saracinesca, che era stata calata in quel punto. La fortuna lo aveva assistito; eppure egli si dolse amaramente di non esser giunto prima, perchè tra gli animosi che lo precedevano, e che avevano pagata così caramente la gloria d'essere andati avanti a tutti gli altri, c'era l'amico suo, il suo compagno di scalata, Arrigo da Carmandino.

Povero Arrigo! Certo egli presentiva una disgrazia, quel giorno; poichè nel salir sulle mura, mentre erano a poca distanza dalla merlata, rivolgendosi a Caffaro, che gli si stringeva al fianco, mettendo il piede sui piuolo abbandonato da lui, gli aveva detto:

Amico, ve ne prego, se io muoio, dite a madonna [80] Diana che ho pensato a lei nell'ultim'ora, e che l'anima mia, con licenza di nostro Signore, a cui mi raccomando, andrà a dirle tutto l'amore ch'io le ho portato vivendo. —

E Caffaro gli aveva risposto:

— Amico mio, che pensieri son questi? Per l'onor vostro e di Genova, come pel trionfo della croce, vivrete.

— E sia; accetto l'augurio; ma voi dovete promettermi...

— Tutto quel che vi piace io prometto; — interruppe Caffaro.

— Grazie; — ripigliò il Carmandino, respirando. — Ed ora, torniamo uomini! —

Il resto è noto. Pochi momenti dopo erano giunti sulle mura e avevano fatto prodigi di valore. L'Embriaco, calato dalla torre, donde aveva chiamato la sua gente all'assalto, si fece sollecito a collegarli, a mano a mano che balzavano dentro, per piantarsi saldamente sul baluardo conquistato. Frattanto Arrigo da Carmandino, trascorrendo animoso ad inseguire i fuggenti, era stato côlto, come ho detto, entro la seconda cinta di mura.

Quando lo seppe Gandolfo del Moro, sempre fido seguace di messer Nicolao e suo consigliere malaugurato, il cuore gli diede un balzo per allegrezza.

— Ah, fosse morto! — pensò. — Di solito, questi cani infedeli non perdonano la vita ai prigioni. Madonna Diana, o ch'io m'inganno a partito, o questa le vendica tutte, e messere Arrigo il bello avrà finito di vogarmi sul remo. —

Guglielmo Embriaco udì dalle labbra del giovine Caffaro la mala sorte del suo prode aiutante, ma [81] non ebbe tempo a rammaricarsene. Già, io porto opinione che gli uomini d'allora piangessero poco, e lo argomento da ciò, che molte altre cose non facevano essi, per le quali noi siamo venuti a mano a mano in così fastidiosa eccellenza; verbigrazia il parlare. Per contro, operavano molto; laonde, se la retorica ci ha perso, la storia ci ha guadagnato un tanto. Ne siano ringraziati gli Dei.

Desideroso più che mai di operare, l'Embriaco andava girando con occhio scrutatore intorno alla seconda cinta di mura, donde gli apparivano i nemici preparati ad una resistenza feroce. Già un primo tentativo di scalata era stato respinto, tra perchè gli assalitori erano in pochi e perchè messer Guglielmo non c'era, ad incuorarli colla voce, ad infiammarli coll'esempio. Anche i Saracini respiravano più liberamente, quando non avevano davanti agli occhi quel capitano dalla fulva capigliatura e dallo sguardo leonino, che essi ravvisavano così facilmente, anche da lunge, alle membra poderose e al corto mantello bianco, segnato dalla croce vermiglia che gli svolazzava a guisa di clamide romana sulla corazza di ferro.

Così correndo intorno alle mura, il valoroso Testa di maglio aveva veduto il fatto suo, e imbattutosi in Ugo suo figlio, mentre Caffaro gli veniva raccontando il triste caso di Arrigo da Carmandino, mostrò di non avere inutilmente speso il suo tempo.

— Non temete! — diss'egli, conchiudendo il suo dialogo col giovine Caffaro. — Se non l'hanno ucciso, vedremo di liberarlo, e ben presto. Guardate là, verso tramontana, come vanno salendo le mura? La collina non è alta, nè ripida l'ascesa; voi, del [82] resto, con una cinquantina di uomini risoluti che condurrete da quella parte là, non dovete subito andar sotto al muro, ma girare alle falde dell'eminenza, fino a tanto non avrete veduto una macchia d'olivi, donde meglio coperti giungere al colmo. Lassù, proprio accanto al muro, è una vecchia palma, i cui rami pendono a dirittura sul parapetto; e voi, senza che vi dica altro, figliuoli miei....

— Non dubitate, messer Guglielmo; — interruppe Caffaro di Caschifellone, — abbiamo inteso. Si cala di là sulle mura di Cesarea, come volevano fare i Greci dal cavallo di legno sulle mura di Troia.

— Bene! — ripigliò il capitano sorridendo. — Ma badate di tenervi nascosti nella macchia fino a tanto non vi sarete assicurati che il parapetto sia sguernito di custodi. Ad ottenervi questo, ci penso io. Andate. —

I giovani non se lo fecero dire due volte, poichè tanto all'uno quanto all'altro premeva di giungere, se pure fosse stato possibile, in aiuto ad Arrigo da Carmandino. Frattanto l'Embriaco volgeva alla parte più bassa del muro, e, raccolto colà il nerbo dei suoi, faceva grandi apparecchi alla vista dei nemici. Tutte le scale che avevano servito per superare il primo ostacolo alla espugnazione della città, furono immantinente portate davanti al secondo, e quasi tutte concentrate in un punto; della qual cosa molti Saracini si sbigottirono, altri presero argomento a sperare.

— Ci assalgono in troppi da un lato solo; — diceva l'Emiro, il comandante della terra; — noi non correremo dunque il pericolo di sparpagliare le nostre forze e saremo pronti a respingerli.

[83]

— E poi, signore, — chiese timidamente il Cadì, anziano della città, — che farai tu?

— E poi, con una vigorosa sortita compiremo l'opera nostra, incalzandoli fino alla spiaggia e buttandoli in mare, prima che abbiano tempo a salir sulle navi. —

Il Cadì non aveva una fede così grande nelle sorti della difesa. Uomo di legge e non dedito alle armi, era alieno così dalle speranze come dai bellici ardori del suo collega. Per altro, non ardì ripeter parola, e si allontanò dalle mura, per recarsi alla Moschea maggiore dove erano radunati i vecchi, le donne e i fanciulli, ad implorare la misericordia di Allà.

I Cristiani, frattanto, appoggiate le scale, muovevano all'assalto, sostenuti da dugento scelti arcadori, che con tiri aggiustati si studiavano di ferire quanti Saracini si affacciassero alla merlata.

Famosi erano allora gli arcadori di Liguria, e grandemente ricercati d'allora in poi presso tutti gli eserciti della Cristianità. La loro valentia del resto era nota anche in tempi più antichi, ed aveva giovato moltissimo ai Cartaginesi, nelle loro guerre con Roma. La ragione di questa eccellenza nelle armi da trarre non era difficile a trovarsi. Un popolo che non aveva quasi agricoltura, come quello che pativa difetto di suolo, dovea trarre il sostentamento dalla pesca e dalla caccia, e diventare perciò marinaio e arcadore.

Alte grida si levarono da ambe le parti. San Giorgio e Maometto si contendevano il trionfo. Ora mentre i Saracini più ferocemente combattevano, e colle rotelle imbracciate sulla merlata, paravano la pioggia dei dardi adoprandosi valorosamente a [84] ricacciare gli assalitori, un urlo di terrore si udì sulle mura e lo scompiglio si manifestò nelle file, arrestando ogni virtù di difesa.

Messer Guglielmo indovinò subitamente che cosa fosse avvenuto. Ed egli stesso si mosse allora al secondo assalto, che non fu così validamente respinto come il primo. Pochi erano rimasti, fedeli al debito loro, per sostenere il buon nome delle armi musulmane; la più parte dei difensori fuggivano, si sparpagliavano a caso per le vie tortuose della città, tosto inseguiti, rincorsi come fiere dai soverchianti Cristiani.

Anche i lettori avranno indovinato il perchè di quella fuga precipitosa. Il nemico era penetrato nella seconda cinta, per una via donde non lo aspettava nessuno. Inerpicatisi sull'albero di palma, Ugo Embriaco e Caffaro di Caschifellone, avevano insegnata la strada ai cinquanta animosi che si erano scelti a compagni. Di là, correndo al basso colle spade sguainate, erano piombati alle spalle dei difensori, in mezzo a cui fecero strage grandissima. Omero potrebbe qui rimettere a nuovo il suo famoso paragone del re dei deserti, balzato d'improvviso in mezzo alla mandria. Io non sono Omero, e colla scusa bell'e pronta che le similitudini piacciono poco ai moderni, mi ristringo a dire che i Saracini, senza indugiarsi a noverare i nuovi assalitori e temendo che una metà dell'esercito genovese fosse già loro alle calcagni, non sostennero l'urto, fuggirono, di qua, di là, ciecamente, parte gittando le armi, parte stringendole nei pugni convulsi, senza aver più l'ardimento di usarle e di vender cara la vita.

[85]

Incalzati colle spade nelle reni, lasciando a centinaia i morti lungo le vie, corsero a rifugio verso la Moschea maggiore. Ma le porte erano chiuse. I mercatanti, le donne, i vecchi, i fanciulli, stavano raccolti là dentro, implorando la misericordia del Profeta, aspettando trepidanti la pietà dei vincitori.

— Siamo uomini al pari di voi; — gridava il Cadì dall'alto di un minareto, sventolando la bianca fascia del suo turbante in segno di chieder pace. — Non uccidete chi non può più resistere! Perdonate agli inermi! —

I consigli di misericordia rimasero inascoltati fino a tanto ci furono Saracini armati intorno alla Moschea. I Genovesi rammentavano troppo le minacce spavalde dell'Emiro, e giustamente pensavano che, se avessero dovuto dar essi indietro, non uno di loro si sarebbe salvato dalla rabbia dei vincitori. E poi (chi nol sa?) il sangue inebria e il ferire ha la sua voluttà, che travolge i sensi del soldato più umano.

Giunse finalmente il Patriarca, misto di sacerdote e di guerriero, che quei tempi comportavano e di cui si ebbe esempio anche in secoli a noi più vicini. Invitato da messere Guglielmo, a cui pareva inutile oramai quella strage, Damberto ordinò che si concedesse la vita a quanti erano chiusi nel tempio, tanto più che non si trattava di armati, ma di paurosi mercatanti e di femmine imbelli, intorno a cui si stringevano vecchi cadenti e fanciulli.

Quella turba si arrese, come è facile argomentare, alla prima intimazione. Il Cadì già ne aveva fatto la profferta ai vincitori. Era intorno all'ora di sesta, quando si spalancarono le porte della moschea, e [86] Guglielmo Embriaco vi entrò, seguito dal patriarca Damberto, brandendo la spada dalla lama, per modo da far credere che portasse in mostra la croce.

Il fiero prelato ebbe dunque ragione, colla sua profezia. Ma il savio capitano, tratti in disparte Caffaro di Caschifellone, ed Ugo, strinse loro amorevolmente la mano, ringraziandoli di averne aiutato l'adempimento, colla pronta esecuzione del suo stratagemma.

Queste le prodezze dei Genovesi nella espugnazione di Cesarea. Per metter fine al racconto, bisognerà aggiungere che, alcuni giorni appresso, il legato del Papa e il patriarca Damberto, «dopo le debite purificazioni e consuete cerimonie, consacrarono la moschea maggiore in onore di San Pietro, e un'altra (per far piacere ai Genovesi) in onore di San Lorenzo; e così fu tornata la città al servizio di Cristo.»

E l'armata e l'esercito si ridussero a Solino; sulla spiaggia di San Parlerio divisero la preda, e cavata fuori la decima del vescovo Airaldo e il quinto delle galere, si fece la distribuzione del resto per ottomila uomini, ciascuno dei quali ricevette le due libbre di pepe, e i quarantotto soldi del Poitou, che ho detto più sopra, ragguagliandone la somma ad una libbra e due once d'oro. Donde, come potete immaginare, grande allegrezza nel campo.

Così ebbe fine il racconto del giovine Caffaro. Il quale, s'intende, modesto com'era, non disse nulla di sè; quantunque, avendo in pratica l'Eneide, si sarebbe potuto servire del «quorum pars magna fui» e senza far torto a nessuno.

Il vescovo Airaldo, i consoli e tutti i capi della [87] compagne (che cosa fossero le compagne dirò poi al lettore) avevano udito con ammirazione il racconto, volgendo spesso gli occhi da lui al valoroso Embriaco, che stava pensoso, a fronte china, come uomo che volesse sottrarsi alla sua gloria, o riandasse colla mente i fatti trascorsi, a mano a mano che erano narrati.

Messer Guglielmo era triste. Fino a quel punto aveva posto l'animo negli obblighi suoi di capitano; allora, finalmente, poteva ricordarsi di essere padre e di non aver liete novelle per la sua bella figliuola.

La fine di Arrigo da Carmandino aveva compreso di mestizia ogni cuore.

— Ma proprio non sarà dato di sapere in qual modo Genova ha perduto questo generoso suo figlio? — chiese Pagano della Volta. — E il suo cadavere, almeno?

— Non fu trovato; — rispose il giovine Caffaro. — Gandolfo del Moro afferma bensì di averlo riconosciuto in alcuni avanzi umani, mezzo abbrustoliti dal bitume ardente. —

Raccapricciarono gli astanti, e tutti gli sguardi si rivolsero allora a Gandolfo del Moro.

Il torvo amico di Nicolao si fece avanti d'un passo, e senza pure alzar gli occhi a guardare i consoli, aggiunse:

— Pur troppo! Vorrei che così non fosse finito un tant'uomo. Una cosa sola desidero, cioè di essermi ingannato. —

Per altro, è delle moltitudini di non concedere troppo larga parte ai rammarichi, segnatamente dove il danno dei pochi si confonde nel benefizio dei più. La vittoria ha una aureola che offusca [88] ogni cosa d'intorno a sè. Ed anche Arrigo da Carmandino, il bel cavaliere, sospiro di tante donne gentili, invidia di tanti prodi uomini, orgoglio della sua terra natale, ebbe, in un senso fugace di pietà, in una parola di rimpianto, tutto quello che potesse aspettarsi dai sopravvissuti un estinto.

— Messer Caffaro di Caschifellone, — disse Amico Brusco, il fratel dell'Embriaco, — voi avete fatto opera egregia, raccogliendo la storia della nobilissima impresa. Il comune di Genova incomincia bene, ed io, conoscendo il valore di tutti i suoi cittadini, son certo che non si fermerà così presto sulla via della gloria. È dunque giusto che abbia trovato, in voi prode guerriero, il suo storico. —

Sallustio, il venerabile segretario di Airaldo, soggiunse:

— Gravissimi istorici ebbe Roma, e certo essa ripete da questi la somma ventura di veder tramandato alla posterità più lontana il grido delle sue gesta. Procurate voi, messer Caffaro, uguale fortuna al comune di Genova. —

Il giovine annalista si inchinò tacitamente all'invito cortese, che doveva riuscire un vaticinio per lui. A quelle lodi non era da rispondere con parole; che, anco umilissime, sarebbero sempre, dopo il paragone del vecchio segretario, sembrate a lui non abbastanza modeste.

[89]

CAPITOLO VIII. Un cuore spezzato.

Che era egli avvenuto di Arrigo da Carmandino? Era caduto vittima del suo temerario valore? Erano di lui quegli avanzi mezzo abbrustoliti, in cui temeva di averlo avvisato Gandolfo del Moro?

Ricordate chi fosse Gandolfo, e pensate con che sincerità potesse egli aver manifestato quel suo desiderio di essersi ingannato. Caffaro, che bene lo conosceva e lo sapeva rivale di Arrigo, era il primo a dubitare di quella sincerità e di quella testimonianza. Ma un fatto era vero; che nella presa di Cesarea il povero Arrigo era scomparso; che era rimasto in balìa dei nemici, nel furore di quella disperata difesa; donde si poteva argomentare facilmente che lo avessero fatto a pezzi, vendicando su lui lo scorno di una prima sconfitta.

Anch'egli, Caffaro, espugnata la seconda cinta di mura e posate le armi, aveva chiesto nuove del suo povero amico. Ma tra per la diversità della lingua, quantunque già allora i pellegrinaggi e le [90] guerre avessero dato vita a quella parlata bastarda che faceva intender tra loro Cristiani e Saracini, e per la confusione e lo smarrimento dei vinti, egli non aveva potuto saper altro che questo: i pochi Genovesi, entrati primi nella seconda cinta, essere stati colti in mezzo e aver venduto cara la vita, cadendo, stremati di forze e coperti di ferite, su d'un mucchio di cadaveri.

Niente adunque di più naturale che il loro capo fosse morto con essi, e che il bitume infiammato, onde usavano i difensori per respingere gli assalti, appiccandosi alle vesti e alle armature, avesse rosolato le carni dei morenti, sfigurati, resi irriconoscibili i corpi.

Così pensava anche messer Guglielmo. Povera la sua figliuola! Come avrebbe accolto ella il messaggio?

Nello avvicinarsi alle sue case, tra Macagnana e il Castello, il grand'uomo si smarriva d'animo, tremava in cuor suo, come avrebbe fatto un bambino.

Diana era sulla soglia ad aspettarlo, attorniata da tutti i congiunti, familiari e servi di casa Embriaca. Come una giovine matrona romana, essa era rimasta alla custodia dei lari domestici, mentre gli uomini attendevano agli obblighi loro fuor dei confini della patria, e aveva governato il suo piccolo mondo con senno e fermezza, rafforzata dall'autorità del suo nome e circondata dall'ossequio di tutti.

Abbracciò il padre, e confuse con quelle di lui le sue lagrime; lagrime d'allegrezza le sue, di mestizia e di tenerezza quelle del padre. Strinse di poi [91] la mano ai fratelli, e fu lieta di non veder altri con uno di loro. Il fedele Gandolfo non aveva stimato prudente consiglio di accompagnare fin là il suo amico e protettore Nicolao.

Concessa la debita parte agli affetti domestici, Diana cercò degli occhi Arrigo, e non lo vide nel corteggio paterno. Forse era andato prima alle sue case. Ma che? Bene era egli tornato una prima volta di Soria, e la sua prima visita era stata per le case dell'Embriaco. Il cuore le si strinse d'improvviso, come per presentimento d'una sciagura. Volse gli occhi a suo padre e vide il volto di lui impresso di profonda pietà. — Arrigo! Arrigo! — balbettò essa, e si sentì venir meno.

Messer Guglielmo fu pronto a sostenerla nelle sue braccia.

— Animo, figliuola mia! — le susurrò egli all'orecchio, mentre cercava di condurla verso le scale. — Pensate che siete del sangue d'Ido Visconte, e che, dove la patria è in festa, debbono tacere i privati dolori. Diana, fate buona custodia al cuor vostro, in questi momenti solenni. Io sono addolorato al pari di voi. Venite, figliuola, e preghiamo Iddio che accolga nella gloria celeste i martiri della sua fede. —

La preghiera di suo padre era un comando per la nobilissima fanciulla. Mormorò alcune frasi sconnesse; rattenne le sue lagrime, le ricacciò indietro a forza, le sentì ridiscendere, gelarsi intorno al suo povero cuore. Non le reggevano le membra, ma il braccio del padre era saldo ed ella si trovò, senza pure avvedersene, nella sua fidata cameretta, dove aveva tanto pensato a lui, tanto pregato per lui, pel suo gentil fidanzato. Eppure non pianse, tanto [92] era lo smarrimento dell'animo; non rispose parola alle molte ed amorevoli del padre, che, congedati i suoi famigliari, si era ridotto per quel giorno al fianco dell'amata figliuola.

Muta e fredda a guisa d'un marmo, ascoltava il suo fiero genitore, diventato un fanciullo per lei. Cogli occhi sbarrati e l'orecchio intento, beveva avidamente, più che non udisse, le dolenti notizie della presa di Cesarea e della sparizione di Arrigo. Il valore di lui, la fama acquistata, l'amore e l'ossequio dei compagni d'arme, cose tutte che ella sapeva e che le venivano ricordate nel racconto paterno, erano una vana memoria oramai, raggio di un sole che si dileguava, eco d'un suono che era cessato. E tutte quelle parole fatte di lui, come voci di là dalla tomba, le rimbombavano nell'anima, davano suono come di corda spezzata.

Povero cuore! Quale vi apparve da quel giorno la vita! Quella casa in cui si affaccendavano i servi, lieti pel ritorno del loro glorioso signore, era un chiostro per lei, un antico chiostro in rovina, tutto popolato di larve, che andavano e venivano, ma senza dar suono al suo orecchio, che gestivano e parlavano tra loro, ma in una lingua sconosciuta. Quella città, tutta piena di gente operosa ed allegra, tutta suoni e canti e rumori festosi, era un camposanto, nel quale ella si trovava, raccolta in un angolo, a pregare su d'una fossa, a piè d'una croce. La croce! la fossa! Ahimè, neppur quelle ci aveva, su cui raccogliere i suoi affetti desolati. Non c'era, in tutto quel mondo mutato, un luogo, un punto d'appoggio per lei. Diana stessa, la povera Diana, era una larva tra i vivi.

[93]

Le avete mai sognate, quelle solitudini ignude e fredde, in cui si rimpicciolisce il cuore e si smarrisce il pensiero? Il cielo, i monti, il piano, son tutti d'un colore; non un fil d'erba su cui posar l'occhio; non un batter d'ali a cui tener dietro sull'orizzonte; un senso di freddo vi corre per tutte le fibre; il sole è spento; si ha la certezza che non tornerà più. Bel sole, glorioso sole, che eri la vita del mondo, che facevi risplendere così puramente quel cielo, scintillare così allegramente quel mare, e variare per tante gradazioni di tinte quei colli, che avevi dato impulso e dettato un inno d'amore a tante umili esistenze, sei morto anche tu? Ancora una reliquia del tuo calore, che si andrà spegnendo a grado a grado, e poi regnerà in terra la notte. Oggi il male, domani il peggio; in lontananza il nulla, l'orrido nulla!

Tale apparve la vita a Diana. Non sorrisi, non carezze dei suoi, valsero a distogliere il suo spirito dai tetri abissi in cui si era sprofondato. Non piangeva: fu anzi veduta sorridere umanamente alle sue donne, che si facevano intorno a lei colle usate dimostrazioni di ossequioso affetto, e quel sorriso parve a tutti più doloroso del pianto. Che avveniva egli in quell'anima chiusa ad ogni sguardo indagatore? Si maturava la follia? O si preparava le vie lo struggimento della morte?

Per molti giorni e settimane, quella povera mesta non accennò il desiderio di ritornare sul doloroso argomento. Ma ognuno, al solo vederla, indovinava qual cura fosse presente nell'animo della infelice Diana.

Finalmente, un giorno, ella chiese di sapere per [94] filo e per segno l'accaduto. Forse le si era snebbiata la mente e l'afflizione si era chetata un tratto nel suo cuore; forse una speranza le si affacciava allo spirito, una speranza lieve ed incerta, che un più assegnato racconto di tutti i particolari della espugnazione di Cesarea e un più diligente esame di tutti gli indizi raccolti dai compagni di Arrigo, avrebbe potuto rendere più salda, o far dileguare del tutto.

Ugo, il diletto fratello, si fece ad esporre partitamente le cose già dette in breve dal padre. Diana, sebbene rabbrividendo ad ogni tratto, come persona colta dalla febbre, pure ascoltò attentamente, e di molti particolari, che le erano sfuggiti dapprima, volle ripetuto il racconto.

— Infine, — diss'ella, quando si avvide che Ugo non aveva più altro a narrarle, — Arrigo da Carmandino non è stato più rinvenuto. Questo soltanto è accertato. —

Nicolao aggiunse, rispondendo alla tacita conchiusione del ragionamento di lei:

— Gandolfo del Moro lo ha riconosciuto tra i morti. —

Il cuore della fanciulla diè un balzo violento, a quell'accenno crudele e al ricordo di quel nome odiato, che, dall'ultimo ritorno dei crociati in poi, non le era più venuto all'orecchio.

— Consentite, sorella, — ripigliò Nicolao, — che il nostro amico Gandolfo vi racconti la cosa egli stesso. È doloroso, — soggiunse, notando il senso che la sua proposta aveva fatto sull'animo della fanciulla, — ma infine, se voi dovete sapere, e se è giusto, come io penso, che voi sappiate ogni cosa... —

[95]

Nicolao non ebbe tempo di finir la sua frase, perchè Diana, che a tutta prima non aveva saputo dissimulare un senso di ripugnanza, si era subito ravveduta e lo interrompeva a mezzo.

— Venga l'amico vostro, — diss'ella. — È ancora un omaggio alla memoria di Arrigo, che io ascolti chiunque mi parla di lui. —

Gandolfo del Moro non era mai troppo lontano dal suo fido Nicolao, e giunse più sollecito che la stessa Diana, dopo essersi risoluta di riceverlo, non avrebbe potuto desiderare.

Il giovine cavaliere dai capegli rossi e dalla torva guardatura si fece avanti tutto peritoso, severo all'aspetto, ma più azzimato del solito, colla sua gavardina di color pavonazzo aggiustata all'imbusto e colle calze divisate di bianco e di azzurro.

— Madonna, — diss'egli, sospirando, — la perdita di un così prode cavaliere è un lutto universale. La cristianità ne aveva pochi che gli stessero a pari, nessuno che gli andasse avanti per gentilezza e valore. —

Diana accolse le parole compunte di Gandolfo, con un gesto che voleva dire: — sta bene, ma venite al fatto, messere. —

Così dato sesto all'esordio, Gandolfo del Moro narrò come fosse entrata nell'animo suo la persuasione dell'orrida fine d'Arrigo. Quegli avanzi umani da lui veduti erano per l'appunto in una viuzza angusta e tortuosa, presso alla seconda cinta di mura. Colà il valoroso Arrigo e i suoi compagni di sventura dovevano essere stati arrestati dai difensori, trovatisi allora in numero soverchiante. Le armature, comunque ridotte, si riconoscevano [96] essere di cristiani, e, sebbene in gran parte consumati dal fuoco, si potevano ancora distinguere alcuni brani di sorcotta, che era la clamide portata dai cavalieri sulla corazza, o sulla maglia d'acciaio. Come quel pugno di valorosi fosse stato ridotto in tal guisa, era facile argomentare. Avevano combattuto disperatamente, approfittando della strettezza del passo per non lasciarsi cogliere in mezzo, e i nemici non erano venuti a capo di finirla con quella meravigliosa difesa, se non col gittare, dai parapetti delle logge e delle altane, bitume infiammato sui combattenti.

Tutte queste erano prove generiche. L'indizio che colà e in quel modo fossero finiti parecchi dei Genovesi entrati con Arrigo entro la seconda cinta di mura, non poteva esser più certo. Ma chi in quegli avanzi miserandi, aveva riconosciuto il Carmandino?

Diana fissava i suoi occhi in quegli del narratore; e questi, non potendo sostenerne l'incontro, chinata la fronte, terminò il suo discorso cogli sguardi a terra.

— Guardatemi in viso; — diss'ella; — forse vi faccio paura? —

Gandolfo del Moro avrebbe voluto rispondere; ma bene intese che quello non era il caso di venir fuori con una gentilezza, e che Diana non gli aveva già chiesto un detto di quella sorte. Perciò, alzate le ciglia in atto di obbedienza, stette a guardarla perplesso.

— Giurate, — ripigliò la fanciulla con accento solenne, spiccando dalla parete un dittico di avorio, in cui era dipinta da un artista bisantino la passione [97] di Cristo, — giurate su questa croce, che ha toccato le ceneri del Precursore, che voi siete certo di ciò che dite, e che in quegli avanzi avete riconosciuto il corpo di messere Arrigo da Carmandino.

— Ho sempre desiderato di aver preso abbaglio, — rispose Gandolfo, schermendosi; — ma pur troppo mi pare che non possa essere altrimenti. Tra i vivi non è tornato; i morti, dell'ardita comitiva, eran quelli; nè altri se ne sono trovati più lunge. Di certo il povero Arrigo è caduto insieme co' suoi.

— No, non è vero; — gridò la fanciulla, seguendo l'impulso del cuore, anzi che un barlume di ragione. — Non so come ciò possa essere; ma Arrigo da Carmandino non è morto. Credo ai presentimenti; — soggiunse a mezza voce, quasi parlando per sè.

Gandolfo si appigliò prontamente a quel filo.

— Se credete ai presentimenti, madonna, ho fede che crederete a quelli di messere Arrigo non meno che ai vostri. —

Diana lo guardò con occhio attonito.

— Che dite voi ora? — balbettò ella, non bene intendendo il senso delle parole di lui.

— Dico, madonna, che un amico del povero Arrigo ha un messaggio per voi. Egli è Caffaro di Caschifellone, suo compagno nell'assalto di Cesarea, fino al punto in cui la sorte li divise, dando ragione ai tristi presagi di Arrigo.

— Come sapete voi ciò? — chiese Diana, guatandolo con occhio diffidente. — E come avete voi primo un messaggio, che l'amico di Arrigo non ha creduto opportuno di recarmi finora?

[98]

— Lo ha detto poc'anzi a me; — rispose allora Nicolao, quantunque non fosse rivolta a lui la domanda. — Messer Caffaro di Caschifellone, giunto a mala pena di Sorìa, aveva dovuto recarsi in Polcevera, per abbracciare i suoi nel loro castello di Pontedecimo, donde è tornato per l'appunto stamane.

— Ed ha un messaggio per me? Di Arrigo? — chiese ella, smarrita.

— Di Arrigo. Egli non ardiva presentarsi qui, non essendo da voi conosciuto, e non ardiva domandarne licenza a nostro padre. Nè io, nè Gandolfo del Moro, che era con me quando Caffaro mi toccò di questo messaggio, avremmo osato parlarne a voi, se la necessità....

— Basta, fratello; — interruppe Diana. — Venga il signore di Caschifellone; mio padre non troverà mal fatto che un prode cavaliero della croce mi rechi le ultime parole, l'ultimo saluto del mio fidanzato. —

Quel medesimo giorno, Caffaro di Caschifellone adempiva l'ufficio pietoso che aveva accennato nel duomo di San Lorenzo al console Pagano della Volta, al fratello di sua madre.

Entrò nelle stanze di madonna Diana atteggiato ad una profonda mestizia, ben sapendo di dover rinnovare un acerbo dolore nell'animo di quella gentil creatura, che egli vedeva per la prima volta, e di cui non aveva mirato mai la più bella.

Imperocchè, lo sapete, la fanciulla degli Embriaci era un miracolo di bellezza, senz'altro. Caffaro, nella sua adolescenza, era vissuto lontano da Genova, nel castello de' suoi padri. Più tardi era passato in Genova, ma presso un congiunto, prete nella chiesa [99] di San Teodoro, il quale lo aveva diligentemente ammaestrato nelle umane lettere, col proposito di farne un chierico. Ma l'uomo propone e il caso dispone. Caffaro di Caschifellone non doveva lasciare ai fratelli Oberto e Guiscardo il carico di continuare la stirpe; era destinato a far parlare di sè nelle istorie della sua patria. Del resto, gli studi fatti presso il suo consanguineo avevano a dare i loro frutti, poichè Caffaro di Caschifellone, soldato, ambasciatore e console, doveva riuscire anche uno scrittore, anzi il primo annalista d'Italia, nell'alba del suo risorgimento.

Tutte queste parole per chiarirvi come e perchè Caffaro di Caschifellone non conoscesse Diana, la perla di casa Embriaca, la bella tra le belle di Genova. Anche visitata così aspramente dalla sventura e abbattuta dalle sue afflizioni, madonna Diana era sovranamente bella, come certe Vergini addolorate, che derivano dalla espressione dell'interno affanno una nuova e più efficace bellezza.

Il giovane, affacciatosi appena all'uscio, e veduta la fanciulla degli Embriaci, avrebbe voluto ritirarsi. Ma era tardi, poichè essa pure aveva veduto lui; donde avvenne che rimanesse estatico a contemplarla.

Tutta nel suo dolore, la fanciulla non si avvide di quella ammirazione, che del resto era improntata d'un ossequio profondo, e gli fe' cenno di avvicinarsi.

— Madonna! — diss'egli, inchinandosi.

— Venite, cavaliere, e non temete di parlarmi liberamente. Son forte, credetelo. E poi, se Arrigo da Carmandino è morto, che altro può egli toccarmi [100] di più? E non deve giungermi come un refrigerio ben meritato, — notò ella mettendosi una mano sul cuore, con gesto d'ineffabile angoscia, — quella parola sua che voi mi portate di Terra Santa?

— Sì, madonna, è vero ciò che voi dite; — rispose il giovane, facendosi animo a compiere l'ufficio suo. — Le ultime parole dei cari estinti sono continuazione del loro affetto ai superstiti. Arrigo da Carmandino, il mio sventurato e glorioso amico, pensava a voi, madonna, pochi istanti prima di abbandonarci. Salivamo ambedue per la medesima scala sulle mura di Cesarea, quando egli, a poca distanza dalla merlata, volgendosi a me, che mi stringevo al suo fianco, mi disse.... Ah, le sue parole mi suonano distinte all'orecchio, come se egli parlasse ancora in questo momento!

— Orbene, messere! Vi disse?....

— «Amico mio, ve ne prego, se io muoio, dite a madonna Diana che ho pensato a lei nell'ultima ora, e che l'anima mia, con licenza di nostro Signore, a cui mi raccomando, andrà a dirle tutto l'amore che io le ho portato vivendo.» —

Il viso della fanciulla, cosparso di un pallore mortale al cominciare delle parole di Arrigo, si era a mano a mano trasfigurato. Poi che ebbe finito di riferirle, Caffaro guardò Diana, e gli parve di non aver più davanti a sè una povera donna addolorata, ma una visione celeste; una martire sì, ma raggiante, levata sulle nubi in una gloria di spiriti.

Poco stante, la trasfigurata, la martire, ridiscese sulla terra. Un dubbio le si era affacciato alla mente.

— Avete detto questo a mio fratello Nicolao? — dimandò ella al messaggiero.

[101]

— Non rammento, madonna.

— Pensateci, messere; raccogliete i vostri ricordi, ve ne prego! —

E aveva un'aria così soavemente supplichevole, così cara nella sua mestizia, che Caffaro ne fu intenerito.

— Vidi messer Nicolao questa mane; — diss'egli. — Era coll'amico suo Gandolfo del Moro. Udito della vostra tristezza (ben ragionevole, madonna, ed ogni cuore ben nato la intende), accennai al messaggio che avrei avuto da compiere. E questo dissi, lo ricordo bene ora, dopo aver notato che Arrigo aveva il presentimento della sua morte.

— E non altro diceste? non altro?

— No, Messer Nicolao mi rispose che non avrebbe mai osato annunziarmi a voi. Ed io, in verità, non avrei creduto mai d'esser chiamato così presto.

— Oh grazie! grazie pel bene che mi fate! — esclamò Diana, giungendo le palme, quasi parlasse al serafino delle sue veglie verginali. — Tacete, ve ne supplico, tacete quind'innanzi le parole di Arrigo.... segnatamente le ultime.

— Perchè, madonna? — dimandò il giovane, non intendendo il senso di quella preghiera.

— Perchè? Mi chiedete il perchè? Ah, non sapevano davvero quello che si facessero, quando mi hanno accennato il vostro messaggio! Perchè... infine, a voi amico di Arrigo da Carmandino io lo dirò; quelle parole sue erano per me, per me sola; e qualcheduno, — soggiunse Diana, rabbrividendo involontariamente, — qualcheduno, in cui mio fratello Nicolao ripone una fede soverchia, non è degno di risaperle. Perchè Arrigo vive, intendete? vive, e ritornerà tra coloro che l'amano.

[102]

— Madonna, e che cosa vi fa sperare?....

— Sperare no, esser certa. Arrigo ha promesso di venirmi a recare il suo saluto di là dalla tomba, se era volontà del cielo che egli morisse. Arrigo non è venuto; Arrigo non è morto. —

Caffaro rimase muto e triste a guardarla. Temette allora di avere col suo racconto lusingato una vana speranza, di aver forse dato esca ad una pericolosa follia, ed una profonda compassione ricercò tutte le fibre del suo cuore.

— Madonna, — rispose egli, dopo un istante di pausa, — non vi fidate in questi argomenti. Le parole di Arrigo erano un saluto, un desiderio, non già una promessa. Ahimè, pur troppo non tornano gli estinti!

— No, no, non dubitate; — gridò la fanciulla degli Embriaci. — Dopo quella solenne promessa, se fosse morto, sarebbe venuto, e Iddio misericordioso avrebbe esaudito questo voto all'anima di un martire della sua fede. Oh signore onnipotente, — proseguì ella, inginocchiandosi davanti alla immagine del Crocefisso, — voi mi avete dunque veduta nella mia afflizione? —

E diede in uno scoppio di pianto. Erano le prime lagrime che quella poveretta avesse versato, dal giorno dell'annunzio fatale della morte di Arrigo.

Caffaro di Caschifellone, giovane com'era ed inesperto delle cose del cuore, non poteva argomentare come fosse benefico quello sfogo improvviso. E si sottrasse discretamente allo spettacolo di un dolore che credeva di aver rinfrescato, promettendo a sè stesso di non far parola a nessuno del messaggio che aveva recato a quella bella infelice.

[103]

Da quel giorno Diana non disse più verbo, non fece più atto, che accennasse alla memoria di Arrigo. Non tornò ilare già, nè serena, come era suo costume in passato; ma si mostrò tranquilla e rassegnata, umana con tutti, perfino con Gandolfo del Moro, che andava spesso alle case degli Embriaci, e incominciò a sperare, lo sciocco, di poter cancellare un giorno da quel cuore la immagine di Arrigo da Carmandino. Certi uomini hanno la insigne baldanza di credersi irresistibili; certi altri il torto gravissimo di credere che tutte le donne sian pari. Gandolfo del Moro teneva molto di questi e di quegli.

La fanciulla degli Embriaci non parve accorgersi di tutte quelle rinate speranze. I suoi modi erano aperti e pieni di cortesia per ognuno; la sua anima era chiusa. Unico accenno al segreto di quell'anima, era il lampo fugace degli occhi e un più soave sorriso, quando si presentava a lei il giovine Caffaro. Il quale non pensò davvero che tanta soavità di grazie celestiali andasse a lui, proprio a lui. Non era Gandolfo del Moro, per ingannarsi a quel segno, e, memore amico del Carmandino, ricacciò, seppellì nel suo cuore un sentimento involontario, che, nato appena, minacciava di comandare alla sua stessa ragione.

Passarono tre mesi. E finita la campagna, cioè il reggimento de' sei consoli che abbiamo accennati nel principio del nostro racconto, alle calende di febbraio del 1102, si designò un nuovo magistrato. Quattro furono i consoli nuovi: Guglielmo Embriaco, Guido Visconte, suo padre, che era stato il primo a portare il soprannome di Spinola, Guido [104] di Rustico del Riso, e Ido di Carmandino, fratello maggiore del povero Arrigo. Era, come si vede, un consolato tra consanguinei, appartenendo tutti, salvo Guido del Riso, alla schiatta di Ido Visconte.

Anche Guglielmo Embriaco, datosi tutto alle cose del Comune, potè ingannarsi intorno allo stato dell'animo di sua figlia. E un bel giorno, mentre ella era a mala pena tornata dalla vicina chiesa di Santa Maria del castello, così le parlò il suo glorioso genitore:

— Figliuola mia, provvediamo al futuro. Fu triste il passato, e abbiamo dovuto rassegnarci ai decreti del cielo. «Dio lo vuole» fu il grido che ci ha condotti in Terra Santa e ci ha fatto meritar la vittoria; «Dio lo vuole» sia anche il nostro grido e la nostra forza nelle cose domestiche. —

L'esordio non prometteva niente di buono a Diana, che stette in silenzio, ma col cuore in soprassalto, ad ascoltare la fine.

Guglielmo Embriaco proseguì il suo discorso annunziando alla figliuola che essa doveva pensare a prender marito.

— Gandolfo del Moro — diss'egli — è un gentil cavaliere; ha congiunti in nobile stato, attinenze poderose e castella che lo fanno desiderabil partito per ogni padre che abbia una figliuola da accasare. I tuoi fratelli lo amano come se già egli fosse della famiglia; io lo pregio grandemente e lo amerò come figlio, se anche tu, come spero, lo vedrai di buon occhio. —

Al nome di Gandolfo, la fanciulla impallidì e sentì piegarsi i ginocchi. Resistere alla volontà di suo padre, quando si fosse chiaramente manifestata, [105] sarebbe stato impossibile per lei. Sarebbe morta di crepacuore, ma non avrebbe ardito alzare la voce, per respingere la mano che a lui fosse piaciuto di unire alla sua. Per fortuna, le ultime parole di lui temperavano il rigore della paterna autorità, ed ella trovò ancora la forza di rispondergli, sebbene con voce tremante per la violenta commozione ond'era compresa.

— Padre, il mio cuore è spezzato, nè batterà più per altr'uomo. —

Messere Guglielmo fu scosso da quella confessione dolorosa.

— Diana! — esclamò egli, turbato. — Dici tu il vero?

— Per la santa croce di Cristo; — rispose ella con accento solenne. — Tu puoi uccidermi, o padre; ma io non amerò più nessuno. —

Messer Guglielmo non diede risposta a sua figlia. La guardò un tratto, corrugando le sopracciglia, come se volesse concentrar tutta in lei la virtù degli occhi e penetrare nel suo cuore. Indi si mosse, andando su e giù per la camera a passi disuguali, che dovevano certo rispondere ai varii moti dell'animo. Non era già crucciato, ma pieno di rammarico, vedendo sua figlia, una mite fanciulla fino a quel dì, mostrarsi donna in quella forma di dolore che egli bene scorgeva invincibile. Povera Diana! Come doveva aver sofferto, per rispondere in quella guisa a suo padre! E come, alla saldezza della fede, alla profondità del sentire, egli riconosceva in quella gentil creatura il suo sangue!

Diana, intanto, stava ritta ed immobile davanti a lui, bianca in viso come una statua di marmo, aspettando la risoluzione di suo padre.

[106]

Ma egli stesso non sapeva che risolvere. Si fosse trattato di muovere all'assalto d'una città, di vedere, così sui due piedi, il lato debole d'un esercito nemico schierato in battaglia davanti a lui e di dar dentro con tutte le forze in quel punto, manco male, era quello il fatto suo, perchè il Testa di maglio vedeva giusto, pensava pronto e colpiva sicuro. Ma là, davanti ad una povera fanciulla, padre, non capitano d'eserciti, messer Guglielmo titubava, non vedeva l'uscita.

— Ed ora, — diss'egli finalmente, fermandosi a un tratto, — che cosa intenderesti di fare? —

Diana raccolse le sue forze e rispose:

— Con tua licenza, padre mio, andrò in pellegrinaggio al sepolcro di Cristo; donde muoverò alla volta di Cesarea, in traccia di Arrigo. Se Arrigo è morto, e se in capo ad un anno io non avrò contezza di lui, fonderò un monastero là dove si narra esser egli caduto, e finirò la mia vita pregando per lui e per tutti. —

Messer Guglielmo capì che non c'era nulla a fare e che la risoluzione di sua figlia era immutabile. Avrebbe egli potuto negarle il suo assenso paterno; ma col suo rifiuto l'avrebbe anche uccisa.

Diana s'inginocchiò a' piedi del suo glorioso genitore.

— Padre mio, acconsenti; — gridò; — acconsenti, te ne prego per l'amore che portavi un giorno ad Arrigo. —

Si scosse a quella invocazione l'Embriaco, e una lagrima apparve sul ciglio del fiero soldato di Gerusalemme, dell'espugnatore di Assur e di Cesarea.

[107]

— Un giorno! — ripetè egli con accento di profonda amarezza. — Dite, figliuola mia, che l'immagine di Arrigo non è uscita mai dal mio cuore, come non è uscita dal vostro. Se l'ho amato! Fanciulla, il cuore del guerriero ha amori così gagliardi, che una donna, non che sentirli, non verrebbe a capo d'intenderli. Il compagno nostro di speranze, di fatiche, di pericoli e di glorie.... ma sai tu, Diana, ch'egli è più d'un fratello per noi? Avere nel tuo campo uno che t'intenda, che ti risponda anche da lunge, da un altro punto della battaglia, come ti risponde il tuo cavallo generoso ad un toccar di sprone, ad un premere di ginocchio; sapere che là, dove è più grande il bisogno, combatte un altro te stesso, che comparirà tra breve, guidando un pugno di valorosi, e ti porterà la vittoria, come tu la porterai a lui; che fa voti per te, come tu li stai facendo per esso; e tutto ciò senza dubbiezze, senza timori, senza invidia (perchè là, davanti alla morte, non c'è invidia, sai!), questa è l'amicizia del guerriero, questa è la fratellanza delle armi. E posso io dimenticare Arrigo da Carmandino? Mio figlio Arrigo? Pensa, immagina quel che vorrai; dimentica che poc'anzi ti parlava un padre, costretto a consigliarti pel tuo bene futuro; ma non giudicare il soldato, il soldato che ha il suo culto immutabile nel cuore, il soldato che ti risponde: un altro Arrigo non c'è; nessun altri prenderà il suo posto qui dentro. —

E si lasciò cadere su d'un seggiolone, il grand'uomo, e pianse come avrebbe pianto un bambino.

— Vedi, padre, vedi? — gridò ella, esaltandosi a quelle infiammate parole del console; — tu lo [108] hai amato davvero, e non potresti più amarne un altro in sua vece.

— È vero. Ma il cuore dell'uomo può chiudersi; quello di una donna, di una fanciulla, come tu sei, non lo può, non lo deve. La donna, nel corso della vita, ha mestieri di appoggiarsi ad un uomo.

— O ad una memoria; — soggiunse Diana. — Ho veduto l'edera e la vite, a cui siamo spesso paragonate, appoggiarsi alle rovine. E la mia scelta è fatta. Se Arrigo non è morto, verrà, o noi dovremo rinvenirne le traccie.

— Le traccie! In che modo?

— Chiedi a Gandolfo del Moro. Egli, a cui tanto premeva di riconoscere un compagno d'armi in poche ossa non consumate dalle fiamme, egli sarà il primo a dirti, se tu lo interroghi col medesimo sguardo con cui fulminavi i nemici, il primo a dirti che Arrigo vive, e che egli ne ha la certezza.

— Che dici tu mai?

— Dico, padre mio, che Arrigo, sulle mura di Cesarea, fece voto di poter venire in ispirito a recarmi un ultimo saluto, se era destinato che egli dovesse cadere. Iddio, per la cui fede egli combatteva, Iddio lo avrebbe esaudito; io avrei veduto lo spirito di Arrigo, se egli veramente fosse rimasto tra i morti. Non deridere la mia fede, o padre; essa è più salda che mai. Arrigo non è venuto; egli è vivo, ed io debbo rintracciarlo, dedicare a lui la mia vita. Non me lo avevi tu concesso in isposo, e non doveva egli consacrarmi la sua? —

Messere Guglielmo rimase un tratto sovra pensiero.

— Hai risoluto? — le chiese, dopo un istante di pausa.

[109]

— Sì, padre mio; so di accorarti, ma invero non meriterei di essere tua figlia se pensassi altrimenti. O con lui, o su lui. —

Il console piangeva, ve l'ho detto. E le sue lagrime bagnarono la pura fronte di sua figlia.

Quel medesimo giorno l'Embriaco andò per le usate faccende alla casa del Comune. I quattro consoli avevano allora non pure il reggimento della signorìa, ma altresì quello delle controversie e delle cause civili, non essendo ancor l'uso, che venne pochi anni dopo, di separare i consoli dello Stato, o maggiori, dai consoli de' placiti.

Però, quel giorno, finito di render giustizia, Guglielmo Embriaco invitò i suoi colleghi a radunarsi in segreto, per vedere se non fosse il caso di allestire una nuova armata e mandarla a guadagnare altri allori ed espugnare altre terre in Sorìa.

[110]

CAPITOLO IX. Nel quale è dimostrata l'utilità del combattere a capo scoperto.

La saracinesca era calata con alto fragore alle spalle degli animosi, e Arrigo da Carmandino, che li precedeva, colla spada nelle reni ai fuggenti nemici, non se ne era avveduto. Bene lo avvisarono i più tardi tra i suoi compagni, che all'improvviso rumore si erano voltati indietro. Ma era tardi oramai per rifarsi alla porta e costringere i guardiani a rialzare l'ostacolo. Un'altra schiera di Saracini giungeva alla riscossa, arrestava i compagni, rianimava la difesa, metteva in grave pericolo quel pugno d'audaci, che dovevano pentirsi, ma tardi, della loro temerità, con un nugolo di avversarii che li incalzavano di fronte e coi guardiani della porta che rumoreggiavano alle spalle.

— Ammazza! ammazza! — era il grido dei Saracini.

La strada angusta tornava propizia alla resistenza dei crociati. Ma quanto avrebbe potuto essa durare? [111] Era da supporsi che l'esercito genovese, dato di cozzo nella seconda cinta, superasse l'ostacolo nuovo prima che i suoi compagni perduti là dentro fossero tagliati a pezzi? Arrigo da Carmandino aveva dato un'occhiata intorno a sè e non si pasceva di vane speranze. Cinque cavalieri genovesi lo avevano seguìto. Quanto tempo avrebber resistito sei uomini, anche valorosi come sei paladini di Carlomagno?

— Amici, — disse Arrigo ai compagni, approfittando di un momento di confusione che in quella stretta rendeva impossibile ai nemici un utile assalto. Che si fa? Pensate voi di arrendervi?

— No, piuttosto morire, mille volte morire!

— Bene, preghiamo dunque il Signore che riceva le anime nostre. —

E brandendo la spada sul capo, con alta voce gridò:

— Difensori di Cesarea, seguaci del Profeta, noi Arrigo da Carmandino, Simone Gontardo, Marino della Porta, Tanclerio Burone, Vassallo Cavaronco, Anselmo di Zoagli, cavalieri genovesi, sfidiamo tutti voi a combattere, uomo contro uomo, fino a tanto ci basti la vita. Del resto, meglio sarebbe per voi lo arrendervi alle insegne della Croce. Infatti, a che vi gioverebbe la resistenza? Tutto l'esercito genovese è nelle mura di Cesarea, e tra poco anche la seconda cinta sarà superata e voi non otterreste misericordia.

— Arrenditi tu per il primo, cane cristiano, — urlò uno dei Saracini, facendosi incontro ad Arrigo colla scimitarra levata. — Hai buona la lingua; vediamo se hai buono il braccio ugualmente.

[112]

— Ti sia permesso di vederlo, ma non di ricordartene; — tuonò Arrigo da Carmandino.

E serratosi addosso al nemico, prima che questi avesse tempo a cansarsi, con un fendente della sua spada poderosa gli spezzò l'elmo sul cranio.

Fu quello il segnale della mischia.

— San Giorgio il valente! — gridarono ad una voce i Crociati genovesi. — Viva San Giorgio! Ammazza i cani infedeli! —

E levata la spada, si fecero avanti animosi, a vender cara la vita.

Arrigo da Carmandino era il primo tra tutti, e primo si slanciò nel folto della fronte nemica. Rotta la spada, combattè col tronco, ed anche questo, che più non gli serviva, scaraventò sulla faccia del primo che ardì farglisi contro, oltre quel mucchio di morti e di feriti onde il valoroso giovane si era come asserragliata la via. Quindi, spiccò dal fianco la sua mazza ferrata, e, piantatosi fieramente su quel cumulo di carne sanguinosa e palpitante, prese a tempestare di colpi i suoi assalitori. Quanti, adescati dal poco numero dei nemici o spinti innanzi dai compagni accorrenti, si facevano sotto, tanti egli ne stendeva a terra, o ne rimandava acciaccati. Più disperato valore non si era visto mai. E i compagni di Arrigo, Simone Gontardo, Marino della Volta, Anselmo di Zoagli, animati dall'esempio, combattevano con pari fortuna al suo fianco.

Tanclerio Burone e Vassallo Cavaronco, facendo testa dall'altra parte, impedivano che i guardiani della porta, meno numerosi e non ancora ben raffidati, cogliessero quel pugno di valenti alle spalle. E anch'essi, sebbene in due soli, fornivano lavoro per dieci.

[113]

Da lunga pezza durava quella pugna disuguale, senza che i Saracini avessero guadagnato un palmo di terreno. E già i loro assalti riuscivano più lenti, poco piacendo a quella plebe di fantaccini di morder la polvere sotto i colpi di quei furibondi, che prendevano forza sovrumana dalla loro medesima disperazione. Ma appunto allora, un nuovo aiuto venne ai Saracini, che in quella stretta via non potevano trar d'arco; e fu la rena ardente, fu il bitume infiammato, che incominciò a piovere dall'alto delle logge circostanti sul capo ai cavalieri cristiani. Contro quel nuovo assalto non c'era difese nè scampo. Pararono alla meglio co' palvesi quella pioggia di fuoco; ma anche i palvesi ardevano, e i combattenti furono costretti a gittarli, restando scoperti sotto il rovente flagello; involti in un turbine di fiamma e di fumo, che li acciecava e toglieva loro il respiro.

Anselmo di Zoagli e Marino della Volta caddero i primi; Simone Gontardo e Vassallo Cavaronco, già investiti dalla liquida fiamma, si avventarono ai nemici, si strinsero a corpo a corpo con loro e parecchi ne costrinsero a morire della loro medesima morte.

Arrigo da Carmandino volse gli occhi intorno e vide che non c'era più nulla a sperare. Anche l'ultimo superstite de' suoi compagni, Tanclerio Burone, mugghiando come un toro ferito, si scagliava ferocemente nelle file nemiche, non d'altro desideroso che di uccidere ancora un Saracino, prima di cadere a sua volta, crivellato di ferite com'era.

Il giovine Arrigo sanguinava anch'egli da molte piaghe per la rotta armatura, ma ancora non si era [114] avveduto di nulla. L'ardore della pugna gli avea tolto di sentire lo spasimo. Bene sentì in quella vece che l'ultima sua ora suonava. Diede un pensiero a Diana, raccomandò la sua anima a Dio, e strappatosi l'elmo dalla fronte, a capo nudo, colla spada levata in aria, si calò dal sanguinoso carnaio, si gettò per morto in mezzo agli urlanti nemici.

L'atto strano colpì di stupore i Saracini. Era egli un eroe, od un pazzo? Comunque fosse, non avevano agio a sincerarsene, e sdegnati di vedere un infedele che affrontava così baldanzosamente la morte, vollero punirlo di una temerità che pareva dispregio, e gli si strinsero addosso, non udendo la voce di uno tra loro, che doveva esser il comandante della Schiera, o alcun che di simigliante.

— Non lo uccidete! — gridava egli accorrendo e tentando di farsi strada in mezzo a loro. — Non lo uccidete! —

Arrigo da Carmandino era già caduto bocconi, per una larga ferita alla fronte.

— Lo Sciarif! Largo allo Sciarif! — gridavano intanto i Saracini delle file più lontane dal luogo del combattimento. — Largo al nipote del Profeta! —

Quelle grida ripetute di fila in fila giunsero finalmente all'orecchio dei forsennati. Arrigo era caduto boccheggiante nel suo sangue e non era più il caso d'infellonire contro un morente. Le file si apersero quantunque a stento, e colui che avevano chiamato col nome di Sciarif (nome che equivaleva a quello di nobile e si dava allora ai discendenti della famiglia di Maometto), spinse il cavallo fino ai piedi del giovine crociato genovese.

[115]

— Non avete udita la mia voce? — diss'egli corrucciato. — Quest'uomo è sacro. Allà lo protegge.

— Un infedele! — esclamarono i soldati.

— Dice il libro: o credenti, meditate le opere vostre; non dite mai del primo che incontrate: costui è un infedele. Dio possiede infiniti tesori di misericordia; Dio solo conosce i cuori. —

I soldati s'inchinarono alla parola del Profeta, e, obbedendo al cenno dello Sciarif, sollevarono da terra il ferito, con tanta cura e sollecitudine quanta furia avevano messo ad abbatterlo.

Lo Sciarif era un bel giovanotto, dal viso pallido e scarno, colla barba intiera e rada, gli occhi infossati e lucenti, tutto vestito di maglia d'acciaio, su cui era gittato un mantello di lana bianca alla guisa moresca. Una fascia di zendado verde, ravvolta in giro all'elmo acuminato dei cavalieri arabi, diceva chiaramente che egli apparteneva per l'appunto alla discendenza del Profeta e dava la ragione dell'ossequio con cui lo ascoltavano i suoi correligionarii.

Lo stesso Emiro El Heddim, che era, siccome ho già detto, il comandante militare di Cesarea, non gli parlava che a capo chino.

S'incontrarono i due capi all'entrata del castello. L'Emiro aveva in volto le tracce di un alto spavento.

— Siamo perduti! — diss'egli a bassa voce. — Il nemico è penetrato nella seconda cinta. Io venivo in cerca di te, mio signore, per dirti che è tempo....

— Taci! — interruppe lo Sciarif. — Se questo sarà il volere di Dio, andremo, senza mestieri di [116] fuggire come cerbiatti davanti al leone. Non vedi? Porto un ferito con me.

— Un cristiano!

— Un ospite è sempre una benedizione del cielo. —

E senza aspettar la risposta, entrò nell'androne della porta, dove i soldati avevano deposto Arrigo. Il giovane era svenuto, e a tutta prima lo si credette morto. Ma Zeid Ebn Assan, un vecchio arabo, che sapeva di medicina, dopo avergli spruzzato il viso di acqua fresca e fasciata colla sua cintura la fronte, assicurò che il cristiano viveva, e avrebbe, col permesso di Allà, potuto anche reggere ad un nuovo trasporto.

— Hai fatto esplorare il passaggio? — chiese lo Sciarif all'Emiro.

— Si, mio signore; e la cavalcata aspetta negli oliveti di Malca.

— Andiamo dunque, e sia fatta la volontà del Signore; — disse il giovine capo. — Voi portate con ogni maggior cura il ferito; lo metteremo poi sul dorso d'un cammello.

— Onore dei figli di Fatima, — rispose l'Emiro, — il tuo desiderio sarà soddisfatto. Purchè tutto ciò non faccia ritardare di troppo la marcia!

— Meglio così; — disse il giovine. — Non avremo l'aria di fuggire al cospetto degli infedeli. Del resto, vedrai che non tenteranno d'inseguirci. Importa troppo a loro di non discostarsi dalla spiaggia, dove hanno le navi. Zeid Ebn Assan, hai tu finito?

— Sì, mio signore. Dio è grande e misericordioso. —

I soldati allora sollevarono di bel nuovo il ferito, [117] che mandò un lieve sospiro. E preceduti dal vecchio medico, che aveva acceso una torcia di legno resinoso, entrarono in una stanza buia, che metteva ad una via sotterranea verso levante. Lo Sciarif e l'Emiro rimasero gli ultimi, per chiuder l'ingresso. La stanza buia doveva custodire il segreto della sua uscita ai Cristiani, che inerpicatisi sulle mura per l'albero di palma scoperto dall'Embriaco, penetravano intanto nella seconda cinta e andavano a furia verso la moschea maggiore, intorno a cui si erano raccolte le ultime difese di Cesarea.

Entrato cogli altri compagni d'armi nel cuor della città, Gandolfo del Moro si diè pensiero come tutti gli altri della sorte di Arrigo. E saputo che vivo non lo si trovava in nessun luogo, si diede egli stesso a cercarne il cadavere, con una sollecitudine, con una diligenza, che l'amico più intrinseco non ce ne avrebbe spesa altrettanta. Il destino gli avea fatto servizio, di certo; ma quel bravo Gandolfo lo avrebbe desiderato intiero. Gli sarebbe piaciuto, verbigrazia, di metter la mano sugli avanzi del prode concittadino, per render loro gli onori dovuti, e magari per riportarli a Genova in una custodia di vetro, come stinchi di santo.

E il corpo d'Arrigo non pareva mica disposto a profittare di quelle pietose intenzioni. Infatti, non c'era verso di trovarlo. Si era risaputo bensì dove i primi sfortunati assalitori avessero fatto testa al nemico; quel carname, consumato a mezzo dal fuoco, diceva chiaramente che là erano rimasti. Ma tutti? E se non tutti, quali i caduti? Nessun lume di ciò appariva alla mente curiosa di Gandolfo del Moro.

[118]

Notate che egli era solo a metterci tanta e così minuta attenzione. Gli altri tutti, non escluso il Testa di maglio, pensarono che Arrigo fosse rimasto tra i morti e che il suo cadavere dovesse aver corso la sorte di quelli de' suoi compagni. Ma Gandolfo del Moro andava più lungi e più addentro colle sue indagini; studiava i particolari, notava gl'indizi più lievi e più disparati. Per esempio, aveva saputo che anche l'Emiro, il comandante della difesa di Cesarea, non si trovava più neppur egli, nè vivo nè morto. Che fosse fuggito? Era questo il sospetto del Cadì, che non sapeva perdonare all'Emiro el Heddim la sua matta ostinazione. E se questi era fuggito, non poteva essere fuggito anche Arrigo?

Ma come? ma perchè? Qui si smarriva l'ingegno sottile di Gandolfo del Moro, che tornò a Genova colla voglia, in una continua incertezza, tra speranza e timore.

Intanto che Gandolfo del Moro e gli altri cavalieri di Genova andavano in traccia di Arrigo, costoro sperando e quegli temendo di trovarlo vivo, ma nè gli uni nè l'altro rinvenendone il cadavere, per la ragione semplicissima che ormai il lettore conosce, la comitiva dei fuggiaschi Saracini aveva traversato il passaggio sotterraneo.

Metteva questo alle rovine di un tempio antico, negli oliveti di Malca, a levante di Cesarea, o Caisarieh, come era chiamata dagli Arabi. Già sacro a Venere Astarte, il tempio greco romano era abbandonato dalla sua divinità mezzo fenicia; le colonne erano crollate sulle lastre del pavimento e tutto era un ammasso di macerie, non rimanendo [119] di intatto che un pozzo, donde più non si attingevano le acque lustrali, ma dove i pastori arabi andavano ad abbeverare gli armenti.

Colà fu deposto Arrigo, ancor fuori dei sensi, e mentre lo Sciarif co' suoi cavalieri, trovati in vedetta laggiù, esplorava i dintorni per custodire la sua gente da un incontro col nemico (incontro del resto assai poco probabile, perchè i Crociati dovevano avere ben altra bisogna alle mani), il vecchio Zeid Ebn Assan, spogliato con ogni cura il giovine crociato, visitò le ferite e le spalmò de' suoi unguenti meravigliosi. La più grave era quella toccata da Arrigo alla fronte; ma il cranio appariva solamente scheggiato. Il che del resto non era poco, dovendosi sempre temere di una commozione troppo forte al cervello e di tutte le conseguenze d'una mezza frattura, in una parte così nobile del corpo; conseguenze più gravi a gran pezza allora, che la scienza chirurgica era tuttavia bambina, e l'arte empirica affatto, come vi sarà facile di argomentare.

Il vecchio Esculapio saracino, lavata diligentemente la ferita e stesovi sopra il suo balsamo, rinnovò la fasciatura, ma con più garbo che non avesse potuto fare la prima volta, nel castello di Cesarea.

— Speri? — gli chiese ansioso lo Sciarif, che tornava in quel mentre dalla sua esplorazione.

— Dio è grande; — rispose il vecchio.

— Sì; ma tu che cosa ne pensi? — incalzò il giovine capo, che non poteva contentarsi di quella mezza risposta.

— Penso, — ripigliò allora Zeid Ebn Assan, — che Asrael ha posto gli occhi su lui, ma che i Moakkibat non si sono ancora allontanati. —

[120]

Asrael era l'angelo della morte presso i seguaci di Maometto. I quali credevano ancora che ogni uomo fosse accompagnato da due angeli custodi, che notavano le opere sue, dandosi la muta ogni giorno; donde il loro nome di al Moakkibat, cioè di angeli che si succedono.

— Spero, infine; — aggiunse il vecchio, vedendo che nemmeno l'accenno agli angioli spianava le sopracciglia dello Sciarif. — Se almeno potessimo fare una lunga sosta in qualche luogo!...

— Riposeremo a Thaanach, — disse il giovine capo, — alle falde del Carmelo. —

Poco stante, la cavalcata si pose in viaggio. Lo Sciarif volse un ultimo sguardo alle mura di Cesarea, donde gli veniva all'orecchio un suono confuso. Erano gli estremi aneliti della resistenza, misti alle grida dei vincitori. Il giovine capo diede un fremito di rabbia, che contrastava in modo singolare colla sua affettuosa sollecitudine pel ferito, e spinse il cavallo al galoppo lungo le rive del Nahr el Acdar, il cui letto inaridito rimontava dalla foce a mezzogiorno di Cesarea fino alle, alture di Hadad Rimmon, ultimi contrafforti del Carmelo, che la cavalcata doveva costeggiare, per giungere a Thaanach, nella pianura di Jesreel.

Il sole volgeva al tramonto e l'aria incominciava ad essere più respirabile. Le ore notturne furono intieramente spese nella marcia. La mite andatura del dromedario e i freschi aliti della notte rendevano meno disagevole il tragitto al povero Arrigo, sospeso tuttavia tra la vita e la morte. Ad ogni fermata, lo Sciarif si accostava al dromedario su cui era accomodato il ferito, in una basterna improvvisata [121] coi mantelli della carovana, e interrogava il vecchio Zeid, che mutava e rimutava in tutte le forme la sua prima risposta «Dio è grande,» aggiungendo ora il clemente, ora il misericordioso, e, a farla breve, la lunga fila di epiteti che il sentimento profondo della divinità ha inspirato agli adoratori del Corano.

Spuntava il mattino e la cavalcata, già superato il valico dei monti, giungeva in vista di Thaanach, rosseggiante tra le palme, ai primi raggi del sole, che appariva in quel punto dalle lontane alture di Gelboà, memorande per la rotta e la morte di Saul, e dietro alle quali si stende la fertile pianura di Zarthan, irrigata dalle bionde acque del Giordano, al suo uscire dal lago di Genezareth.

Lo Sciarif e tutti i compagni suoi smontarono da cavallo, e genuflessi, colla faccia rivolta a mezzogiorno, nella direzione della Mecca, recitarono la loro preghiera mattutina. Dopo di che, si rimisero in marcia per alla volta di Thaanach. Laggiù non essendoci il pericolo di veder giungere Cristiani, lo Sciarif disegnava di lasciare il ferito, affidato alle cure di Zeid e di parecchi tra i suoi più fedeli servitori. Egli intanto, traversata la pianura di Jesreel, sarebbe andato, per la via di Betlem in Galilea, fino alle mura di Acco, l'antico Tolemaide, portatore a quell'Emiro delle tristi novelle di Cesarea.

Era un'altra città, un altro lembo della costa, che cadeva in mano ai guerrieri d'Occidente. Gli Emiri di Soria, padroni delle città marittime in quella confusione che avevano portato le guerre tra i Turchi e gli Arabi, andavano perdendo alla spicciolata i loro piccoli regni.

[122]

La comunanza di religione aveva fatto muovere nel 1097 Kerboga, principe di Mosul, con ventotto emiri dell'interno dell'Asia, in soccorso d'Antiochia. Ma lui sconfitto, come già il turco Solimano a Nicea, non restava altra speranza all'Islamismo in Palestina fuorchè l'aiuto del Soldano d'Egitto, o di Babilonia, come dicevasi allora, dando erroneamente questo nome alla città del Cairo.

Per altro, se il califfo fatimita d'Egitto era potente, Gerusalemme, la vera meta del pellegrinaggio armato dei Cristiani, era allora in potere dei Turchi. Sfortunatamente per questi, il retaggio di Malek Scià era disputato da quattro de' suoi figli. E la discordia loro e la debolezza che ne derivava al popolo turco, persuasero al califfo d'Egitto di tentare il ricupero dei possedimenti perduti in Sorìa. Era sul trono il fatimita Abu Cacem Ahmed el Mostala Billah, succeduto nel 1094, lui secondogenito, coll'aiuto del suo visir El Afdhal, al padre Abu Temin Maad el Mostanser Billah. Crudele al segno di far morire per fame il fratello maggiore, Mostala Billah, o Mostalì, come fu chiamato più brevemente, uomo privo d'ingegno e di carattere, lasciò ogni cura di governo ad Afdhal. E fu questi che nel 1098 moveva al conquisto di Tiro e di Gerusalemme, impadronendosi della città santa un anno prima di Goffredo Buglione.

I Fatimiti avevano appena restaurata in Palestina la loro autorità civile e religiosa, quando udirono dei numerosi eserciti cristiani passati d'Europa in Asia. Si allegrarono a tutta prima di assedii e combattimenti che distruggevano la possanza dei Turchi, loro giurati nemici. Ma quei Cristiani medesimi [123] non erano meno avversi al Profeta, e, dopo espugnata Nicea ed Antiochia, dovevano condurre le loro imprese sul Giordano, e chi sa? fors'anco sul Nilo. Il califfo Mostalì, o per lui il suo audace visir, entrò allora in carteggio coi Latini, procurando di averne le grazie, presentandoli di cavalli, di vesti di seta, di vasellami, di borse d'oro e d'argento. Ma fermi stettero i Crociati sul rispondere che, lungi dallo esaminare i diritti di questo o di quello tra i settarii di Maometto, essi avevano ugualmente per nemico l'usurpatore di Gerusalemme, Turco od Arabo, Selgiucide o Fatimita, Ommiade od Abasside, che si fosse. Quindi lo consigliavano di consegnare senz'altri indugi la città santa e la provincia tutta alle armi latine, aggiungendo, non aver egli altra via per serbarsele amiche e sottrarsi alla rovina ond'era minacciato.

Come i Crociati espugnassero Gerusalemme, non voluta restituire da Istikar, il luogotenente del Califfo, l'ho già raccontato ai lettori. Ho accennato altresì come, pochi giorni di poi, Afdhal, non giunto in tempo, per impedire la caduta di Gerusalemme, ma affrettatosi coll'ansietà di trarne vendetta, toccasse una rotta solenne nel piano di Ramnula. Da quel giorno in poi la difesa delle città marittime di Sorìa fu abbandonata agli Emiri, senz'altra speranza di validi aiuti contro il nuovo regno dei Franchi, adeguato in estensione, se non per avventura in numero d'abitanti, agli antichi regni d'Israele e di Giuda.

Restava di poter fare assegnamento su aiuti volontari e parziali. C'era uno dei Fatimiti d'Egitto, che veramente poteva dirsi l'anima di tutte le difese [124] saracine in Sorìa, da Antiochia a Gerusalemme, da Gerusalemme a Cesarea. E costui, giovine valoroso, ma capitano di piccola schiera, non amato dal fratello maggiore Mostalì, che volentieri gli avrebbe inflitto la morte di Nezer, il primogenito dei tre, invidiato dal visir Afdhal, cui premeva di essere solo al comando, nell'uscire dalle vinte mura di Cesarea, non volgeva già i suoi passi all'Egitto, sibbene ad Acco, dove temeva che sarebbero andati a nuova impresa i Crociati di Genova, che egli sapeva per prova i più pericolosi di tutti.

Invero, l'esercito latino si era grandemente scemato di forze e poteva prevedersi il giorno che non bastasse più a mantenere la sua larga conquista. Dei diecimila cavalieri che Goffredo Buglione aveva condotto dall'Occidente, soli mille cinquecento erano giunti sotto le mura di Gerusalemme, e seicento, a mala pena seicento, ne rimanevano in piedi per difendere il nuovo regno di Sion. Undicimila fanti rimanevano col successore di Goffredo, dei diciottomila che questi aveva guidato in Sorìa. Ma se i Latini erano deboli in terra, Genova, colle sue audacie navali, poteva renderli ancora possenti sul mare.

Perciò, temendo dei Genovesi, poco sperando dal fratello e dal suo ambizioso visir, e di nient'altro desideroso che di dare un indirizzo a tutte quelle disgraziate difese degli Emiri di Sorìa, il giovine Sciarif muoveva con pochi cavalieri alla volta di Acco, dopo aver lasciato Arrigo in Thaanach, raccomandato alle cure del vecchio Zeid.

— Bada, — gli disse, accomiatandosi, — la tua vita mi sta mallevadrice della sua.

[125]

— Farò il poter mio, non dubitare. Ma se il ferito soccombesse per volere di Allà? — notò il vecchio servitore con voce tremebonda.

— Sarebbe un indizio certo per me che Allà vuole anche la tua testa; — rispose lo Sciarif, aggrottando le ciglia.

Zeid Ebn Assan s'inchinò fino a terra.

— Dio è grande! — diss'egli poscia, abbandonandosi al fatalismo orientale.

Per altro, come lo Sciarif si fu allontanato, il vecchio Zeid non istette ad aspettare i miracoli dal cielo e si adoperò con ogni possa ad assicurare la vita pericolante di Arrigo. La febbre e l'infiammazione furono lungamente ribelli alle sue cure, ma l'arte da un lato e la natura dall'altro gli fecero ottenere l'intento. Zeid giuocava la sua testa, e lavorò colla vigilanza di un uomo che non voleva perderla, tanto nel proprio quanto nel figurato.

Cionondimeno, se la malattia fu lunga, la convalescenza non lo fu meno, e il vecchio Esculapio saracino pensò che il genovese affidato alle sue cure, ricuperando la salute del corpo, non fosse per riavere altrimenti la sanità dello spirito. Per tutto quell'autunno e per l'inverno che seguì, Arrigo da Carmandino visse come un uomo sbalordito, e non aveva più memoria o discernimento di quello che potesse averne un fanciullo. Obbediva macchinalmente ai consigli del medico; stava ad udirlo, ma con aria melensa, come se non cogliesse il senso di ciò che quegli diceva; lo guardava fiso, ma senza intendere chi fosse colui, e come e perchè egli stesso si trovasse nelle sue mani.

Un giorno, il vecchio Zeid, che si era rassegnato [126] ad avere in custodia un povero mentecatto, pure di veder conservata sulle spalle la testa, accompagnava il Carmandino sulla piazza di Thaanach. E già lo aveva fatto sedere al sole, presso una macchia di lentischi, allorquando un fitto polverìo che si levava da tramontana in fondo alla pianura annunziò una cavalcata che si appressava rapidamente. Era lo Sciarif che ritornava da Acco. Il vecchio servitore aveva avuto più volte sue nuove, perchè ad ogni quindici giorni giungeva un suo messaggiero a Thaanach, per domandare della salute di Arrigo e vedere se egli fosse ancora in caso di muoversi dalla sua solitudine.

Quella volta lo Sciarif capitava in persona, non aspettato da Zeid, che lo sapeva tutto intento nelle cose di guerra.

Arrigo da Carmandino stava seduto, come ho detto, all'aperto, bevendo istintivamente i raggi di quel benefico sole. L'ampia ferita, rimarginata da qualche tempo, rosseggiava sulla sua fronte, contrastando vivamente col pallore onde era tuttavia cosparso il suo volto.

Il giovine diede uno sguardo distratto a quello stuolo di cavalieri, senza che il cuore gli battesse più forte, come avviene al guerriero quando vede cosa o persona che gli rammenti la prediletta sua vita. La luce della coscienza stentava a ritornare in quella mente offuscata.

Lo ravvisò da lunge il capo della schiera, e spronato il suo cavallo verso di lui, fu a terra d'un balzo.

— Arrigo da Carmandino, — gli disse, muovendogli incontro col sorriso sul volto, — non mi conoscete voi più? —

[127]

Quella voce e quell'aspetto risvegliavano un ricordo lontano e confuso nella mente di Arrigo, che si alzò da sedere, interrogando degli occhi il nuovo venuto, mentre il suo spirito cercava di raccapezzarsi, ma senza pro.

— Bahr Ibn, — ripigliava intanto quell'altro, venendo in aiuto alla sua memoria affievolita. — Bahr Ibn, il Saracino di Antiochia; non lo rammenti già più, valoroso cristiano?

— Ah! — gridò Arrigo, — Antiochia! I Saracini! Bahr Ibn, il mio nemico?....

— Che ti è debitore della sua vita; — aggiunse lo Sciarif. — Come son lieto, o soldato di Cristo, di aver potuto salvare la tua! Siamo pari, adesso. Vedi, rosseggia ancora la mia fronte pel colpo della tua lama gagliarda, come la tua fronte pel colpo toccato nella presa di Cesarea, e che io, pur troppo, non giunsi in tempo a sviare dal tuo capo. —

Così dicendo, Bahr Ibn si toglieva l'elmetto acuminato, mostrando la sua cicatrice ad Arrigo.

— Cesarea! — ripetè il Carmandino, a cui tornava finalmente la memoria del tempo trascorso. — Siamo noi padroni di Cesarea?

— Sì, col volere di Allà; — rispose Bahr Ibn, chinando mestamente il capo. — I tuoi compagni superarono la seconda cinta poco dopo la tua caduta. Io e l'Emiro El Heddim ci siamo ritirati per un passaggio sotterraneo, portando te svenuto nelle nostre braccia.

— Ma come.... tu.... — balbettò Arrigo, che non intendeva in qual modo fosse stato campato da morte.

— Io ti ho ravvisato quando gettavi l'elmetto, [128] per scagliarti sulle nostre file e cercarvi la morte dei valorosi. —

Alla evocazione di quei ricordi che tanti altri ne richiamavano al suo pensiero, Arrigo diede in uno scoppio di pianto.

— Asraele aveva già stese le sue ali su te, e la tua anima avrebbe dormito il gran sonno fino a che non la risvegliasse la tromba d'Israfil. Ma ecco, — soggiunse, additando il vecchio Zeid Ebn Assan, — l'uomo savio e dotto di farmachi che Allà aveva posto al mio fianco. Egli ha lavato le tue ferite e le ha rimarginate co' suoi balsami meravigliosi. Tu vivrai ancora, o Cristiano, alla gloria della tua terra e all'amore de' tuoi.

— Grazie! — rispose Arrigo, cadendo nelle braccia del suo generoso nemico. — Ma dimmi, sono io libero?

— Sì; partiremo questa notte per alla volta di El Kasr, dove io debbo recarmi, e laggiù provvederemo al tuo tragitto, se pure desideri di abbandonarmi così presto.

— El Kasr! — esclamò il vecchio Zeid. — Tu pensi davvero, mio signore, di tornare in Egitto? E tuo fratello?

— Mostalì ha reso la sua anima a Dio, che la ricompenserà secondo i suoi meriti; — disse gravemente Bahr Ibn. — Ho avuto l'annunzio in Acco, e son partito senza indugio. Mostalì lascia un figlio, Amar, di cinque anni appena....

— E tu pensi?

— Di assumere la tutela. Non sono io l'unico superstite dei figli di Mostanser Billah?

— Mio signore, — ripigliò il vecchio, — non rammenti come sia possente El Afdhal?

[129]

— Lo combatterò.

— Con quali forze? E mentre i Franchi saranno pronti a trar profitto delle nostre discordie? —

Lo Sciarif rimase sopra pensieri. Troppo peso avevano gli argomenti del vecchio servitore, ed egli non aveva nulla da opporgli.

— Potresti aver ragione; — brontolò egli, dopo alcuni istanti di pausa. — Ma andrò cionondimeno a vedere. Dice il libro: «L'uomo non muore che per volontà di Dio, secondo il termine assegnato nel volume del destino.» Mettiamo la nostra fiducia in Dio. Il libro dice ancora: «Se Dio viene in vostro aiuto, chi potrà vincervi? Se vi abbandona, chi potrà darvi soccorso?»

— Che egli ti ascolti, mio signore! — disse Zeid inchinandosi. — E quando pensi di ripartire, perchè noi ci prepariamo a seguirti?

— Questa notte. Il viaggio farà bene anche a te, ospite cristiano; — soggiunse lo Sciarif, volgendosi ad Arrigo da Carmandino; — ma perchè forse non saresti in caso di tenerti ritto in sella, monterai sulla nave del deserto. —

Gli Arabi, siccome è noto, chiamano nave del deserto il cammello e il dromedario.

— Amico, — disse Arrigo timidamente, — se tu volessi compiere l'opera tua....

— Chiedi; — rispose Bahr Ibn. — Che altro posso io fare per te?

— Son libero, hai detto?

— Come il vento e come il mare, come la gazzella che fugge stampando a mala pena le orme sulla sabbia, come il leone che regna solitario nella pianura, sei libero.

[130]

— Orbene, — ripigliò Arrigo da Carmandino, — rimandami a Cesarea.

— Per far che?

— Ma.... — disse il giovine crociato; — i miei compagni staranno in pensiero per me.

— I tuoi compagni! — ripetè Bahr Ibn. — Essi hanno da lunga pezza abbandonato Cesarea. La città è rimasta ai Franchi, pei quali sembra che l'abbiano essi conquistata. —

Arrigo da Carmandino rimase attonito a quell'annunzio inatteso.

— E non c'è dunque più un genovese?

— Neppur uno. Prima che io abbandonassi le mura di Acco, giungeva un mercante giudeo reduce dalla vostra conquista, ed ebbi da lui confermata la nuova che l'armata de' tuoi concittadini ripigliò il mare pochi giorni dopo la espugnazione della città. A quest'ora i tuoi compagni d'armi sono tutti alle loro case, e mediteranno già nuove imprese contro di noi. —

Arrigo trasse un profondo sospiro dal petto.

— E mi crederanno morto! — diss'egli. — Se almeno si trovasse una vela!

— Meglio ti converrà prendere il mare a Damietta; — notò affettuosamente Bahr Ibn. — Io stesso ti darò la nave che dovrà ricondurti alla tua gente. Vedi, del resto, io ora non potrei accompagnarti in Cesarea senza pericolo. Nè a te converrebbe andar solo, colle vie piene di ladroni. E poi, dimmi, t'incresce egli tanto di restare per qualche tempo col tuo servo? —

Arrigo gli strinse la mano in aria di ringraziamento.

[131]

— Non dubitare; — proseguì il Saracino; — mentre noi andiamo verso l'Egitto, uno de' miei tornerà in Acco e manderà in Cesarea il mercante giudeo, per avvisare i Franchi che tu sei vivo. Noi stessi, per via, se ci imbatteremo in qualche figlio d'Israele, manderemo tue nuove a Gerusalemme e al porto di Giaffa, nella speranza che qualcheduno le rechi in Occidente ai tuoi cari. Ma certo, — soggiunse Bahr Ibn, con piglio risoluto, che non ammetteva contrasti, — tu giungerai alla tua terra prima d'ogni altro messaggio. —

Arrigo da Carmandino alzò gli occhi al cielo, pregando Iddio che accogliesse l'augurio del suo ospite, del suo salvatore.

Quella medesima notte la cavalcata dello Sciarif ripartiva da Thaanach, prendendo la via di levante, verso i monti di Gelboà, varcati i quali doveva scendere nella valle di Zartan, guadare il Giordano, e di là, per la montagna di Galaad, andare a trovare la vecchia strada dei pellegrini maomettani, da Damasco alla Mecca.

Col nuovo reame cristiano di Gerusalemme piantato tra il monte Carmelo e quello di Giuda, era quell'unica strada sicura che rimanesse ai Saracini, tra l'Egitto e le coste di Sorìa, che ancora per poco dovevano restare in poter loro.

[132]

CAPITOLO X. Sulle tracce di Arrigo.

Il secondo re di Gerusalemme, che fu Baldovino I, già principe di Edessa, non si trovava certamente, nell'estate del 1102, sopra un letto di rose;

Già dello stato di quel nuovo regno ho fatto un brevissimo cenno ai lettori, ed ora, per l'intelligenza dei casi che rimangono da raccontare, debbo rifarmi da capo.

Goffredo di Buglione, espugnata Gerusalemme e rotti gli Egiziani sulla pianura di Ramnula, aveva appeso alla parete del Santo Sepolcro la bandiera e la spada di Afdhal. I baroni che lo avevano seguito in Palestina, se ne tornavano la più parte alle castella d'Occidente. Tra essi i due Roberti, l'uno, duca di Normandia, l'altro, conte di Fiandra. Abbracciati per l'ultima volta i suoi compagni di fatiche e di gloria, il pio Goffredo li aveva accomiatati, non ritenendo con sè, per difendere la Palestina, che l'italiano Tancredi, con trecento [133] uomini a cavallo e duemila fanti; in tutto tremila uomini o poco più, se si voglia considerare che ogni cavaliere armato in guerra aveva con sè quattro scudieri a cavallo, e questi cinque uomini si contavano per una lancia.

Il fratello Baldovino essendosi assicurato un picciolo regno in Edessa e Boemondo di Taranto un altro in Antiochia, Goffredo di Buglione aveva dovuto accettare la suprema autorità in Gerusalemme; ma non aveva già accettato le insegne e gli onori di re, ricusando, come dice la prefazione delle Assise di Gerusalemme, di porter corosne d'or là ou le roy des roys porta corosne d'épines, e contentandosi in quella vece del modesto titolo di barone e difensore del Santo Sepolcro.

Meno scrupoloso di lui si era addimostrato il Clero latino. Morto nell'ultima peste ad Antiochia il savio Ademaro, gli altri ecclesiastici erano saliti in orgoglio, usurpando le rendite e la giurisdizione del patriarca di Gerusalemme e accusando di scisma e d'eresia i Greci e i Cristiani d'Oriente; per modo che questi ultimi, Melchiti, Giacobiti, Nestoriani, i quali avevano adottato l'uso della lingua araba, oppressi dal ferreo giogo dei loro liberatori, si augurassero la tolleranza dei Califfi Fatimiti.

Damberto, arcivescovo di Pisa, condottiero d'una armata de' suoi concittadini in Sorìa, e molto addentro nei riposti disegni della Corte di Roma, era stato nominato senza contrasto capo temporale e spirituale della chiesa d'Oriente, e da lui Goffredo e Boemondo avevano ricevuto l'investitura dei nuovi possedimenti. Come se ciò non bastasse ancora, una quarta parte di Gerusalemme e d'Antiochia [134] furono assegnate alla Chiesa. Il modesto prelato riserbò a sè ogni diritto casuale sul rimanente, ogni qual volta, o Goffredo morisse privo di figli, o la conquista del Cairo, o di Damasco, gli fruttasse un regno più grande.

Morto Goffredo nel 1100, gli succedette nel regno il fratel Baldovino, sotto cui si vennero espugnando le città della costa, e tra le prime Cesarea, il cui emiro, nostra conoscenza, accusavasi comunemente di aver propinato il veleno a Goffredo in un canestro di frutte, mandategli in dono. Se ciò fosse vero non saprei dirvi. L'emiro El Heddim è fuggito in Acco, ed ha portato il suo segreto con sè.

Ora, se a Baldovino I le armate di Genova, di Venezia e di Pisa, davano gli aiuti necessari per espugnare le città forti della spiaggia, il difetto di stabili milizie terrestri gli toglieva pur troppo di mantenere saldamente le fatte conquiste. Bene erano state trapiantate in Palestina le leggi e le costumanze feudali; ma i sostegni del feudalismo mancavano. Il numero dei vassalli obbligati al servizio militare, nelle tre grandi baronie di Galilea, di Sidone e di Giaffa, superava di poco i seicento cavalieri. Le chiese e le città somministravano intorno a cinquemila sergenti, o fantaccini che si voglia dire. In tutto, le forze militari del nuovo regno ascendevano a undicimila uomini; troppo povera cosa per difendere un reame ancora seminato di rocche in balìa degli emiri, e insidiato a settentrione e a mezzogiorno da Turchi e Saracini.

Si istituirono allora i cavalieri del Tempio e gli ospedalieri di San Giovanni, strana miscela di monachismo e di guerra, che l'ardore di religione fondò [135] e che la ragione di Stato fu sollecita d'approvare. Arricchiti a breve andare per donazioni in gran copia (si conta che ottenessero fino a ventotto mila signorie), i cavalieri del Tempio ebbero modo di assoldare gran gente a piedi e a cavallo. Fu bene e fu male; bene perchè le difese di Palestina si accrebbero; male perchè la prosperità inorgoglì il sodalizio e lo trasse fuori di riga. Ma il bene e il male dei cavalieri del Tempio sono ugualmente fuori dalle ragioni e dai termini della mia storia modesta.

Come il re Baldovino accogliesse i Genovesi ho già detto, a proposito della seconda spedizione fatta da essi. Argomentate dunque come egli ricevesse la terza, nell'anno 1102 dalla fruttifera incarnazione. Constava essa di quaranta galee ed era comandata dai figliuoli dell'Embriaco; coi quali erano cavalieri genovesi in buon dato, parte già illustri per la prima impresa d'Antiochia e Gerusalemme e per la seconda di Assur e di Cesarea, parte nuovi all'appello della croce e infiammati dall'esempio degli altri. Tra i primi era il giovine Caffaro; tra i secondi un gentile scudiero, dai capegli biondi e dal volto angelico.

Che parea Gabriel che dicesse: ave.

Dopo avere preso terra a Giaffa, che era, come sapete, il porto più vicino a Gerusalemme e per conseguenza il suo vero scalo marittimo, i capi della spedizione, cioè a dire i due figli dell'Embriaco, Caffaro di Caschifellone e tutti i loro gentiluomini d'arrembata, si recarono alla città santa, [136] con numeroso corteo, per ossequiare il re Baldovino, amico di Genova, e per sciogliere il voto al Santo Sepolcro.

Colà erano stati già preceduti dal grido delle opere loro. Imperocchè, dovete sapere che i nostri crociati della terza spedizione erano vogliosi di fare come i loro predecessori, e così di passata, rasentando la costa di Sorìa, dal porto di Laodicea verso Tiro, avevano espugnato due città, Accaron e Gibelletto, non senza grande effusione di sangue.

Baldovino andò co' suoi gentiluomini ad incontrare la nobile comitiva fino alla porta di Ebron, detta dagli Arabi Bab el Hallil, e, avuta la lettera dei consoli del comune di Genova, mostrò di farne gran conto.

— Mi è caro, — diss'egli, — che i Genovesi mi amino, e dimostrerò con certe prove quanto io sono ad essi riconoscente. Ho notato quanto valgano in guerra, e vedo ora che i figli non tralignano punto dai padri. La mia amicizia vi è assicurata, messeri; faccia il buon sire Iddio che io possa meritar sempre la vostra. —

Fatte queste nobili parole, l'accorto Baldovino volle i gentiluomini genovesi ospiti suoi nella reggia e usò loro ogni maniera di cortesie. Molto promise ai capi della spedizione, segnatamente se lo avessero aiutato ancora a sottomettere altre città della costa. Tortosa anzitutto gli stava a cuore, per la sua vicinanza ad Antiochia, poi Tripoli e Biblo, detta allora Gibello, da ultimo Tolemaide, e infine quanti scali marittimi erano ancora in balìa degli Emiri, dal golfo di Laiazza fino a quel di Larissa. Egli, in compenso di tanti servigi, avrebbe dato in [137] perpetuo al comune di Genova una contrada nella santa città di Gerusalemme; ed una nello scalo di Giaffa, oltre la terza parte di tutte le entrate marittime dei porti di Assur, di Cesarea ed anco di Tolemaide, quando questa fosse presa dalle armi cristiane. E perchè Baldovino correva molto innanzi cogli ambiziosi disegni, prometteva anche la terza parte delle entrate marittime dell'Egitto, se mai gli accadesse di conquistare il Cairo (Babilonia, come dicevasi allora) mercè l'aiuto di Genova.

Del resto, entrando nella chiesa del Santo Sepolcro, il re Baldovino potè mostrare ai Genovesi qual fosse la sua gratitudine, e non di là da venire, additando loro il grand'arco dell'altar maggiore.

Caffaro di Caschifellone, il cavaliere letterato che ben conoscete, lesse la scritta latina che correva per tutta la curva dell'arco, segnata in lettere d'oro: «Præpotens Genuensium præsidium,» come a dire che la conquista del Santo Sepolcro non avesse più valida protezione che quella dei Genovesi.

Non è a dire come quella cortesia epigrafica piacesse ai figli di San Giorgio il valente. La lode consola, come quella che è un premio alle durate fatiche. Lo ha detto anche il poeta, mettendola di costa coll'amore di patria: Vincit amor patriæ, laudumque immensa cupido.

Baldovino, fatte le sue promesse al comune di Genova, volle mostrarsi liberale con tutti, e profferì partitamente ad ognuno l'opera sua.

— E voi, leggiadro scudiero? — diss'egli, volgendosi finalmente al biondo garzone che stava tutto umile in vista, a fianco di Ugo Embriaco. — Non posso io far nulla per voi?

[138]

— Sire, — rispose il giovine, vincendo a stento la sua commozione, — io vi chiederò una scorta per giungere fino al paese di Thaanach, che mi dicono essere a mezza via tra Gerusalemme e Tolemaide. A Cesarea, dove abbiamo toccato terra, mi hanno detto che in Thaanach si trova un ferito genovese.

— C'era diffatti, e voi me lo fate ricordare. Se non sapete il suo nome, potrò dirvelo io; è Arrigo da Carmandino, il valoroso Arrigo, il braccio destro di messere Guglielmo Embriaco.

— Sire, — disse il giovine, con voce da cui trapelava il turbamento dell'animo, — voi sapete....

— Lo so, e in modo abbastanza nuovo; — interruppe il re. — Me lo ha mandato a dire il fratello del soldano di Babilonia, mentre passava per la valle di Gerico, alle spalle del nostro piccolo reame. Egli stesso ha raccolto il vostro glorioso concittadino, gravemente ferito, entro le mura di Cesarea, e lo ha campato da morte. Ma che avete, mio bel giovane? Sareste per avventura un consanguineo di Arrigo?

— Sire, — entrò a dire sollecito Ugo Embriaco, che incominciava a pentirsi di aver consentito un travestimento, pericoloso anzi che no per una vezzosa fanciulla, — è appunto un consanguineo di Arrigo da Carmandino. Ma, di grazia, sire, se avete qualche nuova del nostro amico e compagno d'armi, che già piangevamo perduto, degnatevi di darcene ragguaglio, e aggiungerete un nuovo titolo alla nostra gratitudine. —

Baldovino raccontò allora tutto quello che aveva saputo dal messaggero dello Sciarif. E il suo racconto si accordava benissimo colle notizie che i [139] suoi uditori avevano raccolte dal conte di Cesarea, il quale era stato informato, come potete argomentare, dal mercante giudeo. Senonchè, il conte, a cui poco importavano quei cenni, ne aveva ritenuto la minima parte; laddove il re Baldovino diceva assai più, e in parte chetava le angoscie, in parte le accresceva.

— Benedetto sia l'infedele che ha ceduto ad un sentimento di cavalleresca pietà — disse Caffaro di Caschifellone. — Potessimo almeno sapere il suo nome!

— Bar Ibn; — rispose il re; — Bar Ibn è il fratello del soldano di Babilonia.

— Bar Ibn! — ripetè un vecchio guerriero genovese, a cui quel nome non giungea nuovo. — Non sarebbe egli il Saracino che sotto le mura di Antiochia....

— Lui per l'appunto; — interruppe Baldovino, a cui tornava in mente la vecchia disfida; — e rimase debitore alla generosità di Arrigo della sua vita e della sua libertà.

— Sire, — ripigliò il biondo scudiero, riconducendo a' suoi principii il discorso, — mi concederete voi dunque la scorta?

— Questo io farò, messere, e di buon grado; — rispose Baldovino; — ma non già per Thaanach, nella valle di Jesrael, che Arrigo da Carmandino ha lasciata da parecchi mesi.

— Ah! — esclamò lo scudiero, che si sentiva venir meno.

— Coraggio! — bisbigliò Caffaro all'orecchio del giovane. — Il nostro amico è vivo e sano; è questo che importa, e a cui bisogna por mente.

— Pur troppo! — pensò Gandolfo del Moro, che, [140] come potevate argomentare, era sempre il compagno inseparabile di messer Nicolao.

S'ha a dire per altro, a sua lode, che Gandolfo non avea più fatto cenno dell'amor suo, nè delle sue pretensioni alla mano della fanciulla degli Embriaci. Era tornato in Genova dalla impresa di Cesarea sperando che Arrigo fosse morto e che il tempo cancellasse l'immagine di lui nel cuore di Diana; ma la morte di Arrigo non si era potuta provare e il tempo non aveva saputo cancellar nulla. Che fare? Diana era stata in fil di vita; da ultimo aveva smarrita la ragione. Questo almeno pareva a lui, che non sapeva spiegarsi altrimenti gli atti e i propositi della bellissima tra le donne. Che dir poi di suo padre? Di suo padre che l'aveva secondata ne' suoi strani disegni? Che anche a lui avesse dato volta il cervello? Gandolfo del Moro non ci si raccapezzava, e già aveva rinunziato a cercarne l'intiero.

Però si era chiuso l'amor suo nel profondo dell'anima, lo aveva sigillato come la mistica fontana del Cantico de' Cantici. Che cosa avveniva là dentro dell'amor di Gandolfo? Si trasformava purificandosi, o si mutava in odio? L'una cosa e l'altra erano possibili del pari.

— Sì, Arrigo è vivo è sano; — proseguiva intanto il re Baldovino, che non poteva non udire le parole di Caffaro, altro amante senza speranza, ma di così nobil sentire che non lasciava dubitare un istante di lui. — Infatti, nel suo messaggio, che v'ho accennato poc'anzi, lo Sciarif mi aggiungeva com'egli andasse col suo prigioniero ed amico verso i confini d'Egitto.

[141]

— D'Egitto! — ripetè Ugo Embriaco, stupefatto. — E con quale intento?

— Questo non reputò necessario di dirmi; — rispose Baldovino; — ma questo ho potuto saper io, che debbo vigilare ogni giorno sulle cose del reame. La corona di Gerusalemme è grave a portare; — soggiunse il re, sospirando; — e Turchi da un lato ed Arabi dall'altro vogliono esser tenuti d'occhio senza posa. Ora sappiate, messeri, che Mostalì, il soldano di Babilonia, è morto da oltre un anno, lasciando erede un fanciullo. Bahr Ibn ebbe tardi l'annunzio di quella morte, lontano come era; ma certo, appena gli giunse la nuova, il suo primo pensiero dovette esser quello di tornare nel reame; donde lo teneva lontano la gelosia sospettosa del fratello, fomentata dalle calunnie del suo ambizioso visir. Almeno, è agevole di indovinarlo. E morto il fratello, poteva sperare Bahr Ibn che gli fosse più facile il ritorno? Io penso che no. Afdhal, che noi abbiamo sì fieramente colpito sul piano di Ramnula, è tuttavia potentissimo in Egitto. Del resto, — conchiuse Baldovino, — meglio così. Le discordie e le guerre loro dànno forza a noi, che coll'aiuto di nostro Signore muoveremo un giorno alla conquista di Babilonia. E nostro Signore mostrerà di volerci aiutare, se persuaderà ai nostri amici Genovesi di presentarsi colle loro navi invincibili alle foci del Nilo.

— Sire, io vi prego di credere che la cosa andrà in tutto secondo i vostri disegni; — rispose prontamente Ugo Embriaco. — Il Comune udrà la proposta e farà ogni poter suo per compiacervi. Ma torniamo, se non vi spiace, a Bahr Ibn. La sorte [142] del nostro Arrigo sta grandemente a cuore a tutti noi, come al console Guglielmo Embriaco, mio padre.

— Ve lo credo facilmente. Troppo era amato il Carmandino da messere Guglielmo, il mio glorioso amico. Torniamo dunque allo Sciarif. I miei esploratori lo hanno seguitato fino alla metà del suo viaggio, che non fu trionfale, siccome egli sperava. Costeggiato sulla via destra il lago d'Asfalto, penetrò nella valle di Siddim, cercando di far gente tra quelle nomadi tribù del paese di Moab. Di là si volse a ponente, per le falde della montagna degli Amoriti, e da Sefat, ove rimase qualche tempo spiando il momento opportuno, mosse direttamente verso l'istmo egiziano. Ma Afdhal doveva essere informato delle sue mosse, e lo arrestò a Kattiè, disperdendo le sue bande raccogliticcie, prima che egli potesse, come aveva creduto, ottenere l'aiuto dell'emiro di Gaza. Se debbo credere alle ultime notizie dei nostri emissari, egli si aggira co' suoi fidi sul pianoro di Aroer, non disperando ancora d'impadronirsi di Gaza, che per amor suo si rivolterebbe all'Emiro, e volgendo sempre gli occhi bramosi all'Egitto, dove i partigiani non gli mancherebbero, ma dove manca in quella vece il coraggio di ribellarsi al dominio di Afdhal. Gli Egiziani son vili. Vi ricordate di Ramnula? Afdhal guidava contro di noi un esercito numeroso come quello di Sennacherib, di cui parlano le Sacre Carte. Ma, salvo i tremila Etiopi, che tennero saldo colle loro mazze di ferro, tutte quelle migliaia di cavalieri e di fantaccini si dileguarono al primo urto delle lancie cristiane. Fiacchi soldati e schiavi abbrutiti, [143] non sanno voler fortemente; fanno voti per Bahr Ibn, e sopportano Afdhal.

— Sire, — domandò allora Gandolfo del Moro, — voi dicevate che lo Sciarif si trova ora....

— Nei dintorni di Aroer, a mezza strada fra il lago d'Asfalto e le mura di Gaza.

— E... — soggiunse timidamente Gandolfo, — a che distanza dalla costa?

— Quattro giornate, per un buon corridore.

— E come mai, così vicino al mare, il nostro Arrigo, non ha cercato di ritornarsene?

— Lo credete voi possibile? — disse Baldovino. — Gaza e Ascalona sono in balìa del nemico; e sebbene quegli Emiri si astengano gelosamente da ogni atto che possa dispiacere a noi, temendo da un giorno all'altro le nostre vendette, non credo che Arrigo da Carmandino possa fidarsi di costoro, per andare a chiedere ciò che essi del resto non potrebbero dargli, una nave per ritornarsene in patria. Ma questo, messeri, potrete far voi, che avete quaranta galere, armate di tutto punto.

— E lo faremo, per San Giorgio! — gridò Gandolfo del Moro.

Il biondo scudiero diede a Gandolfo del Moro un'occhiata, da cui trapelavano insieme diffidenza e stupore.

Gandolfo non vide quello sguardo; ma lo sentì, e fu pronto a soggiungere:

— Sì, Genovesi siamo anzi tutto, e il valore di Arrigo da Carmandino, è gloria della nostra terra. Quale de' suoi nemici, se pure egli potesse averne tra' suoi concittadini, non dimenticherebbe in questo giorno ogni privato rancore, non metterebbe volentieri [144] a repentaglio la propria vita, e la propria libertà, per rivendicare la sua? Sire, voi dite saviamente che Arrigo deve esser libero, e che soltanto il modo gli manca, per ritornar sano e salvo tra' suoi. Bahr Ibn è un infedele, ma è principe e cavaliere, e non può avere dimenticato il debito di gratitudine che lo lega al nostro valoroso compagno d'armi. Resta che noi gli offriamo il modo di uscire dal deserto, andando in traccia di lui, per condurlo alla spiaggia del mare, o dentro i confini del vostro reame.

— Ben dite, messere; — rispose il re Baldovino.

— Orbene, — ripigliò Gandolfo del Moro, fermandosi all'ultima delle fatte proposte, — il pianoro di Aroer non è già troppo distante dai confini di Giudea?

— Essi giungono finora alle falde della montagna di Giuda; — disse di rimando Baldovino. — Bèrseba a ponente e Arad a levante sono le ultime terre del regno.

— Ottimamente, adunque! La vostra liberalità ci fornisce una scorta sicura per muovere di là in traccia del nostro concittadino?

Il re stette alquanto sovra pensiero, quasi meditasse il miglior modo di appagare i suoi ospiti ed alleati, ma veramente perchè studiava la forma più acconcia a togliere l'asprezza d'un rifiuto.

— Troppo numerosa vorrebbe essere la scorta, messeri; — diss'egli finalmente; — e forse basterebbero a mala pena i cavalieri della baronìa di Giaffa. Finora, il deserto di Giuda, che si stende da Tell Arad fino alle spelonche di Engaddi, è infestato da troppo frequenti scorrerie di Arabi ladroni, [145] ed io non potrei consigliarvi nemmeno di avventurarvi con poca gente, mal pratica dei luoghi, oltre la valle di Ebron, nei dominii del nostro fedel barone Gerardo di Avennes.

— Lasciamo in disparte questo disegno; — rispose Gandolfo inchinandosi, con aria rassegnata; — messere Ugo Embriaco potrà muovere almeno coll'armata verso le acque di Gaza?

— Per far credere a quell'Emiro che noi vogliamo impadronirci della città, mentre poi troppo ci costerebbe il doverne custodire il possesso? — gridò Baldovino, a cui quest'altro disegno piaceva anche meno del primo. — Voi dimenticate, messer Gandolfo del Moro, che il nostro intento verso le contrade di mezzodì ha da essere quello di lasciare che i nostri nemici si indeboliscano da sè e non sospettino punto di noi; mentre invece dobbiamo volgere tutti i nostri sforzi a settentrione, dove la strada di Antiochia è meno sicura e dove abbiamo sempre negli occhi quel bruscolo molesto dell'isola di Arado, forte baluardo sul mare, che voi soli potrete ritogliere ai nemici di Cristo. —

Le ultime parole del re andavano più particolarmente rivolte ad Ugo Embriaco, il quale vi assentì con un cenno del capo. L'impresa di Arado, o Tortosa di Sorìa come diceasi in quel tempo, era già concertata tra i fratelli Embriaci e il re di Gerusalemme; nè Gandolfo del Moro poteva ignorarlo.

— E sia; — diss'egli, arrendendosi a quelle considerazioni di Baldovino; — ma poichè non dobbiamo neanche permettere che Arrigo da Carmandino, rimanga più oltre senza il conforto della patria, io stesso, io solo, se fa d'uopo, andrò in traccia [146] di lui. Una galea, tolta al numeroso e forte naviglio di Genova, non farà troppo mancamento alla espugnazione di Tortosa, ed io ho fede che giungerà ancora in tempo per cogliere la sua parte d'allori. Una sola galea, nelle acque di Gaza — soggiunse egli poscia — non darà sospetto all'Emiro di quella terra, segnatamente se voi, sire, vi degnerete di darmi lettere vostre per lui, nelle quali sia chiaramente espresso l'intento del nostro viaggio.

— Questo è assai meglio; — rispose il re; — e sarà mia cura che possiate giungere, provveduto d'ogni più calda raccomandazione, all'Emiro di Gaza. Questi infedeli, non potendoci combattere validamente, ci si mostrano ossequiosi oltre ogni dire, e noi riceviamo spesso da loro donativi ed omaggi. Donde la necessità di rispondere alle loro cortesie, fino a tanto non si possa fare altrimenti. A questo proposito, messer Gandolfo, poichè io vi vedo così determinato all'impresa, vi pregherò di aiutarmi in certi maneggi, pei quali si conviene un più lungo discorso tra noi. Questa guerra tra il fatimita Bahr Ibn e il visir di Babilonia giova mirabilmente ai miei fini, non lo dimenticate.

— Intendo, sire; — disse di rimando Gandolfo; — io farò un viaggio e due servizi, sarò capo di una spedizione nel deserto di Cades e negoziatore tra i nuovi Amaleciti.

— Per l'appunto; — rispose Baldovino sorridendo, — e fate assegnamento sulla mia gratitudine, come io sulla vostra prudenza.

— Sire, farò di mostrarmi alla prova meritevole della vostra fiducia; — replicò Gandolfo, inchinandosi profondamente.

[147]

Così ebbe fine quella conversazione, che il biondo scudiero aveva ascoltata con molta ansietà.

Gandolfo del Moro, in tutto quel tempo, aveva con ogni studio evitato gli sguardi indagatori dello scudiero.

Poco stante, il re Baldovino accomiatava i suoi ospiti, lasciando libertà ad ognuno di andare dove più gli piacesse, e non trattenendo che Gandolfo del Moro, per dargli le sue istruzioni. E questi, che si sentiva di punto in bianco cresciuto tant'alto nella stima de' suoi compagni, si affrettò a seguire nelle sue stanze il re Baldovino.

[148]

CAPITOLO XI. In cui si narra di un astore che si era fatto colomba.

Il biondo scudiero non aveva anche lasciato la sala d'udienza del re di Gerusalemme. Era rimasto là ritto, colle braccia prosciolte sui fianchi, cogli occhi fissi, ma senza guardar nulla davanti a sè, nell'atteggiamento di chi medita, cercando la soluzione d'un dubbio. Era bello, il giovine scudiero, d'una bellezza fin troppo soave e delicata per un uomo. La sua carnagione bianca si era leggermente abbronzata al sole di Palestina, e questo era bene, perchè altrimenti egli sarebbe apparso un po' scolorito. Ma il pallore del suo volto prendea lume da due occhi turchini così profondamente espressivi e da una doppia cascata di capegli biondi così fine e copiosa, che la sua vista non destava certamente pensieri di compassione amorevole, come accade sempre ai cuori bennati, quando s'incontrano in un bel viso che porti le traccie d'un interno dolore. L'armonica leggiadria delle forme, non potuta dissimulare [149] affatto da una lunga tunica a crespe i cui lembi gli giungevano fin oltre al ginocchio, tradiva una rara eleganza, che a Fidia, a Prassitele, e a tanti altri felici adoratori della bellezza, avrebbe strappato un grido di ammirazione e destato in cuore il desiderio che quel biondo garzone fosse da Giove mutato in donna, per offrire il modello al simulacro della più castamente bella tra le sue divine figliuole.

Senza esser Fidia, nè Prassitele, il giovine Caffaro doveva pensare alcun che di simigliante, perchè, essendosi a bello studio ritirato per l'ultimo, come fu sulla soglia, si volse ancora indietro a guardare il biondo e pensoso scudiero.

Il silenzio che si era fatto d'intorno a lui, scosse dalla sua meditazione quest'ultimo. Il suo sguardo, tornato d'improvviso alle cose circostanti, s'incontrò allora in quello di Caffaro.

— Signore di Caschifellone, — disse lo scudiero, facendo un passo verso di lui, — una parola, vi prego. —

Caffaro tremò tutto a quella inattesa chiamata. Sapete già che il suo cuore non era di smalto.

— Che cosa desiderate da me, Carmandino... poichè così volete esser chiamato? — soggiunse egli, con un mesto sorriso.

— E ben fate, messere; — ripigliò lo scudiero; — questo nome ha da essere il mio per elezione, quando non lo sia per altro modo. Ditemi, avete notato l'ardore insolito e nuovo di Gandolfo del Moro?

— Sì, e vi confesso, mad... Carmandino, — riprese subito, correggendosi, il giovine Caffaro, — vi confesso che mi ha colpito di stupore.

[150]

— Ah, voi pure?

— Certo, e non poteva essere altrimenti, vedendo lui, così freddo per solito, infiammarsi in quella maniera. Ma già, lo ha detto egli stesso, ogni privato rancore, ogni pena segreta, — e facendo questa giunta alla frase di Gandolfo, il giovine non potè rattenere un sospiro, — deve cessare davanti all'obbligo di soccorrere un prode concittadino, un gentil cavaliere.

— E voi credete, — disse, dopo un istante di pausa, il biondo garzone, — che quelle parole fossero sincere?

— Non so; — rispose Caffaro, sconcertato da quella domanda; — so bene che il mio cuore si è commosso a quelle parole, che rispondevano così giusto a ciò che credo e sento io medesimo. —

Lo scudiero chinò la fronte, confuso.

— So anche un'altra cosa; — soggiunse Caffaro a cui pareva di aver detto un po' troppo.

— Quale? — dimandò lo scudiero, levando le ciglia e interrogando coi suoi grandi occhi azzurri il volto amico di Caffaro.

— Che io pure andrò con Gandolfo del Moro; — rispose questi, con accento deliberato. — Arrigo da Carmandino era il mio compagno d'armi, il più caro che io m'avessi. Insieme, sulla medesima scala siamo saliti, abbiamo afferrato il ciglio delle mura di Cesarea. Il destino ha voluto che io giungessi alla saracinesca, in quel punto che essa si chiudeva dietro a lui; ma certo, se l'obbligo di volgermi indietro, per chiamare i compagni, non mi avesse trattenuto un istante, io sarei penetrato nella seconda cinta con lui, ed avrei corso la sua medesima [151] sorte. Egli è vivo e sano, coll'aiuto del cielo ed io debbo essere dei primi a vederlo. —

Lo scudiero era rimasto intento, palpitante, ad ascoltarlo. Ma, come il giovine Caffaro ebbe finito di parlare, egli si avvicinò, gli prese ambe le mani e le strinse tra le sue, con effusione di affetto fraterno.

— Non sarete solo, messere! — gli disse poscia, mentre Caffaro, fortemente turbato, rispondeva a mala pena a quella stretta amichevole.

— Che dite voi, Carmandino? — chiese questi, come si fu riavuto.

Ma lo scudiero non si pigliò cura di rispondergli direttamente.

— Messere, — riprese egli, — vorrei domandarvi una grazia.

— Quale? Parlate, comandate al vostro servitore, al vostro amico devoto.

— Desidero di avere un colloquio... Non indovinate con chi?

— Non saprei. Porse con Gandolfo del Moro?

— Con lui. Vedete, messere; anche voi correte col pensiero a quel nome; anche voi sospettate, al pari di me. —

Caffaro non poteva rispondere di no, perchè infatti, anche a lui aveva fatto senso quel mutamento improvviso del rivale di Arrigo. Perciò, scambio di rispondere, pensò di sviare il discorso.

— Volete parlare con lui subito?

— Appena egli sarà uscito dalle stanze del re.

— Dove?

— Io vado là, — rispose il biondo garzone, con accento impresso di solenne mestizia — a pregare [152] sul Calvario, ai piedi del santo sepolcro di Cristo. Vi aspetterò.

— Sta bene, — disse Caffaro inchinandosi, — io rimango in vedetta. —

Lo scudiero si allontanò, dopo avergli fatto colla sua bella mano un cenno d'amorevole addio.

Rimasto solo, il giovane signore di Caschifellone pensò alla novità, o, se meglio vi torna, alla gravità del suo caso. Amava di schietta e salda amicizia il suo concittadino Arrigo, e si era invaghito, senza volerlo, sì, ma perdutamente eziandio, della bella Diana. Come se un simil contrasto non bastasse ancora alla infelicità di un giovinotto, anche più maturo e più sperimentato di lui, Caffaro di Caschifellone era diventato l'uomo in cui la fanciulla degli Embriaci fidasse di più, non esclusi i suoi fratelli medesimi. Convenite che lo stato di Caffaro non era il più lieto di tutti, nè, per conseguenza, il più invidiabile.

Che cosa avrebbe egli fatto? Come sarebbe uscito dal ronco? Se Diana, ritrovato il suo Arrigo, fosse andata sposa a lui, il disgraziato giovane avrebbe chinato la testa alla ferrea necessità, ma non disegnava certamente di rimanere a Genova, spettatore della felicità di Arrigo, del suo ottimo amico. Se Arrigo non fosse tornato tra i suoi, e Diana avesse dovuto prendere il velo, come infatti aveva accennato di voler fare, il nostro Caffaro, disgraziato del pari, non avrebbe già chinato la testa, l'avrebbe perduta senz'altro. E questo si nota per dimostrarvi che, comunque l'andasse, il nostro povero amico si vedeva a mal partito. E guardate disdetta! Gli toccava anche di peggio; gli toccava di essere il confidente, [153] l'aiuto, il protettore di amori che gli passavano il cuore.

I miei lettori lo avranno osservato qualche volta nella vita; ci sono degli uomini a cui vanno di giusta ragione tutti i dolori e tutti i sacrifizi, come rondini al nido. Nessuno si avvede che soffrono; tutti si volgono a loro per consiglio o soccorso e non c'è caso che si avvedano di tormentarli. Eppure, tanto è vero che ogni spino ha il suo fiore, anche qui c'è la sua parte di bene. A quella incudine così assiduamente martellata si temprano i forti caratteri, che poscia domineranno il tempo loro, se la fortuna si ricorda una volta di essi, o alla peggio non ne saranno dominati, se avviene che la cieca dea passi davanti a loro, senza la limosina d'un sorriso. Nell'un caso o nell'altro, costoro sono uomini davvero; e chi sa? forse c'è un libro in cui si tien conto di ciò. E se pure non ci fosse, che importerebbe? La solitaria libertà dell'anima non è essa il primo dei beni e la ricompensa più certa?

Questa è filosofia, e Caffaro di Caschifellone non era anche giunto allo stadio filosofico delle sue mestizie. Per fortuna, ad interrompergli il filo delle tristi meditazioni, uscì Gandolfo dalle stanze del re. Caffaro gli andò incontro, non senza un tal poco di titubanza, bene argomentando che il secondo colloquio non gli avrebbe fatto piacere come il primo.

Gandolfo non lo amava di certo. La rivalità in amore, come in ogni altra ragione di cose, non ha mestieri di vederci chiaro; essa è naturalmente istintiva.

Eppure, Gandolfo del Moro, vedendo il giovane che si spiccava dal suo posto, nel vano d'un finestra, [154] per muovergli incontro, andò sorridendo verso di lui.

— Messere, — diss'egli, — mi aspettavate? Che volete da me?

— Due cose; — rispose Caffaro, niente raffidato da quel sorriso, che poteva essere simulato; — una v'ho a dire per conto mio, l'altra per conto d'una persona che preme ugualmente a noi tutti.

— Sta bene; — disse Gandolfo, inchinandosi; — cominciamo dalla....

— Dalla prima, — interruppe Caffaro, temendo che l'altro fosse per lasciarsi sfuggire di bocca mezza scortesia.

— Stavo per dirlo; — soggiunse Gandolfo del Moro.

— Io verrò con voi alla spedizione di Gaza; — ripigliò il signore di Caschifellone.

E buttata fuori la sua proposta, stette ad aspettare ansiosamente l'effetto che avrebbe fatto sul suo interlocutore.

— Grazie! — rispose brevemente Gandolfo, senza punto scomporsi.

Caffaro rimase sconcertato. Si aspettava una cera scontenta, e vedeva in quella vece un amabile sorriso.

— E non basta; — soggiunse egli, diffidando ancora. — Vi offro la mia galèa, per tentare l'impresa con voi. La Caffara ha una ciurma numerosa e un palamento di trenta remi per lato.

— Non solo, — interruppe Gandolfo, — ma è anche miglior veliera della Mora.

— Non osavo dir questo; — rispose Caffaro, ringraziando con un cenno del capo.

[155]

— Eh, non c'è niente di male a riconoscere la verità. La Mora non l'ho fatta io; l'ho comperata tal quale da Ingo di Flessa. Ha l'arrembata troppo pesante, che la fa beccheggiare più del consueto, e con mare un po' grosso c'è sempre da temere per l'alberatura. Sono difetti che ho riscontrato a mie spese; — soggiunse Gandolfo del Moro, con un accento di melanconia che non pareva tutta da padron di galèa; — tanto che in ogni impresa giungo sempre per l'ultimo. —

La considerazione di messer Gandolfo veniva così naturalmente dal contesto del discorso, che Caffaro, anche rilevando l'allusione, la trovò affatto casuale.

— Siamo dunque intesi?

— Sì, messere, col permesso di Ugo Embriaco, che abbiamo tutti riconosciuto nostro capitano, come una continuazione dell'autorità e della fortuna del glorioso Testa di maglio. —

Caffaro andava di meraviglia in meraviglia.

— Posso dunque venir difilato alla seconda parte; — diss'egli.

— Come vi piace.

— Lo scudiero desidera parlarvi.

— Lei? — chiese Gandolfo, non potendo reprimere un moto di stupore.

— Sì; — rispose Caffaro; — non so veramente che cosa abbia a dirvi, ma mi ha raccomandato di avvisarvi subito, appena foste uscito dalle stanze del re, e voi vedete che mi sono piantato in vedetta. Lo scudiero Carmandino, poichè questo è il suo nome, è andato poc'anzi verso la chiesa del Santo Sepolcro e ci aspetta colà.

[156]

— Andremo insieme? — chiese Gandolfo che aveva notato l'intenzione duale della particella usata da Caffaro.

— Sì, se non vi dispiace; — rispose questi urbanamente.

— Anzi, l'ho caro; — proruppe Gandolfo, infiammandosi ad un tratto. — Per qualunque cosa al mondo, non avrei amato andar solo.

— Perchè? — dimandò Caffaro, inarcando le ciglia a quella uscita inattesa.

— Messere; — disse quell'altro, senza risponder subito alla domanda; — voi non avete amicizia per me. —

Caffaro rimase muto, chè veramente non avrebbe saputo negare.

— E mi duole; — soggiunse Gandolfo.

— Vi duole? — ripetè Caffaro, cercando di prender tempo. — Ma, anzitutto, donde lo argomentate?

— Da molti indizi, e, per non dirne che uno, dalla meraviglia con cui mi avete chiesto perchè io non amassi andar solo, a vedere.... lo scudiero. Se aveste amicizia per me, — incalzò Gandolfo del Moro, — intendereste il mio cuore e mi vedreste infelice... oh, sì, molto, senza fine infelice. Ora sono tranquillo, mi sono vinto, non dubitate; ma la prova è stata dura, e non poteva essere altrimenti. Aver veduta una volta la fanciulla degli Embriaci e non essersi innamorato perdutamente di lei, era impossibile, non solo a me, ma ad ogni uomo di cuore. —

Caffaro pensò che Gandolfo ragionava diritto. E senza volerlo, mise fuori un sospiro.

[157]

— Voi m'intendete ora, non è egli vero? — chiese Gandolfo.

— Sì, messere, v'intendo; — rispose Caffaro, che temeva di essersi tradito e voleva mettere in chiaro ogni cosa. — Ma il vincersi era necessario per voi, come lo sarebbe stato per ogni gentiluomo, anzi, userò la vostra medesima frase, per ogni uomo di cuore. Farei torto a madonna Diana se dicessi, o pensassi, che vi sono altre donne come lei. Non ce n'è una, mi capite? non ce n'è una, messere Gandolfo del Moro, e sono io il primo a riconoscerlo. Ma è d'una donna simile il non destare che nobili e santi pensieri nel cuore d'un uomo, e il miglior modo d'amarla, dirò meglio, d'averla amata, è quello di operare nobilmente, anche a patto di dover soffocare nel petto l'amore che si è sentito per lei.

— Beato chi lo ha potuto far subito, — esclamò Gandolfo del Moro, coll'aria di un uomo che parlasse sui generali, o solamente per contrapposto al suo caso particolare. — Quanto a me, ho durato, ve lo confesso, una battaglia più lunga; il cuore ha dato fiamme, ha gittato molta scoria, prima che vi si affinasse il prezioso metallo. Ma basti di ciò; son vincitore oramai, son vincitore, e ve ne faccia testimonianza l'offerta di quest'oggi. Godo che voi siate all'impresa con me, perchè, dopo la stima di Arrigo, non ce n'è altra che mi stia a cuore come la vostra. Ma perchè sono stato debole, vedete, perchè ho combattuto così fieramente tanti anni, mi duole oggi di dovermi presentare a quel ritrovo che mi avete accennato. Avrei voluto partire senza vedere.... nessuno; ritornare con Arrigo, [158] con Arrigo libero e sano, per dire: Ecco qua, ho messo a repentaglio la mia vita coi ladroni e colle fiere del deserto; ma l'ho trovato, l'ho condotto alla sua fidanzata;» ciò detto, lasciarli ambedue felici e sparire.

Gandolfo parlava con tanto ardore, che Caffaro non ebbe più modo o ragione di dubitare.

— Voi avete un animo grande, Gandolfo del Moro; — diss'egli, stringendogli la mano. — Il viaggio che faremo insieme alla ricerca di Arrigo Carmandino avrà gioie per me, che non avrei osato sperare. —

Uscirono ambidue taciturni dalla porta verso maestro, detta fin dai tempi d'Isaia la porta del campo del gualchieraio, e si avviarono per l'erta del Calvario.

Calvario in latino, Gulgultha in antico ebraico, corrispondono al Golgota della Vulgata, e ricordano, nella loro etimologia, che il monte aveva derivato il suo nome dalla somiglianza della sua cima con un teschio, o cranio umano denudato di capegli. Il Golgota non era per anche nel centro della città, come lo si vede nei giorni nostri, ma non si vedeva già più quel colmo tondeggiante di rupi, che gli aveva meritato il suo nome.

Fin dal secondo secolo dell'êra volgare, Adriano aveva edificato sul Golgota un tempio a Venere, e i pellegrini, che in folla accorrevano nei primi secoli del Cristianesimo a visitare il luogo del martirio di Cristo, si rammaricavano di scorgere i simulacri pagani sulle cime del Calvario e del Moria, dove anticamente sorgeva il tempio di Salomone. Elena, la madre di Costantino, fece murare sul [159] Golgota la prima chiesa cristiana, e il culto del santo Sepolcro ebbe principio da lei. Arso nel settimo secolo, il magnifico tempio fu riedificato, e dal famoso califfo di Bagdad, Arun al Rascid, l'eroe delle Mille e una notte, donato in giurisdizione al suo amico Carlo Magno. Ma il terribile Hakem, terzo califfo d'Egitto, non rispettò la vecchia politica dell'Abasside, e fece radere al suolo la chiesa. Più mite di lui, il suo successore Daher, ordinò che fosse riedificata, e Abu Tamin la vide condotta a termine, l'anno 1048, ma nelle proporzioni d'una meschina cappella.

Durava in quella forma, quando sopraggiunsero i Crociati, che non indugiarono ad innalzare un tempio sontuoso, in quella forma che oggi ancora si vede, quantunque l'incendio del 1808 abbia resi necessari alcuni restauri, anche nella parte esteriore.

Al tempo di cui narro, il nuovo tempio non era anche sorto, e la meschina cappella di Daher, il califfo fatimita, era tutto quello che i devoti cristiani potessero avere di meglio, per confortarvi la loro pietà. Per altro, in fondo al piccolo tempio, si vedeva già, incavato nel sasso, il forame sferico nel quale era stata piantata la croce del Nazzareno; a destra e a manca del quale, e formanti un triangolo con esso, i buchi per le croci minori dei due ladroni; dentro al triangolo la fenditura del sasso, cagionata dal tremuoto di cui raccontano gli Evangelii. Nel mezzo del tempio era poi la tomba di Cristo, antro ristretto, scavato nel macigno, secondo l'antico costume dei popoli orientali. Non mancava la cripta, nelle viscere del monte, colla sua tomba di porfido, che dicevasi contenere le ceneri del pontefice [160] Melchisedec, e coll'altra assai più modesta, ma altrettanto più autentica, di Goffredo di Buglione.

Il biondo scudiero, inginocchiato in un angolo, pregava. Davanti a lui, i frati del santuario, gli avevano detto essere il luogo in cui l'angelo aveva annunziato alle Marie la risurrezione del loro dolce Maestro. Ed egli, con lagrime che gli erano spremute dal cuore, supplicava quell'angelo, suo fratello all'aspetto, che si degnasse di guidare Arrigo, di restituirlo ai suoi cari, come l'angelo Raffaele aveva ricondotto l'adolescente Tobia.

Il rumore dei passi e lo strepito delle armature tolse dal suo raccoglimento il giovane scudiero. Si volse allora, e, veduti i due che aspettava, si alzò per muovere incontro a loro.

— Grazie, messere; — diss'egli a Gandolfo; — avevo qualche cosa a dirvi, per cui bisognava un luogo più solitario e un'ora più tranquilla. —

Gandolfo del Moro s'inchinò, ma senza rispondere parola. Egli era profondamente turbato.

Lo scudiero uscì dalla cappella, per una postierla che era accanto all'altare, e i due cavalieri lo seguirono all'aperto.

Il dorso del monte era scabroso e frastagliato; qua e là si vedevano larghe fenditure nel masso, non intieramente colmate dalla polvere e dal terriccio di undici secoli, poco lunge, muti testimoni dell'accorgimento romano, stavano i ruderi d'un tempio a Venere, e tra gli architravi caduti, i capitelli infranti, le colonne rovesciate, crescevano le eriche e i tamarischi, inconsapevoli eleganze che la natura frammette alle rovine per temperarne l'orrore.

[161]

Colà, presso l'attico di una colonna, che era rimasta in piedi e gettava un po' d'ombra sul campo, lo scudiero si fermò, e Gandolfo che lo seguiva, del pari.

Caffaro aveva capito che la parte essenziale della conversazione doveva restringersi a quei due, e, quantunque fosse invitato egli pure ad assistervi, si trattenne alcuni passi indietro, facendo le viste di osservare una iscrizione latina, che correva lungo un pezzo di architrave, e di cogliere un ramo di quelle eriche tutte gremite di fiori.

Lo scudiero non parve badare a quella fermata. Egli del resto poteva vedere, come spesso accade di vedere senza bisogno di guardare, il suo amico Caffaro di Caschifellone, intento a curiosare fra le rovine, a dieci passi dai suoi compagni. E si rivolse intanto a Gandolfo del Moro, che stava cogli occhi bassi davanti a lui.

— Guardatemi in viso, messer Gandolfo; — diss'egli, con accento risoluto.

Gandolfo alzò gli occhi smarriti, tentando di fissarli negli occhi del biondo scudiero; occhi azzurri, limpidi e scrutatori, che gli parvero quelli dell'angelo che indaga e misura le colpe degli uomini.

— Voi dunque, — proseguì lo scudiero, — andate in traccia di Arrigo da Carmandino? —

— Sì, — rispose timidamente Gandolfo.

— Perchè? Perchè voi e non altri? —

Gandolfo si armò di coraggio. Quell'incalzar di domande voleva una pronta e adeguata risposta.

— Per essergli utile; — diss'egli di rimando. — Perchè nessun'altri ci ha pensato, od ha mostrato [162] di pensarvi. E infine, — aggiunse, con un sospiro, — perchè sento di dover espiare qualche cosa. —

Lo scudiero abbassò gli occhi a sua volta.

— Sì, — continuò Gandolfo del Moro, animandosi, — espio il delitto di aver osato amare una donna che non poteva esser mia. Eppure, avrei fatto volentieri ogni sacrifizio, tentata di gran cuore ogni impresa più temeraria, per meritare l'amor suo. Disdegnato da lei, son divenuto il più infelice uomo che sia sulla terra; sono stato sul punto di diventare altresì il più malvagio.

— Vile amore, se a tale può condurre un uomo! — esclamò lo scudiero. — Dovevate ricordare, messer Gandolfo, che quella donna aveva conosciuto Arrigo da lunga pezza e non poteva esser d'altri. Quale animo bennato avrebbe potuto farle una colpa di ciò?

— Oh, non aggiungete più altro, lo so; — interruppe Gandolfo; — quello che voi mi dite ora, io me lo son ripetuto le migliaia di volte, nelle mie veglie disperate. Se almeno ottenessi il suo perdono! pensai. Se ella potesse cessare di odiarmi! Questo il fine dei miei tristi amori; il buon angelo ha vinto. Ma perchè nulla mi ritiene alla vita, perchè il meglio ch'io possa fare è di morire, utile almeno ad altri, io sono l'unico forse tra tutti i vostri compagni che possa tentare l'impresa di giungere per la via del deserto, ad Arrigo, e di ricondurlo tra' suoi.

— Non sarete solo, — disse lo scudiero. — Caffaro di Caschifellone vi accompagnerà. Forse a quest'ora lo avrete già saputo dalle sue labbra. E anch'io sarò a parte del vostro tentativo. —

[163]

Un lampo balenò dagli occhi di Gandolfo del Moro; ma non fu altro che un lampo. Ed egli stesso, vedendo lo sguardo indagatore dello scudiero, si affrettò a mostrargli intieramente l'animo suo.

— Voi dubitate di me! — diss'egli, con accento improntato d'amarezza.

— No, messere, — rispose quell'altro, — vi mostro come sappia anche correre animosamente un pericolo chi potrebbe oggi di bel nuovo amare la vita.

— Ma pensate che il cammino è difficile; che forse non riusciremo....

— Ho pensato.

— E che cosa diranno i vostri d'una risoluzione così temeraria?

— Diranno che appartengo ad Arrigo da Carmandino, e che ho il diritto di morir con lui. Dove correte un pericolo, voi e il signore di Caschifellone, non potrò correrne anch'io?

— Sia fatto il voler vostro; — disse Gandolfo, chinando la fronte.

Il biondo scudiero si mosse, e andò su d'un rialto del masso, donde si scorgeva la valle di Giosafat e l'erta d'un monte, di là dal torrente di Cedron.

— Vedete laggiù quegli olivi? — diss'egli a Gandolfo.

— Li vedo; — rispose questi, mentre collo sguardo interrogava a sua volta il suo interlocutore.

— Laggiù, — prosegui lo scudiero, con accento solenne, — alle falde di quel monte, il redentore degli uomini fu tradito ai suoi nemici, da un uomo, che appunto allora lo baciava nel viso.

[164]

Gandolfo del Moro diede un sobbalzo.

— Che volete voi dire? — esclamò.

— Che mi fido di voi; — rispose lo scudiero. — Se voi mentiste, se voi covaste il tradimento nell'anima, qui, sulla vetta del Calvario, davanti al Getsemani, ove Cristo fu preso, non lunge dal campo dal sangue, ove Giuda vendicò da sè stesso il cielo oltraggiato, neanche tutta l'acqua del sacro Giordano, neanche il pianto di tutti gli angioli del cielo, basterebbe a riscattare il vostro tradimento. —

A quelle parole dello scudiero, Gandolfo sentì come una stretta al cuore; ma fece il viso dell'uomo che si sentiva sicuro di sè e non temeva la maledizione.

Caffaro di Caschifellone, a cui quelle parole percossero l'orecchio, pensò al brutto senso che dovevano fare nell'animo di Gandolfo del Moro; ma non potè altrimenti trattenersi dal mormorare un «bene!» che gli sgorgava proprio dal cuore.

[165]

CAPITOLO XII. La via del deserto.

Molti dei miei lettori benevoli non conosceranno la città di Gaza che per un fatto, strano in verità, ma non sufficiente a dare un adeguato concetto della sua importanza topografica, voglio dire l'impresa di Sansone, che, colto una notte là dentro dai Filistei, i quali avevano chiuse le porte, diè di piglio alle imposte, le sollevò, insieme colla sbarra e le portò in ispalla, come se fossero il più lieve fascio di legna, sulla vetta del monte che è dirimpetto ad Ebron.

Gaza, la forte (poichè questo significa il suo nome nella lingua aramea), fu una delle più ragguardevoli città di Palestina, sul confine meridionale dei Cananei. Formava parte della tribù di Giuda, ma era caduta in potere de' Filistei, che la tennero fino ai tempi di Ezechia. La città era lontana venti stadii (oggi si direbbe tremila seicento metri) dalla spiaggia del mare, edificata sopra una eminenza [166] di terreno e rafforzata da un muro massiccio, che sfidò lunga pezza le armi fortunate e i poderosi ingegni di Alessandro il Macedone. È vero bensì che Gaza la forte pagò i suoi quattro mesi di resistenza con una carneficina universale.

Tolomeo l'ebbe senza contrasto, ma dopo aver vinto Demetrio in battaglia, sotto le sue mura, uccidendogli cinquemila uomini e facendone prigioni ottomila. Antioco il Grande la distrusse, perchè stata fedele a Tolomeo Filopatore. Risorse poco dopo, e al tempo dei Maccabei resisteva virilmente all'assedio postole da Gionatan. Simone III, più fortunato, se ne impadronì, mise a fil di spada gli abitanti idolatri e ne rifece una città giudea.

Distrutta una seconda volta, e da Alessandro Janneo, che l'ebbe a tradimento dopo dodici mesi d'assedio e le uccise in un giorno di vendetta tutti i suoi cinquecento senatori, fu riedificata da Gabinio, proconsole romano nella Siria, e da Augusto donata, come una città greca, ad Erode. A vicenda cananea, giudea, filistea, greca, romana, Gaza la forte diventò mussulmana come tante altre sue sorelle di Palestina, ma restò fiera come prima per le sue mura saldamente girate intorno al colle, e per la sua Maiuma, o porto di mare, importantissimo scalo, quantunque di assai difficile approdo.

Al tempo di cui vi narro, la teneva l'emiro Mohammed el Kaddur, pel califfo fatimita d'Egitto, o più veramente pel suo visir Afdhal, e più ancora per sè, destreggiandosi come poteva tra i maneggi di Baldovino, i comandi di Afdhal e le tentazioni di Bahr Ibn.

L'arrivo della Caffara nella Maiuma di Gaza aveva [167] insospettito l'emiro, che si recò immantinente verso la spiaggia con un fitto stuolo de' suoi cavalieri. Ma veduto di che si trattasse e letto il cortese messaggio di Baldovino, fu lieto che si offrisse una occasione così poco costosa di mostrare la sua benevolenza al re di Gerusalemme; e, fatte le più amorevoli accoglienze ai viaggiatori, diede loro una scorta, per andare, come disegnavano di fare, fino al deserto di Cades.

Colà infatti dicevano tutti che si trovasse Bahr Ibn, coi suoi seguaci, in troppo scarso numero per tentare da capo una spedizione in Egitto.

Lo scudiero, come potete argomentare, voleva seguire i suoi compagni di viaggio nella malagevole impresa. Caffaro di Caschifellone non avrebbe amato che la giovinezza di lui si cimentasse in quella fatica, e, peggio ancora, nei pericoli ond'era circondata. Almeno si fosse saputo con certezza in qual luogo era, e se stabilmente piantato, il protettore di Arrigo!

Nel dubbio, e perchè l'emiro Mohammed assicurava esser libera dai predoni tutta la pianura di Sèfela, fu convenuto che la carovana sarebbe andata fino al pozzo di Rehobot, donde poi solamente alcuni più destri e animosi si sarebbero spinti innanzi, verso le gole di Cades.

La sera stessa di quel giorno che i nostri viaggiatori erano entrati in Gaza, la carovana si pose in cammino verso il deserto.

Abd el Rhaman, il krebir, o condottiero della carovana, aveva detto con quell'accento pacato, quasi solenne, così comune tra gli Arabi:

— Se piace a Dio, o Franchi, io vi condurrò. Le [168] vie, le conosco, così pure le sorgenti, e non vi accadrà di patire la sete. Infine, io rispondo d'ogni cosa, salvo degli eventi di Dio. —

Le carovane, queste armate del deserto (sapete già che il cammello ne è detto poeticamente la nave), non si avventurano mai senza una guida. Il deserto è un mare di sabbia, ed ha, come l'altro, i suoi marosi, le sue tempeste, i suoi frangenti. Ogni carovana obbedisce ciecamente al suo condottiero, che è sempre un uomo di provata onestà e di accortezza non comune. Il krebir dirige il suo corso guardando alle stelle; conosce per antica esperienza le vie, i pozzi, i pascoli, i luoghi pericolosi e il modo di evitarli; i capi tra cui si dovrà passare, per giungere alla meta; l'igiene a cui bisognerà conformarsi, i rimedii contro le malattie, le fratture, il morso dei serpenti e la puntura degli scorpioni. In quelle vaste solitudini, ove nulla sembra indicarvi il cammino, dove le sabbie sconvolte non serbano la traccia del viaggiatore, il krebir ha sempre mille partiti per trovar la sua via. Di nottetempo, se il cielo è fosco, solamente osservando una manata di erba o di terriccio sabbioso, che tasta col dito, o fiuta, od anche accosta alla lingua, egli indovina il luogo senza dare d'un quarto di miglio più a destra o a mancina.

Abd el Rhaman era uno strano vecchio. Il suo sguardo severo ma buono inspirava reverenza e la sua parola toccava il cuore. Ma se sotto la tenda la sua lingua era snodata e franca, quando era in cammino parlava breve, per via di sentenze, e le sue labbra non accennavano mai al sorriso. Era poi un pozzo di proverbi, una miniera di citazioni del Corano.

[169]

— Il Profeta ha detto, «non partite che in giovedì, e sempre accompagnati. Soli, un demone vi segue; in due, avete due demoni che vi tentano; in tre, siete custoditi contro i cattivi pensieri. Ma quando siete in tre, sceglietevi un capo.» —

Il capo della spedizione era Gandolfo del Moro. Caffaro aveva bensì fatto il proponimento di vigilare per tutti e su tutto; ma egli non poteva negare quella prova di fiducia a Gandolfo, che era stato il primo a disegnare l'impresa, e che, dopo tutto, si diportava severamente, come uomo che, entrato sulla buona via, mostrava la ferma risoluzione di perseverarvi.

Venti cammelli, coi loro cammellieri, formavano la scorta. Ogni cammello portava una misura di cuscussù e due misure di datteri, un otre di burro e due d'acqua, insieme con una secchia di cuoio per abbeverare il suo laborioso portatore, e cento altre cose necessarie del pari ad ogni lungo viaggio, dai grossi aghi per cucire i calzari, fino all'esca per accendere il fuoco. E siccome per un viaggio di quella fatta non bastava aver provveduto alla fame e alla sete, tutti gli uomini della scorta procedevano armati di scimitarra e di lancia. Caffaro aveva inoltre levato dalla galèa un drappello di arcadori genovesi, che dovevano essere il nerbo della difesa in ogni occorrenza.

Il pericolo di brutto incontro non era infatti lontano; niente più lontano, in quel deserto della Palestina, di quanto potesse esserlo in que' tempi ogni solitaria campagna, o strada maestra della Cristianità.

A mezza giornata di cammino dalle mura di Gaza [170] regnava la solitudine. Tutta la contrada arida e brulla; qua e là soltanto collinette basse e petrose, coronate da pochi ciuffi di lentisco, rompevano la triste uniformità della pianura di sabbia.

Gli auspicii del viaggio erano stati buoni per gli uomini della scorta. Gli Arabi pongono molta attenzione a cotesto, ed hanno superstizioni in buon dato.

«Non prendere mai cammino (dicono essi) se la prima persona in cui t'imbatti nell'uscire di casa è una donna brutta, o vecchia, od altrimenti una schiava, se vedi un corvo che vola soletto e come smarrito per aria, se due uomini altercano sulla via, e l'un d'essi grida al compagno: Dio maledica tuo padre; perchè, quand'anco tu fossi straniero a costoro, la maledizione potrebbe ricadere sul tuo capo.

«Ma se i tuoi occhi sono rallegrati dalla vista di una giovine donna, o d'un bel cavaliere, o di un bel cavallo, se due corvi, il felice e la felice, volano insieme davanti a te; se augurii, parole o nomi di fausto presagio risuonano al tuo orecchio, prendi la via animoso; Dio, che veglia sopra i suoi servitori, li avverte sempre con un presagio, quando si mettono in cammino.»

Tuttavia, il krebir non si teneva dispensato dal seguire i dettami della prudenza. Al giungere della notte rizzava la sua tenda di cuoio sul capo dei Cristiani confidati alla sua tutela; disponeva intorno a essa i cavalli e i cammelli, e in giro a questi i suoi cammellieri, che dormivano ravvolti nei loro mantelli e coperte, listate di bianco e di nero.

Due guardiani, destinati a vicenda, vegliavano per tutti alla sicurezza del campo. Ed anche su loro [171] vegliava Abd el Rhaman. Si sarebbe potuto dire che il vecchio krebir usasse dormire da un occhio solo. Infatti, d'ora in ora, si udiva la sua voce.

— Guardie, dormite?

— Vegliamo; — rispondevano i custodi.

— Iddio benedica il nostro viaggio; — soggiungeva il krebir.

E il silenzio tornava a regnare per un'ora sul campo.

La sera del quarto giorno di cammino, la carovana si attendava accanto al pozzo di Rehobot. Era un luogo celebre e santificato, per gli Arabi, dalla pietra sepolcrale di Sidì al Hadgì, un santo mussulmano, che aveva fatto in suo vivente trentatrè viaggi alla Mecca, alcuni dei quali come condottiero della carovana dei pellegrini, che ogni anno, formata da varii punti di Palestina, si recava alla tomba del Profeta. Il pozzo di Rehobot era una delle sue stazioni consuete, e la pietà dei credenti aveva voluto consacrarne il ricordo, innalzando una cappella nel luogo ove il santo pellegrino soleva piantare ogni anno la sua tenda.

Intorno al pozzo sorgevano alcune palme, e poco lungi si vedevano ruderi di antiche costruzioni. Quel luogo doveva essere stato un ritrovo di viandanti e di pastori fino dagli antichissimi tempi, come il pozzo, due giornate lontano da quello, «del Vivente che mi vede» ove Agar ebbe il colloquio coll'angelo, e Isacco pose la sua stabile dimora colla vaga figliuola di Batuele.

Colà i nostri viaggiatori trovarono un'altra carovana di Arabi, che da Sefat scendevano verso l'Egitto.

— Siate i benvenuti! — gridarono i primi occupanti. — Siamo [172] poveri, ma daremo ogni cosa nostra agli invitati di Dio.

— Grazie; — rispose Abd el Rhaman. — Il Profeta ha detto: chi sarà generoso otterrà venti grazie dal cielo; la sapienza, una parola sicura, il timor di Dio, un cuor fiorito di contentezza; non odierà nessuno, non sarà orgoglioso, non geloso; la tristezza si allontanerà da lui, egli accoglierà tutti umanamente, sarà amato da tutti; tenuto in pregio, quand'anche fosse di oscuri natali; le sue ricchezze si accresceranno, la sua vita sarà benedetta; sarà paziente, discreto, sempre di buon animo e non farà stima veruna dei beni terrestri; se gli avverrà d'inciampare, Dio lo sosterrà, le sue colpe gli saranno perdonate, e finalmente Dio lo custodirà da ogni male, che possa cadere dal cielo, o sbucar dalla terra. —

Fatta questa intemerata, che i suoi correligionarii ascoltarono colla massima devozione, il vecchio krebir domandò:

— O uomini credenti in Dio, sapreste voi dirci dove si trovi lo Sciarif, il fratello del glorioso califfo del Cairo?

— Bahr Ibn? — chiesero gli altri alla lor volta. — Bahr Ibn, il signore del deserto?

— Sì, lui, il discendente del Profeta.

— Noi veniamo da Aroer, dove abbiano udito parlare di lui. Ma lo Sciarif ha abbandonato Aroer da un mese; egli ha volto i suoi passi a Kenat, sui confini del deserto di Zin.

— A Kenat, il castello del Dai al Kebir?

— Tu l'hai detto. —

Il vecchio Abd el Rhaman accolse l'annunzio [173] con una smorfia, che non prometteva niente di buono ai suoi compagni di viaggio.

— Che cos'è questo Dai al Kebir? — domandò lo scudiero, a cui non sfuggiva un atto, un moto, del volto abbronzato di Abd el Rhaman.

— Il capo degli Assassini, — rispose il vecchio aggrottando le ciglia; — intendo parlare degli Assassini occidentali, che vogliono avere anche qui il loro Alamut, il loro nido d'avvoltoi. —

Il vocabolo Assassino non aveva ancora pe' Cristiani il suo brutto significato, o, per dire più veramente, non risvegliava ancora l'idea di sicario o di ladrone. I nostri viaggiatori non dovevano dunque indovinare la gravità dell'annunzio, che dalla cera brusca con cui lo aveva accolto il loro vecchio ed esperto condottiero.

Che cos'erano gli Assassini occidentali, di cui parlava Abd el Rhaman? Che cos'era il loro nido d'avvoltoi? Per farlo intendere ai lettori, che non hanno dimestichezza con queste diavolerie della storia, dovrò toccar brevemente degli Assassini orientali, e, quel che è peggio, incominciare dai parlar di tutt'altro; per esempio, del kief.

È questo un vocabolo intraducibile nelle lingue d'Europa. La siesta degli Spagnuoli non ci ha nulla a vedere; il «dolce far niente» degli Italiani non ne è che una pallida immagine. Non basta far niente e sentirne la dolcezza; è mestieri altresì di essere penetrati fino al midollo dal sentimento della propria inerzia. Il kief è il gaudio, la beatitudine paradisiaca del sentirsi annientato; è il non essere, introdotto, identificato, nella coscienza dell'essere.

[174]

Queste parranno stranezze, ma la colpa non è mia. Ora, per giungere al kief non c'è di meglio che il kief; il che sarà manifesto a chiunque sappia che in molti casi la lingua non ha che un vocabolo per esprimere l'effetto e la causa. È kief ogni sostanza capace di produrre lo stupore dell'ebrezza; e kief per eccellenza è l'ascisce, erba nel senso generico, ma, nel caso concreto, lo stelo del canape indiano, nella sua parte più tenera, cioè a dire le ultime foglie, i fiori e la semente; tutta roba che si può fumare disseccata, o mangiare indolcita con zucchero e burro, o bere disciolta in una infusione, tra due sorsate di caffè e due boccate di fumo del vostro narghilè. Scusate, lettori, vi parlo come se foste altrettanti discendenti d'Ismaele.

L'uso dell'ascisce era conosciuto in Oriente da tempi immemorabili. — «Lascia il vino in disparte: — cantano i poeti arabi; — prendi in sua vece la coppa di Haider, la coppa che esala l'odore dell'ambra e che brilla del verde sfolgoreggiante dello smeraldo.»

Ciò premesso, per non averci a tornar su, veniamo agli Asciscin, che avrete già capito esser tutt'uno cogli Assassini. Sullo scorcio del decimo secolo si formò in Oriente questa setta religiosa e politica, che osò arrogarsi il diritto di pronunziare l'anatema contro i suoi avversarii, rincalzando la sua riprovazione coll'omicidio. Gli orrendi settari ebbero il nome dall'ascisce di cui s'inebriavano gl'iniziati, i fedàvi, che avrò l'onore di farvi conoscere più intimamente tra poco.

Quali erano le ragioni storiche della sètta? In [175] quattro parole mi sbrigo. Poichè Abdallà ebbe fondata in Egitto la dinastia dei Fatimiti, discendenti da un Ismaele, settimo imano nella linea di Alì, che era stato il marito di Fatima, la bella figliuola di Maometto, si chiamarono Ismaeliti tutti i partigiani che negavano formalmente la legittimità dei Califfi ortodossi e che erano devoti alla stirpe di Alì, considerando che il potere sovrumano di Maometto fosse in quella rimasto celato. Questo arcano potere doveva manifestarsi nella persona d'un Messia, la cui apparizione dipendeva da certi eventi. La nuova dottrina, dopo avere scosso la Persia e la Siria, propagata in tutte le terre mussulmane da accorti missionarii, avea posto il suo centro al Cairo, nella grande scuola conosciuta sotto il nome di Dar el Hakmet, o casa della sapienza, coll'intento palese di sostenere i diritti dei califfi Fatimiti al dominio universale, e di affrettare la distruzione dei califfi Abassidi di Bagdad come usurpatori.

La sètta aveva un capo supremo, Dai el Dvat, ossia direttore dei missionarii, e una dottrina segreta, a cui si giungeva per iniziazioni successive; lungo i gradi superiori della gerarchia. Avvenne che uno di que' dais, chiamato Hassan Ben Deba Homairi, parendogli troppo lento e timido il progredir della sètta, immaginasse di stabilirne l'impero con una vasta cospirazione e coll'assassinio. In gran favore al Cairo, potente nella scuola, propenso alle idee persiane circa la nessuna importanza degli atti esteriori, Hassan ammetteva che i concetti capaci di ingenerare la convinzione personale avessero anche il diritto di armare la mano [176] dell'uomo convinto; che la guerra, fondata sul consenso delle moltitudini, era più incomoda, più malagevole e più micidiale dell'uccisione proditoria, la quale non richiede altro, fuorchè un braccio devoto ed audace.

Così trionfava la legge del pugnale. Per svolgere più liberamente il suo codice nuovo. Hassan nel 1090 s'impadronì con inganno del castello di Ilhaamut, o il nido d'avoltoi, così chiamato per la sua eminente postura non lungi da Casvin, nelle montagne di Rudbar; ne fece una cittadella inespugnabile, dove educava i suoi sicarii, e da dove egli fulminava la morte a' suoi nemici, a mano a mano che li avea condannati. Solo e chiuso nelle sue stanze, lo Sceik el Gebal (vecchio della montagna) non uscì che due volte nei trentacinque anni del suo spaventoso regno, di là trasmettendo i suoi cenni a tre grandi priori (Dai al Kebirs) che comandavano in suo nome, a Gebal, nel Kuhistan e nella Siria, e guidando, con mente fredda e sicura, il pugnale dei fedàvi. Questi, il cui nome significa «coloro che si sacrificano» erano giovinetti comperati o rapiti nei teneri anni, educati a non avere altro Dio che il vecchio della montagna, altra volontà che la sua, pronti ad ogni sbaraglio, agguerriti in ogni maniera di prove.

Si leggono nella storia delle crociate meravigliosi racconti intorno al fanatismo di quei sicarii. Il conte di Sciampagna, visitando un giorno il castello di Alamut, vide due uomini ad un semplice comando del padrone precipitarsi dall'alto di una torre, per dare a lui, come straniero, un giusto concetto della disciplina che regnava colà. Infiammati [177] questi giovani mercè la predicazione, si addormentavano con un beveraggio ed erano portati a risvegliarsi in un giardino di delizie. Ma qui, lettori, se permettete, dò la parola al più veridico dei narratori, le cui storie meravigliose parvero fino ai dì nostri un romanzo.

«Il Veglio aveva fatto fare tra due montagne in una valle il più bel giardino e il più grande del mondo; quivi avea tutt'i frutti e li più belli palagi del mondo, tutti dipinti a oro e a bestie e ad uccelli. Quivi era condotti; per tale veniva acqua, per tale miele e per tale vino. Quivi era donzelli e donzelle, gli più belli del mondo e che meglio sapevano cantare, suonare e ballare. E faceva lo Veglio credere a costoro che quello era il paradiso... perchè Maometto disse che chi andasse in paradiso avrebbe di belle femmine tante quante volesse, e quivi troverebbe fiumi di latte, di miele e di vino. I Saracini di quella contrada credevano veramente che quello fosse il paradiso. E in questo giardino non entrava se non colui che il Veglio volea fare assassino.

«All'entrata del giardino il Veglio aveva un castello sì forte, che non temeva niun uomo del mondo. Il Veglio teneva in sua corte tutti giovani di dodici anni, che gli paressero da diventare prodi uomini. Quando il Veglio ne faceva mettere nel giardino a quattro, a dieci, a venti, faceva loro dar bere oppio; e quelli dormivano bene tre dì. E facevali portare nel giardino e al tempo li faceva svegliare. Quando i giovani si svegliavano, e si trovavano là entro, e vedevano tutte queste cose, veramente si credevano essere in paradiso. E queste [178] donzelle sempre stavano con loro in canti e in grandi sollazzi; donde egli avevano sì quello che volevano, che mai per lo volere non si sarebbono partiti.

«Il Veglio tiene bella corte e ricca, e fa credere a quelli della Montagna che così sia com'io vi ho detto. E quando egli vuol mandare alcuno di que' giovani in qualche luogo, fa dar loro un beveraggio per cui dormono, e li fa recare fuor del giardino nel suo palazzo.

«Quando e' si svegliano e si trovano quivi, molto si maravigliano, e sono assai tristi, perchè si trovano fuori del paradiso. Eglino se ne vanno dinanzi al Veglio, credendo che sia un gran profeta, e inginocchiansi.

«Egli domanda loro: donde venite?

«Rispondono: dal paradiso: e gli contano quello che v'hanno veduto dentro, e hanno gran voglia di tornarvi.

«E quando il Veglio vuol fare uccidere alcuna persona, egli fa torre quello lo quale sia più vigoroso, e fagli uccidere cui egli vuole; e coloro lo fanno volentieri, per ritornare nel paradiso.

«Se scampano, ritornano al loro signore: se sono presi, vogliono morire, credendo ritornare al paradiso.

«E quando il Veglio vuol far uccidere alcun uomo, egli prende il giovane e dice: va, fa' tal cosa, e questo ti fo perchè ti voglio far ritornare al paradiso. E gli Assassini vanno, fannolo molto volontieri.

«E in questa maniera non campa niun uomo dinanzi al Veglio della Montagna, a cui egli la [179] vuol fare. E sì, vi dico, che più re gli fanno tributo per quella paura.»

Adesso, lettori umanissimi, chiuderemo i viaggi di Marco Polo, per dir brevemente dell'altro. Era l'ascisce quell'oppiato con cui i capi dell'infame sètta annebbiavano l'intelletto dei loro sicarii, riducendoli in quello stato di stupida obbedienza, che li rendeva così terribili ai principi d'Asia e d'Europa. Questi esecutori dei feroci comandi, che erano i giovani Fedàvi, andavano vestiti di bianco, con berrette e cinture rosse, e armati di acute daghe; ma usavano ogni foggia di travestimento, allorchè erano mandati a qualche impresa difficile.

Tra per forza d'armi e d'inganni, gli Assassini s'impadronirono in breve di molte castella e luoghi muniti della Persia. Il soldano Malek Scià li assalì, i dottori della legge li scomunicarono; ma i Fedàvi spargevano morti segrete fra i nemici dell'ordine; il ministro del sultano, Nizam-u-Malk, fu colpito di stilo; il suo signore morì poco dopo, improvvisamente, e di veleno, come ne corse il sospetto.

Di là si sparsero nella Siria. Al tempo di cui narro, Abus Wefa, Dai al Kebir d'Occidente, doveva passare dal castello di Kanat fino alle montagne presso Tripoli (Tripoli di Palestina, intendiamoci), stringer trattati coi Turchi, che gli cedettero alcuni distretti, e perfino col re di Gerusalemme, Baldovino II, essendo auspice e mediatore al trattato Ugo de' Pagani, un gran maestro dei Templarii!

Capite che roba? Per fortuna, di questo non abbiamo a trattar noi. Siamo nel 1102; Hassan, il [180] terribile Sceik al Gebal, è nella sua rocca persiana di Alamut, dove camperà ancora ventidue anni. Abu Wefa, il gran priore di Palestina, è tuttavia a Kanat, donde negozia e congiura con Afdal, l'usurpatore, e con Bahr Ibn, il pretendente al trono d'Egitto, coi Sultani Selgiucidi, coi reali di Gerusalemme, con tutti, pur di estendere il suo dominio nella Terra Santa, intorno al nuovo regno della Croce; disposto insomma ad allearsi con uno dei tanti, per vincere gli altri, e tradir tutti ad un modo. Era la politica del tempo; è pur troppo la politica di tutti i tempi.

I nostri viaggiatori, brevemente informati di ciò che sapeva Abd el Rhaman intorno a questi Assassini, tennero consiglio tra loro. Lo scudiero voleva che si andasse tutti ugualmente, perchè gli Assassini, se erano davvero gli amici dello Sciarif e se questi si era avvicinato al loro castello, non dovevano incuter timore; e infine perchè non erano ladroni, nè usavano andare attorno in così gran numero, da spaventare una schiera di gente risoluta.

Ma prevalse il consiglio di Gandolfo, che si avesse a dividere la gente in due schiere. La prima e la più numerosa, coi cammelli e una parte degli arcadori, sarebbe rimasta in attesa al pozzo di Rehobot; egli, con una mano di uomini volenterosi e una guida araba, si sarebbe spinto innanzi per le gole di Cades, alla ricerca di Bahr Ibn. Un campo numeroso, come doveva essere quello dello Sciarif, non poteva mica nascondersi così facilmente in quei luoghi, nè viverci in guisa che se ne avessero a perder le tracce.

[181]

Caffaro di Caschifellone aveva assentito al parere di Gandolfo. E voltosi al biondo scudiero, gli aveva detto:

— Rimarrò dunque io, per vegliare su voi.

— No, no; andate, messere; — rispose lo scudiero, con accento supplichevole, che non dava modo di resistergli; — andate anche voi con messere Gandolfo.

— Ma voi? lasciarvi qui senza un amico?.... —

Lo scudiero crollò la testa, in atto di chi persiste nella sua deliberazione e non ammette argomentazioni in contrario.

— Abd el Rhaman è un brav'uomo.; diss'egli; — e non mancherà alla sua fede. —

Il vecchio condottiero, udendo quelle parole, si fece avanti, e, postosi una mano sul petto, disse con accento solenne:

— Quando una carovana è in viaggio, essa è in balìa del Krebir. Ma questi ne è mallevadore dinanzi alla legge e deve premunirla contro tutti gli eventi che non procedono da Dio. Egli paga il prezzo del sangue per tutti i viaggiatori che per sua colpa muoiono, si sbandano, sono uccisi, o scompaiono; egli è severamente punito se la carovana viene a patire per mancanza d'acqua, o se egli non ha saputo difenderla contro i ladroni del deserto. L'Emiro di Gaza ha una parola sicura, e un braccio lungo, che saprebbe cogliermi dovunque, se io mancassi al mio debito. Ma io ti giuro, o cavaliere, ti giuro per la barba venerabile del Profeta, che io veglierò sul capo del giovinetto, come gli angeli Moahibbat sul capo del figlio di Abd el Mettaleb, donde nacque Maometto, il nostro [182] signore. Se io vengo meno al mio giuramento, possa colui che è sollecito nel fare i conti, mandarmi in un batter d'occhio sul ponte al Sirat, che è più stretto d'un capello e più affilato del taglio d'una spada, e piombare nello Hawigat, che è il peggiore tra tutti i gironi d'inferno, come quello che è destinato agli ipocriti. —

Nelle loro frequenti relazioni di guerra e di pace coi Saracini, i Crociati avevano imparato a tenere in pregio cosiffatti giuramenti. Epperciò il nostro amico Caffaro di Caschifellone si acquetò facilmente alle promesse del vecchio. Strinse la mano al biondo scudiero, che gli augurò dal profondo del cuore un sollecito ritorno, e partì.

Gandolfo del Moro era già balzato in sella, e dieci animosi arcadori, seguiti da due cammelli, colle provvigioni necessarie al viaggio, tenevano dietro al guidatore, scelto da Abd el Rhaman tra i migliori della sua scorta.

[183]

CAPITOLO XIII. Alle strette di Cades.

Secondo i computi del vecchio Krebir, l'assenza dei cavalieri non doveva andar oltre i cinque giorni, se lo Sciarif aveva il suo campo di là dalle gole di Cades, nè oltre i sette, o gli otto alla più trista, se era andato fino alla ròcca di Kanat.

Per altro, questa seconda ipotesi, quantunque avvalorata dalle notizie dei viaggiatori di Sefat, pareva inaccettabile al savio condottiero. Lo Sciarif aveva gente molta con sè; non tanta da poter tentare alcuna impresa di rilievo, ma sempre troppa per riuscire ospite accetto ad alcuno. Anche ammettendo che il Dai al Kebir d'Occidente fosse in una certa dimestichezza con lui, non era da credere che gli Assassini volessero ospitarlo con tutti i suoi nella ròcca; testimonianza di amicizia che sarebbe stata veramente soverchia, e di confidenza che i tempi e gli usi d'allora non consentivano certamente.

[184]

I primi cinque giorni d'aspettazione passarono; lunghi, ci s'intende, ma abbastanza tranquilli, anche per l'animo del biondo scudiero, che aveva già tanto aspettato, da saper sostenere con rassegnazione quell'ultima prova.

Ma al sesto giorno, l'ansietà incominciò a mostrarsi sul volto di Abd el Rhaman; il turbamento su quello dello scudiero.

Il vecchio Krebir passava la giornata esplorando degli occhi l'orizzonte, la notte aguzzando l'orecchio a tutti i lontani rumori del deserto. Ma invano; la linea dell'orizzonte non appariva turbata dal più piccolo nembo di polvere; gli echi del deserto erano muti, e non ripetevano che il grido degli sciacalli, vaganti in busca di preda.

Triste il settimo giorno; più triste a gran pezza l'ottavo. Già lo scudiero aveva fatto la proposta di lasciare il pozzo di Rehobot per avvicinarsi alle gole di Gades e per andare anche più oltre, fino a tanto non si avessero nuove dei compagni. Ma al vecchio Krebir non parve prudente di dargli retta. A lui erano affidate le sorti della carovana; la vita del biondo compagno dipendeva dalla sua vigilanza.

Lo scudiero non fece più motto; si chiuse nel suo dolore e aspettò, non più i compagni partiti, ma la sua ultima ora; chè veramente gli pareva dovesse scoppiargli il cuore ad ogni tratto. Seduto a piè di una palma, sull'ultimo lembo dell'oasi, restava lunghe ore immobile, cogli sguardi fissi da quella parte del deserto per dove erano spariti i cavalieri. E lo struggeva il pensiero di tutti i lontani, della famiglia, della patria abbandonata, e di Arrigo, del povero Arrigo, che doveva tenergli luogo [185] d'ogni cosa più diletta, e che forse era campato da una morte gloriosa entro le mura di Cesarea, per soccombere oscuramente in un angolo ignorato della terra di Moab. E si pentiva allora, ma tardi, si pentiva amaramente di non aver fatto prova d'una più salda volontà, quando avea detto di seguire i suoi compagni di viaggio in quell'ultima parte della difficile impresa. Che cos'erano i pericoli a cui essi andavano incontro, al paragone dell'affanno, dell'ansia mortale a cui era in preda il suo cuore?

Abd el Rhaman si provava a consolarlo; ma le sue massime orientali, impresse di un cupo fatalismo, facevano effetto contrario.

— Ci son dieci cose nel mondo, l'una più forte dell'altra; — gli diceva una volta il Krebir; — anzi tutto le montagne; poi il ferro che spiana le montagne; il fuoco che liquefà il ferro; l'acqua che spegne il fuoco; le nubi che assorbono l'acqua; il vento che scaccia le nubi; l'uomo che sfida il vento; l'ebbrezza che vince l'uomo; il sonno che dissipa l'ebbrezza; il dolore che uccide il sonno.

— Ed altre ancora; — rispose lo scudiero; — la morte che tronca il dolore; l'amore che trionfa della morte. —

Sapeva il vecchio Krebir di avere in custodia una donna? Dall'ossequio con cui parlava al biondo scudiero, era lecito argomentare che almeno almeno lo sospettasse.

Del resto, non era cosa nuova nè strana a que' tempi che una donna andasse attorno sotto spoglie virili, e il Tasso e l'Ariosto, colle loro Clorinde e le loro Bradamanti, non hanno inventato nulla che [186] faccia contro al vero, nè al verosimile, della storia. La Cavalleria, impasto di usanze nordiche e di mitologie greche, derivava dalle Amazzoni le sue donne guerriere, e non le considerava men donne per questo, come farebbe la società moderna, dopo che ha inventato tante capestrerie, come la cipria e il mal di nervi, e bastionata la pretesa debolezza d'Eva colla faldiglia, il guardinfante e il crinolino.

Indovinasse, o no, il segreto dello scudiero, Abd el Rhaman capì che, a rimanere più oltre colà, il poverino gli sarebbe morto di crepacuore. Come rimediarci? Egli c'è un modo, per ingannare l'ansia mortale dello attendere; e questo è di andare incontro a ciò che si attende. Sia un conforto morale, derivato dalla speranza che si ravviva, o un benefizio fisico, frutto della distrazione che arreca una giusta vicenda di riposo e di moto, il fatto sta che l'ansia e l'affanno si chetano un tratto nell'andare. Lo spirito è più calmo, o almeno più arrendevole ai consigli della pazienza, quando può trasmettere un poco della sua furia alle gambe.

Abd el Rhaman, da quell'uomo serio che era, chiamò prima di tutto i pensieri a capitolo.

— Se vado e c'incoglie una disgrazia, io pago il prezzo del sangue. E questo prezzo non sarà di cento cammelli, secondo vuole il Corano; sarà la mia testa senz'altro, poichè l'emiro Mohammed pensa a conservarsi l'amicizia dei Franchi. —

I Crociati erano allora tutti Franchi per gli Arabi, Goffredo di Buglione e Baldovino erano francesi, lo rammentate, e la crociata era stata bandita a Clermont.

[187]

Ma tiriamo innanzi col soliloquio di Abd el Rhaman, che del resto non andrà in lungo come quello di Amleto.

— Se resto, attenendomi alla buona ragione del luogo sicuro, non faccio niente di meglio, perchè questo povero ragazzo mi muore. Non parla, non mangia più.... ed io posso già dirmi un uomo spacciato. —

La conseguenza di questo dilemma del vecchio Krebir fu questa, che tra due mali si avesse a scegliere il minore. Infatti, non era mica detto che, allontanatisi dal pozzo ospitale di Rehobot, dovessero lasciare infallantemente la vita in uno scontro coi ladroni del deserto. Questa ribaldaglia scorazzava qua e là, un po' a tramontana, verso Hebron, un po' a mezzogiorno, verso i confini dell'Egitto. Ma era egli da credere che appunto allora, mentre lo Sciarif vagava colla sua gente in quelle stesse regioni, i nomadi predatori fossero rimasti in quel vecchio teatro delle loro gesta?

Questa argomentazione finì di persuadere Abd el Rhaman, che decise di muoversi dal pozzo di Rehobot, per andare due giornate più verso levante, fino alle gole di Cades, nel paese degli Edomiti.

Non è a dire come il biondo scudiero accogliesse l'annunzio. Una vampa di allegrezza, la prima dopo tanti giorni di abbattimento, colorò le sue guance smorte.

La carovana riprese il suo cammino interrotto. Gli arcadori genovesi, bene intendendo gli onesti disegni del vecchio, gli obbedirono, come avrebbero obbedito a messer Caffaro di Caschifellone. E questo non farà meraviglia, chi pensi che i Genovesi, [188] marinai anzi tutto, non partecipavano a tutti i dirizzoni dell'epoca. Combattevano i Saracini, ma sapevano anche render giustizia alla virtù d'un nemico. Il quale, del resto, era Cananeo, cioè a dire consanguineo di quei Fenicii, con cui la gente ligure aveva avuto relazioni di traffico fino dagli antichissimi tempi.

Abd el Rhaman non andava tuttavia senza le debite cautele. Entravano in una parte del deserto dove era difficile imbattersi in gente da bene. La strada delle carovane di Palestina per l'Egitto non appoggiava mai più a levante del pozzo di Rehobot, e per incontrare l'altra via dei pellegrini, che dalle provincie della Siria volgevano alla Mecca, era mestier valicare tutto il deserto di Cades, costeggiare l'ultimo lembo del lago Asfaltide nella valle di Siddim, e proseguire oltre un buon tratto nel paese di Moab.

L'intervallo era sempre stato in balìa dei predoni. Per allora, fortunatamente, doveva essere in balìa dello Sciarif e dei suoi alleati recenti, gli Assassini. Questo pensiero chetava un tratto le ansietà del vecchio condottiero. Ma c'erano sempre le strette di Cades da varcare, e Abd el Rhaman andava guardingo, stava sempre coll'orecchio teso, alla guisa delle antilopi.

Al sopraggiungere della notte, disponeva il campo con una cura che mai non aveva usato la maggiore in sua vita. E dopo aver disposto ogni cosa a dovere, vigilava, non più con uno, ma con ambedue gli occhi. Il grido notturno alle guardie del campo si ripeteva d'ora in ora con una regolarità veramente ammirabile.

[189]

Alle strette di Cades raddoppiò la vigilanza, ma cessarono le grida. A destra e a manca delle carovane si innalzavano certe colline, o cumuli di sabbia, non diversi dagli altri che avevano attraversati nelle vicinanze di Gaza, se non in questo, che i ciuffi di lentisco erano più spessi e prendevano aspetto di macchia. L'occhio del condottiero non poteva più spaziare come prima da tutti i lati dell'orizzonte; bisognava esplorare il terreno, scambio di guardare da lunge, e sopratutto bisognava tacere.

— Legate le fauci ai cammelli; — diceva il vecchio ai suoi cammellieri; — e quando saranno sdraiati, non vi accostate a loro, affinchè non avvenga loro di muggire alla vista dei padroni, e di dar nell'orecchio al nemico. Questa notte ci contenteremo di datteri, perchè non è prudenza accendere il fuoco. —

E agli arcadori diceva:

— Parlate piano, anzi non parlate affatto. Qui davvero è da ripetere il nostro proverbio: la parola è d'argento, il silenzio è d'oro. —

Tuttavia, nel cuor della notte, egli stesso andò contro alla sua legge. Un rumore gli era venuto all'orecchio, come di rami calpestati nella macchia vicina. Fossero sciacalli, attratti colà dalla speranza di preda? O leoni che lasciavano il covo, per andare in cerca di una fontana? Abd el Rhaman fiutò lungamente l'aria, e non gli parve che si trattasse di fiere. Uomini dunque?

Non stette più in forse un istante; balzò fuori del campo e ad alta voce gridò:

— Servi di Dio, ascoltate. Chi si aggira intorno [190] a noi, s'indugia vicino alla morte. Egli non ci guadagnerà nulla a far ciò, e risica di non veder più le palme del suo villaggio. Se egli è un povero viandante affamato venga e gli daremo di che sfamarsi; se ha sete, si faccia avanti e gli daremo a bere. È ignudo? E noi lo vestiremo. È stanco? Riposerà, tra noi. Siamo credenti in Dio e nel Profeta, che viaggiamo per le nostre faccende, e non vogliamo male a nessuno. —

Il silenzio della notte e la tranquillità del deserto conferivano alle parole del vecchio una solennità paurosa.

— Era proprio necessario che tu parlassi? — chiese il biondo scudiero al krebir, quando questi fu rientrato nel campo.

— Figliuol mio, — rispose Abd el Rhaman, — dice il proverbio dei ladri: «la notte è la parte del povero, quando egli è coraggioso.» Siamo alle strette di Cades, uno dei luoghi più pericolosi della Siria. Dio sa quante carovane ci furono saccheggiate! Se sono ladroni che spiano il momento opportuno per piombarci addosso, eglino sapranno oramai che siamo preparati a riceverli. —

Gli arcadori di Genova erano già in piedi e tendevano le corde, per vedere se la rugiada notturna non le avesse rallentate. Anche i cammellieri si erano sciolti dai loro mantelli e aspettavano muti, colla mano sull'impugnatura delle loro spade affilate e ricurve.

Tralasciando allora di rispondere allo scudiero, Abd el Rhaman intuonò ad alta voce il «fatihat oul kitab», che in lingua nostra significherebbe il capitolo che apre il volume, e che è per l'appunto [191] il primo capitolo del Corano, ossia il libro per eccellenza. I Mussulmani attribuiscono ai sette versetti di questo capitolo una virtù meravigliosa, come i Cristiani al segno della croce, con cui incominciano tutte le loro preghiere.

Ed ecco il fatihat del vecchio condottiero, a cui rispondevano le voci di tutti gli Arabi suoi compagni.

«Lode a Dio, signore dell'universo,

«Il clemente, il misericordioso,

«Sovrano nel giorno della retribuzione!

«Sei tu che adoriamo, e di cui imploriamo il soccorso.

«Guidaci tu nel retto sentiero;

«Nel sentiero di coloro che tu ricolmi dei tuoi benefizii,

«Di coloro che non sono incorsi nella tua collera e che non si sono smarriti.

«Amin!»

La carovana aveva a mala pena finito la sua invocazione, che un fruscio si udì tra i lentischi, e poco stante il rumore di alcuni passi lungo il pendìo della collina.

Abd el Rhaman non si era dunque ingannato. Non erano belve, ma uomini, che vagavano nei pressi dell'accampamento.

I cammellieri diedero di piglio alle lancie e snudarono le spade affilate e ricurve; gli arcadori incoccarono un verrettone sulla corda dell'arco; il biondo scudiero strinse convulsivamente la daga che gli pendeva al fianco e raccomandò la sua anima a Dio.

Intanto il rumore dei passi si avvicinava sempre [192] più. Abd el Rhaman respirò, parendogli di distinguere il calpestìo di due soli viandanti.

A' piedi della collina, una voce s'udì, che dava ragione alla perspicacia del vecchio.

— Signore della tenda, due invitati di Dio!

— Siate i benvenuti, se una infermità non siede nei vostri cuori e una menzogna sulle vostre labbra. Ed è in questo luogo deserto che noi dovevamo aspettarci due ospiti? —

La voce rispose con uno di quei proverbi così comuni tra gli Arabi:

— La scabbia, il suo rimedio è il bitume; la povertà, il suo rimedio è il deserto. —

Abd el Rhaman si volse ai suoi compagni di viaggio.

— Sono Arabi davvero; — diss'egli; — forse pellegrini smarriti. —

E ad alta voce proseguì:

— Fratelli, venite, e troverete ristoro tra noi. —

I due viaggiatori si appressarono, e uno di essi, colui che aveva già parlato due volte, ripigliò, coll'accento monotono di chi ripete una vecchia cantilena:

— Siate generosi coll'ospite, perchè egli viene a voi con tutto ciò che possiede. Entrando, vi reca una benedizione; uscendo, si porta via i vostri peccati. Non siate avari; l'avarizia è un albero che Scitan ha piantato nell'inferno; i suoi rami si stendono sulla terra; chi ne coglie il frutto vi rimane impigliato ed è travolto nel fuoco. La generosità è un albero piantato in cielo da Dio, Signore dell'universo; i suoi rami toccano la terra, e per quei rami l'uomo generoso salirà al paradiso. Colui che [193] accoglie umanamente i suoi ospiti si rallegra e fa loro buon viso. Dio non farà mai male a quella mano che avrà saputo donare.

Quelle erano formole rituali tra gli Arabi, e la precisione con cui erano ripetute doveva chetare i sospetti di Abd el Rhaman, che ben si poteva dire fosse toccato nel suo debole.

I viaggiatori erano giovani all'aspetto, ma stanchi e assai male in arnese.

— Da dove venite? — chiese il vecchio Krebir.

— Da Kanat; — risposero.

— Da Kanat? Non c'è egli più dunque ospitalità tra i figli dello Sceik ul Gebal?

— C'è sempre; ma insieme con essa il desiderio di trattenere i figli del deserto più a lungo che essi non vogliano essere trattenuti. Siano lieti i Fedàvi delle gioie anticipate del paradiso, noi amiamo rivedere le nostre famiglie. Da due giorni andiamo vagando nel deserto senza trovare nè una palma, nè una fontana, nè una compagnia di credenti in Dio, che ci tengano luogo dell'una cosa e dell'altra. Disperavamo già, quando abbiamo veduto, nella luce del tramonto, le sabbie gialle picchiettarsi di nero. Abbiamo indovinato l'avvicinarsi di una carovana e ci sono tornate in petto la speranza e la lena. Servi di Dio, noi ci accostiamo alla tenda che egli ha rizzata davanti ai nostri occhi, e vi portiamo la nostra fame e la nostra sete.

— Non vi affaticate più oltre colle parole; — disse Abd el Rhaman. — Sedete accanto ai nostri cammelli, mangiate e bevete. Il frutto della palma è qui, condito col burro, e l'acqua del pari, attinta ieri mattina al pozzo di Rehobot. —

[194]

I due viandanti si gittarono avidamente sul pasto, che era loro apprestato con tanta generosità. E il vecchio Krebir ne godeva in cuor suo. La legge dell'ospitalità è questa, che l'ospite offra e che l'invitato di Dio accetti e mostri di gradire l'offerta.

Un pellegrino giunse una volta presso un Arabo, che lo fece sedere al suo fianco e gli offerse il suo pasto.

— Non ho fame; — disse lo straniero; — non ho bisogno che d'un luogo al coperto, per dormire questa notte.

— Vattene dunque da un altro; — gli rispose l'Arabo. — Io non voglio che un giorno tu abbia a dire: ho dormito da un tale; io voglio che tu dica: ci ho saziato il mio ventre. La barba dell'invitato è in mano al padrone della tenda. —

Saziato lo stomaco, i due viandanti, poichè non c'era modo di accoglierli sotto la tenda, domandarono ed ottennero di sdraiarsi accanto ai cammelli. E ravvoltisi nei loro mantelli e tirati i cappucci sugli occhi, si addormentarono insieme cogli altri uomini della scorta.

Costoro erano certamente quello che avevano detto, due poveri viandanti smarriti, e Abd el Rhaman, se qualche sospetto gli fosse entrato nel cuore, lo avrebbe sicuramente scacciato, dopo averli visti mangiare e bere con tanta avidità, e quindi addormentarsi con tanta prontezza.

Anche il buon vecchio aveva mestieri di riposo. Si è detto che soleva dormire da un occhio solo, ma anche a farlo da un solo, dormire bisogna. Disteso il suo mantello vergato sulla sabbia, vi si adagiò, ne trasse un lembo sul petto, e provò a [195] chiudere un occhio, mentre collo spirito correva ai viaggiatori cristiani, che già da due giorni avrebbero dovuto ritornare, e che tuttavia non si vedevano ancora.

Abd el Rhaman, per dire la verità, non era così inquieto come il biondo scudiero. Conosceva per antica prova come fossero fallaci le vie del deserto, dove lo aver smarrito una traccia, il non aver badato a un fil d'erba, fa perdere spesso le intiere giornate. E sebbene fidasse nell'avvedutezza dell'Arabo che aveva dato per guida ai cavalieri cristiani, il vecchio Krebir non poteva dissimularsi che ai viaggiatori mancava sempre una cosa, cioè a dire la sua propria esperienza.

Uno scalpiccio improvviso gli ruppe il filo delle sue meditazioni. Era lo scudiero che usciva allora dalla sua tenda.

— Figliuol mio, — disse Abd el Rhaman, — voi vegliate sempre. È mal fatto, perchè, quando uno veglia per tutti, gli altri debbono ristorare le forze nel sonno.

— Se lo potessi! — esclamò lo scudiero, che non seppe trattenere un sospiro.

— Imitate i nostri ospiti; — seguitava frattanto il Krebir. — Sentite come russa uno di loro, laggiù. —

Lo scudiero non rispose, e stette cogli occhi in aria a guardare le stelle. La luna era scomparsa dal firmamento, e Aldebaran, l'astro prediletto dei popoli orientali, risplendeva in tutta la sua pura bellezza tra il cinto d'Orione e il gruppo delle Jadi. Ma lo scudiero non si indugiava a considerare la bellezza degli astri; pensava che essi soli a quell'ora [196] dovevano vedere Arrigo da Carmandino, e confidava loro una preghiera, un saluto, un augurio.

Mentre egli guardava e pregava, il vecchio condottiero si rizzava sul gomito e pensava.

— E dove sarà l'altro? — chiese egli tra sè. — Son due, e non ne odo che uno. —

Il dubbio gli si era appena formato nell'animo, che il vecchio balzò in piedi senz'altro. Abd el Rhaman, come tutti gli uomini che conoscono il pregio del tempo, non soleva far mai una cosa sola per volta. Ora, mentre egli pensava, il senso dell'odorato, squisitissimo in lui, era stato ferito da alcun che di nuovo e di strano. Il vecchio Krebir fiutava il pericolo.

Balzò in piedi, già ve l'ho detto, e con accento risoluto gridò:

— Credenti in Dio, seguaci del profeta Gesù, su tutti, presto, non perdiamo un istante!

— Che fai tu? — dimandò lo scudiero, distolto così d'improvviso, dalla sua muta preghiera.

— Figliuol mio, siamo assaliti; — rispose il Krebir.

— Assaliti! Da chi?

— Lo so io, forse? C'è odore di nemici nell'aria, ecco tutto. —

Così dicendo, Abd el Rhaman diè di piglio alla sua scimitarra e fu d'un salto sui cammelli.

Il campo era tutto a rumore. Ma l'ospite continuava a russare, ravvolto nelle pieghe del suo mantello sdruscito.

— Maledetto cane! — gridò Abd el Rhaman, percuotendo quel corpo inerte d'un calcio.

Lo scudiero, che aveva seguito il vecchio fin lì, visto quell'atto brutale, che contrastava con tutte [197] le leggi della ospitalità, fu sul punto di credere che il vecchio Krebir avesse smarrito il suo senno.

Ma prima che il concetto potesse prendergli forma nell'animo, un sibilo acuto gli percosse l'orecchio, indi un altro, e un altro ancora, e fu tosto un rumore di passi, uno strepito d'armi, sui due lati del campo.

— Difendiamoci, in nome di Dio! — tuonò il vecchio condottiero.

Gli arcadori genovesi avevano già afferrati i loro archi. Ma le corde erano recise. Non restavano che i cammellieri, a far fronte colle lancie.

— No, no; — gridava il Krebir, brandendo la sua scimitarra. — La lancia è la sorella del guerriero, ma essa può sempre tradirlo. Gittate lo scudo; intorno a questo si addensano le sventure; la spada, la spada è l'arma dell'Arabo, quando il suo cuore è forte come il braccio. Alle gambe del nemico, alle gambe! —

E mandando i fatti compagni alle parole, il fiero vecchio diè tale un colpo agli stinchi del primo che gli si fece davanti, che lo mandò ruzzoloni, coi piedi troncati di netto. Era uno degli ospiti, colui che pur dianzi russava, mentre l'altro, approfittando delle tenebre e del sonno degli arcadori, era andato carponi recidendo le corde degli archi.

— Traditore! — gridò il ferito, storcendosi dolorosamente sulla sabbia. — Tu pagherai la mia morte al gran Priore d'Occidente. —

La minaccia fu udita da tutti coloro che si stringevano a difesa intorno al vecchio condottiero.

— Gli Assassini! — gridarono atterriti. — Sono gli Assassini! —

[198]

Molte dicerie paurose correvano già intorno a quei nuovi ospiti del deserto, in mezzo agli Arabi di Palestina. Si diceva che avessero tutte le dieci doti del guerriero: l'ardimento del gallo, il razzolìo della gallina, la fierezza del leone, lo slancio del cinghiale, l'astuzia della volpe, la prudenza dell'istrice, la rapidità del lupo, la costanza del cane, e la struttura del naguir, piccolo animale che prospera nelle privazioni e negli stenti.

Si diceva per contro che fossero poco saldi nella fede e che mettessero la causa del loro ordine molto più sopra di quella dell'Islam. Di qui a crederli demonii scatenati dall'inferno, non era che un passo. Lontani, piacevano poco; vicini, incutevano spavento.

E uno sgomento invincibile colse quei poveri cammellieri, gente così valorosa in ogni altra occasione, ma che non poteva, nel tramestìo di quella sorpresa notturna, misurare la gravità del pericolo.

Così avvenne che gli arcadori genovesi rimanessero quasi soli a resistere. Gittati gli archi, oramai diventati inutili, avevano posto mano alle spade e si difendevano valorosamente, ma non senza stupirsi del modo strano che usavano i loro nemici nel fare la guerra. Infatti, gli Assassini, avvicinandosi a mezza spada, e riconoscendo di averla a dire con guerrieri cristiani, non lavoravano ad uccidere; facevano impeto in molti, cercando anzitutto di schermirsi come potevano; per giungere sotto e disarmare i loro avversarii. Un moderno avrebbe detto che c'era molta diplomazia in quella maniera di combattere; un cinquecentista ci avrebbe intravveduta la ragione di Stato; ma per quel tempo bisognava [199] dire che i combattenti avessero ordine d'adoperare in tal guisa, e che la cieca obbedienza a cui li avvezzava la impromessa del paradiso fosse la vera cagione di quel rispetto ai guerrieri cristiani. Rispetto che non giungeva fino al punto di rimandarli liberi, poichè, a mano a mano che li avevano disarmati, li legavano stretti con certe funicelle e li spingevano l'uno sull'altro di costa alla tenda.

Assai più difficile impresa era quella d'impadronirsi del vecchio Krebir, pel quale, del resto, non avrebbero usati tanti riguardi. Ma il fiero Abd el Rhaman non si poteva prendere, nè ammazzare così alla svelta. Al comando di arrendersi aveva risposto colla minaccia di uccidere il primo che gli si fosse accostato, e già tre uomini, che avevano tentato il colpo, si erano persuasi col fatto ch'egli parlava da senno.

Il vecchio Krebir pensava in quel punto alla dia, o prezzo del sangue, che egli avrebbe dovuto pagar colla sua testa all'Emiro di Gaza, se fosse tornato alla spiaggia senza i Cristiani affidati alla sua vigilanza. Pensava al suo onore irreparabilmente perduto; come condottiero di carovana, dopo trenta e quarant'anni di fortunata esperienza. E pensava infine esser meglio il morire, per una giusta causa, combattendo i nemici di Allà. Non era opinione universale tra i credenti, che quegli Asciscin, sbucati dalla Persia, fossero una sètta di infedeli, e peggio assai dei Cristiani, poichè questi credevano almeno al profeta Gesù, laddove i seguaci del Vecchio della Montagna non credevano a nulla?

Maometto, fermandosi un giorno davanti ai due [200] cimiteri della Mecca, era uscito in queste profetiche parole:

«Di questi due cimiteri, settantamila morti ascenderanno al paradiso senza render conto a Dio delle loro colpe; e ognuno di loro potrà farne entrare settantamila con sè. I volti loro somiglieranno alla luna piena. Una sola cosa è più meritoria del pellegrinaggio, agli occhi di Dio, ed è il morire nella guerra santa, nella guerra contro gli infedeli.»

Così fortificato contro ogni vile pensiero, combatteva il vecchio Krebir. In mezzo alla mischia cercò il biondo scudiero, che era stato commesso alla sua custodia, e lo vide, o, per dire più veramente, lo udì, mentre gridava e invano si dibatteva fra le strette dei suoi assalitori.

La ragione di quell'attacco notturno balenò allora alla mente del vecchio, che non volle assistere a tanta sventura e si lanciò disperato da quella parte, cercando inutilmente di rompere la cerchia dei nemici. La daga di un Fedàvo bevve il suo sangue, penetrandogli nella gola.

— Era scritto! — diss'egli, stramazzando al suolo, mentre il sangue spicciava a fiotti dalla vasta piaga.

— Non c'è che un Dio! — aggiunse poscia, levando al cielo la mano irrigidita.

E non disse più altro. In quella affermazione della sua fede, il vecchio Krebir aveva esalato l'anima invitta.

[201]

CAPITOLO XIV. Dove è dimostrato che sui ribaldi non si veglia mai abbastanza.

Caffaro di Caschifellone e Gandolfo del Moro non avevano intanto perduto il loro tempo. Valicate le strette di Cades, e senza imbattersi in nessuna compagnia di Arabi predatori, erano discesi per la terra di Seir nella gran valle che già aveva preso il nome dagli Edomiti. Colà, ad una giornata di cammino dal castello di Kanat, avevano trovato un drappello di cavalieri Saracini, che correvano il paese. Non potevano capitar meglio; perchè quei cavalieri erano appunto le vedette dello Sciarif, e il loro viaggio di scoperta raggiungeva finalmente la meta.

Fornite le necessarie spiegazioni a quei sospettosi cavalieri e detto l'intento della loro gita al deserto, i nostri viaggiatori furono presi in mezzo dagli esploratori e condotti al castello di Kanat.

Bahr Ibn era per l'appunto laggiù, ospite di Abu [202] Wefa, il Dai al Kebir d'Occidente, con cui stava negoziando, per averlo aiutatore ai suoi disegni contro l'Egitto. Abu Wefa, poco scrupoloso come i suoi pari, sarebbe andato, non che contro di Afdhal, che era un usurpatore, contro tutti i più legittimi califfi della discendenza fatimita. Ma egli maturava fin d'allora più ambiziosi disegni. Mi pare di avervi già detto che il gran Priore degli Assassini d'Occidente si disponeva ad una marcia verso le regioni settentrionali di Palestina, per andare a piantarsi sulle montagne nei pressi d'Antiochia, potenza nuova ed attenta fra i Turchi Selgiucidi e i Cristiani, la quale, facendo assegnamento sulle loro inimicizie e approfittando delle intestine discordie di questi e di quelli, avrebbe potuto dare cominciamento ad un secondo regno d'Assassini, così indipendente dall'autorità dei Fatimiti d'Egitto, come sicuro dalle gelosie degli Abassidi di Bagdad.

Era una ragione di Stato tutta propria di quell'ordine tenebroso, che aveva preso a vivere sul tronco islamitico, in quella medesima guisa che l'edera vive sul tronco d'un albero, per trovare il suo sostentamento nei succhi già elaborati dalla pianta, involgerla a grado a grado e farla intristire.

Erano infatti così poco musulmani, che nel 1173 uno dei loro gran priori, a nome Sinan, il quale godeva fama di santità, inviò un'ambasciata ad Almerico, re di Gerusalemme, offrendo in nome suo e in quello del suo popolo di abbracciare il cristianesimo, a patto che i Templarii rinunziassero all'annuo tributo di duemila ducati d'oro che loro avevano imposto e vivessero con esso loro in pace [203] e da buoni amici. Almerico gradì l'offerta e congedò onorevolmente l'inviato. Ma questi, nel far ritorno al suo territorio, fu ucciso da un drappello di Templarii, guidato da un Gualtiero Du Mesnil. Dopo ciò gli Assassini posero nuovamente mano alle daghe, che per molti anni erano rimaste inoperose, e fra le altre lor vittime, Corrado, marchese di Tiro e di Monferrato, fu morto nel 1192 da due Fedàvi sulla piazza del mercato di Tiro. Ma questa è storia posteriore di troppo al nostro racconto e va lasciata in disparte, bastando averla accennata per lumeggiare il carattere della sètta.

Per pochi giorni ancora Abu Wefa, il gran Priore d'Occidente, e Bahr Ibn dovevano rimanere uniti nel castello di Kanat. Lo Sciarif aveva capito di non poter condurre ai suoi disegni il Dai el Kebir, e questi a sua volta tentava d'indurlo ad un viaggio verso settentrione, dov'egli andava a conquistarsi un territorio meno sterile che non fosse il deserto di Edom.

I negoziati erano a quel segno, quando Gandolfo del Moro e Caffaro di Caschifellone giunsero al campo.

Arrigo da Carmandino, stanco di quel lungo soggiorno tra gli infedeli, vera cattività di cui non bastavano a mitigargli l'affanno le continue testimonianze d'amicizia del suo protettore, avrebbe dato di grand'animo la vita, pur di giungere in patria e spirar l'anima ai piedi della sua fidanzata. Che era egli avvenuto di lei? Gli aveva tenuto fede? Doloroso pensiero che Arrigo scacciava ad ogni tratto da sè, ma invano, perchè esso gli ritornava sempre più ostinato, sempre più molesto, allo spirito.

[204]

Quella vita era insopportabile davvero. Il cielo adunque lo aveva campato da morte, per condannarlo ad una eterna prigionia nei deserti di Palestina? Il giovane Arrigo sentiva di amare Bar Ibn, e non poteva non avere in pregio le virtù di quei barbari tra cui lo aveva sbalestrato il destino; ma certo quella vita randagia e senza un raggio di speranza per lui non era tale da doversi durare più a lungo.

Anche il suo protettore lo aveva capito e si struggeva in cuor suo di non poterlo contentare, rimandandolo in patria. Mal sicuri gli accessi al confine del nuovo regno cristiano; la costa in balìa degli Emiri, nemici suoi, come della gente cristiana; difficile, per non dire impossibile, il combinare di là, nel cuore del deserto, una nave d'Occidente su cui potesse imbarcarsi il suo ospite sconsolato.

Eppure, tanto era l'affanno di Arrigo, che lo Sciarif ne fu scosso e promise a sè medesimo di tentare una via per rimandarlo tra' suoi.

Erano tornati dalla impresa sfortunata contro l'Egitto. L'incontro di Bahr Ibn col gran Priore degli Assassini d'Occidente era avvenuto, e i negoziati avevano sortito quell'esito che sappiamo.

— Cristiano, — disse Bahr Ibn ad Arrigo, — io m'avvedo che l'anima del guerriero vola col desiderio ai minareti della sua patria lontana. Sii paziente ancora per pochi giorni. O debbo rimaner qui, inutile a me stesso e alla mia fede, e allora potremo fare con tutta la mia gente una corsa verso la valle di Ebron, dove comanda un uomo della tua fede, il barone Gerardo di Avennes. O accetto la proposta di Abu Wefa e vado con lui verso settentrione; [205] e allora vedrò di spiccare un drappello di cavalieri, che ti accompagni ai confini del principato di Tiberiade, dove regna il valoroso Tancredi. —

Arrigo avrebbe desiderato d'inoltrarsi subito verso le mura di Gaza; ma l'amicizia rendeva prudente l'animo di Bahr Ibn.

— No, — diss'egli, — mandarti all'Emiro di Gaza, senza la certezza di un naviglio in quelle acque ad aspettarti, sarebbe un errore. Qui vivi ospite caro e padrone della mia tenda; laggiù, sarebbe forse lo stesso? L'ospitalità, lunge dagli occhi miei, non potrebbe mutarsi per te in prigionia? —

Il povero Arrigo da Carmandino aveva dovuto arrendersi alle giuste considerazioni dell'amico ed aspettava con impazienza il termine di quella lunga fermata al castello di Kanat.

Argomentate la sua allegrezza, quando fa annunziato l'arrivo dei Genovesi nel campo dello Sciarif. Il nostro Arrigo fu per impazzirne. Baciò quella terra dove poc'anzi gli sapea male di essere stato indugiato così lungamente; volò incontro ai suoi salvatori, e cadde, mezzo svenuto, nelle braccia di Caffaro, del suo giovane compagno d'armi, che era stato sul punto di essere anche il suo compagno di sventura, nel giorno della presa di Cesarea, giorno così glorioso ad un tempo e fatale per lui.

E là, poichè si fu riavuto dalla commozione improvvisa, senza dargli tempo di respirare, Arrigo incalzò colle domande l'amico. Sulle prime non ardiva andar diritto all'essenziale. Domandò di questo e di quell'altro dei loro compagni; si rallegrò [206] di udire che erano tornati sani e salvi in patria, e più ancora di sapere che una terza spedizione era giunta sulle coste di Soria e già aveva ripreso il filo interrotto delle nobili imprese. Ma il colmo alla sua gioia fu posto dall'annunzio che la galèa di Caffaro era ad aspettarli nelle acque di Gaza, di quella Gaza che al suo cuore presago era apparsa come il punto della liberazione.

— Ma.... — entrò egli a dire finalmente — nessuno mi manda un saluto.... una parola di conforto da Genova? Non avete altra lieta novella per me?

— La più lieta che voi possiate immaginare; — rispose Caffaro di Caschifellone. — Ma vi prego, chetatevi, messere Arrigo; siate forte alla gioia, come lo siete stato al dolore.

— Dite, dite, amico, fratello mio! — proruppe Arrigo, i cui occhi raggiavano di contentezza. — Non si muore di gioia; io sarei già morto, vedendovi giungere al campo di Bahr Ibn. Ma dite, ve ne supplico, dite! È l'incertezza, che uccide.

— Siamo divisi in due squadre, — disse Caffaro allora; — a due terzi di strada, al pozzo di Rehobot, ci aspetta il grosso della carovana, ed è là, col resto dei nostri arcadori, un gentile scudiero che porta il nome di Carmandino.

— Di Carmandino! — ripetè Arrigo, che non intendeva quella novità.

— Sì, — rispose Caffaro, — ma non è il suo, e lo porta come un augurio. Lo scudiero è bianco in viso come una fanciulla; ha i capegli d'oro e gli occhi azzurri.

— Ah! — esclamò Arrigo, mettendosi una mano sul cuore, per comprimerne i battiti.

[207]

— Avete indovinato; — soggiunse Caffaro. — Siate forte, messere. Noi riposeremo quest'oggi, e se il vostro amico e protettore lo consente, domani ci rimetteremo in cammino.

— Oh, lo consentirà, non temete! Egli è stato sempre così buono con me! Mi ha campato da morte, ha vegliato su me, con un affetto più che fraterno. Una cosa sola non ha potuto darmi, l'allegrezza, perchè questa non era in poter di nessuno. Infatti, se io non sono stato libero prima, la colpa non è sua, ma del ferreo destino che ci fa da oltre un anno vagabondi in queste pianure d'arena. Eppure, vedete, messer Caffaro, io benedico questa mia lunga cattività, questa dolorosa lontananza da tutti i miei cari, perchè essa mi ha dato oggi il modo di scorgere alla prova come la donna dei miei pensieri sentisse fortemente l'amore.... ed anche, per esser giusti, — soggiunse Arrigo, stringendo affettuosamente la mano di Caffaro, — come pensassero gli amici al povero prigioniero di Cesarea. —

Gandolfo del Moro udiva quelle effusioni dell'animo di Arrigo, e l'amarezza gliene veniva alle labbra.

— Perdio, — brontolò, — come è felice costui! —

E si allontanò dal crocchio, per andarsene ad ossequiare lo Sciarif, che trattava i Genovesi con una liberalità veramente orientale.

— Credenti in Dio, — aveva egli detto ai suoi cavalieri, — noi combattiamo in guerra i Cristiani, perchè nemici nostri e invasori delle terre che il profeta ha assegnate al trionfo della sua fede. Ma essi sono oggi gli ospiti nostri, e l'ospite, dovunque [208] arrivi e da qualunque parte egli venga, è signore. —

Anche l'alleato suo, Abu Wefa, partecipava di buon grado a queste amorevoli accoglienze. Arrigo da Carmandino e Caffaro di Caschifellone, per conseguenza, erano i prediletti di Bahr Ibn; e Abu Wefa prese ad usar cortesia a Gandolfo del Moro. Ma era egli proprio vero che lo togliesse come l'ultimo rimasto? E non ci si aveva a vedere piuttosto un effetto di quella simpatia che nasce spontanea tra i simili?

Era uno strano personaggio, il Dai al Kebir. Anzi, se permettete, lascieremo quind'innanzi il suo titolo Saracino per chiamarlo cristianamente il Gran Priore, come usavano tutti i Crociati di quel tempo, così poco famigliari coll'arabo.

Giovane ancora, intorno ai quaranta, lunga la barba e nera, ma rada, alto della persona e snello a guisa d'un palmizio, il Gran Priore poteva sembrare da lunge un bell'uomo, aiutando alla maestà dell'aspetto la fascia rossa ravvolta a mo' di turbante (dulipante, dicevasi allora) intorno all'elmo di acciaio, e il gran mantello di seta bambacina, listato di bianco e di rosso, che nascondeva la cotta di maglia e gli altri arnesi del guerriero. Ma veduto da vicino era tutt'altro; la torva guardatura, il volto sfregiato da una lunga cicatrice, e l'asciutta rigidezza del labbro superbamente atteggiato, più che maestoso lo faceano terribile. E ciò piacque a Gandolfo, che vedeva in quel volto riflettersi qualche cosa del suo, e che istintivamente odiava i belli. Messer Gandolfo era un uomo impastato di gelosia. Avrebbe fatto a pezzi l'Apollo del Belvedere [209] e il Fauno di Prassitele, se questi due miracoli di bellezza gli fossero capitati tra mani.

— Gran Priore, — gli disse, in un momento di espansione, — molte cose si narrano della vostra possanza. —

Gandolfo non aveva dimenticato i paurosi ragguagli che intorno alla sètta degli Assassini aveva forniti il povero Abd el Rhaman ai viaggiatori genovesi, nella loro fermata al pozzo di Rehobot.

Abu Wefa aggrottò le ciglia e diede a Gandolfo del Moro un'occhiata maestosa.

— Che ne sapete voi, cavaliere? — chiese egli di rimando.

— L'Occidente, — rispose Gandolfo, — è pieno delle vostre gesta. Si parla di voi, nelle veglie dei nostri castelli, molto più che dei Turchi d'Iconio e del soldano di Babilonia.

— Ah sì? — disse quell'altro, spianando le rughe del fronte, come uomo che non era insensibile alla lode. — E che cosa si dice di noi?

— Che siete possenti e terribili come il mistero che vi circonda, audaci e pronti come gli avvoltoi del vostro nido di Alamut; che avete sparse le vostre fila sicure per tutto l'Oriente; che siete la più temuta sètta della religione di Maometto.

— Dite anzi la più grande, e l'unica vitale fra tutte; — rispose il Gran Priore, con accento da cui traspariva l'orgoglio sconfinato del suo ordine. — I figli d'Ismaele non possono prosperare più oltre senza di noi. L'Islam è vecchio; bisogna ringiovanirlo con una nuova dottrina. E noi ne verremo a capo, collo spavento e col sangue, poichè altra maniera d'insegnamento non c'è, tra questi [210] imbelli ed ambiziosi Califfi, che hanno in custodia la bandiera del Profeta, che si contendono il sommo potere tra loro e lasciano a voi cristiani metter piedi in Soria.

— E dicono altresì, — riprese Gandolfo del Moro, — che voi, meglio dell'altra gente, intendete i gaudii della vita, e che la bellezza vi piace, come il premio più accetto ai valorosi.

— La bellezza è il sorriso dell'universo; — sentenziò il Gran Priore; — è il paradiso, che Dio ha collocato nel mondo, e non fuori. Vincere, sterminare i proprii nemici; ottenere la ricchezza e inebriarsi di amore, è questa la parte dei forti.

— Ben dite, la parte dei forti! — esclamò Gandolfo, a cui scintillavano gli occhi. — Esser forti, od astuti, che è un esser forti per altra guisa; questo è l'essenziale. Anch'io, Gran Priore, vorrei essere dei vostri. —

Abu Wefa gli diede un'altra delle sue guardate, che pareva volerlo passare fuor fuori.

— Da senno? — gli chiese.

— Perchè no, se fossi più giovane? Non parlo della religione, che, da quanto ho capito, non dovrebb'essere un ostacolo ad entrare nel vostro gran sodalizio. Ma è dei giovani soltanto il sottomettersi a certe prove.

— Amico, — disse il Gran Priore, con un accento misto di familiarità e di diffidenza, — tu non potresti entrar già nella schiera dei Fedàvi. Son questi i giovani che noi educhiamo dalla prima adolescenza a tutte le imprese più disperate, conducendoli alla luce per la via dell'errore. Credono al paradiso di là, al paradiso del Profeta, e noi dobbiamo [211] avvezzarli a grado a grado. Ma tu ben potresti entrare nel numero dei compagni, dei rèfili, in attesa di meritare coi servigi il grado di Dai, o di maestro iniziato.

— I rèfili! — esclamò Gandolfo. — Che cosa significa ciò?

— E tu perchè mi fai questa domanda? — disse a sua volta Abu Wefa, fermandosi a un tratto e piantandogli addosso lo sguardo scrutatore. — Hai forse disegnato di rubare un segreto a me? Bada bene, Cristiano, un segreto non si vende che a prezzo di un altro segreto.

— E sia, — rispose Gandolfo. — Ho infatti a parlarvi di cosa grave, e se voi mi giurate....

— Ti avevo capito alla prima; — interruppe Abu Wefa; — ti avevo letto un arcano negli occhi. Sta bene; — proseguì allora, abbassando la voce. — Questa notte fa di andare a dormire più lunge che potrai dai tuoi compagni di viaggio. Un mio Fedàvo verrà a cercarti. Seguilo, e parleremo... ci intenderemo.

— Lo spero; — disse Gandolfo.

Dov'era andata in quel punto la vostra vigilanza messer Caffaro di Caschifellone?

Anche il nostro giovine Arrigo non doveva accorgersi di nulla. Quel giorno aveva dato un sobbalzo, vedendo tra i suoi liberatori Gandolfo del Moro, e a tutta prima non gli era venuto fatto di intendere le ragioni della sua presenza colà. Ma l'uomo generoso è così facile a creder generosi i suoi simili, che Arrigo si era pentito di quel suo primo e istintivo moto di stupore, e aveva perfino abbracciato il suo antico rivale.

[212]

Tutto il restante della giornata fu consacrato al riposo e alle feste dell'amicizia. Bahr Ibn era triste di dover lasciare l'amico suo che bene intendeva di perdere, e per sempre. Ma lo Sciarif era forte e seppe nascondere il suo rammarico.

Anche il Gran Priore degli Assassini annunziò che doveva partire la mattina seguente. Le sue schiere già erano in ordine e non c'era nessuna ragione d'indugiare più oltre. Abu Wefa disegnava di andare un tratto verso levante, fino alla valle di Siddim; di là avrebbe condotto la sua gente sull'altra sponda del lago d'Asfalto, e proseguendo verso settentrione, lunghesso la sinistra del Giordano, sarebbe andato a gittarsi con rapide marcie tra il regno di Gerusalemme e il principato d'Antiochia. Laggiù, in quelle gole alpestri che sono alle spalle di Tripoli, il Gran Priore voleva piantarsi saldamente e procacciarsi anche lui la sua parte di regno.

— Che farai tu? — chiese Abu Wefa a Bahr Ibn dopo avergli accennato il suo disegno. — Non seguirai l'esempio? Aspetterai qui nell'inedia una fortuna che non verrà mai?

— Vedrò; — rispose Bahr Ibn, che era rimasto pensoso. — Intendo anch'io che il guerriero non può stare a lungo senza speranza di pugna.

— Ah, lo vedi anche tu? Non hai udito, del resto? I tuoi amici Genovesi vanno all'assedio, o, come essi dicono, alla espugnazione di Tortosa. Qual campo di gloria per te! Oggi amici, e sta bene; domani avversarii, la cosa va da sè. Pensa, o discendente del Profeta, che il tuo posto, è dove si combatte per la difesa dell'Islam. —

Abu Wefa lavorava, così dicendo, per l'usurpatore [213] Afdhal. Dopo aver negato il suo aiuto a Bahr Ibn, cercava di allontanarlo dal confine d'Egitto.

Giunse la notte, invocata, sospirata, da Arrigo di Carmandino, che affrettava il nuovo giorno coi voti. Gandolfo del Moro la desiderava invece per un'altra ragione e l'avrebbe anzi voluta due cotanti più lunga. Fatta ogni cosa secondo i consigli di Abu Wefa, il nuovo Giuda si recò dal Gran Priore. Tremava un pochino, il degno messere Gandolfo. Neanche ai ribaldi è dato di fare il male con animo tranquillo, e Gandolfo sapeva benissimo di commettere una ribalderia più nera della notte in cui sperava di nasconderla.

Il colloquio durò fino all'appressarsi dell'alba; ma assai prima che finisse, il Gran Priore aveva dato i suoi ordini, e un drappello di Fedàvi, rapiti poc'anzi alle delizie del paradiso, montava animoso in arcioni, volgendo i passi a ponente.

Nel congedarsi dal Gran Priore, Gandolfo gli disse:

— Mio signore, è un presente da re, quello che io ti ho fatto. La perla d'Occidente non conosce rivali.

— L'hai tanto levata a cielo, — rispose Abu Wefa, — che io sono curioso davvero di conoscerla. Se ti accade di toccar terra nelle vicinanze di Tripoli, vieni a cercarmi. Ti darò in cambio una perla d'Oriente.

— Accetto, quantunque io sappia di perderci troppo.

— Stolto! E perchè allora non l'hai tenuta per te?

— Se fosse stata mia! — esclamò Gandolfo, fremendo. — Se avessi avuta forza bastante per rattenerla in mia mano!

[214]

— Sii paziente, adunque, — disse di rimando Abu Wefa, — se non ti è dato ancora esser forte. Addio, Cristiano; o piuttosto, a rivederci. Capisco che anche con voi sarà facile intenderci, se portate qua le vostre collere, i vostri amori e le vostre gelosie d'Occidente. —

Gandolfo chinò la testa raumiliato e partì.

Tornava al suo letto con un rimorso nuovo nell'anima. Avrebbe dato metà della sua vita per non aver scelto quella forma di vendetta. Si coricò, ma non gli venne fatto di prender sonno; e poco dopo, quando Caffaro si accostò al suo giaciglio per risvegliarlo, balzò in piedi fieramente turbato, come quell'altro dovesse leggergli il suo tradimento negli occhi.

— Dio mio, che brutta cera! — avrebbe voluto dir Caffaro.

Per altro si trattenne in tempo, ricordando che messer Gandolfo non era mai bello, non solo ai primi raggi del sole, ma neanche quando cadeva il crepuscolo.

Questi intanto, per vincere il rimorso, si sdegnava con sè medesimo.

— Alla fine che c'è di strano? Mi vendico. Forse che non potrò più vendicarmi? E non ho sofferto abbastanza? Avrei dovuto vedermi sempre quella coppia di felici davanti agli occhi? Per Dio, siamo infelici un po' tutti. L'abbia un altro e la tenga. Una donna di più, una donna di meno, la Cristianità non andrà mica a soqquadro! —

[215]

CAPITOLO XV. Una triste novella.

I nostri viaggiatori partirono dal castello di Kanat a giorno inoltrato, perchè Bahr Ibn non sapeva staccarsi da Arrigo di Carmandino. Gli amplessi fraterni di quei due nemici, così fatti per amarsi l'un l'altro, si ripetevano, e non senza accompagnamento di lagrime. Non si è impunemente salvata la vita ad un uomo, non si è ricevuto impunemente un gran benefizio da lui, non si è vissuti impunemente un anno insieme, compagni di tutti i giorni, partecipi di tutte le gioie, di tutte le ansietà, di tutti i pericoli. Bahr Ibn era d'indole altera, e, giusta la natura degli Ismaeliti, traente al feroce; ma si sa che appunto in quelle anime vergini di ogni coltura allignano più facilmente gli affetti gagliardi e vi mettono più profonda radice. Era un amor di guerriero, quello di Bahr Ibn per Arrigo di Carmandino. Si aggiunga che lo Sciarif, guerriero fin dai primi anni dell'adolescenza, sbalestrato [216] dal destino in sempre nuove avventure, non aveva amato mai d'altro amore, ed espandeva nell'amicizia un ardore, che lasciava indovinare com'egli avrebbe amato una donna, il primo giorno che si fosse imbattuto in quella che doveva destargli le vampe del desiderio nel sangue.

— Ci vedremo noi più? — chiedeva Bahr Ibn, tenendo ancora tra le sue la mano di Arrigo.

— Chi sa? Speriamo.

— In campo.... combattendo! È dolorosa! Perchè non son io nato Cristiano, o tu Mussulmano? —

Caffaro di Caschifellone, che era l'erudito della brigata, entrò a dire:

— Ho letto nei poeti antichi di due guerrieri, che, scontratisi in battaglia, e riconosciutisi per vecchi amici, giurarono di cansarsi sempre, d'allora in poi, perchè il campo era vasto e ognuno aveva allori da mietere, senza bisogno di tinger le mani nel sangue dell'amico.

— Questo è bene; — disse Bahr Ibn, e quantunque io non pensi di muovermi così presto verso i luoghi dove mi sarebbe più facile incontrarvi nemici, giuro d'imitare questo nobile esempio. —

In tal guisa si separarono i due amici, che imitarono senza saperlo i due omerici avversarii, Glauco e Diomede, scambiando l'uno coll'altro, in segno di affetto, le loro maglie d'acciaio.

Arrigo da Carmandino ardeva di giungere alla meta del suo viaggio. La meta non era Tortosa, ne la galea di Caffaro, già lo argomentate; era il pozzo di Rehobot, dov'egli aveva ad incontrarsi colla bella Diana.

Ma il cammino era lungo, e per quanta sollecitudine [217] mettessero tutti a secondar l'impazienza del nostro innamorato, ci vollero tre dì per giungere a mezza via, cioè a dire alle strette di Cades.

Li aspettava colà un doloroso spettacolo. Il suolo appariva, non pure calpestato di recente, come se vi fossero passati molti uomini, ma altresì scompigliato per modo da lasciar argomentare che ci fosse avvenuta una zuffa. Il sospetto, affacciatosi tosto alla mente di tutti, fu avvalorato dalla vista di alcune macchie di sangue, che avevano rappresso in più luoghi l'arena.

— Sire Iddio! — gridò Caffaro. — Qui s'è sgozzato qualcheduno.

— Luogo infame! — rispose l'Arabo che guidava i viaggiatori. — Le strette di Cades hanno sempre voluto le loro vittime.

Caffaro tremò istintivamente, pensando all'altra parte della carovana che avevano lasciato indietro.

— È fortuna, — soggiunse, per farsi coraggio, ma senza ottenere l'intento, — che Abd el Rhaman sia rimasto al pozzo di Rehobot, ed anche in numerosa compagnia, chè non aveva l'aria di volersene andare così presto! —

Gandolfo del Moro non intendeva nulla di ciò che vedeva. Qual nesso era a trovarsi fra quelle tracce d'una mischia recente e la partenza notturna dei Fedàvi dal castello di Kanat, se l'impresa da lui proposta doveva tentarsi al pozzo di Rehobot? Forse il vecchio Abd el Rhaman si era avventurato colla sua gente fino alle strette di Cades? Ma allora, perchè non si vedeva nessuno dei suoi? Gandolfo non sapeva neppur lui che pensare; ma incominciava a tremare in cuor suo, tra il dubbio [218] d'una vendetta troppo piena, e quello di un colpo fallito.

— Andiamo! — disse Arrigo, a cui quella scena stringeva il cuore. — Sia pace agli estinti, e corriamo dove i nostri ci attendono. Mi avete pur detto che quello è un luogo sicuro? —

Arrigo avrebbe voluto aver l'ali, o almeno poter divorare la strada d'un tratto. Ma questo, anche ammettendo che i cavalli potessero rispondere alla sua impazienza, non potea farsi senza la certezza di trovar provvigioni lungo il cammino. Infame deserto, che non dava un fil d'erba ai cavalli, ne un sorso d'acqua ai viandanti assetati! Era stata di certo una maledizione del cielo, che aveva disteso quelle pianure sterminate di sabbia.

Va, povero Arrigo, misura le agonie del cuore al passo troppo lento del tuo corsiero, dono fraterno del generoso Sciarif. Tu giungerai sempre in tempo per piangere la morte d'ogni tua dolce speranza.

Tutto era tumulto e desolazione al pozzo di Rehobot, dove gli uomini del Krebir si erano ridotti, coi cammelli e colla compagnia degli arcadori genovesi, dopo il luttuoso evento, che era costato tanto sangue e la perdita del biondo scudiero.

Ai piedi della tomba di Sidì al Hadgì, e nel centro della sua tenda di cuoio, i cui lembi si vedevano largamente sollevati, il cadavere di Abd el Rhaman, ravvolto in un bianco lenzuolo, posava su d'un picciolo tappeto. Due gruppi d'Arabi lo vegliavano, rappresentando in quel luogo le neddabat, o piagnone, che avrebbero certamente compiuto il loro funebre uffizio, se il vecchio Krebir fosse morto così vicino al paese, da potervi essere trasportato.

[219]

— «Dov'è egli? — cantava il primo gruppo. — Il suo cammello è qui; son qui, la sua lancia, il suo scudo e la sua scimitarra; ed egli non è più con noi.

— «È morto nel suo giorno; — cantava di rimando il secondo gruppo. — È morto combattendo pe' suoi.

— «No, non è morto; la sua anima è con Dio, un giorno lo rivedremo, il valoroso Krebir, il difensore dei cammelli, il protettore dei viandanti.

— «No, non è morto, non è morto! Egli ha lasciato a Gaza i suoi figli, forti come leoni, rapidi come gazzelle. Essi sosterranno nel suo dolore la donna, di cui è vuota la casa e gelido il cuore.» —

Gli Arabi della scorta erano assorti nel funebre uffizio, allorquando giunsero al pozzo i reduci dal castello di Kanat. Vedute appena all'orizzonte le palme di Rehobot, Arrigo da Carmandino e Caffaro di Caschifellone avevano dato di sprone ai cavalli ed erano giunti all'oasi, precedendo di due ore la comitiva. Ma Arrigo, che aveva un cavallo migliore, e una impazienza più grande, precedeva di forse mezz'ora l'amico.

Riuscito d'improvviso davanti al monumento di Sidì al Hadgì, e veduta la funebre scena, Arrigo da Carmandino rimase muto a guardare, e istintivamente chinò la fronte, mormorando una preghiera pel trapassato, che si vedeva disteso sotto la tenda di cuoio. Arrigo non conosceva nessuno di quegli uomini e non era conosciuto da nessuno; perciò non sapeva a cui volgersi, e niuno degli Arabi gli era andato incontro, per tenergli la staffa.

Uno di essi, finalmente, si mosse dal crocchio e avvicinatosi al cavaliere gli disse:

[220]

— Mio signore, donde vieni e che cosa domandi?

— Vengo dal castello di Kanat; — rispose Arrigo, — e precedo i Genovesi che hanno lasciata qui una parte della carovana di Gaza. —

L'Arabo non aspettò che il cavaliere rispondesse alla seconda richiesta, e corse al pozzo gridando:

— Cristiani, venite qua, è arrivato uno dei vostri. —

Alla chiamata si presentarono parecchi arcadori genovesi, che un gruppo di palme nascondeva agli occhi di Arrigo. Uno di essi, vecchio soldato, lo riconobbe da lunge.

— Messere Arrigo! — gridò egli, accorrendo. — Sia lodato il cielo! Voi tornate, almeno!

— Almeno! — ripetè Arrigo, turbato. — Che vuol dir ciò? I nostri compagni mi seguono e nessuna sventura li ha colti. Ditemi invece; è qui con voi un giovane scudiero, che porta il mio stesso nome? —

L'arcadore chinò gli occhi a terra, e si pentì, ma troppo tardi, di essere corso il primo a salutare Arrigo.

— Ah, mio signore! — mormorò egli confuso. — Se voi sapeste....

— Orbene, parla, in nome di Dio! — gridò Arrigo, cui la reticenza dell'arciero avea dato una stretta violenta al cuore.

— Siamo stati assaliti; — riprese il soldato. — Abd el Rhaman è morto.

— Ma lo scudiero? Madonna Diana, insomma?

— Oh, v'intendo, messere. Noi tutti l'avevamo riconosciuta sotto quelle spoglie virili. Messer Arrigo, noi siamo stati colti alla sprovveduta e legati [221] come cani, prima che potessimo opporre una valida resistenza. Due dei nostri compagni son morti; cinque feriti.... gravemente feriti.

— Ma lo scudiero, disgraziati! lo scudiero, vi domando!

— Calmatevi, messer Arrigo, calmatevi! Lo scudiero.... madonna Diana.... oh, perdonateci! Noi non ne abbiamo colpa; noi abbiamo fatto quanto era in poter nostro, per salvarla da quei ribaldi.... —

Caffaro giungeva in quel mentre, e proprio a tempo per raccogliere Arrigo tra le sue braccia. Se egli non era, il povero Carmandino precipitava di sella senz'altro.

— Che cos'è avvenuto? — domandò egli a sua volta, indovinando una disgrazia irreparabile.

— Ah, signore! — gridarono gli arcadori, facendosi intorno a lui lagrimosi. — Gli Assassini....

— Orbene, avanti! Gli Assassini?...

— Ci hanno assaliti, tre giorni or sono, ci hanno colti a tradimento, senza che noi potessimo pure difenderci.

— Qui? Con tanta gente della nostra carovana, e con quell'altra che vedo ancora qui trattenuta?

— No, alle strette di Cades.

— Ah! — gridò Caffaro, rammentando le traccie del sangue. — Il cuore me lo aveva pur detto! Ma come? — proseguì, interrogando i suoi arcadori. — Perchè vi siete discostati dal pozzo di Rehobot? E come va che ci siete tornati?

— Signore, non siamo noi che abbiamo voluto muoverci di qua.

— Forse Abd el Rhaman?

— No, neppur egli. Fu lo scudiero, fu madonna [222] Diana, che moriva d'impazienza, non vedendovi ritornare al giorno indicato. Abd el Rhaman, inquieto anche lui la sua parte, finì col cedere alle istanze, e ci condusse a due altre giornate verso levante, fino alle strette di Cades. Dovevamo ripartire la mattina, per alla volta di Kanat, quando, nel cuor della notte, ci giunsero due pellegrini affamati. Erano due Assassini, travestiti da poveri viandanti. Li abbiamo accolti, dissetati e sfamati. Essi, in ricambio, hanno tagliato le corde dei nostri archi, e chiamati su noi, mentre dormivamo, i loro compagni, appostati in gran numero tra i lentischi della collina. Signore, è stata un'orrida notte! Due dei nostri, il bravo Rubaldo Vecchio e il povero Ottone di Busalla, son morti nello scontro; altri cinque sono feriti, e senza aver potuto salvare il biondo scudiero.

— E il Krebir?

— Eccolo là; i suoi uomini lo hanno riportato al pozzo di Rehobot, per dargli sepoltura. Il generoso vecchio ha pagato colla vita l'error suo e quello di madonna Diana. —

Arrigo da Carmandino s'era in mal punto riavuto e udiva il racconto della sua grande sventura.

— Dio! — gridò egli furente, alzando le pugna al cielo. — Questo premio era serbato ai vostri campioni? —

Caffaro fu pronto a dargli sulla voce.

— Non imprecate, Arrigo. Son gli uomini, i colpevoli, e gli uomini ci renderanno conto della loro malvagità. —

Le parole andavano ad Arrigo! ma lo sguardo si era rivolto a Gandolfo del Moro, che era giunto poco dopo di Caffaro.

[223]

— Messere, — disse Gandolfo, impallidendo, — voi dubitate di me?

— Lo avete detto; — rispose Caffaro, che non sapeva mentire.

Gandolfo del Moro abbassò la fronte e un sudor freddo gli stillò dalle tempie. Ma tosto si scosse e oppose un piglio risoluto ai sospetti di Caffaro.

— È orribile ciò che voi pensate, messere! — diss'egli di rimando.

— Orribile, in verità! — ripigliò Caffaro. — Io stesso non ardisco fermarmi col pensiero sulla scelleraggine dell'uomo, che ha potuto ordire un tradimento sì nero.

— Avete ragione: — replicò Gandolfo. — E perdono alla vostra commozione il sospetto caduto su me. Invero, chi potrebbe odiare Arrigo da Carmandino se non son io quel desso? E tuttavia, pensateci meglio, messer Caffaro. Avere amato Diana.... Oh, non mi guardate con quegli occhi torbidi, Arrigo; il mio amore sfortunato non può essere un'offesa per voi! Avere amato Diana degli Embriaci, — proseguì Gandolfo, rivolgendo il discorso a Caffaro di Caschifellone, — vorrà forse dire che io potessi darla in balìa dei nemici? Il fiero e geloso amatore che io sarei stato, se avessi fatto una vendetta così sciocca! — soggiunse, accompagnando le parole con un amaro sorriso. — Un male ho fatto, pur troppo; e me ne pento, ma tardi. Son io che ho consigliato l'impresa di venire in traccia di Arrigo; son io che mi sono proposto a capitanarla. Ma dite, alla croce di Dio, potevo io forse prevedere che madonna Diana sarebbe venuta con noi? E sono io forse che l'ho consigliata a non seguirci oltre il [224] pozzo di Rehobot? Eppure, sì, la colpa è mia, perchè tutto il male è venuto dal mio primo disegno. Ma giuro a Dio che ci ascolta, e possa io cadere qui fulminato se mento, non è in me altra colpa fuor questa. —

In quel punto Gandolfo del Moro avrebbe voluto essere esaudito, cader fulminato davvero; tanto profondamente sentiva egli l'orrore del suo delitto, e così vivo era in lui il desiderio di sottrarsi allo sguardo scrutatore dei compagni.

Frattanto, egli avea messo tanto ardore nella sua discolpa, che Caffaro rimase perplesso, e dubitò del suo dubbio.

— Impossibile! — mormorò egli, rispondendo a sè stesso. — Bisognerebbe supporre una malvagità troppo grande nel cuore di un uomo. —

Mentre questo dialogo avveniva tra loro, gli Arabi della scorta, e i loro compagni dell'altra carovana proseguivano la funebre cerimonia.

Finite le lamentazioni, presero il cadavere, lo lavarono accuratamente, e lo involsero in un bianco lenzuolo, inzuppato nell'acqua e profumato di belzuino. Poscia, quattro di loro, che erano i più autorevoli nella carovana dopo l'estinto, sollevarono dalle quattro cocche il tappeto su cui era disteso il cadavere e lo portarono più lunge, dove era già scavata la fossa per accoglierlo.

— «Non c'è che un Dio!» — cantava gravemente il più vecchio, che faceva le veci di sacerdote.

— «E il nostro signore Maometto è il suo profeta, — rispondevano gli altri in coro.

Giunti sull'orlo della fossa, il vecchio intuonò il salat el gienaza, ossia la preghiera della sepoltura:

[225]

«Lode a Dio, che dà la morte e la vita;

«Lode a lui che risuscita i trapassati;

«A lui ogni onore, ogni grandezza; a lui solo il comando e la possanza; imperocchè egli è sopra ad ogni cosa.

«Sia la preghiera rivolta anche sul profeta Maometto, sui congiunti suoi ed amici. Mio Dio, vegliate sovr'essi e accordate loro la vostra misericordia, come l'avete concessa ad Ibrahim (Abramo) ed ai suoi; imperocchè a voi solo appartengono e la gloria e la lode.

«Mio Dio, Abd el Rhaman era un vostro servo, il figlio del vostro servo. Voi lo avete creato, voi gli avete largito i beni di cui ha goduto, voi lo avete fatto morire, voi solo dovrete risuscitarlo.

«Noi veniamo qui ad intercedere per lui, o mio Dio; liberatelo dai mali del sepolcro e dalle fiamme dell'inferno. Perdonategli, abbiate misericordia di lui; fate che il suo posto sia onorato ed ampio; lavatelo con acqua, neve e grandine, purificatelo dei suoi peccati, come si purifica una veste bianca dalle brutture che hanno potuto insozzarla. Dategli una casa più bella della sua, parenti più amorevoli e una moglie più perfetta che non avesse in vita. Se era buono, fatelo migliore; se era cattivo, perdonategli le sue colpe. O mio Dio, egli si è rifugiato presso di voi, e voi siete l'ottimo rifugio degli uomini. È un povero che viene ad implorare la vostra liberalità, e voi siete così grande, che non lo castigherete e non lo farete soffrire.

«O mio Dio, rafforzate la voce di Abd el Rhaman, allorquando egli vi renderà conto delle sue opere, e non gl'infliggete una pena superiore alle [226] sue forze. Noi ve ne preghiamo per intercessione del vostro profeta, dei vostri angeli e santi. Amin!»

«Amin! — risposero tutti in coro.

— «O mio Dio, — riprese il vecchio, — perdonate ai nostri morti, ai nostri vivi, ai presenti e ai lontani, ai piccoli e ai grandi, ai padri, agli avi nostri, a tutti i figli e a tutte le figlie dell'Islam.

«Coloro che voi fate risorgere, risorgano nella fede, e coloro di noi che fate morire, muoiano da veri credenti.

«Preparateci ad una buona morte; la quale ci dia il riposo e la grazia di venire al vostro cospetto.»

— «Amin!» — ripeterono in coro tutti gli astanti.

Finita la preghiera, fu calato nella fossa il cadavere, colla faccia rivolta verso la Mecca. Larghe pietre scheggiate gli furono piantate dattorno, ed ognuno degli astanti gli gettò sopra un pugno di terra. Gli uomini che avevano scavato la fossa ragguagliarono il terreno sulla tomba, e per custodirla contro gli sciacalli e le jene, la copersero tutta di rovi.

— Andiamo, — disse il vecchio congedando i compagni; — andiamo fidenti in Dio, e lasciamo l'estinto ad aggiustare i suoi conti con Azraele. Cessino i pianti; è un delitto di ribellarsi ai comandi di Dio, e la morte è un comando di Dio. Accetteremmo noi il suo volere, quando ci arreca la gioia, e lo ricuseremmo quando ci reca il dolore? —

La turba comprese l'invito, e colle mani sugli [227] occhi si allontanò, volgendosi indietro ad ogni tratto, per mandare il suo ultimo saluto a colui che essa non doveva riveder più, fino al giorno dell'estremo giudizio.

Caffaro di Caschifellone ed Arrigo di Carmandino erano rimasti muti spettatori di quella funebre scena; questi oppresso, istupidito dal suo dolore, senza trovare, senza ardire neanco di cercare una via di salvezza; quegli abbattuto, stordito dalla improvvisa rovina, desideroso di trovare quella via, ma ancora senza il soccorso di una buona ispirazione.

— Che facciamo? — diss'egli finalmente. — Se Abu Wefa ha detto il vero, egli doveva incamminarsi verso settentrione. Tentare di inseguirlo noi, pochi e stranieri in questi deserti, sarebbe follia. Se tornassimo indietro per chiedere il soccorso dello Sciarif? Egli vi ama, Arrigo; egli non negherà questo aiuto all'amico.

— Andiamo! — rispose Arrigo scuotendosi, come uomo che esca da un sonno profondo. — Ma che otterremmo noi, se Dio non ci assiste? Io giuro, — soggiunse impetuoso, — di consacrare il restante dei miei giorni al tempio di Cristo, se madonna Diana sarà restituita incolume ai suoi cari. —

E alzò gli occhi pieni di lagrime al cielo, prendendolo a testimone del suo giuramento.

Caffaro di Caschifellone chinò il viso e sospirò. Fieramente innamorato, quantunque senza speranza, egli sentiva più d'ogni altro la gravità di quel voto.

Deliberato il ritorno, e lasciata una parte dei loro uomini intorno ai feriti, Arrigo e il suo fedele [228] amico Caffaro si rimisero prontamente in cammino. Gandolfo li seguiva a malincuore, e avrebbe desiderato andarsene a Gaza. Ma come fare? Come entrar loro del suo disegno? Qual pretesto addurre, senza che sospettassero di lui? Andò dunque con essi, ma coll'animo in soprassalto, come chi teme ad ogni piè sospinto di trovarsi sull'orlo d'un precipizio.

Ripassarono le strette di Cades, dove Arrigo pianse, Caffaro sospirò, e Gandolfo raccapricciò. Il biondo scudiero era ricordato in tre guise diverse.

Giunsero finalmente in vista di Kanat, senza abbattersi in anima nata. S'inoltrarono nella pianura; e nessun drappello di scorridori li fermò, nessuna vedetta diede il segnale del loro avvicinarsi alla gente del castello.

Una sicurezza così grande parve strana a Caffaro, e più ancora ad Arrigo, il quale, nella sua dimora a Kanat, e, prima di Kanat, nelle lunghe corse per quanto andava oltre il deserto, era stato testimone ogni giorno di quella vigilanza sospettosa, che gli Arabi avevano comune colle gazzelle, loro compagne in que'sterminati silenzii. E un vago sentimento di nuova paura corse per tutte le fibre del cuore di Arrigo.

Così soli e non trattenuti, nè salutati da alcuno, giunsero ai piedi del castello, che ben videro allora essere affatto deserto.

Si dice castello, ma era veramente una rozza costruzione di quattro mura, rincalzate da quattro torrioni sugli angoli. La presenza di un pozzo aveva fatto scegliere quel luogo per la fabbrica di un fortilizio, e la sua eminenza sul piano gli avea meritato il nome di Tell al Kanat. Abbandonato [229] dagli assassini, che ne avevano fatto come una guardia avanzata del loro mobile impero, e dallo Sciarif che vi avea posto temporanea dimora, il Tell ridiventava una stazione di viandanti, dato il caso poco probabile che ne avessero a passare da quelle parti, o una ladronaia, come era stato dapprima, cioè a dire un luogo di rifugio, un covo di Arabi predoni, a cui poteva servire ugualmente, per tale uffizio un castello abbandonato, o un mucchio di rovine.

I nostri viaggiatori erano preparati alla partenza di Abu Wefa, che già aveva lasciato trapelar loro il suo disegno di muovere verso settentrione; non così alla partenza dello Sciarif, che aveva mostrato di resistere agli inviti del Gran Priore, come questi alle sue domande d'aiuto.

Interrogarono cogli sguardi l'orizzonte; galopparono per tutti i versi, cercando le traccie dei viatori. Ma la rena, smossa dal vento, non serbava le impronte. La sfinge del deserto era muta, e custodiva gelosamente l'arcano.

Arrigo vide allora la sua Diana perduta e per sempre. Si augurò d'esser morto, non che a Cesarea, sotto le mura di Gerusalemme, smaniò, maledisse al destino; finalmente gli vennero meno le forze, e il disgraziato cadde in così profondo abbattimento, che poco più sarebbe stato per lui di smarrir la ragione senz'altro.

Caffaro restava per tal modo l'arbitro della sorte. Ed esitava, come si può argomentar di leggieri, a prendere una risoluzione.

Allora si fece innanzi Gandolfo del Moro per dare il suo parere al compagno.

[230]

— Non mi dite nulla! — gridò Caffaro, perdendo ogni ritegno ad un tratto. — Io non ho fede in voi. —

Gandolfo diede un sobbalzo, a quelle acerbe parole.

— I vostri dubbi ritornano! — esclamò egli, con accento di rimprovero.

— Sì, — rispose il signore di Caschifellone, — e così non mi fossero mai usciti di mente! Lasciate che io m'appigli ad un partito. Qualunque esso sia, io debbo starne mallevadore all'amico. Ora, qualunque risoluzione io prendessi, basterebbe che mi fosse consigliata da voi, messere Gandolfo, perchè io dubitassi della mia medesima ispirazione. —

Gandolfo del Moro si accese subitamente di sdegno e la sua mano corse all'impugnatura della spada. L'ingiuria era sanguinosa, e un combattimento senza indugio, dovesse pure costargli la vita, era a gran pezza più sopportabile dell'offesa.

— Badate! — gli disse Caffaro, senza punto scomporsi. — Io troppe volte ho fatto l'obbligo mio di cavaliere, e non sento necessità di misurarmi con voi. Qui comando io, ricordatelo. Se ardite di alzare il braccio, ve lo giuro per la croce di Dio, vi fo legare colle corde dei miei arcadori alla porta del castello, e configgere nei battenti a colpi di frecce, come si usa a casa nostra colle civette e coi gufi. —

Gandolfo del Moro aveva la schiuma alla bocca, e già era sul punto di avventarsi contro il signore di Caschifellone. Ma poichè egli era anzi tutto un uomo prudente, anche nei suoi impeti più feroci, [231] messer Gandolfo diede una rapida occhiata in giro, e vide gli arcadori di Caffaro, che si erano fatti avanti con piglio minaccioso.

Perciò si trattenne, e, sbuffando come un toro, ricacciò la spada nella guaina.

— Sono il più debole; — diss'egli, dopo un istante di pausa, — e avete ragione ad accusar me di un tradimento che avreste potuto....

— Suvvia, dite! — rispose Caffaro, infastidito da quella reticenza. — Che avrei potuto.... Che cosa avrei potuto far io? In che cosa, e in che modo, posso io andare appaiato con voi?

— Oh, non siate tanto superbo, messer Caffaro di Caschifellone! Non sono stato io solo ad invaghirmi della figliuola di Guglielmo Embriaco; e perchè dovrei essere sospettato io solo? Vi contenterò, dunque, e lo ripeterò. Sono il più debole, e avete ragione ad accusar me di un tradimento, che bene aveste potuto ordire anche voi.

— Io! Ah, tu l'hai confessato in queste parole; — tuonò Caffaro allora; — tu sei il ribaldo. Ardisci guardarmi in viso, e prender giudici tra noi questi valorosi. Quale è tra noi faccia di traditore?

— Certo, io non ho volto di femmina; — notò amaramente Gandolfo. — E poi, quali giudici son questi? I vostri soldati, messere.

— I tuoi concittadini, furfante! Ma va, tu non hai patria; tu non meriti che i figli di Genova riconoscano in te un loro fratello. Laggiù, — soggiunse Caffaro con accento solenne, — sulla via donde è partito Abu Wefa, il Gran Priore degli Assassini, laggiù è la tua patria. Infedele ai tuoi compagni, lo sarai anche al tuo Dio. Va, traditore, [232] e ti accolga il nemico, e ti paghi il prezzo del tuo tradimento.

— È giusto! — gridarono gli arcadori. — Vada cogli Assassini, che ci hanno colti a tradimento nelle strette di Cades. Il suo posto è laggiù, se voi, signore, non ci consentite di far giustizia su lui.

— Questo non sarà mai; — disse Caffaro. — La spada del soldato di Cristo non si macchierà di un sangue così vile. Ed ora, andiamo a Gaza. I nostri compagni da troppi giorni ci attendono. —

La piccola carovana si rimise in cammino. Per un ultimo tratto di compassione, il bandito ebbe la sua parte di provvigioni, che finse di non vedere, mentre gli Arabi della scorta le deponevano a terra. Anche il suo cavallo gli fu lasciato; ma i suoi scudieri, invitati a rimanere con lui, non vollero saperne a nessun patto.

— Lo avete chiamato un infedele; — dicevano a Caffaro. — Non c'è vincolo di vassallaggio che possa trattenerci con lui. —

Arrigo da Carmandino non intendeva nulla, non si era avveduto di nulla. Lo ricondussero a Gaza, obbediente ed ignaro, come sarebbe stato un fanciullo.

La galea di Caffaro li accolse, e, sciolto il provese, si mise tosto alla via. Il vento spirava propizio alla loro navigazione, e otto giorni dopo raggiungevano l'armata, che stava sulle áncore davanti a Tortosa.

I due fratelli Embriaci ebbero una stretta dolorosissima al cuore, nell'udire la perdita della sorella. Messer Nicolao si pentì della fede riposta in [233] Gandolfo del Moro. Ma era tardi, e il pentimento non rimediava a nulla. Per altro, egli stesso consigliò che si spiccasse dall'armata un naviglio, che recasse al console suo padre la triste novella, con un racconto minuto della spedizione di Gaza.

La tristezza era in tutta l'armata. I Genovesi avevano ritrovato Arrigo da Carmandino, ma aveano perduto Diana, la bella figliuola di Guglielmo Embriaco, del glorioso Testa di Maglio.

[234]

CAPITOLO XVI. La perla d'Occidente.

Perchè era partito Bahr Ibn così improvvisamente dal castello di Kanat, dove Caffaro ed Arrigo avevano sperato di ritrovarlo ancora?

La cosa merita di esser chiarita ai lettori. Torniamo dunque un passo indietro, il famoso passo dei romanzieri, che non possono mandar di fronte tutti i loro personaggi, come si fa dei soldati in linea di battaglia.

Bahr Ibn, nella notte dopo l'arrivo di Caffaro e di Gandolfo del Moro al campo di Tell el Kanat, aveva udito uno strepito niente affatto naturale in quell'ora di tranquillità. Lo Sciarif, non lo dimenticate, era un Arabo, e, come tutti gli Arabi, da Arun el Rascid, califfo di Bagdad, fino al povero Abd el Rhaman, condottiero di carovane, non dormiva che da un occhio. Aggiungete che aveva e sapeva di avere un cattivo vicino, il quale si era pur dianzi rifiutato a stringere alleanza, e troverete [235] giustissimo che Bahr Ibn, da buon capitano, dovesse stare continuamente in sospetto.

Ora, come dicevamo, lo Sciarif aveva udito un insolito rumore nel campo. Perciò era balzato dal letto, e, uscito chetamente dalle sue stanze, era andato ad appostarsi in luogo opportuno, donde non visto dare un'occhiata all'intorno.

Una ventina d'uomini salivano in quel punto a cavallo. Al raggio dell'amica luna, Bahr Ibn ravviso le bianche tuniche e le fascie rosse dei Fedàvi, poco prima che essi vi gettassero sopra certi mantelli di grama apparenza, che dovevano nascondere altrui il grado dei cavalieri e la finezza delle vesti, e si mettessero al galoppo verso ponente.

Quella partenza di venti uomini, in quella forma, a quell'ora, e in quella direzione, mentre già il Gran Priore aveva annunziato di voler partire nel giorno seguente per tutt'altra via, era fatta per insospettire il nostro amico Bahr Ibn, e per destargli in cuore il desiderio di volerne l'intiero.

Il suo conto fu presto fatto. Chiamò uno dei suoi fidati e gli bisbigliò alcune parole, a cui quell'altro rispose con un inchino, che voleva dire: ho capito, lasciate fare a me. Poco dopo la partenza dei Fedàvi, un uomo solo usciva dal campo. Vi parrà poco per una esplorazione, lo capisco: ma Bahr Ibn sapeva il fatto suo. Non voleva svegliare i sospetti del suo degnissimo sozio Abu Wefa e si contentava di mandar fuori un uomo solo. Ma tutte le sue vedette, che stavano ad una certa distanza dal campo, avvertite da quell'uomo, dovevano mutarsi in esploratori.

Allo spuntar del sole, lo Sciarif mandò altri cavalieri [236] verso ponente, nella direzione di Cades; in apparenza per rilevare la guardia, nel fatto per occupare un posto vuoto, poichè gli altri erano già andati, e, a mezz'ora di distanza, spartiti in varii drappelli, correvano il deserto sulle orme dei Fedàvi.

Abu Wefa non ebbe fumo di nulla, e partì da Tell el Kanat col grosso della sua gente, prima che le vedette dello Sciarif ritornassero al campo. Del resto, quello del cambio delle vedette era un particolare così poco notevole della vita soldatesca, che una novità nella forma, anco avvertita, non doveva far senso.

Bahr Ibn, in quella vece, insospettito da quella spedizione notturna, doveva raddoppiare di attenzione e por mente ad ogni più piccola cosa. Or dunque, accompagnando un tratto, per debito di cortesia, il suo compagno di accampamento, lo Sciarif si avvide che il Gran Priore, scambio di muover subito a levante, verso la valle di Siddin, che era il punto più vicino per riuscire sulla riva sinistra del lago Asfalto, piegava a settentrione, verso il pianoro di Aroer.

Lo Sciarif conosceva quei luoghi, per essersi aggirato colà lunga pezza, mentre si studiava di tirar dalla sua le tribù nomadi del deserto, che si stende alle falde dei monti di Giuda.

— Vai verso Hebron? — gli disse. — Darai di cozzo nella cavalleria dei Crociati.

— Sì, se avessi in animo di proseguire a quella volta; — rispose Abu Wefa. — Ma io vado soltanto a Bèrseba, dov'è una parte dei miei. Come vedi, Sciarif, la diversione non è grande, ed anche [237] di là potrò piegare, senza troppo ritardo, alla valle di Siddim. —

Bahr Ibn fece le viste di crederlo, quantunque non avesse udito mai di quella guardia che Abu Wefa teneva nei dintorni di Bèrseba. E fermato il cavallo, strinse la mano ai Gran Priore, per accomiatarsi da lui.

— Dunque, hai deciso? — disse Abu Wefa. — Rimani qui, a spiare inutilmente il nemico?

— No; — rispose Bahr Ibn; — ho perduto ogni speranza.

— E vieni con noi?

— Non per ora, ma ci penso. Quello che tu mi hai detto ieri mi sta sempre nell'animo. Il posto di un discendente del Profeta è dove si combatte per la difesa dell'Islam. E poichè non posso sperare di vincere Afdhal, — soggiunse Bahr Ibn sospirando, — bisognerà pure che io mi risolva un giorno o l'altro di lasciar questi luoghi. Come vivrebbe il re del deserto, se non andasse dove è certezza di preda?

— Dunque?

— Dunque, — rispose Bahr Ibn, — aspetto un cenno. Ho anch'io qualche speranza di far gente; e presto seguirò il tuo consiglio.

— La fortuna ti assista. Andrai dunque a Tortosa?

— A Tortosa, a Tripoli, a Tolemaide, e dovunque ci sarà da combattere.

— Così va bene; — disse il Gran Priore. — Manderò la lieta notizia ai credenti. —

E inchinatosi sulla staffa, abbracciò lo Sciarif. Quindi si allontanò sulla via di Aroer, seguito dal suo piccolo esercito.

[238]

Bahr Ibn se ne tornò pensieroso al castello di Kanat, e vi rimase tutto quel giorno e un altro ancora, aspettando.

Alla fine del terzo, giunsero al campo due degli uomini che aveva mandato sulle tracce dei Fedàvi. Erano i cavalieri meglio provveduti della spedizione, e tuttavia i loro cavalli erano sfiniti dalla corsa.

— Orbene? — domandò Bahr Ibn, che nella sua impazienza era andato incontro ai due uomini.

— Abbiamo tenuto dietro agli Assassini, come tu ci hai comandato.

— Si sono essi avveduti di nulla?

— Prima, no; uno di essi più tardi. Ma ce ne siamo impadroniti in tempo.

— In tempo! per che cosa?

— Per saper tutto di loro, mentre essi non sapran nulla di noi. Andavano verso le strette di Gades e noi li seguivamo da lunge. Tramontava il sole, quando li perdemmo di vista dietro una macchia di lentischi. Aspettammo le tenebre per seguitarli fin là, ed avemmo la fortuna di coglierne uno, lasciato in sentinella, prima che potesse dar l'avviso ai compagni.

— Lo avete costretto a parlare?

— Sì, mio signore. Sapemmo da lui che essi andavano verso il pozzo di Rehobot, per piombare sopra una carovana e impadronirsi di un giovane cristiano, lasciato in custodia ai cammellieri e a pochi arcadori della sua patria. Ma nello avvicinarsi alle strette di Gades avevano veduto che la carovana si era dal canto suo inoltrata fino a quel passo, e perciò, appiattati nella macchia, aspettavano [239] la notte, per dar l'assalto col favor delle tenebre. Infatti, poco dopo udimmo le grida degli assaliti e lo strepito delle armi. Eravamo in pochi; del resto, tu non ci avevi mandato alcun cenno di romper guerra a costoro....

— No, e avete fatto bene a non entrar nella mischia. E sono venuti a capo del loro disegno?

— Sì, e tornarono ai cavalli, trasportando con sè i loro feriti. Per altro, ne dimenticarono uno, che si trascinò nella macchia dopo la loro partenza. Accorremmo ai suoi lamenti, e da lui, coll'aiuto del nostro prigioniero, abbiamo raccolto i particolari dell'impresa. Il giovane cristiano, che hanno rapito, non era altrimenti un uomo, bensì una fanciulla. —

Bahr Ibn era rimasto sbalordito. Già aveva indovinato che quella era la carovana lasciata indietro da Caffaro, ma era ben lungi dal pensare che una donna si trovasse con loro. Nè il signor di Caschifellone, nè Arrigo da Carmandino, gli avevano fatto parola di ciò. Per altro, lo Sciarif non durò fatica ad intendere che in quel colpo di Abu Wefa si nascondeva una vendetta, un tradimento di qualcheduno. Ma di chi? Quale dei nuovi arrivati al suo campo aveva potuto entrar tanto in dimestichezza col Gran Priore, per tirarlo dalla sua in quella orribile trama?

Lo Sciarif si ricordò allora di quei compagno di Caffaro, di quel Gandolfo del Moro, la cui faccia gli era a tutta prima spiaciuta. E interrogati i suoi familiari, seppe che, durante la notte passata nel castello di Kanat, il compagno di Caffaro era stato veduto, mentre usciva dalle stanze del Gran Priore.

[240]

La risoluzione di Bahr Ibn fu pronta come la folgore.

— Dove sono andati i rapitori? — chiese egli.

— Avevano avuto ordine di accorrere alla volta di Aroer, dove il Gran Priore sarebbe andato ad incontrarli.

— Ah! — pensò lo Sciarif. — Era questo l'intento della marcia di Abu Wefa verso settentrione. Ma Eblis non ordisce così bene le sue trame, che Allà non sappia sventarle. —

E ad alta voce proseguì:

— Chiamatemi Zeid Ebn Assan. E date intanto l'avviso a tutti i nostri uomini. Si parte quest'oggi. — Il vecchio Zeid fu pronto ad accorrere. Era egli il più fido dei servitori di Bar Ibn, e quegli che aveva colle sue cure campato Arrigo da morte.

— Che vuoi, mio signore? Si parte?

— Sì, per la valle di Siddim. Ma la via non è da dirsi ora; io stesso sarò guida alla nostra gente. Fa che si radunino tutte le provvigioni d'acqua e di cibo e che i cammelli siano pronti a partire tra due ore. —

Lo Sciarif pensava che andando dritto a Siddim avrebbe potuto raggiungere Abu Wefa non troppo lunge da quel passo. Il Gran Priore, andato alla volta di Aroer, doveva infatti piegare di là verso la valle di Siddim, perdendo in tal guisa il vantaggio di tre giorni che poteva avere su lui.

Bahr Ibn non si apponeva che a mezzo. Nei dintorni di Siddim trovò bensì gli Assassini, ma non tutti. C'erano le salmerie con una numerosa scorta di cavalieri, ma Abu Wefa era già andato più oltre, e la schiera dei Fedàvi con lui.

L'arrivo dello Sciarif fu salutato con grida di [241] giubilo. Nessuno si aspettava di veder così presto quei compagni di accampamento.

— Ebbi un messaggio appena eravate partiti; — disse Bahr Ibn, per colorire in qualche modo la sua mossa improvvisa; — e sono oramai libero di andare dove il cuore mi chiama. Per qualche giorno saremo compagni di viaggio. —

Quella promessa riguardava il grosso della sua gente, non lui. Difatti, andato avanti con essi tutto quel giorno, proseguì il cammino anche di notte, col nerbo de' suoi cavalieri. E il giorno dopo, anche i rimasti indietro, consigliati da Zeid Ebn Assan, credettero necessario di affrettarsi sulle sue tracce, lasciando indietro le salmerie di Abu Wefa.

Uscito dalla valle, o, per dire più veramente, dagli stagni di Siddim, lo Sciarif si addentrò speditamente nelle terre di Moab, muovendo per Damnaba, Ar, Dibon e Madèba. E tuttavia, quella sua corsa arrangolata non gli portava alcun frutto. Di paese in paese prendeva lingua, sapeva che i cavalieri di Abu Wefa erano passati, ma sempre con due giorni di vantaggio su lui.

— Quest'uomo ha un tesoro da custodire, — pensò lo Sciarif, — e viaggia di giorno e di notte. Facciamo uno sforzo anche noi. —

Abu Wefa, giusta il conto fatto da Bahr Ibn, non poteva avere più di cento cavalieri con sè. Per correre più spedito, Bahr Ibn deliberò di lasciare indietro un'altra parte de' suoi, con ordine di proseguire come più sollecitamente potevano; ed egli con cento de' suoi migliori si rimise in cammino, risoluto di guadagnare nelle prime ventiquattr'ore una marcia.

[242]

La fortuna gli arrise. A Chirb el Sâr, l'antica Abel Cheramin della tribù di Gad, ebbe ancora notizie di Abu Wefa, che era passato il giorno avanti di là. Con un altro sforzo egli era sicuro di raggiungerlo al guado dello Jabok Serca, affluente del Giordano, che scorre alle falde della storica montagna di Galaad. Ma temeva a ragione di stancar troppo i cavalli, e si contentò per quella volta di guadagnare soltanto poche ore.

La seconda marcia fu condotta anch'essa in tal guisa, per risparmiare le forze dei cavalli. E fu bene, perchè, guadagnando poche ore ogni dì, alla mattina del quarto si giunse al poggio di Tell Asterè, che era stato abbandonato nella notte dalla cavalcata di Abu Wefa.

Fu quella per Bahr Ibn il caso di meditare sulle ragioni del Gran Priore, nello intento di cavarne una norma per sè.

Anzi tutto, perchè Abu Wefa si era dato a correre in quel modo, che meglio poteva chiamarsi fuggire? Temeva forse di Bahr Ibn? Pensando che Abu Wefa sapeva esser questi amico di Arrigo e che poteva essere avvertito da lui del rapimento della sua fidanzata, il sospetto non era mica fuori di luogo. Ma il Gran Priore poteva temere eziandio d'un altro pericolo, cioè a dire d'una corsa dei giovani Crociati ad Hebron, donde la notizia del colpo, facilmente trasmessa a Gerusalemme, avrebbe potuto dare appiglio ad una spedizione di Franchi. Varcato il Giordano poco sotto a Tiberiade, un capitano ardito, come ad esempio Tancredi di Taranto, non avrebbe trovato molto difficile il còmpito di attraversarsi sulla strada per cui risaliva [243] Abu Wefa. E questo era infatti il timore più forte del Gran Priore; il quale in ogni altra occasione non avrebbe creduto che tutte le forze d'un regno potessero uscire in battaglia per riconquistare una donna; ma, dopo aver visto la sua preda, doveva essere di contraria opinione.

Gandolfo del Moro non lo aveva ingannato. Quella che il traditore aveva additato alle sue brame era davvero la perla d'Occidente. E Abu Wefa pensava a ragione, che, se le perle d'Oriente erano difficili a prendere, quelle d'Occidente dovevano essere anche più difficili a conservare.

Non molto dissimile dalla sua era l'opinione del biondo scudiero, che andava in mezzo alla cavalcata, chiuso in una lettiga, insieme colle donne del Gran Priore.

Diana era triste, ma nella sua medesima afflizione aveva attinto la forza di resistere agli eventi. Custodiva gelosamente, nascosto nella cintura, un pugnaletto dalla impugnatura d'acciaio ageminato, dono della favorita di Abu Wefa.

— Io ti amo e ti odio; — gli aveva detto costei. — Ti amo perchè sei infelice; ti odio perchè sei bella.

— Non mi odiare, compiangimi! — rispose Diana. — La bellezza è un triste dono.

— Che ti fa cara al mio signore; — notò la schiava di Abu Wefa, con accento di profonda amarezza.

— Io non amo il tuo signore, la mia fede è giurata ad un altr'uomo. O sarò sua, o morrò. Vedi, anzi, — soggiunse Diana, che per farsi intendere da quella donna doveva aiutarsi molto coi gesti, — se [244] tu vuoi darmi quel pugnaletto che pende dalla tua cintura, esso sarà la mia salvaguardia. —

E fece l'atto di piantarselo nel petto.

— Da senno? — chiese quell'altra.

— Lo giuro pel mio Dio. —

Un lampo di gioia balenò dagli occhi della schiava.

Quella disgraziata amava Abu Wefa. Ella stessa da poco tempo era succeduta ad un'altra nelle grazie del suo signore, e tremava di vedersi posposta a quella nuova bellezza.

Il pugnaletto di Kadigìa, che tale era il nome della favorita, passò tosto nelle mani della povera Diana, che allora, soltanto allora, si sentì più tranquilla.

Altri pensieri incominciavano a raffidarla. Notava anzitutto che il capo degli Assassini, assorto nelle cure del viaggio, non le aveva ancora detto una parola che accennasse ad un disegno fatto su lei. L'avea data in custodia alle sue donne, che viaggiavano entro lettighe gelosamente coperte e guardate continuamente da uno stuolo d'eunuchi; e tutta la famiglia muliebre era separata rigorosamente dalla schiera dei Fedàvi, i quali marciavano sempre all'antiguardo.

Inoltre, quel correre affannoso del Gran Priore verso le terre di Moab, se per avventura la conduceva lunge da Arrigo, dinotava altresì che Abu Wefa temeva di essere inseguito. Caffaro non si era egli riunito ad Arrigo? E Arrigo non era egli l'ospite e l'amico di Bahr Ibn? Da lui, da lui certamente, fuggiva Abu Wefa con tanta sollecitudine.

E un barlume di speranza rompeva le tenebre di quell'anima afflitta. Era impossibile che la misericordia [245] di Dio si fosse così allontanata da lei, dalla figlia e dalla fidanzata di due valorosi campioni della fede. Ma infine, perchè avrebbe temuto? Non dispera mai di salvarsi, chi sa di poter trovare, ove occorra, il suo rifugio nella morte. E Diana era risoluta di morire.

Intanto proseguiva il viaggio nella solitudine di quelle sterminate pianure di sabbia, su cui si stendeva nel giorno la volta infuocata del cielo, nella notte un padiglione di zaffiro, in mezzo al quale la splendida luna appariva regina tra un esercito scintillante di stelle.

In alcuni punti si mutava la scena, e lo sguardo salutava ameni colli coronati di querce e d'allori, o valli romite, in cui l'arancio, la palma e il melagrano, si vedevano coperti di fiori e di frutti.

Si costeggiava infatti la gran valle del Giordano e il suolo sentiva la vicinanza delle acque.

Torniamo a Bar Ibn. Egli non è lontano. Dalla eminenza di Tell Asterè, un poggio famoso su cui gli antichi Ebrei offrivano sacrifizi ad Astaroth Karnaim, l'Astarte bicorne di Siria, egli aveva veduto all'orizzonte il polverìo sollevato dalla cavalcata di Abu Wefa. E riposati alquanto i suoi, disegnò di tenergli dietro senza aspettare la notte.

Il Gran Priore incominciava appena allora a respirare più liberamente. Era giunto all'altezza del lago di Tiberiade, o di Genezaret, se vi torna meglio, e si dileguava il pericolo di veder capitare qualche legione di Crociati che gli sbarrasse la strada. Ma appunto in quel giorno doveva cascargli addosso il peggio, e tanto più molesto quanto meno aspettato.

[246]

Di poco era passato il meriggio, quando uno dei suoi refilìs, che comandava la retroguardia, lo avverti d'una grossa cavalcata, che veniva dietro a loro, muovendo anch'essa da Tell Asterè.

Il pensiero di Abu Wefa corse incontanente ai Franchi del regno di Gerusalemme. Ma come avevano potuto essere così presto avvisati del suo passaggio? E come mai gli sbucavano alle spalle, senza pensare che egli aveva la via libera davanti a sè per fuggire? Ma l'aveva libera davvero? E non era piuttosto da temere che ogni cosa fosse disposta per coglierlo in mezzo?

Questo timore lo fece rimanere alquanto perplesso.

— Se volgessi senz'altro a levante? — pensò. — Ma per un semplice dubbio... per un sospetto..... avventurarmi in un paese così scarso d'acque, e di viveri, mentre il restante dell'esercito mi segue a tre o quattro giornate di marcia? —

Il Gran Priore era lontano le mille miglia dal pensare a Bahr Ibn. Sui primi giorni lo aveva temuto; ma lassù, oltre i monti di Galaad, di Serca e di Agelun, che aveva superati con tanta celerità, ogni paura d'inseguimento da quella parte gli era uscita intieramente dall'animo.

Quella esitanza gli aveva già fatto perdere una mezz'ora di tempo. Aggrottò le ciglia, vedendo che quegli altri si avanzavano sempre più, e comandò alla sua gente di prendere il galoppo. Ma anche i nemici, poichè tali bisognava considerarli oramai, anche i nemici lo imitarono, e la distanza fra le due schiere non si accrebbe, come egli aveva sperato.

Si fermò allora, pieno di mal talento, e deliberò di vederci chiaro.

[247]

— Vadano avanti i cammelli e i lettighieri; — diss'egli; — noi torneremo indietro, per farla finita con queste incertezze. —

E voltato il cavallo, mosse alla volta di coloro che lo inseguivano.

— Ci hanno veduto, — diceva intanto Bahr Ibn. — A noi dunque! E tu, Zeid, ricorda le mie istruzioni.

— Non temere, sarai obbedito. —

Lo Sciarif spronò allora il suo corridore, ordinando a' suoi cavalieri di seguirlo, ma senza troppo ardore, per non insospettire maggiormente Abu Wefa.

Fu grande la meraviglia di quest'ultimo, quando riconobbe colui che meno s'aspettava di vedere.

— Tu qui? — gli disse. — Io ti credeva ancora a Tell el Kanat.

— Se tu ci rimanevi ancora una mezza giornata, — rispose lo Sciarif con aria tranquilla, — avrei potuto partire con te. —

Abu Wefa lo guatò con occhio sospettoso.

— Che cos'è avvenuto, — riprese, — perchè tu avessi a mutar consiglio così presto?

— Niente che io già non m'aspettassi, pur troppo! — rispose lo Sciarif, con un candore, che non riusciva tuttavia a disarmare Abu Wefa. — Un messaggio dell'Egitto, che mi ha tolto ogni speranza. Che cosa avrei fatto nel deserto, se non c'era più modo di tentar la fortuna contro l'usurpatore? Ho trovato buono il tuo consiglio; vado a Tortosa.

— Ah, sì? — mormorò il Gran Priore, a cui la risoluzione parea troppo repentina, come troppo sollecito il viaggio.

[248]

— Per l'appunto — replicò Bar Ibn; — e voglia il cielo che io non giunga troppo tardi!

— Infatti, — disse Abu Wefa, — a quest'ora i Cristiani possono aver fatto molto cammino.... assai più che tu non ne abbia fatto in così pochi giorni, dacchè ci siamo lasciati. —

Bahr Ibn sentì il colpo, ma fece le viste di non averlo inteso.

— Dunque, se non ti spiace, — ripigliò, — ci faremo compagnia per un tratto di strada.

— Perchè non m'hai raggiunto prima? — esclamò il Gran Priore. Ecco qua, siamo proprio all'ultima stazione in cui potessimo trovarci insieme.

— Come? — domandò lo Sciarif, che non si aspettava quella sparizione improvvisa dello schermidore astuto. — Non andavi tu verso le montagne di Tripoli?

— Questo era il primo disegno; — rispose Abu Wefa. — Ma anch'io ho ricevuto un messaggio per via. E vado invece a Damasco, per la strada di Salomè, laddove tu devi proseguire per la pianura di Medan.

— Ah sì? — mormorò Bar Ibn, imitando senza volerlo il suo avversario.

E vide così a tutta prima che la fortuna, se tardava più oltre, gli sarebbe sfuggita di mano. L'occasione era propizia. Abu Wefa non aveva in quel punto che otto o dieci cavalieri con sè, mentre il grosso della sua schiera stava lunge un cinquecento passi, in attesa del suo capo. A lui, invece, a lui, Bahr Ibn, tutti i suoi cavalieri facevano corona oramai. Abu Wefa, così scaltro com'era, non aveva preveduto quel caso. E Bar Ibn risolse di approfittarne senz'altro.

[249]

Diede una rapida occhiata a Zeid Ebn Assan, che parve intenderlo a volo. Indi, spronato il cavallo, si serrò addosso al Gran Priore e lo afferrò per un braccio, tentando di levarlo d'arcione.

Questi, a sua volta, benchè sorpreso, strinse le ginocchia nei fianchi dei suo corridore, pensando che questo, con una violenta strappata, lo avrebbe tolto dalle unghie del suo avversario, meglio che non potesse fare egli stesso con un colpo di mazza, quand'anche fosse riuscito ad abbrancare la sua arme ferrata. Ma quantunque il generoso animale obbedisse prontamente all'impulso del suo signore, egli non fu più in tempo di svincolarsi. Zeid Ebn Assan afferrava il cavallo per le redini; uno stuolo di cavalieri, cacciatosi improvvisamente tra lui e i pochi che lo avevano seguito, gli si addensava minaccioso dintorno.

L'assalto era stato così repentino, che i compagni di Abu Wefa rimasero come storditi, e non ardirono muoversi in sua difesa. In meno che non si dice, il Gran Priore fu strascinato a terra e saldamente legato.

Fremeva di rabbia, il malvagio, e aveva la schiuma alla bocca.

— Tu mi dirai, o Sciarif, — gridò egli, spirando dal labbro tutto il furore che non poteva manifestarsi col braccio, — la ragione di questa ingiuria ad un amico, ad un ospite. Nel mio accampamento di Tell el Kanat, io ti ho accolto come si accoglie un fratello.

— Sì, — rispose Bahr Ibn, con accento sarcastico, — per farmi poi comparire un traditore, un ribaldo, agli occhi degli amici ed ospiti miei.

[250]

— Io non t'intendo; — disse Abu Wefa.

— Non m'importa; m'intenderai tra breve. —

E fattosi verso i compagni di Abu Wefa, lo Sciarif comandò loro che scendessero tutti da cavallo, salvo uno che aveva a portare un messaggio.

— Non sarà fatto alcun male al vostro signore, se voi non vi muovete; — diceva Bahr Ibn. — Uno di voi se ne torni a quella gente laggiù, e dica loro che vuol essere una guerra a morte, se non stanno tutti immobili al comando. —

Il messaggiero andò, sbalordito dalla fulminea rapidità di quel colpo di mano.

Come egli fu partito, Bahr Ibn si volse al suo prigioniero.

— Dimmi, Dai al Kebir, ov'è la donna che hai rapita, alle strette di Cades?

— Io non ho rapito donne; — rispose Abu Wefa, dissimulando a stento la commozione destata in lui da quella domanda.

— Bada a te! — rispose lo Sciarif, corrugando le ciglia. — Sono del sangue di Maometto, e ti giuro pel sangue suo, che se tra un'ora non è qui la donna rubata, io ti ucciderò come un cane. —

Il Gran Priore vide che non c'era nulla a sperare dal tenersi sul niego, e che colui avrebbe operato in tutto come diceva.

— Essa è tra le mie donne; — diss'egli, abbassando la voce e col volto acceso di vergogna. — Ma tu, seguace del profeta, non oserai scoprir loro il viso....

— L'oserò; — interruppe Bahr Ibn; — per gli occhi di Fatima, la gran genitrice della mia stirpe, l'oserò, se pure tu non mi consegnerai il tuo sigillo, [251] per farlo riconoscere dal capo dei tuoi eunuchi, che dovrà restituire la preda. —

Non c'era modo di resistere. I minuti scorrevano veloci e la scimitarra di Bahr Ibn era già fuori della guaina. Abu Wefa mise un sospiro, che meglio si sarebbe potuto dire un mugghio di toro, e toltosi dal dito un anello, sulla cui pietra era inciso il suo nome, lo consegnò allo Sciarif.

— Prendi, e corri! — disse Bahr Ibn al suo fedele Zeid.

Il vecchio prese l'anello, e seguito da cento cavalieri galoppò alla volta della schiera di Abu Wefa.

Quegli uomini, informati di tutto dal messaggiero, stavano immobili e taciturni, in attesa.

— Credenti in Dio, — disse Zeid, alzando la voce, — ascoltatemi. Ecco l'anello di Abu Wefa, vostro glorioso signore. Egli vi comanda di consegnarmi la donna; dopo di che egli stesso potrà tornar libero a voi. —

Uno degli ufficiali del Gran Priore si avanzò, e, riconosciuto il sigillo del suo signore, chinò la fronte senza far motto. Dopo di lui s'inoltrò il capo degli eunuchi, e, compiuta la medesima cerimonia, che doveva dissimulare la vergogna comune di una disfatta senza combattimento, andò, taciturno del pari, verso le lettighe.

Poco stante, il biondo scudiero balzava dal carro coperto, d'ov'era rinchiuso insieme colla bruna favorita.

Kadigìa non aveva un concetto ben chiaro di ciò che era avvenuto, e temeva forte per la vita del suo signore ed amante.

— Nessuno ti ha fatto male; — diss'ella, con accento carezzevole. — Sii misericordiosa con lui!

[252]

— Non temere; io non mi vendico; — rispose Diana.

Anch'ella ignorava l'accaduto, ma pensava che Arrigo da Carmandino e l'amico di lui avessero avuto mano nella sua liberazione. Essi, per conseguenza, dovevano esser là, arbitri della vita di Abu Wefa.

— Grazie! — esclamò Kadigìa.

E presa la mano del biondo scudiero, v'impresse il bacio della gratitudine.

— Ecco il tuo pugnaletto; — disse Diana. — Anch'io debbo ringraziarti, perchè in questo ferro ho veduto un soccorso del cielo.

— Vuoi tenerlo per amor mio? — rispose la schiava. — Esso ti ricorderà Kadigìa. —

Diana accettò il dono e lo ripose nella cintura. Ella pensava di non separarsi più da quello strumento di morte, che era stato per tanti giorni la sua unica salvaguardia in mezzo al pericolo.

Zeid Ebn Assan, che era rimasto lunge dal carro in attesa del prezioso acquisto, si avanzò allora per riceverlo in consegna dal capo degli eunuchi. Si aspettava una donna, e la sua meraviglia fu grande al vedere un giovine scudiero, ma ben presto si riebbe, o, per dire più veramente, passò dalla meraviglia allo stupore, vedendo quel miracolo di bellezza, che accoglieva in sè tutte le grazie, tutte le lusinghe, date da Dio all'ultima e alla più leggiadra delle opere sue.

L'aureola dei santi, come l'hanno immaginata i pittori cristiani, non era nulla al paragone di quella luce spirituale che circondava la bellissima testa. Sarebbe stato mestieri di correre colla fantasia a [253] quell'incognito indistinto di etere e d'ambrosia che involgeva le dee del paganesimo, quando si degnavano di apparire ai mortali. Essenza di bellezza, soavità di profumo, aura di pudore, eravate voi che componevate una corona intorno ai biondi capegli di quella divina, che, passando in mezzo a tutti quegli uomini, a tutte quelle ammirazioni, a tutte quelle cupidigie, si faceva in volto color della fiamma.

La più parte dei Fedàvi non avevano mai visto la prigioniera; quei pochi che l'avevano rapita, mentre la notte ne celava i lineamenti e il terrore l'avea come contraffatta, credettero anch'essi di vederla per la prima volta. E gli uni e gli altri sentivano tutta l'amarezza di quella improvvisa partenza.

— Non ha il paradiso una Urì più leggiadra di questa.

— Essere amati da lei e rinunziare ad ogni gioia promessa nei cieli! —

Erano questi i discorsi dei Fedàvi, mentre la fanciulla degli Embriaci si allontanava dal carro.

E uno di costoro osò dire, accanto a Zeid Ebn Assan:

— Siete a un di presso di un numero eguale al nostro. Se noi non volessimo lasciarla partire!...

— Provate! — rispose fieramente Zeid. — Al menomo cenno di rivolta da parte vostra, il Gran Priore ci lascia la testa. —

Il Fedàvo non aggiunse parola.

Diana intanto era balzata sul cavallo di Zeid, che aveva voluto scendere ad ogni costo, per essere il suo palafreniere. E andava gloriosa come una regina, [254] verso le schiere dello Sciarif che la salutavano con grida di gioia, mentre quelle di Abu Wefa stavano mute, in preda alla costernazione. E non era forse naturale, al vedere quell'astro meraviglioso che si allontanava per sempre? Aldebaran, la stella prediletta degli Arabi, sparendo improvvisamente dal cielo, non avrebbe lasciato maggior desiderio di sè.

Lo Sciarif, ritto in arcioni davanti al suo prigioniero, contemplava da lungi la scena e si rallegrava dell'opera sua. Non pensava più alla fallita impresa d'Egitto; pensava alla gioia dei suoi nemici quando egli avesse potuto mandar fuori dalle mura di Tortosa un araldo che dicesse agli assedianti: — Cristiani, Bahr Ibn, mio signore, ha liberata dalle mani del capo degli Assassini una figlia di Genova, e la manda, senza chieder riscatto, al suo amico ed ospite Arrigo da Carmandino, il più prode tra tutti i cavalieri d'Occidente. —

La cavalcata giungeva frattanto al cospetto di Bahr Ibn. Il biondo scudiero cercava indarno cogli occhi Arrigo da Carmandino.

— Bella figliuola di Genova, — disse allora lo Sciarif in quella lingua mezzo araba e mezzo italiana, che era il primo frutto delle Crociate, — tu cerchi i tuoi concittadini; ma non è qui che un amico loro, il protettore e il fratello d'Arrigo. —

Spiacque a Diana l'assenza di coloro che sperava trovare laggiù. Ma come seppe l'accaduto, e più particolarmente il modo in cui Bahr Ibn avea trapelato il rapimento di lei e provveduto alla sua liberazione, lo ringraziò con tutta l'effusione di un animo riconoscente. Bahr Ibn l'udiva, la guardava [255] in viso, e s'inebriava di quella voce melodiosa, di quella bellezza sovrumana.

Passarono davanti ad Abu Wefa, che stava ancora prigioniero, ai piedi d'un sicomòro. Diana lo intravvide, ma torse gli occhi da lui, che la saettava d'uno sguardo feroce, sospirando profondamente.

— Che hai? — gli chiese Bahr Ibn, muovendo verso di lui, per sciogliere la fune che lo teneva legato.

— Sospiro la perla d'Occidente; — mormorò il Gran Priore. — Tu sei fortunato, o Sciarif!

— Fortunato, certamente, perchè potrò restituirla a chi l'hai tolta.

— Ne sei ben certo? Bada, o Sciarif; io posso predirti fin d'ora....

— Che cosa?

— Che tu l'amerai e non vorrai più restituirla.

— Sia maledetta la tua lingua! — gridò Bahr Ibn, profondamente turbato.

[256]

CAPITOLO XVII. Nel quale si vedono operare i sortilegi di Abu Wefa.

Siamo a mezzo l'autunno. La Caffara, salpata dalla Maiuma di Gaza, è andata a golfo lanciato verso settentrione, per raggiungere le sue trentanove compagne all'assedio di Tortosa.

Quando i nostri amici arrivarono in quei paraggi metà dell'impresa era già fornita da Ugo Embriaco e dal fratello Nicolao, perchè il naviglio genovese si era in quel frattempo impadronito dell'isola e della fortezza di Arado.

Era quell'isola distante forse due miglia dalla costa. I Fenicii l'avevano chiamata Arvad, i Greci Aradio, e al tempo di cui narro dicevasi Arado. Anzi che un'isola, poteva dirsi uno scoglio, emergente dai flutti, che girava forse un miglio, di forma allungata, con una lieve salita verso il centro, e ripido da tutti i lati. Gli esuli di Sidone avevano fondata su quello scoglio una città marinara, ed è facile immaginare che, mancando lo spazio, gli [257] abitanti Arvad se ne ricattassero nell'altezza a cui facevano ascendere le loro case, altezza sterminata, come era sterminata la profondità delle cisterne scavate nel masso, per raccogliervi l'acqua piovana o andare a cercare una sorgente d'acqua dolce nelle viscere della terra.

Una doppia cinta di mura, avanzo dell'arte fenicia, custodiva la città di Arado. Ma non gli valse perchè i Genovesi, impedite le comunicazioni colla costa, l'ebbero per fame in loro balìa; non rimanendo ad essi più altro che espugnare la città sorella, Tortosa, che sorgeva sulla costa.

I fratelli Embriaci e Ansaldo Corso, loro compagno nell'impresa, diedero opera gagliarda all'espugnazione della terra. Come ho già detto, avevano spedito in tutta fretta a Genova una galèa per annunziare ai consoli la presa di Arado, e ad uno di essi, a Guglielmo Embriaco, il triste esito della spedizione di Gaza.

Da venti giorni durava l'assedio, senza che la città, forte per la sua postura e validamente difesa, accennasse ancora ad arrendersi. Non potuta circondare dalla parte dei monti, Tortosa avea sempre vettovaglie e soccorsi d'armati. Ma San Lorenzo (che era in quei tempi ii santo prediletto dei Genovesi), san Lorenzo proteggeva i suoi divoti cittadini, e faceva capitare nelle acque di Tortosa altre otto galere, comandate da Mauro di Piazza Lunga e da Pagano della Volta, che erano stati consoli nella antecedente compagna. A proposito, ho promesso, non so più dove, di chiarire ai lettori questo negozio della compagna. E poichè il nome mi è caduto dalla penna, manterrò la promessa.

[258]

Noto anzi tutto che compagna e compagnia gli è come dir zuppa e pan molle. Per altro, i Genovesi antichi dicevano sempre compagna, intendendo forse da principio una società pattuita fra mercatanti, per due, o tre anni, nell'intento di far fruttare l'opera loro, e il danaro posto in comune. Dalla pluralità il concetto si allargò alla totalità, e l'associazione di tutti i cittadini si disse, nel latino dei pubblici, atti, Communis compagna, e più chiaramente compagna de comuni Janue. Se eravate fuor d'essa, potevate considerarvi fuor della legge; non avevate diritto a cittadinanza, a giustizia, a pubblici uffizi.

Vi ascrivevate alla compagnia giurandone i patti in osculo pacis, nel bacio della pace, vincolo e pegno tanto necessario in quei tempi di continue discordie. Questo dicevasi «giurar la compagna;» e coloro che giuravano erano i cittadini utili, i cittadini idonei, che contribuivano alla cosa pubblica con danaro, o servigi, sotto il reggimento dei consoli, i quali si eleggevano ad ogni nuovo giuramento di compagna.

Questa adunque era la grande, la prima de communibus rebus. C'erano poi le urbane, o minori, in numero di otto, che rispondevano agli otto rioni della città. Tra queste compagne urbane si dividevano le imposte, le spese di guerra, gli apprestamenti delle galere. Donde avveniva che pel numero delle compagne si dividessero altresì le schiere dell'esercito e le galere dell'armata, dando ciascheduna compagna il suo rettore alla nave, o alla compagna di soldati, sotto il comando di un console, o di altro capitano, scelto dal popolo tra gli uomini consolari.

E questo, che ho detto così di passata, vi chiarirà, [259] lettori umanissimi, quell'altra faccenda del numero di otto galere che giungevano di rinforzo nelle acque di Sorìa, sotto il comando di Pagano della Volta, uno dei nobili genovesi, e di Mauro di Piazza Lunga, uno dei popolari, ambedue scaduti in quell'anno dalla prima magistratura cittadina.

Caffaro di Caschifellone si confortò un tratto nelle braccia dello zio Pagano. E dell'arrivo di quelle otto galere si confortarono tutti, sperando di poter condurre più facilmente a buon fine l'impresa.

Infatti, c'era mestieri di rinforzo. Mai, dopo la espugnazione di Cesarea, i Crociati avevano tanto sudato attorno ad una cerchia di mura. Ben presto ne seppero la ragione. L'Emiro di Tortosa non era solo a difendere la città. Fin dai primi giorni dell'assedio, aveva compagno uno dei più valorosi campioni dell'Islam. Il lettore lo ha già indovinato; era Bahr Ibn, che noi avevamo lasciato presso Teli Asterè, a quattro giornate di marcia dalla terra assediata.

Arrigo da Carmandino era lungi dal sospettare che tesoro fosse caduto in mano al nuovo difensore di Tortosa. Per lui, come per Caffaro, la povera Diana era sempre in balìa di Abu Wefa, il terribile capo degli Assassini, del quale s'incominciava appena allora ad avere nel campo dei Crociati qualche più certa notizia, ma senza sapere il vero luogo in cui fosse andato a piantare le sue tende.

Non c'era dunque da far nulla, nè da tentare, per la salvezza della infelice Diana. Questo era il [260] pensiero di Caffaro, il solo dei due amici, che avesse ancora la mente così sana per accogliere un concetto e meditarlo. Quanto ad Arrigo, non c'era affè da sperarne un consiglio. Il poveretto avea quasi perduto il senno; il suo spirito annebbiato non vedeva più che una cosa, la possibilità di un miracolo. Ma certamente non lo sperava neanche, poichè l'uso ch'egli faceva della vita, indicando il disprezzo in cui l'aveva ogni giorno di più, mostrava apertamente com'egli cercasse la morte, quasi per trovarci un termine alle sue cure affannose.

Combatteva da disperato, guidava tutte le fazioni più arrisicate. Non c'era sortita di assediati, che non s'incontrasse, per sua disgrazia, in quell'audace guerriero, davanti al quale indietreggiava la morte.

La fama del suo voto si era sparsa nel campo, e di là era corsa fino a Gerusalemme, dove spesso andavano messaggieri dell'esercito. E già parecchi degli Ospitalieri di San Giovanni erano partiti dalla città santa, per andare a vedere le prodezze di lui e a salutare quella futura gloria dell'Ordine.

Continuatori dell'opera pietosa degli ospizii ai pellegrini (ospizii che avevano fondato in Gerusalemme i mercatanti d'Amalfi), gli Ospitalieri di San Giovanni erano allora una congregazione tra monastica e militare, che da Goffredo Buglione aveva avuto lode e privilegi, e da Baldovino ogni maniera di favori, come quella che prometteva di riuscire un valido aiuto al regno crocesegnato. Il loro istitutore, Gerardo di Tonco, era un gentiluomo piemontese, andato in Terrasanta fin dal 1074. [261] La fondazione degli Amalfitani aveva trovato in lui il più zelante e il più divoto dei suoi cultori. Durante l'assedio di Gerusalemme, il buon Gerardo era stato chiuso in prigione dai Saracini, e l'entrata dei Cristiani lo avea liberato. I suoi Giovanniti erano monaci, infermieri e soldati, e dal loro ordine, che fu il primo di tal sorte, doveva staccarsi pochi anni di poi un altro italiano, Ugo de' Pagani, per fondar l'Ordine dei cavalieri del Tempio.

Nei campo cristiano, Arrigo era già chiamato il Giovannita. Egli stesso, in un impeto di quella disperazione terrena che fa cercar rifugio nel pensiero della divinità, comunque la s'intenda, e quantunque troppo spesso ci apparisca non curante di noi, aveva già cinte sull'armatura le insegne dell'Ordine, che consistevano in un mantello di lana bigia, e in una croce biforcata d'argento.

In Tortosa il nuovo Giovannita era temuto per quel suo meraviglioso ardimento, che, facendogli disprezzare il pericolo, rendeva gli assalti suoi così dannosi agli assediati. Si diceva da tutti i Saraceni che se nell'esercito cristiano si fossero trovati cento altri come lui, Tortosa non avrebbe potuto resistere un giorno, con tutto il valore e la rara prudenza di cui faceva prova Bahr Ibn.

Ben presto anche tra i Saracini fu risaputo il nome di quel fiero Crociato. Chi li aveva ragguagliati in tal guisa?

Ricordate che non lunge di là, vigile scolta contro Mussulmani e Cristiani, aveva piantato il suo vessillo un altr'Ordine, assai meno religioso, ma fortemente disciplinato, quello degli Assassini. Tripoli, ancora in potestà dei Mussulmani, distava appena [262] quaranta miglia da Tortosa, e alle spalle di Tripoli, nel castello di Massiad, vigilava Abu Wefa, come un avoltoio sul ciglione della rupe.

Insieme col Gran Priore stava un altro personaggio di nostra conoscenza, giunto a lui per una di quelle malaugurate fortune, che arridono spesso ai malvagi e li attraggono l'uno all'altro per mezzo a difficoltà e pericoli tali, che condurrebbero a mal punto una schiera di onest'uomini. Il Gran Priore si era affrettato ad accoglierlo tra' suoi dais, o maestri iniziati, facendogli saltare d'un tratto il grado inferiore dei rèfilis, o compagni, ai quali non era svelato tutto l'arcano della sètta. Che bisogno c'era egli di aspettare altre prove da Gandolfo del Moro, che aveva mostrato di lancio come fosse sottile l'ingegno e sicura la sua fede nel male?

Gli emissarii di costoro correvano assiduamente per ogni lato. Si fingevano Ebrei, Cristiani, e ogni altra cosa che loro mettesse conto di parere. Arditi e destri, si ficcavano qua e là, curiosando, ascoltando e tremando, giusta i fini reconditi della sètta, e non era città del regno crocesegnato, o terra di Saracini, dove Abu Wefa non avesse mandato suoi esploratori.

Un giorno nella tenda di Arrigo si trovò una pergamena accartocciata. In essa erano scritte queste parole:

«Che il tuo amico Bahr Ibn sia in Tortosa, lo saprai. Ma una cosa non sai: che egli ha rapito la tua fidanzata e la tiene. Egli sa che tu sei votato ali' Ordine di San Giovanni e pensa che un gentil cavaliere come tu sei, terrà fede al suo voto. Diana sarà sua, o per amore, o per forza.»

[263]

A quella lettura Arrigo diede in un grido di stupore, che si mutò ben presto in urlo di rabbia. Triste combinazione di eventi! Egli sapeva che la sua povera Diana non era in balìa di Abu Wefa, e in pari tempo che Bahr Ibn lo aveva tradito.

Tradito! Ma come? Il pensiero di Arrigo corse anche una volta a Gandolfo, a cui troppo generosamente Caffaro aveva perdonato la vita.

Ma chi dava l'annunzio del tradimento di Bahr Ibn? Ed anche qui il pensiero correva a Gandolfo, sebbene quel fatto paresse in contraddizione coll'altro. Como mai Gandolfo del Moro potea dare avviso al suo rivale della sorte toccata a Diana, se era egli stesso che aveva ordito la trama per togliere quella donna a lui?

Caffaro, che era il più calmo dei due, si provò a conciliare le due cose, e pensò che quel tristo di messer Gandolfo, dopo averla fatta ad Arrigo, si fosse pentito, e non volesse lasciarne godere il frutto al Saracino.

Il signore di Caschifellone non si apponeva che a mezzo. E difatti, il nostro amico non poteva argomentare da sè, come Bahr Ibn, seguendo una buona ispirazione, fosse andato sollecito sull'orma di Abu Wefa. Se questo avesse saputo, il resto gli sarebbe apparso chiaro come la luce del giorno. Perchè, quanto a indovinare le conseguenze di un incontro di Bahr Ibn colla bella figliuola di Guglielmo Embriaco, nessuno lo avrebbe fatto più agevolmente di Caffaro. Egli stesso, così leale amico ed onesto cavaliere, aveva forse potuto custodire il suo cuore contro le grazie innocenti, eppure tanto pericolose, di madonna Diana?

[264]

Arrigo, intanto, che non vedeva più lume, avrebbe senz'altro ordinato di dar la scalata alle mura, e insegnata la via coll'esempio. Ma poichè non tutti gli assedianti partecipavano al suo furore, e l'ardimento più efficace è quello che non si scompagna dalla prudenza, vinse il parere degli altri capitani, i quali fecero intendere al nostro innamorato non essere ancora il tempo di dare l'assalto, tanto più che le torri e le altre macchine di guerra, in cui erano così valenti i figli di Genova, non erano ancora condotte a termine, e le frequenti sortite degli assediati facevano andar lenti i lavori dei maestri d'operare.

Il povero Arrigo dovette ristarsi e divorare la sua rabbia impossente. Ma intanto il suo amico Caffaro si preparava a servirlo in altra guisa.

Un trombettiere andò la mattina seguente fin sotto le mura di Tortosa, diede i tre squilli, e, veduti i custodi che s'affacciavano alla merlata, gridò:

— Il mio signore Caffaro di Caschifellone, uno dei cavalieri dell'esercito genovese in Sorìa, chiede al vostro capitano, il nobile Sciarif Bahr Ibn, un colloquio entro le mura di Tortosa, o in altro luogo che più gli torni gradito. —

La risposta si fece aspettare a lungo. Finalmente giunse alla merlata un araldo, e disse:

— Ben venga il signore di Caschifellone; lo Sciarif è disposto a riceverlo. —

Caffaro salì prontamente a cavallo e andò soletto e fidente verso la saracinesca. Colà uno dei custodi slacciò la fascia del suo turbante e bendò con essa gli occhi dell'inviato, perchè egli non avesse [265] modo ad esplorare gli accessi delle mura; indi il fedele e valoroso amico di Arrigo da Carmandino fu introdotto in città.

Lo Sciarif era in una sala terrena della ròcca, che sorgeva nel mezzo della città, e gli facevano corona parecchi dei suoi uffiziali. A mala pena vide entrar Caffaro, li congedò d'un cenno, e pochi istanti dopo era solo con lui.

Un'aria di cupa mestizia regnava sul volto dello Sciarif, indicando l'interno struggimento d'un pensiero molesto. Gli traluceva dagli occhi quella fiamma truce, che tradisce gl'incendii profondi del cuore e annunzia le morti precoci. Le labbra rigide non sapevano più atteggiarsi al sorriso. E tuttavia, Bahr Ibn salutò cortesemente il crociato, invitandolo a sedergli daccanto.

— Sii il benvenuto; — gli disse; — che cosa posso io fare per te?

— Nulla per me; — rispose Caffaro; — tutto pel tuo amico e fratello, per Arrigo da Carmandino. —

Il viso di Bahr Ibn si rabbruscò due cotanti di più, a quel cenno così repentino di Caffaro; che entrava, come si vede, ex-abrupto nell'argomento della sua visita.

— Non lo ami più, forse? — dimandò Caffaro, che aveva notato quell'atto di ripugnanza. — Lo aver combattuto l'un contro l'altro da valorosi, l'essere vissuti così lungamente insieme, tu salvatore per lui ed egli ospite tuo, non sono dunque più nulla?

— Erano; — rispose Bahr Ibn, sospirando; — ora non più. La catena dell'amicizia è spezzata; [266] le tenebre regnano tra noi due. Quando la luna passa sul disco del sole, anche la luce dell'astro maggiore si spegne, e il freddo invade le ossa. —

Caffaro chinò la testa senza far motto.

— Diana è in tuo potere? — diss'egli, dopo un momento di pausa.

— C'è; — rispose asciuttamente Bahr Ibn.

— E non pensi di lasciarla tornar libera ai suoi?

— L'amo; — replicò lo Sciarif, abbassando le ciglia.

— Che essa è la fidanzata di Arrigo?

— L'amo. Non m'intendi? L'amo. Ti parrà forse strano....

— No; — rispose Caffaro. — L'ho amata anch'io, ma ho saputo comandare a me stesso.

— Non l'hai amata; son io che te lo dico; — gridò lo Sciarif con accento vibrato. — Se tu l'avessi amata, l'ameresti ancora, l'ameresti fino alla morte. O mi hai mentito, — soggiunse notando l'aria abbattuta di Caffaro, — o l'ami sempre anche tu. Vedi? L'ho indovinato. Anche su te qualche spirito maligno ha gettato un incantesimo, come su me lo ha gittato Abu Wefa? Triste cosa, cristiano, amar chi non t'ama, e amare come amo io! Ma comunque sia, io non vo' separarmi da lei. La perla d'Occidente mi sarà fatale, lo sento; e tuttavia non la darei per la corona d'Egitto, non pel trono di Arun el Rascid, non per quello di Suleiman, il re che comandava agli spiriti e che ebbe nel suo Arème le più leggiadre fanciulle del mondo. Ella morrà, mi ha detto; ed io mi ucciderò sul suo cadavere. Le ho offerto, sai, le ho offerto di inchinarmi al Dio dei suoi padri, io, io discendente [267] del Profeta, e di esser dannato in eterno. Vedi tu se io l'amo, se posso ascoltare le profferte che vieni a farmi, in nome tuo o di Arrigo, non monta.

— In nome di Arrigo, io te l'ho detto; — rispose Caffaro, vedendo oramai che di riavere la donna per le vie dell'amicizia non rimaneva speranza. — Se fosse in nome mio, ben altra proposta farei.

— E quale?

— Di domandarti madonna Diana in campo chiuso, con lancia e spada, all'ultimo sangue. —

A quelle parole del crociato, lo Sciarif diede un balzo e sbuffò come il destriero generoso al primo squillo della tromba di guerra.

— Sarebbe un giuoco pericoloso; — diss'egli, con accento pieno di minaccia. — E perchè non me l'offre Arrigo?

— Arrigo non ci ha pensato; — rispose Caffaro. — Egli non sapeva mica, non poteva prevedere che tu avresti fatto così poca stima della amicizia che era tra voi. Del resto, — soggiunse, col fermo proponimento di pungerlo, — Arrigo da Carmandino ha combattuto già una volta con te, e non è stato egli il perdente.

— La sorte è cieca; — gridò lo Sciarif. — Potrebbe esser vinto quest'altra.

— In Occidente, — notò Caffaro, — una giostra cosiffatta non è consentita dagli usi. Quando due cavalieri si sono affrontati in campo chiuso ed è stato sparso il sangue di uno tra loro, essi diventano fratelli, son sacri l'uno per l'altro; salvo che....

— Salvo che.... — riprese Bahr Ibn. — Prosegui!

— Salvo che uno di loro voglia portare il carico [268] della offesa alle consuetudini, commettendo un atto sleale. E qui forse sarebbe il caso... almeno, davanti alle leggi dell'amicizia. Non sei tu il rapitore della sua donna?

— Non l'ho rapita a lui; — proruppe Bahr Ibn; — nè ad altro dei suoi che non sapesse difenderla. A un ladro l'ho tolta. Se io non fossi stato, ella sarebbe ora in balìa di Abu Wefa, di un padrone e di un amante assai meno riguardoso di me. —

Caffaro sapeva oramai tutto quello che gli premeva sapere.

— Dunque, — diss'egli, — se verremo a ridomandartela colle armi?...

— Il ferro della mia lancia ricaccerà la domanda in gola a chi sarà tanto ardito da tentare la prova.

— E se soccombi? Perchè, tu l'hai detto, o Sciarif, la fortuna è cieca.

— Non ho che una parola. Chi mi vince, l'avrà.

— Altri dunque, dopo Arrigo, potrà misurarsi con te e correre la sua lancia?

— E dopo e prima di lui, non monta; — rispose Bahr Ibn, infiammandosi. — Venga pure tutto Occidente contro di me, non lo temo.

— E sia; — disse Caffaro. — Ci consenti dunque di mandarti il nostro cartello di sfida?

— No, son io che vi sfido; — tuonò lo Sciarif; — ad Antiochia, e dovunque, son sempre stato io il primo. Là da mezzodì, verso Medina, a due tratti d'arco fuor delle mura, è un piano che dicono del Sicomòro. Giuriamo una tregua di quattro giorni, di sei, di otto; insomma, di tanti giorni quanti saranno i campioni d'Occidente, a cui giovi di misurarsi con me. Al piano del Sicomòro andrò [269] con cinquanta dei miei cavalieri; veniteci con altrettanti, e farò di rimandarvi pentiti.

— Bandisci la giostra e terremo l'invito; — disse Caffaro, infiammandosi alla sua volta. — Ma un giorno ed un scontro basteranno.

— Ti è lecito di sperarlo; — ribattè lo Sciarif con accento sarcastico. — Io vedrò alla prova il novello cavaliere di San Giovanni; vedrò se un uomo, il quale ha rinunziato alle gioie dell'amore, potrà vincerne un altro che per la prima volta le intende.

— Tu puoi deridere un voto, strappato ad Arrigo di Carmandino dal più giusto dolore. Ma bada, o Sciarif; ci sarà sempre dopo di lui chi non ha rinunziato a nessuna tra le dolci impromesse della vita. Tutto il fiore dei cavalieri di Genova soccomberà, se fia mestieri, per liberare madonna Diana.

— La perla dell'Occidente! — esclamò Bahr Ibn, passando improvvisamente dal furore alla tenerezza. — Così la chiamava Abu Wefa, quando mi gittò l'incantesimo, che ora mi brucia le carni.

— E sia questo il suo nome; — conchiuse Caffaro di Caschifellone. — La perla d'Occidente ha da tornare al suo lido. Ho la tua parola, o Sciarif?

— Pel sangue di Fatima, lo giuro. Siate contenti voi di scendere in lizza, come io sono desideroso di mostrare a quella donna che io valgo da solo tutti i suoi prodi campioni. —

Caffaro di Caschifellone se ne uscì da Tortosa assai più tranquillo di quando c'era entrato. Infatti, il nostro amico sapeva due cose: il rispetto di cui madonna Diana era circondata nella sua stessa prigionia, e la possibilità di riaverla.

[270]

Di quest'ultima cosa non era a dubitarsi. Arrigo era uno dei primi giostratori della Cristianità; poi, avrebbe dovuto combattere contro un uomo che egli aveva già vinto in altra occasione, e senza l'alta lusinga del premio. Infine, dopo Arrigo non c'erano tutti i migliori di Genova? Non c'era Ugo Embriaco? Non c'era lui, Caffaro di Caschifellone? Non c'era Pagano della Volta, Ingo Mallone, Ferrario di Castello, e un centinaio d'altri, schermidori valenti e pronti ad ogni sbaraglio?

Con questo pensiero in mente, il nostro Caffaro giunse al campo latino. Tosto gli furono intorno tutti i giovani cavalieri dell'esercito, per saper da lui le novelle. Ma il giovane, che preludiava così facilmente a tutte le onorevoli ambascerie di cui fu ricca la sua vita pubblica, volle anzi tutto recarsi a conferire coi capi; tra i quali, come vi sarà facile argomentare, avea luogo il Carmandino.

Arrigo fremette di sdegno, udendo del tradimento di Bahr Ibn, chè ben altro si sarebbe aspettato da lui; ma, data la sua parte alla rabbia, ringraziò il cielo che Diana non avesse corso pericoli maggiori. Lo Sciarif era, dopo tutto, uno strumento della Provvidenza. Arrigo non aveva forse votato la sua persona al servizio di Cristo, perchè Diana uscisse salva dalle mani degli infedeli? E nella fortunata impresa di Bahr Ibn contro il capo degli Assassini non era a riconoscersi che il voto di Arrigo era stato accolto benignamente da Dio?

Avrebbe voluto accettar subito la giostra. Ma, oltre che era stato risoluto tra Caffaro e Bahr Ibn che questi avrebbe fatto il primo passo, i comandanti dell'armata pensarono che fosse utile maturare [271] il consiglio. E si recarono per ciò sulle galere, con cui erano venuti pur dianzi Pagano della Volta e Mauro di Piazzalunga. Per conferire, dicevano essi, in numero più ristretto di ottimati. Ma Arrigo non intendeva nulla di ciò, e Caffaro nemmeno.

Del resto, erano essi i più giovani, e dovevano rassegnarsi a quel dirizzone dei vecchi, cui pareva il mobile castello di poppa d'una galera luogo acconcio a più saldi consigli, che non fosse la tenda capitana, sotto le mura della assediata Tortosa.

[272]

CAPITOLO XVIII. Dove si vede che la posta troppo alta confonde il giuocatore.

La conclusione di quel consiglio, tenuto sulla galera patrona, fu questa: accettare la tregua profferta e l'invito dello Sciarif.

Bahr Ibn mantenne la fede giurata a Caffaro, e quel medesimo giorno un araldo usciva dalla città assediata, per recare la doppia proposta, che fu accettata senz'altro.

La mattina seguente, due squadre di artigiani, l'una genovese e l'altra mussulmana, andavano sul piano del Sicomòro, per metter mano allo steccato. E i maestri di campo si recavano anche essi sulla faccia del luogo, per vedere e per misurare il terreno. Pei Genovesi era Mauro di Piazzalunga; pei Saracini lo stesso emiro di Tortosa.

In un giorno il palco fu rizzato, e chiuso il campo destinato ai combattenti. Vennero a guardia cinquanta cavalieri dalle due parti, e fu solennemente giurato di stare ai patti, qualunque fosse l'esito della disfida.

[273]

Arrigo da Carmandino fece nella notte la sua veglia d'armi davanti ad un altare improvvisato, com'era debito d'un buon cavaliere, e promise di consacrare alla Vergine le sue armi e quelle del suo avversario, se mai gli fosse concesso di abbatterlo. Al sorgere dell'alba, consigliato dall'amico Caffaro, prese qualche ora di riposo: ma, come vi sarà facile indovinare, non potè chiuder occhio, tanta era in lui l'ansia di giungere al paragone delle armi.

Il sole era già alto, quando le due schiere mossero verso il piano del Sicomòro. Nella schiera genovese era il fiore dei cavalieri di San Lorenzo, tutti giovani baldi, che invidiavano al Carmandino il suo posto, e che gli sarebbero di grand'animo succeduti nell'arringo, se a lui fosse stata contraria la sorte. Ma di questo non temeva nessuno. Forse che non era Arrigo il prode tra i prodi?

Genova aveva inoltre, a testimone del valore dei suoi figli, uno tra i più alti dignitari della Chiesa, il vescovo Maurizio, legato del Papa in Terrasanta, quegli che, insieme col patriarca Damberto, aveva assistito alla espugnazione di Cesarea. Era uno strano impasto di religioso e di guerriero, il vescovo Maurizio, e, scambio di pastorale, impugnava la mazza in forma di maglio, arma particolare dei vescovi e degli abati, che si trovavano in persona nelle battaglie, secondo l'obbligazione annessa alle loro terre, feudi ed uffici.

Qui sarebbe il caso di ricordare, cogli autori timorati, come fosse vietato agli uomini di chiesa di portar spada e lancia, per toglier loro il biasimo di crudeltà, e consentito in quella vece l'uso [274] della mazza, arme da difesa, e non fatta per uccidere, nè per ferire la gente. Per altro, se al buon vescovo Maurizio si fosse detta una cosa simile, egli sarebbe stato il primo a riderne, anche senza aspettare il riverito parere di Giulio II, che era ancora di là da venire.

I Genovesi erano già al piano del Sicomòro, quando vi giunse l'Emiro, coi suoi cinquanta Cavalieri e con uno stuolo di donne velate. Perchè quella novità? Voleva l'Emiro offrire un po' di svago alle sue mogli, annoiate dalla vita rinchiusa di una città assediata? Od era un sentimento di cortesia per gli avversarii, che gli consigliava di dare alla giostra l'ornamento e lo stimolo della bellezza, secondo la costumanza d'Occidente? Nè l'una cosa, nè l'altra. Quelle donne erano là per volere dello Sciarif. La bella figliuola di Guglielmo Embriaco non doveva essere il premio del vincitore? Era dunque naturale che fosse condotta laggiù, spettatrice del combattimento, che aveva a farla schiava per sempre. Così almeno pensava Bahr Ibn; e il miglior modo di farle intendere la sua sorte e di consigliarle la rassegnazione ai voleri del cielo, era quello di farla assistere alla giostra, e di mostrarle che il suo signore, dopo averla ritolta al capo degli Assassini, sapeva contenderla in giusta guerra a' suoi medesimi concittadini e meritarla colla sua prodezza nelle armi.

E la bella Diana, mutata in una veste femminile la tunica crocesegnata dello scudiero Carmandino, veniva in mezzo a quello stuolo di ancelle, per andarsi a sedere sul palco, davanti alla lizza; con che cuore, lascio a voi di pensarlo.

[275]

Bianca nel viso come persona morta, soltanto dagli occhi le traluceva la fede nella giusta causa per cui combattevano i suoi. Alla vista di Arrigo, che s'avanzava allora sul suo palafreno, mentre un valletto gli conduceva a fianco il suo destriero di combattimento, e lo scudiero gli recava la lancia, la bella fanciulla degli Embriaci sentì una stretta al cuore, la stretta acerba che precede il pericolo, e a cui sfugge di rado anche il più valoroso degli uomini. Si recò allora una mano al petto, come per comprimere i battiti violenti del cuore; e la sua mano sentì la sciarpa che le stringeva la vita. Snodar quella sciarpa e sventolarla in guisa di saluto al suo campione, al suo fidanzato, fu un punto solo per lei.

Era tutto ciò che potesse fare quella povera bella. Il braccio le ricadde inerte sulle ginocchia; la fronte si abbassò; un tremito convulso la invase; nè per un pezzo vide più altro di ciò che accadeva davanti ai suoi occhi smarriti.

— Credenti in Dio e seguaci del profeta Gesù, — diceva intanto il banditore dei Saracini, facendosi in mezzo al campo con tutta la solennità del suo nobile ufficio, — il mio signore Bahr Ibn, secondogenito di Abu Temin Maad al Mostanser Billah, il vittorioso Califfo d'Egitto, che Asraele ha rapito anzi tempo alla gloria dell'Islam, scende in campo a combattere con quanti cavalieri cristiani potranno misurarsi seco lui, fino al numero di dodici, quante sono le costellazioni del firmamento. Chi lo vincerà, avrà in premio la perla d'Occidente. Voi tutti, nemici suoi, giurate che, quando egli abbia abbattuto i suoi dodici, a due per giorno, nessuno potrà dire che egli non meriti di tenere [276] la sua conquista, e nessuno ardirà accusarlo di avere profittato soltanto della sua grande fortuna. —

— Giuriamo! — rispose Mauro di Piazzalunga per tutti.

Intanto il giovane Arrigo, lucente nell'armi, riceveva la benedizione del vescovo Maurizio. Il campione di madonna Diana vestiva, secondo l'uso dei tempi, il giaco di maglia, sorta di corazza intessuta strettamente di anella, o maglie di ferro. Del medesimo tessuto erano le maniche e gli schinieri. Una cuffia di ferro sottilissimo gli difendeva le tempie, donde scendeva una gorgiera anch'essa di maglie, per proteggere il collo. Sulla cuffia posava l'elmo di acciaio brunito, sormontato da un grifone colle ali spiegate. Al braccio sinistro del cavaliere era adattata la rotella di cuoio bollito, con un cerchio di ferro all'intorno, perchè non fosse troppo agevolmente troncata e fessa da un colpo di spada.

Fieramente piantato in arcione su d'un destriero morello, tutto bardato di cuoio, con piastre di ferro, Arrigo da Carmandino avrebbe potuto essere paragonato a San Giorgio, nell'atto di muovere contro il dragone.

Bahr Ibn, memore allora più che mai della sua sconfitta sotto le mura d'Antiochia e desideroso di vendicarla, stava immobile dall'altro lato del campo. Montava un cavallo bianco, anch'esso bardato di ferro, ma coperto, a dimostrazione di magnificenza araba, d'un manto di seta verde, ricamato a fogliami d'argento. Gli luccicava sul capo l'elmo aguzzo d'acciaio, senza visiera e senz'altro ornamento fuorchè il verde zendado dei discendenti del [277] Profeta, che era attorcigliato a mo' di turbante intorno alle tempie. Anch'egli indossava il giaco di maglia, sottilissimo e saldo lavoro dei fabbri di Damasco; ma l'armatura si nascondeva sotto un mantello bianco di latte. Al lato manco gli splendeva la spada ricurva dei Saracini; la mazza ferrata pendeva dal pomo della sella, per modo che il cavaliere potesse spiccarla ad ogni occorrenza. In pugno aveva la lancia, il cui calcio posava sul cosciale, poco sopra al ginocchio.

I maestri di campo erano già al loro posto, di rimpetto al palco delle donne. Tutto in giro allo steccato si accalcavano i cavalieri dei due eserciti.

Finalmente gli araldi diedero il segnale convenuto. I due avversarii si saettarono d'uno sguardo, che significava lo sdegno ond'erano animati ambedue, in quella che volevano misurare la probabilità dello scontro; e, dato di sproni nel ventre ai cavalli, si precipitarono a furia l'uno sull'altro. Fu un momento solenne e terribile per tutti gli spettatori, al vedere quelle due lunghe antenne spianate, che muovevano l'una verso l'altra colla rapidità della folgore.

Certo, a parità di forza nel braccio dei cavalieri o di saldezza nelle gambe dei cavalli, l'uno e l'altro dei combattenti dovevano balzare fuori di sella.

Ma così non avvenne. Il colpo dello Sciarif, sviato dal tronco dell'asta di Arrigo, andò a vuoto. E l'asta di Arrigo trovata sulla sua via la rotella di Bahr Ibn, che era tutta d'acciaio levigato, andò in ischeggie senz'altro. Balenò il cavaliere percosso, piegò tutto sul manco lato, come presso a cadere; ma le ginocchia erano saldamente aggrappate ai fianchi [278] del cavallo, e questo, colla intelligenza di tutti i cavalli arabi, diede un balzo a sinistra, aiutando il suo signore a cavarsi d'impaccio, mentre il tronco spezzato della lancia di Arrigo scivolava sulla rotella cedevole dello Sciarif.

Tutto ciò avvenne in un batter d'occhio, e i due cavalli volarono oltre, in mezzo a due nembi di polvere.

Grida confuse, di raccapriccio e di giubilo, salutarono il bel colpo di Arrigo e la salvezza di Bahr Ibn.

— Alle mazze! alle mazze! — gridarono allora i maestri di campo.

Giunti all'estremità della lizza, i due combattenti gittarono i tronchi inutili, e, spiccate le mazze dagli arcioni, voltarono i cavalli, per corrersi addosso con una furia più grande di prima.

Le mazze levate s'incrociarono, rombando nell'aria. Il Carmandino, destro e forte com'era, aveva meditato il colpo e preso il tempo giusto per assestare la mazzata sull'elmo del suo nemico. Ma lo Sciarif rammentava come fosse gagliardo il braccio di Arrigo, e già si era prudentemente coperto il capo colla rotella. Frattanto, sviata un tratto la mazza percuoteva destramente la cervice del cavallo, e d'un colpo così forte, che, malgrado il frontale di cuoio, difeso da piastre di ferro, lo fece stramazzare di botto, in quella che il suo scudo di acciaio, colpito dalla mazza poderosa di Arrigo, andava in frantumi, come se fosse stato di vetro.

Questo aveva preveduto il Saracino. Curvando il capo e le spalle sul collo del suo destriero, e prima che Arrigo potesse raddoppiare il colpo, gli menò un manrovescio alla visiera, che andò spezzata a [279] sua volta, come poc'anzi la rotella dello Sciarif. E al secondo, aiutando il fatto che Bahr Ibn si trovava allora più in alto, tenne dietro un terzo colpo che fiaccò l'ali al grifone del Genovese, e rimbalzò sull'elmetto.

Sbalordito da quella tempesta, messo in un grave impiccio dalla caduta del suo cavallo, Arrigo da Carmandino non ebbe più modo a rispondere.

Bahr Ibn si era rialzato sull'arcione, in tutta la sua alterezza, e la gioia feroce del trionfo gli fiammeggiava dagli occhi. Già stava per sollevare il braccio e ferire un quarto colpo, che avrebbe vendicato davvero l'onta del suo duello d'Antiochia allorquando un grido acuto s'intese. Lo Sciarif volse la faccia al palco delle donne, e vide Diana che cadeva svenuta, fra le braccia delle ancelle.

Fino a quel punto egli non aveva pensato a Diana. Ma quel grido, quell'accento supplichevole della bellezza, gli scese nel cuore, destandovi una corda dimenticata.

— Che dirà essa, se io lo uccido? — pensò. — Non mi basta aver vinto?

E calata la mazza, ad alta voce proseguì:

— Cristiani, udite; concedo la vita ad Arrigo. —

Ciò detto, e mentre uno stuolo di valletti si affrettava ad entrare nella lizza per sollevare il caduto, lo Sciarif si allontanò maestoso dalla parte dei suoi.

E accostatosi a Zeid Ebn Assan, così gli disse all'orecchio:

— Va sul palco, a rassicurare la perla d'Occidente. Il suo antico fidanzato non riceverà altri colpi da me. —

[280]

Lo sgomento regnava nelle file cristiane. Si capiva che cagione di quella sconfitta era stato il colpo fuor delle regole cavalleresche, dato sulla cervice al destriero. Ma, oltre che poteva essere un colpo involontario, i ragionamenti più dotti intorno all'accaduto non potevano fare che ciò che era stato non fosse. E Arrigo, il più destro schermidore dell'esercito, era caduto, e Bahr Ibn era illeso.

Tornato nel mezzo del campo, lo Sciarif si volse a Mauro di Piazzalunga e così gli parlò:

— Cristiano, ricordo che Arrigo da Carmandino è stato mio ospite. Io l'ho raccolto morente in Cesarea e l'ho condotto nel deserto con me. Il mio Zeid ha medicato le sue ferite e lo ha campato da morte. Se vi piace, anche una volta il sapiente mio servitore potrà dar l'opera sua al ferito. —

Il maestro di campo ringraziò, quantunque di mala voglia. Ma che altro poteva far egli? L'offerta era cortese, e il bisogno di accettarla era grande. A quei tempi, la scienza aveva patteggiato cogli Arabi, e Galeno ed Ippocrate non avevano migliori sacerdoti dei Saraceni, dopo che questi si erano impadroniti d'Alessandria, la città più dotta del mondo.

Frattanto il caduto era portato via dal campo, fuori dei sensi, e a tutta prima creduto morto dai suoi. Per ventura, non si trattava che di uno stordimento, cagionato dal colpo sull'elmetto, e di qualche lieve ferita al viso, su cui si era spezzata la visiera di ferro. Zeid Ebn Assan, mandato dallo stesso Sciarif e accolto con segni di grande onoranza dai capitani genovesi, visitò con ogni diligenza il ferito, e dichiarò che pericolo di vita non c'era.

Il vecchio Arabo ebbe anzi la fortuna di vedere [281] aprir gli occhi al suo antico ammalato e di udirne le prime parole, che erano un ringraziamento ed una interrogazione.

— Mio signore — gli bisbigliò Zeid all'orecchio, — porterò la lieta novella della tua salvezza alla donna del tuo cuore. —

Gli occhi di Arrigo espressero al Saracino tutta la gratitudine di cui egli era compreso. Ma il pensiero della prigionia di Diana e del non aver potuto egli far nulla per lei, tornò, insieme con quelle parole, alla mente del giovane, che tosto ricadde nel suo abbattimento.

In quel mezzo, i cavalieri di Genova si consigliavano di ciò che avessero a fare. Caffaro di Caschifellone voleva ad ogni costo entrar secondo in lizza; ma si opponevano altri, chiedendo a gara di succedere ad Arrigo. A chetarli, fu proposto di lasciare il giudizio alla sorte; e già si disponevano a tentare la prova, allorquando si udì lo scalpito di un cavallo che giungeva a galoppo.

Si volsero incontanente e videro un cavaliere tutto vestito a gramaglia, su d'un destriero anch'esso bardato di bruno.

— Messeri, — diss'egli, avvicinandosi e rivolgendo la parola ai due figli di Guglielmo Embriaco, — mi concedete voi di combattere contro il rapitore di madonna Diana, vostra sorella? Io ve ne prego, ve ne supplico, per quanto avete di più caro sulla terra.

— E chi siete voi, messere, — disse di rimando Ugo Embriaco, a cui la visiera calata del nuovo venuto non permetteva di conoscer chi fosse, — per nutrire la speranza che noi vogliamo concedervi questo onore?

[282]

— Son tale, — rispose lo sconosciuto, con voce tremante per la commozione, — che ha il diritto e l'obbligo di domandare, non già l'onore, come voi dite, ma la grazia di andar primo al pericolo.

— La grazia; — ripetè Ugo Embriaco, che non afferrava il senso di quella distinzione.

— Sì, messere. Ma consentite che io non dica di più. Ad uno di voi, a messer Nicolao, se non vi spiace, dirò tal cosa che lo persuaderà certamente di farsi mallevadore per me. —

La novità del caso avea tolto la parola a tutti gli astanti. Ugo si volse al fratello, che era il maggiore dei due, come per lasciargli la cura di cavarsi d'impiccio, o il carico di prendere una deliberazione in proposito. Messer Nicolao si fece avanti, senza aprir bocca, e avvicinatosi allo sconosciuto, stette ad udire il secreto, che quegli voleva confidare a lui solo.

Alle prime parole del nero cavaliere, il primogenito di Guglielmo Embriaco fece un gesto di meraviglia; ma tosto si ricompose, in atto di severo ascoltatore. Le ragioni dello sconosciuto dovevano essere molto incalzanti, o molto ben disposto Nicolao ad accoglierle, perchè, dopo alcuni istanti di colloquio, questi andò verso il fratello Ugo e gli disse:

— Io penso che dobbiamo lasciare entrar primo in lizza costui.

— Ma lo conosci tu? — chiese Ugo, stupito della pronta condiscendenza del fratello.

— Mi pare; — rispose quell'altro.

— Pare anche a me d'indovinarlo, — riprese Ugo. — E se io non m'ingannassi...

— Dovreste ammettere, fratello mio, — interruppe [283] messer Nicolao con accento tra malinconico e severo, — o la prova dell'innocenza, o la giustizia di Dio.

Ugo Embriaco non aggiunse parola.

— Ma forse v'ingannate, — continuò Nicolao. — Ed ora, messeri, lasciate passare il cavaliere innominato. Io lo conosco e sto mallevadore per lui.

— Grazie! — mormorò lo sconosciuto, chinando la fronte sul collo del suo destriero, come se non gli paresse bastante la visiera dell'elmo a nascondere la sua commozione.

Gli araldi cristiani diedero una seconda volta nelle trombe in segno di sfida, e al loro squillo risposero tosto dall'altra parte le trombe dei Saracini.

Bahr Ibn fu sollecito a ritornare nello steccato, con una nuova rotella al braccio e una nuova lancia nel pugno.

Egli guatava frattanto quell'altro avversario che gli era opposto dal campo cristiano.

— È nero dal capo alle piante come Azraele! — dicevano i suoi cavalieri intorno a lui.

— Ben venga l'angelo della morte! — gridò lo Sciarif. — Egli mi avrà liberato da un peso assai grave. Ma temo, — soggiunse, con un accento tra minaccioso e triste, — che non sarà neppur lui il padrone della mia vita. —

I maestri di campo si fecero innanzi per adempiere al loro uffizio e stabilire le condizioni dello scontro, o, a dire più veramente, per farle conoscere al nuovo venuto, poichè erano le stesse dello scontro antecedente, e Bahr Ibn non aveva ad udirle più oltre.

[284]

Come ebbero finito, un gran silenzio si fece per tutto il campo. L'ansietà si dipingeva in varie guise su tutti quei volti abbronzati, ma tra i Cristiani più viva, più profonda, che non tra i Saracini. Questi conoscevano già alla prova il loro campione, quegli altri non sapevano neppure il nome di colui che era venuto così d'improvviso a vendicar l'onta della loro prima sconfitta. Chi era costui? Non poteva anche essere un temerario, che troppo presumesse di sè? E non dovevano per avventura prepararsi ad un nuovo scorno, tanto più probabile, in quanto che tutti conoscevano la somma valentia di colui che era stato vinto dallo Sciarif e altro vantaggio non potevano sperare che da un capriccio di fortuna?

A Caffaro non diè neppur l'animo di assistere al combattimento.

— È una perdita di tempo; — diceva egli a Ferrario di Castello. — E ciò senza contare che questo cavaliere sconosciuto mi torna di mal augurio per gli altri che la sorte chiamerà a succedergli. —

Finalmente, fu dato il segnale. I due campioni erano liberi di andarsi contro l'un l'altro.

Stettero un tratto a guardarsi. Poi lo Sciarif volse gli occhi al palco su cui stavano le donne. Diana era al suo posto, ed appariva più calma. Zeid Ebn Assan stava ritto al suo fianco, e certo le avea recato nuove di Arrigo.

— Per Allah! — disse il forte guerriero tra sè. — Questa volta io non la farò piangere. Chiunque abbia a cadere di noi due, non si tratterà più di vedere in pericolo il suo fidanzato. —

Diede, ciò detto, un'ultima occhiata al suo avversario, [285] e lo vide pronto a partire. Spianò la sua lancia, ne fermò il calcio tra l'òmero e il petto, e lanciò il suo cavallo a carriera.

Il generoso animale sentì l'impulso delle ferree ginocchia, e, caldo ancora del primo incontro, andò veloce come uno strale verso il mezzo del campo.

Chi non sa come il cavallo partecipi alle nostre passioni, alle ire, ai desiderii, agli impeti nostri? Il nobile amico dell'uomo si sente amato e riama, dando la gagliardia dei suoi tendini, l'ardore della sua indole al cavaliere, diventando come una moltiplicazione della forza di lui, mettendo un'altra volontà, un'altra vita, a servizio della sua.

Così Antar, il cavallo prediletto di Bahr Ibn, volava feroce allo scontro.

Anche l'avversario era ben provveduto. Ma il cavaliere riusciva nuovo al cavallo, che riconosceva in lui un padrone, e non sentiva un amico.

Però, all'urto delle due lancie, il cavallo bardato di nero inalberò, e il cavaliere, perduto l'equilibrio, spinto da una forza irresistibile, fu balzato di sella.

Che era egli avvenuto?

Lo Sciarif quella volta aveva mirato più basso di prima. Non voleva che gli fosse sviato il colpo, come già gli era occorso col suo primo avversario. A mezzo il cammino che doveva percorrere, si era curvato quanto più poteva sull'arcione, badando a coprire colla rotella il breve spazio che intercedeva tra il suo petto e il collo di Antar. L'asta del cavaliere innominato urtò sull'elmetto, e scivolò, stracciando la verde fascia dei discendenti del Profeta. Quella di Bahr Ibn entrò fra lo scudo del nemico [286] e l'arcione, trovando il giaco del cavaliere, là dove finisce il costato. La maglia, colta in pieno dal ferro di Bahr Ibn, non resistette, così violento fu l'urto. L'asta in quella vece si ruppe, ma il tronco rimase nella ferita.

Mandò un gemito il disgraziato, e cadde riverso a terra. Lo Sciarif, fornita la sua corsa fino alla estremità della lizza, tornò indietro a briglia sciolta, balzò da cavallo colla rapidità della tigre, e, sguainata la spada, volle dare il colpo di grazia, cercando colla punta l'allacciatura dell'elmo.

— Ferma — gridarono i maestri di campo, accorrendo solleciti.

— Perchè? — gridò lo Sciarif. — Non è questo il mio dritto?

— Sì; — disse Mauro di Piazzalunga; — ma tu colpisci un morto. —

E mostrò a Bahr Ibn il petto squarciato del suo avversario. Il tronco della lancia palpitava nella ferita, e il sangue gorgogliava nerastro intorno alle anella spezzate della maglia d'acciaio.

Bahr Ibn si arrestò e rimise la spada nel fodero.

Intanto erano accorsi i valletti, e insieme con essi il vecchio Zeid, per offrire l'opera sua, quantunque, a giudicarne dalla prima apparenza, la vedesse inutile affatto.

Slacciarono l'elmo e tolsero la cervelliera al ferito. La morte gli stava nel viso. Ma anche tra i lividori ond'era cosparso e le contrazioni cagionate dallo spasimo atroce dell'ultim'ora, fu agevole a tutti di riconoscerlo. Bahr Ibn diede in un grido di stupore e di raccapriccio.

— Gandolfo! — esclamò.

[287]

Indi, volgendosi al palco delle donne, soggiunse:

— Perla dell'Occidente, son io che ti vendico!

— Ah, l'avevo pure indovinato! — disse Ugo Embriaco, volgendosi al fratello.

— Orbene? — replicò Nicolao. — Che cosa vi dicevo io? O la prova dell'innocenza, o la giustizia di Dio. Passi la giustizia di Dio: — aggiunse con una voce piena di tristezza, il primogenito degli Embriaci: — e gli uomini si dispongono a perdonare. —

Ciò detto, senza che Ugo ardisse rispondere altro in quel momento solenne, messer Nicolao si avvicinò al suo vecchio amico, la cui vista cominciava ad offuscarsi, mentre le braccia annaspavano, come cercando di aggrapparsi a qualche cosa che lo trattenesse un istante sull'orlo della tomba.

— Povero Gandolfo! — mormorò Nicolao. — Potessi tu almeno morire in pace colla tua coscienza!

— Ho tradito... — balbettava il morente, — ho tradito, sì... ma ho pure, espiato!... Sciarif, rendi la fanciulla.... o morrai.... Quest'oggi morrai.... — incalzò, facendo uno sforzo supremo, per compier la frase, — quest'oggi, come muoio io.

— Pensa a te, bugiardo profeta! — gridò lo Sciarif, inasprito da quella minaccia del moribondo. — Salva te stesso, se puoi.

— L'anima... l'anima vorrei salva... — rispose Gandolfo — E il perdono dei miei... il perdono di madonna.... —

Voleva aggiungere Diana; ma il sangue incominciava a flottargli dalla bocca e non gli consentiva altre parole.

Mauro di Piazzalunga si volse al palco delle donne, e ad alta voce espresse il desiderio del morente.

[288]

— Madonna Diana, — gridò, — Gandolfo del Moro chiede il vostro perdono. Concedetelo, e sia per lui l'impromessa del perdono di Dio. —

La fanciulla degli Embriaci esitò un istante, ma più pel turbamento ond'era stata colta da quella sequela di casi, che non per titubanza a concedere. Indi, mormorato un sì, e temendo che la sua voce, soffocata dalle lagrime, non potesse giungere al moribondo, slacciò la fascia che le stringeva la vita e la gettò a Mauro di Piazzalunga.

Lo Sciarif guardava e taceva. Ma fremette, nel profondo del cuore, al vedere quell'atto. Avrebbe cangiato volentieri di posto con Gandolfo del Moro, per ottenere quel segno di perdono da lei.

— Madonna si raccomanda alle vostre preghiere lassù, e vi manda la sua sciarpa: — disse Mauro di Piazzalunga, parlando amorevolmente all'orecchio di Gandolfo. — I suoi fratelli e tutti i vostri concittadini vi hanno perdonato del pari. —

Gandolfo fece uno sforzo per riaprir gli occhi e vedere il dono della fanciulla. Ma non ne venne a capo, e allora si strinse la ciarpa alle labbra.

— A lei... il pensiero; — mormorò; — l'anima a Dio... se vorrà perdonarmi.

— Pregatelo, mio figlio; — egli è il Dio delle misericordie! — disse il vescovo Maurizio, facendo il segno della croce sulla fronte a Gandolfo.

Il disgraziato non rispose più verbo. Tentò bensì di aprire la bocca per balbettare una preghiera. Ma un altro botto di sangue uscì dalle fauci, e Gandolfo del Moro aveva cessato di vivere.

[289]

CAPITOLO XIX. Che potrebbe intitolarsi il principio della fine.

A tutta quella vicenda di casi e di mestizie assisteva in disparte un cavaliere, muto, immobile e solo, che si sarebbe potuto credere un simulacro di guerriero, come quelli che decoravano le sale d'armi delle antiche castella, se tratto tratto non lo si fosse veduto muovere il capo, ora per guardare nel palco delle donne, ora per seguire degli occhi le fasi della giostra.

Nessuno dei cavalieri cristiani si era avvicinato a lui per rivolgergli la parola, nè egli aveva mostrato mai di volersi frammettere nei discorsi degli altri. Pareva che niente lo commovesse, di quanto accadeva sotto i suoi occhi. Alto della persona, poderoso di membra, tutto chiuso nella sua armatura, ravvolto in un mantello bianco, che era segnato sull'òmero da una croce vermiglia, lo si poteva riconoscere a tutta prima per un cavaliere d'alto grido, ma senza altrimenti poterne ripetere il [290] nome. Infatti, egli era andato e rimaneva là, fin dal principio della giostra, colla visiera calata, lasciando immaginare ai più curiosi che si trattasse d'un voto.

In que' tempi, simiglianti stranezze non erano rare. Un cavaliere giurava di rimanere per un certo numero d'anni coll'occhio destro bendato, e non ardiva sciogliersi di per sè stesso dal voto, neanche dopo aver perduto in guerra il sinistro.

Il cavaliere sconosciuto non si scosse neppure alla scena dolorosa della morte di Gandolfo del Moro, nè quando il cadavere fu trasportato fuori del campo. Le braccia incrociate sul petto, il mento chino sulla gorgiera, dinotavano che il cavaliere se ne stava assorto in una profonda meditazione, o che sapeva padroneggiarsi in tal guisa, da non lasciare intendere ad altri qual senso facessero sull'animo suo le cose che accadevano a pochi passi lontano.

La pugna per quel giorno poteva dirsi finita, giusta le condizioni poste dallo Sciarif. E già i due maestri di campo erano per darsi commiato e prender ora pel giorno seguente.

Ma il vincitore appariva poco desideroso di tornarsene in città. Era profondamente crucciato; le ultime parole di Gandolfo del Moro gli stavano ancora sull'anima.

Tutto ad un tratto scosse fieramente la testa, come uomo che abbia presa una risoluzione subitanea, e si avanzò nel mezzo del campo.

— Cristiani, udite; — gridò egli allora. — Il vostro profeta di sciagure mi ha pronosticato la morte per questo medesimo giorno. Se esco dalla [291] lizza, direte che lo Sciarif è stato colto dalla paura. E poi, se è vero che la mia ultim'ora sia giunta, non sarà meglio il morir qui, della morte del guerriero, che per via, o entro le mura di Tortosa, per un malore improvviso e volgare? Rimarrò dunque, per altri due scontri, se vi dà l'animo di tentare la prova, e vedrò subito qual fede meritasse l'augurio. Son fresco ancora di forze; le mie membra non hanno toccato una di quelle graffiature che pure si hanno così facilmente da una mano di donna. A voi dunque, poichè siete uomini; non rimandate il pericolo a domani; io son pronto. —

Le acerbe parole punsero i cavalieri cristiani, a cui bastava assai meno, per uscire da quella inerzia apparente. Invero, nessuno di que' baldi giovani si era attentato di proporre la continuazione della giostra, perchè lo Sciarif aveva detto fin da principio di non volere che due campioni al giorno. Ma poichè egli rompeva la sua legge, balzarono tutti verso lo steccato, gridando di esser pronti del pari; e Caffaro di Caschifellone tra i primi.

— Oramai, — diss'egli, — nessuno vorrà contendere il primo luogo all'amico e al compagno di Arrigo da Carmandino.

— Io ve lo contendo, messere; — gridò Nicolao. — Se voi siete l'amico di Arrigo, io sono il fratello di madonna Diana, per cui si combatte quest'oggi. Neanche Ugo mio fratello potrebbe passarmi innanzi, perchè, se egli è il primo capitano dell'armata, io sono (io, m'intendete?) il primogenito degli Embriaci.

— È giusto! è giusto! — gridarono tutti. — Il primo luogo a messer Nicolao! —

[292]

Al giovine signore di Caschifellone dispiaceva quel consenso universale. Già due campioni erano stati abbattuti dal Saracino. Il terzo, poi, non aveva di grande che il nome, e Caffaro temeva a ragione di vedergli fare, per sua imperizia, la fine che avevano fatto i primi due, uno per capriccio di fortuna e l'altro in espiazione de' suoi falli. Comunque fosse, una terza sconfitta in quel giorno sarebbe stata troppo dolorosa, e avrebbe nociuto grandemente al buon nome dei cavalieri di Genova. Perciò doleva a Caffaro di vedere come tutti s'inchinassero al volere di messer Nicolao, ed egli tentò ancora una volta di smuoverlo.

— Sia pure come voi dite; — replicò. — Ma perchè non vorreste concedermi in grazia ciò che sarebbe l'orgoglio di tutta la mia vita? Pensate, messer Nicolao, che i capitani non debbono avventurarsi in ogni maniera d'imprese, che il loro senno e il loro valore sono sacri alla salvezza di tutti....

— Perchè dite voi ciò? — chiese una voce alle spalle di Caffaro.

Era la voce del cavaliere sconosciuto, che credeva finalmente opportuno di rompere il silenzio.

— Sappiate, messere, — proseguì egli, — che i capitani debbono saper comandare, ma altresì combattere all'uopo, come l'ultimo dei loro uomini d'arme. —

Caffaro voleva rispondere. Ma gli parve di conoscere quella voce e rimase perplesso.

— Del resto, — riprese lo sconosciuto, — messer Nicolao non entrerà in lizza contro il Saracino. E di ciò spero sarete contento. Antiochia, il mio cavallo! —

[293]

Le ultime parole erano rivolte ad un vecchio scudiero, che pareva le aspettasse, poichè egli fu d'un balzo fuor della cerchia degli astanti, e tornò poco dopo, conducendo un destriero fieramente bardato di maglia e munito d'un ampio frontale d'acciaio.

I cavalieri, che erano pur dianzi così pronti a contendersi l'onore di scendere in lizza, guardarono stupefatti quell'uomo, che si prendeva il primo luogo senza pure domandarlo; indi si volsero a messer Nicolao, e rimasero sbalorditi senz'altro, vedendo com'egli non tentasse neanche di resistere.

— Chi sarà mai?

— Uno dei nostri non è.

— Son tutti a visiera alzata, i nostri campioni; e costui, nelle membra e nella voce, non somiglia ad alcuno.

— E perchè mo' gli lasciano il campo libero?

— Certo, è un campione disceso dal cielo.

— L'arcangelo San Michele!

— O San Giorgio il valente.

— San Giorgio, di sicuro. Vedete come impugna la lancia! —

E il grido corse rapidamente tra le file. Quel cavaliere non era, non poteva essere altri che il glorioso barone San Giorgio. Del resto, una certa somiglianza c'era, tra lo sconosciuto e San Giorgio. Il forte guerriero di Cappadocia non aveva corso anche lui la sua lancia, per liberare una povera principessa dalle ugne del drago?

Era quello il tempo dei miracoli, non lo dimentichiamo. Pochi anni addietro, Sant'Andrea era apparso tre volte ad un prete di Marsiglia, per annunziargli [294] che in una chiesa d'Antiochia si sarebbe rinvenuta la santa lancia, quella appunto che aveva trafitto il costato di Gesù Cristo in croce. E qualche giorno dopo l'invenzione della Santa Lancia, uscendo i Crociati a battaglia, non avevano avuto il soccorso di tre cavalieri vestiti di bianco, che il legato pontificio, uomo a cui si poteva credere senz'altro, affermò essere San Giorgio, San Teodoro e San Maurizio in persona? E in Gerusalemme, nella cappella del Santo Sepolcro, non si ripeteva forse ogni anno il miracolo delle lampade, che si accendevano senza mestieri d'aiuto?

Per altro, se la pia moltitudine dei Crociati credeva ai miracoli, non ci avea fede Bahr Ibn. Egli era in questo un vero discendente di Maometto, che di miracoli ne avea fatto uno abbastanza istruttivo; quello, io vo' dire, di andare alla montagna, poichè la montagna non volea muoversi per andare a lui.

Ora, come ebbe veduto entrare in lizza quel nuovo guerriero, lo Sciarif non seppe trattenersi dal dire:

— È dunque mia sorte di combattere cogli sconosciuti? Il tuo nome, se puoi confessarlo!

— Il mio nome! — esclamò il cavaliere misterioso. — Esso è scritto sulla punta della mia spada. —

A quella fiera risposta Bahr Ibn diede in un ghigno sarcastico.

— Poco fortunate, le vostre spade, o cristiani! Oggi non hanno avuto neppure il tempo di uscire dal fodero.

— Non t'inorgoglire per questo! La fortuna ti ha concesso il suo primo sorriso. Il cielo ti ha dato [295] di uccidere il secondo dei tuoi avversarii, perchè.... così doveva accadere; — soggiunse con pietosa reticenza lo sconosciuto. — Ma Iddio non è già sceso a patti cogl'infedeli, ed io ti consiglio d'implorarne la misericordia nella tua ultima ora.

— Non temo la morte; — gridò esacerbato lo Sciarif. — Ma non foss'altro, per provarti che menti.... —

E senza finir la frase, voltò il cavallo per prender campo, e tornare a briglia sciolta sull'avversario.

Il cavaliere sconosciuto rimase immobile al suo posto; ma appena vide che Bahr Ibn, compiuto il suo tratto di cammino, si rimetteva alla corsa contro di lui, diè di sproni nei fianchi al cavallo, e corse colla lancia spianata, alla volta del nemico.

E qui va notato un fatto, che dimostra come lo sconosciuto facesse a fidanza colla gagliardìa dei suoi muscoli d'acciaio. Scambio di stringere il tronco della lancia tra il braccio e il costato, come portava la consuetudine, prima che fosse inventata la resta da trattener l'arma sulla corazza, egli ne piantò finalmente il calcio tra il petto e i muscoli tesi dell'òmero, che erano così stretti al costato da formare il più saldo degli ostacoli, guadagnando per tal modo la lunghezza d'un cubito. Ora, perchè il colpo non gli andasse sviato al primo intoppo, non occorreva soltanto che il petto fosse gagliardo, ma altresì che il pugno avesse la tenacità inflessibile del bronzo.

E così era di fatti. I due focosi destrieri si toccavano appena, e già l'asta dello sconosciuto coglieva Bahr Ibn sotto la gorgiera, mentre l'antenna di quest'ultimo balenava senza far colpo davanti alla rotella del suo avversario.

[296]

Non valse al generoso Antar di tentare uno dei suoi salti di fianco. La lancia del cavaliere misterioso non era costretta a seguire una linea immutabile. Il calcio faceva pernio in un punto solo, e il pugno poderoso che la tenea salda, poteva aiutarla a seguire i movimenti del nemico, mantenendone la punta sul petto di lui. Liberare il suo signore non era dunque possibile; e Antar s'impennò, sbuffando, sotto la spinta gagliarda. Lo Sciarif si strinse colle ginocchia ai fianchi del destriere; lasciò cadere la lancia e le redini; cercò la sua mazza all'arcione, ma non ne venne a capo, respinto com'era da quella terribile antenna. Provò allora ad arrovesciarsi sulla groppa per scivolargli da un lato, come i cavalieri della sua nazione, quando si piegano col petto in fuori per raccogliere un anello, od altro premio della corsa, che sia posato a terra, mentre il cavallo prosegue la via. Ma l'asta del nemico incalzava; il cavallo era impennato; e lo Sciarif cadde miseramente d'arcione.

Se la gorgiera di Bahr Ibn non fosse stata di buona tempra, quel colpo di lancia lo avrebbe certamente finito.

Un grido di giubilo si levò allora nel campo crocesegnato. Finalmente, il cielo veniva in soccorso dei suoi.

— Potrei ucciderti; — gridò lo sconosciuto. — Amo meglio averti prigione. Arrenditi! —

Bahr Ibn si rialzava allora da terra, dopo aver liberato destramente il piè dalla staffa.

— Perchè? — gridò egli, furente dalla patita vergogna. — Se tu mi togli la perla dell'Occidente, a che mi serbi la vita? Difenditi, guerriero, e non [297] mi fare il mercante! Se la tua lancia ha guadagnato una misura sulla mia, questa spada ragguaglierà le distanze. —

Così dicendo, lo Sciarif corse al cavallo, che si era fermato pochi passi più oltre, levò dall'arcione la spada, e si piantò fieramente in attesa.

Il cavaliere sconosciuto non disse parola. Balzò di sella, diè di piglio alla poderosa sua lama e andò verso il nemico, che voleva ad ogni costo proseguire la pugna.

Non è da creder qui che le spade d'allora fossero quali ce le rappresenta l'arte del Quattrocento e dei secoli posteriori, cioè a dire pugnali allungati alla misura di spiedi. Anche pesanti per le nostre braccia disavvezze, quando ci proviamo a trattarne qualche rugginoso esemplare, queste spade non potevano paragonarsi alle antiche, nè pel loro peso, nè per la larghezza della lama, nè pel modo di usarle. Fu solamente dopo la metà del secolo decimoterzo che gl'italiani incominciarono a seguire la nuova usanza dei Francesi, dimenticando gli antichi spadoni a due tagli, per servirsi delle spade da punta, più sottili e più maneggevoli a gran pezza. Le vecchie spade, le spade di Orlando, di Oliviero, e di Uggero il Danese, pesavano intorno a cinque libbre; la lama era lunga almeno un metro, si allargava nel forte fino ad otto centimetri, nel debole si restringeva a quattro. Così larghe e pesanti, dovevano tagliare assai meglio che pungere. Tali erano Fusberta, Durindana, Gioiosa, e tutte le altre spade gloriose dei quattro secoli intorno al Mille; veramente temperate con arte magica, poichè dovevano fendere le armature, [298] e far servizio di ore, di giorni intieri, in mano ai loro possessori. E in quell'arte i maghi più esperti di Sorìa potevano trovarsi a Damasco; quelli d'Italia a Milano.

I due campioni si posero in guardia; lo sconosciuto colla punta in alto, pronto a calare un fendente appena si muovesse quell'altro; Bahr Ibn colla lama poco distante da terra, colla persona a mezzo curvata, per tenersi pronto del pari a ferire e a cansarsi.

Era evidente che lo Sciarif, notata la corporatura straordinaria del suo avversario, mirava a sfuggirgli, e lasciarlo ruzzolar dietro ad un colpo che gli andasse a vuoto, per coglierlo di fianco e scegliere il punto in cui potesse più sicuramente ferirlo. Ma il cavaliere sconosciuto mostrò fin dai primi colpi di non voler essere ingannato che a mezzo. Infatti, calò il suo fendente, ma fiacco, e quasi nel solo intento di palpare davanti a sè, come uomo che brancoli nel buio. Lo Sciarif spiccò un salto e gli fu rapidamente sulla destra. Ma l'altro non si era punto squilibrato, e il suo fendente, rimasto a mezz'aria, non ebbe che a mutarsi in manrovescio, per far capire al Saracino che certe malizie erano fuori di luogo. E perchè la lezione si stampasse meglio nella testa d'uno scolaro, quel manrovescio diè così forte sulla visiera dell'elmo, che la ruppe senz'altro.

Fremette di rabbia lo Sciarif, e, senza badare al sangue che gli grondava dalla guancia percossa, si avventò allo sconosciuto, menandogli un colpo a tutta forza sul capo. Ma non trovò che l'òmero del nemico, perchè questi si era cansato in quel punto, [299] e la lama, dopo aver rotta la maglia, rimbalzò lungo dal corpo, sospinta da un moto repentino del ferito.

La fretta, la bramosìa furibonda di render sangue per sangue, aveva tradito Bahr Ibn. Prima che egli avesse rialzato la lama per raddoppiare il colpo, quell'altro aveva colla manca afferrato la sua spada a mo' di croce sotto gli elsi, e spingendosi sotto misura colla rapidità della folgore, dava del capo a mezzo il petto del suo avversario.

Un masso scagliato da una catapulta non avrebbe fatto rovina maggiore. Lo Sciarif balenò un tratto sulle ginocchia, annaspò colle braccia; lasciò cadere la spada, e andò ruzzoloni sul terreno.

A quel colpo maestro, i Cristiani riconobbero il loro campione.

— Tosta di maglio! — gridarono. — È il glorioso Testa di maglio! —

I lettori rammentano certamente, non per merito mio, ma per l'altezza del personaggio, quello che di Guglielmo Embriaco ho raccontato in principio. Nella presa di Gerusalemme il forte uomo aveva rotto in simil guisa l'ostacolo che opponeva al suo passaggio un manipolo di Saracini; e il soprannome di Testa di maglio aveva consacrato l'impresa.

Immaginate l'allegrezza di tutti quei cavalieri, quando credettero di aver conosciuto l'eroe. Immaginate quella di madonna Diana, al cui pensiero già era balenato il dubbio che quel cavaliere sconosciuto potesse essere il padre suo, poichè egli lo ricordava tanto nella voce e negli atti. Il dubbio, ho detto, e non altro. Infatti, come poteva egli trovarsi laggiù, davanti a Tortosa? Ella non sapeva già che [300] Arrigo da Carmandino e Caffaro di Caschifellone, tornati appena dalla trista spedizione di Gaza, avevano spiccato una galera sottile dell'armata di Tortosa, per mandare incontanente a Guglielmo Embriaco l'annunzio di ciò che era avvenuto alle strette di Cades. Non sapeva già, che, un mese dopo l'invio, erano capitate nelle acque di Tortosa altre otto galere genovesi, comandate da Mauro di Piazzalunga e da Pagano della Volta, e che quando lo Sciarif ebbe bandita la giostra di cui essa doveva essere il premio, i comandanti dell'armata genovese non avevano accettato l'invito, se non dopo un consiglio tenuto sulla galera padrona, consiglio segreto, a cui erano stati ammessi soltanto i più vecchi, gli uomini consolari della spedizione, e che era parso misterioso più del bisogno a Caffaro e ad Arrigo.

Udite le tristi nuove di Soria, messer Guglielmo non aveva posto tempo in mezzo, e, con tutte le navi che erano allestite nel porto, si era messo alla via per lo stretto di Messina, donde a golfo lanciato aveva fatto cammino per alla volta di Rodi e Tortosa. Non era sicuro di salvare la sua bella figliuola; ma aveva giurato di vendicarla.

Ma torniamo al racconto, che, per questi cenni necessarii, abbiamo dovuto interrompere.

— Sì, Testa di maglio! — gridò lo scudiero, che poc'anzi aveva risposto al nome d'Antiochia, e che era per l'appunto il nostro Anselmo, il vecchio arcadore, il servo prediletto di madonna Diana. — Testa di maglio, castigo dei miscredenti e dei rapitori di donne! —

Nuove grida risposero alle parole del vecchio [301] Anselmo. Quel terribile cavaliere che ristorava le sorti della giostra e il buon nome delle armi genovesi, era proprio messer Guglielmo, il vincitore di Gerusalemme e di Cesarea, il console del Comune di Genova.

Intanto l'Embriaco era corso addosso all'avversario, per mettergli il ferro alla gola. Si trattenne, per altro, vedendo che lo Sciarif non faceva atto di resistenza, e chiamò i valletti, perchè andassero in aiuto del vinto.

Slacciato l'elmetto, si vide lo sfregio alla guancia; ma questo non era grave, e il sangue che inondava la faccia di Bahr Ibn non doveva esser sgorgato in copia così grande da una così lieve ferita. Zeid Ebn Assan, che era accorso a sua volta, vide pur troppo donde venisse quel sangue. Le labbra del ferito ne erano tutte imbrattate, e ad ogni tanto ne davano fuori, minacciando di soffocarlo.

— Mio signore! — gridò il vecchio Zeid, con voce lagrimosa. — Mio dolce signore! —

E così dicendo, si fece con amorosa cura a sollevare da terra il caduto. Tra lui e i valletti, ne vennero a capo, e l'infelice Bahr Ibn potè finalmente trarre il respiro.

— Aveva ragione il profeta! — mormorò lo Sciarif. — Sono un uomo spacciato.

— Perchè dici tu questo? Vivrai, gloria dell'Islam; la mano dell'onnipotente è ancora distesa su te.

— No, mio Zeid, mi sento morire. Non vedi? — E accennava il sangue che gli fiottava dalla bocca. — Ho il petto infranto, e le menzogne pietose non giovano. —

Zeid Ebn Assan diede in uno scoppio di pianto. [302] Egli bene intendeva come ogni speranza fosse perduta oramai.

— Non piangerei — riprese Bahr Ibn. — Così era scritto lassù. E a me non duole il morire... purchè non mi maledica Diana....

— Essa ti compiange, mio signore! — rispose il vecchio, che aveva veduto la fanciulla degli Embriaci discendere dal palco, e gettarsi nelle braccia del padre, poco lunge da loro. — Il cuore della bionda cristiana è buono, e sa perdonare le colpe d'amore. Ah perchè doveva il destino colpir noi in tal guisa, e privarci di te, quando ne era più grande il bisogno?

— Meglio così — disse Bahr Ibn. — È la morte del guerriero, e niente è più bello... del morir giovani... quando non si spera più nulla dagli angeli della vita. Ditemi... — soggiunse, dopo aver fatto uno sforzo, per rattenere lo sgorgo del sangue dalle fauci; — vive Arrigo? Potrà risanare?

— Si, mio signore. Non gli hai tu accordato generosamente la vita?

— Ah, sono felice di averlo fatto! A lui il mio buon destriero.... datelo a lui il mio fedele Antar! Pregatelo di non odiare la memoria di Bahr Ibn. Era destino che io gli fossi rivale. Chi aveva veduto la perla di Occidente, doveva possederla... o morire. —

Furono le ultime parole di Bahr Ibn, il Fatimita secondogenito dell'estinto califfo del Cairo, o del soldano di Babilonia, come dicevano allora i Cristiani.

Certo, il giovine e valoroso Sciarif meritava una sorte migliore. In quell'indole fiera l'amore aveva [303] destato un incendio, e nell'impeto delle sue vampe gagliarde si era offuscata la ragione. Ma pensiamo, a sua scusa, che era un figlio del suo tempo e della sua nazione, ancor barbara a mezzo, e non dimentichiamo neppure che, giusta il sentimento del vecchio Zeid, le colpe d'amore meritano più facilmente d'ogni altra il perdono dei cuori gentili.

La fanciulla degli Embriaci, campata finalmente da tanti pericoli, sentì di non odiare Bahr Ibn, che l'aveva salvata dal più tristo dei suoi persecutori, e nel candore della sua coscienza pregò pace all'anima dello Sciarif, non ricordando neppure essere egli un infedele, morto lontano da ogni via di salvezza.

Badate, egli non è per sentenza mia che vi parlo così. Tento di conciliare la cosa colle idee del tempo di cui vi ho narrato. Quanto a me, ricordo di aver letto nelle epistole di un padre della Chiesa, non doversi in questa delicata materia giudicare a occhio e croce. «Che ne sapete voi dell'ultim'ora di un uomo? Un angelo può sempre giungere in tempo e bisbigliare non visto all'orecchio del morente la parola che deve aprirgli le porte chiuse del cielo.»

Santo padre della carità! Dopo voi, bisogna confessarlo a nostra vergogna, non è stato più detto nulla di simile.

[304]

CAPITOLO XX. In cui si finisce una storia, promettendone un'altra.

Il triste esito della giornata sul piano del Sicomòro aveva colpito d'alto sgomento i Saracini. La superiorità delle armi cristiane si era solennemente affermata colla inattesa apparizione di Guglielmo Embriaco. Anche questi aveva dovuto comperare la vittoria con qualche goccia del suo sangue: ma lo Sciarif, anima della difesa di Tortosa e speranza dell'Islam in Terrasanta, aveva cessato di vivere.

Tortosa oramai si trovava orbata del suo più valido campione, e, quel che era peggio, obbligata a difendersi dal più terribile avversario che i Saracini potessero avere in Sorìa. Guglielmo Embriaco mostrò, con la prontezza delle sue risoluzioni, che lo sgomento dei nemici non era punto fuori di luogo. I difensori della città noveravano ancora i [305] giorni che sarebbe potuta durare la resistenza, e già nei consigli dell'esercito genovese era deliberato l'assalto.

Arrigo da Carmandino, riavutosi dal suo stordimento, chiese a Messer Guglielmo Embriaco di poter guidare egli stesso le schiere genovesi all'assalto. Il valoroso Testa di maglio, il quale non era andato in Sorìa per togliere ai giovani la gloria di una spedizione che essi avevano già così bene avviata, non volle negare questa consolazione a quel prode congiunto, che egli amava già come un figlio. E l'esercito intiero giubilò, quando seppe che Arrigo da Carmandino, uno dei primi sulle mura di Antiochia, di Gerusalemme e di Cesarea, lo sarebbe stato del pari sulle mura di Tortosa. Il nome del capitano non era per sè stesso di buon augurio all'impresa?

La fama del Giovannita non si era punto scemata per l'esito infelice del suo combattimento collo Sciarif. Rammentavano tutti come Bahr Ibn andasse debitore della sua prima e facile vittoria al colpo di mazza che aveva dato sulla cervice del cavallo di Arrigo, colpo disgraziato, secondo i giudizii più miti, ma sempre contro le norme della cavalleria.

Cento e sessantatrè anni più tardi, sul piano di Benevento, dovevano macchiarsi di grave colpa i cavalieri di Carlo d'Angiò, per aver rotte le schiere di Manfredi, usando il brutto artifizio di ferire i cavalli. E messer Ludovico Ariosto, narrando la pugna di Ruggero e Mandricardo, potè raccogliere la dottrina cavalleresca, intorno a questo particolare nella ottava seguente:

[306]

Ferirsi alla visiera al primo tratto;

E non miraron, per mettersi in terra,

Dare ai cavalli morte; ch'è mal atto,

Perch'essi non han colpa de la guerra.

Chi pensa che tra lor fosse tal patto,

Non sa l'usanza antiqua, e di molto erra;

Senz'altro patto, era vergogna e fallo

E biasmo eterno a chi ferìa 'l cavallo.

L'assalto di Tortosa, felicemente riuscito, coperse di gloria il nome Arrigo. E messer Guglielmo, che era stato presente a tutta quella importantissima fazione lodò assai il giovine capitano, pel valore e per la saviezza di cui aveva fatto prova, ottenendo una così splendida vittoria con poco spargimento di sangue.

Non meno lieto dell'Embriaco fu il re Baldovino, che, risaputo appena il felicissimo evento, mandò con gran sollecitudine a Tortosa il suo confidente Folchiero di Chartres, per congratularsi coi Genovesi, e invitare i capi a recarsi in Gerusalemme.

Andarono tutti, e messer Guglielmo condusse la figlia con sè. Del vecchio Anselmo non occorre il dire, perchè questi, nella sua nuova qualità di scudiero, doveva seguire il suo signore, come fa l'ombra il corpo.

Baldovino accolse con grande onoranza i suoi fidi e valorosi amici di Genova, e molto si rallegrò di vedere la bella figliuola dell'Embriaco, che egli aveva già ricevuta nella sua corte, celata sotto spoglie virili, e intorno a cui si era svolta, in quel [307] breve spazio, di tempo, una vicenda così assidua di strane avventure.

Data la parte loro alle cerimonie ed alle feste, il re Baldovino pensò a cavare i frutti di quella visita, impegnando i Genovesi all'imminente assedio di Tripoli. Quell'altra impresa era stata disegnata e doveva essere condotta dal conte di Sant'Egidio, uno dei pochi baroni d'Occidente, rimasti a difesa del regno crocesegnato.

Messer Guglielmo promise, in nome dei suoi figli e di tutta l'armata che essi guidavano. Quanto a lui, era venuto per un ufficio di padre, e doveva ritornare incontanente a Genova, dove lo richiedevano le sue cure di console. Per altro, innanzi di rimettersi in mare, il forte uomo avrebbe voluto assicurare la sorte della sua Diana, dandola in moglie ad Arrigo. Ma qui, dove meno se l'aspettava, occorse l'intoppo. Arrigo non era più libero, e doveva rinunziare ad ogni speranza di felicità sulla terra.

— Padre mio, — diss'egli piangendo, — quando avevo perduto ogni fiducia nelle mie forze e in quelle degli uomini, per rintracciare la vostra diletta figliuola e liberarla dalle mani dei tristi, ho giurato di consacrare il resto dei miei giorni all'Ordine del glorioso San Giovanni, se madonna Diana fosse restituita incolume ai suoi cari.

— E al vostro voto, Arrigo, io son debitrice della mia salvezza; — rispose Diana, non meno commossa di lui. — Questo è volere di Dio; rispettiamolo. Io pure ho giurato. O di Arrigo, o di nessuno. Voi tra gli Ospitalieri di San Giovanni; io tra le vergini di Santa Maria Latina. —

[308]

Messer Guglielmo non seppe che rispondere.

Intanto quei due giovani piangevano. E il vecchio Anselmo, che era profondamente pio, ma che credeva altresì non potere certi sacrifizii tornare accetti al Signore, prese di schianto una grande risoluzione.

— Infine, — borbottò egli tra i denti, — un re è un uomo come un altro, e non mi mangerà mica cogli occhi. —

Avete già capito che il vecchio scudiero domandava un'udienza al re Baldovino. E l'ottenne, e là, senza tanti preamboli, con schiettezza da soldato e da marinaio, gli raccontò ogni cosa, dall'a fino alla zeta.

— Mio buon amico, e che ci posso far io? — disse il re, dopo averlo ascoltato con molta benevolenza. — Non c'è che il Papa, per sciogliere i voti dei fedeli cristiani.

— È vero.... — rispose Anselmo; — è proprio vero.... — aggiunse, mentre si recava macchinalmente e poco rispettosamente la mano al capo, per grattarsi la nuca. — Ma ecco qua!.... Il Papa non ha forse un legato in Gerusalemme? E non ce l'avrà mica mandato, io mi penso, per legare soltanto! —

Il re Baldovino, a quella uscita spontanea del vecchio, non seppe trattenersi dal ridere.

— Hai ragione, in fe' mia! — esclamò. — Vedete questo vecchio arcadore, — soggiunse, volgendosi a Folchiero di Chartres, che era stato l'introduttore di Anselmo, — vedete questo vecchio arcadore, che mette un re sulla via! Tanto è vero che i buoni consigli si trovano da per tutto! —

[309]

Fu chiamato senza indugio il legato, che era, come sapete, il buon vecchio Maurizio, anch'egli amico dei Genovesi, e spettatore della giostra sul piano del Sicomòro. Delle sue buone disposizioni per tornar utile a messer Guglielmo non si poteva dubitare.

— I Genovesi ci hanno grandemente aiutato, e più ancora ci aiuteranno in questa edificazione del reame di Cristo; — disse il re Baldovino. — È debito nostro, messere, di fare in guisa che il console di Genova se ne parta contento.

— Sire, voi dite il vero; — rispose il vescovo Maurizio. — E poichè noi abbiamo potestà di legare e di sciogliere, possiamo anche rimettere il suo voto al prode Carmandino, al vincitore di Tortosa. Ma pensate che egli ripasserà il mare e il regno vostro avrà perduto un valente campione. È già troppo scarso il numero dei baroni d'Occidente, a cui non sia parso grave di rimanere in Terrasanta, per servizio di Cristo!

— Voi dunque non sciogliereste dal suo voto Arrigo da Carmandino? — disse il re, scosso da quella argomentazione del vescovo.

— Sì e no; — rispose Maurizio. — cioè a dire, vorrei poter conciliare una cosa coll'altra. Il voto è senza fallo una ispirazione del cielo. Ora, se noi ce ne assicurassimo i frutti, anche pagando quell'altro di due cuori innamorati, pare a me che si potrebbe consentire al matrimonio senza rimorsi.

— Pare anche a me d'indovinare il vostro pensiero. Sciogliere il Carmandino dal suo voto, ma ritenerlo con giuramento al nostro servizio. Non è così?

[310]

— Per l'appunto; — rispose il legato.

Quel medesimo giorno, alla presenza del re e di tutta la sua corte, il vescovo Maurizio così parlava ad Arrigo da Carmandino e a Diana degli Embriaci:

— Miei figli, Iddio, padre di amore, non accoglie i voti che condannano i cuori ad un eterno martirio. Iddio vuol servi amanti ed operosi. Le tristi prove, durate da voi con tanta costanza e fiducia, gli bastano. In nome di Dio, non accetto il voto di Arrigo che in parte. Sia sposo a Diana, ma resti in Sorìa, dove il regno di Cristo ha mestieri di valorosi campioni, e dove egli potrà essere utile, colle armi di San Giorgio, come se fosse ascritto alla milizia di San Giovanni. —

Piacque la cosa ad Arrigo, che ringraziò con effusione il buon legato, e promise tutto ciò ch'egli volle. Piacque a messer Guglielmo, che si separava da sua figlia; ma la vedeva già signora di un principato in Terrasanta, scambio di lasciarla umile e triste monaca nell'ospizio amalfitano di Santa Maria Latina. Quanto a Diana, che vi dirò? La sua felicità era pari a quella di Arrigo. Del resto, l'amore della fanciulla non era forse incominciato dal giorno che il bel Carmandino aveva presa la croce? E non era giusto che continuasse all'ombra della croce?

Tre anni dopo le cose narrate, e così male, dal vostro servitore umilissimo, tutta la costa di Sorìa era ridotta, la mercè dei Genovesi, in soggezione di Baldovino. Il quale, in ricompensa delle espugnazioni di Malmistra, Solino, Laodicea, Tortosa, Tripoli, Gibello, Beirut, Acri, Gibelletto, Cesarea, Assur, Joppe, Ascalona, diede in feudo a cittadini [311] genovesi parecchie terre, e alla gloriosa repubblica una contrada in Gerusalemme, una in Joppe, e la terza parte delle entrate marittime di Assur, di Cesarea e di Acri, nelle quali città i mercatanti genovesi avevano un proprio magistrato e vivevano colle leggi loro, come se fossero sempre all'ombra delle torri di Sarzano.

Del resto, carta canta; ed ecco qua il privilegio, come fu vergato in pergamena e trascritto dai Genovesi (in latino, s'intende) sul libro del Comune:

«L'anno della Incarnazione del Signore mille cento cinque, a ventitrè giorni di maggio, nel tempo che il patriarca Damberto presiedeva al governo di Jerusalem, regnante Baldovino, Dio onnipotente, per mano dei servi suoi Genovesi, ha dato la città di Accon (Acri, o Tolemaide) al suo glorioso sepolcro. I quali eziandio vennero col primo esercito dei Franchi, e virilmente si adoperarono all'acquisto di Antiochia, di Jerusalem, di Laodicea e di Tortosa; e loro soli acquistarono le terre di Solino e di Gibello, ed accrebbero all'imperio di Jerusalem le terre di Cesarea e di Assur. A questa così valorosa gente, Baldovino re invittissimo ha dato in perpetua possessione in la città santa di Jerusalem una contrada, e in la città di Joppe un'altra; ed oltre ciò la terza parte di Cesarea, di Assur e di Accon.»

Ho accennato poc'anzi a qualche feudo. Infatti, i due figli dell'Embriaco ebbero l'investitura di Gibello, l'antica Biblo, da essi conquistata. Arrigo da Carmandino ebbe Larissa, e il suo territorio, eretti in contea, e concessi in dote a Diana. Così Baldovino riconobbe, anche in una donna, gli obblighi [312] di gratitudine che aveva verso Guglielmo Embriaco.

Mi domanderete di Anselmo. Il degno personaggio che avete conosciuto fin dal principio di questo racconto, cambiò una terza volta di professione. Era stato balestriere e poi guardiano di casa; in processo di tempo scudiero dell'Embriaco; da ultimo passò ai servigi di Arrigo, o, se vi piace meglio, di madonna Diana da Carmandino.

Perchè bisogna dir proprio Diana da Carmandino. Caffaro di Caschifellone si era acconciato anche lui a chiamarla così. Per altro, non aveva accettato l'invito fattogli da Arrigo, di andare a riposarsi per qualche settimana, nella contea di Larissa, dalle fatiche di quella guerra triennale.

— Grazie, amico; — aveva egli detto ad Arrigo; — io torno a Genova. I felici non debbono essere frastornati dalla gente profana. Fate di bastarvi sempre l'un l'altro. Fra due creature che s'amano non c'è luogo per altri, fuorchè per un angioletto dai capegli d'oro e dalle labbra di rosa. —

A tutti i benevoli, che hanno seguito il narratore fin qui, piacerà di saperne più a lungo, intorno alle vicende di Caffaro. Intendo questa curiosità e vedrò di soddisfarla, raccontando la storia del nostro simpatico personaggio un'altra volta; e sarà più presto che essi non pensino.

Di madonna Diana non vi dirò altro se non questo, che fu una delle più savie e reputate castellane di quel tempo. Non la cantarono trovatori; non andarono Goffredi Budelli a morirle davanti, come alla contessa di Tripoli, sua bella e famosa vicina. Ma tutto ciò si capisce. Beatamente chiusa [313] nel suo amore per Arrigo, visse con lui in un settimo cielo, a cui non giungevano desiderii, nè tentazioni profane. Egli combattendo i nemici del reame, ella beneficando i vassalli, si composero un nido felice, in cui durarono lungamente fidi, costanti, librati in solitudine eccelsa, come una coppia di Numi, ma liberali altrui di quella pietà che solo può dare chi non ha mestieri d'implorarne per sè.

Invidiabile Arrigo!

FINE.

[314]

INDICE

Capitolo
I. Ero aspetta Leandro Pag. 1
II. Qui si narra di Arrigo da Carmandino, come pigliasse la croce per gli occhi d'una donna 10
III. Breve anzi che no pei lettori, ma sugoso per Arrigo da Carmandino 22
IV. Delle prodezze di Arrigo e dei sottili accorgimenti di messere Guglielmo Embriaco 30
V. Di una gran torre di legno, che comandò a molte torri di pietra 43
VI. Che è tutto un miscuglio, come la minestra maritata di Anselmo 53
VII. La presentazione del primo annalista di Genova 67
VIII. Un cuore spezzato 89
IX. Nel quale è dimostrata l'utilità del combattere a capo scoperto 110
X. Sulle tracce di Arrigo 132
XI. In cui si narra di un astore che si era fatto colomba 148
XII. La via del deserto 165
[315]
XIII. Alle strette di Cades 183
XIV. Dove è dimostrato che sui ribaldi non si veglia mai abbastanza 201
XV. Una triste novella 215
XVI. La perla d'Occidente 234
XVII. Nel quale si vedono operare i sortilegi di Abu Wefa 256
XVIII. Dove si vede che la posta troppo alta confonde il giuocatore 272
XIX. Che potrebbe intitolarsi il principio della fine 289
XX. In cui si finisce una storia, promettendone un'altra 304

DELLO STESSO AUTORE

(Edizioni in-16).

Capitan Dodero (1865). Settima edizione L. 2 —
Santa Cecilia (1866). Quinta edizione 2 —
L'olmo e l'edera (1867). Settima edizione 2 50
I Rossi e i Neri (1870). Seconda edizione 2 —
Il libro nero (1871). Quarta edizione 2 —
Le confessioni di Fra Gualberto (1873). Seconda edizione 3 —
Val d'Olivi (1873). Seconda edizione 2 —
Semiramide, racconto babilonese. (1873). Seconda ediz. 3 —
La legge Oppia, commedia (1874) 1 —
Castel Gavone (1875). Seconda edizione 2 50
La notte del commendatore (1875) 4 —
Come un sogno (1875). Quinta edizione 2 —
Tizio Caio Sempronio (1877). Seconda edizione 3 —
Cuor di ferro e cuor d'oro (1877). Seconda edizione 5 —
Lutezia (1878). Seconda edizione 2 —
La conquista d'Alessandro (1879) 4 —
Il tesoro di Golconda (1879) 3 50
La donna di picche (1880) 4 —
O tutto o nulla (1881) 3 50
L'undecimo Comandamento (1881). Seconda edizione 3 —
Il ritratto del diavolo (1882) 3 —

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.