The Project Gutenberg eBook of Memorie: Edizione diplomatica dall'autografo definitivo This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Memorie: Edizione diplomatica dall'autografo definitivo Author: Giuseppe Garibaldi Editor: Ernesto Nathan Release date: February 5, 2018 [eBook #56500] Language: Italian Credits: Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE: EDIZIONE DIPLOMATICA DALL'AUTOGRAFO DEFINITIVO *** Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) _Di quest'opera furono stampate quattrocento copie in carta a mano numerate._ [Illustrazione: GARIBALDI NEL 1860.] GIUSEPPE GARIBALDI MEMORIE EDIZIONE DIPLOMATICA DALL'AUTOGRAFO DEFINITIVO A CURA DI ERNESTO NATHAN TORINO Società Tipografico-Editrice Nazionale (già ROUX e VIARENGO) 1907 PROPRIETÀ LETTERARIA (2762) Da quando il bipede umano ha comunicato al suo simile il proprio pensiero, per desiderio fraterno di illuminarne la buaggine, o per vanità di sopravvivere a se stesso nell'opera dell'immaginazione, tracciasse giroglifici, incidesse collo stile sulla cera o scrivesse colla penna sulla carta, quando da lui qualcosa di luminoso è emanato, non è mai mancato chi l'abbia rievocato dopo la di lui morte, sia rabberciandolo ed associandolo all'opera di altri come per la bibbia, sia commentandolo, spiegandolo, restituendolo alla «corretta lezione», come si sta facendo per Dante, sia raffazzonandolo ad uso delle famiglie, come per Shakespeare, sia divulgandolo e vivificandolo, come per le ricerche degli scienziati, ridotte ad uso dei profani dall'ammirevole ingegno volgarizzatore dei Francesi. E cotesti uffici di elucidare il pensiero denso, talvolta astruso o mistico del poeta, di rendere i ritrovati della scienza accessibili alle masse, che non hanno potuto seguire il processo lento attraverso cui si giunge al risultato finale, di riassumere fatti ed eventi, perchè in breve sintesi balzi fuori il loro significato, son lodevoli, indispensabili per la più larga diffusione del sapere. Dove, peraltro, colle migliori intenzioni, non è lecito la intromissione della mano altrui — dove nè modificazioni, nè chiose, nè compendi sono consentiti — dove l'alterazione della forma o di parte della sostanza assume quasi aspetto di sacrilegio, mancanza di rispetto alla memoria del pensatore ed a quanti vorrebbero conoscerne il pensiero, offesa alla accuratezza storica ed all'inviolabile diritto di autore, è nella pubblicazione di memorie o di autobiografie lasciate da coloro i quali hanno conquistato il diritto di essere ricordati da' posteri; sopratutto quando siano tali da appartenere alla storia, e competa quindi alla storia di giudicarli, non attraverso le chiose, le manomissioni e le considerazioni dei contemporanei, ma dai loro atti, dai loro scritti, ove consegnarono il loro pensiero, perchè ai posteri potesse essere trasmesso. Alterare di una riga quel testamento in cui il grande dispone della sua eredità morale, equivale e supera l'alterare o stornare, in tutto od in parte, la erogazione, secondo la volontà esternata, dei suoi beni materiali. Le edizioni diplomatiche, ogni giorno più numerose, di memorie e di autobiografie attestano più generale consapevolezza di queste evidenti considerazioni, ed hanno inoltre l'enorme vantaggio di dare allo studioso ed al lettore sicura guarentigia di avere dinanzi a sè inalterato il pensiero dell'autore, quale da lui venne formolato, e non quale possa apparire più corretto attraverso l'altrui mentalità, ritoccato, limato, accorciato od allungato per soddisfare agli scrupoli dell'altrui coscienza storica o letteraria. Sopratutto per le memorie di Garibaldi, l'obbligo di seguire quel sistema s'impose, tanto più quando si ebbe la fortuna singolare di possedere l'autografo da lui ritenuto ed affermato definitivo; autografo redatto, rivedendo e correggendo le precedenti sue note e memorie, poco tempo prima ch'egli scendesse nella tomba. Così scrisse, come Egli afferma, per la storia, e la storia ha diritto di sapere quello ch'Egli scrisse. Un giorno venne a trovarmi un amico con una cartella sotto il braccio. Era Ferruccio Prina. Mi è grato così ricordarlo, così denominarlo ora, dopo i tristi rovesci subìti. Il padre suo, repubblicano genovese del vecchio stampo, di quei che non conoscevano Mazzini sotto altra denominazione che quella di Pippo, fu amico fedele di Maurizio Quadrio: del Valtellinese dal carattere forte come l'intelletto, dal cuore sensibile ad ogni gentile ispirazione, ad ogni umana pietà, maestro mio, fin da quando, per sbarcare il lunario magrissimo attraverso stenti e digiuni, mi dava, fanciullo di 11 anni, a Londra, ripetizioni di latino e di francese. Veniva dunque il Prina per dirmi di avere acquistato un autografo di grande valore, nientemeno che quello delle memorie di Garibaldi; e, aprendo la cartella, mi spiegò sotto agli occhi le 673 pagine coperte colla nitida e caratteristica calligrafia del Generale, ereditata fedelmente con altre qualità da Menotti. Assorbito negli affari, soggiunse, non voleva tenere quel documento; desiderava che l'accettassi io, che avevo già cominciato a raccogliere manoscritti riferentisi al Risorgimento. Accettare un dono di tanta importanza, che costava al donatore una somma ragguardevole, era difficile; rifiutarlo più difficile ancora. Trovai una via di mezzo: accettai, alla condizione che il prezioso manoscritto dovesse unirsi agli altri, con atto regolare da me trasferiti allo Stato e, per esso, al futuro Museo del Risorgimento Nazionale. Così fu combinato. M'affrettai a comunicare al ministro l'aggiunta preziosissima che così s'era fatta alla mia raccolta. Soltanto pensando, fin d'allora, al vicino centenario della nascita di Garibaldi, parve a noi opera utile ed omaggio a Lui degno, il ripubblicare quelle Memorie, offrendone copia alle maggiori biblioteche d'Italia, a fin che così fossero accessibili a tutti gli studiosi. Ripubblicare le Memorie; ma ripubblicarle con scrupolosa osservanza del testo nei più minuti particolari. Giuseppe Garibaldi, l'Eroe di Due Mondi, era uomo di azione. Dove v'era da sostenere la causa della nazionalità e della libertà, là fiammeggiava la sua lucente spada, segnacolo agli oppressi. Egli, nato alla nobiltà del sentimento, assorto per irresistibile vocazione all'eroismo, non aveva, da ginnasio a liceo, da liceo a università, speso la fresca gioventù, d'ideali assetata, a guadagnarsi diploma da dottore: la laurea l'aveva conseguita a bordo della sua nave, a cavallo, sulle sponde del Rio de la Plata. Partiva per il glorioso viaggio attraverso la vita, munito di scarso bagaglio letterario, nè ebbe tempo ed opportunità di accrescerlo gran fatto per istrada. Al contrario di tanti compatrioti che, nella breve carriera, seppero scalare i più alti uffici ed illustrarsi per breve tratto nel mondo del sapere e della politica; di coloro le cui figure, innalzate su cataste di carta, spariscono, logorate e disfatte dal tempo, l'azione gli era spontanea. Consegnarne il ricordo alla stampa in bella e levigata forma, perchè giganteggiasse dinanzi agli occhi dei contemporanei e fruttasse plauso e ricompensa, non era nella sua natura, nè nei suoi mezzi. Lo stile suo, dalle molte mende, è il riflesso dell'uomo: frasi brevi, dettate militarmente, e secondo le esigenze del momento; un tratto di penna per separarle, una punteggiatura cacciata lì un po' all'azzardo; talvolta errori di ortografia, che dimostravano come, tra libri tascabili, quello a cui meno teneva, era il dizionario. Chi è occupato a fare la storia, non si preoccupa intorno alle minuzie per prepararne la lettura agli altri. Così, talvolta, le parole nelle Memorie non sono le più appropriate ad esprimere la sfumatura del pensiero; e framezzo a tutto, traspare, deliziosamente ingenua, una pretesa di letteraria eccellenza. I grandi sono tutti così; e fin da Salomone emerge cotesta auto-inscienza. Nessuno toglieva dalla mente di Federico il Grande la persuasione di innalzarsi sui contemporanei, sopratutto come scrittore e filosofo; nè a Bismarck ch'egli fosse il più dotto degli agricoltori e uomo di spirito fine e coltivato; nè a Richelieu che in fatti di strategia avesse l'intuito del genio, lo sguardo d'aquila: così in Garibaldi era nata e cresciuta la persuasione di avere singolari attitudini letterarie. Nella prima edizione del volume, pubblicata dal Barbèra, compilata da un benemerito patriota, amicissimo del Generale, che da breve tempo, fra il generale rimpianto, ha raggiunto la forte generazione con cui a lungo operò, Adriano Lemmi — in quella edizione le Memorie sono, per così dire, vestite un po' a festa. Dove erano errori furono corretti; emendata la punteggiatura, raddrizzata la frase, steso un velo sulle mende di forma che troppo sfacciatamente si facevano innanzi. Non fu, a mio avviso, velo pietoso, sebbene steso da mano amante ed amica, e con sincero e riverente pensiero d'affetto: fu errore. La prosa di Garibaldi, per quanto si voglia pettinare, sarà sempre incolta e difettosa, sia lodato il Signore! Nè da lui altro era da aspettarsi. Meglio, dunque, le mille volte, non cercare di mascherarne le mende, come fa il maestrucolo di disegno colle provucce dei suoi esaminandi: vada, dinanzi agli occhi dell'Italia, del mondo intero, la prosa dell'Eroe qual'è, quale sgorgò dalla sua mente, quale tracciò la sua penna negli intervalli brevi nei quali la spada rimaneva nel fodero o le gloriose ferite lo confinavano a letto; vada quella prosa, nella sua rozza semplicità, evocata dal cuore e dalle reminiscenze di una vita di avventure degna della Tavola Rotonda. Toccarla è alterarne la poesia; è voler togliere di dosso all'uomo il leggendario poncho, la camicia rossa e mettergli la marsina e la cravatta bianca delle persone per bene quando vanno in società. Chi cerca in Giuseppe Garibaldi lo scrittore, il letterato; chi non capisce che i difetti stessi della sua penna rialzano la eminenza della sua gloria, non hanno mai visto o capito di quali foglie, nel Panteon della Storia, s'intrecciano le corone di lauro che la posterità riconoscente depone sulla fronte dei grandi benefattori dell'umanità. Essi hanno il gusto pettinato e profumato dal parrucchiere di moda, ed amano gli elci e le quercie coltivati in vaso, perchè così possono figurare degnamente fra i mobili del loro salotto. Insieme a pochi altri, pochi assai della storia contemporanea, Giuseppe Garibaldi s'erge sul piedistallo della immortalità, e dinanzi sfilano le generazioni riverenti, in ammirazione crescente, man mano che i fatti leggendari s'allontanano. Come per i mezzi toscani che a preferenza fumava ed offriva a chi gli era vicino, così per la forma più o meno linda entro cui vestiva il pensiero, la luce radiosa entro cui risplende la figura leonina non s'altera nè s'attenua; come non s'attenua, anzi più rifulge, dinanzi alle tristi polemiche che si accendano intorno al santuario degli affetti suoi più intimi: è la luce degli atti suoi, dell'eroismo, del magnanimo disinteresse, delle mai smentite aspirazioni nobili, pure e generose, che lo illumina: nè mende di stile, nè tampoco mende di uomini valgono ad offuscarla. Dell'Eroe si riproducono qui tre fotografie. Quella dei tempi del Rio della Plata, quando sfavillava d'entusiasmo giovanile; quella del 1849, quando, condottiero delle forze della Repubblica Romana, nello zenit del suo prestigio virile, condusse i suoi legionari alla vittoria del 30 aprile, alla difesa eroica, alla ritirata epica; quella infine della maturità, ad Aspromonte, a Mentana, a Digione, quando per fede, volontà, entusiasmo sfolgorava di giovane ardore attraverso il declinare degli anni. In quel ciclo dei quarant'anni, da quelle fotografie rappresentato, è la vita, son le memorie imperiture del campione glorioso della libertà. Le Memorie sono un'opera pensata, l'ultima redatta in forma definitiva dal Generale. Che fosse in mente sua raccogliere fin dai primi anni della vita avventurosissima i suoi ricordi, emerge dal lavoro stesso, dalle note su cui è steso. Talvolta il pensiero primitivo, registrato sommariamente nei primi anni, subisce variazioni nella forma: l'appendice ultima porta la data: _Civitavecchia 25 luglio 1875_. Niun dubbio che si tratti, in mente sua, di un testamento storico e letterario, consegnato ai contemporanei ed alla posterità. Il manoscritto è tutto a penna, quasi senza una cancellatura od una correzione, la diligente copia di una minuta; e quella minuta, in lapis, esiste; è fra i documenti alla biblioteca Vittorio Emanuele, attestando, nella sua evidenza, tutto l'amore, tutto lo studio posti da Garibaldi a dare impronta precisa al suo pensiero. Dalle note, redatte o scarabocchiate nell'uno o nell'altro emisfero, alla minuta, dalla minuta al manoscritto che serve alla stampa, il processo di elaborazione si svolge semplice e chiaro sotto gli occhi nostri. Abbondano i giudizi e le impressioni su di uomini e di eventi; nè altrimenti poteva essere in chi fra tanti uomini ed eventi aveva vissuto, cercando di guidarli verso gli alti fini ai quali aveva consacrato l'esistenza. Coteste personali osservazioni, espresse attraverso la narrazione, saranno tutte dalla storia convalidate, ovvero, quando franchi la spesa, da essa subiranno rettifica, laddove influenze esterne o predisposizioni interne valsero a velare od a contraffare in parte il vero? Comunque ciò sia; si confermi o si modifichi questo o quel giudizio, resta e resterà sempre intatto ed intangibile quanto egli scrive nella prefazione: «Nell'apprezzamento del merito individuale di ognuno che mi fu compagno — non pretendo certo all'infallibilità — e se commisi errore — ripeto: fu involontariamente». Dissapori, dispareri, malintelligenze non di rado sorsero fra Garibaldi e Mazzini: sugli eventi, sull'attitudine da assumersi v'era spesso divergenza di apprezzamento, e il giudizio di quegli su questi, espresso nelle Memorie, è duro ed ostile. Giustificato? Allo storico imparziale il pronunciarsi, non all'editore; ma è lecito esprimere la convinzione che in parte quelle divergenze si sarebbero evitate o non avrebbero durato qualora i rapporti fra i due fossero stati sempre diretti e personali, non turbati dall'opera di intermediari che artatamente od inconsciamente il pensiero dell'uno o dell'altro coloriva col proprio. E quando, tolte le occasioni di malintesi, avessero di conserva agito, le sorti d'Italia sarebbero quali oggi sono? Così nelle relazioni fra Vittorio Emanuele ed il Generale. Ancor là le politiche e le politichette, i generali vecchio stile, come il calendario russo, che potevano invidiare non capire quel fulmine di guerra, gli uomini di Stato, devoti al Regno piemontese, troppo devoti perchè il loro sguardo potesse spaziare qua e là, abbracciare l'Italia tutta: questi e quelli, intromettitori e confidenti, non confusero, non turbarono, nei momenti più critici, i rapporti fra quei due grandi fattori della unità? E, se questi rapporti fossero stati limpidi, diretti, ininterrotti, le sorti delle guerre, le sorti del paese sarebbero state quali erano, sarebbero quali sono? L'uno e l'altro sono punti interrogativi su cui noi, della generazione vicina al tramonto, non possiamo dogmatizzare; sono troppe le correnti che sviluppa il pieno della vita vissuta, perchè non ne siano alterati gli strumenti di precisione nell'osservatorio della nostra intelligenza; sono troppo vicini gli uomini e gli eventi per poterli dall'alto collocare nel nostro campo visivo e dare ad ognuno il posto ed il peso che ebbe nel risolvere od attraversare le battaglie del Risorgimento nostro: è còmpito della storia. Finito il giuoco, scomparsi per sempre i giuocatori, le simpatie, le antipatie che le loro personali relazioni svegliavano e determinavano, dirà chi esaminerà serenamente i ricordi dei tempi e da essi saprà desumere quali mosse assicurarono agli uni la vittoria, per quali errori od imprevidenze gli altri furono disfatti. _Roma, 20 maggio 1907_. ERNESTO NATHAN. Prefazione alle mie Memorie. _3 Luglio 1872._ Vita tempestosa, composta di bene e di male, come credo della maggior parte delle genti — Coscienza d'aver cercato il bene sempre, per me, e per i miei simili — E se ho fatto il male qualche volta — certo, lo feci involontariamente — Odiatore della tirannide e della menzogna — col profondo convincimento: esser con esse l'origine principale dei mali, e della corruzione del genere umano. Republicano quindi — essendo questo il sistema della gente onesta — sistema normale voluto dai più — e per conseguenza non imposto colla violenza e coll'impostura. Tollerante, e non esclusivista — non capace d'imporre per forza il mio Republicanismo — Per esempio: agli Inglesi — se essi sono contenti col governo della regina Vittoria — E contenti che siano, Republicano deve considerarsi il loro governo — Republicano — ma sempre più, convinto della necessità, d'una Dittatura onesta e temporaria a capo di quelle nazioni — che come la Francia, la Spagna e l'Italia, sono vittime del bisantismo il più pernicioso. Tutto quanto ho narrato nelle mie memorie può servir alla storia — Della maggior parte dei fatti, io fui testimonio oculare. Fui largo di lodi ai morti — caduti sui campi di battaglia della libertà — Lodai meno i vivi — massime i miei congiunti — E quando spinto da giusto rancore, contro chi m'offese — io ho cercato di placare il mio rissentimento — pria di parlare dell'offesa e dell'offensore. In ogni mio scritto — io ho sempre attacatto il pretismo più particolarmente — perchè in esso ho sempre creduto trovare il puntello d'ogni despotismo — d'ogni vizio, d'ogni corruzione. Il prete è la personificazione della menzogna — il mentitore è ladro — il ladro è assassino — e potrei trovare al prete una serie d'infami corollari. Molta gente, ed io con questa ci figuriamo di poter sanare il mondo dalla lepra pretina — coll'istruzione. — ¿Ma non sono istruiti gli uomini del privilegio governanti il mondo, che lo mantengono lupanare? «Libertà per tutti» si vocifera nel mondo — e si osserva tale massima anche tra i popoli meglio governati — Quindi libertà per i ladri, per gli assassini, le zanzare, le vipere, i preti! E cotesta ultima nera genìa, gramigna contagiosa dell'umanità — Cariatide dei troni, puzzolenta ancora di carne umana bruciata — ove signoreggia la tirannide, si siede fra i servi, e conta nella loro affamata turba — Ma nei paesi liberi — essa presume a libertà — e non vuol altro! non protezione fuori della legge — non sussidii — la libertà basta al rettile: dei cretini e delle beghine — non difetta il mondo — dei birbanti interessati al cretinismo ed alle superstizioni delle masse — v'è sempre abbondanza! Sarò accusato di pessimismo — ma mi perdoni chi ha la pazienza di leggermi — oggi entro ne' miei 65 anni — ed avendo creduto per la maggior parte della mia vita, ad un miglioramento umano — sono amareggiato nel veder tanti malanni, e tanta corruzione, in questo sedicente secolo civile. Non essendo un fior di memoria — ho forse dimenticato di nominare alcuni uomini cari, e meritevoli — Fra i chirurghi, che da Montevideo a Dijon divisero meco le fatiche delle campagne militari io ricorderò i seguenti — Odicini, chirurgo della legione di Montevideo valse molto ai militi nostri concittadini — per l'abilità non comune della professione sua — Ripari, amico mio carissimo — fu mio compagno a Roma (1849), ove curommi d'una ferita — Chirurgo in capo nella spedizione dei Mille, adempì col patriotismo e l'abilità che lo distingue al difficile e nobile incarico — Ad Aspromonte io dovetti la conservazione del mio piede destro, e forse della vita, alle cure gentili dei chirurghi Ripari, Basile, ed Albanese. Bertani fu chirurgo in capo delle forze da me comandate nel '59 e '66 — e credo incontestabile la somma sua abilità come capo, e come chirurgo — Anche nel '67 egli si distinse nella sventurata pugna di Mentana — I distintissimi professori: Partridge, Nelaton, e Pirogoff — col loro generoso interesse alla pericolosa mia situazione provarono: che il vero merito la scienza vera, non distingue confini nella famiglia umana. Ai cari D.ri Prandina, Cipriani, Riboli, io devo pure una parola di gratitudine — siccome al D.re Pastore. Il D.re Riboli in Francia — chirurgo capo dell'esercito dei Vosges — fu contrariato da indisposizione seria ed accanita — Così stesso, egli non mancò di prestar opera utilissima. Nell'apprezzamento del merito individuale d'ognuno che mi fu compagno — non pretendo certo all'infallibilità — e se commisi errore — ripeto: fu involontariamente. Che la società odierna sia in uno stato normale — lo lascio giudicare agli uomini di senno (4 Luglio 1872). Gli uragani non hanno spazzato ancora l'atmosfera apestato dal puzzo de' cadavari — e già si pensa alla _rivincita_ — Le genti sono afflitte da malanni d'ogni specie: carestie, inondazioni, Cholera — che importa: tutti s'armano sino ai denti — tutti son soldati! Il prete! Ah! questo è il vero flagello di Dio! In Italia esso mantiene un governo codardo, in una umiliazione la più degradante, e si ritempra nella corruzione, e nelle miserie del popolo! In Francia — esso spinge alla guerra quella sventurata nazione! Ed in Spagna peggio ancora: spinge alla guerra civile — capitanando bande di fanatici — e seminando lo sterminio dovunque! Amanti della pace, del diritto, della giustizia — è forza nonostante concludere coll'assioma d'un generale Americano: «_La guerra es la verdadera vida del hombre!_» _Caprera 7 Decembre 1871_ REVISIONE ALLE MIE MEMORIE CAPITOLO I. I miei genitori. Io non devo dar principio a narrare della mia vita — senza far cenno de' miei buoni Genitori — il di cui carattere ed amorevolezza — tanto influirono sull'educazione mia — e sulle disposizioni del mio fisico. Mio padre figlio di marino, e marino lui stesso dall'età più tenera — non avea certamente quelle cognizioni di cui sono fregiati gli uomini del suo ceto — nella generazione nostra. Giovine aveva servito sui bastimenti di mio avo — più avanti, aveva comandato bastimenti propri. Vari erano stati i periodi della di lui fortuna — e non di rado — lo udï racontare — che più agiati avrebbe potuto lasciarci — Io però li sono riconoscentissimo, del come mi ha lasciato — ben persuaso, ch'ei nulla trascurò per educarmi, anche in tempi, ove scaduto di fortuna — l'educazione dei figli, disagiava certo l'onestissima sua esistenza. Se mio padre poi, non mi fece dare più colta educazione, esercitare nella ginnastica, scherma, ed altri esercizi corporei — fu piutosto colpa dei tempi — in cui grazie agli Istitutori chercuti — propendevano piutosto a far della gioventù, tanti frati e legali, anzichè buoni cittadini, capaci di professioni virili ed utili — ed atti a servire il loro devastato paese. Daltronde era sviscerato l'amor suo pei figli — e quindi temente: non si spingessero a bellici divisamenti. Tale trepidazione dell'amato mio padre — prodotta da soverchio affetto — è forse l'unico rimprovero da farli — giacchè per timore di espormi troppo giovane ai disagi, ed ai pericoli del mare — egli mi trattenne contrariamente all'indole mia — sino verso i quindici anni — senza permettermi di navigare. E non fu savia determinazione — essendo io, oggi, persuaso: che un marino deve cominciare la carriera giovanissimo — se possibile prima degli otto anni — Essendo in tale pratica: maestri i Genovesi — e gl'inglesi massime. Far studiare i giovani destinati al mare, a Torino, o a Parigi — ed inviarli a bordo oltre i vent'anni — è sistema pessimo — Io credo meglio: far fare i loro studi a bordo, e la pratica di navigazione nello stesso tempo. E mia madre! Io asserisco con orgoglio, poter essa servir di modello alle madri — E credo, con questo aver detto tutto. Uno dei rammarichi della mia vita — sarà quello, di non poter far felici gli ultimi giorni della mia buona genitrice — la di cui vita ho seminato di tante amarezze colla mia avventurosa carriera. Soverchia è forse stata la di lei tenerezza per me ¿Ma non devo io all'amor suo — all'angelico di lei carattere, il poco di buono che si rinviene nel mio? Alla pietà di madre — verso il prossimo — all'indole sua benefica e caritatevole — alla compassione sua, gentile, per il tapino, per il sofferente — non devo io forse la poca carità patria, che mi valse la simpatia e l'affetto de' miei infelici ma buoni concittadini? Oh! abbenchè non superstizioso certamente — non di rado — nel più arduo della strepitosa mia esistenza — sorto illeso dai frangenti dell'Oceano — dalle grandini del campo di battaglia.... mi si presentava: genuflessa, curva, al cospetto dell'infinito — l'amorevole mia genitrice — implorandolo per la vita del nato dalle sue viscere!... Ed io benchè poco credente all'eficacia della preghiera — n'ero commosso! felice! o meno sventurato! CAPITOLO II. I miei primi anni. Nacqui il 4 Luglio 1807 in Nizza-marittima — verso il fondo del porto Olimpio — in una casa sulla sponda del mare. Io ho passato il periodo dell'infanzia — come tanti fanciulli, tra i trastulli, le allegrezze ed il pianto — più amico del divertimento che dello studio. Non aprofitai il dovuto delle cure, e delle spese in cui s'impegnarono i miei genitori per educarmi — Nulla di strano nella mia giovinezza — Io ebbi buon cuore — ed i fatti seguenti, benchè di poca entità lo provano. Raccolto un giorno al di fuori un grillo, e portatolo in casa — ruppi al poveretto una gamba nel maneggiarlo — me ne addolorai talmente — che rinchiusomi nella mia stanza — io piansi amaramente per più ore. Un'altra volta, accompagnando un mio cugino a caccia nel Varo — io m'era fermato sull'orlo d'un fosso profondo — ove costumasi d'immergervi la canapa — ed ove trovavasi una povera donna lavando panni. Non so perchè — quella donna cadette nell'acqua a testa prima, e pericolava la vita. Io, benchè piccolino ed imbarazzato con un carniere — mi precipitai, e valsi a trarla in salvo. Ogni qual volta poi trattossi della vita d'un mio simile — io non fui restìo giammai — anche a rischio della mia. I primi miei maestri furon due preti — e credo l'inferiorità fisica e morale della razza Italica, provenga massime da tale nociva costumanza. Del Sig.r Arena terzo mio maestro, d'Italiano, calligrafia, e matematica — conservo cara rimembranza. Se avessi avuto più discernimento — ed avessi potuto indovinare le future mie relazioni cogli Inglesi — io avrei potuto studiare più acuratamente la loro lingua, ciocchè potevo fare col mio secondo maestro il padre Giaume — prete spregiudicato, e versatissimo nella bella lingua di Byron. Io ebbi sempre un rimorso: di non aver studiato dovutamente l'Inglese — quando lo potevo — rimorso rinnato in ogni circostanza della mia vita in cui mi son trovato cogli Inglesi. Al terzo laïco istutore il signor Arena, io devo il poco che so, e sempre conserverò di lui, cara rimembranza — sopratutto per avermi iniziato nella lingua patria, e nella storia Romana. Il difetto di non esser istruiti seriamente nelle cose, e nella storia patria è generale in Italia ma in particolare a Nizza, città limitrofa, e sventuratamente tante volte sotto la dominazione Francese. In cotesta mia città natìa, sino al tempo in cui scrivo (1849) non molti sapevano d'esser Italiani; la grande affluenza di Francesi, il dialetto che tanto si somiglia al provenzale; e la noncuranza de' governanti nostri — del popolo occupandosi solo di due cose: depredarlo e toglierli i figli per farne dei soldati — tutti motivi da spingere i Nizzardi all'indifferentismo patriotico assoluto — e finalmente a facilitare ai preti ed a Buonaparte lo svellere quel bel ramo dalla madre pianta nel 1860. Io devo dunque, in parte, a quella prima lettura delle nostra storia — ed all'incitamento di mio fratello maggiore Angelo — che dall'America mi raccomandava lo studio della mia — e più bella tra le lingue — quel poco che sono pervenuto ad acquistarne. Io terminerò questo primo periodo della mia vita, colla laconica narrazione d'un fatto — primo saggio dell'avventure avvenire. Stanco della scuola, ed insofferente d'un'esistenza stanziaria, io propongo un giorno a certi coetanei compagni miei, di fuggire a Genova — senza progetto determinato — ma in sostanza per tentare fortuna — Detto fatto: prendiamo un batello, imbarchiamo alcuni viveri, attrezzi da pesca — e voga verso levante. Già erimo all'altura di Monaco — quando un corsaro mandato dal mio buon padre — ci raggiunse, e ci ricondusse a casa, mortificatissimi. Un abbate, avea svelato la nostra fuga — Vedete che combinazione: un abbate l'embrione d'un prete — contribuiva forse a salvarmi — ed io tanto ingrato da perseguire quei poveri preti — Comunque un prete è un impostore — ed io mi devo al santo culto del vero. I miei compagni d'impresa di cui mi sovvengo, erano: Cesare Parodi, Raffaele Deandreis — e non ricordo gli altri. Qui mi giova ricordare la gioventù Nizzese: svelta, forte, coraggiosa — elemento magnifico per disposizioni di genio, sociale e militare. Ma condotta disgraziatamente su perverso sentiero — prima dai preti — secondo dalla deprevazione importata dallo straniero, che ha fatto della bellissima Cimele dei Romani la sede cosmopolita d'ogni corruzione. CAPITOLO III. I miei primi viaggi. Oh! come tutto è abbellito dalla giovinezza ardente di lanciarsi nelle avventure dell'incognito! Com'eri bella, o _Costanza_![1], su cui dovevo solcare il Mediterraneo, quindi il Mar Nero, per la prima volta! Gli ampi tuoi fianchi, la snella tua alberatura, la spaziosa tua tolda — e sino il tuo pettoruto busto di donna — rimarranno impressi sempre nella mia immaginazione. Come dondolavansi graziosamente quei tuoi marini Sanremesi — vero tipo de' nostri intrepidi Liguri! Con che diletto, io mi avventava al balcone per udire i loro popolari canti — gli armonici loro cori — Essi cantavano d'amore e m'intenerivano m'innebbriavano, per un affetto allora insignificante — Oh! se mi avessero cantato di patria, d'Italia! d'insofferenza di servaggio — ¿E chi aveva insegnato loro: ad esser patriota, Italiani, militi della dignità umana? Chi ci diceva a noi giovani, che v'era un'Italia, una patria, da vendicare, da redimere? Chi! I preti, unici nostri istitutori! Noi, fummo cresciuti come gli Ebrei! E non ci additarono per premio, per mèta della vita, che l'oro! Intanto l'addolorata madre mia, preparavami il necessario per il viaggio a Odessa, col brigantino _Costanza_, Capitano Angelo Pesante di Sanremo — il miglior Capitano di mare, ch'io m'abbia conosciuto. Se la nostra marina da guerra, prendesse l'incremento dovuto, il Cap.no Angelo Pesante, dovrebbe comandarne uno dei primi legni da guerra — e certamente non ve ne sarebbe meglio comandato — Pesante[2] non ha comandato bastimenti da guerra — ma egli creerebbe, inventerebbe ciocchè abbisogna in un barco qualunque, dal palischermo al vascello per portarli allo stato d'onorare l'Italia. E qui devo ricordare: in caso d'una guerra marittima dover il nostro paese far capitale della sua brava marina mercantile — Semenzaio di valorosi marinai non solo — ma di prodi ufficiali, capaci del loro dovere, anche nelle battaglie. Feci il mio primo viaggio a Odessa — Cotesti viaggi son diventati così comuni — che inopportuno sarebbe lo scriverne. Il mio secondo viaggio lo feci a Roma, con mio padre, a bordo della propria Tartana, _S.ta Reparata_ — Roma! E Roma..... non dovea sembrarmi se no la capitale d'un mondo! Oggi la capitale della più odiosa delle Sètte! La capitale d'un mondo — dalle sue ruine, sublimi, immense — ove si ritrovano affastellate le reliquie di ciò ch'ebbe di più grande il passato! Capitale d'una sètta — un dì, di seguaci del Giusto — liberatore di servi! Istitutore dell'uguaglianza umana, da lui nobilitata — benedetto da infinite generazioni — con sacerdoti, apostoli del diritto de' popoli — Oggi degenerati, trattanti — vero flagello dell'Italia, che vendettero allo straniero settanta e sette volte! No! La Roma ch'io scorgeva nel mio giovanile intendimento — era la Roma dell'avvenire[3] — Roma! di cui giammai ho disperato: naufrago, moribondo, relegato nel fondo delle foreste Americane! La Roma dell'idea rigeneratrice d'un gran popolo! Idea dominatrice, di quanto potevano ispirarmi il presente, ed il passato — siccome dell'intiera mia vita! Oh! Roma, mi diventava allora cara, sopra tutte le esistenze mondane — Ed io l'adoravo con tutto il fervore dell'anima mia! Non solo ne' superbi propugnacoli della sua grandezza di tanti secoli — ma, nelle minime sue macerie — e racchiudevo nel mio cuore — preziosissimo deposito — il mio amore per Roma — E non lo svelavo, senonchè allor quando, io potevo esaltare ardentemente l'oggetto del mio culto! Anzichè scemarsi, il mio amore per Roma s'ingagliardì colla lontananza e coll'esiglio. — Sovente, e ben sovente, io mi beava nell'idea di rivederla una volta ancora. Infine, Roma per me è l'Italia — e non vedo Italia possibile, senonchè nell'Unione compatta, o federata delle sparse sue membra! Roma è il simbolo dell'Italia una — sotto qualunque forma voi la vogliate — E l'opera più infernale del papato — era quella di tenerla divisa, moralmente e materialmente![4]. CAPITOLO IV. Altri viaggi. Alcuni viaggi ancora io feci con mio padre — quindi un viaggio a Cagliari, col Capitano Giuseppe Gervino, brigantino _Enea_. In quel viaggio fui spettatore d'un tremendo naufragio — la di cui memoria mi rimane incancellabile. Al ritorno di Cagliari, erimo giunti sul capo di Noli e come noi, vari bastimenti, fra i quali un felucio catalano. Da vari giorni minacciava il Libeccio — e grossissimo n'era il mare — quindi si scagliò il vento con tanta furia da farci apogiare in Vado essendo pericoloso di entrare nel porto di Genova con tale uragano. Il felucio da principio gallegiava mirabilmente, e sostenevasi, da far dire ai nostri marinari più proveti: esser preferibile trovarsi a bordo di quello. Ma dolorosissimo spettacolo, dovea presentarci ben presto, quella sventurata gente!... Un orrendo maroso rovesciò il loro legno — e non vidimo più che alcuni individui sul suo fianco superiore — stenderci le braccia, e sparire travolti nel frangente d'un secondo più terribile ancora. Avea luogo, la catastrofe, verso il nostro giardino di destra[5] quindi impossibile ajutare i miseri naufraghi. I barchi che dietro di noi venivano, furono pure nell'impossibilità di soccorrerli — essendo troppa la violenza della bufera, e l'agitazione del mare — E miseramente perivano nove individui della stessa famiglia (ciocchè si seppe poi). Alcune lacrime sgorgarono dagli occhi dei più sensibili, al miserando spettacolo — esauste presto dall'idea del proprio pericolo. Da Vado in Genova, quindi in Nizza; ove principiai una serie di viaggi in Levante ed altrove, con bastimenti della casa Gioan. Viaggiai a Gibilterra — ed alle Canarie, col _Coromandel_ nave del Sig.r Giacomo Galleano — comandata da suo nipote Capitan Giuseppe dello stesso nome di cui conservo grata memoria. Tornai poi ai viaggi di levante — Ed in uno di quelli col brigantino _Cortese_, Capitano Carlo Semeria, rimasi ammalato a Costantinopoli — Il bastimento partì, e prolungandosi la malattia più del creduto — io mi trovai alle strette. In qualunque circostanza di strettezze, o di pericolo, mai mi sono sgomentato. Io ho avuto molta fortuna nell'incontro d'individui benevoli da interessarsi alla mia sorte — Tra codesti, mai dimenticherò la signora Luigia Sauvaige di Nizza, una di quelle donne che mi hanno fatto dire tante volte: esser la donna, la più perfetta delle creature — chechè ne presumano gli uomini. Madre, modello delle madri — essa faceva la felicità del suo eccellente sposo, e dell'amabile sua prole — che educava con una squisitezza imparegiabile — La guerra accesa tra la Russia e la Porta, contribuì a prolungare il mio soggiorno in Costantinopoli — In tale periodo, mi successe per la prima volta, impiegarmi a precettore di ragazzi — offertomi dal Sig.r Diego dottore in Medicina — e che mi presentò alla vedova Timoni che ne abbisognava. Entrai in quella casa maestro di tre ragazzi — e profitai di tale periodo di quiete, per studiare un po' di Greco — dimenticato poi, siccome il Latino che avevo imparato nei prim'anni. Ripresi quindi a navigare, imbarcandomi col Cap.no Antonio Casabona — Brigantino _Nostra Signora delle Grazie_. Quel bastimento fu il primo ch'io comandai da Capitano, in un viaggio a Maone, e Gibilterra, di ritorno a Costantinopoli. Io salterò la narrazione del resto de' miei viaggi, in levante, non essendomi accaduto in quelli cosa importante. Amante passionato del mio paese, sin dai prim'anni — e insofferente del suo servaggio — io bramavo ardentemente iniziarmi nei misteri del suo risorgimento — Perciò cercavo ovunque libri, scritti che della libertà Italiana trattassero, ed individui consacrati ad essa. In un viaggio a Taganrog, m'incontrai con un giovine Ligure — che primo mi diede alcune notizie dell'andamento delle cose nostre. Certo non provò Colombo tanta soddisfazione alla scoperta dell'America, come ne provai io, al ritrovare chi s'occupasse della redenzione patria — Mi tuffai corpo e anima in quell'elemento, che sentivo esser il mio, da tanto tempo — ed in Genova il 5 Febbraio 1834 — io sortivo la porta della lanterna alle 7 p. m., travestito da contadino, e proscritto. Qui comincia la mia vita pubblica: e pochi giorni dopo, leggevo per la prima volta, il mio nome su d'un giornale — Era una condanna di morte al mio indirizzo — raportata dal _Popolo Sovrano_ di Marsiglia. Stetti inoperoso in Marsiglia alcuni mesi. Un giorno, imbarcato da secondo a bordo dell'_Unione_ (brigantino mercantile Francese) Capitano Francesco Gazan — mi trovavo verso sera nella camera, vestito in galla per scendere a terra[6]. Udimmo un romore nell'acqua del porto, e ci affaciammo, il Capitano ed io, ad ambi i balconi — Un individuo si annegava sotto la poppa del brigantino — tra questa ed il molo — Io mi lanciai, e con molta fortuna e salvai la vita al Francese — Spettatrice una immensa popolazione plaudente. Era il salvato: Giuseppe Rambaud quattordicenne. Io ebbi la guancia bagnata dalle lagrime di gratitudine d'una madre, e la benedizione d'una famiglia intiera. Anni prima, sulla rada di Smirne — avevo avuto la stessa fortuna col mio amico, e compagno d'infanzia Claudio Terese. Un viaggio ancora coll'_Unione_ nel mar Nero — Uno in Tunis con una fregata da guerra, costrutta in Marsiglia per il Bey — Quindi, da Marsiglia a Rio-Janeiro — col _Nautonier_, brigantino di Nantes — Cap.no Beauregard. Nel mio ultimo soggiorno in Marsiglia, ov'ero ritornato da Tunis, con un barco da guerra Tunisino, ferveva in quella città il cholera, facendo strage grandissima. Eransi istituite delle ambulanze, in cui si presentavano volonterosi ad offrire serviggi — Io diedi il mio nome ad una di quelle, e nei pochi giorni che rimasi in Marsiglia, passai parte delle notti, custodendo cholerici. CAPITOLO V. Rossetti. Giunto al Rio-Janeiro, non ebbi molto ad impiegare per trovare amici — Rossetti, che non avevo mai veduto, ma che avrei distinto in qualunque moltitudine per quell'attrazione reciproca, e benevola della simpatia, m'incontrò al _Largo do Passo_. Gli occhi nostri s'incontrarono — e non sembrò per la prima volta — com'era realmente — Ci sorridemmo reciprocamente, e fummo fratelli per la vita — Per la vita, inseparabili! ¿Non sarà questa, una delle tante emanazioni di quell'intelligenza Infinita — che può probabilmente animare lo spazio, i mondi, e gl'insetti che brulicano, sulle loro superficii? ¿Perchè devo io privarmi della voluttà gentile che mi bea, pensando alla corrispondenza degli affetti materni rientrati nell'infinita sorgente, da dove scaturirono — ed a quelli del mio carissimo Rossetti. Io ho descritto altrove l'amorevolezza di quella bell'anima — E morrò forse privo del contento, di posare un sasso, sulla terra Americana, nel sito ove giacciono l'ossa del generosissimo, fra i caldi amatori della nostra bella, e povera patria! Nel camposanto di Viamâo[7] devono trovarsi gli avanzi del prode Ligure — caduto in una sorpresa di notte, fatta dagli Imperiali su quel villaggio — ove casualmente trovavasi Rossetti. Passati alcuni mesi, in una vita oziosa — eccoci — Rossetti ed io, ingolfati nel commercio — Ma, al commercio io, e Rossetti non erimo atti. Nella guerra sostenuta dalla Repubblica del Rio-grande contro l'impero del Brasile — fu fatto prigioniero Bento-Gonçales, ed il suo stato maggiore — e come segretario dello stesso, presidente della Repubblica, e generale in capo dell'esercito — giunse pure prigioniero Zambeccari, figlio del famoso aeronauta Bolognese. Rossetti ottenne lettere di corso dalla Repubblica, ed armammo il _Mazzini_, piccolissimo legno nel porto stesso di Rio-Janeiro. CAPITOLO VI. Corsaro. Corsaro! lanciato sull'Oceano con dodici compagni a bordo d'una _Garopera_[8], si sfidava un impero, e si facea sventolare per i primi, in quelle meridionali coste, una bandiera d'emancipazione! La bandiera Republicana del Rio-Grande! Una sumaca carica di cafè, fu incontrata all'altura dell'Isola Grande, e predata. Il _Mazzini_ fu messo a pico per non esservi altro pilota da condurlo per l'alto mare. Rossetti era con me; ma non tutti i compagni miei eran dei Rossetti — Voglio dire uomini di costumi puri — Ed alcuni, oltre a fisionomie non troppo rassicuranti, si facean oltremodo truci, per intimorire gl'innocenti nostri nemici. Io, mi adoperava naturalmente a reprimerli, ed a scemare, quanto possibile lo spavento de' prigionieri nostri. Un passegiero Brasiliano della sumaca, all'imbarcarmi io sulla stessa, mi si presentò supplichevole, e mi offrì in una scattola, tre preziosi brillanti — Io glieli rifiutai siccome ordinai non si toccasse agli effetti individuali dell'equipaggio, e passeggieri. Tale contegno io serbai in ogni simile circostanza ed i miei ordini, mai furono trasgrediti — Sicuri, senza dubbio, i miei subordinati — ch'io ero disposto a non transigere su tale materia. Furono sbarcati, passeggieri ed equipagio — a tramontana della punta d'Itapekoroia — dando loro la lancia della _Luisa_ (nome della sumaca), e permettendo loro d'imbarcare, oltre le proprie suppellettili, ogni vivere di loro piacimento. Navigammo a mezzogiorno, e giunsimo dopo alcuni giorni nel porto di Maldonado, ove la buona accoglienza delle autorità e popolazione ci furono di buon'augurio. Maldonado, all'entrata settentrionale del Rio della Plata, è importante per la sua posizione e per il porto mediocremente buono — Vi trovammo una nave Francese, destinata alla pesca della balena — e vi passammo da corsari — festosamente alcuni giorni. Rossetti partì per Montevideo, onde regolare le cose nostre — Io rimasi colla sumaca, circa otto giorni — dopo di che l'orizzonte nostro cominciò ad offuscarsi — e tragicamente potea terminare l'affare nostro, se men buono fosse stato il capo politico di Maldonado, ed io men fortunato. Fui avvertito dallo stesso che non solo (a rovescio delle mie istruzioni) la bandiera Rio-Grandense non era riconosciuta — ma che giunto era, per me, e per il bastimento, un sollenne ordine d'arresto — Eccomi obligato di metter alla vela, con un temporale da Greco, e dirigermi per l'interno del fiume, della Plata — quasi senza destino — poichè appena avevo avuto tempo di manifestare ad un conosciuto — che mi dirigerei, verso la punta di Jesus-Maria, nelle _Barrancas_ di S. Gregorio — al Settentrione di Montevideo — ove aspettare le deliberazioni di Rossetti coi nostri amici della capitale. Giunsimo a Jesus-Maria, dopo stentata navigazione, e rischio di naufragare sulla punta di _Piedras Negras_ — per una di quelle circostanze impreviste, da cui dipende spesso l'esistenza di molti individui —: In Maldonado, colla minaccia dell'arresto, e diffidente anche della benevolenza del capo politico — io, rimasto in terra, per ultimare alcuni affari, avevo mandato ordine a bordo di preparare le armi — Ciò fu eseguito subito — ma successe: che le armi tolte dalla stiva ove si trovavano, furono collocate — per esser più pronte — in un camerino confinante alla bittacola. Messi alla vela, con un po' di precipitazione a nessuno venne in mente: esser le armi in situazione da poter influire sulle bussole — Per fortuna — avendo io poca voglia di dormire — ed essendo il vento cresciuto a bufera — mi tenevo sottovento del timoniere — cioè alla destra del bastimento — osservando con occhio abituato — la costa che corre tra Maldonado e Montevideo — assai pericolosa per le scogliere delle sue punte. Era la prima guardia — cioè dalle 8 a mezzanotte; la notte era oscura e tempestosa — Ad un occhio abituato però, a cercar la terra nelle tenebre — non era difficile di scorgere la costa, tanto più ch'essa mi appariva sempre più vicina — ad onta d'aver ordinato al timoniere un rombo, che doveva allontanarci da essa. «Orza una quarta! orza un'altra quarta!»[9] e credo avevo già fatto orzare, più d'un intiero vento — (cioè da quattro a cinque quarti) — ed a mio dispetto la costa era sempre più vicina — Verso mezzanote la guardia da prua grida: «terra». Altro che terra! In pochi minuti noi ci trovammo avvolti in orribili frangenti e punte spaventose di scogli, mostrare le orride e nere loro teste fuori dell'acqua — senza possibilità di scansarle. Il pericolo era immenso, ed inevitabile — Altro rimedio non v'era: che precipitarsi nei vuoti degli scogli, e cercarvi un passaggio. Io ebbi la fortuna di non confondermi — montai sul pennone di trinchetto — e raccogliendo quanto avevo di forza nella mia voce di ventotto anni — diressi la corsa del bastimento — verso i punti che mi sembravan meno pericolosi — comandando nello stesso tempo le manovre ch'eran necessarie — La povera _Luisa_ era sommersa dai colpi di mare, che frangevano sulla sua tolta con tanto furore, quanto negli scogli — Uno spettacolo per me nuovo — fu la vista di molti lupi marini — che senza curarsi della tempesta — attorniavano il bastimento da tutte le parti e vi trastullavano, come tanti bambini in un campo fiorito — Le loro nere cervici però, dello stesso colore delle roccie che ci circondavano — e con un certo contegno minaccioso anche nei loro trastulli — era robba ben poco rassicurante — Chi sa non alleggiasse in quelle tetre zucche Africane — il pensiero d'un pasto saporito delle nostre carni — Comunque la riflessione del pericolo padroneggiava ogni altra — e fu un vero caso straordinario: poter uscire da quel labirinto senza toccarli — La minima scossa a quelle spaventose punte — avrebbe mandato in frantumi il tempestato legno — Come già dissi: giunsimo alla punta di Jesus-Maria nelle _barrancas_[10] di San Gregorio — a circa quaranta miglia da Montevideo, verso l'interno del Plata — Solo in quel giorno, giunsi a sapere: essere state le armi tolte dalla stiva — e collocate in un camerino accanto alle bossole. Alla punta suddetta, niente di nuovo — ed era naturale: Rossetti minacciato dal governo di Montevideo, fu obbligato di nascondersi per non esser arrestato — e non potè quindi occuparsi di noi — I viveri mancavano — non avevimo lancia da poter sbarcare — eppure, bisognava soddisfare alla fame di dodici individui — Avendo io scoperto, alla distanza di circa quattro miglia dalla costa, una casa, mi decisi di sbarcare su d'una tavola — e portar viveri a bordo ad ogni costo — I venti soffiavano dal _Pampero_[11] — ed essendo loro traversia[12] alla costa, ne facevano l'approdo molto difficile, anche con palischermi — Dammo fondo alle due àncore — tanto vicino della costa che possibile — Ad una distanza che sarebbe stata imprudente in altri tempi — ma indispensabile per poter riguadagnar il bordo, con un tavolino sorretto da una botte per ogni estremità — Eccomi con un marinaro — Maurizio Garibaldi, imbarcati in tavolino da camera, sorretti da due barili, e coi vestiti nostri appesi come un trofeo ad un'asta, eretta su quella nave di nuovo modello — non navigando, ma rotando nei frangenti di quella costa inospitale. Il Rio de la Plata, circonda lo stato di Montevideo — detto anche _Banda Oriental_ — alla sua sinistra — e siccome cotesto bellissimo stato è formato da colline più o meno alte — il fiume ne ha roso la costa, e vi ha formato delle rupi, quasi informi — in certi luoghi altissime, e per un lungo spazio — Lo stesso importantissimo fiume, alla sua destra, lambe lo stato di Buenos Ayres — e vi depone le sue alluvioni — che formarono coll'andar dei secoli, le immense pianure _de las Pampas_. Giunsimo felicemente alla costa — misimo in terra la sconquassata nostra nave — e lasciando Maurizio a rattoparla, mi avviai io solo verso la casa scoperta — CAPITOLO VII. Lo spettacolo che si offrì alla mia vista, per la prima volta — quando salito sul vertice _de las barrancas_ — è veramente degno di menzione — Gl'immensi ed ondulati campi Orientali, presentano una natura affatto nuova ad un Europeo, e massime ad un Italiano, assuefato e cresciuto, ove palmo di terra, non si presenta, senonchè coperto di case, sieppi, opere qualunque di mano d'uomo — Là, nulla di questo: il creolo conserva la superficie di questo suolo, come gliela lasciarono gli indigeni, distrutti dagli Spagnuoli[13]. I campi sono coperti di fieno — e non variano che nelle valli — sulla sponda dell'Arroyo[14] o nella _cañada_[15] coll'alta _maciega_ —[16]. Il fiume e l'Arroyo, hanno le loro sponde, generalmente coperte di bellissimi boschi, spesso d'alto fusto — Il cavallo, il bue, la gazzella, lo struzzo — sono gli abitatori di quelle terre predilette dalla natura — L'uomo rarissimo — vero centauro — la passeggia soltanto per anunziare un padrone e ai numerosissimi, ma selvaggi suoi servi — Non di rado, il bellicoso stallone, seguito dalla mandra di giumente — ed il toro, scortato anche lui, si avventano sul suo passaggio, disprezzandone l'alterigia, con vigorosi, e non equivoci segni — Io ho veduto nella mia misera patria un Austriaco, solcando e calpestando le moltitudini — I servi abbassavano lo sguardo per paura di compromettersi! Non tornino, per Dio, a tanto vilipendio, i discendenti di Calvi, e di Manara! Quanto è bello lo stallone della Pampa —! Le sue labbra, sentiranno giammai il freddo ribrezzo del freno[17] e la lucidissima schiena giammai calcata dal fetido sedere dell'uomo, brilla allo splendore del sole, quanto un diamante — La sua splendida, ma non pettinata criniera — batte i fianchi, quando il superbo, raccogliendo le sparse giumenta, e fuggendo la presunzione dell'uomo, avanza la velocità del vento — Il naturale suo calzare, non mai imbrattato nella stalla dell'uomo — è più lucido dell'avorio — e la richissima coda, svolazza al soffio del _pampero_, riparando il generoso animale dal disturbo degli insetti — Vero Sultano del deserto, ei sceglie la più vaga dell'Odalische — senza il servile e schifoso ministero, della più degradata delle creature — l'eunuco! Chi si farà un'idea dell'emozione, sentita dal Corsaro di 25 anni, in mezzo a quella terra natura, vista per la prima volta! Oggi, 20 Decembre 1871 — rannichiato al focolare, ed irrigidito delle membra — io ricordo commosso — quelle scene d'una vita passata, in cui tutto sorrideva, al cospetto del più stupendo spettacolo, ch'io m'abbia veduto — Io sono decrepito! Ma ove saranno quei superbi stalloni, tori, gazzelle, struzzi, che tanto abbellivano e vivificavano quelle amenissime colline? I loro discendenti pascoleranno senza dubbio, quei ricchissimi fieni, sinchè il vapore ed il ferro — giungano ad acrescer la richezza del suolo — ma ad impoverire coteste meravigliose scene della natura — Il cavallo, il toro, non avezzi a veder gente a piedi, ne rimangono attoniti alla prima vista, e scorgonsi soprafatti da curiosa stupefazione — quindi disprezzandose forse quei mingherlini cosi bipedi, che si atteggiano a padroni del mondo, li assalgano scherzosamente, e li farebbero a pezzi se volessero prender la cosa in serio, dal lato della giustizia — Il cavallo scherza, minaccia, ma mai offende — del toro non bisogna fidarsi — la gazzella e lo struzzo fuggono alla vista dell'uomo colla velocità del destriero, e si fermano sull'eminenza, girandosi a veder se sono perseguiti. In quel tempo, la parte del territorio Orientale di cui narriamo, era rimasta fuori del teatro della guerra — perciò, trovavansi numerosissimi gli animali d'ogni specie. CAPITOLO VIII. Dopo d'aver fatto circa 4 miglia, tra le commoventissime descritte scene, io giunsi alla casetta ch'io avevo scoperto dal bordo — ed in essa io ebbi un piacevolissimo incontro: una giovane e ben graziosa donna, che mi accolse del modo il più ospitale — Non era forse una bellezza Raffaelesca — ma era bella, educata, e di più poetessa! ma guardate combinazione! In quella solitudine — a tanta distanza della capitale — io trasognavo — Da essa seppi: esser la moglie del _capataz_ (maggiordomo) della _Estancia_, che trovavasi a molte miglia lontana — e di cui la casa da lei abitata — era un semplice posto. Mi fece gli onori di casa, con una gentilezza, di cui serberò grata memoria tutta la vita — Mi offrì il classico _mate_[18] — un buon arrosto — come solo si mangia in quei siti ove la carne è il solo alimento — Seduto e confortato — essa mi parlò di Dante, di Petrarca, e dei massimi de' nostri poeti — volle farmi accettare come memoria, le belle poesie di Quintana — e finalmente mi contò la storia della sua vita — Essa, di agiata famiglia Monvideana, era stata obligata da certe peripezie commerciali — di relegarsi nella campagna, ove avea conosciuto il presente suo sposo, con cui era felicissima — e colle sue propensioni romantiche, nemmen per sogno, essa avrebbe cambiato la condizione presente, colla brillante vita della capitale — Alla mia richiesta d'un animale vaccino, per provvista di bordo — essa mi assicurò: che suo marito sarebbe felice di contentarmi — e convenne quindi aspettarlo — Comunque, era già tardi, ed impossibile d'aver l'animale alla marina prima del giorno seguente. Il marito stette un pezzo a giungere — ed io, poco conoscitore della lingua spagnuola a quell'epoca, parlai poco, ed ebbi tempo a meditare sulle vicissitudini della vita — Vi sono delle circostanze nella vita, la di cui memoria è incancellabile — Io dovevo incontrare in quel deserto, moglie d'un uomo forse semi-selvaggio, una bella giovine con regolare educazione, e poetessa! Nell'età mia, certo, si compiace uno a trovare della poesia ovunque — e si crederebbe, la circostanza narrata, un parto della fantasia — anzichè realtà. Dopo d'avermi presentato le poesie di Quintana, ciocchè servì di materia a conversazione, la graziosa mia ospite, volle recitarmi, alcune composizioni sue, e confesso ne fui ammirato! Mi si obbietterà: ¿Come ammirato, se quasi nulla conoscevi di Spagnuolo — e pochissimo di poesia? Poco, o nulla so di poesia veramente — il bello però della poesia — sembravi anche capace di commovere i sordi — La lingua spagnuola poi ha tanta affinità colla nostra — ch'io non ebbi molta difficoltà a capirla nemmeno al principio del mio soggiorno, ove si parlava. Io godetti la compagnia dell'amabile padrona di casa, sino all'arrivo dello sposo — non sgarbato, abbenchè di ruvido aspetto — e col quale restammo convenuti, di farmi trovare una _rez_[19] alla spiaggia nella mattina seguente. All'alba mi congedai dall'interessante poetessa del campo — e tornai ove mi aspettava Maurizio — non senza timore, poichè più pratico di me, di quella parte d'America — sapeva esistervi tigre — men trattevoli certamente del toro e del cavallo — Poco dopo apparve il _capataz_, con un bue nel laccio ed in breve tempo, lo ebbe morto, scorticato e maccellato — Tale è la destrezza di quella gente, in codesti esercizi di sangue — Ora, si trattava di portare un bue in pezzi, dalla costa al legno, distante circa mille passi — attraverso i frangenti del mare arrabbiato — ch'era una consolazione per chi doveva attuar l'impresa! — Eccoci, Maurizio ed io all'arduo travaglio: I due barrili vuoti, erano già fissati alle estremità del gastronomico vascello — con molta cura, legati i quarti del bue, all'albero improvvisato — e con molta cura tenuti fuori del mare — una pertica in mano a ciascuno, serviva di remo e di bottafuori — l'equipaggio poi, allegerito di panni il possibile — trovavasi al galleggiare del barco, coll'acqua sino alla cintura — E voga la barca! allegrissimi del nuovo modo di navigare — e fieri del pericolo, alla vista dell'Americano, che ci applaudiva, e de' compagni, che pregavano, forse più, per la salvezza della carne, che per la nostra, noi ci avventurammo nell'onda — Per un tratto non andava male — ma giunti ai più lontani, e più forti frangenti, erimo alcune volte sommersi da quelli, e rigettatti verso la costa, ch'era il peggio — Passammo con serie difficoltà tutti i frangenti — quindi una non minore, e per noi invincibile, trovavasi fuori de' frangenti — ove in una profondità di quattro braccia[20] la corrente del fiume era assai forte, e ci trasportava a scirocco, lungi dalla _Luisa_. Altro rimedio non vi fu, senon quello di mettersi alla vela la sumacca, e venire in traccia nostra, sino a poterci gettare una cima — Fummo salvi allora, e con noi la carne tutta — a cui gli affamati nostri compagni, diedero dentro maravigliosamente. Nell'altro giorno, passando una palandra (piccolo barco da fiume) immaginai comprare da quella, la lancia che si vedeva su coperta — E realmente misimo alla vela, abordammo la palandra, che donò di buon grado il richiesto palischermo, col cambio di trenta scudi — Passammo quel giorno ancora, alla vista della punta di Jesus-Maria — aspettando vanamente, intelligenze da Montevideo — CAPITOLO IX. Nell'altro giorno, trovandoci all'ancora, un poco al mezzogiorno della punta suddetta, apparirono due lancioni — dalla parte di Montevideo — che credemmo amici — ma siccome non avevano il segno condizionale d'una rossa bandiera, io credetti a proposito d'aspettare alla vela — e salpammo — tenendoci alla capa — colle armi preparate. La precauzione non fu vana: poichè avvicinatosi il maggiore dei due lancioni, con sole tre persone in evidenza, c'intimò la resa, in nome del governo Orientale, quando si trovò a pochi passi da noi, ed apparirono minacciosamente armati, una trentina d'individui — Erimo in panna[21] — io comandai immediatamente — «braccia in vela»[22] — A quel comando ci fecero una scarica di fucileria — che ci uccise uno dei migliori compagni Italiani: Fiorentino di nome — era Isolano della Maddalena — Io principiai a dar mano ai fucili, che avevo fatto preparare fuori della cassa d'armi, sul banco di guardia — ed ordinai il fuoco. Impegnossi un combattimento accanito tra le due parti — Il lancione aveva attacato il giardino[23] di destra della sumaca, ed alcuni dei nemici, si preparavano a salire, rampicandosi al bastingagio[24]; ma alcune fucilate, e sciabolate li precipitarono nel lancione o nel mare — Tuttociò si passò in breve tempo: siccome non aguerriti i miei non era mancato di nascere confusione — ed il mio comando di bracciare in vela, non si eseguiva; — cioè: vari dei nostri — alla voce di comando, eransi portati ai bracci della sinistra — senza che nessuno, si ricordasse di mollare quelli di destra[25] quindi inutilmente si affaticavano a tirare — Fiorentino, vedendo ciò, abbandonò il timone ove trovavasi e si lanciò, per effetuare la manovra incompiuta — quando una palla nella testa, lo rovesciò cadavere — Il timone rimase abandonato; ed io che mi trovavo a far fuoco vicino allo stesso — ne presi la barra — In quell'atto una palla nemica mi colpì nel collo, e stramazzai privo di sensi — Il resto del combattimento, che durò circa un'ora, fu sostenuto principalmente dal Nostr'uomo[26] Luigi Carniglia — dal pilotino Pasquale Lodola, e marinari: Giovanni Lamberti, Maurizio Garibaldi, due Maltesi etc. — Gl'Italiani, meno uno combatterono valorosamente — Gli stranieri — ed i neri Liberti, in numero di cinque — si salvarono nella stiva — Io ero rimasto per mezz'ora disteso sulla tolda quale cadavere — ed abbenchè dopo, ripresi i sensi a poco a poco, non potevo movermi, rimasi inutile e fui creduto spacciato — Staccato il nemico a fucilate — non si pensò più ad assaltar nessuno in quelle alture — e si proseguì per l'interno del Plata a cercarvi un asilo e dei viveri — La mia posizione era ben ardua — Mortalmente ferito, nell'incapacità di movermi — non avendo a bordo uno solo, che possedesse le minime nozioni geografiche — e perciò mi trassero davanti la carta idrografica di bordo, perchè vi gettassi i moribondi miei occhi, per indicare alcun punto di meta da dirigervi la corsa — Indicai Santafè, nel fiume Paranà, che vidi scritto in lettere maggiori sulla carta suddetta — Niuno era stato in quel fiume, tranne Maurizio, una sola volta nell'Uruguay[27]. I marinari atterriti dalla situazione — Giacchè rigettatti dal Governo di Montevideo, unico che si credeva amico della Repubblica Rio-Grandense — si poteva esser considerati quali pirati — I marinari dico, erano in un avvilimento indescrivibile — Meno gl'italiani — devo confessar il vero — Dalla situazione mia, la vista del cadavere di Fiorentino, e come dissi: il timore d'esser considerati ovunque pirati — essi avevano lo spavento sul volto, ed alla prima opportuna occasione — realmente disertarono — In ogni barca, ogni uccello che scoprivano, quei codardi vedevano nemici inviati a perseguirci — La salma di Fiorentino fu sepolta nell'onde — destino solito dei marinari — e colle solite cerimonie in simili circostanze — cioè: un saluto affetuoso de' suoi concittadini — Assicuro per parte mia, che tale classe d'inumazione non mi piacque — e siccome la stessa sorte m'aspettava probabilmente tra poco — senza potermi opporre al sistema di sepoltura del mio compagno — mi contentai di chiamare il mio carissimo Luigi per trattenerlo all'uopo — Fra i periodi rettorici dell'inchiesta mia naturalmente breve, all'incomparabile amico mio, io recitavo a lui, i bei versi di Ugo Foscolo: Un sasso! che distingua le mie dall'Infinite ossa che in terra e in mar, semina morte! Ed il mio caro piangeva, promettendomi di non seppellirmi nell'onda — Chi sa: se lui stesso avrebbe potuto mantener la promessa — ed il mio cadavere, avria sfamato alcuni lupi marini, o qualche _jakarè_[28] dell'immenso Plata — Io non avrei più veduto l'Italia — idolo di tutta la mia vita — è vero! Non avrei più combattutto per essa! Ma anche non l'avrei veduta ricadere, nell'ignominia e nella prostituzione! Chi avrebbe detto all'amorevole, al buono, al valoroso mio Luigi: che fra un anno — io lo vedrei travolto nei frangenti dell'Oceano, e che inutilmente io cercherei il suo cadavere, per seppellirlo sulla terra straniera, e segnarlo al passeggier con un sasso! Povero Luigi! cura di madre ei m'ebbe, in tutto il viaggio sino a Gualeguay — e nei tremendi patimenti miei — io non avevo altro sollievo, che nella vista, e nell'attenzioni di quel generoso quanto prode. CAPITOLO X. Luigi Carniglia. Io voglio parlare di Luigi — e perchè non dovrò parlarne? Perchè plebeo? Perchè nato nella moltitudine di coloro che lavorano per tutti? Perchè non apparteneva all'alta classe — che generalmente lavora per nessuno e divora per tanti? All'alta classe di cui solo si fa menzione nelle storie, senza infastidirsi della plebe vile che pur produce i Colombi, i Volta, i Linnei ed i Franklin? E non era alta l'anima di Luigi Carniglia? Alta per sostenere dovunque l'onore del nome Italiano! Alta nello sfidare una tempesta — siccome i pericoli d'ogni genere, per far bene! Alta infine, nel proteggermi, nel custodirmi come un suo bambino — nella sventura — quando io incapace di movermi — languente — nel punto d'esser abbandonato da tutti! Io, delirante del delirio della morte — mi si sedeva accanto, Luigi — coll'assiduità, la pazienza d'un angelo! — quindi mi lasciava un momento per piangere! O Luigi! le tue ossa, sparse negli abissi dell'Oceano — meritavano un monumento — ove il proscritto riconoscente — potesse un giorno, ricambiarti d'una lacrima, sulla sacra terra italiana! Luigi Carniglia era di Deiva, piccolo paese della Riviera a levante di Genova — Non aveva avuto istruzione letteraria, nel paese, ove il governo ed i preti mantengono diciasette millioni d'analfabeti — ma suppliva alla letteratura, con superiore intelligenza — Senza i nautici conoscimenti che fanno il pilota, egli condusse la _Luisa_ sino a Gualeguay, senza esservi mai stato, colla sagacia e la fortuna d'un pratico — Nel combattimento contro i lancioni — a lui principalmente dovemmo: non esser caduti in potere del nemico — Armato d'un trombone, e posto nel luogo di più pericolo, egli intimoriva gli assalitori — Alto della statura, e robustissimo, ei riuniva l'agilità, a straordinaria forza corporea — dimodocchè potevasi — senza tema di esagerare — esclamare scorgendolo: «Colui basta per dieci!». Amenissimo nell'abituale consorzio della vita, egli aveva il dono, di farsi amare da ognuno che lo trattasse. Ancora un martire della libertà! dei tanti Italiani destinati a servirla ovunque — fuori dell'infelice loro terra natia! — CAPITOLO XI. Prigioniero. È singolare — che nella prolissa mia carriera militare — io mai sia stato fatto prigioniero! ad onta d'essermi trovato tante volte — in pericolosissimo stato — Nella circostanza presente — a qualunque terra s'abordasse, dovevasi esser prigionieri — poichè non riconosciuta l'insurrezionale nostra bandiera del Rio-Grande del Sud — Giunsimo a Gualeguay paese della provincia di Entre-Rios — ove ci valsero moltissimo — il Capitano Luca Tartabull della goletta _Sintoresca_ di Buenos-Ayres — ed i di lui passegieri, abitatori e nativi di quei paesi. Incontrata detta goletta, nelle alture dell'Ibicui — piccolo confluente del fiume Gualeguay e mandato da Luigi a chiedere alcuni viveri — quei generosi si offersero di accompagnarci sino a Gualeguay, loro destino — Di più: mi raccomandarono al Governatore della provincia, D.r Pasqual Echague — che si compiacque, lui dovendo partire, di lasciarmi il proprio chirurgo D.r Ramon dell'Arca — giovine Argentino — che mi fe' subito l'estrazione della palla, rimastami nel collo — e mi curò perfettamente — Io vissi nella casa di D.r Jacinto Andreus, nei sei mesi di soggiorno in Gualeguay — e dovetti moltissimi riguardi e gentilezze a lui ed alla famiglia tutta di quel generoso — Ma non ero libero!... Con tutta la buona volontà di Echague, e l'interesse che quella buona popolazione mi manifestava — io ero obligato di non assentarmi — senza previa deliberazione del Dittattore di Buenos-Ayres, da cui dipendeva il governatore d'Entre-Rios, e che non deliberava mai. Sano della ferita — io principiai a passegiare — e mi si permettevano delle scorrerie a cavallo sino alla distanza di dieci o dodici miglia — Mi passavano, più del vito — che dovevo alla generosità di D.r Jacinto — un pezzo forte al giorno; condizione agiatissima per quei paesi, ove si trova a spendere poco — Ma tuttociò non valeva la libertà di cui ero privo — Mi si fece capire da alcuni di buona fede, o nemici, che al governo non sarebbe riuscita discara la sparizione mia; e mi decisi, incautamente, a sgombrare; credendone l'attuazione men ardua, e le conseguenze, non di tanto momento — credendo non mi si attribuirebbe a gran colpa — da quanto ho già accennato — Il Comandante di Gualeguay, era un tale Millan — egli avea proceduto non male verso di me — poichè tale contegno le fu imposto dal governo della provincia — e sino a quel punto, non avevo veramente motivi di lagnanze — abbenchè poco interesse mi avesse egli dimostrato — Io mi decisi dunque di andarmene — e perciò feci i miei preparativi — Una sera, era tempo burrascoso — io mi avviai verso la casa d'un buon vecchio, che solitavo visitare, alla distanza di circa tre miglia da Gualeguay — le feci palese il mio divisamente — e lo incaricai di cercarmi una guida, che coi propri cavalli, mi conducesse sino all'Ibicuy — ove speravo di trovare legni, da trasportarmi incognito a Buenos-Ayres, o Montevideo — Trovansi il guida, i cavalli, e ci poniamo in via attraverso campi, per non esser scoperti — Noi dovevimo percorrere cinquanta e quattro miglia, che divorammo nella notte — quasi sempre a galoppo — Spuntando l'alba, noi erimo in vista dell'Ibicuy, cioè della _Estancia_[29] di quel nome; alla distanza di mezzo miglio circa — L'uomo che mi servì di guida, mi disse allora: d'aspettarlo nel bosco ove ci trovavamo — e che lui, andrebbe a prender notizie nella casa — Così si fece: egli partì solo — Io rimasi, ben contento di poter riposare un momento le membra sconquassate da tanto galoppo — io, marino, e quindi non assuefato al cavallo — Smontai, e legai colla briglia il mio cavallo ad una pianta di spiniglio, ossia Acacia, di cui sono composti totalmente quei boschi — rade però le piante, dimodocchè i cavalieri ponno cavalcarvi liberamente sotto, e tra loro. In tal guisa, aspettai lunga pezza sdrajato — quindi, vedendo che non compariva il mio guida, mi avvicinai a piedi verso il confine del bosco che non era lontano, e procurai di scorgerlo — Quando sento dietro di me, un calpestio di cavalli, e scorgo un drapello di cavalieri, che colla sciabola sguainata si avventavano su di me — Essi già si trovavano tra il mio cavallo ed io — quindi inutile qualunque proposito di fuga — più inutile ancora ogni resistenza. Mi legarono colle mani dietro — poi collocato sopra un ronzino, legaronmi pure i piedi, sotto la pancia del cavallo — ed in tal guisa fui condotto a Gualeguay, ove mi aspettava trattamento molto peggiore — Sentomi raccapricciare ogni volta mi rammento la sventuratissima circostanza della mia vita — Giunto in presenza di Millan, che mi aspettava sulla porta della prigione, fui da lui inchiesto: chi mi avesse somministrato i mezzi d'evasione — ed accertatosi ch'io nulla gli avrei fatto palese — ei principiò bestialmente a battermi con una frusta che teneva in mano — quindi, alle reiterate mie negative, ei fece passare una fune alla trave della prigione — e mi fece sospendere in aria, legato per le mani! Due ore di quella tortura mi fece soffrire quel scellerato!!! Io che avevo consacrato tutta la vita al sollievo dei soffrenti! Consacrato a far guerra alla tirannide ed ai preti fautori, ed amministratori di torture! Il mio corpo ardeva come una fornace, e lo stomacco mio dissecava l'acqua ch'io trangugiavo senza interruzione, somministratami da un soldato — come un ferro rovente — Tali patimenti non si ponno esprimere! Quando mi sciolsero, io, più non mi lamentavo, ero svenuto — diventato un cadavere! E così mi incepparono! Io avevo traversato cinquanta quattro miglia di paese paludoso, ove le zanzare sono insoffribili nella stagione in cui erimo — Colle mani e piedi legati, avevo indurato le tremende percosse del moschito — senza potermi difendere — quindi le torture di Millan — Oh! io avevo sofferto molto! Ora mi trovavo in ceppi allato d'un assassino! Andreus, il mio benefattore, era imprigionato — Gli abitanti tutti del villaggio erano atterriti — e senza l'anima generosa d'una donna — io sarei morto — La Signora Albeman, angelo virtuoso di bontà calpestò il timore, che tutti aveva invaso — e venne in soccorso del torturato! Io di nulla mancai nella mia prigione — grazie alla incomparabile mia benefattrice — Di lì a pochi giorni, fui condotto alla capitale della Provincia — Bajada — Stetti due mesi in prigione in quella città — quindi fui avvertito dal Governatore, che potevo andarmene liberamente — Abbenchè io appartenessi a principii diversi da quelli di Echague — e ch'io abbia combattutto per una causa diversa dalla sua — cioè io servendo la libertà nella Repubblica di Montevideo — e lui luogotenente del tiranno di Buenos-Ayres, che voleva aggiogarla — ad onta di ciò, dico: io devo confessare le tante obbligazioni di cui le sono debitore — e vorrei oggi ancora poterli provare la mia gratitudine d'ogni cosa — ma massime per la mia libertà, che senza di lui potevo non ricuperare per un tempo indefinito — CAPITOLO XII. Libero. Dalla Bajada, presi passaggio con un brigantino genovese Capitano Ventura, uomo superiore alla moltitudine de' concittadini nostri dati alla nobile nautica professione — in cui primeggia nella gran maggioranza un interesse vilissimo, grazie all'Israelita educazione ricevuta nei nostri paesi — L'interesse a cui accenno non è certo quella indispensabile economia base del vivere onesto in tutte le condizioni — ove il cittadino adattandosi alla propria condizione, bilancia le spese sull'entrata — e potendo spender dieci per esempio, spende otto solo, riserbandosi così, sempre, un residuo che non solo lo costituisce indipendente al dominio altrui — ma procura a lui l'impareggiabile voluttà della beneficenza — ¿Non è forse il lusso, i depravati apetiti, il non sapersi conformare alla propria condizione, ed ad una vita sobria e laboriosa — che scaraventa a' piedi dei potenti, tanta massa di lussuriosi infingardi — e ne fa un semenzajo di birri, di spie, di malviventi d'ogni specie? Il Capitano Ventura mi trattò con una generosità cavalleresca, e venni con lui sino al Guassù — ove il Paranà sbocca nel Rio della Plata — Là m'imbarcai per Montevideo con una calandra[30] il di cui padrone era Pasquale Carbone anche genovese — che egregiamente pure trattommi — Le fortune, come le disgrazie, capitano generalmente accopiate, ed in tale circostanza, dovevano succedersi le prime senza interruzione — In Montevideo trovai una folla di amici, tra cui primeggiavano Rossetti, Cuneo e Castellini — Il primo di ritorno d'un viaggio al Rio-Grande — ove era stato accolto con molto favore da tutti quei fieri Republicani — In Montevideo però, continuava la proscrizione mia, per l'affare avuto coi lancioni di codesta Republica — e fui obligato di rimanermi nascosto in casa del mio amico Pesente, ove soggiornai un mese — Lo stato mio di reclusione, era abbellito, dal concorso di tanti conosciuti Italiani — i quali in quei tempi prosperi di Montevideo, come pure in ogni tempo di pace — erano i nostri conterranei d'una amenità, ed ospitalità degne di lode — La guerra, e massime l'ultimo assedio, amareggiarono l'esistenza di quei buoni, e ne deteriorarono molto la condizione — Con Rossetti, partimmo verso il Rio-grande dopo un mese di soggiorno in Montevideo, e feci quel mio primo e lungo viaggio a cavallo, con grandissimo diletto — Giunsimo a Piratinim, ove fui accolto vantaggiosamente dal governo della Republica del Rio-grande — stabilito provisoriamente in codesto villaggio — per esser un punto centrale, e fuori mano dalle scorrerie de' nemici imperiali — Comunque il Governo suddetto, era già stato obligato a metter gli archivi sui carri, e seguire l'esercito Republicano in campagna, dividendo coi militi i disagi, ed i pericoli delle battaglie. Così oprò il Governo Republicano degli Stati Uniti — quando Filadelfia capitale, trovavasi minacciata dall'esercito Inglese — E così devono oprare quelle nazioni che preferiscono ogni sacrificio, disagio, privazioni, pericoli — all'umiliazione di diventar mancipï dello straniero — Almeida, ministro delle Finanze — mi fece gli onori dell'ospitalità, semplicemente, ma con molta grazia — Bento Gonçales presidente della Republica, e generale in capo dell'Esercito — era marciato alla testa d'una brigata di cavalleria, per combattere Silva Tavares, generale dell'impero del Brasile — che avendo passato il canale di S. Gonçales, infestava la parte orientale della provincia — Piratinim, sede allora del governo Repubblicano, è un piccolo villaggio; ma piacevole nella sua situazione alpestre — Capoluogo del dipartimento di quel nome — è attorniato da popolazioni bellicosissime, e devotissime al sistema suddetto — Inoperoso in Piratinim, io chiesi di passare alla collonna d'operazione sul S. Gonçales, e mi venne concesso — Fui presentato a Bento Gonçales e ricevuto benone — Passai alcun tempo, nel consorzio di quell'uomo straordinario, che natura avea veramente favorito delle sue doti predilette; ma che la fortuna contrariò quasi sempre, per ventura dell'impero Brasiliano. Bento Gonçales era il tipo del guerriero brillante e magnanimo — e lo era ancora, vicino ai sessant'anni — quand'io lo conobbi — Alto della statura, e svelto — ei cavalcava un focoso destriero, colla facilità e la destrezza d'un giovine conterraneo suo — E si sa: contare a Rio-Grandensi tra i primi cavalieri del mondo — Valorosissimo della persona — egli avrebbe combattutto in singolare tenzone, e vinto forse — qualunque forte cavaliere — D'animo generosissimo, e modesto — io credo: non aver esso eccittato i Rio-Grandensi ad emanciparsi dall'impero, con fine d'ingrandimento proprio. Sobrio, come ogni figlio di quella valorosa nazione, il suo vito nel campo, era un'_açado_ (arrosto) come un semplice milite — Alimento unico, in quelle campagne richissime di bestiame — ed ove, per far la guerra, non si usano le ingombranti impedimenta — inciampo principale degli eserciti Europei — Io divisi, per la prima volta, allora, i di lui campestri pasti — con tanta famigliarità — come se compagno d'infanzia, ed uguali — Con tali doti, fu Bento l'idolo de' suoi concittadini: eppure con tante doti — egli fu sventurato nelle battaglie — ciocchè mi ha fatto supporre sempre — contribuire la fortuna, per una gran parte negli eventi della guerra — Una qualità poi di cui difettava il prode generale della Republica — era la costanza nelle battaglie — Ed io lo tengo per grande difetto! Iniziando una pugna qualunque — devesi riflettervi ben bene prima — ma principiata, che sia — non si deve desistere dalla vittoria sino ad aver tentato gli ultimi sforzi — sino ad aver portato in azione le ultime riserve — Io seguitai Bento, sino ai _Canudos_ — passo del canale di S. Gonçales, che unisce le lagune Patos e Merin — Quel passo era stato varcato da Silva Tavares, pauroso d'incontrarsi colla prima brigata dell'esercito Republicano — che lo perseguiva da vicino — Non avendo potuto ragiungere il nemico, retrocesse la brigata, ed io ripresi la strada di Piratinim, al seguito del Presidente — Contemporaneamente si ebbe notizie della battaglia del Rio-pardo, ove l'esercito imperiale fu complettamente sconfitto dal Republicano — CAPITOLO XIII. Ancora Corsaro. Io fui destinato all'armamento di due lancioni, che si trovavano in Camacuan — confluente della laguna dos Patos — e feci i miei preparativi per dirigermi a quella volta, con alcuni compagni venuti meco da Montevideo — Rossetti rimase a Piratinim, incaricato della redazione del Giornale _O Povo_ (il popolo) — e certo nessuno meglio di lui era capace di dirigere un periodico Republicano — Giunsi sul fiume Camacuan, nella _Estancia_ di Bento Gonçales — ove si trovavano i lancioni che armammo, chiamandoli: _Republicano_ l'uno — di cui prese il comando il Nord Americano John Griggs — ch'io avevo trovato in quel punto — e che assistito avea alla costruzione di detti — Io, presi il comando del _Rio-Pardo_, il maggiore dei due — Principiammo a scorrere la laguna dos Patos — e vi predammo una sumaca assai grande, e riccamente carica, che scariccammo nella costa Occidentale del lago — vicino a Camacuan — ed a cui diedimo fuoco, dopo d'averne estratto quanto ci poteva esser utile per il nostro piccolo arsenale — quella prima preda fecondò alquanto la nostra piccolissima marina — La gente che sino allora avea avuto pochissimi mezzi, ricevette una pingue parte di presa — e si pensò nell'istesso tempo a vestirla. Gl'imperiali, che disprezzati ci avevano, sin'ora — cominciarono a sentire la qualche importanza nostra nella Laguna, ed impiegarono i numerosi loro legni di guerra a perseguirci — La vita che si faceva, in quella classe di guerra era attivissima — piena di pericoli — per la superiorità numerica del nemico — e la di lui potenza in ogni ramo guerresco; ma nello stesso tempo, bella, e molto conforme all'indole mia propensa all'avventure — Essa non era limitata alla marina soltanto — noi avevimo a bordo, selle — cavalli ne trovavimo ovunque, in quei paesi ove sono abbondantissimi — e tutt'assieme, quando lo richedeva il caso — noi erimo trasformati, non in brillante, ma temibile, e temuta cavalleria — Trovavansi sulle coste della laguna, delle _Estancias_, che le vicende della guerra avevano fatto abbandonare dai loro proprietari — Ivi trovavasi bestiame d'ogni specie, per mangiare, e per cavalcare — Di più, in quasi tutti quei stabilimenti eranvi delle _rossas_ (terreni coltivati), ove si trovavano in abbondanza ogni specie di legumi: formentone, faggioli, patate dolci — e spesso aranci, bonissimi in quelle contrade — La gente che mi accompagnava, era vera ciurma cosmopolita — composto di tutto, e di tutti colori — come di tutte le nazioni — Gli Americani per la maggior parte erano liberti — neri o mulati — e generalmente i migliori e più fidati — Fra gli Europei — avevo gl'Italiani tra cui il mio Luigi, ed Edoardo Mutra, mio compagno d'infanzia — in tutto sette, su cui potevo contare — Il resto era composto di quella classe di marinari avventurieri conosciuti sulle coste Americane dell'Atlantico e del Pacifico sotto il nome di: «_Frères de la côte_» classe che aveva fornito certamente gli equipagi dei Filibustieri, dei Bucanieri, e che oggi ancora dava il suo contingente alla tratta dei neri — Io trattavo la mia gente con bontà, forse superflua — ignaro allora dell'indole umana, un po' propensa alla perversità — quando l'uomo è educato, e massime poi se ignorante — Il coraggio non difettava certamente ai miei poco disciplinati compagni — essi mi ubbidivano puntualmente, e pochi motivi mi davano d'esser con loro rigoroso — Ciocchè mi facea contento — e devo confessare: di aver avuto tal sorte tutta la vita, nelle differenti circostanze, in cui mi son trovato a comandare gente di tal natura — In Camacuan, ove avevimo il nostro piccolo arsenale; e da dove era uscita la flottiglia Republicana — abitavano per l'estensione della maggior parte del fiume — stendendosi sopra una superficie immensa, le famiglie tutte del presidente Bento Gonçales e dei fratelli di lui, con numerose famiglie e potenti — Su quei vasti terreni, e campi bellissimi — pascolava immenso bestiame — che la guerra avea rispettatto, per trovarsi fuori di mano — Le produzioni agricole vi eran pure in abbondanza — Ora si osservi: che in nessuna parte della terra, si può trovare un'ospitalità più franca, e cordiale, di quella che si trova nella provincia del Rio-grande. In quelle case poi, ove incontravasi dovunque l'indole benefica del patriarca di quelle famiglie, e la maggior simpatia, per uniformità d'opinioni — noi erimo accolti certamente con affetto inesprimibile. Le _estancias_, ove per prossimità alla Laguna, e per i comodi, e per grata accoglienza — noi aprodavamo con più frequenza, eran quelle di D.a Antonia, e di D.a Ana, ambe sorelle di Bento Gonçales — situata la prima, nella foce del Camacuan — la seconda in quella dell'Arroyo-grande[31]. Io non so se influito nella mia immaginazione, abbia l'età mia — predisponendomi allora all'abbellimento d'ogni cosa — siccome giovane ed inesperto — Comunque sia — io posso assicurare: che nessuna delle circostanze della mia vita, mi si presenta al pensiero con più fascino, con più dolcezza — e più piacevole reminiscenza — di quella passata nell'amabilissimo consorzio di quelle signore, e delle care loro famiglie — In casa di D.na Ana massimamente — era per noi un vero paradiso — Avanzata di età quella signora, era d'un'indole incantatrice — Aveva seco, una famiglia emigrata di Pelotas — (paese sulla sponda del S. Gonçales) il di cui capo era D.r Paolo Ferreira — Tre donzelle, una più vezzosa dell'altra — facevan l'ornamento di quel sito felice — ed una di loro Manuela, signoreggiava assolutamente l'anima mia — Io, mai cessai d'amarla — benchè senza speranza — essendo essa fidanzata ad un figlio del presidente. Io, adoravo il bello ideale, in quell'angelica creatura, e nulla avea di profano l'amor mio — In occasione d'un combattimento — ov'io ero stato creduto morto — io conobbi non esser indifferente a quell'angelica creatura — e ciò bastò a consolarmi dell'impossibilità di possederla — D'altronde, bellissime sono le Rio-Grandensi in generale — come bella la popolazione. Non indifferenti erano pure le schiave di colore, che si trovavano in quei compitissimi stabilimenti — Come si può capire: ogni qual volta, un vento contrario, una burrasca, una spedizione qualunque, ci spingeva verso l'Arroyo-grande — era per noi una vera festa — Il boschetto di Jirivà (sorte di Palma altissima) che c'indicava l'entrata del fiumicello — era riveduto sempre, e risalutato con vero piacere, e fragorosissime grida. Quando ci toccava poi, a trasportare i gentili e cari nostri ospiti sino a Camacuan — ove andavamo a visitare D.na Antonia — e l'amabile di lei compagnia — allora era un ravvolgersi, un'affacendarsi in cure, in attenzioni, verso le belle viaggiatrici! un pavoneggiarsi a chi più potea — un certocchè infine d'affetto, di rispetto, di venerazione per quelle carissime creature! Esistevano tra l'Arroyo-grande, e Camacuan, alcuni banchi di sabbia chiamati _puntal_ — e partivano cotesti banchi, dalla costa occidentale della Laguna, e si stendevano quasi perpendicolarmente alla costa — in quasi tutta la larghezza della stessa — giungendo colla loro estremità orientale vicino alla riva opposta — ov'erano terminati dal canale detto: _dos barcos_ — Se si fosse dovuto spuntare quei banchi — nel tragitto dall'Arroyo-grande al Camacuan — sarebbesi prolungato il cammino moltissimo; ma siccome con qualche fatica potevasi valicare i banchi — cioè: gettandosi tutti all'acqua — e spingendo i lancioni a forza di spalle — tale spediente era quasi sempre adottatto — e massime lo fu, quando onorati i nostri lancioni dalle preziose viaggiatrici — Con qualunque vento giungevano i lancioni al limitar del banco, e s'investiva risolutamente — Poi: _all'agua Patos_ (all'acqua anitre) — era appena pronunciato — che tutti si trovavano al loro posto nell'onda, gli anfibi e coraggiosi miei compagni — ed io con loro — In tale circostanza, era eseguito l'ordine con vero giubilo — comunque sempre ilaremente anche in altre occasioni. Succedeva qualche volta, tale manovra, quando perseguiti da nemico, sempre più forte di noi, o incalzati da temporale — e noi erimo obligati allora, di passare così nell'acqua, alle volte tutta una notte — non trovando riparo all'acqua del mare — e sovente nemmeno alla più fredda della pioggia — per essere lontani dalla costa — Allora era un vero tormento e bisognava certo una fervida gioventù per sostenervisi e non soccombere — CAPITOLO XIV. Quattordici contro cento e cinquanta. Dopo la presa della sumaca (_Brik Skooner_) i bastimenti mercantili imperiali, non partivano più senonchè in convoglio scortati da legni da guerra — quindi difficoltoso il predarli — Le spedizioni dei lancioni, limitaronsi dunque ad alcune scorrerie nella laguna, con poco successo, essendo perseguiti dagli imperiali per mare e per terra — In una sorpresa fattaci dal collonnello nemico Francesco de Abreus, quasi fu annientata l'esistenza dei corsari e del corso — Erimo nella foce del Camacuan coi lancioni tirati in terra davanti al _Galpon da Charqueada_ — (magazzeno di deposito dello stabilimento, ove salavasi carne, in tempi anteriori) ove raccoglievasi allora, _erba Matte_ — specie di té dell'America meridionale — Tale stabilimento apparteneva a D.na Antonia, sorella del presidente — Per motivo della guerra, allora non salavasi carne — ed il galpon trovavasi a metà pieno di erba matte — Noi ci servivamo di tale stabilimento, assai spazioso come arsenale nostro — ed avevamo messi in terra, tra il magazzeno e la sponda del fiume, i nostri lancioni per ripararli — In quel luogo, vi erano falegnami, e fabri dello stabilimento; il carbone era abbondante, essendo il paese coperto di macchia, e boschi d'alto fusto — ferro, lo stabilimento, benchè inoperoso, conservava tutta la fisionomia dell'antica splendidezza — e non mancarono ogni specie di pezzi d'acciajo e di ferro, suscettibili di servire ai bisogni dei nostri piccoli legni — Poi, in un galoppo, si visitavano le _estancias_ amiche a varie distanze — anche quelle provviste d'ogni cosa, che supplivano graziosamente a qualunque cosa difettasse l'arsenale — Col coraggio, la volontà, e la costanza — non v'è impossibile impresa; ed in ciò devo far giustizia al mio compagno e precursore John Grigg — che tanti affrontò disagi, e vinse difficoltà, nel condurre l'opera di costruzione de' due lancioni — Egli era giovine, d'indole eccellente — d'un coraggio a tutta prova, e d'immensa costanza — Di famiglia agiata, egli aveva generosamente consacrato la sua vita alla causa della Repubblica — e quando una lettera de' suoi parenti Nord-Americani lo chiedevano in patria annunziandole una colossale eredità, egli avea gloriosamente terminati i suoi giorni, per un popolo infelice, ma generoso e valente — Io avevo veduto il tronco dell'amico mio — diviso in due — il busto era rimasto retto — sulla coperta o tolda della _Cassapava_ (goletta nostra armata in guerra) apogiato alla murata (baluardo) — colorito l'impavido volto, come vivente! — ed il resto delle membra infrante erano sparse attorno, ed a qualche distanza del busto — Una cannonata a palla e metraglia da vicino sparata — avea colpito a mezzo corpo il valoroso mio compagno — nel combattimento ultimo di mare, nella Laguna di S. Caterina — Ed in quella guisa, mi si presentò in quel giorno — quando io incendiando la squadriglia per ordine del generale Canabarro — ascendevo il legno comandato da Grigg, e fulminato ancora dalla squadra nemica — Dunque, avevamo i lancioni in terra — e lavoravasi alacremente a rattopparli — Parte dell'equipagio era impiegata alle manovre, le vele ecc. — altra, nella macchia a raccoglier legna per far carbone — Ognuno era occupato — e coloro che non lavoravano — erano alla guardia del campo — o in esplorazione nei dintorni. In alcune circostanze, il Francisco de Abreus, detto Moringue, aveva manifestato il desiderio di sorprenderci — e vi si era provato inutilmente — non mancando però di cagionarci qualche timore — per esser uomo coraggioso, intraprendente — e praticissimo del Camacuan ov'era nato — E quella volta, ci sorprese, veramente da maestro — Noi, avevamo percorso la campagna tutta la notte con pattuglie a piedi ed a cavallo — e tutto il resto della gente, era stato riunito nel galpon, con armi cariche e pronte — Era una mattinata di nebbia — quindi, nessuno si mosse sino a vederla dileguata intieramente; e dopo dileguata, si fecero delle esplorazioni fuori del campo in tutte le direzioni, colla maggior esatezza — era circa le 9 a.m., e nulla avendo scoperto — gli esploratori rientrarono — e s'inviò la gente alle rispettive loro destinazioni — la maggior parte al taglio della legna per far carbone — che doveva allontanarsi alquanto nella foresta — In quel tempo — io avevo una cinquantina d'uomini per i due lancioni — ed in quel giorno per combinazione e per vari bisogni, erano rimasti presso ai legni, ben pochi — Io stavo seduto vicino al fuoco, ove cuccinavasi la collazione, e prendevo matte, che mi serviva il cuoco, unico rimasto presso di me — Era cucina di campagna — cioè all'aria aperta — distante circa quaranta metri dalla porta del galpon — Quando tutt'assieme — e che mi sembrò sul mio capo — odo un tremendo tocco di carica, e di _deguello_ (sgozzare) — e vedo irrompere, girandomi indietro, una folla di cavalieri nemici — Appena ebbi tempo di alzarmi, e guadagnare l'entrata del galpon, con tutta l'agilità di cui ero capace — che già una lancia nemica, aveva forato il mio poncho (capoto Americano o mantello) — Fortuna nostra! che essendo stati in allarme la notte, trovavansi tutti i nostri fucili carichi, ed apogiati alla parete, nell'interno del locale — Solo, in quel primo momento, io cominciai a scaricar fucili e rovesciar nemici — Ignazio Bilbao Biscaino e Lorenzo N. Genovese ambi valorosi ufficiali, mi furono a fianco in un momento — quindi Edoardo Mutra, Natale, Raffaele, Procopio — uno mulato, l'altro nero, ambi liberti — ed un nostruomo mulato chiamato Francisco — Oh! vorrei ricordare il nome di tutti quei valorosissimi uomini — in numero di quattordici che combatterono per varie ore, contro cento e cinquanta nemici — uccidendone, e ferendone molti sino a liberarsene complettamente — Fra i nemici vi erano ottanta Austriaci di fanteria, che solevano accompagnar Moringue, in tali operazioni, ed eran buoni soldati a piedi ed a cavallo — Al loro giungere, misero piedi a terra, ed attorniarono la casa, profitando degli accidenti del terreno — d'alcuni cespugli, e casipole che circondavano lo stabilimento principale — Tale loro manovra fu la nostra salvazione — Fecero contro noi un fuoco terribile da tali posizioni — cioè contro il portone principale — Ma siccome succede sempre nelle sorprese: che, non ultimando l'impresa — e fermandosi — essa difficilmente riesce — Se invece di prender posizione — i nemici avanzano sul galpon, e lo invadono risolutamente, tutto era finito — non potendo certamente, uno solo, o pochi, resistere a tanti — tanto più, che da transitar carri carichi, erano i portoni laterali del galpon — che restarono e lasciammo aperti sempre, per non manifestar timore — Invano affolaronsi contro le pareti tutto in giro — invano salirono sul tetto, distruggendolo — e precipitando sulle nostre teste, rottami, e fascine incendiarie — Dal tetto furono slogiati a fucilate e colpi di lancio — da feritoie praticate da noi nelle mura — se ne uccisero, e ferirono molti — Poi per fingere molta gente — noi intuonammo l'inno Republicano del Rio-Grande: «Guerra guerra! Fogo fogo! contro os barbaros tirannos! e tambem contro os patricios, che non son Republicanos»! sforzando la voce il possibile — Due dei nostri, più forti, brandivano una lancia ad ogni portone — e ne mostravano fuori il ferro — ciocchè certamente rallentava negli assalitori la voglia di caricarci — Verso le 3 p.m. ritirossi il nemico, avendo molti feriti tra cui il capo con un braccio rotto — lasciò sei cadaveri intorno al galpon ed altri a varie distanze — Noi ebbimo otto feriti, dei quattordici — Rossetti, Luigi, e gli altri compagni nostri, non poterono giovarci perchè lontani o disarmati — e con loro rammarico, parte furono obligati di passare il fiume a nuoto, perseguiti dai nemici — alcuni s'inselvarono — uno trovato inerme fu ucciso — Quel combattimento di tanto pericolo — e con sì brillante risultato — diede molta fiducia alla gente nostra — ed agli abitanti di quelle coste — esposti da molto tempo alle scorrerie nemiche di quell'uomo scaltro ed audace — Moringue fu incontrastabilmente il miglior capo degli imperiali — e massime in spedizioni di sorpresa — ove riuniva ad un conoscimento perfetto del paese, e della gente, un'astuzia ed intrepidezza a tutta prova — Rio-Grandense, ei fece gran danno alla causa Republicana — e l'impero deve a lui in gran parte la sottomissione della provincia — Noi, intanto celebravamo la nostra vittoria — godendo d'esser salvi da una tempesta, di non poco momento — Alla Estancia di D.na Antonia una vergine — a dodici miglia di distanza — chiedeva delle mie nuove con molto interesse — ed io n'ero ben felice — Sì! bellissima figlia del _Continente_ (nome della Provincia del Rio-Grande) io ero felice d'appartenerti, comunque fosse — Tu destinata a donna d'un altro! a me serbava la sorte altra Brasiliana! unica per me nel mondo — ch'io piango oggi, e che piangerò tutta la vita! Quella pure, mi conobbe nella sventura — naufrago! e più che del mio merito forse — della sventura s'invaghì, e me la consacrò per sempre! CAPITOLO XV. Spedizione di Santa Caterina. Poco, o nulla d'importante successe più, nella Laguna de _los Patos_ dopo l'avvenimento suddetto — Due nuovi lancioni, furono posti in costruzione — e gli elementi necessari per tale opera — si trovarono nelle reliquie delle nostre prede — e coll'ajuto de' circostanti abitatori — sempre buoni e volenterosi con noi — Ultimati i due nuovi lancioni ed armati — noi fummo chiamati presso Itapuà — a cooperare l'esercito, che assediava allora la capitale della provincia, Porto Alegre — Nulla operò l'esercito per mancanza d'artiglieria — e nulla potemmo noi operare in tutto il tempo che passammo in quella parte del Lago — Si meditò la spedizione nella provincia di S. Catterina — ed io fui chiamato a parte di quella — dovendo accompagnarvi il generale Canavarro, comandante in capo di tutte le forze ivi destinate — I due minori lancioni rimasero nel Lago — agli ordini di Zeffirino d'Utra — ed io cogli altri due accompagnai la Divisione Canabarro — che doveva operare per terra, mentre io opererei per mare — Avevo meco l'inseparabile Grigg e la parte scelta dei nostri compagni — Il Lago _dos Patos_ misura una lunghezza di 135 miglia — e una larghezza media di 15 a 20 miglia — Presso alla foce, che all'oriente mette nell'Oceano, sulla sponda destra trovasi il Rio-Grande detto del mezzogiorno — o sud — piazza forte — e tanto importante quanto la capitale — Sul latto opposto vi è il Rio-grande del Nord — anche piazza fortificata — ed ambe in potere degli imperiali — siccome Porto-Alegre — Perciò, padrone dell'unica foce della Laguna nel mare — il nemico — era a noi impossibile di uscirne — e fummo quindi obligati di preparare dei carri a proposito — ed imbarcarvi la flotta nostra — Ciò prova la magnitudine dei nostri leggi[32] maggiori — Nella parte Greco del Lago — havvi un seno profondo, chiamato Capibari — che prende nome da un fiumicello, con foce nel fondo del seno — il cui nome poi deriva da Capibari — specie di majale anfibio, comune in quelle contrade — Detto fiumicello, fu scelto per l'aprodo, ed operazione dell'imbarco dei lancioni sui carri — e realmente vi s'effetuò sulla sponda destra — Un abitante di quella parte della provincia — nominato de Abreu — avea preparato otto ruote di maggiore solidità — collegate ogni due da un asse di forza proporzionata al peso dei legni — Poi, preparati circa dugento bovi domestici alla fatica del tiro — si avvicinarono i lancioni alla sponda — si collocarono le ruote dentro l'acqua sotto gli stessi — ad una distanza proporzionata l'una dall'altra — procurando di mantenerle combinate col centro di gravità. Assoggettaronsi lateralmente ai bastimenti gli assi, dimodocchè non turbassero la libera azione delle ruote; ed attaccati i bovi con forti trascini — salirono volando per il campo i vascelli Republicani — Riatatti quindi con più comodo e più esattezza — viaggiarono per lo spazio di cinquanta quattro miglia — senza veruna difficoltà — e dando un curioso spettacolo ai pochi abitatori di quelle contrade — sino sulle sponde del lago di Tramandaï — ove furono scaricati — attrezzati del bisognevole, ed abilitati alla navigazione — Il Lago Tramandaï, formato dalle acque scendenti dal pendio orientale _do Espinasso_[33] — ha foce nell'Atlantico — ma con pochissima profondità nella foce — dimodocchè solo nelle alte maree, vi sono circa quattro piedi d'acqua — Si agiunga: che in quella costa alluvionale, ed inospitale come le arene del Saara — il mare è eternamente agitato dalle eterne brezze della zona Torrida — ed i frangenti spaventevoli — percuotendo l'orecchio dell'abitatore, sino a molte miglia nell'interno — fanno l'effetto del tuono lontano — Ed una nube di spruzzi marini, e sabbie mosse dai venti vi abbarbaglia la vista — CAPITOLO XVI. Naufragio. Pronti alla partenza, si aspettò l'ora della piena — ed avventurammo la partenza alle 4 circa p.m. In tale circostanza ci valse molto la pratica nostra a spingere le imbarcazioni tra frangenti — senza di che, non so come avressimo potuto riescire a metter fuori i lancioni — Abbenchè l'ora propria dell'alto flusso — si fosse scelta — non bastava la profondità dell'acqua — Comunque al principio della notte, i nostri sforzi furono coronati da pieno successo — e gettammo l'ancora nell'Oceano, al di fuori de' furiosi frangenti — a circa sei cento metri dalla costa — Si osservi: che barca di nessuna specie era mai uscita dal Tramandaï — Alle 8 circa p. m. facemmo vela da quel punto con piccola brezza da mezzogiorno, che venne mano mano crescendo, sino a diventar bufera — ed alle 3 p.m. del giorno seguente, eravamo naufraghi vicino all'imboccatura del fiume Averinguà, con sedici compagni perduti nell'Atlantico — ed infranto il _Rio-pardo_ ch'io comandavo — nei terribili frangenti di quella costa — Sino dalle prime ore della sera — alla nostra partenza dal Tramandaï — mostravasi il vento da mezzogiorno, apparendo minaccioso — e cominciando a soffiare con violenza — La nostra corsa era parallela alla costa — Il _Rio-pardo_ con trenta persone a bordo, un cannone da dodici, nel centro — _rotante_ — cioè da poter essere puntato in tutte le direzioni — molti attrezzi e proviste per l'equipagio — non prevedendo certamente un temporale così imprevisto, e subitaneo — e non sapendo qual sorte ci toccherebbe in paese nemico — ove si doveva approdare — il _Rio-pardo_ dico: trovavasi imbarazzato, e soperchiato dal mare — in modo — che qualche volta ci tenne per un pezzo sommersi — rimanendo per minuti, tuffati sotto i marosi — La pericolosa situazione in cui trovavasi il piccolo legno — minacciato d'esser soprafatto dalle onde, e rovesciato da un momento all'altro, fece concepire la determinazione d'avvicinare la costa, ed approdarla, comunque fosse — Ma infuriando sempre più la bufera ed il mare — non ci diedero tempo alla scelta del luogo — e fummo travolti da terribile maroso — Io mi trovavo in quel momento alla sommità dell'albero di trinchetto, sperando di scoprire un punto nella costa, ove aprodare con meno pericolo — Il legno fu capovolto sulla destra, e fui lanciato per ciò da quella parte a certa distanza — Io ricordo bene: che, abbenchè in pericolosissima circostanza — non pensai alla morte; ma sapendo di aver molti compagni non marini — e prostratti dal mal di mare — ciò mi martoriava, e cercai di raccogliere, quanti remi, ed altri galleggianti oggetti — mi fu possibile — raccoglierli, avvicinarli a bordo — e raccomandare a tutti di prenderne uno per sorregersi, ed agevolarsi a guadagnar la costa — Il primo individuo, che incontrai stretto ad una sartia[34] — dalla parte sommersa — per ove io potei rientrare a bordo — fu Edoardo Mutra — mio compagno d'infanzia — a cui rimisi un boccaporto[35] — ed a lui raccomandai di non lasciarlo a qualunque costo — Luigi Carniglia, il coraggioso nostr'uomo, che trovavasi al timone al momento della catastrofe — era rimasto aggrapato al bordo, verso i giardini[36] della parte sinistra — cioè la parte non sommersa — Sventuratamente un giacchetone di Calmouk, assai pesante lo serrava talmente, quando imbevuto d'acqua — ch'egli dovendosi tenere per non esser portato via dal mare — trovavasi nell'impossibilità di liberarsene — Me ne fece cenno — ed io corsi in soccorso dell'amico del cuore — Avevo nella sacoccia del pantalone, un piccolo coltello di manico bianco — lo misi alla mano — e cogli sforzi di cui ero capace, principiai a tagliare il colletto, ch'era di velluto — Avevo finito di tagliare il colletto — e con uno sforzo ancora, io scucciva, o stracciava il maledetto! quando un maroso, con orrendo fracasso — avviluppò, e schiacciò: bastimento, e quanti individui a quello afferravansi — Io fui scaraventato nel fondo del mare come un projettile — e quando ricomparvi, stordito dal colpo e dai vortici che mi soffocavano — era scomparso lo sfortunato amico mio per sempre![37] Parte dei compagni, al mio risorgere, comparivano dispersi, e facendo sforzi ognuno per guadagnar la costa — determinazione ch'io dovetti prendere, come gli altri per salvar la pelle — Nuotatore dalla più tenera infanzia, io giunsi tra i primi — e la mia prima cura, posando i piedi sul fermo, fu di girarmi indietro, per osservare la sorte dei compagni — ed Odoardo mi si affacciò non lontano — Egli aveva abbandonato il boccaporto da me raccomandato — o piutosto la violenza del mare, glielo aveva strappato — Nuotava, sì, ma con uno stento — una fatica — indicanti lo sfinimento a cui era ridotto! Io amavo Edoardo, com'un fratello! E mi affannò oltremodo, la disperata sua condizione — Oh! mi sembrava in quei tempi, esser io, più sensibile e generoso! Anche il cuore induriscono, ed inaridiscono gli anni ed i malanni! Io mi slanciai verso il mio caro, per porgerli un legno che aveva servito a salvarmi — Già ero giunto vicino a lui — e confortato dalla grandezza del proposito — io lo avrei salvato quel mio fratello! — E che fortuna sarebbe stata per me! Troppo grande! Un maroso, ambi ci sommerse! Un momento dopo io galleggiai..... chiamai; non vedendolo ricomparire..... e chiamai disperatamente! ma invano! il mio amico di infanzia, era rimasto travolto nei gorghi di quell'oceano — che non avea temuto di varcare per ragiungermi — e per servir la causa d'un popolo — Un altro martire della libertà Italiana, privo d'un sasso, che segni ove furon sepolte le sue ossa nelle arene del nuovo mondo! — I cadaveri di sedici compagni ebbero la stessa sorte — ingojati dal mare — essi furono trasportati dalle correnti a trenta miglia di distanza verso il settentrione — e là sepolti nelle sabbie della costa — Tra i sedici — trovavansi sei Italiani — io settimo, solo mi era salvato: Luigi Carniglia, Edoardo Mutru, Luigi Staderini, Giovanni D. ed altri due che non rammento — tutti forti e prodi giovani — I superstiti, in numero di quattordici, l'uno dopo l'altro tutti aveano approdato — Invano, tra loro, cercai un volto Italiano — Morti tutti! Mi sembravo solo nel mondo! Io vaneggiavo — a quasi mi parea pesante quell'esistenza salvata con tanta fatica — Molti dei compagni, non marini, non nuotatori, si salvarono — Commenti chi vuole! Tra i perduti io contavo altri compagni ben cari: due liberti, un mulato, ed un nero perfetto — Raffaël e Procopio gente d'un valore e d'una fedeltà a tutta prova — Con noi approdava alla costa, un barrile d'acquavite, mi sembrò una fortuna — e dissi a Manuel Rodriguez — ufficiale Catalano —: procuriamo di aprirlo e rinvigorirci coi compagni che vengono aprodando — Si mise mano all'opera di sturare il barrile — ma nel tempo in cui faticavamo per ottenere l'intento, ci colpì un freddo tale — che fu fortuna il ricordarsi di prender a correre — senza ciò fare, certo, saressimo caduti esausti dalla stanchezza e dal freddo — Avendo i panni bagnati, ed essendo il vento freddissimo — era naturale ciò accadesse — Corremmo — corremmo machinalmente lungo la costa verso mezzogiorno — ed incoraggendoci reciprocamente a correre — La sponda del mare faceva schiena e ci riparava alquanto dalla violenza del vento — e nel pendio interno, scorreva l'Areringua, fiume di poca importanza, con direzione a tramontana, e per un gran pezzo, parallellamente al littorale, per sboccare poi nell'Oceano a breve distanza — Seguimmo dunque la sponda destra del fiume — ed alla distanza di circa quattro miglia, trovammo una casa abitata, ove ricevemmo ospitalità completta. La casa che ci accolse ospitalmente — era poco internata in quella maestosa ed immensa foresta del Brasile — certo, una delle maggiori del mondo — di cui già accennammo. In un campestre[38] poco spazioso ergevasi quella casupola, i di cui abitatori erano padre, madre ed un bambino — Intorno ergevansi le annose secolari piante, stupendamente robuste ed alte — ed in un canto del campestre, trovavasi un agrumetto con delle piante, come mai vidi sì belle — e con degli aranci ch'erano una meraviglia — Per naufraghi, fu una ben grata sorpresa! CAPITOLO XVII. Assalto e presa della Laguna di Santa Catterina. Il _Seival_, l'altro lancione compagno, comandato da Grigg, fu più fortunato — Di costruzione diversa del _Rio-pardo_ — abbenchè poco più grande, potè sostenersi contro la violenza del temporale — e seguì felicemente la sua corsa sino al destino — La parte della provincia di S. Catterina, ove naufragammo, per fortuna nostra, erasi sollevata contro l'impero — alla notizia dell'approssimarsi delle forze Republicane; e perciò vi trovammo amici; anzi, vi fummo festeggiati — e trovammo subito se no il necessario, almeno tutto quanto poterono offrire quei generosi abitatori — Ebbimo subito i mezzi di trasporto per congiungerci alla vanguardia del generale Canabarro — comandata dal Collonnello Teixeira — che con marcie rapide, si portava sulla Laguna per sorprenderla[39] — Realmente, poco ebbimo da soffermarci, davanti a quella piccola città — La guarnigione ivi esistente, di circa quattro cento uomini, si pose in ritirata verso tramontana — e tre piccoli legni da guerra, si arresero dopo poca resistenza. Io passai coi naufraghi, a bordo della goletta, _Itaparica_ da sette pezzi di cannoni — La fortuna sorrise talmente ai Republicani, in quei primi giorni dell'occupazione — che sembrava si compiacesse a colmarci di benefici. Non sapendo, e non credendo gl'imperiali ad un'invasione sì subitanea — ma avendo notizie che meditavasi tale spedizione, fecersi premura ad inviare nella Laguna — armi, munizioni, e soldati — Ed ogni cosa giungendo dopo di noi, cadeva conseguentemente in nostro potere. I Cattarinensi ci accolsero come fratelli e liberatori — caratteri che non seppimo meritare durante il nostro soggiorno, fra quelle buone popolazioni — Il Generale Canabarro stabilì il suo quartier generale nella città della Laguna, chiamata dai Republicani Villa Giuliana — per esser nel mese di Luglio l'epoca della conquista — Dico conquista — giacchè da conquistatori fu il nostro contegno in quei paesi che si dovevan trattare fraternamente. Al nostro ingresso, fu eretto un governo provinciale Republicano, di cui fu primo presidente un sacerdote di molto prestigio tra il popolo — Rossetti col titolo di Segretario del governo, ne fu veramente l'anima — e Rossetti era idoneo per tale impiego — Tutto marciava a meraviglia: il collonnello Teixeira, bravissimo Ufficiale, colla prode sua collonna di vanguardia, aveva perseguito i fuggenti nemici, sino a rinchiuderli nella capitale della provincia — ed erasi impadronito quindi, della maggior parte dei paesi, e territorio di quella — In ogni luogo, erano i nostri ricevuti a braccia aperte — e raccoglievano in quantità, disertori degli imperiali, che passavano al servizio della Republica — Mille bellissimi progetti erano fatti dal generale Canabarro, onesto e prode guerriero Republicano — un po' ruvido — ma buono, massime in quei tempi di venture — Egli compiacevasi in dire: che dalla Laguna dovea uscire l'Idra, che divorerebbe l'impero: e forse diceva vero!.... — Se con più senno e provvedimenti si attendeva alla felice spedizione — Ma l'orgoglioso contegno nostro verso i buoni Cattarinensi — amici nostri da principio — e nemicissimi alla fine — l'insufficienza di forze, e di mezzi adoperati in tale importantissima spedizione — ed il mal volere forse, e gelosia verso il nostro generale, da chi dovea eficacemente sostenerlo, e coadjuvarlo — fecero perdere il frutto d'una brillantissima campagna — che poteva esser causa della caduta d'un impero — e del trionfo della Republica su tutto il continente Americano. — CAPITOLO XVIII. Innamorato. Il Generale Canabarro avea deciso dover io uscire dalla Laguna, con tre legni armati, per assaltare la bandiera imperiale nelle coste del Brasile — e mi accinsi all'opera raccogliendo tutti gli elementi necessari all'armamento — In questo periodo di tempo, ebbe luogo uno dei fatti primordiali della mia vita — Io, giammai avevo pensato al matrimonio — e me ne credevo inadeguato, per troppa indipendenza d'indole, e propensione a carriera aventurosa — Aver una donna, dei figli, sembravami cosa interamente disdicevole a chi si era consacrato assolutamente ad un principio — che tuttochè eccellente — non mi avrebbe permesso — propugnandolo col fervore di cui mi sentivo capace — la quiete e stabilità necessarie ad un padre di famiglia — Il destino decideva in altro modo — Io, colla perdita di Luigi, Edoardo, e gli altri miei conterranei — ero rimasto in un desolante isolamento — sembravami esser solo nel mondo — Nessuno più scorgevo dei tanti amici che quasi mi tenevan luogo di patria, in quelle lontane regioni — Nessuna intimità coi miei nuovi compagni, che appena conoscevo — e non un amico, di cui ho sempre sentito il bisogno nella mia vita — Il cambio di condizione poi, erasi attuato d'un modo sì inaspettato ed orribile — ch'io n'era rimasto profondamente affetto — Rossetti, che unico avrebbe potuto riempire il vuoto del mio cuore, era lontano, occupato nel Governo del nuovo Stato Republicano — mi era impossibile quindi goderne il fraterno consorzio — Infine, avevo bisogno d'un essere umano che mi amasse — subito! Averlo vicino, senza di cui, insopportabile mi diventava l'esistenza — Benchè non vecchio — io conoscevo abbastanza gli uomini, per sapere: quanto abbisogna per trovare un vero amico. Una donna! Sì una donna! giacchè sempre la considerai la più perfetta delle creature! E chechè ne dicano: infinitamente più facile, di trovare un cuore amante fra esse. Io passeggiavo sul cassero della _Itaparica_, ravvolgendomi nei miei tetri pensieri; e dopo ragionamenti d'ogni specie, conchiusi finalmente di cercarmi una donna — per trarmi da una noiosa ed insoportabile condizione — Gettai a caso, lo sguardo verso le abitazioni della _Barra_ — così si chiamava una collina piutosto alta, all'entrata della Laguna, nella parte meridionale — e sulla quale scorgevansi alcune semplici e pittoresche abitazioni — Là, coll'ajuto del canochiale che abitualmente tenevo alla mano quando sul cassero d'una nave, scopersi una giovine — Ordinai mi trasportassero in terra, nella direzione di lei — Sbarcai, ed avviandomi verso le case ove dovea trovarsi l'oggetto del mio viaggio — non mi era possibile rinvenirlo — quando m'incontrai con un individuo del luogo, che avevo conosciuto ai primi momenti dell'arrivo nostro — Egli invitommi a prender cafè nella di lui casa — Entrammo, e la prima persona che s'affacciò al mio sguardo, era quella il di cui aspetto mi aveva fatto sbarcare — Era Anita! La madre dei miei figli! La compagna della mia vita, nella buona, e cattiva fortuna! La donna, il di cui coraggio io mi sono desiderato tante volte! Restammo entrambi estatici, e silenziosi, guardandoci reciprocamente — come due persone che non si vedono per la prima volta — e che cercano nei lineamenti l'una dell'altra — qualche cosa che agevoli una reminiscenza — La salutai finalmente, e le dissi: «tu devi esser mia» Parlavo poco il Portoghese — ed articolai le proterve parole in Italiano — Comunque, io fui magnetico nella mia insolenza — avevo stretto un nodo, sancito una sentenza, che la sola morte, poteva infrangere!..... Io avevo incontrato un proibito tesoro — ma pure un tesoro di gran prezzo!!! Se vi fu colpa — io l'ebbi intiera! E.... vi fu colpa! Sì!..... si rannodavano due cuori con amore immenso — e s'infrangeva l'esistenza d'un innoccente!..... Essa è morta! Io infelice! E lui vendicato..... Sì! vendicato! Io, conobbi il gran male che feci, il dì, in cui sperando ancora di riavverla in vita io, stringeva il polso d'un cadavere — e piangevo il pianto della disperazione! Io, errai grandemente ed errai solo! CAPITOLO XIX. Ancora Corsaro. I tre legni armati, e destinati ad un'escursione sull'Atlantico — erano il _Rio-pardo_ (nuovo legno armato cui si diede il nome del naufrago) da me comandato — la _Cassapava_ comandata da Grigg — ambe golette — ed il _Seival_ — lancione portato in carro dalla laguna de los Patos[40] — e comandato dall'Italiano Lorenzo — La foce della Laguna di S. Catterina, era bloccata da legni da guerra Imperiali — Uscimmo di notte, non se n'accorsero, e dirigemmo la corsa verso tramontana. Giunti all'altura di Santos, incontrammo una corvetta imperiale che ci perseguì invano, per due giorni. I bastimenti da guerra Brasiliani, erano certamente men bene comandati — che non lo furono nella loro campagna contro il Paraguay — E certo, con un comandante capace — i poveri piccoli tre legni della Republica, sarebbero stati frantumati in poche ore — avendo noi in tutto tre piccoli pezzi — uno per barco — del calibro: due da 9, ed uno da 12 — Mentre la corvetta aveva venti grandi pezzi in batteria coperta — ed era una vera nave da guerra. Nel primo giorno — la minacciammo d'abordagio — e dopo molto canoneggiamento, prese il largo, e ci lasciò padroni delle acque. Nel secondo giorno, avendo noi avvicinato la costa più del primo — un forte nembo da scirocco mise fine al simulacro d'un combattimento — che per esser combattutto a troppa distanza con il mare grosso — finì per dar nessun risultato. Dopo i due fatti narrati, approdammo nell'isola _do Abrigo_ — ove si presero due sumache (nome che danno i Brasiliani ad una specie di brigantino goletta) cariche di riso — Proseguimmo il corso, e fecimo altre prese — tra cui una sumaca — che, predata da Grigg, e presidiata con pochi uomini suoi — questi uomini furono assaliti dall'equipaggio Brasiliano, e legati per esser condotti prigionieri ai nemici — Fu vera sorte, per quei nostri di cader sotto la nostra prora. Dopo otto giorni dalla nostra partenza tornammo verso la laguna. Io avevo un sinistro pressentimento delle cose nostre in quelle parti — poichè prima di partire, già si manifestava molto malcontento tra i Cattarinensi verso di noi — e sapevasi ravvicinarsi dalla parte di tramontana, d'un forte corpo di truppe imperiali, comandate dal generale Andrea, famoso per la pacificazione del Parà, e per l'atroce sistema di repressione tenuto in quella provincia — All'altura di S. Catterina — nel nostro ritorno verso la Laguna, incontrammo un _Patacho_ da guerra nemico (specie di grande goletta quadrata a prora). Erimo col _Rio-pardo_ ed il _Seival_ — La _Cassapava_ si era staccata da noi, da vari giorni, in una oscura notte. La scoperta del Patacho, fu fatta da prora — mentre con brezza forte veleggiavamo in poppa verso la Laguna di S. Catterina — Il nemico incrocciava apparentemente dall'isola dello stesso nome a levante — e lo scoprimmo colle mura alla sinistra — Il Patacho portava sette pezzi d'artiglieria — ed era vero legno da guerra — Il _Rio-pardo_ aveva un solo pezzo da nove nel mezzo — ed era una piccola goletta mercantile, senza nessuno dei requisiti belligeri — Comunque conveniva far buona contenenza — E dopo d'aver segnalato alle prese, ch'erano tre, di dirigersi verso Imbituba — il _Rio-pardo_ si diresse sul Patacho sino a tiro di moschetto, orzò sulla sinistra, ed attaccò il nemico a cannonate. Il Patacho rispose bravamente — il combattimento però, poco o nessun risultato poteva avere, a motivo del grosso mare — Essendo noi, il più delle volte colla batteria di destra sott'acqua — ed il nemico, con molti tiri, apena potè forarci alcune vele. L'esito del combattimento fu dunque la perdita di due sumache — una delle quali diè alla costa — e l'altra, spaventatosi il Capitano di presa, amainò la bandiera. Una sola presa fu salva, comandata da Ignazio Bilbao, prode ufficiale Biscaïno — ed aprodò nel porto d'Imbituba, in nostro potere. Il piccolo _Seival_, avendo smontato il cannone nel combattimento, per il mare grosso — prese la stessa direzione — Fui dunque obligato d'approdare pure in Imbituba, col vento da Greco, che nella notte variò al mezzogiorno. Con tale vento, era impossibile di entrare nella Laguna — e certamente i bastimenti imperiali da guerra, stazionati all'isola di S. Catterina — informati dall'_Andurinha_ (il patacho con cui avevimo combattuto) sarebbero venuti ad attacarci — Bisognava quindi prepararsi a combattere — Il cannone smontato del _Seival_, fu collocato su d'un promontorio, che formava la baia dell'Imbituba, dalla parte di levante, e vi si costrusse un parapetto gabbionato — Tale lavoro si eseguì di notte — ed appena giorno si scoprirono tre legni imperiali diretti a noi. Il _Rio-pardo_ fu imbossato nel fondo della baia — e la pugna ben ineguale, ebbe principio — essendo gli imperiali incomparabilmente più forti — I nemici favoriti nelle manovre, da piccolo vento che sortiva dalla baia — mantenevansi alla vela con brevi bordate, e cannonegiavano furiosamente — potendo in tal guisa aprire a piacimento, gli angoli di direzione de' loro fuochi tutti concentrati sul povero e solo _Rio-pardo_ da me comandato — Nonostante si combatteva da parte nostra, colla massima risoluzione — e ben da vicino — poichè sino alle carabine erano state poste in opera da ambe le parti. In ragione inversa, delle forze, certamente, andavano i danni — e già la tolda nostra era coperta di cadaveri e di mutilati, crivellati i fianchi del _Rio-pardo_, e distrutti gli attrezzi dell'alberatura — Si era decisi di pugnare sino alla morte, e tal decisione, era corroborata dall'aspetto imponente, dell'Amazzone Brasiliana — Anita! Che non solo, non volle sbarcare — ma prese parte gloriosa all'arduo conflitto — Se noi combattevimo con decisione, non era poco l'ajuto che il prode Manuel Rodriguez — comandante il cannone sulla costa — ci dava con buoni tiri ed eficaci. Il nemico era impegnatissimo contro il _Rio-pardo_ — e varie volte, nel vederlo approssimar molto, io mi aspettavo ad un abordagio — e noi, erimo pronti a tutto, meno a cedere — Infine dopo varie ore di accanito combattimento, a nostra gran sorpresa egli ritirossi. Si disse poi: esser il motivo della ritirata del nemico — la morte del Comandante della _Bella Americana_ (uno dei legni nemici di maggior forza) Noi passammo il resto della giornata a seppellire i morti, e raconciare i danni importanti, sofferti dal povero _Rio-pardo_ — Nel giorno seguente, il nemico si mantenne lontano a noi a prepararci per una nuova pugna — quindi più tardi, protetti dall'oscurità della notte, salpammo per la Laguna, avendo bonacciato il vento da mezzogiorno. Di prima notte avevimo silenziosamente imbarcato il cannone che s'era posto sulla costa — e quando il nemico s'accorse della nostra partenza, noi erimo alquanto avanzati — e solo nella mattina del giorno seguente, ci raggiunse, e sparò alcune cannonate senza colpirci. Noi entrammo nella Laguna di S. Catterina festeggiati dai nostri, che si stupivano, come avessimo potuto scampare ad un nemico, tanto più forte di noi — CAPITOLO XX. Ritirata. Altre faccende, e ben serie, ci aspettavano alla Laguna — Coll'avanzarsi dei nemici, grossissimi per terra — ed il contegno prepotente, con cui si eran trattati i Cattarinensi, spinsero alcune popolazioni a sollevarsi contro la Republica — e fra gli altri il paese d'Imiriù, situato al fondo del Lago verso Libeccio. Il Generale Canabarro mi diede l'esoso incarico di sottomettere quel paese, e per castigo saccheggiarlo. Io fui obligato di adempiere il comando — Ed anche sotto un governo Republicano, è ben repugnante il dover ciecamente ubbidire — La guarnigione ed abitanti avevano fatto dei preparativi di difesa verso il lago — Io sbarcai a tre miglia di distanza a levante — e li assaltai improvvisamente dalla montagna — cioè alle spalle — Sconfitta ed in fuga la guarnigione fummo padroni d'Imiriù — Io desidero per me, ed a chiunque non abbia dimenticato d'esser uomo: di non esser obligato a dar sacco — Credo: che abbenchè vi sieno delle prolisse relazioni di tali misfatti — impossibile sia narrarne minutamente tutte le sozzure, e nefandità — Io mai ho avuto una giornata di tanto rammarico, e di tanta nausea dell'umana famiglia! Il mio fastidio e la fatica sofferta, in quel giorno nefasto — per raffrenare almeno le violenze contro le persone — furono immense — e vi pervenni, credo, a forza di sciabolate — e noncurante della mia vita — Ma circa alla roba d'ogni specie, non mi fu possibile evitare un disordine terribile. Non valse, l'autorità del comando, nè i ferimenti da me usati, e da pochi ufficiali non domi dalla sfrenata cupidigia — Non valse, la voce espressamente sparsa, che il nemico tornasse alla pugna più numeroso di prima — e sorpresi così sbandati ed ebbri, ne avrebbe fatto un maccello — se fosse veramente comparso — Ciocchè non tutto era falso, poichè i nemici vedevansi sulle alture — ma non ardirono attaccarci. Nulla valeva a trattenere gl'insolenti saccheggiatori — e disgraziatamente, quel paese, benchè piccolo, era riccamente provvisto d'ogni genere — massime di bevande spiritose — essendo esso un deposito che provvedeva parte considerevole degli abitatori de' monti. Dimodocchè l'ubbriachezza fu generale — Si noti: che la gente meco sbarcata, io non conoscevo per la maggior parte di nuova leva, ed indisciplinatissima — Certo, se si presentavano cinquanta nemici in tale circostanza, ad attacarci, noi erimo perduti. Infine, con minaccie, percosse, ed uccisioni si pervenne ad imbarcare quelle fiere scatenate — Imbarcaronsi alcune botti d'acquavite, e comestibili per la divisione, e ritornossi alla Laguna. Per dare un altro saggio della classe di genti ch'io comandavo in quella spedizione — valga il fatto seguente: Un sargento tedesco, molto stimato dai soldati, era stato ucciso ad Imiriù — Io ordinai fosse sepellito — ma siccome altro da fare avevano i militi — e poi col pretesto anche, che il cadavere di quel prode meritava d'esser portato alla Laguna, ove ricevere un'onorevole sepoltura — il cadavere del sargento fu imbarcato. Passeggiando io, sulla tolda del bastimento — e vedendo luce nella stiva ove allogiava la maggior parte della gente — mentre in viaggio — io vidi il seguente spettacolo: Il sargento tedesco, alto e corpulento, disteso nel centro d'una folla di gente, le di cui fisionomie avvinazzate, eran tutt'altro che gentili — e su quei ceffi poi, riverberandosi il chiaro d'alcune candelle di sego, piantate nel collo di bottiglie collocate sulla pancia del cadavere — facevan l'effetto di certi demoni, rappresentanti giucatori d'anime a tre sette o a briscola — E tali me li ricordo ancora quei depredatori dei poveri abitanti d'Imiriù, giuocando sulla pancia del cadavere d'un loro compagno il prodotto dei loro furti. Intanto la vanguardia nostra, col collonnello Teixeira, ritiravasi davanti al nemico, che si avanzava dal Settentrione, celeremente, e fortissimo. Nella Laguna principiavasi a passare i bagagli della divisione sulla sponda destra della Barra — e presto bisognò pensare a passar la truppa. CAPITOLO XXI. Combattimento ed incendio. Nel giorno della ritirata, e passaggio nostro sulla sponda destra, di tutta la divisione, con molto materiale, io ebbi il mio da fare — poichè, se non molta numerosa era la gente — la maggior parte era cavalleria, e molto spazioso il tratto di mare, che doveva varcarsi, e correntoso. Io faticai dunque dalla mattina, sino verso mezzodì — impiegando quanti palischermi erano a mia disposizione — per passar tutto — E m'avviai quindi verso l'entrata della Laguna, in alta posizione, per osservare i legni nemici che s'avanzavano, in combinazione colla truppa di terra, e carichi essi stessi di molta truppa. Pria di salire la montagna, io feci avvertire il Generale: che il nemico si disponeva a forzare l'entrata della Barra — operazione di cui io non dubitava, avendo veduto le manovre della squadra nemica, dal punto stesso ove stavo effetuando il passagio — Giunto poi sull'alto, me ne accertai indubitatamente. Erano i legni nemici in numero di ventidue — non barchi di grande portata — ma adeguati alla profondità della foce del lago — Ripetei quindi immediatamente l'avviso al generale Canabarro — e non v'era tempo da perdere — Però, fosse titubanza per parte del Generale, o veramente avesse la gente, indispensabile bisogno di mangiare, e riposarsi alquanto — il fatto fu: che nessuno giunse a tempo, per coadjuvare alla difesa della foce — in un punto, ove se fosse stata collocata la fanteria nostra — potevasi fare una strage di nemici. Invece, la resistenza fu eseguita dalla batteria, situata sulla punta orientale, comandata dal valoroso Capitano Capotto — ma che, per poca pratica degli artiglieri — e cattivo stato dei cannoni — pochissimo danno fece — Lo stesso successe, a bordo dei tre piccoli legni della Republica da me comandati — ove gli equipagi erano scarsi — ed in quel giorno, molti ed i migliori, erano rimasti occupati a passare il resto della divisione — ed altri restii sulla costa, per non esporsi a combattimento tremendo e disuguale — Io scesi la montagna, e fui celeremente al mio posto, a bordo del _Rio-pardo_ — e giunsi, che già l'incomparabile mia Anita, colla solita intrepidezza, già aveva sparato la prima cannonata, puntata da lei stessa — ed animando colla voce le ciurme sbigottite — Il combattimento durò poco, ma fu micidiale — non morì gran numero di gente — perchè ve n'era poca a bordo — degli ufficiali esistenti nei tre legni, però, io rimasi solo — in vita — La squadra nemica, entrò tutta, facendo un fuoco d'inferno con artiglieria e moschetti — Favorita dal vento e dalla corrente che ne radoppiava la velocità essa ebbe poco danno — e gettò l'ancora a tiro di cannone da noi, continuando a cannonegiarci, con pezzi di calibro superiore ai nostri. Io chiesi della gente al generale Canabarro — per poter continuare la pugna — ma ebbi in risposta di dar fuoco ai legni nostri, e ritirarmi colla gente in terra. In tale missione, avevo mandato Anita — ingiungendole di non tornare a bordo — ma essa non mandò — tornò colla risposta — E veramente io dovetti all'ammirabile sangue freddo della giovine eroina — il poter salvare le munizioni da guerra. Seguitando il nemico a fulminarci colle sue artiglierie — ed io, quasi solo, dovendo incendiare la piccola nostra flottiglia, ebbi molto da faticare per eseguirne l'intento. Ebbi pure a sopportare il doloroso spettacolo dell'incendio dei cadaveri de' miei fratelli d'armi, impossibilitato di dar loro altro genere di sepoltura — o far loro gli onori che meritavano. Passando successivamente a bordo dei vari legni nostri per incendiarli — vi era un maccello di cadaveri e di membra sparse — per la tolda — Il comandante della _Itaparica_ — Juan Enrique del paese della Laguna, lo trovai tra altri cadaveri passato nel mezzo del petto da un _biscaïno_ (metraglia tonda di ferro) Il Comandante della _Cassapava_ — Giovanni Grigg — aveva ricevuto tale una mitragliata, e sì da vicino, che il solo busto rimaneva intiero del suo cadavere — E siccome era rubicondo di volto ed essendo rimasto apogiato alla murata dalla parte opposta da dove era stato colpito ei somigliava vivo. In pochi minuti, le ceneri di quei valorosi compagni eran sommerse dalle onde!!! e più non esistevano le navi, quei miseri spauracchi dell'impero — ma terribili, che lo dovean divorare — secondo il detto del generale Canabarro. Cadea la notte, quando io riuniva i superstiti compagni, e marciava alla coda della divisione, in ritirata verso il Rio-grande — per la stessa strada, che percorremmo pochi mesi prima gonfio il cuore di speranze, e preceduti dalla vittoria. CAPITOLO XXII. Vita militare per terra — Vittoria e sconfitta. Tra le peripezie non poche della mia vita procellosa — io non ho mancato d'avere bei momenti — e tale, abbenchè sembra, avrebbe dovuto esser il contrario — era quello, in cui alla testa di pochi uomini, avanzo di molte pugne — e che giustamente avean meritato il titolo di valorosi — Io marciava a cavallo con accanto la donna del mio cuore — degna dell'universale ammirazione — e lanciandomi in una carriera, che più ancora di quella del mare, aveva per me attrative immense. ¿E che m'importava il non aver altre vesti, che quelle che mi coprivano il corpo? E di servire una povera Republica, che a nessuno poteva dare un soldo? Io, avevo una sciabola ed una carabina, che portavo attraversata sul davanti della sella. La mia Anita, era il mio tesoro, non men fervida di me, per la sacrosanta causa dei popoli — e per una vita avventurosa — Essa si era figurato le battaglie, come un trastullo — ed i disagi della vita del campo come un passatempo — Quindi comunque andasse, l'avvenire ci sorrideva fortunato — e più selvaggi, si presentavano gli spaziosi Americani deserti — più dilettevoli e più belli ci pareano. Poi sembravami d'aver fatto il mio dovere, nelle diverse e pericolose fazioni di guerra in cui m'ero trovato — e d'aver meritato la stima, dei bellicosi figli del Continente (Rio-grande). Noi marciammo dunque in ritirata sino a _las Torres_ — limite delle due provincie — ove stabilimmo il campo — Il nemico contentossi d'impadronirsi della Laguna, e non c'inseguì. In combinazione però col corpo di Andrea — avanzavasi per la _Serra_ (monti e foreste) la divisione Acuñha, venuta dalla provincia di S. Paolo — per tagliarci la ritirata — e dirigendosi per _Cima da Serra_ (departamento nelle montagne, appartenente alla provincia del Rio-grande) I Serrani, soprafatti da forze superiori, chiesero soccorso al generale Canabarro — ed egli dispose una spedizione agli ordini del Collonnello Teixeira, in aiuto di quelli — Noi fecimo parte della spedizione — Riuniti ai Serrani, comandati dal Collonnello Arañha, battemmo complettamente in Santa Vittoria, la Divisione Acuñha — Morì nel fiume Pelotas il generale nemico, e la maggior parte di quella truppa rimase prigioniera. Tale vittoria, rimise sotto l'autorità della Republica, i tre dipartamenti di Lages, Vaccaria, e Cima da Serra — Dopo alcuni giorni entrammo trionfanti in Lages (Gennaio 1840). Intanto l'invasione imperiale aveva rialzato codesto partito in Missiones, ed il Collonnello Mêlo, imperiale, aveva accresciuto in quella provincia il suo corpo — a circa cinquecento uomini di cavalleria — Il Generale Bento Manuel destinato a combatterlo s'era contentato d'inviare il Tenente Collonnello Portiñhos, che per non aver forze sufficienti limitossi ad osservare Mello, che si diresse verso S. Paolo. La posizione nostra e possanza — ci metteva in caso non solo di opporsi al passaggio di Mello — ma di sconfigerlo — Così non volle la sorte — Il collonnello Teixeira incerto: se il nemico verrebbe per Vaccaria — o per altra via chiamata: i Coritibani, divise in due la forza: mandò il collonnello Aranha colla miglior parte, e migliore cavalleria della Serra in Vaccaria — e marciò lui colla fanteria — e parte di cavalleria composta per la maggior parte di prigionieri di S. Vittoria, verso i Coritibani — E per questa parte apunto si diresse il nemico. Il frazionamento delle nostre forze, ci riescì fatale: la recente nostra vittoria, l'indole ardimentosa del nostro capo, dei Republicani in generale — e le informazioni avute del nemico, che ne menomavano la forza, ed il morale, ce lo fecero disprezzare oltremodo — In tre giorni di marcia fummo ai Coritibani, e campammo a certa distanza del passo di Maromba, per ove si supponeva dovesse arrivare il nemico — Si posero guardie in quel passo, ed in altri punti necessari a guardare. Verso la mezzanotte, la guardia del passo, fu attaccata dal nemico, con tanta furia, che appena ebbe tempo di ripiegarsi, scambiando alcune fucilate — Da quel momento sino all'alba stettimo con tutte le forze, pronte al combattimento — Non fu tarda l'apparizione del nemico, il quale avendo passato il fiume con tutta la sua gente — erasi schierato non lungi da noi, in atto pure di combattere. Tutt'altro che Teixeira, vedendo la superiorità del nemico, avrebbe spedito celeremente ad Aranha per richiamarlo a noi — ed intanto procurato di trattener il nemico sino alla giunzione — Ma l'arditissimo Republicano, temete non gli sfuggisse il nemico — e perdere l'occasione di combatterlo. All'attacco dunque! E non valse la vantaggiosa posizione in cui il nemico si trovava. Mello profitando dell'ineguaglianza del terreno — avea formato la sua linea di battaglia, sopra una collina assai alta, davanti alla quale trovavasi una valle assai profonda, ed intralciata da folti cespugli — egli aveva coperti sui suoi fianchi, alcuni plottoni di cavalleria non veduti da noi. Teixeira ordinò di attacarlo, con una catena di fanteria, e profitare per ciò degli ostacoli della valle — Fu eseguito l'attacco, ed il nemico simulò di ritirarsi — Ma mentre la nostra catena, dopo d'aver varcato la valle perseguiva il nemico a fucilate — fu essa stessa caricata di fianco da uno squadrone coperto, dal fianco destro del nemico, ed obligata di ripiegarsi in disordine, e riconcentrarsi sul grosso della forza. Morì, in quell'incontro, uno dei più valorosi ufficiali nostri, Manuel N. e molto caro al nostro capo. Riforzata la catena, e riportata avanti, con più risoluzione, il nemico retrocesse finalmente, e si pose in ritirata, lasciando un cadavere de' suoi sul campo. Pochi furono i feriti d'ogni parte — poichè poca gente d'ambi i lati avea preso parte alla pugna. Intanto ritiravasi il nemico con precipitazione — e noi lo perseguimmo senza posa — Ambe le catene di cavalleria, della vanguardia nostra e retroguardia del nemico — scaramucciavano — e così, per nove miglia circa — essendo noi obligati di lasciar la fanteria molto addietro — non potendo certamente tenersi a paro, colla celerità dei cavalli — ad onta d'ogni sforzo — Di tale circostanza, profittò il nemico, o la suscitò lui stesso — Giunta la nostra vanguardia, sull'alto del passo di Maromba — il comandante della stessa, maggiore Giacinto — mandò un messo al Collonnello, per avvertirlo, che il nemico passava il guado — e che già il _ganado_[41] e le _cavalladas_[42] erano dall'altra parte — Indizio: che il nemico continuava a ritirarsi — Il valoroso Teixeira, non esitò un momento, e comandò si mettessero i plottoni nostri di cavalleria al trotto, per poter attaccare il nemico, dell'atto del passaggio, e sbaragliarlo — Mi ordinò pure: di fare ogni sforzo colla fanteria per seguirlo. L'astuto Mello, aveva manovrato per ingannarci: Egli avea fatto marciare i suoi plottoni, con precipitazione, per toglierli dalla nostra vista — e giunto nelle vicinanze del fiume Coritibano — fece bensì passare all'altra sponda, i bovi ed i cavalli — ma la truppa la schierò dietro certe colline, sulla nostra sinistra, che la nascondevano intieramente. Prese tali misure — avendo lasciato un plottone di protezione alla sua catena di tiratori — e scorto ch'egli ebbe la fanteria nostra a molta distanza — retrocesse coperto dalle alte colline sulla nostra sinistra, ed uscendo improvviso, con una conversione a sinistra, attaccò l'uno dopo l'altro, i nostri plottoni di fianco e li sbaragliò complettamente. Il plottone nostro, di sostegno alla nostra catena che incalzavano il nemico colle lancie nei reni, fu il primo ad avvedersi dell'errore — ma non avendo nemmeno tempo di convergere — ebbe la sorte di tutti gli altri. Lo stesso successe a tutti — Malgrado il coraggio e la risoluzione di Teixeira — e di alcuni ufficiali Rio-grandensi valorosissimi — Ed in poco tempo la cavalleria nostra presentava il vergognoso spettacolo d'un gregge di pecore in fuga. A me, non era piaciuto il lasciare tanto indietro la nostra fanteria, essendo la cavalleria composta di elementi poco fidi — per la maggior parte, uomini stati fatti prigionieri in Santa Vittoria — Perciò io sforzavo i miei fanti a tutta possa — per inoltrarli al combattimento — ma invano — Giunto ad un'altura, io vidi lo strazio dei nostri, e conobbi non esser più tempo d'influire sulla vittoria — ma procurare di non perder tutto — Chiamai a voce una dodicina de' più svelti, e più intrepidi de' miei marini, che presero il trotto alla mia voce — benchè già stanchi dalla lunga e forzata marcia — e li feci prender posizione in un sito forte per fanteria — dominante non solo ma irto di roccie e di cespugli — Da quel punto principiammo a far testa al nemico, ed a insegnarli che non era vittorioso ovunque. In quel punto si ripiegò il Collonnello, con alcuni ajutanti, dopo d'aver tentato ogni sforzo, con indicibile coraggio — per arrestare i fuggenti. La fanteria col Maggior Peixotto, che la comandava ai miei ordini — ci raggiunse, nella stessa posizione, e fu terribile allora la difesa, e molto micidiale al nemico. Noi perdemmo molti fanti di coloro che rimasti indietro, furono involti co' fuggitivi nostri di cavalleria, e quasi tutti uccisi. Intanto forti del sito, e riuniti in numero di settantatre, noi combattevamo il nemico con vantaggio — essendo esso privo di fanteria, e poco avvezzo a combattere tal'arma — Nonostante il vantaggio nostro — noi ci trovavamo in una posizione isolata — e conveniva di cercare un ricovero più sicuro, e da dove si potesse imprendere una ritirata senza esser molestati dal nemico — E sopratutto non dare al nemico vittorioso, il tempo di rannodare tutte le sue forze, ed ai nostri quello di raffredarsi. Un _capon_ (Isola d'alberi e folta) trovavasi alla nostra vista, distante circa un miglio — noi imprendemmo la ritirata alla direzione di quello. Il nemico procurava di avviluparci nel transito, e ci caricava a scaglioni, ogni volta il terreno glielo permetteva — In tale circostanza ci valse moltissimo: esser gli ufficiali armati di carabina — e siccome tutti aguerriti, respingevansi le cariche del nemico, a piè fermo, con impavida intrepidezza — In tal modo, giunsimo a ricoverarci nel _capon_, ove non ci molestò più il nemico — Internati alquanto nel bosco, noi scelsimo un sito chiaro di piante, e riuniti, colle armi pronte, stettimo riposando, ed aspettando la notte. Il nemico fece alcune intimazioni di resa, dal di fuori — a cui non rispondemmo — CAPITOLO XXIII. Ritorno in Lages. Giunta la notte fecimo alcuni preparativi per la partenza — La maggior difficoltà fu per i feriti — tra cui il maggior Peixotto, con una palla in un piede — Verso le 10 di sera, accomodati nel miglior modo i feriti, s'incominciò la marcia costeggiando il _capon_, che si lasciava a destra — e cercando di guadagnar la costa del _Mato_ (foresta) — quella foresta forse la maggiore del mondo, stendesi dagli alluvioni del Plata, sino a quelli dell'Amazzone[43] coronando le creste _da Serra do Espinasso_ (Spina dorsale del Brasile), in una estensione di circa trenta quattro gradi di latitudine — Non conosco l'estensione sua in longitudine, probabilmente immensa — I tre dipartimenti di Cima da Serra, Vaccaria, e Lages, sono _campestres_ in mezzo alla foresta, cioè campi attorniati da quella — Coritibanos, situato nel dipartimento di Lages, provincia di Santa Catterina — era il teatro del mio raconto — così chiamato dagli abitanti venuti da Coritiba, paese nella provincia di S. Paolo. Dunque noi costeggiavimo il _capon_, per avvicinarci alla Selva suddescritta, cercando la direzione di Lages, per riunirci al corpo d'Aranha — da noi sventuratamente staccato — Successe all'uscita nostra dal _capon_, uno di quei casi — che provano quanto l'uomo è figlio delle circostanze, e quanto può il terror panico sugli uomini anche i più intrepidi — Si marciava in silenzio — e com'era naturale, disposti a combattere se s'incontrava il nemico — Ebbene — un cavallo, che probabilmente avea perduto il cavaliere nella giornata — e che trovavasi colle redini, morso, e sella, procurando di malamente pascolare — al poco rumore da noi fatto quell'animale si spaventò e prese a fuggire. Odesi una voce che dice «il nemico» e tutti assieme, vidersi precipitarsi nel più folto del bosco, quegli stessi settantatre uomini — che per più ore s'erano battutti contro cinquecento nemici! e precipitarsi in tal modo, che ad onta di perder molte ore per raccoglierli — fu impossibile, di riunirli tutti — e se ne perdettero vari — Raccolti alla meglio, ripresimo strada; ed allo spuntar dell'alba, erimo sull'orlo desiato della grande foresta — costeggiando alla direzione di Lages — Il nemico ci cercò il giorno seguente — ma non ci rinvenne — essendo noi già lontani. Il giorno del combattimento fu terribile per operosità, privazioni, e disagi — ma si combatteva — e quell'idea soverchiava ogni altra — ma nella foresta ove mancava il consueto alimento — la carne — ed ove, altro da mangiare non si trovava — era un affare serio — Stettimo quattro giorni, senza provare altro cibo, che radici di piante. Sono indescrivibili poi, le fatiche da noi provate per tracciarci una via, ove non esistevano sentieri; ed ove la natura, incomparabilmente prolissa, e gagliarda, ammontichia sotto pini collossali dell'immensa selva, la gigantesca _taquara_ — (canna o bamboù) le di cui reliquie, ammassate su quelle delle altre piante — formano insuperabile strame, suscettibile d'inghiottire, e seppellire un individuo, che incautamente vi affidasse il piede — Molti dei compagni, scoraggiavansi — alcuni disertarono — e fu mestieri riunirli, ed energicamente imporre loro: che meglio era manifestarsi apertamente sulla volontà di accompagnarci — e che liberi si lasciavan coloro, che volessero andarsene — Tale risoluzione fu eficacissima — da quel momento, non ci furon più diserzioni — ed entrò la fiducia di salvezza — Il quinto giorno, da quello del combattimento — giunsimo all'entrata della _piccada_ (sentiero tagliato nella selva, e che conduceva a Lages) — ove incontrammo una casa — ed ove ci sfamammo maccellando due bovi — Fecimo due prigionieri in detta casa — appartenenti allo stesso nemico che ci avea battuti — Seguimmo quindi per Lages, ove arrivammo in un giorno di pioggia — CAPITOLO XXIV. Soggiorno in Lages — Discesa della Serra — e combattimento. Il paese di Lages, che festeggiato ci aveva al nostro arrivo — quando vittoriosi — aveva alla notizia del nostro rovescio ai Coritibani — voltato bandiera; ed alcuni più risoluti, avevano ristabilito il sistema imperiale — Quegli ultimi, fuggirono all'apparizione nostra, e siccome erano mercanti la maggior parte — ed i più ricchi — essi ci lasciarono i loro magazzeni provvisti d'ogni ben di Dio — Ciò valse a provvederci del bisognevole, e migliorare la condizione nostra — Intanto Teixeira scrisse ad Aranha, ordinandoli di riconcentrarsi — ed ebbesi, circa in quei giorni, notizie della venuta del Tenente Col.llo Portinhos — che colla sua collonna — era stato inviato dal generale Bento Manuel,[44] in seguimento della forza stessa di Mello incontrata da noi, infelicemente ai Coritibanos — Ho servito in America la causa dei popoli, e l'ho sinceramente servita — siccome ovunque ho combattutto il despotismo — Amante del sistema Republicano idoneo alle mie condizioni — io fui contrario per le stesse al sistema opposto — Gli uomini!...... gli ho piutosto compianti che odiati — rimontando alle cause del male — cioè all'egoismo della sciagurata nostra natura — Lontano poi — oggi (1850) — dal teatro, ove compironsi i fatti ch'io sono a descrivere — posso narrarli con pacatezza ed esser creduto imparziale — Voglio dunque asserire: che arditissimi, eran codesti prodi figli del Continente[45] ed audacissima fu l'occupazione nostra di Lages — occupazione che tenemmo per vari giorni — disposti a difenderci contro un nemico dieci volte superiore, vittorioso, e divisi da lui dal solo fiume Canoas, che non potevimo difendere — Con gli ausiliari nostri ben lontani — Molti giorni passarono, pria dell'arrivo di Aranha, e Portinhos — ed in tutto quel periodo fu tenuto a bada il nemico con un pugno d'uomini — Appena giunti i rinforzi suddetti — si marciò risolutamente al nemico — che non accettò di combattere, ma ritiravasi quando incalzato — apogiandosi sulla provincia di S. Paolo, da dove dovevano giungerli considerevoli ajuti di fanteria e cavalleria — Qui sentimmo il difetto, che sentiva generalmente l'esercito Republicano — cioè, il non voler permanere i militi sotto le bandiere, quando non si trattava di combattimenti immediati — Vizio sentito anche nell'esercito di Washington — ed in qualunque esercito, in cui la vera disciplina del milite della libertà non è apprezzata — Disciplina che deve nascere nel milite dal convincimento del dovere — e molto diversa dalla disciplina forzata del soldato del despotismo — In questo caso il soldato — o è tolto per forza da' suoi focolari, ed obligato di ubbidire ad un padrone — a qualunque atto malvagio egli sia comandato — oppure è un soldato mercenario, venduto corpo e anima a chi lo paga, e disposto per indole a commettere atti, di cui si vergognerebbe un lupo. Il milite cittadino appartenente a nazione libera — va sotto le bandiere, quando chiamato — perchè la patria è minacciata da prepondenti — Egli dà volenteroso la sua vita in difesa del suo paese e de' suoi cari — e non abbandona l'esercito nazionale, senonchè quando il pericolo è passato, e quando congedato dai suoi capi. L'esercito Republicano del Rio-grande, composto per la maggior di militi cittadini valorosi — che però non intendevano rimanere alle bandiere — quando nel loro criterio pensavano non esser tempo di combattere, ed essere il pericolo della patria passato — si allontanavano dalle fila, senza aspettare l'ordine dei capi — Tale vizio, fu quasi rovina nostra in tale circostanza — ove un più intraprendente nemico, avrebbe potuto schiacciarci, profitando di quel disordine, e della nostra debolezza — Principiarono i Serrani — gente delle montagne circonvicine — ad abbandonare le fila — e condurre seco loro non solo i propri cavalli, ma pure quelli appartenenti alla divisione — Quei di Portinho, gente della provincia di Missiones — seguirono l'esempio — E presto si diradò la forza nostra in tal modo — che fummo obligati di abbandonare Lages, e ripiegarsi sulla provincia del Rio-grande, temendo l'avvicinamento del nemico, contro cui non avressimo potuto sostenerci — Il resto della forza — così menomata — mancante del necessario, particolarmente di vestimenta in un paese di montagna, ove il freddo, cominciava a divenir insopportabile — stava demoralizzandosi, e ad alta voce si chiedeva di tornare ai focolari — cioè nella parte bassa, ed aprica della provincia — La provincia del Rio-grande è divisa in due regioni: la bassa limitata a levante dall'Atlantico, ed a ponente e maestro della _Serra do Espinasso_ — è regione quasi tropicale, per mite temperatura; il cafè, il zucchero, gli aranci, ecc. — beano quella felice contrada — che ha di più il vantaggio d'immensa quantità di bestiame — ed una bellissima popolazione forte a cavallo quanto i figli delle provincie del Plata; l'alta regione — della Serra — con un temperatura assai più fredda — possiede le frutta tutte, che appartengono a clima più rigido — cioè: pomi, pere, pesche, ecc. — ed è coronata dall'estremità meridionale dell'immensa foresta, di cui accennai antecedentemente — ed i cui pini giganteschi vi fanno l'effetto di collonne di templi. Il collonnello Teixeira, fu dunque obligato di cedere a tali esigenze — e mi ordinò di scendere la Serra cogli avanzi della fanteria, e della marina — e di riunirmi all'Esercito — preparandosi, esso pure a seguirci colla cavalleria — Quella discesa fu ardua, per le difficoltà della strada, e le ostilità accanite degli abitanti della contrada, nemici accerrimi dei Republicani — Cosa strana, eppur verissima: la classe dei contadini — che più d'ogni altra, dovrebbe amare un reggimento libero — lo detesta, e lo combatte! Noi scesimo per la _piccada_ (sentiero nella foresta) di Peluffo — erimo in sessanta circa — ed ebbimo ad affrontare terribili imboscate — oltrepassate con incredibile fortuna, grazie alla risolutezza degli uomini ch'io comandavo — ed alla poca pratica di combattimenti de' nostri nemici — Siccome il sentiero che si percorreva era strettissimo, e tagliato in foltissima selva — il nemico, indigeno, e perciò peritissimo dei luoghi — sceglieva i siti più scabrosi per imboscarsi — irrompeva con furia, e grida tremende su di noi — mentre dalle parti più folte ci fulminava a fucilate — Eppure, tanta paura incutì in quei montanari, l'intrepido contegno nostro — che un solo cavallo morto noi ebbimo, e varie, ma leggiere ferite agli individui — Giunsimo al quartier generale in _Malacara_ — distante 12 miglia da Porto-Alegre ove si trovava il Presidente Bento Gonçales — allora Generale in capo — CAPITOLO XXV. Combattimento di fanteria. L'esercito Republicano era in preparativi di marcia quando noi lo ragiungemmo — Il nemico, dopo la perdita della battaglia di Rio-pardo — rifatosi in Porto-Alegre, n'era uscito agli ordini del vecchio generale Giorgio, ed aveva preso stanza sulle sponde del fiume Cahò — protetto da' suoi legni da guerra, con numerosa artiglieria, riforzato di buon nerbo di fanteria — ed aspettando la giunzione del generale Calderon, che avea riuniti nella campagna un numero di cavalleria, non indifferente — venendo dal Rio-grande — L'impero con tutti i mezzi di corruzione, di cui poteva disporre — non mancava d'aderenti nella provincia del Rio-grande — paese, ove si può dire come nel Rio della Plata: che gli uomini nascono a cavallo — ed ove lo stesso spirito cavalleresco — fa bellicosi gli abitanti — Ma non tutti gli uomini per cavallereschi che sieno, resistono alle indorature, ai titoli, ai ciondoli, e sopratutto all'onnipossente metallo. Lo stesso difetto, che abbiam notato sopra — cioè la repugnanza dei Republicani, di star riuniti alle bandiere, quando non era presente il nemico — facilitava tali mosse allo stesso — E quando il Generale Netto — che comandava le forze Republicane della campagna — ebbe riunito gente sufficiente per battere Calderon — questo già erano riunito all'esercito grande nel Cahò, dopo d'aver riuniti molti cavalli di cui tanto abbisognavano gl'imperiali — E quindi con grande superiorità, il Generale Giorgio minacciava gli assedianti la capitale, e li obligava a levar l'assedio — Era indispensabile, per il presidente della Republica, congiungere la divisione Netto — per esser in istato di combattere l'esercito nemico — e tale giunzione condotta a buon'esito, onora moltissimo la capacità militare di Bento Gonçales — Ad un esercito Europeo, per motivo delle impedimenta sarebbe stata impossibile tale manovra — Noi, marciammo coll'esercito da Malacara — prendendo la direzione di S. Leopoldo (colonia Tedesca) — passammo di notte a due miglia dell'esercito nemico — ed in due giorni e due notti di marcia continua quasi senza mangiare, giungemmo nelle vicinanze di Taquary, ove incontrammo il generale Netto — che ci veniva incontro. Dissi: quasi senza mangiare — e realmente — Subito che il nemico ebbe sentito il movimento nostro — marciò forzatamente per combatterci — e ad onta d'esser molto più pesante di noi, perchè con artiglierie e bagagli — per varie volte ci ragiunse, mentre noi riposavamo dalle lunghe marcie — ed erimo occupati ad arrostir la carne — unico alimento nostro — e per varie volte ci obbligò di metter gli arrosti[46] in spalla, e partire con precipitazione — per ragiungere la meta — Nel Piñheiriño, a sei miglia di Taquary, si fece alto — e si presero tutte le disposizioni per combattere — L'esercito Republicano forte di cinque milla uomini di cavalleria, e mille di fanteria — occupava le alture de Piñheiriño — piccolo monte semi-coperto di pini — l'infanteria nel centro, comandata del vecchio Collonnello Crescenzio — l'ala destra comandata dal generale Netto; e la sinistra dal generale Canabarro — Ambe le ali erano composte di pura cavalleria — e senza esagerazione, della migliore del mondo — abbenchè Farrapa[47] — La nostra fanteria, composta in totalità d'uomini di colore — meno gli ufficiali, — era pure eccellente — e la brama di combattere generale — Il collonnello Joân Antonio formava la riserva con un corpo di cavalleria — Il nemico avea quattro milla fanti, tre milla di cavalleria, ed alcuni pezzi d'artiglieria — Egli avea preso posizione dall'altra parte del letto d'un piccolo torrente, che divideva i due eserciti — ed il suo contegno non era disprezzevole — Eranvi le migliori truppe dell'impero — ed il vecchio generale Giorgio che le comandava era tenuto per il più capace — Il general nemico, aveva sino a quel punto, marciato arditamente su di noi, e già avea preso tutte le disposizioni — per un attacco in regola — Egli avea fatto passare il letto asciuto del torrente, da due battaglioni di fanteria — che formaron quadrato, subito passati — Due pezzi collocati in posizione vantaggiosa sull'altra sponda, fulminavano le nostre catene di cavalleria, ed i loro sostegni. Già i valorosi della prima brigata di cavalleria agli ordini del generale Netto avevano sguainato la sciabola, e non aspettavano che il suono di carica, per lanciarsi sui due battaglioni passati — Codesti bellicosi figli del Continente, avevan la coscienza della vittoria — Netto, e loro, non erano mai stati battuti — La fanteria nostra, con bandiere spiegate — scaglionata per divisioni, sul più alto della collina, e coperta dal ciglione di quella, fremeva di combattere. Già i terribili lancieri di Canabarro — tutti liberti, e tutti domatori di cavalli — avean fatto un movimento avanti — avvilupando il fianco destro del nemico — obligato perciò di far fronte anche a destra — e disordinatamente — I coraggiosi liberti — fieri della loro imponenza diventavano più soldi — e vera selva di lancie somigliava quell'incomparabile corpo — composto di schiavi, liberati dalla Republica, e scelti tra i migliori domatori della provincia — tutti neri tranne gli ufficiali superiori — Il nemico non aveva mai veduto le spalle di cotesti veri figli della libertà — che certo combattevan per essa — Le loro lancie, più lunghe della misura ordinaria — i loro nerissimi volti — le robuste membra, indurite a perenne, e faticoso esercizio — e la loro perfetta disciplina, incutevano terrore ai nemici — Già la voce animatrice del generale in capo — aveva percorso le fila — «Oggi ognun di noi combatterà per quattro» erano state le poche parole di quel Sommo — dottatto di tutte le qualità del gran Capitano, meno la fortuna! L'anime nostre, sentivano il palpito delle battaglie, e la fiducia della vittoria — Giorno più bello, e più magnifico spettacolo non erami capitato mai![48] Collocato al centro della fanteria nostra nel sito più alto — io scopriva l'uno e l'altro esercito — I campi sottoposti, seminati da poche e basse piante nessun ostacolo ponevano all'occhio — e si potevano scorgere i benchè minimi movimenti. Lì, sotto ai miei piedi.... tra pochi minuti, sarà decisa la sorte del maggior pezzo del continente Americano — il Brasile! Deciso il destino d'un popolo! Codesti corpi, sì compatti, sì floridi, sì brillanti — a momenti saranno sciolti, disfatti, orribilmente amalgamati, e respiranti libidine di distruzione! Tra poco — il sangue, l'infrante membra, i cadaveri, di tanta superba gioventù — brutteranno i bellissimi e vergini campi! Eppure si aspettò, si anelava il segno della battaglia...... Ma invano!....... quello non doveva essere il campo della strage! Il generale nemico, intimorito dal fiero contegno dei Republicani — e dalla fortissima posizione da noi occupata — esitò nell'attacco anteriormente divisato — fece ripassare i due battaglioni — e dall'offensiva che aveva mostrato sin lì — passò alla difensiva. Il generale Calderon fu ucciso in una ricognizione — quello fu forse uno dei motivi dell'irresoluzione di Giorgio. Non attaccandoci, noi dovevimo attaccarlo — Tale era l'opinione di molti — Ma avressimo ben fatto? Attaccati nelle superiori posizioni del Piñheiriño — eravi molta probabilità di vittoria — ma lasciandole — e per incalzare il nemico, bisognava traversare il letto del torrente — alquanto scabroso, benchè asciuto — poi la superiorità numerica della fanteria nemica, non era poca — Esso con artiglieria — noi senza un solo pezzo — Infine non si combattè, e si stette l'intiero giorno in presenza, con piccole scaramuccie — È uno dei vizi delle posizioni troppo forti, e sovente anche del comodo delle piazze di guerra — che fanno propendere al riposo, ed all'inazione — quando si potrebbe trar molto vantaggio dalla risoluzione d'una battaglia. Tanti sono gli esempi che si potrebbero adurre in apogio di tale ragione — ed è da deplorare l'avviso dei mastri di guerra Italiani (1872) — che vogliono seminare la penisola di fortezze — per la paura d'armare due millioni di cittadini — ed inviare i preti, alle bonifiche delle paludi Pontine — Nel nostro campo, scarseggiava la carne — e massime la fanteria era famelica — Più insoportabile era la sete — non trovandosi acqua nei siti da noi occupati — Ma, quella gente era fatta alla vita di privazioni — e non udivasi: senonchè il lamento di non combattere! Concittadini miei! il giorno, in cui voi sarete uniti (un po' lontano sventuratamente), e sobri come i figli del Continente — lo straniero non calpesterà il vostro suolo! Non contaminerà i vostri talami! L'Italia avrà ripreso il suo posto, tra le prime nazioni del mondo! Nella notte il vecchio generale Giorgio — era sparito, e nella mattina non scorgevasi il nemico da nessuna parte — e per motivo della nebbia, sino verso le 10 a.m. fummo ignari delle sue nuove posizioni — Verso quell'ora alfine si scorse — occupando le forti posizioni di Taquarì — Io sono certo: la sagace manovra del nemico, non mancò di cagionare cordoglio nel nobile cuore del capo della Republica — Ma non v'era rimedio — Egli avea perduto una splendida occasione di rovinare l'impero, e probabilmente assicurare il trionfo del suo paese — Poco dopo, ebbesi notizia: passare la cavalleria nemica il fiume Taquarì, coadjuvata dalla squadra imperiale — Il nemico era dunque in ritirata, e bisognava attaccarlo in coda nel suo passaggio — In ciò non titubò il nostro generale — Marciammo dunque risolutamente alla battaglia — La cavalleria nemica, avea bensì passato il fiume ajutata in quel passaggio da vari legni imperiali, ma la fanteria era rimasta tutta sulla sponda sinistra, in forti posizioni, protetta da bastimenti da guerra, da un bosco d'alto fusto foltissimo — La seconda nostra brigata di fanteria, composta dal terzo e dal secondo battaglione, era destinata ad iniziare l'attacco. Essa caricò con tutta la bravura possibile — ma il numero dei nemici era soverchiamente superiore — ed i nostri coraggiosi militi dopo d'aver fatto dei prodigi di valore — furono obligati di ritirarsi, sostenuti dalla prima brigata, composta del 1º battaglione, della marina — e degli artiglieri senza cannoni. Tremendo fu quel combattimento di fanteria nel bosco, ove il frastuono delle fucilate e dei rami infranti — tra densissimo fumo — somigliava ad infernale tempesta — Non meno di cinquecento d'ambo i lati fu la perdita tra morti, e feriti — I cadaveri dei valorosi Republicani, furon trovati sino sulla sponda del fiume — ove avevano impetuosamente bajonettatto il nemico — ma per sventura, senza risultato, e senza profito, fu tanta prodezza — poichè, soperchiata la 2ª brigata da forze molto superiori — ed obligata a ritirarsi, si sospese il conflitto. Giunta la notte, il nemico potè liberamente ultimare il suo passaggio sulla sponda destra del Taquary — Tra le brillanti qualità del generale Bento Gonçales, molti notavano il difetto d'irresolutezza — origine dei disastrosi successi delle sue operazioni — ed avrebbero creduto meglio: impegnando una brigata di fanteria sproporzionatamente debole a petto d'un nemico sì numeroso; cioè: uno contro sei almeno; che si avesse dovuto complettar l'attacco — lanciandovi la prima brigata, e quanta cavalleria armata di carabine, trovavasi nell'esercito nostro. Io giudico nello stesso modo: che quando si sta iniziando un'attacco — vi si deve ponderatamente riflettere; ma una volta deciso — vi si deve impegnare ogni forza disponibile — sino alle ultime riserve — A meno, che non sia una ricognizione — cioè attaccare il nemico, fingendo d'impiegarvi tutte le forze — e quando riconosciuto, o riconosciute le sue posizioni, ed il suo numero — obligandolo di metterlo in evidenza — ripigliar allora le proprie posizioni — In tal caso da parte nostra — abbiamo eseguito una semplice ricognizione — bisogna però star sempre pronti a respingere un'attacco vero del nemico — Un attacco generale, poteva veramente darci una brillante vittoria — se facendo perder piede al nemico lo precipitavamo nel fiume — Egli certamente trovavasi in condizione di timore per l'atto d'esser da noi perseguito nella sua ritirata — e forse, non difettava di probabilità di riuscita — il lanciar tutte le forze all'assalto — Il Generale in capo credè bene di non avventurare una generale battaglia — e la totalità d'una fanteria, unica che possedeva la Republica — Egli senza dubbio si pentì: di non aver dato battaglia il giorno antecedente — in cui i suoi militi tutti, in campo aperto avrebbero operato miracoli — Il fatto sta: che una vera perdita, fu quel conflitto per noi — non avendo come supplire alla perdita di circa la metà de' nostri prodi fanti — quando per il nemico la perdita di cinque cento uomini di fanteria era insignificante — Il nemico rimase sulla sponda destra del Taquary — e perciò quasi totalmente padrone della campagna — Noi ripresimo la strada di Porto-Alegre per ricominciare l'assedio. Le condizioni della Republica avevano alquanto peggiorato — ripassammo a S. Leopoldo, alla Settembrina — quindi a Malacara nell'antico campo — Di lì a pochi giorni cambiossi il campamento a Bella-vista, posizione più vicina a la Laguna de los Patos verso Greco da quella di Malacara — Nello stesso tempo il Generale Bento Gonçales ideò altra operazione, il di cui risultato, se felice, poteva migliorare d'assai lo stato degli affari nostri — CAPITOLO XXVI. Spedizione del Nord. Il nemico con motivo delle sue escursioni nella campagna — avea sguarnito alquanto di fanteria le sue piazze forti — _S. Jozè do Nord_ — trovavasi in quel caso — Quella piazza situata sulla sponda settentrionale dell'imboccatura della _Laguna de los Patos_ n'era una delle chiavi, ed il suo possesso, ed il suo possesso avrebbe potuto cambiare la faccia delle cose; l'utile principale da ricavarne erano: vettovaglie d'ogni specie, armi e munizioni — La gente nostra trovavasi in miserabilissimo stato — e là anche poteva vestirsi, e provveddersi d'ogni utile cosa — Quel punto poi, era non solo importantissimo, come dominante l'entrata della Laguna, unico porto della provincia — ma eravvi da quella parte — l'Atalaya — cioè l'albero dei segnali per i bastimenti, a cui indicava la profondità delle acque, nella _barra_ (foce). Sventuratamente successe in questa spedizione, lo stesso che in Taquary: Portata l'impresa colla maggior sagacia e segretezza, sino vicino ad ultimarla — se ne perdette il frutto intieramente, per non agiungere l'ultimo colpo — Una marcia continua di otto giorni — a non meno di 25 miglia al giorno — ci mise, inaspettatti, sotto le trincee della piazza — Era una di quelle notti d'inverno, in cui un ricovero ed un po' di fuoco è una vera fortuna — ed i poveri militi della libertà laceri ed affamati — colle membra intrise dal freddo — esposti a fitta pioggia di tempestoso diluvio che ci avea accompagnato in tutta la marcia — avanzavansi silenziosi ed intrepidi contro i forti e le mura guarnite di sentinelle — A poca distanza eransi lasciati i cavalli, sotto la custodia d'uno squadrone di cavalleria — e ciascuno rotolando i miseri cenci, preparavasi all'assalto che doveva aver luogo al primo «chi va là» delle sentinelle — I militi della Republica assalirono quelle mura come lo avrebbero potuto eseguire i primi soldati del mondo — Pochi furono i tiri d'artiglieria e di moschetteria del nemico — poca la resistenza sulle mura — ed i nostri montando sulle spalle l'uno dell'altro — in poco tempo furon nell'interno della piazza. Alcuna resistenza di più, fecero i quattro forti che dominavano la trincea — A 1 ora dopo mezzanote principiò l'attacco, ed alle 2 erimo padroni della trincea e di tre forti — con perdite relativamente indifferenti — e senza aver sparato un tiro da parte nostra. In potere delle trincee, di tre forti su quattro, e tutti dentro della città — sembrava impossibile, non dovessimo rimanerne padroni — Eppure!... anche questa volta si doveva aver la peggio! La stella della Republica tramontava — e la fortuna era nemica al Duce nostro — Trovandosi dentro la città, i militi nostri — affamati e cenciosi — credettero altro non vi fosse da fare; che mangiar bene, bever meglio — vestirsi — e depredare — La maggior parte quindi, si dispersero coll'idea del saccheggio. Intanto rinvenuti dalla sorpresa — rannodaronsi gl'imperiali in un forte quartiere, e fecero testa, in numero d'alcune migliaja — Li assalimmo, e ci respinsero — Cercavansi i nostri militi per rinnovare gli attacchi, e non si trovavano — o se s'incontravano, erano carchi di bottino, ebbri, e senza volontà di rischiar la vita — essendo divenuti ricchi — Parte di loro avean danneggiato i fucili servendosene per abbatter le porte delle case, e negozi che volevano depredare — altri li avevano senza pietre focaje che avevano perdute — Il nemico da parte sua, non perdeva tempo: vari legni da guerra che si trovavano nel porto, presero posizione infilando le strade da noi occupate — giacchè il paese era proprio edificato sulla sponda del lago — Dal Rio-grande del Sud che si trovava a poche miglia sull'altra sponda, mandarono soccorsi di truppe; ed il forte unico, che noi avevimo trascurato di occupare, fu occupato dai nemici. Il forte maggiore dei quattro, detto Imperiale — da noi assaltato e conquistato nella notte — e che trovavasi dominante nel centro della linea di trincee, la di cui possessione era importantissima, fu inutilizzato da un'esplosione terribile delle polveri, che ci ammazzò e ferì molta gente — Io ricordo sempre — non era ben chiaro ancora, nella mattina — quando successe la catastrofe — ricordo dico: d'aver veduti i nostri uomini, che occupavano quel forte, scaraventati nell'aria come lucciole — accesi dall'incendio delle vestimenta e gettatti sul suolo orribilmente mutilati — Infine il più glorioso dei trionfi, cambiossi verso mezzogiorno, in una vergognosa ritirata — quasi una fuga — I buoni, in pochi che aveano sostenuto il combattimento sino alla fine — piangevano dalla rabbia, e dal dispetto — La nostra perdita fu comparativamente immensa — Da quel giorno la nostra fiera fanteria di liberti divenne uno schelettro — Poca cavalleria era venuta alla spedizione, e valse a proteggere la ritirata — La divisione marciò ai suoi allogiamenti di Bella-vista, ed io rimasi colle reliquie della Marina, in S. Simon — stabilimento situato sulla sponda della _Laguna de los Patos_ — La Marina era ridotta ad una quarantina d'individui tra Ufficiali e militi — CAPITOLO XXVII. Invernata e preparazione di canoe. Nell'emisfero meridionale — già si sa — l'inverno succede nei mesi in cui noi — nel nostro — abbiamo la state — e dagli abitanti dicevasi inverno rigido — quello — e ci sembrava tanto più tale — che tutti ci trovavamo sprovvisti di vestimenta, e nell'impossibilitato di rimediare alla mancanza — Il motivo della nostra permanenza in S. Simon, fu per regolarvi alcune _canoe_ (specie d'imbarcazioni fatte d'un sol albero, di cui si scava la parte interna) ed aprire le comunicazioni coll'altra parte del Lago — Ma in vari mesi, ch'io stetti in quel punto, non apparvero mai le canoe — e perciò nulla si fece, di quanto s'era ideato. In luogo di barche, quindi, noi ci occupammo di cavalli — essendovi dei puledri in quantità, in quel sito — abandonato da vari mesi dai proprietari che appartenevano al partito imperiale — Quei puledri servirono per fare de' miei marinari, altretanti cavalieri — ed alcuni anche, malamente, domavano cavalli — È, S. Simon, un bellissimo e spaziosissimo feudo benchè, allora distrutto ed abbandonato — e credo era proprietà d'un conte dello stesso nome, esule o i di cui eredi erano esuli, per diversità d'opinione dalla dominante Republicana — Non essendovi padroni, e quelli essendo avversari, noi facevamo da padroni in quel luogo — La padronanza nostra però, consisteva di servirsi degli animali del feudo per alimento — non avendo altro — e di divertirci a domar poledri — In quel tempo (16 settembre 1840) la mia Anita ebbe il suo primo nato — Menotti, la di cui esistenza era un vero miracolo — poichè nel decorso della gravidanza, la coraggiosissima donna avea assistito a molte pugne, sopportate molte privazioni e disagi — ed una caduta da cavallo, per cui nacque il bambino, con una ammacatura nella testa — Anita partorì in casa d'un abitante di quella campagna, nelle vicinanze d'un piccolo villagio chiamato Mustarda — ed ebbe tutte le cure, immaginabili da codesta generosissima famiglia per nome Costa — Io sarò riconoscente a quella buona gente tutta la vita — Ben valsa alla mia buona consorte trovarsi in quella casa — poichè le miserie che si pativano allora nel nostro esercito — erano giunte al colmo — e certo io non avevo come regalare la mia cara partoriente, ed il mio bambino, con un solo fazzoletto — Mi decisi, per assistere i miei cari con alcuni panni, a fare un viaggio alla Settembrina[49] ove alcuni amici — massime l'eccellente Blingini, mi avrebbero sovvenuto di qualche cosa[50] — In conseguenza — mi misi in viaggio, attraverso le inondate campagne, di quella parte tutta alluvionale della provincia — ove per giorni intieri, io viaggiava, con acqua sino alla pancia del cavallo — Passai nella _Rossa Velha_ (vecchio campo coltivato) ove incontrai il Capitano Massimo dei lancieri liberti, il quale mi accolse da vero e generoso compagno. Egli era stato preposto, con un distaccamento dei suoi militi, alla custodia delle _cavalladas_ — (cavalli di riserva) in quelli eccellenti pascoli — Giunsi in quella località di sera, con forte pioggia — vi passai la notte — ed all'alba dell'altro giorno — essendo anche maggiore, mi rimisi in viaggio — contrariamente al parere del buon Capitano, che voleva fermarmi per aspettare tempo migliore — Premevami troppo la mia missione, per diferirla, e mi avventurai nuovamente in quel diluvio di inondazioni — Alla distanza d'alcune miglia — udii delle fucilate dalla parte da dove ero partito — mi nacque alcun sospetto, ma non potevo far altro che proseguire. Arrivai alla Settembrina — comprai alcune cosarelle di panni — e mi avviai nuovamente verso S. Simon — Nel ripassare alla Rossa Velha, seppi la causa delle fucilate, ed il tristissimo caso accaduto al Capitano Massimo, ed ai suoi bravi liberti — subito dopo la mia partenza da quella casa — Moringue (quello stesso che mi sorprese in Camacuan) aveva sorpreso il Capitano Massimo — e dopo una difesa disperata di quel prode ufficiale coi suoi lancieri, era pervenuto ad ucciderli quasi tutti — I migliori cavalli erano stati imbarcati ed inviati a Porto-Alegre — ed i men buoni uccisi tutti — I nemici avevano eseguito l'impresa con legni da guerra, e fanteria — quindi rimbarcati i fanti — s'eran diretti per terra, colla cavalleria verso il Rio-grande del Nord, sbaragliando tutte le piccole forze Republicane, che trovavansi sparse su quel territorio — o spaventandole — Tra quelle trovavansi i miei pochi marini, che furono obligati di abbandonare la loro posizione e cercare rifugio nella foresta — essendo il nemico troppo numeroso per loro — Anche alla mia povera Anita — a dodici giorni di parto — toccò di fuggire, col suo pargolo sul davanti della sella — affrontando tempi tempestosi — Io non trovai più la mia gente, e la famiglia al mio ritorno in S. Simon — e fui obligato di rintracciarli nell'orlo d'una selva — ove soggiornavano ancora, quando li trovai, non avendo notizie esatte del nemico — Tornammo in S. Simon, e vi stettimo qualche tempo ancora — quindi cambiammo stanza — e la stabilimmo sulla sponda sinistra del fiume Capivari — Cotesto fiume, è formato dai differenti scoli — dei vari laghi che guarniscono la parte settentrionale della provincia del Rio-grande, tra la costa dell'Atlantico, ed il versante orientale della catena _do_ Espinasso — Esso prende il suo nome dalla _Capivara_, specie di majale anfibio, molto comune nei fiumi dell'America meridionale — Dal Capivari, e dal Sangrador do Abreu (Sangrador è un canale che serve di veicolo, tra una palude, ed un lago o fiume ove avevimo potuto ottenere e regolare due canoe) fecimo alcuni viaggi — alla costa occidentale della Laguna _dos Patos_ — trasportando gente e comunicazioni — CAPITOLO XXVIII. Ritirata disastrosa per la Serra. Intanto la situazione dell'esercito Repubblicano peggiorava — ogni dì le urgenze erano maggiori — e maggiori le difficoltà di soddisfarle — I due combattimenti di Taquary e Nord — avevano scemato talmente il numero della fanteria — che i battaglioni erano diventati schelettri — I soverchi bisogni, generavano il malcontento — questo la diserzione — Le popolazioni, siccome succede nelle guerre lunghe, si stancavano, e si ammorbavano d'indifferentismo — coll'alternare del passaggio, e delle esigenze delle forze d'ambe le parti — In tale stato di cose, gl'imperiali fecero delle proposte d'accomodamento — che abbenchè vantaggiose, considerando le circostanze in cui si trovavano i Repubblicani, non furono accettate, e respinte con alterigia, dalla parte più generosa dell'Esercito — Tale rifiuto però, acrebbe il malcontento, nella parte più transigente e stanca — Infine l'abbandono dell'assedio della Capitale, e la ritirata furono decisi — La divisione Canabarro, di cui faceva parte la Marina, doveva principiare il movimento, e sgombrare i passi della Serra, occupati dal generale nemico Labattue — francese al servizio dell'impero — Bento Gonçales col resto dell'esercito marcerebbe in seguito, coprendo il movimento — In questo tempo morì il nostro Rossetti — irreparabile perdita! Rimasto colla guarnigione Republicana della Settembrina, che doveva marciare ultima, quella gente fu sorpresa dal famoso Moringue divenuto l'incubo dei Republicani — e perì in quella sorpresa l'incomparabile Italiano, combattendo valorosamente — Caduto da cavallo — ferito — le fu imposto d'arrendersi — egli rispose a sciabolate, e vendè caramente una vita — ben preziosa all'Italia! Non v'è un angolo della terra, ove non biancheggiano l'ossa d'un Italiano generoso! E l'Italia li scorda! — Essa si occupa di comprar delle isole per formar dei penitenzari[51] Essa, vezzeggia la compassione dei Potenti, per riabilitar le sue membra e costituirsi «del non suo ferro cinta» plaudendo ai suoi governanti che la prostituiscono! Essa amoreggia oggi coll'idra sacerdotale, e la lecca, l'accarezza, supplicandola genuflessa — acciò le mantenga i suoi figli nell'ignoranza, e nell'abbrutimento! — chiamando l'atto sudicio, infame! garanzie! Ed essa scorda..... coloro che fecero bello il suo nome nel nuovo mondo! In tutte le contrade del mondo! Essa!...... ne sentirà la mancanza, nel giorno, in cui vorrà sollevarsi sui cadaveri de' corvi che la divorano! L'impresa ritirata, nell'invernale stagione fra i dirupi delle montagne, e con pioggie quasi continue — fu la più disagiata e terribile ch'io m'abbia veduto mai — Noi conducevamo per tutta provvista, alcune vacche a capestro — non trovandosi animali nell'ardui sentieri che dovevamo percorrere, dalle pioggie impraticabili — I numerosi fiumi della Ser[r]a, gonfi oltremodo, capovolgevano gente, animali, e bagagli — Si marciava con pioggia, e senza alimento — Accampavasi, senza alimento e con pioggia — Tra un torrente e l'altro — coloro a cui era toccato di rimanere vicini alle disgraziatissime vacche avevano carne — e gli altri nulla! Massime la povera fanteria[52] trovossi in tremendo conflitto, mancando anche di carne cavallina, di cui facevano uso i cavalieri a difetto d'altra — Furonvi scene da inorridire!! Molte donne — com'è uso in quei paesi accompagnavano l'esercito — e non mancavano d'esser utili, impiegate alla conduzione delle _cavalladas_, che eseguivano a cavallo — essendo esse molto pratiche in tale esercizio — Colle donne v'erano naturalmente dei bambini d'ogni età — Pochi bambini dell'età più tenera — uscirono dalla foresta! — Alcuni pochi furono raccolti da cavalieri — giacchè pochi cavalli si salvarono — e molte madri pure, rimasero morte o morenti di fame di disagio e di freddo —!!! Vi sono foreste nella parte bassa della provincia — ove il clima è quasi tropicale — ed in cui si trovano in abbondanza frutta selvaggie, ma buone e nutritive — come la _guayaba_, l'_arassa_ ecc. ma nelle selve dell'alta serra, ove ci erimo inoltrati — non si trovano tali frutta — ed apena trovansi foglie di _Taquara_ (canne grossissime) alimento insufficiente per animali; e che non valse a salvarmi due muli che portavano il mio povero bagaglio[53] Anita abbrivvidiva all'idea di perdere il nostro Menotti, che salvammo per un miracolo —! Nel più arduo della strada, ed al passo dei torrenti io portavo il mio caro figlio di tre mesi, in un fazzoletto a tracollo, procurando di riscaldarmelo al seno, e coll'alito — D'una dodicina d'animali di mia proprietà, che con me, entrarono nella foresta — tra cavalli, e muli, parte da sella, ed altri da bagagli — con due cavalli, e due muli, erimo rimasti — Il resto stanchi, erano stati abbandonati — I pratici, per colmo di sventura, avevano sbagliato la _piccada_ (sentiero tagliato nella foresta), e quello fu uno dei motivi, che sì difficilmente, ci fece varcare quella terribile selva de las Antas (Anta è una belva che mi dissero somigliarsi all'asino, inoffensiva — la di cui carne è squisita, ed il cuojo serve a molti forti ed eleganti lavori — Io ho veduto il cuojo — mai l'animale) Siccome, più si procedeva avanti — non trovavasi mai la fine della _piccada_ — io rimasi nella selva coi due muli, che pure si stancarono — e mandai Anita col mio assistente, ed il bambino — acciocchè alternando i due cavalli che ci rimanevano — essa procurasse di uscire al chiaro — cioè fuori della foresta, ove trovare alcuni alimenti per essa, e per il pargoletto — I due cavalli che alternativamente portavano Anita, ed il coraggio sublime di quella valorosa mia compagna, salvaronmi ciocchè di più caro io avevo nella vita — Essa giunse fuori della _piccada_, e per fortuna vi trovò alcuni de' miei militi con un fuoco acceso — cosa, che non sempre poteva ottenersi, per la continuazione della pioggia a diluvio — e la povera condizione a cui erimo ridotti — I miei compagni a cui era riuscito d'asciugare alcuni cenci — presero il bambino che tutti amavano — l'involsero, lo riscaldarono, e lo tornarono in vita — quando la povera madre, già poco sperava di quella tenera esistenza — Essi, con amorevolissima sollecitudine — procurarono, quei buoni militi, di cercare alcuni alimenti — coi quali ristaurossi la cara mia donna, e potè allattare il mio primo nato! Io faticai invano per salvare i muli — Rimasto con quelle spossate bestie — tagliai loro, quanto mi fu possibile, delle foglie di canne per alimentarli — ma non mi valse — fui obligato di abbandonarle — e cercare d'uscir io pure dalla foresta, a piedi, ed affamato — Ai nove giorni, dalla nostra entrata — apena trovavasi fuori della _piccada_, la coda della divisione — e pochissimi cavalli d'ufficiali eransi potuti salvare — Il generale Labattue che ci aveva preceduti fuggendo, avea lasciato nella stessa selva _de las Antas_ alcune artiglierie, che per mancanza di mezzi, non potemmo trasportare, e rimasero sepolte in quelle spelonche — chi sa per quanto tempo — I temporali sembravano star di casa nella selva suddetta — poichè usciti nei campi dell'alti-piano — in _Cima de Serra_, noi trovammo dei tempi bellissimi — e vi trovammo pure, per noi preziosissimi come alimento, degli animali bovini — Dimodocchè si dimenticarono alquanto i disagi passati — Entrammo quindi nel dipartimento di Vaccaria ove permanemmo alcuni giorni — per aspettare il corpo di Bento Gonçales, che ci giungeva frazionato ed assai malconcio — L'infaticabile Moringues, informato della ritirata, erasi messo alla retroguardia di codesto corpo — incomodandone la marcia in ogni modo — coadjuvato dai montanari, sempre accanitamente ostili ai Republicani. Tuttociò diede al Labattue, tutto il tempo necessario per la sua ritirata e giunzione al grosso dell'esercito imperiale — Vi giunse però quasi senza gente, per motivo delle diserzioni, cagionate da forzate marcie, e le stesse privazioni, e disagi da noi sofferti — Accade di più al generale Francese, uno di quelli incidenti — ch'io narrerò per la natura sua straordinaria — Dovendo Labattue varcar nel suo cammino, i due boschi conosciuti col nome: di Mattos (bosco o selva) _Portoghez e Castellano_ — trovavansi in quei dintorni alcune tribù d'indigeni selvaggi, chiamati _Bugre_ delle più feroci che si conoscono nel Brasile — esse sapendo del passaggio degl'imperiali, li assalirono in varie imboscate della macchia, e ne fecero strage; facendo sapere nello stesso tempo al generale Canabarro, ch'essi erano amici dei Republicani; e veramente nel nostro transito per le loro selve, nessun disturbo ci cagionarono — Vidimo però i loro _foge_ (buchi profondi, ricoperti accuratamente con delle zole — nei quali si precipita l'incauto viandante — e profitano i selvaggi del suo inciampo per assalirlo) — Per noi, nessuno di quei buchi però, era coperto, e le formidabili barricate d'alberi, innalzate lateralmente al sentiero da dove colpiscono i passeggieri con dardi e frecce — erano sguarnite — In quei medesimi giorni, comparì, fuori della foresta, una donna — rubata nella sua giovinezza dai selvaggi, in una casa della Vaccaria — Essa profitò in detta occasione, della vicinanza nostra per salvarsi — Era quella poverina in una condizione ben deplorabile — Non avendo noi, nemici da fuggire, nè da perseguire, in quelle alte regioni, procedevamo nelle nostre marcie con lentezza — mancanti quasi totalmente di cavalli — ed obligati di domare, cammin facendo, alcuni poledri che si trovavano dispersi in quei campi — Il corpo dei lancieri liberti, rimasto intieramente smontato, fu obligati di rifare le sue cavalcature con poledri — Era bel vedere allora — quasi ogni giorno — una moltitudine di quei giovani e robusti neri, tutti domatori, lanciarsi sul dosso dei selvaggi corsieri, e tempestare per la campagna — montonando prima — facendo il bruto ogni sforzo per sbarazzarsi del suo carico e scaraventarlo a gambe all'aria lontano — l'uomo ammirabile di destrezza, di forza, di coraggio, inforcarsi siccome tanaglia — battere, spingere, e domare infine il superbo figlio del deserto — che come saetta parte finalmente, quando conscio della superiorità del dominatore che lo cavalca, e divora in pochi momenti uno spazio immenso — per ritornare colla velocità stessa, anelante e grondante di sudore — In quella parte dell'America, il puledro giunge dal campo, si laccia, si sella, imbrigliasi, e senz'altre disposizioni, è cavalcato dal domatore a campo aperto — L'esercizio ha luogo, generalmente varie volte nella settimana — ed in pochi giorni è capace di ricevere il morso — Anche i più renitenti, riescono così, famosi cavalli in alcuni mesi — Difficilmente però sortono ben domati da' soldati nelle marcie — ove non ponno avere il comodo, la cura, e massime il riposo necessario per ben formarsi — Passati i Mattos Portoghez e Castellano — scendemmo nella provincia di Missiones, dirigendosi sopra Cruz-alta, capoluogo di detta piccola cittadina su d'un altipiano, ben costrutta ed in bellissima posizione — siccome bella, e tutta quella parte dello Stato Rio-grandense — Da Cruz-alta, marciammo a S. Gabriel, ove si stabilì il quartier generale, e si costrussero baracconi per il campamento dell'esercito. Io pure, vi costrussi una capanna, e vi passai alcun tempo colla famigliuola — Sei anni però, d'una vita di disagi e di privazioni — lontano dal consorzio delle mie relazioni antiche, e dei parenti — di cui ignoravo assolutamente la sorte, per l'isolamento in cui avevo vissuto, e l'impossibilità d'aver di loro notizie — essendo lontano da qualunque porto di mare — mi fecero nascere il desiderio di riavicinarmi ad un punto — ove poter sapere qualche cosa de' miei genitori — il di cui affetto, avevo potuto conculcare nella foga delle avventure — ma che vivamente sussisteva nell'anima mia — Poi, abbisognavo provvedermi di tante cose — la di cui necessità, non avevo sentito sino allora, per me stesso — ma che diventavano indispensabili per la mia donna ed il mio bambino — Mi decisi adunque di passare a Montevideo, temporariamente — ne chiesi il permesso al presidente che me lo concesse — e col permesso del viaggio — ebbi pure quello di fare una piccola truppa di bovini, per poter far fronte alle spese — CAPITOLO XXIX. Montevideo. Eccomi dunque _truppiere_ cioè condottore di bovi — In una Estancia chiamata del _Corral de Pedras_ — coll'autorizzazione del ministro delle finanze — mi riescì riunire, in una ventina di giorni, circa novecento animali — con indicibile fatica, e con maggior fatica ancora, condurli a Montevideo — ove, non dovevo giungere colla truppa di bovi — ma bensì con circa trecento cuoja degli stessi — Ostacoli insuperabili, mi si presentarono nella via — e più di tutti il traboccante Rio-Negro, ove mancai di perdere il mio capitale quasi intiero — Dal fiume, dalla mia imperizia in quella classe di mestiere, e dalla furfanteria di certi mercenari, che avevo assoldato per la conduzione del bestiame — io, apena potei far passare il Rio-Negro a circa cinquecento animali — che per la lunga strada, poco cibo, e strapazzi nei passaggi dei fiumi, furon giudicati incapaci di giungere a Montevideo. Fu deciso, in conseguenza di _cuerear_ (ammazzare per toglier le cuoja, e lasciare la carne ai corvi) e così si fece — non essendovi altro modo, per poter salvare qualche cosa — Si osservi: che quando qualcheduno di quei poveri animali si stancava — io ero obligato di venderlo — e per grazie ne ricavavo uno scudo — Infine — dopo d'aver passato indescrivibili incomodi, freddi, e dispiaceri, per lo spazio d'una cinquantina di giorni — giunsi a Montevideo con poche cuoja — risultanti dai miei novecento bovi — dalle quali ritrassi poche centinaja di scudi — che apena servironmi per scarsamente vestire la famiglia, e due miei compagni — Riparai in Montevideo in casa dell'amico mio Napoleone Castellini alle di cui gentilezze, e della moglie io devo molti riguardi — e passai qualche tempo nella di lui casa — Avevo famiglia, esausti i mezzi — era quindi necessario procacciar l'esistenza di tre individui — e d'un modo indipendente — Il pane altrui mi è sempre sembrato amaro — e pur troppo nella mia vita piena di peripezie — sovente ho avuto bisogno d'un amico, che per mia fortuna, mai mi è mancato. Due occupazioni, di poco prodotto veramente — ma che servirono all'alimento — io assunsi fratanto, e furono quella di sensale mercantile; ed alcune lezioni di Matematiche, date nell'istituto dello stimabile istitutore Sig. Paolo Semidei[54]. Tal genere di vita durò sino al mio impiego nella Squadra Orientale (cioè di Montevideo) — La quistione Rio-grandense, incamminavasi verso un accomodamento — ed Anzani, ch'io avevo lasciato al comando delle poche forze da me comandate in quella Republica — ritiravasi — e mi scriveva: che nulla più v'era da fare in quel paese — La Repubblica di Montevideo mi offrì ben presto occupazioni — Mi fu offerto, e lo accettai, il comando della corvetta da guerra _Costituzione_ di 18 pezzi — La Squadra Orientale era comandata dal collonnello Cohe, Americano — e quello di Buenos-Ayres, dal generale Brown, Inglese — Alcuni combattimenti di mare, avevano avuto luogo, ma con risultati di poco momento. Contemporaneamente era stato incaricato del ministero della guerra della Repubblica un certo Vidal, d'infausta e dispregevole memoria — Uno dei primi e sciagurati pensieri di quell'uomo, fu di togliersi il fastidio della squadra, che diceva molto onerosa allo stato, ed inutile — quella squadra, che immense somme avea costato alla Repubblica, e che fomentata, siccome potevasi allora, e ben diretta, avrebbe potuto costituire una preminenza marcata nel fiume della Plata — senza di cui, Montevideo non sarebbe mai sortita dallo stato di mancipia di Buenos-Ayres, e peggio ancora dell'allora suo tiranno. All'incontro la squadra di Montevideo, fu intieramente annientata dall'imbecille perversità del ministro suddetto — vendendosene i legni, a vergognosi prezzi, e dilapidandosene i materiali — Per complettare l'opera di distruzione — io fui destinato ad una spedizione, il di cui risultato — altro non poteva essere: che la perdizione dei legni da me comandati — CAPITOLO XXX. Comando la squadra di Montevideo — combattimenti nei fiumi. Colla corvetta _Costituzione_ di 18 pezzi, il brigantino _Pereira_ con due _culisse_ (rotatori) da 18, ed un trasporto, goletta _Procida_, io fui destinato a Corrientes, provincia alleata, per coadjuvarla, nelle sue operazioni di guerra, contro le forze di Rosas — tiranno di Buenos-Ayres — V'era anche il motivo, od il pretesto di portar delle munizioni in quella provincia — Darò un piccolo cenno, sulla nuova guerra, a cui, io mi accingevo a prender parte — Trovavasi la Republica Orientale dell'Uruguay — così chiamata, per trovarsi veramente sulla sinistra sponda di detto fiume — e di cui, Montevideo è capitale — Trovavasi dico: siccome la maggior parte delle Republiche dell'America meridionale, in quello stato di guerra civile — la di cui quasi perenne durata — forma il maggior inciampo al progresso di cui è suscettibile — codesta splendida parte del mondo — certo non seconda a nessun'altra, per ogni naturale ricchezza — E la cagione delle intestine discordie, era allora la pretensione alla presidenza della Repubblica dei due generali Fruttuoso Rivera, e Manuel Ourives — Rivera più felice, da principio, pervenne, dopo varie vittorie a cacciarne Ourives — e s'impadronì del potere occupato da quello — L'altro cacciato, si rifuggì a Buenos-Ayres, ove Rosas lo accolse, assieme agli emigrati orientali, e se ne servì contro i propri nemici, capitanati allora dal generale Lavalle — i quali nemici chiamavansi Unitari — mentre il partito di Rosas era chiamato Federale — Vinto Lavalle, il feroce ex-presidente di Montevideo, si accinse a riacquistare la perduta potestà del suo paese — e trovava in ciò, Rosas la più dilettevole lusinga alle sue mire — cioè la finale distruzione degli Unitari suoi mortali nemici, il di cui ultimo ricovero era Montevideo — e di più l'abassamento d'una Republica vicina, rivale, che le disputava la supremazia dell'immenso fiume — spingendo in seno della stessa i più accaniti e formidabili elementi di tremenda guerra civile — Al tempo della mia partenza da Montevideo, ed entrata nel fiume — trovavasi l'esercito Orientale in S. Josè dell'Uruguay, e quello d'Ourives alla Capitale della provincia d'Entre-Rios-Bajada — preparandosi ambi ad una decisiva battaglia — L'esercito Correntino disponevasi di riunirsi all'Orientale — Io dovevo rimontare il Paranà sino a Corrientes — percorrere uno spazio di più di seicento miglia, tra due sponde nemiche — ove, non avrei potuto aprodare, senonchè nell'isole, e nelle coste deserte — Partito da Montevideo coi tre legni suddetti, ebbi da sostenere un primo combattimento contro le batterie dell'isola di Martin Garcia — isola che comanda il fiume, verso il confluente dell'Uruguay col Paranà, d'un'altezza considerevole — e dalla quale bisogna passare vicino, non essendovi altri canali più lontani, adequati per bastimenti grandi — Èbbi alcuni morti, e feriti in quel primo conflitto, e passai oltre[55] A tre miglia da Martin Garcia, arenammo colla _Costituzione_, e disgraziatamente in tempo che la marea bassava, dimodocchè immensa fatica ci costò il poterla rimettere [a] nuoto — e grazie a molta risoluzione ed energia da parte di tutti — ufficiali e marini, non fu perduta in quella circostanza la nostra flottiglia — Mentre occupati a trasbordare gli oggetti di peso, sulla _Procida_, comparve la squadra nemica, dall'altra parte dell'Isola, avanzandosi a piene vele, e vento favorevole su di noi, con sette legni — La _Costituzione_ era arenata circa tre piedi, e priva de' suoi principali cannoni, ammonticchiati sulla piccola _Procida_ — Era veramente una terribile situazione quella per me — La _Procida_ complettamente inutile — la _Costituzione_ più inutile ancora — e non rimanevami senonchè il brigantino _Pereira_, il di cui coraggiosissimo Comandante trovavasi vicino a me, colla maggior parte del suo equipaggio, ajutandoci nei nostri lavori — Intanto il nemico procedeva superbo, alla vista, ed alle acclamazioni delle truppe dell'isola — sicurissimo della vittoria, con sette forti legni da guerra — e noi rimasti con uno solo disponibile, e debole — Il mio animo non era dato alla disperazione — ciocchè mai mi è succeduto — ma lascio all'altrui sagacia il figurarsi lo stato mio — Non si trattava della vita sola, di cui poco m'importavo in quei momenti — ma, benchè fosse forza d'imprevisti e fatali avvenimenti — anche morendo, difficilmente si salvava l'onore, poichè impossibile, era di combattere, nelle condizioni nostre — La fortuna anche questa volta, stese la sua mano potente e protettrice sul mio destino — e non ci voleva altro che un colpo della sua ruota — Il legno ammiraglio del nemico, il _Belgrano_, arenò! ed arenò pure nelle vicinanze dell'isola, a circa due tiri di cannone da noi — e fummo salvi! Il contratempo del nemico, aumentò l'alacrità nostra — in poche ore galleggiò la _Costituzione_ — e ricevette nuovamente la batteria e tutto il materiale suo, trasbordato — «Le fortune siccome le disgrazie non arrivano sole» si dice volgarmente — ed in quella circostanza successe proprio così — Una nebbia foltissima caduta come per incanto — coprì tutto — e ci favorì grandemente — nascondendo al nemico la direzione nostra — Tale circostanza ci valse sommamente — poichè quando il nemico terminò per far galleggiare il _Belgrano_ — ignorando la direzione nostra — prese a perseguirci nell'Uruguay, ove non erimo entrati — e perdete così molti giorni, pria di conoscere la vera nostra destinazione — Intanto noi entravamo nel Paranà coperti dalla nebbia, e favoriti dal vento — Io avevo la coscienza dell'impresa, certo, una delle più ardue della mia vita — In quel giorno stesso, il piacere di scampare ad imminente pericolo, ed il sollettico provato all'idea della grandezza dell'impresa — furonmi amareggiati dallo stupore, paura, e renitenza dei pratici, che sino a quel momento avean creduto dirigersi all'Uruguay — ove la sponda sinistra almeno era in potere dei nostri — mentre le due sponde del Paranà erano assolutamente in potere di nemici formidabili quali Ourives alla sinistra sponda e Rosas alla destra — Tutti i pratici allegarono non conoscere il Paranà — e veramente, per ingannare il nemico — io avevo chiesto e trovato pratici dell'Uruguay — Essi, da quell'istante rinunziarono a qualunque responsabilità — Della responsabilità, io poco m'importavo — abbisognavo d'un pratico comunque fosse — In conseguenza di molte indagini, seppesi: uno di loro, aver alcune cognizioni del fiume, ma tacerle per timore — La mia sciabola spianò bentosto le difficoltà — ed ebbimo un pratico — Il vento favorevole ci portò nella notte nelle vicinanze di S. Nicolas — primo paese Argentino, che s'incontra sulla sponda destra del fiume — Eranvi alcuni legni mercantili — noi avevimo bisogno di trasporti e di pratici — Una spedizione notturna coi palischermi ci procurò una cosa e l'altra — Erimo obligati ad usar di prepotenza: la posizione nostra delicata lo esigeva — Un Antonio Austriaco, che da molto tempo navigava nel Paranà — cadette fra i prigionieri, e ci rese importanti servigi nel viaggio — Procedendo verso la parte superiore del fiume — non ebbimo ostacoli, sino alla Bajada — capitale della provincia d'Entre-rios — ove trovavasi l'esercito d'Ourives — Operammo nel transito alcuni sbarchi, per acquistare carne fresca, d'animali bovini, che ci venivano contestati dagli abitanti, e dalle truppe di cavalleria vigilanti la costa — Alcuni parziali combattimenti avevano luogo, per tal motivo, con vantaggi e perdite alternativamente — In una di quelle pugne, ebbi la sensibilissima perdita, dell'ufficiale Italiano Vallerga, da Loano — giovine di sorprendente valore, e d'un genio che prometteva assaissimo — Egli era profondo Matematico — Un'altra croce... sulle ossa d'un figlio della sventurata nostra terra — perduto per una causa giusta è vero — ma che, come tanti altri, sperava di poter dare la vita al suo paese! — Alla Bajada, ove Ourives avea il suo quartier generale, trovammo formidabili preparativi per riceverci — Ivi, affrontammo un combattimento, le di cui apparenze, nel principio mostravano, dover dare più importanti risultati — ma il vento favorevole, e la distanza in cui potemmo passare dalle batterie nemiche ci lasciarono sfuggire anche in questa circostanza, a pericoli, che potevano esser assai più dannosi — Vi fu un forte cannoneggiamento d'ambe le parti, con perdite insignificanti — A _las Conchas_, alcune miglia sopra la Bajada operammo uno sbarco di notte — che ci diede — ad onta di forte resistenza del nemico — quattordici bovi — I nostri pugnarono in quella occasione, con un valore sommo — e vi si distinsero sopra tutti il Vallerga, di cui già feci cenno, e Battaglia domatore da cavalli — Le artiglierie nemiche seguivano la costa — e profitando della circostanza del vento contrario, e della strettezza ci cannoneggiavano ove potevano con vantaggio — ed ove potevano ci fulminavano anche con moschetteria — Nel _Cerrito_, posizione forte, sulla sponda sinistra del Paranà, vi stabilì il nemico una batteria di sei cannoni — Il vento era favorevole ma poco; ed in quel punto stesso per le tortuosità del fiume, ci dava in faccia — dimodocchè dovemmo fare un traggito di circa due miglia, a tonneggio — cioè portando ancorotti (piccole ancore) avanti, con lunghe alzane — e tirando sopra le stesse, a suono di tamburo, ed a passo di carica — procedendo così a piccola velocità per esser forte la corrente contraria in siti stretti — Per fortuna nostra, la batteria nemica, era troppo alta, e troppo vicina — sembrando sospesa sulla nostra testa — Cotesto combattimento fu brillante: La maggior parte della gente nostra, era destinata alle alzane, ed ai palischermi — il resto ai cannoni, e fucili — Combattevasi e si lavorava con alacrità grandissima — le pugne eran diventate giuoco — per i miei valorosi compagni — Si osservi, che il nostro nemico apparteneva ad un esercito esaltato, e superbo da recenti vittorie — Lo stesso esercito che poco dopo, sbaragliava il nostro complettamente all'_Arroyo-grande_ — assieme all'esercito di Corrientes riunito al nostro — Ogni ostacolo fu superato con poca perdita — e questa cagionata dai moschetti nemici — giacchè i pezzi troppo alti, e troppo vicini, passavano sulle nostre teste, danneggiando appena l'alberatura — E dopo d'aver smorzato i fuochi del nemico, e smontati alquanti de' suoi pezzi, noi giungemmo con tutti i legni in salvo — in una posizione spaziosa, fuori d'ogni pericolo — Vari legni mercantili provenienti da Corrientes, e dal Paraguay, eransi posti sotto la protezione della batteria nemica — essi cadettero in nostro potere con poca fatica — Tali acquisti ci provvedevano, di vettovaglie — e di mezzi d'ogni genere — CAPITOLO XXXI. Combattimento di due giorni con Brown. Noi procedevamo quindi nell'arduo nostro viaggio nel fiume — Il nemico svogliossi di mettere ostacoli — e giunsimo dopo alcuni arenamenti, massime della _Costituzione_ — sino a _Cavallo Guatià_ (cavallo bianco) — ove si congiunse la flottiglia Correntina — composta di due lancioni, ed una calandra armati in guerra — Essa ci traeva alcuni viveri freschi — e la nostra condizione era perciò, alquanto migliorata — Avevimo buoni, e fidati pratici — ed un riforzo, benchè piccolo — assai giovevole, massime sul morale della gente — Pervenuti così sino alla costa Brava — fummo obligati di fermarsi, per motivo della mancanza di profondità nel fiume — la cui differenza col pescante della _Costituzione_ — era di quattro palmi — e tale inconveniente, principiò ad insospettirmi alquanto sull'esito della spedizione — Io non potevo ignorare che il nemico, avrebbe tentato il possibile per inutilizzar l'ardito, e temerario tentativo — poichè giunti noi a Corrientes — immenso sarebbe stato il pregiudizio recato al nemico, col dominio d'un fiume come l'alto Paranà — in una posizione intermedia tra le provincie dell'interno della Republica Argentina, il Paraguay e la grande capitale di quella — Sarebbe stato pure un foco da corsari, da infestare e distruggere molta parte del commercio nemico — A tal uopo, nulla si trascurò per la perdizione nostra — ed in ciò, non poco, contribuì la scarsezza d'acqua nel fiume — che a detto dei pratici, non s'era veduta tale da mezzo secolo — Relazione confermatami dallo stesso Perrè governatore di Corrientes — Non essendo possibile d'oltrepassare — io decisi: metter la flottiglia in istato della maggior resistenza — aspettandomi un giorno o l'altro alla comparsa dell'ammiraglio Brown, il di cui inganno, non poteva poi durar tanto tempo — Dalla sponda sinistra del Paranà, al disotto del banco che c'impediva di progredire avanti — in un angolo ove esisteva sufficiente profondità dell'acqua vicino alla costa — io tirai una linea di legni, principiando da un yacht mercantile — su cui feci collocare quattro cannoni — Il _Pereira_ in mezzo — e la _Costituzione_ all'ala destra — formando così una perpendicolare alla direzione del fiume — infilandolo colla batteria sinistra della corvetta, che montava più pezzi e di maggior portata — ed opponendo verso il nemico che doveva comparire d'avalle — tutta la forza possibile — Tale disposizione ci costò fatica, per motivo della corrente — che, benchè poca in quel punto da noi scelto — non mancava di farci impiegare tutte le catene ancore, e gomine per ormeggiarvi i legni — massime la _Costituzione_ che calava diciotto piedi — Non terminati ancora, erano i nostri lavori d'imbossaggio, che comparve il nemico in numero di sette legni — Era superiore d'assai alle forze nostre — ed in situazione da poter ricevere a piacimento, ogni qualunque riforzo e vettovaglie — Noi, non solo lontani da Corrientes, unico paese che ci poteva soccorrere — ma nella quasi certezza del nessun ausilio, come lo proveranno i fatti. Eppure bisognava combattere, anche colla certezza di soccombere — almeno per l'onore delle armi — E combattemmo! Il nemico capitanato dal generale Brown — la prima celebrità maritima dell'America meridionale — ed a giusto titolo: avendo comandato la squadra di Buenos Ayres — sino dal tempo della guerra d'indipendenza contro la dominazione spagnuola — il generale Brown dico: procedeva contro di noi, colla fiducia della sua potenza (Mi pare fosse il 15 Giugno 1842) — Il vento era favorevole al nemico, in quel giorno — ma poco — ed abbisognava egli di tonneggi per venire avanti — seguendo la sponda sinistra del fiume — La destra era impraticabile a legni grandi per bassi fondi — Siccome noi dominavamo la sinistra sponda — sulla quale apogiavamo il fianco sinistro della nostra linea — si sbarcarono parte degli equipagi, e truppa di marina non necessari a bordo — per disputare palmo a palmo il tonneggio, a cui era obligato il nemico — I nostri di terra, si batterono valorosamente in quel conflitto, e ritardarono di molto il suo progresso — ma il nemico — avendo sbarcato sulla stessa sponda cinquecento uomini di fanteria — la superiorità del numero prevalse — e furono obligati i nostri a ripiegarsi sotto la protezione della flottiglia — Il maggiore Pedro Rodriguez, che comandava la forza nostra di sbarco, pugnò in quel giorno, con tutta la perizia, e valore immaginabili — Egli collocò gli antiposti verso sera, sulla costa — e così si rimase tutta la notte, preparandosi d'ambe le parti al combattimento per il giorno seguente — Il sole del giorno 16, non s'era alzato ancora — che il nemico principiava il cannoneggiamento su di noi — con tutte le forze che avea potuto collocare al fronte in tutta la notte — Io avrei desiderato: si fosse — il nemico — maggiormente avvicinato — poichè, solo i nostri pezzi del centro erano di lunga portata, e capaci di danneggiarlo — il resto, ed eran la maggior parte — eran pezzi corti, ed incapaci di ragiungerlo alla distanza in cui s'era tenuto — e si lasciavano quindi inoperosi — Il vecchio ammiraglio Inglese, conosceva benissimo la portata delle nostre artiglierie, e l'inferiorità marcata che avevano a paragone delle sue — Egli perciò, sacrificando il brillante d'un combattimento a metraglie, e corpo a corpo — si attenne al sodo — profitando della superiorità di portata de' suoi cannoni — e rimase perciò in grande distanza, a noi poco conveniente — Si combattè senza interruzione sino a notte chiusa, e da ambe le parti col maggiore accanimento — La prima vittima a bordo della _Costituzione_, fu ancora un ufficiale Italiano di molto valore — Giuseppe Borzone — di bellissime speranze — Io non potei occuparmi de' suoi resti, per l'infierire della pugna — Non furono pochi i danni d'ambe le parti — i nostri legni erano ridotti a carcasse — La corvetta, ad onta di non tralasciarsi di turare i buchi delle palle — aveva aperto acqua al punto — che difficilmente poteva vincersi, pompando senza posa, ed impiegandovi per torno, tutta la gente — Il comandante del _Pereira_, era morto in un'arditissima impresa per terra, contro i legni nemici — Io perdevo in lui, il migliore, e più valoroso dei compagni — Molti erano i morti, più assai i feriti — il rimanente della gente, spossatissima — non poteva aver riposo, per l'acqua soverchiante nella stiva — Eppure v'era polvere ancora — v'erano projettili a bordo e bisognava combattere — non per vincere — non per salvarci — ma per l'onore — L'onore! mi vien da ridere — quando io penso all'onore del soldato — ma di disprezzo! massime nel genere dell'onore dei Borbonici, degli Spagnuoli, Austriaci, Francesi, quando assaltavano — come assaltano gli assassini sulla strada, i poveri viandanti — L'onore di sgozzare dei conterranei gli uni — dei correligionari politici gli altri — mentre un mostro — una prostituta, un discolo scettratto, se la godono e se la ridono sotto baffi — tra le luride gozzoviglie di Napoli, Vienna, Madrid e Parigi — Noi dunque, combattevamo per l'onor solo — e codesto era almeno conforme ai dettami della coscienza — giacchè si pugnava per un popolo contro due tiranni — e si combatteva per l'onore — a seicento miglia da Montevideo — con nemici da tutte le parti — dopo una quantità di combattimenti, privazioni, disagi — quasi certezza di perderci tutti — Intanto Vidal, ministro generale della Republica — accumulava dobloni, per servirsene a delle carozzate — e splendide comparse nelle prime capitali d'Europa — ¿Ed il popolo? Pare creato a pascolo di tanta canaglia! Malatesta Baglioni, ed imperatori o re — per comandarlo o reggerlo! Preti o dottrinari per ingannarlo! Ecco l'onore, la libertà, la giustizia, le leggi! Ecco il mondo — Ecco, a profito di chi suda, e muore di fame la plebe! Ecco, a profito di chi sprecano la vita — innumerevoli generosi Italiani — gettatti sulla terra straniera — dalle sciagure della patria nostra! Colombo inceppato!... Castelli decapitato sulla piazza di Buenos-Ayres! Borso di Carminati fucilato in Spagna! Che uomini! che servigi resi allo straniero! e con che ingratitudine pagati! Lo straniero, le di cui _simpatie_, si sono manifestate or ora (1849) O Roma! — allorquando la veneranda tua cervice — innalzavasi un momento dal letame obbrobrioso — ove ti mantengono le sconoscenti tue alunne — dopo d'esser state da te strappate dalla barbarie delle foreste..... O madre, o grande, istitutrice e donna delle Nazioni! Eppur tremarono — allo scuoterti le chiome — e fu loro d'uopo, la frode, le zizzanie, lo spionaggio sfrontato dei sacerdoti dell'inferno — per abbassarti — Dunque sei grande ancora Italia! Dunque, il giorno che una voce gagliarda di redenzione, possa percuotere l'orecchio dei tuoi figli.... In quel giorno sfumeranno gli affamati e codardi avvoltoj che ti divoran le viscere! — Nella notte del 16 al 17 — tutta la gente fu occupata a preparare i cartucci tutti consumati — tagliare catene per supplire alle mancanti palle — e continuamente pompare l'acqua soverchiante Manuel Rodriguez — quello stesso ufficiale Catalano, salvatosi meco dal naufragio del _Rio-pardo_ sulla costa di S. Catarina, fu occupato assieme ad un pugno dei migliori — ad assestare alcuni legni mercantili a guisa di brulotti — colla maggior quantità possibile di materie combustibili — e quando furono pronti — circa la mezzanotte, si rimorchiarono alla direzione del nemico — Tale espediente non mancò d'incomodarlo tutta la notte — ma non ebbe l'effetto che me ne aspettavo — era la gente, sommamente stanca — e ciò fu il principale motivo del poco successo — Tra i contrattempi di quella sventurata notte — il più che mi afflisse, fu la diserzione della squadriglia Correntina — Villegas il comandante di quella — simile a tanti altri milantatori, da me riconosciuti per tali nella calma e nell'orgia — s'intimorì talmente all'avvicinarsi del pericolo — da risolversi al più degradante ed ignominioso dei delitti: la diserzione in presenza, e nell'impegno del nemico — Egli poco potea servirmi in un combattimento a lunga portata — essendo i suoi pezzi troppo piccoli — ma il suo ajuto poteva esser grande: dovendo ricevere, o dar un arembaggio — giacchè il suo equipaggio era composto di gioventù animosa — Poi, pratico egli stesso, ed avendo buoni pratici del fiume a bordo — mi era molto giovevole — Prezioso infine mi sarebbe stato, dopo la catastrofe per salvare i feriti — e fare una ritirata men disastrosa — Dal principio del combattimento — io avevo veduto il Villegas impaurito — e gli ordinai perciò di collocarsi dietro la nostra linea — in posizione, da non poter esser colpito dai projettili nemici — e sotto la di lui vigilanza, avevo fatto collocare un legno mercantile che dove servir di ospedale — Verso sera mi fece dire: che cambiava di posizione — non ricordo per qual motivo, o pretesto — Abbisognando nella notte della cooperazione sua nel lavoro dei brulotti — io lo feci chiamare — ed ebbi la desolante notizia, che in nessuna parte si trovava — Non volli crederlo capace di tanto tradimento — ed andai io stesso con leggero palischermo per assicurarmi del fatto — Non trovandolo — mi avanzai alcune miglia verso Corrientes, ma indarno — il codardo avea fuggito, e tradito — Me ne tornai coll'anima rammaricata! Ben giusto era il mio rammarico: poichè, la maggior parte delle piccole barche nostre erano state distrute nel servizio durante il combattimento — Io contavo quindi sui legni Correntini, per l'inevitabile ritirata, onde poter salvare i molti nostri feriti — ed imbarcarvi i viveri necessari per tutti — trovandoci molto distanti ancora, dall'abitata frontiera di Corrientes — L'ultime speranze mi svanivano colla miserabile defezione di quei nostri alleati! La defezione all'ora del pericolo, è il più nefando di tutti i delitti! Io tornavo a bordo, e non era lontana l'alba — Bisognava combattere, e non vedevo intorno a me — altro che gente sdrajata e soprafatta dalle fatiche — non udivo altro suono — altro romore, che le lamentazioni strazianti dei disgraziati feriti — non ancora trasportati all'ospedale, incapace di contenerne tanti! Io davo la sveglia ed ordinavo: si riunisse la gente — e dall'alto d'una pompa, dirigevo ad essa, alcune parole di conforto e di eccitamento — Non furon vane le mie parole — e trovai nell'animo de' miei sfiniti compagni — tanta risoluzione da edificarmi — e persuadermi: che l'onore almeno, si voleva salvo — Unanime grido di battaglia, fu ripetuto da quei generosi — ed ognuno fu al suo posto — Non era ancor ben chiaro — che già ricominciava la pugna — ma, se nel giorno anteriore, sembrava il vantaggio da parte nostra — nel secondo — scorgevasi indubitamente, con noi la peggio — I nuovi nostri cartucci erano di polvere inferiore — le palle di calibro, terminate — e supplite da altre minori — e perciò inesattezza nei tiri — massime nei pezzi da 18, di lunga portata, collocati nel centro della Batteria della _Costituzione_ — e due rotatori a bordo al _Pereira_ — Si erano bensì tagliate delle catene nella notte, per servir da projetti — ma anche questi — che avrebbero potuto servire da vicino — erano inutile da lontano — Il nemico scorgeva più scemi d'assai, i nostri tiri — poi, era informato della situazione nostra dai disertori, che non avean mancato, profitando del nostro contatto colla sponda — quindi egli era sempre più imbaldanzito, ed aveva, per gli stessi motivi, portato tutti i suoi legni in linea — ciocchè non avea potuto eseguire nel giorno antecedente — impedito dai superiori nostri fuochi — Migliorava ad ogni momento la condizione del nemico — e peggiorava la nostra — Infine, bisognava pensare alla ritirata — non dei legni — era impossibile moverli dal punto — perchè in sfasciume, mancanza d'acqua nel fiume — e la maggior parte dei cordami in pezzi — Il _Pereira_, fu un momento oggetto d'investigazione, per conoscere se sarebbe atto a metter a la vela — ma fu riconosciuto incapacissimo — La sola goletta _Procida_, potè salvarsi con parte dei feriti e qualche materiale — Conveniva quindi limitarsi a salvare le reliquie del personale, ed incendiare la flottiglia — A tal uopo, ordinai si sbarcasse il resto dei feriti — in alcune piccole rimanenti barche — le armi minute — munizioni ed i viveri che capir potevano in quelle — Intanto continuava il combattimento — abbenchè affievolito di molto per parte nostra — e più gagliardo assai, dalla parte contraria — Preparavansi pure, nello stesso tempo i fuochi, ed i conduttori per l'incendio dei legni — Qui, mi convien narrare un episodio ben desolante — cagionate dall'eccesso delle bevande spiritose — Negli equipaggi da me comandati — vi era gente d'ogni nazionalità — Gli stranieri eran per la maggior parte marini, e quasi tutti disertori da bastimenti da guerra — E questi devo confessarlo: erano i meno discoli — Circa agli Americani — tutti quanti, quasi, erano stati cacciati dall'esercito di terra per misfatti e massime per omicidio — Dimodocchè, essi erano veri cavalli sfrenati — e vi voleva tutto il rigore di cui era capace un legno da guerra per mantenerli all'ordine. Solo in un giorno di pugna, tutto codesto miscuglio di gente, erano disciplinati — e si battevano come leoni — Ora per far l'incendio più eficace — eransi riuniti nella stiva, mucchi di oggetti combustibili — e su di questi spargevansi una quantità di botti d'acquavita che avean fatto parte delle provviste — Ma sventuratamente quegli uomini assuefatti a vivere con una piccola razione spiritosa — trovandosi con un'abondanza spropositata di tali spiriti — vi si ubbriacarono d'un modo, da esser impossibilitati a moversi — Fu quello uno spettacolo ben doloroso — trovarsi nell'imperiosa necessità di dover abbandonare dei prodi e sventurati uomini, in preda delle fiamme! Io feci il possibile — impegnando i loro compagni — un po' meno ebbri, a non abbandonarli — io stesso sino all'ultimo momento ne colsi quanto potei, e li caricai sulle mie spalle ponendoli in salvo — sventuratamente però, alcuni, volarono coi frantumi delle navi — In tali conflitti, ebbi il disgusto di vedere anche degli ufficiali in ebbrezza, probabilmente per farsi coraggio E se tale stato degradante nausea in un individuo qualunque di bassa forza — in un ufficiale, tale stato, è veramente ignominioso! Tutto preparato, si appicò il fuoco, e sbarcai accompagnato dai pochi individui rimasti meco sino all'ultimo — Il nemico si accorse, com'era naturale, dello sbarco nostro — e del nostro movimento in ritirata — Egli fece marciare ad inseguirci tutta la sua fanteria, in numero di circa cinquecento uomini — Noi, erimo disposti a combattere comunque — ma ormai disugualissima sarebbe riuscita la pugna — sia per l'inferiorità nostra numerica — sia per la maggior pratica della fanteria nemica — sia infine per lo stato nostro delle armi, e della gente — Un inconveniente poi grandissimo era: esser la nostra linea di ritirata, tagliata a poca distanza, da un fiume importante — confluente del Paranà. Noi fummo salvi dallo scopio delle Sante Barbere della flottiglia — che effetuossi d'un modo imponente, e terribile — percui s'intimorì il nemico e le vietò l'inseguimento — Fu uno spettacolo sorprendente il volare dei legni, nel sito ove permanevano, rimase il fiume lisso, com'un cristallo — ed in ambe le sponde dell'ampio fiume, cadevano i frantumi con spaventevole fracasso. CAPITOLO XXXII. Ritirata su Corrientes — Battaglia del Arroyo-grande. Noi passammo, nella notte, il fiume Espinello, e campammo sulla sponda destra dello stesso — Nel viaggio, sino alla Esquina, primo paese di Corrientes, impiegammo tre giorni, camminando penosamente, tra isole e paludi — e ridotti alla meschina razione diaria d'un piccolo biscotto, senz'altro — Giunti alla Esquina, migliorammo alquanto di condizione: i nostri feriti furono al coperto — ebbimo carne in abbondanza, ed ospitalità completta dalla buona popolazione di quel paese — Vari mesi passati nella provincia di Corrientes, nulla presentarono d'interessante — Il governo della provincia progettò di armare una piccola flottiglia — ma altro non riuscì, che a farmi perdere del tempo, inutilmente — Ebbi ordine, poi, dal governo di Montevideo, di marciare alla volta di S. Francisco, nell'Uruguay, e mettermi colla forza, agli ordini del generale Rivera — che stanziava coll'esercito in quelle vicinanze. Traversammo dunque, tutto il territorio di Corrientes, da S. Lucia sino al passo _de Higos_ sopra l'Uruguay — Varcammo quel passo, e scesimo sino a S. Francisco, parte per fiume, e parte per terra — Al Salto ebbi il bene d'incontrare Anzani — fatto mercante allora — o piutosto commesso del Bresciano Rini — stabilito in quel paese da qualche tempo — Giunto a S. Francisco, vi trovai alcuni legni da guerra nostri, di cui presi il comando — Il generale Ribera presidente della Republica di Montevideo — era passato in Entre-rios, con tutto l'esercito nostro — ed in cotesta provincia doveva riunirvisi l'esercito Correntino — ed attaccare giuntamente l'esercito di Ourives — Il giorno 6 Decembre 1842 — ebbe luogo nell'Arroyo-grande — la famosa battaglia, ove soccombettero i nostri — cioè tre popoli combattenti per i sacri loro diritti contro un tiranno — Io non commenterò le cause di quella sventura — perchè troppe, e lunghe a descriversi — Sicuramente però, le discordie, fomentate dall'ambizione ed egoismo di pochi aspiranti, precipitarono in sciagure immense, ed offrirono inermi, all'esterminio dell'implacabile vincitore, popolazioni intiere, e generose! Successe all'Italia più tardi — lo succeduto alle provincie del Plata — e per li stessi elementi scaturiti dall'inferno — In S. Francisco, ove trovai il generale Aguiar — rimasto per motivi di salute, soggiornai poco — ed ebbi presto l'ordine da quel generale — di recarmi con tutte le forze disponibili — agiungendomi alcune centinaja di militi, chiamati _aguerridos_ — capitanati dal Collonnello Guerra — di recarmi dico: al passo di Vissillac, per cooperare all'azione dell'esercito nostro — Giunsi coi legni a Vissillac, e vi trovai alcuni avanzi dell'esercito — cioè, materiale — ma nè un solo individuo — Mandai alcuni esploratori, battere il campo — niente! Era il fatale giorno 6 Decembre — sino all'ultimo uomo tutti erano stati chiamati alla battaglia — che si decideva a diciotto miglia di distanza sulle sponde dell'Arroyo-grande[56] — Vi è qualche cosa, oltre l'intelligenza nell'essere nostro — non si sa discernere, non si può spiegare; ma esiste — ed i suoi effetti, benchè confusi — sono un vaticinio — intendasi come si vuole tale parola — Un vaticinio, che vi reca contento od amarezza — Forse quella scintilla infinitesima — emanata dall'Infinito — e che risiede nella misera nostra scorza — ma immortale come l'Infinito pressente oltre il contatto dei nostri sensi — ed oltre la portata della nostra vista — Nulla si scorgeva in quelle deserte campagne — quel giorno però, avea alquanto di solenne, di tetro! di desolato! — come il cuore di coloro, che spiravano, o languivano, sul campo di battaglia — calpestati dal soldato insolente! dall'ugne del destriero del truce, dell'implacabile vincitore — giubilante, per i patimenti, per le torture, per la morte del vinto! Gloria! eroïsmo! vittoria! si chiamano cotesti macelli! Ed inni e _tedeum_ si fanno cantare da alcuni mercenari chercuti! Pochissimi, furono i risparmiati in quella terribile pugna — ed il pressentimento d'un fiero disastro, da noi sentito — nulla di esagerato aveva — Nessuno trovando, che ci dasse notizia dell'esercito — quindi nessun ordine dal capo supremo — come mi avea fatto sperare il generale Aguiar — fu deciso di sbarcare le forze tutte — lasciando piccola guarnigione nei legni — e marciare in cerca dei nostri — Un piccolo corpo intiero, giungendo nelle vicinanze d'un esercito disfatto — può sempre essere di grande utilità ed io — ne ho fatto tante volte l'esperienza — Esso non cambierà la sconfitta in vittoria — ma potrà sempre salvare del materiale — e degli individui feriti o no che senza sostegno cadrebbero in potere del nemico — Sovente anche — vedendo un piccolo corpo, con contegno ordinato ed impavido — benchè vittorioso il nemico — ma necessariamente anche lui disordinato dopo una battaglia è molto probabile ch'ei si fermi — e lasci ai vinti una più comoda, e men faticosa ritirata — Tale certamente, fu il risultato del contegno dei volontari nella campagna del 1866 — alla battaglia di Custosa — Formando essi l'estrema sinistra dell'Esercito Italiano, ed incaricati della custodia del lago di Garda — alla ritirata dell'esercito, dopo la battaglia — i volontari, che in pochi occupavano la sponda occidentale del Lago — si spinsero in avanti, verso Lonato, e Rivertella — e facilitarono con tale mossa, la salvazione di materiale e di alcuni feriti, e traviati — Io osserverò, passando, che seguendo il prediletto mio sistema del Rio-grande — non marciavo mai, in terra — senza un contingente di cavalleria — estratto dagli anfibi miei compagni di ventura — tra i quali avevo famosi cavalieri — espulsi dall'esercito di cavalleria — per irregolarità di condotta — forse per delitti — ma gente — che in generale battevasi egregiamente — e che naturalmente castigavasi quando lo meritava — Abbenchè non trovassimo gente in quel punto — vi trovammo alcuni abbandonati cavalli — e con quelli, i miei scapestrati militi — non mancarono di riunire bentosto le sufficienti monture per il servizio d'esplorazione — l'abondanza di cavalli in quei paesi, facilita molto tale operazione — Erimo pronti — e già si era in moto per la marcia — ma un ordine del generale Aguiar ci richiamava in S. Francisco — Noi saressimo certamente rimasti vittime — trovandoci il nemico in piena campagna dell'Entre-rios — giacchè il nostro esercito rotto in quel giorno complettamente — era introvabile, ed avressimo invece trovato ruina, da cui difficilmente si sarebbe potuto scampare. Rimbarcammo dunque, senza saperne il motivo, e senza aver potuto ottener veruna notizia degli avvenimenti — Giunti a S. Francisco, ebbi dal Collonnello Esteves, un biglietto che principiava colle seguenti desolanti parole: «Il nostro esercito ha sofferto un contrasto» Il generale Aguiar era marciato lungo la sponda sinistra dell'Uruguay per raccogliere fuggiaschi — A me si chiedeva rimanere in S. Francisco, a proteggere il molto materiale ivi rimasto — Nel periodo trascorso tra la battaglia dell'Arroyo-grande, ed il principio dell'assedio di Montevideo — successe quella confusione, quel prendere, lasciare, riprendere, di progetti, che accade in simili circostanze — cioè: dopo le grandi sconfitte — E fu veramente grande, intiera quasi la catastrofe dell'esercito nostro — poichè per molto tempo — non potè più ragranellarsi dello stesso, nulla che somigliasse ad un corpo di truppa — Quando si considera: che l'esercito di Montevideo andava attacare il più forte esercito, che mai si fosse veduto nell'America meridionale — insuperbito da molte e recenti vittorie — attaccarlo nella svantaggiosa posizione di trovarsi il grande fiume Uruguay alle spalle — si capisce: come i frantumi del nostro esercito, furono schiacciati, o prigionieri — Furonvi molte paure da parte nostra, delle irresolutezze e molte defezioni individuali — come doveva necessariamente succedere, in una guerra, in cui da ambe le parti si parlava lo stesso idioma — ed i maggiori nuclei, eran della stessa terra — Il popolo però, rispose con fermezza, con eroïsmo, all'energica voce dei generosi che lo chiamavano alla riscossa, proclamando la patria in pericolo, e chiamando tutti sotto le armi! In breve vi fu un nuovo esercito — non così numeroso, non tanto disciplinato — ma almeno, assai più, pieno di slancio e d'entusiasmo — più penetrato dalla causa sacrosanta del dovere, che lo spingeva — Non era più, la causa d'un uomo che lo stimolava — che spingeva le moltitudini sui campi di battaglia — l'astro di quell'uomo avea tramontato nell'ultimo conflitto — ed invano sforzavasi in seguito di rialzarsi — ma era la causa nazionale, davanti cui tacevano gli odi, le personalità, le miserabili dissenzioni — Lo straniero preparavasi ad invadere il territorio della Republica — Ogni cittadino correva con armi e cavalli ad allignarsi sotto le bandiere per respingerlo — Il pericolo cresceva coll'approssimarsi dell'Esercito formidabile di Rosas, comandato dal tremendo suo luogotenente Ourives — ebbene, cresceva il brio, la devozione alla patria, di quelle popolazioni generose — Non una voce di transazione, di patteggio, coll'invasore! e già d'allora potevasi congetturare cosa era capace di costanza, di privazioni, d'eroïsmo, la nazione che sostenne nella sua capitale un assedio di nove anni — per vincere alla fine! Io arrossisco, pensando a ciò che abbian fatto in Italia, dopo la battaglia di Novarra — Eppure l'Italia tutta bramava non soggiacere allo straniero dominio — ed anelava di combattere — ed io ho la coscienza: sia il nostro popolo suscettibile di costanza e di slancio generoso! Ma le cause!...... Oh! le cause delle nostre sciagure, sono tante!...... E tanti, sono i traditori neri neri, e moltiformi che feconda la nostra bella — e ben sventurata terra! CAPITOLO XXXIII. Preparativi di resistenza. Fratanto, io ebbi ordine di mettere a pico nei canali del fiume[57] — per ove poteva ascendere la flotta nemica — i maggiori legni della flottiglia nostra — Quindi, non più a pico, ma bruciati. Ed eccomi dunque nell'obligo d'incendiare una terza flotta — Almeno, nei due primi casi — avevamo potuto combattere a dovere! Fatti nuovamente pedoni, stettimo alcuni giorni ancora a S. Francisco — per dar tempo di evacuare per Montevideo, il restante materiale dell'esercito — Quindi, marciammo noi pure sulla capitale — nei di cui dintorni dovevansi riunire tutte le forze della Republica, che mano mano, si stavano organizzando. Poco, o nulla d'importante, occorse nel nostro viaggio — eccetto il conoscimento del generale Pacheco (allora collonnello in Mercedes) Quest'illustre orientale, principiò in quelle circostanze di pericolo, a far mostra d'una superiorità distinta, di coraggio, d'energia, e di capacità. Egli senza dubbio, fu il principale campione del suo paese — nella lotta da gigante, sostenuta da Montevideo — contro l'invasione straniera — Lotta!..... che servirà d'esempio alle generazioni venture di tutte i popoli che non vorranno soggiacere alle prepotenze! Io vado superbo, d'aver diviso con quella prode popolazione, vari anni della sua immortale difesa — Montevideo presentava in quei giorni, sorprendente spettacolo — Ourives aveva vinto — e si avanzava implacabile alla testa d'un esercito, che passegiato avea sulle provincie Argentine dissidenti dai governo di Rosas, com'una tempesta — com'un fulmine! Al Coriolano di Montevideo, non avrebbero valso, le prostrazioni dei sacerdoti, delle mogli, delle madri per blandirlo — l'idea di castigare la città proterva, che lo avea cacciato, per proclamarvi un odioso rivale — che lo vide fuggire — dileggiandolo — quell'idea sorrideva al truce vincitore del generale Lavalle[58] come l'amplesso d'una vergine — L'esercito di Montevideo era stato distrutto — come forse mai successe ad altro esercito — e non esistevano sul territorio della Republica — altro che piccoli, e sconnessi frammenti di forze, sparsi a grandi distanze l'uno dall'altro — La squadra era annientata — armi e munizioni pochissime — nullo l'erario! se lo figurino con uomini come Vidal — non intento ad altro, che alla ricerca d'oncie d'oro più portatili — per la meditata fuga — Ed era il ministro generale, quel ladro! Eppure bisognava difendersi! Tale era la volontà generale, in quel magnifico popolo! Molti eran gli uomini, puramente del partito di Ribera, per cui non v'era scampo, coll'entrata di Ourives, l'antagonista del primo — e per cui la difesa era indispensabile condizione — ma impotenti e tremuli perchè la maggior parte, individui attaccati alla greppia dell'impiego — Ma la nazione, il vero popolo, non considerava in Ourives, l'antagonista di Ribera, ma bensì il condottiero d'un esercito d'estranei — soldati d'un tiranno, che procedeva coll'invasione, il servaggio, la morte! Ed il popolo corse alla difesa colla coscienza del sacro suo diritto — In poco tempo, vari corpi di cavalleria si formarono nella campagna — Un esercito di quasi tutta fanteria, si organizzava in Montevideo, palladio della libertà orientale, sotto gli auspici dell'uomo delle vittorie, il generale Paz — certo uno dei migliori, e più onesti capi dell'America meridionale — Il generale Paz, che l'invidia e la nullità avevano allontanato dal comando, rispose alla chiamata della patria in pericolo — comparì alla testa delle forze della capitale — ed organizzò con reclute, e liberti, emancipati allora dalla Republica, quell'esercito, che durante sette anni, è stato il baluardo del paese — e che tuttora si mantiene impavido in presenza dell'oste più formidabile, che mai abbiano veduto quei paesi (1849) Molti capi illustri, dimenticati o noncuranti guerre ove primeggiava l'individuale interesse — comparivano nelle fila dei difensori, ed aumentavano l'entusiasmo e la fiducia — Una linea di fortificazioni fu tracciata intorno alla città — e verso la campagna nell'istmo — ed alacremente vi lavorò la popolazione intiera — sino ad ultimarla, pria della comparsa del nemico — Fabriche d'armi, e munizioni, fonderie di cannoni, laboratori di vestimenta ed attrezzi per i militi — tutto s'improvisò come per miracolo — I cannoni, che dal tempo delli Spagnuoli, furono giudicati inutili e collocati a guisa di steccato sui limiti dei marciapiedi delle strade — eran dissoterrati, e montati per la difesa — La venuta poi, del generale Pacheco da Mercedes e la sua collocazione al ministero della guerra, diede l'ultima mano ai preparativi della piazza — Io fui destinato alla organizzazione d'una flottiglia, non esistendo più nemmeno i vestigi dell'antico, per cura e conto del ministro traditore già sopra accennato — Si affitarono alcuni piccoli barchi mercantili, che si armarono come si poteva — ed un'incidente fortunato mi valse molto per poter proseguire con qualche successo a tale armamento — L'_Oscar_ brigantino nemico, veleggiando di notte nelle vicinanze della costa, investì sulla punta del _Cerro_ (monte a ponente di Montevideo, alla distanza di circa sei miglia — e formando colla sua base nel fiume, la parte occidentale del porto), e ad onta de' moltissimi sforzi per farlo galleggiare fatti dal nemico — esso fu obligato di abbandonarlo. Noi profitammo assai di tale naufragio — Da principio, voleva il nemico impedirci di avvicinare il naufrago — e mandò la _Palmar_, goletta da guerra a cannonegiarci — ma vedendo il poco frutto de' suoi tiri — e l'ostinazione nostra a ricuperar la preda degli scogli — ci lasciò liberamente all'opera — Tra i molti oggetti ricuperati dall'_Oscar_ — eranvi cinque cannoni, per noi preziosissimi — e che ci servirono per armare tre piccole legni — primi, nella nuova flottiglia — e che ci servirono immediatamente a coprire la sinistra della linea di fortificazioni — Il caso della perdita dell'_Oscar_, mi sembrò di buon augurio, per l'ardua difesa che si preparava, e fu un nuovo stimolo alla generale fiducia — CAPITOLO XXXIV. Principio dell'assedio di Montevideo. Era il 16 febbraio 1843 — apena le fortificazioni della città, avevano avuto tempo di ultimarsi — pochi cannoni da collocarvisi — che comparve sulle alture circonvicine la vanguardia dell'esercito nemico — Il generale Ribera alla testa delle forze di cavalleria, troppo debole per poterlo combattere aveva aperto varco, e preso la campagna — contornando il fianco sinistro del nemico — e ponendovisi alla retroguardia — Tale manovra riesce facile in un paese — ove ogni uomo è compiuto cavaliere — ed ove essendo l'unico alimento della campagna — la carne — non sono necessarie le fastidiose impedimenta — indispensabili nelle guerre Europee — Ribera poi, se non era un gran generale da battaglie campali — era maestro negli stratagemmi propri della piccola guerra — e tale manovra operata con maestria — lo poneva nuovamente in istato d'incomodare grandemente il nemico — Il generale Paz rimaneva al comando delle forze della capitale — Tali forze eran numerose — comparativamente all'estensione di mura, che si dovevano difendere — ma se si considera che tutte erano nuove reclute e che non tutti gli individui che le componevano, eran fior di roba — cioè penetrati da vero amor di patria — non si può altro che ammirare la sagacia, il coraggio, e la costanza dell'illustre generale — che dopo d'averle organizzate e disciplinate, sostenne con esse — i primi conflitti dell'assedio, ed i più pericolosi — Ad onta dello slancio generoso delle popolazioni — non mancavano i dissidenti i codardi ed i traditori: Un Vidal, ministro generale, aveva rubato l'erario e fatto fagotto — Un Antuña, collonnello d'un corpo e capo di polizia, era passato al nemico, con molti altri ufficiali, ed impiegati — Un corpo detto _Aguerridos_, di stranieri al soldo della Republica — avean defezionato, in varie riprese quasi intieramente non solo — ma una notte che detto corpo occupava i posti avanzati della città ne compromise molto la sicurezza col suo tradimento. Tali esempi erano seguiti naturalmente da singoli individui — che credendo tutto perduto — con un pretesto o coll'altro, abbandonavano le fila dei difensori per passare al nemico — Gli affari andavano a rompicollo da principio, e non seppi mai capire: perchè Ourives, informato minutamente di tutto dai suoi aderenti interni — non profitò dello scompiglio, e dell'insufficienza delle fortificazioni, per attaccare vigorosamente la piazza. Egli altro non fece: che dei riconoscimenti, e dei falsi attacchi di notte, che aguerrivano gl'inesperti militi di Montevideo — Intanto si armavano, e si organizzavano le legioni straniere — e comunque si sia interpretato lo spirito dell'armamento delle legioni Francese, ed Italiana — non può negarsi — che fu l'effetto d'uno slancio generoso, il preludio della prima chiamata all'armi, e per respingere l'invasione dall'ospitale terra d'asilo — Che in seguito vi si sieno introdotti degl'individui collo scopo interessato di speculazioni — egli è pur vero — comunque sia: l'armamento ed organizzazione di quei corpi, se non furono decisivi — valsero almeno a garantire la sicurezza della città. I Francesi più di noi numerosi, e più esaltati dal prestigio militare, ebbero, in poco tempo, da due milla e sei cento uomini sotto le armi — Gl'Italiani riunironsi in numero di circa cinquecento — e benchè sembri poco a proporzione de' nazionali nostri in quel paese — io avrei mai sperato tanto considerando le odierne consuetudini nostre, e la nostra educazione — Quel numero si aumentò in seguito — ma mai oltrepassò i settecento. Il generale Paz, profitando dell'aumento di forze stabilì una linea esterna alla distanza d'un tiro di cannone dalle mura — D'allora in poi, il sistema di difesa fu regolato ed il nemico non fu più capace d'avvicinare la città. Essendo io al carico della flottiglia, che andava pure organizzandosi, io proposi al comando della legione, un certo Angelo Mancini — d'infame memoria — e quello venne accettatto dal governo — CAPITOLO XXXV. Primi fatti della Legione Italiana. La legione fece il suo primo servizio in una sortita, — e siccome poco poteva sperarsi da gente nuova alle pugne — non fece buona figura — Si moteggiò, mettendo in dubbio il valore Italiano in Montevideo — io arrossivo di vergogna — e bisognava rintuzzare i moteggi — Toccava alla Legione, un'altra volta, far parte d'una spedizione al Cerro — io dovevo trovarmi con essa — In quel giorno, comandava la spedizione suddetta il generale Bauzà — buon soldato ma molto vecchio — Si stette in presenza del nemico facendo delle marcie, e contromarcie, ma senza risultato — Era forse prudente non attaccare un nemico, se no più numeroso — certo dei nostri più aguerrito — Io impaziente di provare i miei concittadini — stuzzicavo — ma invano il vecchio generale — quando la fortuna ci mandò da Montevideo il generale Pacheco, allora ministro della guerra — Mi confortai alla vista di quello, che sapevo intraprendente e prode — Mi avvicinai a lui — e colla fiducia e familiarità concessemi — chiesi di cacciare il nemico da una posizione dietro un parapetto che dominava un fosso dalla parte nostra, e dove quello si teneva come al sicuro — Non solo il Ministro assentì alla mia richiesta, ma ordinò al generale Bauzà di apogiare il movimento della Legione Italiana — Io feci schierare la legione in collonna per sezioni al coperto d'un numeroso di case semidistrutte, si spiegarono due compagnie in collonna al fronte, e dopo d'aver ricordato qualche cosa che alludeva all'onore della nostra terra noi attaccammo l'ala sinistra del nemico, che consueto a non temerci, ci aspettò di piè fermo, e ci ricevette con terribile fucilata — Ma la legione Italiana doveva vincere in quel giorno — essa lo aveva giurato ed attenne il giuro — Invano caddero feriti molti dei nostri — si procedeva impavidi sinchè giunti a tratto di baionetta del nemico, quegli prese la fuga — e fu inseguito non poco — Il centro, e l'ala sinistra nostra furono pure vittoriosi — sicchè quaranta e due prigionieri nemici rimasero in nostro potere — Quel fatto d'armi abbenchè di poco momento, valse sommamente — rilevò il morale dell'esercito nostro, menomando quello del nemico — E da quel giorno la legione Italiana seguì la sua carriera gloriosa facendo l'ammirazione di tutti — Quel giorno fu il precursore di mille prodezze operate dai concittadini nostri, mai più vinti! E sul campo stesso del Cerro, la Legione Italiana con uno squadrone di cavalleria, ed alcuna fanteria indigena — riportarono — vari mesi dopo — il giorno 28 di Marzo — non ricordo di che anno — uno splendido trionfo, ove lasciò la vita un famigerato generale nemico — Nuñez — Il giorno seguente alla prima piccola vittoria — la Legione Italiana schieravasi sulla piazza della _Matrix_, la principale di Montevideo — al cospetto d'un intiero popolo, ricevendo le lodi e felicitazioni del Ministro della guerra — ed acclamata universalmente — La parola potente del generale Pacheco — aveva risuonato tra le moltitudini — Io, mai, ho udito parola più commovente nè più atta a risvegliare una nazione — Colla Legione Italiana avea combattuto per la prima volta, in quel giorno, e distintamente — quel Giacomo Minuto — detto Brusco — capitano di cavalleria in Roma nel 49 — ferito di palla nel petto — e morto in conseguenza d'essersi stracciato le fascie della ferita, alla notizia dell'entrata dei soldati di Bonaparte — Il maggiore Pedro Rodriguez di Montevideo ufficiale di fanteria di marina pugnò pure valorosamente. Da quel giorno, sino all'apparizione d'Anzani nella legione — io poco m'allontanai dal corpo abbenchè occupato il più del tempo in mare — Anzani trovavasi verso quel tempo a Buenos-Ayres, ove ricevendo l'invito mio, recossi a Montevideo — L'acquisto d'Anzani nella Legione Italiana, valse sommamente — in tutto — ma massime nell'istruzione e disciplina — Provetto nella milizia, avendo fatto le guerre di Grecia e di Spagna — io mai ho conosciuto un'ufficiale con più coraggio, più sangue freddo e più istruzione d'Anzani — Ripeto: fu un vero tesoro per la Legione — ed io pochissimo organizzatore fui ben fortunato d'aver presso di me quell'amico e fratello d'armi imparegiabile — Con lui, alla direzione del corpo, io ero certo del buon andamento d'ogni cosa — essendo di più, Anzani, d'una modestia e d'un'onestà a tutta prova — Dimodocchè io potei occuparmi della flottiglia — Anzani fu molto contrariato da Mancini, e da Danus — uno collllo titolare — ed il secondo maggiore ambi pessima roba, come provarono in seguito — Essi non potevano conformarsi alla superiorità del merito d'Anzani — il quale, ad onta di mille miserie suscitate dai due suddetti — colmo di cognizioni militari, ed amministrative com'era — sistemò il corpo sopra un piede tanto regolare, quanto le circostanze potevano permetterlo — CAPITOLO XXXVI. Flottiglia — Fatti di questa. La flottiglia ai miei ordini, benchè di poca importanza, non mancava d'esser utile alla difesa della piazza — Collocata sull'estrema sinistra della linea che varcava l'istmo da un'acqua all'altra, non solo la copriva perfettamente schierata a martello della stessa — ma minacciava il fianco destro del nemico qualora questo attentasse di assaltare — Essa serviva di anello tra le importanti posizioni del Cerro, e dell'isola della Libertà — detta anche dei Ratti — Facilitando sopra tutto e cooperando nei tentativi che si attuavano continuamente sopra l'estrema destra del nemico — che assediava il Cerro. L'isola della Libertà era stata adochiata dal nemico, che progettò d'impadronirsene — La squadra di Buenos-Ayres, sotto gli ordini pel generale Brown, preparavasi ad impadronirsene — fu deciso quindi dal governo nostro di prevenire l'occupazione nemica colla nostra — ed io fui incaricato di trasportarvi due pezzi da 18, ed una compagnia di guardie nazionali — Tale operazione fu fatta di notte — e verso le 10 p.m. tutto era sbarcato nell'isola, ed io tornavo verso Montevideo — col lancione che m'avea servito per i pezzi, a rimorchio — Successe qui, uno di quei fatti, che l'immaginazione dei Romanzieri partoriscono qualche volta — e che devono lasciar loro col cuor contento, quando concepiti. L'isola della Libertà staccata dalla costa del Cerro, da una distanza d'un piccolo tiro di cannone — è distante da Montevideo circa tre miglia — Il vento soffiava da mezzogiorno — che cagiona in quel porto agitazione di mare, proporzionata alla forza del vento — e massime nel tragitto dall'isola al molo della metropoli — Imbarcato io in una di quelle lancie di bastimenti mercantili, e che servono principalmente, colla loro larga poppa a salpar le ancore — imbarcazione, che fu comprata in quei giorni dal governo — avevo meco, i marinai adequati all'operazione effetuata, ed avevimo a rimorchio la stessa barcaccia, o lancione, su cui s'erano trasportati i pezzi d'artiglieria all'isola — Tra il mare da mezzogiorno, e la gravità della barcaccia — di forma quasi cubica, e molto alta sull'onda, per nulla aver dentro di peso — marciavasi lentamente, e con molta deriva verso l'interno della baia a settentrione — quando tutt'assieme, scorgonsi legni da guerra sotto vento a noi, verso maestro, tanto vicini che la sentinella da prora d'uno di quelli ci gridò: «Chi viva!» «Zitti!» io dissi alla gente: Era senza dubbio la squadra nemica — Sommessamente parlando, io eccitai a radoppiar la voga, e far sui remi meno rumore possibile — Io mi aspettavo ad una grandine di fucilate — dopo l'intimazione fatta dalla sentinella — ma miracolosamente, scassammo, passando quasi sotto il pompresso del _Belgrano_ — ch'io riconobbi — e senz'altra molestia, potemmo seguire il nostro viaggio per Montevideo. La causa della salvezza nostra fu: che in quell'ora stessa, le minute imbarcazioni della squadra nemica, cariche di truppa, erano state mandate ad assaltar l'isola della libertà — Dunque per tal motivo — fu spiegato poco dopo — il silenzio del nemico, che voleva sorprender l'isola coi palischermi, e perciò ordinato silenzio — ed il motivo pure che non inviò gli stessi a predarci — ciocchè potevano facilmente eseguire — Ma che fortuna! noi giunsimo in salvamento al molo — da dove si cominciò ad udire tremenda fucilata nell'isola in quel momento assaltata — Io diedi immediatamente parte dell'occorso al governo — e m'incamminai a bordo, per preparare i nostri piccoli legni alla partenza — ove sussidiare l'isola, se v'era ancor tempo — Sessanta circa uomini erano i nostri dell'isola della libertà — non ben armati, e con poche munizioni — All'alba io veleggiavo da Montevideo, con soli due legni, dei tre che ne avevimo, non essendo il terzo atto a far fuoco per non esser finito ancora il suo armamento. Coi due legnetti, armati ognuno d'una caronata da dodici, di quelle prese al naufrago _Oscar_ — noi ci collocammo tra il Cerro e l'isola, bordeggiando; e per uscire dall'incertezza: se l'isola si trovasse in nostro potere o del nemico io fui obligato di mandare a riconoscerla l'ufficiale Clavelli con un piccolo canoto — Io ebbi la fausta notizia: esser l'isola, nostra, ed il nemico esser stato respinto nel suo attacco di notte — I bravi nazionali nostri, abbenchè nuovi alle armi, avevano combattuto da valorosi — Non solo avevano respinto il nemico — ma cagionato allo [stesso gravi perdite][59] ed i cadaveri dei soldato di Rosas — galleggiarono per vari giorni nell'acque del porto — Feci sbarcare subito le munizioni dei due pezzi da 18 — ed un ufficiale con vari artiglieri per il servizio degli stessi — L'alba stava rischiarando, ed appena terminata l'operazione suddetta — il nemico ruppe il fuoco, e l'isola vi rispose alacremente — Coi nostri legni, io presi il vento alla squadra nemica e l'attaccai pure d'infilata co' miei due cannoncini — Era però inegualissimo il combattimento — Aveano i contrari due brigantini, e due golette — Tra i primi uno di sedici pezzi di forte calibro — I cannoni dell'isola, che più danno potevano cagionare, non avevano piattaforma — e per fortuna un antico parapetto, semi distrutto — Essi erano malissimo acconciati d'accessori, per esser stati montati in fretta — e peggio di tutto poche munizioni — Abbenchè non molto grosso il mare, i tiri nostri di bordo erano resi incerti, dal rollare dei piccoli legni — Infine, l'Ufficiale Raffaele, Italiano, — ch'io avevo destinato alla direzione dei due pezzi dell'isola — dopo d'aver esaurite le poche munizioni, s'era coricato coi suoi artiglieri, ed i nazionali, dietro il piccolo e rovinato parapeto, che il nemico fulminava con tutte le sue artiglierie — I fuochi dell'isola cessati — ed i nostri di bordo, insignificanti — il nemico incominciò a girare i suoi fianchi verso di noi imbossandosi — e già la _Palmar_ con una mitragliata d'un pezzo di lunga portata — m'avea ferito vari uomini sulla tolda, e fra loro il mio assistente Francisco — un bravo mulato — ferito mortalmente nella pancia da un biscaino — ossia palla rotonda di ferro, da metraglie. Una volta ancora, la fortuna provvide!... Il comodoro Purvis comandante allora la stazione Britannica, in Montevideo, mandò, o venne lui stesso, con una _aïola_ — palischermo — e con una di quelle bandiere, che fermano le tempeste — cioè l'Inglese — Si frammise, e fermò il conflitto — come se avesse toccato i combattenti colla magica bacchetta! Per me e per la Repubblica fu grande ventura! Da quel momento principiarono le negozazioni, uscì dal porto la squadra nemica — e non più cadette l'isola in potere altrui — Che magnifico impiego della forza! quando tal contegno, si paragona a quello di certi miserabili potenti, che con un sol cenno avrebbero potuto — o potrebbero fermare fiumi di sangue — Con un sol cenno — potrebbero rialzare popoli caduti, e rintuzzare la mania d'opprimere di prepotenti! Qualunque fossero le ragioni del comodoro Purvis, è innegabile: che vi fu molta generosità cavalleresca da parte sua — per un popolo sventurato, ma prode, ma che, senza dubbio, entrava nella simpatia gentile del filantropo ed onesto figlio d'Albione! Da quel momento Montevideo conobbe: avere nel Comodoro Inglese, un'amico non solo, ma un protettore. Il fatto dell'Isola della libertà — il di cui felice risultato, più doveasi alla sorte che al merito nostro — abbenchè nulla si fosse trascurato per difenderla — acrebbe fama, ed importanza alle armi della Republica — comunque insignificante fosse stato il conflitto. In quella guisa, cioè: con piccole e favorevoli imprese, rilevavasi una causa, già considerata perduta da molti — E ciò prova bene: che mai, si deve disperare nelle battaglie, e nella politica particolarmente, quando si propugna la causa della giustizia — Patriottica ed eccellente amministrazione del governo, la di cui testa era Pacheco — La direzione della guerra all'integro ed imparegiabile generale Paz — l'impavido ed imponente contegno della popolazione — già scevra da pochi traditori o codardi. L'armamento delle Legioni straniere — Infine tutto, poco a poco vaticinava un esito felice — CAPITOLO XXXVII. Pugne brillanti della Legione Italiana. La legione Italiana — la di cui nascita, era stata beffegiata da taluni — massime dai Francesi — che le nostre discordie, hanno assuefato da molto tempo a disprezzarci — giungeva a tal fama da destare invidia alle migliori truppe; non mai vinta — essa aveva parteggiato alle imprese più difficili — ai più ardui combattimenti — Alle _Tres Cruces_ — tre cruci — ove l'intemerato Collonnello Neira — per un eccesso di bravura, era caduto nelle linee nemiche — la Legione — che in quel giorno stava di vanguardia ai di lui ordini — sostenne una lotta Omerica — corpo a corpo — cacciando gli Orivisti dalle fortissime posizioni — sino all'acquisto del cadavere del capo di linea — Le perdite della legione in quel giorno, furono considerevoli — a proporzione del piccolo numero de' suoi combattenti — ma altretanto gloriose — Quel successo che sembrava doverla esaurire, la fomentò oltremodo — crescendo in numero con nuove reclute — soldati d'un giorno, che combattevano come veterani! Tale, è il soldato Italiano — tali i figli della nazione disprezzata — quando fuori dalla corrutrice influenza del prete e di reggitori codardi — essi sono stimolati dal bello, e dal generoso — Il _Passo della Boyada_ (24 Aprile 184.....) fu pure un serio conflitto — Un corpo d'esercito, agli ordini dello stesso generale Paz — era sortito da Montevideo, passando all'ala destra del nemico — costeggiò il littorale tramontana della baia, sino al Pantanoso — piccolo e fangoso fiumicello a due tiri di cannone del Cerro — e doveasi riunire alle forze nostre stanziate in quella fortezza — per dare un colpo — forse decisivo all'esercito nemico — tratto così, fuori dalle forti posizioni del Cerrito — quartier generale d'Ourives — e per lo meno doveasi sorprendere due battaglioni situati sulle sponde del paludoso fiumicello, già accennato — A poco, o nulla riuscì tale impresa, che dovea dare dei risultati importanti — e ciò per mancanza di concerto — Ciocchè succede spesso, nelle operazioni combinate — Fummo impegnati — nel passo suddetto — in acanitissimo combattimento — Delle tre divisioni, con cui si formava il nostro corpo di circa sette milla uomini — quella che faceva la retroguardia, fu accossata talmente dai nemici che ingrossavano rinfrancatisi dalla sorpresa — che per motivo, sopratutto, del difficoltosissimo passo — essa a gran stento poteva salvarsi, o salvare parte della sua gente — Io comandavo la divisione del centro, che già trovavasi sulla sponda destra del Pantanoso, il di cui nome non era esagerato — avendo nel suo letto un pantano che sommergeva nel passo uomini e cavalli — e che conveniva passare su d'una gettata di grandi sassi sconnessi ed ineguali — Diemmi ordine, il generale, di ripassare in sostegno dei pericolanti — e naturalmente fu forza ubbidire — quantunque a malincuore, certo di perdervi molta gente — e difficilmente potervi far buona figura — I nostri della retroguardia combattevano valorosamente; ma il nemico, sempre crescente, li aveva involti, e già occupava un fortissimo stabilimento (saladero) dietro loro — cioè: sulla loro linea di ritirata — Di più esausti di munizioni trovavansi i nostri — La testa della legione Italiana, entrava nel sala[dero] — mentre una testa di collonna nemica era già entrata, e spuntava dalla parte nostra — Ivi impegnavasi accanita pugna, corpo a corpo, a bajonettatte, e finalmente trionfava il valore Italiano — In quel punto, era il terreno ingombro di cadaveri — e tra i nostri caduti, ebbimo a deplorare la morte d'un prode ligure, il Capitano Molinari — Ma i compagni della retroguardia erano salvi — ed il combattimento ristabilito a vantaggio nostro — Giungevano altri corpi in sostegno, ed operavasi la ritirata mirabilmente[60]. La legione Francese, nello stesso giorno, dovendo simultaneamente operare sulla linea della città — ebbe un rovescio — e così fu da noi, risposto degnamente ai moteggi di codesti nostri vicini. Il 28 di Marzo — fu pure giorno gloriosissimo per le armi della Republica, e per la Legione Italiana — In quel giorno l'impresa era diretta dal generale Pacheco — il nemico che assediava il Cerro, agli ordini del generale Nuñez — uno dei capi più famigerati di quei paesi — passato però vergognosamente dalle nostre, alle fila nemiche — nel principio dell'assedio — Il nemico, dico: mostrava molta baldanza in quella parte — e non poche volte era giunto, sin sotto i baluardi della fortezza — minacciando di tagliare le comunicazioni della stessa colla città — e distruggendo a fucilate il Faro eretto sulla parte superiore degli edifizi — Il generale Pacheco ordinò la traslazione di alcuni corpi al Cerro — tra cui la legione nostra — Il movimento ebbe luogo durante la notte — ed all'alba erimo, colla legione, imboscati in una vecchia polveriera, attorniata da ruinati edifizi — ad un miglio circa a tramontana della fortezza — Tali edifizi, abbenchè in macerie, conservavano delle mura erette — e capacità sufficiente da nascondere tutta la gente Italiana, quantunque alle strette — Dal Cerro incominciossi a scaramucciare — e quindi poco a poco, si andava, la pugna riscaldando — Il generale nemico di natura focoso — spingeva baldanzosamente contro i nostri — sino ad impossessarsi d'una forte posizione chiamata _quadrado_ — a piccolo tratto di cannone dalla vecchia polveriera — Già contavano tra i feriti nostri, due dei migliori tra i capi — i Collonnelli Tajes e Estivao — quando il segnale che doveva ordinare la sortita della legione, non comparendo dall'alto del Cerro[61] e facendosi serio l'affare — fummo chiamati alla riscossa dal collonnello Caceres — incaricato della forza combattente. Io sarò fiero sempre — d'aver appartenuto a quel pugno di prodi, che si chiamò: legione Italiana di Montevideo — che ho veduto sempre sul cammino della vittoria! Ma in quel giorno erano i nostri Italiani — belli!..... di sangue freddo e di valore. Essi fecero l'ammirazione degli orgogliosi Americani, che a giusto titolo, pretendono ad una bravura eccezionale. Trattavasi di attaccare il nemico su d'un'eminenza — dietro un riparo di fosso e parapetto — Lo spazio che si doveva percorrere per assalirlo, era sgombro d'ogni minimo ostacolo; dimodocchè difficile era l'impresa, dovendo marciare scoperti — verso il nemico coperto — Ma la legione in quel giorno avrebbe affrontato il diavolo! Essa ricordava che sullo stesso terreno acquistò il suo diploma di valore — All'orecchio de' suoi militi risuonavano ancora le benedizioni d'un popolo grato! Il plauso delle bellezze della capitale! Essa marciò contro il nemico senza fare un sol tiro — e senza fermarsi — sino a precipitarlo nel Pantanoso a tre miglia del campo di battaglia — Morì Nuñez, e molti prigionieri si fecero — I corpi Orientali, compagni nostri — combatterono pure con molto valore — e se ritardato, fosse stato alquanto il movimento suddetto — e dato tempo alla collonna nostra di destra — comandata dal bravo Collonnello Diaz, di avanzarsi, e frammettersi tra il fiumicello ed il nemico — certo non salvavasi uno solo della sua fanteria — Quel fatto d'armi onora molto il genio militare del generale Pacheco — ed obligò l'estrema destra del nemico a rimanersi guardinga — lontana dal Cerro, al di là del Pantanoso — CAPITOLO XXXVIII. Spedizione del Salto. Innumerevoli furono i fatti d'armi sostenuti dalla Legione Italiana, durante i primi anni dell'assedio — numerosi furono i morti e feriti — ma in nessuno scontro risultò disdoro a quella brava gente — e l'Italia può andarne superba! Noi pure, nei primi calamitosi tempi, ebbimo qualche traditore: quel Mancini, di cui già feci cenno — un Danus, un Giovanni N. ed alcuni poveri diavoli trascinati dagli stessi, defezionarono — Fu vicenda dolorosa quella — ma che presto sommerse nell'Oceano glorioso, in cui veleggiò la superba Legione — Nell'_India muerta_ — fu battutto il generale Rivera — ma perciò non scemò la difesa della capitale — I capi dell'esercito di questa, aguerriti da perenni pugne cogli assedianti, vi avean guadagnato una superiorità morale, che aumentava tutti i giorni — Giunse l'intervenzione Anglo-Francese, ed allora tutto vaticinava un esito felice della guerra — Ogni paese nel mondo, starà sempre meglio, senza intervenzioni straniere — e così sia, nell'avvenire, per la nostra povera Italia, vittima di tanti di quei malanni — Per Montevideo, le condizioni erano diverse: essendo codesta capitale un vero emporio cosmopolita, ove gli stranieri d'ogni nazione, sono sempre, per lo meno, uguali in numero agli indigeni. Gl'interessi stranieri poi sono quasi sempre a quelli degli indigeni superiori — Se l'Italia diplomatica, avesse contato per qualche cosa nel Rio della Plata — essa avrebbe dovuto far parte dell'intervento Anglo-Francese — essendo gli Italiani non inferiori in numero — a nessuna delle nazioni intervenenti — Ma nel 1842, in cui principiò l'assedio, il rappresentante del governo Italiano a Montevideo, era tenuto per ben poca cosa, ed un solo piccolo legno da guerra, facea sventolare la bandiera Italiana su codesta rada — Nei progetti di operazioni, combinati tra il governo della Republica, e gli ammiragli delle due alleate nazioni — vi entrava una spedizione nell'Uruguay — ed io ne fui incaricato — Nel periodo trascorso, la flottiglia nostra, s'era aumentata di vari legni: gli uni presi in affitto, siccome i primi; altri sequestrati ai nemici della Republica — ed altri predati sul nemico, che inviava i mercantili suoi legni nel Buceo — porto immediato al quartier generale di Ourives — ed in altri porti in potere delle sue forze — Dunque tra l'accrescimento di detti legni, e di altri due della Squadra Argentina, sequestrata dagli Anglo-Francesi, e messi a disposizione del governo Orientale — la spedizione nell'Uruguay, si compose di circa quindici bastimenti — il maggiore dei quali era il _Cagancha_, brigantino di sedici pezzi — ed i minori alcune baleniere — La truppa di sbarco, componevasi: della legione Italiana, 200 — dugento uomini circa, di nazionali, agli ordini del Collonnello Battlle — oggi (1872), generale e Presidente della Repubblica — e circa cento uomini di cavalleria, due pezzi da 4, e sei cavalli in tutto — Era verso la fine del 1845 quando partì la spedizione da Montevideo per l'Uruguay — dando principio alla gloriosa campagna, con fatti brillanti ma infruttuosi per l'infelice e generosa nazione Orientale[62]. Giunsimo alla Colonia — città situata sopra un alto promontorio — sulla sponda sinistra del Plata, — ove le squadre Anglo-Francesi ci aspettavano, per espugnare la posizione — Non fu ardua l'impresa — sotto la protezione dei superflui fuochi dei legni di tre squadre — Io sbarcai co' miei legionari — ed i nazionali in seguito — Il nemico non oppose resistenza tra le mura — ma usciti al di fuori, lo trovammo disposto a combatterci. Dopo noi, sbarcarono gli alleati — Io chiesi agli Ammiragli di farmi sostenere, mentre io procurerei di allontanare il nemico — ed una forza d'ambe le nazioni uscì in nostro apogio — Ma impegnati che fummo in campo aperto, con un nemico superiore — ed ottenuto alcun vantaggio — gli alleati ritiraronsi intramuros — non so per qual motivo — e ci obligarono a far lo stesso — essendo noi soli, di molto inferiori al nemico — Pria del nostro sbarco — quando i contrari, davanti all'imponenza delle forze navali — avean progettatto di abbandonare la città — essi obligarono gli abitanti a sgombrarla — quindi tentarono di darla alle fiamme — Dimodocchè molte case, presentavano il triste spettacolo dell'incendio — e per ottenerne un'effetto più pronto, avevano infranto la mobilia, e sconquassato ogni cosa — Allo sbarcare nostro, cioè della legione, e dei Nazionali di Battlle — noi avevimo immediatamente, seguito il nemico in ritirata — e gli alleati sbarcati dopo, occuparono la sgombra città — mandando, come abbiam veduto, a sostenerci, parte della loro truppa — Ora tra il soqquadro delle ruine e dell'incendio, era difficile di mantenere tale una disciplina, da impedire qualunque depredazione — ed i soldati Anglo-Francesi, ad onta delle ingiunzioni severe degli ammiragli — non mancarono di servirsi a piacimento della roba abbandonata nelle case, e per le strade — I nostri rientrati seguirono — in parte — l'esempio, ad onta di fare noi — cioè gli ufficiali, il possibile per reprimerli — La repressione dei disordini era difficile — considerando: esser la Colonia paese ben fornito d'ogni cosa per provvedimento della campagna, e massime di liquidi spiritosi — che esaltavano le velleità poco oneste dei depredatori — D'altronde il più importante delle cose tolte dai nostri, furono comestibili, e materazzi portati nella chiesa ov'erimo accampati per coricarsi — suppelletili, che naturalmente furono abbandonate dopo pochi giorni alla nostra partenza — Comunque, senza l'esempio dei nostri alleati che solletticò — com'era naturale i nostri militi — tali eccessi si sarebbero scansati — Io mi sono dilungato alquanto sui dettagli di cotesto avvenimento — descrivendoli con scrupolosità veridica — per rintuzzare certe descrizioni fatte da un _Chauvin_ — certo Mr. Page — comandante allora del brigantino da guerra Francese — il _Ducouadic_ — Uomo detto dai concittadini suoi: una creatura di Guizot, mandato da quel ministro di Luigi Filippo — in qualità di emissario segreto — Descrivendo i fatti occorsi nella Colonia — cotesta spia diplomatica — diceva peste dei _Brigands Italiens_ — e per effetto della di lui Gallica simpatia io fui obligato — all'iniziativa, da noi operata, dello sbarco — di far mettere la mia gente al coperto — non dai fuochi del nemico: perchè il nemico fuggiva senza sparare al nostro approssimarsi — ma da quelli del _Ducouadic_ — che avendo la sua batteria proprio di fronte alla mia gente, la fulminava a cannonate, in modo scandaloso — Alcuni uomini della mia gente, furono contusi dai frantumi di macerie e dalle schegge, che i tiri di cotesto nostro alleato c'inviava — Io ricordo che fra gli altri titoli con cui ci onorava nelle sue stravagganti narrative, vi era quello di _Condottieri_ con cui quel signore affettava di spruzzare di disprezzo gente che più di lui valeva — CAPITOLO XXXIX. Il Matrero. Nella Colonia avevimo dovuto cooperare alla presa di quella città — ma il nostro destino era di seguire oltre, e ristabilire l'autorità della Republica sulla sponda sinistra dell'Uruguay — L'isola di Martin Garcia — ove anticipai Anzani con una piccola spedizione — si rese senza resistenza — Acquistammo in quell'isola, qualche bestiame, ed alcuni cavalli — Ebbimo nella stessa il primo _matrero_, un certo Vivorigna, di quelli che tenevano per noi — ed io devo dire una parola su questa classe di valorosi avventurieri — i di cui serviggi tanto ci valsero nell'ardua nostra e gloriosa spedizione — Il Matrero, è il vero tipo dell'uomo indipendente — ¿E perchè dovrà egli viver tra una società corrotta nella dipendenza d'un prete che l'inganna, e d'un tiranno che gavazza nel lusso e nella gozzoviglie col frutto delle sue fatiche — quando può sussistere nei campi vergini e sterminati d'un nuovo mondo, libero come l'aquila od il leone — riposando la chiomata sua testa in grembo alla donna del suo cuore quando stanco — o volando col selvaggio suo destriero nelle pampas immense in cerca d'uno squisito alimento per lui e per la sua cara?[63]. Il matrero non riconosce governo — ¿E questi Europei, tanto governati sono essi forse più felici? Tante pessime prove si fecero, e si fanno su tale materia da fare la quistione ben ardua a risolversi! Indipendente — il matrero — ei signoreggia quell'immensa estensione di paese colla stessa autorità d'un governo. Non pone imposte — non tributi — non toglie al povero, l'unica sua speranza — il figlio per farne uno sgherro — Egli chiede dall'abitante come dono spontaneo il necessario all'errante sua esistenza — e le necessità del matrero sono limitatissime — e ricambia il donatore coi suoi lavori a cavallo — preziosissimi in quelle contrade — Un buon cavallo è il primo elemento del matrero — le sue armi, composte ordinariamente d'una carabina, una pistola, una sciabola, e l'inseparabile coltello per aver carne e mangiarla — Se si considera: che dal bue, egli ritrae i fornimenti della Sella, il mancador, per legare al pascolo il suo compagno cavallo, las _maneas_ per accostumarlo a rimanersi fermo, e non vagare, las _bolas_ che ragiungano il _bagual_ (cavallo selvaggio) quando sfida la velocità dell'uragano — e lo rovesciano — avvitichiandosi nelle gambe del fuggente — Se non le più utili, _las bolas_ sono le armi più terribili del _gauccio_ (uomo della campagna) — Egli colle bolas, colpisce come abbiam detto il _bagual_, lo struzzo — uccello che non vola — ma che colle gambe, non la cede in velocità al corsiero — e l'uomo quando dopo la battaglia, egli fugge davanti al nemico che la vinse — Guai! se il fuggente non cavalca un buon destriero, o non stanco — egli se perseguitato dal boleador — sentirà mancarsi sotto e stramazzare il compagno — senza potersene liberare — a meno: che col poncho trascinando, non raccolga destramente las bolas — e così liberi le posteriori gambe del suo cavallo — È uno spettacolo sorprendente per noi Europei: il veder una forza di cavalleria, fuggendo davanti altra forza vincitrice — Una nube di bolas s'innalza dalla truppa perseguente, e va a colpire i perseguitati — che sono sovente sgozzati dai primi cammin facendo — e perseguendo alternativamente altri — Il laccio — il non men utile ausiliario del gauccio, o matrero — che sono quasi sinonimi — essendo il primo non come il secondo — sempre indipendente da ciò che si chiama governo — e che sovente, altro non è che l'amalgama d'alcuni prepotenti — Il laccio, che pende perenne sull'anca destra del corsiero, in un modo che sembra negletto, ma molto accurato — e che serve all'americano del Sud per procurarsi alimento, e per guadagnarsi la vita — quand'egli si trovi in condizione — cosa rara — di dover lavorar per vivere — Infine la carne — generalmente di vaccina — unico alimento del matrero — Se si considera dico: tutte queste cose, alla costruzione delle quali ed all'uso continuo — è indispensabile il coltello — si avrà un'idea, del conto che il matrero deve fare di quell'arma — della quale, egli mirabilmente si serve pure per tagliar la faccia, o la gola d'un nemico — Egli giammai rifiuterà di divider con voi, il suo _açado_ (arrosto), ma voi dovete avere un coltello, per non rischiare d'aver il rifiuto di prestarvelo, da lui che lo stima sopra ogni cosa — e che perdendolo avrebbe molta difficoltà di trovarne un altro nel deserto — Il matrero come abbiam detto — e lo stesso del gauccio de _Las Pampas_ — del monarca _de la cuchilla_ (collina) del Rio-grande; ma più illegale, più indipendente — Egli ubbidirà, quando il governo, sia conforme alle proprie credenze, alle di lui simpatie — Se no, il campo e la selva sono le sue stanze — il suo domicilio — ed il cielo il suo tetto — per la maggior parte del tempo — Egli però costruisce qualche volta capanne nelle foreste — Poco egli comparisce inutilmente nell'abitato; e per lo più ne sarà il motivo l'amante — Il matrero ha un'amante, da cui è generalmente adorato — che divide i suoi disagi, i suoi pericoli, con ugual coraggio. Oh! la donna! che essere straordinario! Essa più perfetta, dell'uomo — è pure d'indole più avventurosa, più cavalleresca di lui! E l'educazione servile, a cui è dannata — fa sì, che meno frequente ne siano gli esempi — Vivorigna fu dunque il primo dei matreri che ci raggiunse — trovato in Martin Garcia dal Collonnello Anzani — e non era certamente il migliore — Egli, sulle sponde del canale dell'Inferno — tra Martin Garcia, e la costa del continente — aveva guatato una barca — e messa una pistola al petto del barcajuolo, lo avea costretto a trasportarlo nell'isola — ove veniva a presentarmisi. Altri molti matreri mi si presentarono, e come già dissi: mi servirono immensamente nelle ulteriori operazioni — Ma l'uomo ch'io vorrei fregiare, con un titolo più decoroso — e che riuniva al coraggio, ed all'audacia del matrero — il valore, il sangue freddo, e l'illibatezza del gentiluomo — era il capitano Juan de la Cruz Ledesma — di cui io farò menzione molte volte nel decorso del racconto della Spedizione del Salto — Juan de la Cruz, alla nera capigliatura — all'occhio d'aquila — al nobile portamento della bella persona — riuniva un cuore d'angelo e di leone — Egli mi fu compagno intrepido e fedele in tutta la campagna dell'Uruguay, ch'io considero la più brillante della mia vita — Lui, e Jozè Mundell figlio di Scozzese, e giunto bambino tra quei coraggiosi ed indipendenti figli d'una vergine natura — mi saranno scolpiti nell'anima tutta la vita — Mundell non ariegiava tanto il matrero quanto Juan de la Cruz — e d'un tipo diverso — cioè: simile ai concittadini di Wallace — era come lui valoroso e più istruito — Nella Colonia era rimaso il Collonnello Battlle (oggi presidente della Republica) co' suoi nazionali di guarnigione — e Battlle — era uomo da qualunque impresa delle più ardue — Compagni d'armi sin da principio dell'assedio — noi ci dividemmo da quel prode e gentile ufficiale, con vero rincrescimento. A Martin Garcia lasciammo pure alcuni uomini, innalzandovi lo stendardo Orientale — e la spedizione continuò il suo viaggio progredendo nel fiume. Anzani faceva la vanguardia con alcuni legni minori nostri — e s'impadronì di varie imbarcazioni mercantili con bandiera nemica — Giunsimo in tal modo sino al Jaguary confluente del Rio-negro coll'Uruguay — CAPITOLO XL. Jaguary. Il Rio-negro sboccando in quel punto nell'Uruguay, forma varie isole assai estese, coperte di boschi, e di pascoli nei tempi ordinari — Nell'inverno poi, crescendo i fiumi colle pioggie, le allagano quasi intieramente — dimodocchè, pochi sono gli animali che vi ponno stanziare — e la maggior parte degli stessi traversano l'acqua — e passano sul continente — ove pure trovano pascoli richissimi — Così stesso, noi trovammo in quell'isole — assai vaccine per non diffettare di carne — e pure alcune giumenta selvaggie, e puledri — Il maggior benefizio poi, fu quello di potervi sbarcare i pochi nostri cavalli, e ristorarli dal disagio della navigazione — Oltre le isole suddette, verso levante, bagnato dal Rio-negro a mezzogiorno e dall'Uruguay a tramontana — havvi il _Rincon de las gallinas_ (canto o gomito delle galline) — Cotale Rincon, è un pezzo di continente magnifico ed ubertoso — riunito al gran continente da un istmo. In quel territorio trovavansi numerosissimi animali d'ogni specie, senza eccettuarne i cavalli e perciò, era una delle predilette stazioni dei matreros — Una delle prime mie cure, fu quella di marciare con parte della forza di sbarco, e stabilirsi sulla sponda del Rincon — da dove facendo partire in esplorazione il Vivorigna, col il compagno Miranda, a cavallo — non tardarono a ricomparire con vari dei matreri del luogo — Quei nuovi acquisti furono seguiti da altri, e d'allora in poi, potemmo sistemare un principio di cavalleria, che progredì a vista d'occhio — Colla cavalleria ebbimo in abbondanza della carne — e quella notte stessa s'imprese un'operazione su d'una partita nemica — che ebbe il più felice risultato — Un tenente Gallegos, partito con noi da Montevideo, fu incaricato dell'impresa — Egli sorprese i nemici in numero di ventina, e pochi poterono scaparsi — ne trasse sei prigionieri de' quali, alcuni feriti — Cotesto nostro ufficiale, era d'un valore brillante — ma sventuratamente troppo sanguinario. Quel fatto ci valse alcuni eccellenti cavalli — interessantissimi nella situazione nostra — Il sistema adottatto dal nemico d'internare gli abitanti del littorale, per toglierli dalle comunicazioni nostre — ci fece giungere gran parte di quelli infelici — a cui noi offrimmo l'isola maggiore come domicilio — e passammo nella stessa, una buona quantità di bestiame per alimentarli — massime alcune bande di pecore — La spedizione andava prendendo incremento di numero e d'importanza, aumentata vieppiù dalla venuta del nostro Juan de la Cruz tra noi — Individuo, che con Mundell — meritavano il titolo di principi dei matreros e la di cui scoperta, merita d'esser menzionata — I matreros del Rincon mi diedero notizie: che Juan de la Cruz, alla testa di varie partite de' suoi, aveva — giorni prima — battute altre partite nemiche, ma che poi soperchiato dal numero — era stato obligato di sciogliere la sua gente — ed inselvarsi solo nei boschi più folti; quindi abbandonare il suo cavallo — e con una leggerissima canoa — vagare per le isole dell'Uruguay, le più recondite; oggetto della maggior vigilanza del nemico — il quale, dopo la battaglia dell'_India Muerta_, massimamente, non essendovi più corpi nostri di cavalleria nella campagna, impiegava ogni sforzo, per preseguire i matreros che non volevan sapere del suo governo — In tali strette circostanze trovavasi il nostro amico allora — quando mi fu suggerito di mandare alla di lui ricerca. Incaricai quindi, un comandante Saldaña — vecchio amico di Juan de la Cruz, con alguni matreros, in un palischermo nostro, per trovare il di lui nascondiglio e condurlo nosco — La comitiva sortì con esito fortunato; e dopo alcuni giorni d'indagini incontrarono Juan de la Cruz, in un'isola, sopra un albero, e la di lui canoa nascosta in un cespuglio a piè dello stesso — essendo stata, in quei giorni, inondata l'isoletta — E lo incontrarono, certamente, pronto a rinselvarsi se gli investigatori fossero stati nemici — poichè dal posto suo, egli poteva scoprire chi lo cercava ad una distanza sufficiente per aver tempo di mettersi in salvo — Imparino i nostri giovani Italiani una lezione della vita, che siam chiamati a sostenere, quando vorremo veramente redimere la patria nostra — È una fatalità — ma pur vera! che l'indipendenza, e la libertà, debbasi acquistare a furia di disagi, di sacrifizio, e di coraggio — Fu Juan de la Cruz, per noi, un prezioso acquisto — d'allora in poi, ebbimo con noi tutti i matreri dei contorni — ed una eccellente forza di cavalleria — senza di cui è impossibile nulla imprendere, in quei paesi essenzialmente cavallereschi. CAPITOLO XLI. Spedizione a Gualeguaychù — Hervidero — Anzani. L'isola del Biscaïno, la principale di quelle del Jaguary — divenne ben presto una colonia, popolata dalle famiglie fuggenti le barbarie nemiche, e da varie delle povere famiglie della capitale, che la miseria spingeva sulle nostre traccia, sicure di trovare almeno della carne — Quivi passammo molto bestiame — lasciammo alcuni cavalli, ed un ufficiale superiore incaricato di tutto — La spedizione progredì pel fiume — e quindi in un punto di quello chiamato Fray Bento — nella costa opposta, sulla provincia d'Entre-rios, si gettò l'ancora — Abbasso circa otto miglia da Fray Bento — nella stessa parte dell'Entre-rios — esiste la bocca del fiume di Gualeguaychù confluente dell'Uruguay — Il paese è distante circa sei miglia dalla foce. La provincia d'Entre-rios, era nemica, noi abbisognavamo di cavalli per le nostre operazioni — e lì ve n'erano degli eccellenti — Il paese di Gualeguaychù poi — ci allettava, per esser un emporio richissimo — capace di vestire i nostri pezzenti militi — e provvederci di arnesi per i cavalli — e d'ogni cosa necessaria — Fu dunque deciso di farvi una toccata — Noi avevamo, espressamente, rimontato più insù il fiume, a circa sei miglia, per non ispirare verun sospetto — Nella notte, nei nostri piccoli legni e palischermi — imbarcaronsi i nostri buoni legionari — la gente di cavalleria, con pochi cavalli — e vogammo verso la meta nostra — Nell'imboccatura del fiumicello, eravi una famiglia stabilita — e sapevasi esservi vari barchi mercantili — ed una ballenera da guerra — Bisognava tutto sorprendere, e veramente tutto sorpresimo — Noi fummo sì fortunati in quell'impresa, che di sorprese, in sorprese — fummo sino alla casa del comandante di Gualeguaychù — che fu trovato in letto dormendo — Villagra era il Collonnello comandante militare del paese — Tutte le autorità, e guardie nazionali, rimasero in nostro potere — Si guarnirono colla truppa nostra i punti più forti — si stabilirono dei posti avanzati a certa distanza sulle vie ove potevano comparire nemici — e si procedette a reclutare cavalli, e requisire dal paese, tutti gli oggetti, per noi, di prima necessità. Acquistammo in Gualeguaychù, molti buoni cavalli, la roba necessaria per vestire tutta la gente, gli arnesi per la cavalleria — ed alcuna moneta, che si distribuì ai poverissimi nostri marini e militi — da tanto tempo nelle miserie e privazioni. I prigionieri furono rilasciati tutti alla partenza nostra — generoso procedimento che non avrebbero imitato i feroci fautori di Rosas, se vincenti — Una partita di cavalleria nemica, erasi trovata assente dal paese al nostro ingresso — ed appartenendo alla guarnigione, essa tornava durante l'occupazione nostra — Vista dalle nostre sentinelle vi si mandò alcuni nostri cavalieri — già meglio montati, ed equipaggiati — Fuvvi uno scontro in cui i nostri fuggarono i nemici — Quel primo fattarello d'armi — rallegrò molto la nostra gente — e solleticò il prurito per le avventure tanto più, che fu combattutto in modo brillante in presenza di tutti — Ebbimo un ferito assai grave — Eravi nell'imboccatura del fiumicello una penisola, formata dall'Uruguay e dallo stesso — ove dimorava la famiglia anzidetta — Tale penisola ci servì mirabilmente per compire l'operazione indisturbati — giacchè in cotesti paesi di gente bellicosa — in poco tempo si riuniscono forze di cavalleria delli stessi abitanti d'una mobilità e d'un'audacia sorprendenti — La gente di fanteria nostra, imbarcossi nei piccoli legni, che ci avean condotti — La cavalleria marciò sui buoni cavalli predati, e conducendone molti — Ed ivi ci riunimmo nuovamente — Il lavoro d'imbarcare, e sbarcar cavalli, non c'era nuovo — ed in pochi giorni, tutti furono trasportati fuori: parte nell'isola del Biscaïno — e parte in altre isole nella parte superiore del fiume per servirci alle imprese ulteriori — Procedemmo nell'interno — e sino a Paysandù — poco, o nulla accadde da meritar menzione — In quella città eravi un presidio assai considerevole — vi aveva, il nemico, costrutte alcune batterie — poi, messi a pico una quantità di barchi, in vari punti del canale del fiume, per ostruire il passaggio — Tutto fu superato — e poche palle nei legni, con alcuni feriti, furono le conseguenze d'un gran cannoneggiamento sostenuto contro coteste batterie — Io devo far menzione di due ufficiali: Francese l'uno, Inglese l'altro — che comandando due piccoli legni da guerra della loro nazione, ci accompagnarono in quasi tutta quella spedizione — e mi valsero molto, abbenchè le loro istruzioni fossero di non combattere — Dench, era il nome del tenente Inglese — che rimase poco tempo con noi — Hypolite Morier — comandante la goletta l'_Eclair_, era il Francese — quest'ultimo essendo rimasto con noi — tutto il tempo che durò l'impresa, ci era diventato carissimo — ed era ufficiale di molto merito — Giunsimo all'Hervidero — stabilimento bellissimo, anticamente, ma allora abbandonato e deserto — richissimo ancora, in quelle circostanze di bestiame, che ci valse in tutto il tempo del nostro soggiorno — Cotesto punto, sulla sponda sinistra dell'Uruguay, chiamasi Hervidero, dallo spagnuolo Herver — bollire — E veramente, — ivi, quando il fiume è basso, sembra una caldaja bollente, dai vortici, cagionati da una quantità di scogli che si trovano sott'acqua — che battutti perennemente da corrente velocissima — fanno molto pericoloso quel passo — Una casa spaziosa di _azotea_, cioè con terrazza per tetto — ergesi sull'eminenza che domina la sponda sinistra del fiume, ed intorno a quella, una moltitudine di ranchos (barracche col tetto di paglia) attestano la molta servitù di cui disponevano i padroni della famosa Estancia, in tempi più quieti. Giungeva ancora, intorno alle case, il _ganado manso_ (gli animali vaccini mansuefatti) — in cerca degli esuli abitatori e con loro una _majada_ (grege di pecore) che avvicinava in numero le quaranta milla — Coteste pecore, non tose, trascinavan la lana per terra, e quando movevano per le colline — esse somigliavano alle onde del mare — Non meno, certo, saranno state le vaccine — compresovi il _ganado chuero o alzado_ (non domestico). Agiungansi innumerevoli giumente, e puledri — per lo più selvatici — ed altre qualità di quadrupedi — majali, somari, gazzelle, ecc. — e si avrà un'idea di quelle immense campestri proprietà — chiamate _estancias_ — ove potrebbero vivere agiatamente molte famiglie — ed ove non abita un solo individuo — Tutto ciò frutto delle guerre intestine, a cui è dannato cotesto bellissimo e sventurato paese — L'Hervidero era pure un _saladero_, a tempi floridi — cioè: sito, ove si salava carne — maccellando centinaja d'animali ogni giorno — ¿E le sventure sofferte da codeste popolazioni — saranno esse una vendetta per i gran patimenti inflitti alle altre razze animali? Io credo: la morte una semplice transizione della materia, a cui conviene conformarsi pacatamente — anzi famigliarizzarsi con essa — Ma i patimenti, inflitti da un essere all'altro! — Oh! io credo: che esistendo una vendetta nella natura, essa dev'esser applicata ai ministri del rogo, delle torture, e di qualunque sofferenza inflitta ad animale qualunque! Esistevano pure gli edifizi, atti a tutte le differenti faccende di quel grandioso stabilimento — dimodocchè, più ad un villaggio, col suo feodale castello, somigliava che a particolare stabilimento di campagna — All'Hervidero, si fermò la spedizione — presimo possesso delle case, e si fecero alcune fortificazioni provvisorie — La profondità del fiume, non permetteva di seguire oltre co' barchi maggiori — Anzani colla legione Italiana — dugento uomini circa di fanteria — allogiò nello stabilimento, occupandolo militarmente — come già dissi — e ben valsero, tali misure di precauzione, a respingere un inaspettatto attacco combinato — tra i nemici d'Entre-rios, comandati dal Generale Garzon, e quelli dello Stato Orientale, dal collonnello Lavalleja — Successe tal fatto, mentre io era assente dallo Hervidero — e narrerò prima: del motivo della mia assenza — Tra le cure di Juan de la Cruz — egli aveva assunto quella: di far avvisare — da alcuni de' suoi — tutti i matreri che si trovavano nella spaziosa campagna, sulla sponda sinistra del fiume Uruguay, e massime quelli del Queguay — assai numerosi — Un Magallanes, ed un Josè Dominguez, capi secondari, erano tra i più famigerati — e tutti obbedendo volontariamente al loro capo principale José Mundell, di cui già abbiam parlato — Mundell, inglese, ma giunto in quei paesi da bambino, s'era immedesimato cogli abitanti, e le loro consuetudini — Egli aveva regolato una estancia, delle migliori dei dintorni — ed era uno di quei pochi privilegiati, venuti al mondo per dominar, senza violenze, quanti li avvicinano. Senza nulla aver di straordinario nel fisico — era però forte e svelto — Franco cavaliere, e generosissimo, egli avea guadagnato il cuore di tutti — e massime dei matreros — che beneficava in ogni loro bisogno — temprandone l'indole soverchiamente avventuriera e talvolta sanguinaria — Mundell, ad onta d'aver passato la maggior parte di sua vita nel deserto — aveva, per propensione propria, coltivato lo spirito — ed acquistato collo studio, non mediocri conoscimenti — Egli mai s'era mischiato in affari politici, sintanto che quelli avevano per motore gare individuali per gelosia d'autorità di presidente, ecc. — ma quando lo straniero agli ordini di Ourives, invadeva il territorio della Republica — Mundell credè delitto l'indifferenza, e si lanciò nelle fila dei difensori della terra che lo aveva accolto infante, e lo ospitava — Col prestigio acquistato tra i bravi suoi circonvicini egli ebbe riunito, ben presto, un numero di alcune centinaja d'uomini — coi quali, in quelli stessi giorni, mi aveva fatto avvertire, che voleva accompagnarmi — I bravi ragazzi, mandati da Juan de la Cruz, presso Mundell erano giunti all'Hervidero con tale notizia — ed io decisi, immediatamente, di abboccarmi con Mundell nell'_Arroyo Malo_ — a una trentina di miglia abbasso del Salto — secondo il suo desiderio — Nella prima notte dell'assenza mia, era stato attaccato l'Hervidero — ed udite da noi le cannonate dalle vicinanze dell'Arroyo Malo — io ero rimasto in forte anzietà — com'era naturale — benchè fidente nel valore e capacità d'Anzani, che di tutto era rimasto incaricato — L'attacco contro l'Hervidero, era stato immaginato, e disposto di modo — che se l'esecuzione vi avesse corrisposto, ci poteva riescire fatale — Garzon le di cui forze ascendevano almeno a due milla uomini, la maggior parte infanteria — doveva approssimarsi alla sponda destra dell'Uruguay — mentre Lavalleja attaccherebbe l'Hervidero dalla sponda sinistra, con cinquecento uomini — Due brulotti costrutti nel _Juy_ fiumicello a monte di noi — erano stati spinti simultaneamente, verso la squadra per impedirla di dare ajuto a quei di terra — Il coraggio, il sangue freddo d'Anzani, e la bravura dei dugento — resero inutili tutti gli sforzi, e le astuzie del nemico — Garzon nulla ottenne, co' suoi fuochi serrati di fanteria — perchè troppo distante — e dominata quella sponda dalle artiglierie de' nostri legni — che la fulminavano — I brulotti abbandonati in balìa della corrente, passarono distanti dai barchi, o furono distrutti dal cannone — Lavalleja spinse inutilmente i suoi contro i prodi nostri legionari, che trincerati negli edifizi — spaventavano i nemici col loro silenzio, e fiero contegno — Anzani aveva ordinato: non si facesse una sola fucilata, sinchè il nemico fosse a brucia panno, e ben valse: poichè credendo avessero i nostri evacuato le case — i contrari giunsero vicinissimi — e scopiando allora una generale scarica da tutti i punti — essi si diedero a precipitosa fuga — perdendo intieramente la voglia di tornare all'assalto — Avendo combinato con Mundell, circa l'entrata sua nel Salto — quando da noi occupato — io ritornai all'Hervidero — In quel tempo, ebbi, dall'Uruguayana, notizie: che il Collonnello Baez, si disponeva di raggiungermi con alcuni uomini — E l'unico legno da guerra del nemico, stanziato nel _Juy_, defezionò a noi con parte dell'equipagio — Tutto quindi arrideva alla impresa nostra — CAPITOLO XLII. Arrivo al Salto — Vittoria del Tapeby. La provincia di Corrientes, dopo la battaglia dell'Arroyo-grande, era ricaduta sotto la dominazione di Rosas; ma la resistenza ammirabile di Montevideo — ed alcune altre favorevoli circostanze — la chiamarono nuovamente all'indipendenza — I fratelli Madariaga, principali autori di quella bella rivoluzione, avevano chiamato il generale Paz da Montevideo preponendolo al comando dell'esercito — Il vecchio, e virtuoso generale, colla propria fama e capacità avea indotto il Paraguay — ad un'alleanza offensiva e difensiva; e quello Stato avea riunito a Corrientes, un contingente d'esercito rispettabile — Le cose, dunque, andavano pure a meraviglia da quella parte — e non era il minore ogetto della spedizione nostra, quello di aprire le comunicazioni, con quelle interne provincie — e di riunire nel dipartimento del Salto, gli emigrati orientali, che si trovavano in Corrientes e nel Brasile — Dall'Hervidero, io mandai dunque una ballenera — (barca leggera) con missione per il generale Paz — Ma essendo stata scoperta, e perseguita dal nemico furono obligati gl'individui che ne componevano la ciurma — di rifuggiarsi nella selva, ed abbandonar la barca — Sino a tre volte, fui obligato di ripetere tale tentativo — sinchè un bravo de' nostri ufficiali Italiani — Giacomo Casella — aprofitando d'una forte crescente del fiume — pervenne a superare tutti gli ostacoli — e giunse nella provincia di Corrientes — Colla stessa crescente — io giunsi colla flottiglia al Salto — quella città era presidiata da quello stesso Lavalleja che attaccò l'Hervidero — e da una forza di circa trecento uomini, tra cavalleria ed infanteria — Egli da vari giorni, erasi occupato a far evacuare la città dagli abitanti — per cui, e per la propria forza, stabilì un campo, sulla sponda sinistra del Tapeby, alla distanza di 21 miglia circa dal Salto — Noi occupammo la città, quindi, senza resistenza, e trattammo di stabilirvi alcune fortificazioni, che come vedremo ci servirono egregiamente — Occupato quel punto, noi rimasimo, com'era conseguente, assediati dalla parte di terra — essendo tutta la campagna orientale in potere del nemico — ed uno dei principali inconvenienti nostri, era naturalmente la mancanza di carne — essendo pure, stato ritirato tutto il bestiame nell'interno — Non restammo però molto tempo, in tale situazione — Mundell, avendo riunito circa 150 uomini, diede addosso ad un corpo nemico che lo incomodava, ed a noi si ricongiunse nel Salto[64]. Da quel momento principiammo a fare alcune sortite — e raccogliere il bestiame di cui si abbisognava — Colle cavallerie di Mundell e Juan de la Cruz — fummo capaci di tener la campagna — ed un bel giorno — di andar a cercare Lavalleja nel suo proprio campo — Alcuni disertori del nemico, mi avevano raguagliato esattamente della di lui posizione, — e del numero delle sue forze — ed io decisi d'attaccarlo — Una sera, messi insieme dugento uomini di cavalleria, e cento dei nostri legionari — mossimo dal Salto al principio della notte — coll'intenzione di sorprendere il nemico prima del giorno — Le guide nostre erano i disertori sumentovati; ed abbenchè fossero pratici — siccome non esistevano strade battute, nella direzione da noi presa, ci straviarono, ed il giorno ci colse alla distanza di circa tre miglia dal campo cercato — Non era forse prudente, attaccare un nemico — almeno quanto noi forte — trincerato nel suo campo — e che d'un momento all'altro doveva ricevere riforzi, che aveva chiesto — Ma tornare indietro, non solo vergognoso sarebbe stato — ma molto influito avrebbe sulla nuova truppa ch'io guidavo, e che aveva concepito grande stima del valore Italiano — Poco, mi molestarono, veramente, le idee retrograde — e decisi d'attaccare senza fermare il movimento in avanti per profitare della sorpresa — Giunti sopra un'eminenza, ove il nemico aveva un posto avanzato, che si ritirò all'avvicinarsi nostro — io scopersi il campo nemico, e mi capacitai della sua posizione — Vidi vari gruppi di cavalleria, che si riconcentravano verso il campo, da varie direzioni — Erano distaccamenti, mandati nella notte, su differenti punti per spiarci — avendo avuto, il nemico, sentore della nostra sortita — ad onta d'ogni segretezza usata in ogni disposizione — Riconcentravansi pure sul campo varie truppe di cavalli, e di buoi — animali importantissimi: i primi come rimonte per cavalleria — ed i secondi — alimento unico di quelle campagne — Ordinai subito a Mundell, che faceva la vanguardia, di staccare una metà de' suoi plottoni — acciò tentassero d'impedire il concentramento — Fece lo stesso il nemico — scorgendo il movimento nostro, per proteggere i suoi — Mundell, con molta bravura, aveva eseguito il suo movimento apogiando lui stesso col resto della sua forza i plottoni mandati avanti — ed aveva incalzato e disperso vari distaccamenti nemici — ma nel bollore della pugna — non considerando la gran distanza che lo divideva dalla fanteria nostra — erasi troppo avanzato — dimodocchè trovavasi colla sola sua forza involto da tutta la cavalleria nemica, che rivenuta dal primo sgomento, lo rincalzava colle lancie nei reni — minacciando di dividerlo dal grosso nostro, che tuttora ben distante procedeva alla battaglia — coi nostri fanti — fortunatamente giovani — che correvano colla lingua fuori — Io non perdevo di vista nulla, certamente — essendo il campo sgombro, e noi discendendo — Pria, desiderando di portar in massa la piccola forza nostra — per eseguire un colpo di mano decisivo — acceleravo bensì la marcia della fanteria — ma tenevo però — la forza di Juan de la Cruz, che marciava alla retroguardia, intera come riserva — Vedendo la situazione di Mundell, che non permetteva dilazioni — lasciai la fanteria indietro agli ordini del prode Marrocchetti — e spinsi avanti le riserve di cavalleria scaglionate — Il primo scaglione nostro comandato dal Tenente Gallegos, diede bravamente dentro, e ristabilì alquanto la pugna di cavalleria — Alla carica di Juan de la Cruz, il nemico retrocesse, ripiegandosi verso il campo — e schierandosi dietro la linea di fanteria — coperta da una barricata di carri — Io avevo ordinato, agli ultimi scaglioni di cavalleria nostra di caricare compatti, senza perder l'ordinanza — dimodocchè al coperto di questi, i matreros di Mundell, che valorosamente avean combattutto — si riordinarono in un momento — Procedemmo allora, verso il campo nemico, in vero ordine di battaglia: La fanteria nel centro, in massa per sezioni — e con ordine di non fare un tiro — Mundell alla destra, e Juan de la Cruz alla sinistra — ed alcuni plottoni di cavalleria seguendo in riserva — La cavalleria nemica — come abbiam detto — dopo il primo scontro, erasi rifatta dietro la fanteria — coperta questa pure da una linea di carri — Ma il contegno impavido della nostra gente — e il suo procedere compatto, e silenzioso — intimorì il nemico talmente che poca fu la resistenza — In un attimo, non vi fu più pugna — ma una sconfitta completta, ed un fuggire disordinato dei nemici verso il passo del fiume Tapebì. In quel passo, alcuni de' più coraggiosi — dopo aver passato — vollero far testa — e lo avrebbero potuto essendo esso assai arduo — e fermarono la cavalleria nostra — Ma i nostri legionari alla voce: «di cartucciere al collo, e avanti» si precipitarono nell'acqua come tanti demoni, e non vi fu più resistenza — Io mai, mi son potuto spiegare: perchè il Colonnello Lavalleja, avea stabilito il suo campo, sulla sponda sinistra del Tapebì — invece della destra — ove, certo, avrebbe potuto fare molto maggior resistenza — massime costruendo alcune opere volanti sul passo stesso — La sponda sinistra era verso il Salto — e probabilmente non entrò nel criterio del vecchio e bravo colonnello, che pochi marini, e militi nuovi, potessero fare una marcia di venti miglia in una notte — e giunger a combatterlo — Oppure, conscio dell'avvicinarsi dell'esercito vittorioso d'Urquiza — non supponeva che fossimo capaci d'abbandonar il Salto — Il fatto sta: che in guerra le precauzioni son sempre poche. Il trionfo fu completto — la fanteria tutta, in numero di circa dugento — rimase in potere nostro — ed alcuni di cavalleria — Tutte le famiglie del Salto, trascinate fuori dei loro focolari — con numeroso treno d'ogni specie di vettovaglie in 34 carri — estratti pure dalla città — Infine gran numero di cavalli, per noi preziosissimi — Fra le prede, la più rara, e stimabile fu un cannone di bronzo da sei, fuso a Firenze nel medio evo da un certo Cenni — e che probabilmente era giunto nel Rio della Plata, coi primi spagnuoli al tempo della scoperta — o coi Portoghesi — Era lo stesso cannone, che avea fatto fuoco all'Hervidero contro noi, e che smontatosi in quella notte di conflitto trovavasi in reparazione nel campo — Il nostro ritorno al Salto fu una marcia trionfale — Ci benediva la popolazione, reintegrata nelle proprie case, e tale vittoria ci acquistò meritata reputazione, costituendo il nostro piccolo corpo di sbarco: forza delle tre armi capace di tener la campagna — CAPITOLO XLIII. Arrivo d'Urquiza. L'impresa del Tapebì, era stata eseguita colla prontezza possibile — dopo il fatto d'armi, e dopo di aver raccolto quanto fu possibile, di ogetti utili, cavalli, armi, ecc. — si riprese la direzione del Salto — e ben valse tale celerità — Siccome, ho già accennato: il nemico aspettava riforzo; e tale riforzo, era niente meno; che l'esercito vittorioso del generale Urquiza — che tornava da sbaragliare quello del Generale Rivera all'_India muerta_, e che s'incamminava verso Corrientes per combatterne l'esercito — Vergara che ne facea la vanguardia, comparse alla vista del Salto, il giorno seguente al nostro ritorno, e ci tolse alcuni cavalli sparsi nel pascolo dei dintorni. Pressentendo la tempesta, che ci sovrastava, si fece ogni sforzo per resisterla — Una batteria tracciata da Anzani, nel centro della città, s'innalzava come per incanto — militi e popolo lavorando ad essa alacremente — Le case atte alla difesa, furono fortificate — e tutta la gente: militi, marini, cavalieria — furono ripartiti sulla linea ognuno al suo posto di battaglia — Sbarcammo alcuni cannoni di marina, e prepararonsi con affusti di posizione nella batteria — In quel tempo, giunse nel Salto, il Collonnello Baes, con una sessantina d'uomini di cavalleria. Non tardò a comparire Urquiza, col suo esercito composto delle tre armi — e molto borioso — Egli aveva assicurato i suoi amici: che avrebbe passato l'Uruguay al Salto, coll'ajuto della flottiglia nostra predata — Ma a lui fallì il vaticinio — L'attacco del nemico, fu simultaneo all'apparizione del grosso delle sue forze — Havvi dalla parte orientale del Salto, una collina a tiro di fucile dalle prime case, che intieramente domina la città — Noi, non avevimo fortificato tale collina per il motivo della poca forza a nostra disposizione, e per cui la linea di difesa, avrebbe avuto un'estensione troppo grande — quindi per guarnirli male preferimmo abbandonarla, e concentrare tutte le nostre milizie nella batteria, e nelle prime case, destra e sinistra della stessa — Com'era naturale — Urquiza prese posizione su quella collina — e vi collocò sei pezzi d'artiglieria — Nello stesso tempo, spinse la sua fanteria a passo di carica sulla nostra destra, mentre ci fulminava a cannonate — Quasi nello stesso tempo, noi avevamo terminato di stabilire due pezzi sulla batteria — ma piattaforma e parapetto non esistevano — ed i cannoni nel far fuoco, sprofondavano nel terrapieno, non consolidato ancora — La destra nostra, era veramente la più vulnerabile potendovi giungere il nemico, coperto per la concavità d'una valle — e realmente dall'impetto e subitaneo apparire di quello, in numero considerevole, si sbigottì la gente nostra dell'ala destra; ed abbandonando le _azoteas_ (case con terrazzo) fuggiva verso il fiume, coll'intenzione, naturalmente, d'imbarcarsi e ricoverarsi a bordo dei legni — Non vi riuscì però essendo state, preventivamente, allontanate tutte le piccole barche — misura che riescì efficacissima — Io stavo sulla batteria, e nella disposizione della gente, avevo riserbato una compagnia della legione in riserba, dentro della stessa — Feci subito caricare la metà di quella compagnia — comandata dal prode Tenente Zaccarello — contro l'irrompente nemico — Dopo la prima, la seconda metà — e sì valorosamente, furono eseguite quelle cariche — che, a suo torno, fu posto il nemico in precipitosa fuga — La compagnia di cui parlo — era comandata dal Capitano Carone — numerando appena cinquanta uomini; i due plottoni erano agli ordini di Ramorino, e Zaccarello — tutti bravi ufficiali ed eccellenti militi — Il nostro successo sull'ala destra, dissuase il nemico da ogni tentativo d'assalto, ed il combattimento fu limitato a cannonate — In quest'ultimo genere di pugna — benchè il nemico ci avesse colti non preparati, per non averne avuto il tempo — non si mancò di far buona figura — Avevo io fatto sbarcare i cannoni di bordo — agli ordini di tre ufficiali di marina — Suzini Antonio, e Cogliolo Leggiero — ambi dell'isola Maddalena — ed un terzo Josè Maria — tutti prodi ufficiali — dimodocchè l'artiglieria nemica, benchè superiore in numero e di posizione, era regolarmente mal menata, ed obligata di nascondersi ogni tanto dietro la collina — Le perdite d'una parte e dall'altra non furono serie per non esservi stato un assalto generale su tutta la linea — Perdetimo la maggior parte del bestiame bovino, che trovavasi in un corral (recinto) — e siccome era selvatico — aperto il cancello dal nemico, tempestò fuori com'un torrente, e si dileguò per la campagna — Per tre giorni, continuò Urquiza, i suoi tentativi — ed ogni giorno c'incontrava meglio preparati, poichè anche di notte, non si perdeva un momento, per ultimare i lavori della batteria — innalzare barricate — e riparare i danni ricevuti di giorno — Si collocarono cinque pezzi nella batteria — si ultimò la piatta-forma, il parapetto, e la Santa Barbera — Infine, vedendo egli, che nulla avanzava cogli assalti e le cannonate — adottò il sistema di blocco — e ci rinchiuse ermeticamente dalla parte di terra — Ma anche in quel modo, riusciva deluso — essendo noi padroni del fiume — e potendo da quella parte ricevere le necessarie vettovaglie — Ne' diciotto giorni, che durò l'assedio, non si stette oziosi — dovendo provvederci di fieno per gli animali — si veniva alle mani ogni giorno col nemico — Poi siccome per restringerci, egli avea dovuto formare una catena circolare di posti — noi, profittavamo della trascuranza degli stessi, per assaltarli di sorpresa — e spesso con vantaggio — Infine dopo diciotto giorni d'assedio — stancatosi, o forse chiamato dall'altra parte dello Uruguay, per affari più urgenti — Urquiza ci lasciò — e fu a passare il fiume al dissopra del Salto — non coi legni della flottiglia nostra però, com'egli avea promesso — [Illustrazione: GARIBALDI NEL 1846.] CAPITOLO XLIV. Assediati nel Salto da Lamas e Vergara. Rimasero ad assediarci, le due divisioni di cavalleria Lamas, e Vergara — con circa settecento uomini — D'allora in poi non potè il nemico, tenerci assediati senonchè a grande distanza — e noi fecimo quindi alcune sortite, ora raccogliendo bovi, ed ora puledri, coi quali si rimise in regolare stato la cavalleria nostra — esausta quasi di cavalli dalla strettezza sofferta dell'assedio — Si osservi: che i cavalli di quei paesi, si nutriscono generalmente a solo fieno, pascolato al campo — e pochissimi quelli che si mantengono a biade — In quei giorni ebbe luogo un'operazione nostra assai bella, e singolare per noi Europei — Il corpo d'esercito di Garzon, stanziato alla Concordia dirimpetto al Salto — era marciato a riunirsi con Urquiza, per dirigersi agli ordini di quest'ultimo sopra Corrientes — Era rimasto alla Concordia, un corpo di cavalleria d'osservazione — Dal Salto vedevansi le sentinelle di quella gente, e la _cavallada_ (truppa di cavalli) che, per esser migliori i pascoli nelle vicinanze del fiume, e più comodo per abbevverarli — di giorno l'approssimavano alla sponda — ritirandoli nell'interno di notte — Il collonnello Baez, mi propose d'impadronirmi di tal cavallada — Un bel giorno, prepararonsi una ventina di cavalieri scelti, e nudi, con arma unica, la sciabola; ed una compagnia di legionari, divisi tra i legni della flottiglia, pronti ad imbarcarsi nei palischermi — Era verso il meriggio, quando più caldo il sole — Le sentinelle nemiche, colla lancia fitta nel suolo — e fatta barracca del poncho (mantello), stavano sonnacchiando, o giuocando a carte — Il fiume, nel punto in cui dovea passarsi — avrà un cinque cento metri di largo e molto profondo e correntoso — Diedesi il segnale convenuto: I cavalieri escono da dietro le frasche della sponda del fiume, ov'eran nascosti, e si precipitano nell'onda coi loro corsieri, senza sella, e colle sole redini — I legionari — che uno ad uno eran già discesi nelle barche dalla parte nostra, ove non potevano esser scoperti dai nemici, vogavano nei palischermi, a tutta voga — E quando le sentinelle nemiche si accorgono del movimento già le fucilate dei nostri svelti giovinotti, fischiano alle loro orecchie — e gli anfibi centauri giunti alla sponda, le perseguono per la collina. La prode cavalleria Americana, è unica capace di tali operazioni — e nuotatori eccellenti, uomini e cavalli, assuefatti ambi al passagio di grandi fiumi — essi traversano facilmente le maggiori distanze — tenuti generalmente alla criniera del cavallo, con una mano, nuotano coll'altra — trascinando armi e bagagli nella _pelota_ fatta con la _carona_[65] — Parte dei nudi cavalieri, restano in osservazione sulla collina — mentre gli altri raccolgono i dispersi cavalli, e li conducono o spingono alla sponda — ove precipitati nel fiume, al punto chiamato porto — ove gli stessi animali sono assuefatti ad abbeverarsi — passano la maggior parte; ed alcuni, più renitenti o più apprezzati, si legano, e si trascinano colle barche — Intanto, i legionari, cambiano alcune fucilate col nemico che va ingrossando — ma non bastantemente per osare di caricarci — e tenendosi a rispettosa distanza, in ossequio di alcune cannonate sparate dalla flottiglia — In sostanza, in poche ore, sono in potere nostro, cento e tanti buoni cavalli, senza avere un sol'uomo ferito — Fu curioso avvenimento quello per la sua singolarità e perchè operato su d'un campo d'azione, in piena perspettiva della città del Salto — I cavalli d'Entre-rios poi, sono universalmente stimati, e con ragione — Tale preda di cavalli, fece nascere, naturalmente, il desiderio di tastare un po' i nostri assediatori — Vergara, colla sua divisione, ci serrava da vicino — Noi, mandammo alcuni pratici del paese a _bombearlo_ (spiarlo), e seppimo da loro la posizione che occupava — Di giorno, sarebbe stato impossibile di sorprenderlo — bisognava attaccarlo di notte — Io avevo incaricato del comando della nostra cavalleria il collonnello Baez — Anzani comandava la fanteria — e così uscimmo dal Salto al principio della notte, e ci dirigemmo verso il campo nemico, situato a circa otto miglia di distanza — Per silenziosa, e diligente che fosse la marcia, fummo sentiti dalle sentinelle avanzate — e perciò ebbe tempo Vergara di far montar a cavallo, e mettersi in ritirata. Assalimmo comunque senza ritardo — e la sola cavalleria nostra pugnò essendo impossibile alla fanteria di seguirne il movimento, per quanti sforzi essa facesse per ragiungere la pugna — Il nemico combattè accanitamente — ma alla voce di: «avanza la fanteria» che si esclamava a proposito, cedeva terreno — e finì per sbandarsi e mettersi in fuga — Tale era il prestigio acquistato da cotesti pochi ma valorosissimi fanti — Si perseguì il nemico per alcune miglia — ma a cagione della notte, poco vantaggio ci recò il trionfo — Fecimo alcuni prigionieri, e presimo alquanti cavalli — pochi [morti] e feriti vi furono d'ambe le parti — Al giorno chiaro, apena si conosceva campo di battaglia erasi pugnato marciando — e dei nemici, soli alcuni gruppi si scorgevano in lontananza — Il collonnello Baez, rimase colla cavalleria per perseguirli, e riunire una truppa di vaccine — Noi tornammo al Salto — CAPITOLO XLV. S. Antonio. Verso quel tempo (principio del 1846) ebbimo notizie, che il generale Medina — nominato generale in capo dal governo — delle truppe della campagna, in assenza del generale Rivera — che il generale Medina dico: con alcuni emigrati orientali, dal Brasile e da Corrientes, ove stavano dopo la sconfitta dell'_India muerta_ dovevano riunirsi a noi nel Salto — La sconfitta di Vergara, ci aveva bensì vantaggiato, ma non dato quei risultati che se ne potevano aspettare se l'avessimo sorpreso — Lamas non molto distante occupato a far domare puledri, accorse alla notizia del rovescio, ed agevolò al collega, la riunione della gente — Ambi stabilirono il campo, ad alcune miglia dal Salto — e ricominciarono l'assedio — che consisteva per lo più ad allontanarci il bestiame ciocchè potevan fare agevolmente in considerazione della loro superiorità in cavalleria — Nominato il generale Medina a capo dell'esercito — conveniva proteggere la sua entrata nel Salto — Il collonnello Baez, come già dissi: avea assunto il comando della cavalleria nostra, e l'aveva regolarmente organizzata, perito com'era in quell'arma — d'un attività non comune — egli aumentò il numero dei cavalli, e provvedeva la città e milizia di bestiame. Mundell, e Juan de la Cruz, trovavansi ai di lui ordini — ed in quei giorni trovavansi distaccati ambi, in commissione di domar puledri. Il colonnello Baez, più noto al generale Medina, era in diretta relazione con quel generale — seppi da Baez dunque, che Medina, colla sua piccola truppa, doveva comparire alla vista del Salto, nel giorno 8 Febbraio — combinammo dunque, che lo accompagnerei colla fanteria — All'alba del giorno 8 febbraio 1846, uscimmo dal Salto, dirigendoci verso il fiumicello di S. Antonio — sulla sponda sinistra del quale, dovevimo aspettare l'apparizione del generale Medina, e del suo seguito — Anzani, per fortuna nostra, rimase nel Salto, un po' indisposto — Il nemico, come soleva farlo, quando si usciva a tale direzione — mostrò sulle alture di destra, alcuni gruppi di cavalleria, che si approssimavano a vicenda, come per osservare, se si raccoglieva bestiame, e disturbarci — contro tali osservatori staccò il collonnello Baez, una catena di tiratori di cavalleria, e si stette per alcune ore _guerrigliando_ (fuochi da volteggiatori) colla catena nemica — La fanteria avea fatto alto, e formato i fasci, nelle vicinanze del fiumicello, su d'una eminenza chiamata: tapera de D.o Venanzio — ove rimanevano pochi avanzi d'un posto di estancia o di saladero — Io mi ero staccato dalla fanteria, e contemplavo le guerriglie — Assuefati a quel genere di guerra — ove la perizia, l'agilità ed il valore del milite Americano risplendano brillantemente — ciò era per noi, un divertimento — Ma il nemico, con tali finte nascondeva l'avvicinamento del Vespajo — dietro il suo trastullo di guerriglieri — che spingeva d'un modo debole e non curante, per meglio ingannarci — e dar tempo alle formidabili forze che venivano indietro, di avvicinarvi. Il terreno, in tutto il dipartimento del Salto, è formato di colline, e tali sono i campi di S. Antonio. — Cosicchè l'imponente forza che marciava contro di noi, potè approssimarsi, dietro la cortina, formata dalla cavalleria di Lamas e Vergara, sino a piccola distanza. Mentre giunto alla descrita posizione, io stavo gettando la vista dall'altra parte di S. Antonio — io scorgo, con stupore, comparire sul vertice della prima collina, a noi dirimpetto — ove pochi nemici s'eran veduti sino a quel momento — una foresta di lancie — fitti squadroni di cavalleria con bandiera spiegata, ed un corpo di fanteria, doppia della nostra in numero; che venuta a cavallo sino a due tratti di fucile; mise piede a terra, si ordinò in battaglia ed a passo di carica, suonata da un tamburo, marciò sulla nostra alla bajonetta — Baez fu sconvolto — e mi disse «ritiriamoci» — Io, vedendone l'impossibilità, dissi: «non è più tempo e bisogna combattere». Così ai legionari, per distruggere o mitigare l'impressione — che loro farebbe l'apparizione d'un nemico sì formidabile, dissi loro: «noi pugneremo» (era voce grata, a quei valorosi Italiani) — «la cavalleria siamo assuefati a vincerla — oggi, vi abbiamo anche un po' di fanteria» — Si poteva fuggire, farsi maccellare, sino all'ultimo — ma non ritirarsi — Con 180 fanti non è possibile una ritirata di sei miglia, con 300 di buona fanteria nemica colle bajonette nelle reni, e circondati da 900 a 1200 de' primi cavalieri del mondo — La voce di ritirata in tale impegno, è condannabile — è codarda! Bisognava combattere, e si combattè come uomini che preferivano morte onorata — alla vergogna! La tapera, in cui ci trovavamo, conservava vari travicelli, che avevano servito alla parete d'antico edifizio di legno — Ad ogni travicello in piede, dunque si pose un legionario — Il restante, formando tre piccole sezioni, fu collocato in collonna, dietro l'edifizio, e coperto dalle mura in mattoni, della testa settentrionale dello stesso edifizio, a guisa di stanza, capace di contenere una trentina d'individui — e coprendo quasi intieramente, la testa della piccola nostra collonna — Alla destra della fanteria, si collocò Baez, colla cavalleria — mettendo a piedi gli armati di carabina — e rimanendo a cavallo i lancieri — Avevimo circa cent'uomini di cavalleria, e cento ottanta sei legionari — Il nemico aveva novecento uomini di cavalleria (vi fu chi assicurava: esser la cavalleria nemica, in numero di 1200), e trecento di fanteria — Uno scampo solo v'era per noi: respingere, e debellare la fanteria nemica, — Io me ne persuasi, ed a tale intento volsi ogni sforzo nostro — Se quella fanteria nemica, invece di caricare in linea di battaglia, formando una linea estesa — carica in collonna d'attacco con una linea di tiratori avanti — e senza far un tiro — io credo: irresistibile sarebbe riuscito il suo assalto — Noi ci saressimo battutti corpo a corpo giacchè quartiere non v'era da sperare da tale nemico — ma una volta mischiati, l'enorme massa di cavalleria che veniva dietro — ci avrebbe calpestati sotto le ugne dei cavalli — I campi di S. Antonio, oggi ancora biancheggierebbero, d'ossa Italiane — e la patria nostra avrebbe plorato l'eccidio d'un pugno di prodi suoi figli — senza che un solo di loro, fosse sortito a contarlo — La fanteria nemica, avanzò invece bravamente, battendo la carica, su d'una sola linea — senza sparare, sino a pochi metri di distanza — in cui si fermarono e fecero una generale scarica — Ciò fu la salvazione nostra! I legionari avevan ordine d'aspettare il nemico a bruciapelo — e così fecero. Tale scarica nostra fa decisiva, — Caddero molti dei nostri bensì — alla scarica del nemico, ma pochi dei nostri tiri furono perduti — E quando il prode Marrocchetti, che comandava le tre sezioni in riserva, uscì da dietro il riparo, e caricò in massa, la già decimata fanteria nemica — che volse le spalle e si pose in fuga bajonettata dai nostri — Anche tra noi, vi fu un momento di titubanza, e di disordine alla vista di tanti nemici — Vi erano alcuni neri con noi, prigionieri del Tapebì — e forse altri, che non credendo alla possibilità di difendersi — cercavano coll'occhio una vana via di scampo — Ma, quei prodi, che si lanciarono sul nemico — come leoni — Oh! quelli, furon belli di valore e di gloria! Dal momento in cui fissai tutta la mia attenzione alla fanteria nemica — io non avevo più osservato, nè veduto il collonnello Baez e la cavalleria nostra — Eran fuggiti! Ed anche quella circostanza avea sconcertato non poco i deboli — Cinque o sei cavalieri eran rimasti con noi — ed io ne incaricai un valoroso ufficiale orientale — Josè Maria — Colla sconfitta della fanteria nemica, io mi confortai nella speranza di salvezza — Profitammo del momento di calma, che ci lasciava la stupefazione del nemico, per alquanto riordinarci — Egli avea contato giustamente di annientarci sino all'ultimo uomo — e si trovò ben deluso — Sui cadaveri nemici rimasti tra noi — e massime sulla linea, ove s'era fermato per far fuoco — trovammo abondante provvista di cartuccie — Molti fucili migliori dei nostri lasciati dai morti o dai morenti servirono ad armare i mancanti militi ed ufficiali — Non essendo riuscito nel primo tentativo — reiterò ripetutamente il nemico, le sue cariche — Mise a piedi, molti de' suoi dragoni — con quelli, coi pochi avanzi de' suoi fanti, e con masse di cavalleria, da far tremar il terreno — ci assaliva, procurando in ogni modo di farci perdere contenenza — Ma, non le fu più possibile — I nostri s'eran penetrati del santo dovere di combattere per l'onore del nome — e s'eran persuasi, che con coraggio, e sangue freddo, si può combattere un nemico, senza contarne il numero — A misura che il nemico ci caricava — io tenevo sempre pronti, alcuni scelti legionari — ed i pochi cavalieri che ci rimanevano — e con quelli, facevo io pure caricare il nemico ogni volta — Tentò pure, di far avvicinare a noi, per varie volte, un parlamentare con bandiera bianca — a provare naturalmente, s'erimo disposti alla resa — Io allora, sceglievo tra i nostri i migliori tiratori, e facevo sparare sino a fugare il messo — Sin verso le 9 della sera durammo in quel modo — e verso un'ora p.m. era cominciata la pugna — Noi stavamo in mezzo ad una barricata di cadaveri — Verso le 9 si fecero i preparativi per la ritirata — Molti erano i feriti nostri, e più dei sani — quasi tutti gli ufficiali feriti — Marrocchetti, Casana, Sacchi, Ramorino, Rodi, Berutti, Zaccarello, Amero, ecc. — Carone, e Traverso soli rimanevano illesi — Fu ardua e dolorosa impresa, il rimore [rimovere] quei giacenti — collocandoli parte sugli abandonati cavalli, o feriti — altri, che potevano trascinarsi, a piedi sostenuti da compagni — Terminato l'accomodamento dei feriti — si dispose il rimanente in quattro sezioni; ed a misura che si ordinavano in rango, si facevan coricare, per meno esporli al continuo fulminare dei tiri del nemico — Alcune ammonizioni sul modo di condursi — e s'imprese la ritirata — Fu pur bella, la ritirata di quel pugno d'uomini! in collonna serrata, tra una nube densa, de' primi cavalieri del mondo — l'ordine era di non scaricare un solo fucile, seno a bruciapelo, sino a ragiungere il limitar del bosco che guarnisce la sponda del fiume Uruguay — Avevo ordinato pure prendessero i feriti la vanguardia — certo, che le cariche del nemico, sarebbero sulla nostra retroguardia, e sui fianchi — Ma come regolare i poveri soffrenti — Essi si disordinarono alquanto, ed alcuni ne furon vittime: uno o due io credo — Il resto fu salvo — ed eran molti — La piccolla collonna!..... oh! lo ricordo con orgoglio!..... fu ammirabile! Essa armò le bajonette al moversi e serrata, siccome era partita, giunse al determinato punto! — Invano fece il nemico tutti li sforzi possibili, per sconvolgerci, caricando in ogni direzione, con tutta possa — Invano! Giungevano i lancieri nemici, a ferire i nostri nei ranghi — Non vi si rispondeva senonchè colle bajonette — e più compatti si procedeva — Alto! e dietro fronte, si fece qualche volta, quando troppo incalzati dal nemico che si respingeva con pochi tiri — Giunti poi al limitare del bosco — potemmo più agiatamente, tempestarlo di fucilate ed allontanarlo — Uno dei patimenti maggiori della giornata, era stata la sete — massime per i feriti, che avevano bevuto la propria urina — Giunti sulla sponda del fiume, lascio pensare con che brama, si corse all'acqua — Parte bevevano, e gli altri tenevano il nemico lontano — Il successo brillante del nostro primo movimento in ritirata — ci valse: esser meno molestati in seguito — Formammo una catena di bersaglieri, a coprire il nostro fianco sinistro, sempre minacciato dal nemico, sin dentro la città del Salto — e costegiammo così la sponda del fiume — Alle cariche del nemico, che non le cessò indispettitto com'era di vedersi fuggir una preda ch'ei credeva sicura — si faceva alto! poi rinfrancati i nostri intieramente, e boriosi dell'ottenuto successo — gridavano in spagnuolo, all'indirizzo di quello: «Ah che no!» (cioè: a che non venite!) — e mettendolo in fuga a fucilate — lo burlavano — Anzani ci aspettava, all'entrata della città — e volle abbracciarci tutti, commosso sino al pianto — Il modesto ed incomparabile guerriero — non avea disperato! Egli stesso me lo assicurava — Ma sì ardua, era stata la pugna! e sì sproporzionato il numero dei nemici! Egli avea riunito nella fortezza i pochi rimasti — la maggior parte feriti in convalescenza — ed aveva risposto alle intimazioni di resa — come Pietro Micca all'assedio di Torino — e come Pietro Micca, egli avrebbe mandato in aria il mondo, piutosto che arrendersi! Durante il conflitto — contando sull'imponenza delle sue forze, avea il nemico, intimato la resa a noi, ed a Anzani nel Salto — Già vedemmo la risposta ch'ebbe da noi nel campo — Ma più importante ancora fu la risposta d'Anzani: colla miccia alla mano — Chiunque più debole di lui — alle assicurazioni del nemico non solo — ma a quelle di Baez stesso, e della di lui gente: che tutto era perduto al di fuori — e che mi avean veduto cadere (ciò era vero ma soltanto ebbi il cavallo morto) — Ma Anzani non disperava! Ed io lo accenno..... lo grido a quelli de' miei concittadini, che disperarono qualche volta per la salvezza d'Italia!..... È vero, che sono pochi gli Anzani!..... Ma chi dispera è un codardo! Ed abbiam provato abbastanza: che mai disperiamo della completta redenzione della patria nostra — a dispetto dei neri traditori, sempre disposti a venderla — e dei boriosi vicini tante volte assuefatti a comprarla! Anzano col suo atto eroico, avea salvato tutto, e noi potemmo, grazie a lui, rientrare nel Salto in trionfo. A mezzanotte circa, entrammo nella città — Del presidio o della popolazione, certo, nessuno dormiva in quell'ora — ed i generosi abitanti si affollavano, per richiedere dei feriti, soccorrerli, e condurli nelle loro case, ov'ebbero ogni gentile assistenza — Povero popolo! Che tanto hai sofferto nelle varie vicende della guerra! Io ti rammenterò sempre con un senso di profonda gratitudine — Noi ebbimo delle sensibili perdite in quel fatto d'armi — e sensibilissime le toccò il nemico — Il generale Servando Gomez, capo supremo delle forze nemiche, che sì maestrevolmente ci avea sorpresi — e quasi annientati — sparì nel 9, trascinando la sconquassata divisione, verso Paysandù da dove era partito — Egli condusse gran numero di feriti, e lasciò il campo di S. Antonio coperto di cadaveri — Il giorno 9, s'impiegò totalmente all'accomodamento e cura dei feriti nostri, o nemici ch'erano rimasti — Due chirurghi Francesi, ci valsero sommamente nella pietosa cura — Il medico dell'_Eclair_ giovine zelante e di capacità (non ricordo il nome) e Desroseaux altro giovane facoltativo della stessa nazione — addetto da qualche tempo alla legione, e che avea combattutto in quel giorno da milite — prestarono validamente l'opera loro presso gl'infermi — Più d'ogni cosa poi, valse ai nostri sofferenti, la delicata assistenza delle gentilissime _Saltegne_ — I giorni seguenti furono impiegati alla raccolta e sepoltura dei morti — Siccome straordinario era stato il combattimento, solenne, mi sembrò dover essere l'inumazione dei cadaveri — Mi ricordai allora d'aver veduto i tumuli dei campi di battaglia nell'Oriente — e sulla collina che domina il Salto, e già era stato teatro di pugne gloriose, si scavò una fossa per tutte le salme indistintamente — quindi una cestella di terra per ogni individuo, coperse le reliquie degli amici e nemici — ed innalzò il tumulo che ognor si scerne — signoreggiato da una croce, sulla quale legonsi le seguenti parole: «Legione Italiana, Marina, e cavalleria orientale» dall'altra parte: «8 Febbraio 1846» I nomi dei valorosi, morti o feriti, nel conflitto glorioso, esistono nel giornale della legione tenuto da Anzani. Il generale Medina, potè liberamente entrare nel Salto col suo seguito — e vi mantenne il comando superiore, sino alla rivoluzione eseguita dai Riverista in Montevideo — In tutto quel periodo nulla d'importante successe — CAPITOLO XLVI. Rivoluzione a Montevideo e Corrientes — Combattimento del Dayman (20 Maggio 1846). La rivoluzione a Montevideo in favore di Rivera, diede un crollo tremendo agli affari della Republica — La guerra cessò d'esser nazionale, e si tornò alle meschine fazioni, capitanate da un uomo qualunque, generalmente senza merito, perchè un uomo di merito per interesse individuale, non trascina il suo paese in guerre intestine, le più durevoli, e più micidiali — Circa nello stesso tempo accadeva la rivoluzione di Corrientes, fatta dai fratelli Madariaga, contro il venerando, e virtuoso generale Paz — Quei giovani capi, che s'erano illustrati, con fatti sorprendenti, strappando la loro patria all'esoso dominio di Rosas; per gelosia, e sete di comando, imbrattaronsi colla più sozza delle congiure, e precipitarono, così, la causa del loro paese — Il generale Paz, fu obligato di abbandonare l'esercito Correntino, e ritirarsi nel Brasile — Il Paraguay richiamò il suo esercito dopo la partenza del generale in cui aveva fiducia — ed i Madariaga ridotti alle proprie risorse — furono battutti complettamente da Urquiza — e ricaduta quindi Corrientes, in potere del feroce Dittattore di Buenos Ayres — Le cose di Montevideo andavan niente meglio — Rivera riposto al potere dai partitanti suoi — ne allontanò chiunque, per lui non parteggiava — In bando, andarono la maggior parte di coloro che con tanto valore avevano assunto la bella difesa — e con disinteressato amore di patria — altri staccati dagli impieghi, che onorevolmente avevan coperto — eran sostituiti da inetti devoti — Egli trovava a Montevideo, città dei miracoli — i nuovi elementi d'un esercito — dopo d'averne perduto due — e li trasportava a _las Vaccas_, sulla sponda sinistra dell'Uruguay — I soldati di Montevideo erano assuefatti a vincere — e lo provarono nei primi incontri col nemico, nella campagna — A Mercedes particolarmente facevan prodigi di valore — Ma il cattivo genio che trascinava Rivera all'Arroyo-grande, e all'India muerta — lo condusse a Paysandù — ove dopo d'una vittoria — egli ebbe il suo esercito disfatto intieramente — A Maldonado, egli imbarcavasi nuovamente per l'esiglio, alla volta del Brasile — non so se più disgraziato che colpevole — Caduto il governo di Montevideo in potere di Rivera — io ne rimasi dolente prevedendo sciagure — Il vecchio general Medina — nominato dal governo generale in capo, nell'assenza di Rivera — non solo si piegò agli eventi — ma per maggiormente rimettersi nelle grazie del nuovo padrone, tramava contro il mio povero individuo — forse per il poco da noi compito — favoriti dalla fortuna — e ci preparava nel campo nostro stesso una rivoluzione contro _los gringos_ (gl'italiani) coll'intento di distruggerci sino all'ultimo — Ma ingannossi — Italiani ed Orientali, lo dico con orgoglio: mi amavano — ed io avrei potuto senza tema di nessuno erigermi indipendente, dal nuovo ed illegale potere — ma, troppo santa, mi era la causa di quel popolo sventurato — ma buono — ma generoso! perchè io lo affligessi ancora con interni dissidi. A Montevideo per l'ascensione di Rivera al potere, s'erano insanguinate le piazze — Al Salto s'ideò la stessa farsa — ma invano — Io mi contentai in rapresaglia di assumere come prima, il comando delle forze — Ebbe luogo allora il bel combattimento contro le divisioni[66] di Lamas e Vergara — i nostri perenni assediatori da lontano — Il 20 Maggio 1846 — noi sorprendemmo — al solito con una marcia di notte — quelle forze, sulla sponda del Dayman, uno dei confluenti dell'Uruguay — Esse dopo l'affare di S. Antonio, ove avean combattutto agli ordini di Servando Gomez — s'eran rifate — riforzate in uomini e cavalli — e riocuparono le posizioni antiche, circonvicine al Salto — variando gli accampamenti — ma mantenendoli sempre, ad una marcia di distanza, circa, per la fanteria — che sola quasi incuteva loro timore — essendo la cavalleria troppo poca, e mal montata — I nemici non mancavano di molestarci, tutte le volte che lo potevano — massime quando si usciva per riunire del bestiame — che cercavano d'allontanare quanto loro era possibile — Un maggiore Dominguez mandato dal generale Medina per riunire una truppa di vaccine, era stato intieramente sconfitto, perdendo tutti i cavalli, alcuna gente, ed obligato il resto di salvarsi nei boschi — della sponda sinistra del fiume. Io feci spiare la posizione del campo nemico, e nella notte del 19 Maggio, marciammo per combatterlo — Avevo cerca trecento uomini di cavalleria, e circa cento legionari (Il battaglione sacro, poveri giovani, erano stati ben decimati!) — L'oggetto mio, era di sorprendere il campo nemico all'albeggiare — e vi riuscimmo questa volta perfettamente — Il mio _bagueano_ (pratico) era un capitano Paolo, Americano indigeno — cioè di quella razza infelice — donna del nuovo mondo, pria dell'invasione dei predoni Europei — gente che conserva sempre una peculiare pratica dei suoi campi nativi — La fanteria nostra marciò a cavallo — Marciammo tutta la notte, per venti e più miglia, e pria dell'alba, si giunse alla vista dei fuochi del campo nemico, sulla sponda destra del Dayman — Piede a terra alla fanteria, e si attaccò risolutamente in collonna senza fare un tiro — Fu facilissima la vittoria — e la gente di Vergara nel di cui campo avevimo dato, fu precipitata nel fiume, lasciando armi, cavalli, ed alcuni prigionieri — Era però lungi dall'esser compiuto il trionfo — e me ne accorsi col chiaror del giorno — Il campo di Lamas era diviso da quello di Vergara da un fiumicello, che avea foce nello stesso Dayman — e sentito l'attacco nel campo di questo, Lamas avea ordinato la sua gente, e preso posizione su d'una collina, che dominava i campi — Vergara colla maggior parte della gente, per il fiume avea potuto riunirsi a Lamas — Erano gente aguerrita, brava — e perciò fatta alle vicende della guerra, buone o cattive — Dopo d'aver raccolto negli accampamenti abbandonati, tutti i cavalli servibili, perseguimmo i nemici; ma vano riuscì il proseguimento nostro — La maggior parte dei nostri cavalieri erano montati su _Rodomons_ cavalli domati di fresco — Assai meglio montati erano i nemici, e più numerosi — Non volevo quindi arrischiare la mia giovane cavalleria — senza il sostegno dei superbi militi della legione — Bisognò quindi desistere dal correre inutilmente dietro al nemico — e limitandosi ai vantaggi avuti, ripigliare la via del Salto — La fortuna però, volle in quel giorno favorirci maggiormente — Noi marciavamo verso il Salto, ordinati nel seguente modo: Uno squadrone di cavalleria, per plottoni alla testa, l'infanteria in quattro sezioni, in collonna nel centro — il resto della cavalleria alla retroguardia nella stessa guisa. La vanguardia era comandata dal Collonnello Centurion, il centro dal maggiore Carone, e la retroguardia dal collonnello Garcia — Due forti catene di cavalleria, comandate dai maggiori Carvallo, e N. Fausto, coprivano il nostro fianco destro — su cui si trovava il nemico — La cavallada, ed i cavalli della fanteria, marciavano alla sinistra — Il nemico, — riordinatosi, come già dissi, e riconcentrati tutti i distaccamenti, assai numerosi, considerando che cogli stessi ci assediava, benchè lontani — ammontava in numero, a circa cinquecento uomini di cavalleria. Egli riconosciuta la forza nostra, ci fiancheggiava alla destra, non lontano, tenendo una direzione parallella alla nostra — e dal suo contegno — sembrava aver l'intenzione di vendicarsi dall'insulto ricevuto di notte — Avevo io incaricato del comando della cavalleria, il collonnello Centurione, pieno di bravura — Comandava la fanteria il nostro Carone — a cui avevo raccomandato di tenerla intiera a qualunque costo, e sempre in collonna serrata nel conflitto — Che i movimenti, giammai fossero per conversione — ma di fianco: con un'a destra, a sinistra, o dietro fronte. A Centurion, servisse la fanteria di punto d'apogio non solo, ma di riparo, onde rifarsi a qualunque evento. Il nemico imbaldanziva — a misura che ingrossava coll'arrivo dei distaccamenti — Noi percorrevamo amenissime colline, circa a due miglia dalle sponde del Dayman — Eravi l'erba sporgente appena, verdissima, dalla superficie del terreno, ondulato come l'Oceano, in tutta la pacifica maestà, quando non sconvolto dalle tempeste. Una sola pianta, un arbusto solo non presentava ostacolo in quei bellissimi campi — Sarebbe stato un sito ameno per un banchetto — ma in quel giorno lo fu di strage — Giunti al limitar d'un ruscello — ove la _maciega_ (erba indurita) era all'altezza d'uomo — non mi piacque passarlo — poichè era forza disordinarsi la piccola collonna nel passarlo uno ad uno — poi, la collina di destra copriva il grosso del nemico, e non si vedeva sul suo vertice altrochè la sua catena di volteggiatori — Pensai giustamente, esser attaccato in quel punto, e feci fare alto — Ordinai ai maggiori Carvallo, e Fausto — ambi valorosi ufficiali — di caricare la catena nemica, respingerla oltre la collina — ed avvisarmi delle disposizioni del nemico — E realmente — caricata bravamente la catena nemica sino al di là dell'eminenza — si fermarono i nostri — e da un ajutante al galoppo, fui avvisato che il nemico convergeva a sinistra, e marciava su di noi con tutte le sue forze al trotto, ed in disposizione di battaglia — Non v'era tempo da perdere — I plottoni della cavalleria nostra delle ale, eseguirono la loro conversione a destra — e furono riforzati subito dalle catene nostre riconcentrate — L'infanteria fece per il fianco destro — ed in buon [ordine] si marciò sul nemico — Quando la linea nostra di battaglia, si presentò sul vertice dell'eminenza — la linea del nemico spuntò a tiro di pistola, marciando su di noi — Qui devo confessare: io vidi far al nemico un movimento dal centro alle ali, di cui la sola cavalleria Americana credo capace — e che prova con qual gente aguerrita noi avevimo da fare — Egli non volendo cozzare contro la fanteria che temeva — si aprì dal centro, e convergendo i suoi plottoni: quei di destra a destra — di sinistra a sinistra, eseguendo così un semicircolo; piombarono sulle nostre due ali, sempre a galopo — e le avrebbero distrutte — senza il convergere, e la carica simultanea dei plottoni nostri — Subito ch'io avevo scoperto il nemico — per profitar dell'impeto, ordinai la carica di fronte — Ma dai movimenti suddetti, risultò il primo cozzo di sola cavalleria, e com'era da prevedersi con la peggio dei nostri inferiori di numero e di bontà dei cavalli — La fanteria rimase per un pezzo inutile ed isolata — Comunque restata nel centro del conflitto — or ferma e compatta com'un fortino — ed ora movente a tutta possibile celerità ove la mischia più ferveva — servì molte volte a riordinar al coperto del suo palladio — i dispersi nostri cavalieri — che benchè rotti dal nemico, pugnavan come leoni e si riformavan poi dietro di noi. Una piccola riserva di cavalleria nostra — rimasta alla custodia della cavallada — concentrandosi sulla fanteria, servì pure molto al riordinamento dei rotti nostri plottoni. Varie furon le cariche di cavalleria d'ambe le parti — e varia la fortuna — Era un oscillare di plottoni, or compatti, or disfatti — Non so da che parte vi era più valore — Il nemico superiore in numero, ed in bontà di cavalli — cacciava i nostri sulla fanteria — e spesso misurava le sue lancie colle bajonette — I nostri rifatti coll'apogio dei fanti — rintuzzavano quello lontano — combattendo corpo a corpo — I giovani Italiani poi — com'eran belli in quel giorno! compatti com'un baluardo, ed agilissimi accorrevano ovunque li richiedeva il bisogno — naturalmente, sempre al più folto della mischia — fugando sempre i persecutori dei compagni cavalieri — Pochissime le fucilate, ma misurate e certe — diradavano e sconvolgevano i nemici — Infine dalla moltiplicità delle cariche — perdendo il nemico l'ordinanza, non era più che una massa informe — Al contrario sostenuti dalla fanteria — potevano sempre i nostri facilmente riordinarsi. Circa una mezz'ora avea durato il conflitto in quella guisa — quando non più acozzati da forze ordinate — rifacendosi i nostri in alcuni plottoni compatti — si lanciarono ad una carica decisiva — Piegò il nemico, si sbandò del tutto — e principiò a fuggire — Una nube di bollas[67] solcò l'aria allora, e formava curioso spettacolo — se oggetto di curiosità possa esser la strage sotto qualunque forma — Io conto il soldato Americano di cavalleria, non secondo a nessuno, in ogni specie di combattimento — In una sconfitta poi, credo non vi sia l'uguale, per perseguire un nemico e catturarlo — Vero centauro, nessun'ostacolo del campo ferma la sua corsa — Un albero non permette di passare diritto, esso si piega sul dorso del destriero — e scomparisce confuso colla sua schiena — Se un fiume — l'Americano vi si precipita coll'arma ai denti, e va a ferire il nemico nel bel mezzo dell'onde — Oltre alle bollas poi, il terribile ed indivisibile coltello — istromento compagno di tutta la vita — che maneggiano con destrezza unica — e forse un po' troppo — Sventurato quel nemico, il di cui cavallo stanco e _bolleado_ — non può sottrarsi al coltello del persecutore — Scendere da cavallo — passare il coltello alla gola d'un caduto — e rimontare per ragiungerne altri — io impiego più tempo a descriverlo — Il costume costante di solo alimento carnivoro — e l'abitudine di spargere sangue vaccino ogni giorno — è probabilmente causa di tale facilità all'omicidio — Tali consuetudini e con gente coraggiosa senza esagerazione — fa sì — che s'impegnano alcune volte anche dopo la vittoria — pugne singolari da inorridire — Una di quelle risse, erasi impegnata, non lontano da me tra un nemico a cui era stato ammazzato il cavallo ed i nostri — Caduto egli combattè a piedi contro chi lo avea rovesciato — e mal governo ne faceva — quando giunse un altro dei vincitori — poi un altro — finalmente contro sei pugnava quel prode — ed in ginocchio, perchè ferito in una coscia quando io giunsi — e tardi giunsi per salvare la vita d'un tanto uomo — Il trionfo fu completto, e rotto intieramente il nemico — si perseguì per varie miglie — Il risultato immediato di quella vittoria, non fu quale doveva essere — per non aver noi migliori cavalli — e perciò molti de' nemici si salvarono — Ciononostante, per tutto il tempo che rimasimo nel Salto, ebbimo la soddisfazione di veder quel bel dipartimento libero da' nemici — Mi sono disteso alquanto nella narrazione del fatto d'armi del 20 Maggio — per esser stato quello veramente un bel fatto ed onorevole — combattutto in magnifico terreno e sgombro da ogni ostacolo — in un clima e sotto un cielo, che ci ricordava la bella patria nostra — Qualunque mossa — qualunque gesta era all'evidenza — Contro un nemico aguerrito, e superiore in numero, e nella qualità de' suoi cavalli — principale elemento di quel genere di guerra — Varie, e singolari pugne a cavallo, con pari valore — La cavalleria nostra, per le condizioni d'inferiorità suddette — fece veramente miracoli in quel giorno — Circa alla fanteria, io rapporterò il detto del maggiore Carvallo — il quale compagno nostro in S. Antonio, e nel Dayman, — in ambi conflitti avea pugnato da prode qual era — ed in ambi avea toccato una palla nel volto — sotto gli occhi, alla distanza di due ditta, e nella prominenza della guancia — una a destra — a sinistra l'altra — formando perfetta simmetria — Egli fu ferito al principio della pugna — e non volle abbandonare il campo di battaglia — Mi chiese poi, al termine della stessa — di recarsi al Salto, onde potersi far medicare. Passando sotto la batteria della città — le fu chiesto dell'esito della giornata — Egli rispose: (e poteva parlar poco) «La fanteria Italiana è più solida della vostra batteria» — Io bramo: ciò resti ben impresso nella mente dei nostri giovani Italiani — cui, credo: toccherà sventuratamente ancora — misurarsi coi boriosi nostri vicini — e che comunque sia — e comunque si voglia presumere — per colpo di governo, e di preti, noi siamo ben lontani dal possedere i requisiti morali e materiali — necessari per combattere dovutamente i prepotenti invasori — «Cavalleria! Cavalleria!» io ho udito gridare dai nostri ragazzi — e vergogna a dirlo — gettar le armi e fuggire — sovente davanti ad un immaginario pericolo — Cavalleria!... ma gl'italiani di S. Antonio e del Dayman ridevano della prima cavalleria del mondo — E ciò in tempi — ove possedevano cattivi fucili a pietra — Che sarà oggi — con armi cotanto perfette! Noi siamo inferiori in cavalleria a tutte le nazioni vicine, solite a calpestare i nostri diritti e che potrebbero ancora usare contro di noi delle prepotenti velleità — Senza disprezzare la cavalleria utilissima in certe circostanze di guerra — conviene assuefare i nostri giovani militi, e famigliarizzarli all'idea: che la fanteria deve non mai temere la cavalleria — Io suppongo una compagnia di cento uomini — come si trovava al Dayman — serrata in massa — occupando uno spazio di dieci metri quadrati — Per numerosa che sia la cavalleria nemica — appena cinque cavalieri di fronte potranno caricare uno dei lati della massa, che potrà far fuoco su due ranghi — cioè venti militi — Lascio pensare: se, ove la fanteria non si sgomenti, i cinque o dieci cavalieri caricanti giungeranno mai ad incrociare i loro ferri colle bajonette — al punto di perfezione in cui sono giunte le odierne armi della fanteria — CAPITOLO XLVII. Alcuni morti e feriti della Legione. Io già dissi: trovarsi nel giornale della legione Italiana in Montevideo — tenuto da Anzani — i nomi de' morti, feriti, e distinti, nei diversi fatti d'armi, sostenuti dalla stessa — nonostante non crederò superfluo nominare alcuno di quei miei prodi fratelli d'armi ch'io posso ricordare — Morti in diversi combattimenti della legione Italiana nella campagna dell'Uruguay. Badano (sargente Ligure) il più bello, il più prode tra i militi della legione. Nessuno più di lui, si distinse nei vari fatti d'armi massime in S. Antonio — Al nostro ritorno in Montevideo, egli chiese di tornare al Salto temporaneamente — e trovossi ad un nuovo attacco di quella città — da Servando Gomez, generale d'Ourives — Non era Badano da rimanersi inerte, quando si pugnava — Dopo d'aver combattutto dall'uomo ch'era — cadeva vendendo caramente la vita. Santo N. caporale piemontese — prode come Badano — Nel principio del combattimento di S. Antonio fu colpito da tre palle, ebbe le due gambe rotte — ed una nel volto che lo sfigurava — Lo ajutai a metter a cavallo nella ritirata, con un custode; ma non giunse al Salto — Il suo cadavere fu ritrovato nel giorno seguente nell'Uruguay. Alessandro — Veneto — buon soldato e marino, morto in S. Antonio. Rebella — Ligure — prode milite, morto in S. Antonio — Azzalino — Ligure prode sargente — morto nel Salto, in conseguenza di ferite ricevute in S. Antonio — Beruti — Ligure prode sargente — morto nella Salto, in conseguenza di ferite ricevute in S. Antonio — Luigi Vicente — Ligure — (tutti eran prodi) Moriva nel Salto per ferita ricevuta in S. Antonio — Antonio — detto _trentuno_ — ligure — avea pugnato in S. Antonio — toccate alcune ferite, di cui era sanato, morì di palla, fuori delle mura di Montevideo — Tortarello — Ligure — tromba — era al mio lato in S. Antonio — e nel 20 Maggio nel Dayman — Le pugne eran per lui una festa — Avendo ricevuto una ferita nel braccio destro per cui soffrì l'amputazione — egli passò la tromba alla sinistra e continuò a suonar la carica — Morì pure a Montevideo — Feriti gravemente Vittorio Richieri — di Nizza — sargento — Una tremenda ferita di palla in un ginocchio — per cui vi si doveva amputare la gamba — ed una non men lieve sciabolata in una mano — Valse alla guarigione, l'imperturbabile suo coraggio — Callegari — Bergamasco — sargento — La ferita la più straordinaria ch'io m'abbia veduto — egli toccò nel ventre — Ebbe gl'intestini forati — ed operò le funzioni naturali, per quattordici giorni, dagli orifizi delle ferite non dai naturali — Il di lui straordinario stoïcismo — certamente — influì moltissimo la miracolosa sua guarigione — Marrocchetti Giuseppe — Capitano — ferito di palla in una coscia al principio della pugna — in S. Antonio — Casanna — Ligure — Capitano — ferito di palla in una coscia al principio della pugna — in S. Antonio — Sacchi — pavese — 1º Tenente, oggi generale — ferito di palla nel principio della pugna in S. Antonio — Ramorino — piemontese — 2º Tenente — ferito di palla in S. Antonio — Rodi — Piemontese — 2º Tenente ferito di palla nella testa, in S. Antonio — Amero, detto Graffigna, da Costigliuole d'Asti, 2º Tenente, ferito di palla in S. Antonio — Zaccarello, il minor fratello — Ligure — ferito di palla in S. Antonio. Beruti G. Batt. — Ligure Capitano — ferito di palla in S. Antonio — Paggi Natale — Ufficiale Ligure — ferito di palla in un combattimento nel fiume Uruguay — Pateta — Ligure, ferito di palla e di sciabolate in S. Antonio — Gismondi — Ligure — ferito da sciabolate, e lanciate in S. Antonio — Ferrandin — Ligure — giovinotto di quattordici anni ebbe, traversato il petto da una palla sotto Montevideo — Juancito Otero — Gallego — ajutante in S. Antonio — moriva nel Rio della plata — da prode — in combattimento di mare — Josè Maria Villega — comandava la poca cavalleria che ci rimase, dopo la fuga di Baez in S. Antonio — e combattè da prode — Avrei tenuto come dovere sacro: il ricordare i nomi tutti, di quei valorosi Italiani — che tanto bella, e venerata resero la nostra patria in quelle lontane contrade — e per cui l'Italiano che approda oggi in quella importantissima parte del nuovo mondo — è considerato quasi cittadino dai buoni — e rispettatto da coloro, che sogliono veder un nemico in ogni straniero — Nel giornale della Legione Italiana, tenuto da Anzani, e che non saprei ritrovare oggi — vi sono certamente i nomi, e le gesta di quei prodi — Io, consultando la povera mia memoria — ho potuto rammentare alcuni — ma il maggior numero certamente — mi è impossibile ricordarlo — CAPITOLO XLVIII. Ritorno a Montevideo. Dopo il combattimento del 20 Maggio 1846 nel Dayman — non occorse più cosa d'importanza nella nostra campagna dell'Uruguay. Ebbi ordine dal governo di ritornare in Montevideo, con i legni della flottiglia, ed il distaccamento della Legione Italiana — Rimasero nel Salto, alcuni barchi minori dei nostri — La piazza rimase agli ordini del Comandante Artigas — bravo ufficiale distintosi nel fatto del 20 Maggio — A pochi giorni dalla mia partenza del Salto — vi giunse il collonnello Blanco — e prese per ordine del generale Rivera il comando della piazza — Cogli errori commessi in Corrientes, ed a Montevideo, la causa di Rosas risorgeva potentissima — e quella dei popoli del Plata, ricadeva in ben misera condizione — Corrientes vide il suo esercito annientato da Urquiza, in una battaglia — e quel povero popolo dopo d'aver nuotato in un mare di sangue languiva sotto il despotismo più esecrato. Rivera non profitando delle lezioni della sventura — finiva, siccome aveva cominciato — allontanando dagli impieghi, gli uomini, che onestamente li avevano disimpegnati — e sostituendovi i suoi adetti — Distruggendo i materiali d'un esercito d'operazione — che il coraggio e la costanza del popolo avevano creato — e mantenuto con incomparabile eroïsmo — terminando col sacrifizio delle reliquie dello stesso — e finalmente spinto all'espatriazione dallo sdegno e maledizione di tutti. Avvenga tal fine, ed avverrà, a chiunque considera le nazioni come un apannaggio venuto al mondo soltanto per soddisfare alle libidini di lussuria, di richezze, e di potere che signoreggiano quell'infima classe d'uomini chiamati Monarchi — e certi Presidenti di Republica — peggiori ancora di quelli. L'Intervenzione Anglo-Francese, svogliata dalle nostre sciagure, e sfiduciata da sì deplorevole contegno ci abbandonava: intieramente l'Inghilterra — la Francia, tratenuta per un filo dalla responsabilità della perdita di numerosi suoi nazionali — più che dall'interesse d'una causa precipitante. Le posizioni nostre nell'interno cadevano quindi, una ad una in potere del nemico — Il Salto sì gloriosamente acquistato, e mantenuto da noi — soggiaceva all'assalto di Servando Gomez — e vi perivano nella difesa il collonnello Blanco — vecchio e prode soldato con non pochi de' suoi difensori, tra cui contava quel tenente Gallegos da me accennato — bravo, ma sanguinario, e che perciò, caduto nelle mani del nemico fu massacrato. Infine a Montevideo solo, ultimo baluardo del generoso popolo Orientale, si riduceva ancora la difesa — A Montevideo, si rannodavano ancora tutti quegli uomini affratellati da sei anni di disagi, di pericoli, di glorie, di sventure! E ricominciavano impavidi a rialzare un'edifizio, che la malvagia avea distrutto, sin quasi alle fondamenta — Il collonnello Villagram — veterano di quarant'anni di guerra — il più prode, il più virtuoso — ringiovinito nelle pugne — ed i Collonnelli Diaz, Tajes — valorosissimi capi — villanamente allontanati da Rivera — perchè non lui servivano ma la loro patria — Altri molti giovani capi destituiti da quello, ripigliavano il loro posto colla coscienza e la rassegnazione del giusto — e con loro ritornavano nelle fila dei difensori, la risoluzione e la fiducia — Orientali, Francesi, Italiani, ricominciavano, sotto lo stimolo della salute pubblica — a marciare colla passata alacrità alla difesa della patria comune — giacchè quale patria era considerata da noi, la città ospitale che ci avea generosamente dato un asilo — Infine, da nessuno più si udiva una parola di scoraggimento — l'assedio di Montevideo, quando meglio conosciuto ne' suoi dettagli — non ultimo, conterà — per le belle difese sostenute da un popolo che combatte per l'indipendenza — per coraggio, costanza, e sacrifizi d'ogni specie — Proverà il potere d'una nazione che non vuol piegare il ginocchio davanti alle prepotenze d'un tiranno — e qualunque ne sia la sorte — essa, merita il plauso e l'ammirazione del mondo — Dal nostro ritorno dall'Uruguay, alla partenza per l'Italia, media un periodo di pochi successi — La Legione Italiana giustamente stimata per le sue gloriose gesta, avea ripreso il consueto servizio di linea agli antiposti — alternando cogli altri corpi della capitale — Anzani usciva con essa — e benchè non accadessero più fatti d'armi importanti, essa non mancava in ogni scontro, d'esser degna della sua fama — Io mi occupavo più della Marina — riponendo in istato alcuni dei legni che più ne abbisognavano, ed incrociando colla goletta _Maipù_ nel Plata — In quel tempo fui chiamato all'onore di comandar l'esercito della Republica, e nulla d'importante successe durante il mio comando — che lasciai al vecchio e prode Villagram — Intanto l'intervento Francese, affievoliva ogni giorno — non più mezzi di guerra, esso voleva impiegare per la soluzione del problema, ma diplomatici — e Rosas se ne beffava — Vari inviati a negoziare, non avevano ottenuto dal Dittatore, senonchè insignificanti armistizi — che non valevano ad altro, che a far consumare alla povera città assediata, gli scarzi mezzi, raccolti stentatamente — Col cambiamento di politica, avea la Francia, cambiato i suoi agenti. Agli uomini, come Deffaudis, Ouseley — ambasciatori — Lainé, Inglefield — ammiragli — degni di sostenere una politica generosa; e cari alle popolazioni — eransi sostituiti uomini di transazioni, e d'una politica, che voleva finirla ad ogni costo. Il governo Orientale, impotente per mancanza di mezzi doveva conformarsi al dettatto dall'Intervento. Situazione deplorabile! Infelici i popoli, che aspettano il loro benessere dallo straniero! Ed ogni volta che si deve fare l'applicazione di queste desolanti verità...... il pensiero si rivolge malinconico alla nostra povera Italia! In quei giorni, (credo: principio del 1848) la notizia delle riforme pontificie, era giunta sino a noi, e l'insofferenza delle popolazioni Italiane al dominio straniero — che fosse al colmo, già era manifesto, in tutte le corrispondenze che giungevano nel Plata — L'idea del ritorno in patria — e la speranza di poter offrire il nostro braccio alla sua redenzione da molto tempo facevan palpitar l'anime nostre — Era doloroso abbandonare il paese d'asilo, la patria adottiva i fratelli d'armi — è vero; ma la quistione di Montevideo, era divenuta meramente una transazione diplomatica — e per noi, altro non rimaneva: che tedio, e mortificazioni — se non peggio — ciocchè ben si poteva congetturare: avendo da fare col governo Francese sempre ostile alla nazionalità nostra. In tale stato di cose, si decise: di riunire un pugno dei nostri migliori, i mezzi di trasporto, e veleggiare per l'Italia. SECONDO PERIODO CAPITOLO I. Viaggio in Italia. Sessantrè lasciammo le sponde del Plata per recarci sulla terra Italiana a combattere la guerra di redenzione — Giacchè non solamente v'eran molti indizi di movimenti insurrezionali nella penisola — ma, in caso contrario, si era decisi di tentare la fortuna, e procurar di promoverli, sbarcando nelle coste boschive della Toscana, o dove la nostra presenza potesse essere più accetta, ed adeguata — Imbarcati sul brigantino _Speranza_, il di cui noleggiamento potemmo effetuare, grazie all'economie nostre, al generoso patriotismo di alcuni nostri conterranei, tra i quali si distinsero — G. Batta, Capurro, Gianello, Dellazoppa, Massera, G.ppe Avegno, e sopratutti l'eccellente nostro Stefano Antonini, su di cui pesò la maggior parte del nolo, e le provviste tutte, necessarie al viaggio — Noi marciavamo al conseguimento della brama, del desiderio di tutta la vita — quell'armi, gloriosamente brandite, alla difesa d'oppressi d'altre contrade, noi, volavamo ad offrirle alla veneranda patria nostra! Oh! quell'idea, era soverchio compenso ai pericoli, disagi, patimenti — che incontrar si potevano sulla via, d'una vita intiera di tribolazioni. I nostri cuori battevano di sublime palpito — E se la destra incallita alle pugne di lontane contrade, fu forte in difesa altrui, che non sarà per l'Italia! Davanti a noi schiudevasi l'Eden della nostra immaginazione — E se l'idea di quanto rimaneva dietro a noi, non l'avesse offuscata alquanto — completta sarebbe stata la felicità nostra — Dietro a noi rimaneva il popolo del nostro affetto — poichè un ben caro popolo è l'Orientale! — E noi avevamo diviso per tanto tempo — le poche sue gioie ed i molti dolori — Ed ora, lo lasciavamo non vinto, non abbatutto nel sublime coraggio — ma in preda al più malvagio dei concepimenti umani — alla diplomazia Francese! Noi lasciavamo i nostri fratelli d'armi — senza aver combattutto l'ultima battaglia! Ed è ben doloroso, qualunque ne sia la cagione! Quel popolo festante all'aspetto nostro — fiducioso e tranquillo sulla bravura dei nostri militi — dava in ogni occasione, segni manifesti del suo affetto e della sua gratitudine — E quella terra, che noi amavamo da figli, racchiudeva l'ossa di tanti nostri Italiani, generosamente caduti per redimerla!..... Il 15 Aprile 1848, era la partenza — Usciti dal porto di Montevideo, con favorevole brezza — abbenchè minaccioso il tempo — erimo verso sera, tra la costa di Maldonado e l'isola di Lobos — Alla mattina del seguente giorno, appena le sommità della _Sierra de las animas_, si distinguevano — poi si sommersero e solo gli spazi dell'Atlantico — si offrivano alla vista nostra — e davanti a noi, la più bella, la più sublime delle aspirazioni: la liberazione della patria — Sessantatre, tutti giovani, tutti fatti ai campi di battaglia — Egri due: Anzani affralita oltremodo, la salute, nelle sante crociate della causa dei popoli languiva sotto il peso di dolorosa consunzione — Sacchi, gravemente ferito nel ginocchio, aveva una gamba da spaventare — ma la fede, e le cure fraterne, valsero a depositarlo non sano, ma salvo sul lido Italiano — Anzani non doveva trovare in Italia, che una sepoltura, accanto a quella de' suoi parenti — Fu il nostro viaggio, felicissimo e breve — Gli ozi della navigazione, si passavano per lo più in trattenimenti proficui — Gli illiterati erano insegnati da chi sapeva — e non pochi, erano i ginnastici esercizi. Un inno patrio, composto e messo in musica dal nostro Coccelli — era la preghiera di tutte le sere — Noi, lo cantavamo in crocchio sulla tolda della _Speranza_ — Intuonato da Coccelli, era accompagnato — e ripetuto il coro, da sessanta voci, con entusiasmo sommo — Varcammo così l'Oceano, incerti, sulle sorti d'Italia, altro non sapendo, oltre alle riforme promesse da Pio IX — Il punto indicato da approdare in Italia era la Toscana — ove si doveva sbarcare, comunque ne fosse stata la situazione politica — incontrando amici, o dovendo combattere nemici — Un aprodo in Santa Pola, nella costa di Spagna — modificò le nostre risoluzioni — e fissò la metà nostra: Nizza — La malattia d'Anzani aggravavasi — I pochi viveri, adeguati alla sua situazione, erano esausti — bisognava aprodare la costa per provvedersene — Giungemmo in Santa Pola — Andato in terra il Capitano Gazzolo, comandante la _Speranza_ — ritornò celeremente a bordo con notizie tali da far impazzire uomini assai meno esaltati di noi. Palermo, Milano, Venezia, e le cento città sorelle — avevano operato la portentosa rivoluzione — l'esercito Piemontese perseguiva l'Austriaco sbaragliato — e l'Italia tutta rispondeva all'appello all'armi come un sol uomo, e mandava i suoi contingenti di prodi alla guerra Santa — Lascio pensare all'effetto prodotto su noi tutti — a tali notizie: era un correre sulla tolda della _Speranza_ — abbracciandoci l'uno l'altro — fantasticando — piangendo di gioia! Anzani balzava in piedi superando l'orrendo suo stato di distruzione — Sacchi, volea ad ogni costo esser tolto dal suo giaciglio — ed esser trasportato su coperta — Alla vela! Alla vela! era il grido di tutti — e certamente, se non si fosse eseguito subito tal'atto, ne sarebbero risultati dei disordini — In un lampo fu salpata l'ancora — ed era il brigantino alla vela — Il vento sembrava corrispondere al nostro desiderio, all'impazienza nostra — In pochi giorni costeggiammo la Spagna, la Francia, e giungemmo alla vista dell'Italia — della terra promessa! non più proscritti — non più obligati di pugnare per scendere sul lido della patria nostra — E perciò, cambiato il divisamento di approdare in Toscana — Nizza primo porto Italiano[68] fu scelto, e vi sbarcammo verso il 23 di Giugno 1848. Nelle sventure, per cui avevo passato nelle mia vita tempestosa, io avevo sempre sperato in giorni migliori. Lì, a Nizza v'era un complesso di felicità per me, come a nessun uomo è concesso di pretender maggiore — Troppa felicità veramente! ed ebbi un quasi pressentimento di sciagure non lontane — Anita mia, ed i miei bimbi, partiti d'America, alcuni mesi prima, erano lì, riuniti alla vecchia mia genitrice ch'io idolatravo, e che non vedevo da quattordici anni — Parenti cari, e preziosi amici dell'infanzia — io, riabbraciavo giubilanti di vedermi, ed in un'epoca così fortunata! Quella popolazione di concittadini miei, sì buona sì esaltata dalla sorte sublime, che brillava sull'orizzonte dell'avvenire Italiano — e fiera del poco da me operato nel nuovo mondo! Oh! certo — era la posizione mia invidiabile! Intenerito... io rammento quelle tante dolci emozioni! Che sì presto..... e sì dolorosamente dovean terminare! — Non giunti ancora all'entrata del porto — già la cara mia consorte apparivami in una barchetta, tripudiando d'allegrezza — Una popolazione immensa mostravasi da tutte le parti — accorrendo al ricevimento del pugno di prodi, che disprezzando lontananza e pericoli — traversavano l'Oceano, per venir offrire il sangue loro alla patria — Buoni, e valorosi compagni miei! Quanti di voi, dovean cadere sulla terra natale — coll'amara disperazione di non vederla redenta! Eran pur belli, di virtù, di bravura, di gloria..... quei giovani miei compagni!..... E se degni della loro missione, lo provarono sui campi delle patrie battaglie!..... Ove le loro ossa biancheggiano, forse insepolte, e senza un sasso che ricordi a codeste nuove generazioni, che fecero indipendenti dallo straniero — tanto valore e tanto sacrificio! Montaldi, Ramorino, Peralta, Minuto, Carbone — sullo stesso sito ove cadeste, coi vostri fratelli di gloria — il prete ha innalzato un monumento agli sgherri del Bonaparte che fuggirono davanti a voi — e che soverchianti di numero poi, vi sgozzarono sotto le benedizioni dei traditori d'Italia! In Nizza dovevansi attendere alcune formalità di quarantina ecc. ma tutto fu ovviato dalla voce del popolo, coscienzioso allora della propria onnipotenza — E per farsi un'idea dello stato, in cui si trovavano le nostre finanze — basta dire: che non potemmo pagare il pratico — un tal Cevasco — che ci pilotò nel porto — Ormeggiato il brigantino — provvisto allo sbarco d'Anzani, e di Sacchi — scese tutta la gente nostra anelante di passeggiare sulla terra Italiana — Io corsi ad abbracciare i miei bimbi — e colei, ch'io avevo afflitto tanto, coll'avventurosa mia vita — Povera madre! La più calda delle mie brame fu certamente quella d'abbellire, e consolare i vostri ultimi giorni — La più calda delle vostre — era, naturalmente di vedermi tranquillo accanto a voi — Ma come, si può sperare in un periodo di quiete — e goder del bene di consolarvi nella cadente, e dolorosa vecchiaja, in questa terra di preti e di ladri! Fu festa continua, i pochi giorni passati a Nizza — ma si combatteva sul Mincio — e l'ozio era per noi delitto quando i fratelli nostri pugnavano contro lo straniero — Partimmo per Genova — ove, non men desioso di farci amorevole accoglienza, era quel bravo popolo — Un vapore spedito di là, doveva accelerare il nostro arrivo — Non trovandoci a Nizza, detto vapore, ci cercò invano sulle coste della Liguria — Noi erimo stati spinti verso la Corsica, dalle correnti, e piccoli venti contrari. Giunsimo infine, e con noi alcuni giovani Nizzesi, che avean voluto accompagnarci, coll'entusiasmo proprio della loro età — e della fiamma di vita che bruciava allora tutte le animose popolazioni della penisola — Il popolo di Genova, ci accolse, palpitante di gioia e di affetto; le autorità colla freddezza di coscienza mal sicura; e preludiarono in quella serie di smorfie, e temporeggiamenti — che ci accompagnarono nel nostro paese — ovunque ritrovavansi i patteggianti addetti alle idee di mezzo — trascinati al libero reggimento, più dalla paura del popolo che dalla fede e dall'indole dell'anima per il miglioramento umano. Anzani ch'io avevo lasciato presso mia madre — impaziente, e spinto dal proprio genio di fuoco — ci aveva preceduti in Genova, imbarcandosi col vapore; ad onta della spossatezza, e debilità, a cui lo avea ridotto la mortale sua malattia — Qui comincia l'ostracismo, a cui mi condannarono gli amici di Mazzini (1848) — e che dura oggi — (1872), più ostinato che mai — il di cui motivo o pretesto, fu senza dubbio — per voler io marciare coi miei compagni, sul campo di battaglia, allora sul Mincio e nel Tirolo; e ciò perchè era un esercito reggio, quello che stava alle mani cogli Austriaci — E si osservi: che i capi allora, che tormentavano il povero moribondo Anzani, chiedendoli mi ammonisse — sono gli stessi che formano oggi la falange dei servi più fedeli alla monarchia! Quando io intesi il mio amato fratello d'armi, di tante gloriose pugne — raccomandarmi: «di non abbandonare la causa del popolo»! io confesso: ne fui profondamente amareggiato — forse più che non lo fui in questi giorni, nell'udirmi chiedere: «di dichiararmi apertamente Republicano»! In pochi giorni cessò di vivere quel veramente Grande Italiano, in casa dell'amico Gaetano Gallino — per cui l'Italia tutta avrebbe dovuto vestirsi a lutto — e s'egli, per fortuna nostra — fosse stato alla testa del nostro esercito — certo da molto, la penisola sarebbe sgombra da qualunque dominatore straniero — Io certo, non ho conosciuto un uomo più compito, più onesto, e più altamente militare d'Anzani — La salma dell'illustre guerriero, traversava modestamente la Liguria e la Lombardia, per esser sepolta nella tomba dei suoi padri in Alzate, luogo della sua nascita — 2º Periodo CAPITOLO II. A Milano. Il proposito nostro: dalla partenza d'America, era stato di servire l'Italia, e combattere i nemici di lei, comunque fossero i colori politici, che guidassero i nostri alla guerra d'emancipazione — La maggioranza dei concittadini, manifestava lo stesso voto — ed io dovevo riunire il piccolo nostro contingente a chi combatteva la guerra Santa — Era Carlo Alberto il condottiero di chi pugnava per l'Italia — ed io mi dirigevo a Roverbella — quartier generale principale allora — ad offrire senza rancori il mio braccio, e quello de' compagni, a colui che mi condannava a morte nel 34 — Lo vidi, conobbi diffidenza nell'accogliermi, e deplorai nelle titubanze ed incertezze di quell'uomo — il destino male affidato della nostra povera patria. Io avrei servito l'Italia agli ordini di quel re — collo stesso fervore, come se Republicana fosse; ed avrei trascinato sullo stesso sentiero di abnegazione quella gioventù, che mi concedeva fiducia — Far l'Italia una e libera dalle pestilenze straniere era la meta mia — e credo lo fosse dei più in quell'epoca — L'Italia non avrebbe pagato d'ingratitudine, chi la liberava — Io non solleverò la lapide di quel defunto — per pronunziarmi sul suo contegno — ne lascio alla storia il giudizio — dirò soltanto; che chiamato dalla posizione, dalle circostanze, e dalla generalità degli Italiani, a guida, nella guerra di redenzione — ei non corrispose alla concepita fiducia e non solo, non seppe adoperare gli elementi immensi, di cui poteva disporre — ma ne fu l'oggetto principale di ruina. Da Genova marciavano i miei compagni verso Milano, sotto l'infausta impressione generalmente prevalsa, e senza dubbio suscitata da nemici — dell'inutilità, e perniciosa influenza dei corpi volontari — Mentre io correvo da codesta città a Roverbella, da Roverbella a Torino — e quindi a Milano, senza poter ottenere di servire il mio paese, sotto nessun titolo — Casati, del governo provvisorio di Lombardia, fu l'unico, che credete potersi valere dell'opera nostra, agregandoci all'esercito Lombardo — Collo stabilirmi in Milano, terminai dunque le mie scorrerie da vagabondo — In Milano, il governo provvisorio, incaricavami dell'organizzazione di vari frammenti di corpi includendovi i pochi miei compagni d'America — e le cose non sarebbero andate male, senza l'ingerenza malefica d'un ministro reggio, Sobrero — le di cui mene, ed indefinibili procedimenti mi racapricciano tuttora — I membri del governo provvisorio collocati dalle circostanze, in quella posizione — eran dabbene io credo, ad onta di manifestate opinioni politiche contrarie alle mie — ma certamente mancavano d'esperienza, e non erano gli uomini adeguati a quei tempi d'urgenza e di convulsioni — Sobrero aprofittavasi della loro debolezza, e li trascinava a sua voglia — e padroneggiata da Sobrero quella buona gente senza esperienza, camminava verso il precipizio senza accorgersene — La febbre acquistata nel mio viaggio a Roverbella, e le conferenze con Sobrero — che fra le altre antipatie avea quella della camicia rossa — che diceva: troppo apparente alle fucilate nemiche — mi resero il soggiorno della bella e patriotica città delle cinque giornate — insoportabile — e respirai giubilante, il giorno in cui sortivo dalla capitale della Lombardia, diretto su Bergamo con un pugno di gente nuda, e mal'armata — un'altra volta per organizzare — destino niente adeguato all'indole mia — ed alle scarse mie cognizioni di teorie militari — Si osservi: che tale mia gente, componevansi per la maggior parte di depositi, o di scarti, dei corpi volontari che militavano nel Tirolo — viziati da lunga dimora nella capitale — Fu brevissimo il nostro soggiorno in Bergamo — Mentre si erano prese alcune misure, ed osservazioni di difesa — mentre si trattava — con ogni mezzo possibile di chiamare alle armi quelle brave popolazioni — e si spedivano agenti nelle valli, e montagne a riunirne i robusti abitatori — per mezzo principalmente, dei nostri incomparabili Davide e Camuzzi, la di cui influenza era somma — e le di cui opere faticose, finirono per riuscire intieramente nulle dalla precipitata partenza — ordine perentorio da Milano ci richiamava, ove ragiungere l'esercito nostro in ritirata davanti agli Austriaci — e per prender parte alla gran battaglia, che doveva aver luogo presso quella città Sotto buoni o cattivi auspici — si trattava finalmente di combattere — e non vi fu tempo perduto — Vari depositi di battaglioni Piemontesi — ed altri che si stavano formando sotto la direzione del prode Gabriele Camuzzi — con due piccoli pezzi d'artiglieria, ben disposti appartenenti allo stesso — e la piccola collonna, formata con il nome di Legione Italiana, e guidata dai veterani di Montevideo — in tutto più di tre milla uomini, marciavano ardentemente per cooperare alla decisione delle sorti della patria — In Trecate, si lasciarono bagagli e sacchi, per poter marciare più celeremente — Vicini a Monza, si ebbe l'ordine di operare sulla destra del nemico — e già si pigliavano le disposizioni all'uopo mandando esploratori a cavallo per saperne i movimenti e le disposizioni — Ma giunti a Monza, vi giungeva contemporaneamente la notizia della capitolazione e dell'armistizio; e torrenti di fuggitivi non tardarono ad ingombrar le strade — Io avevo veduto poco tempo prima l'esercito piemontese sul Mincio — e l'anima mia avea palpitato d'orgogliosa fiducia, alla vista di quella bella gioventù impaziente di trovare il nemico — Io convissi tra vari ufficiali di quell'esercito alcuni giorni — già fatti alle fatiche del campo — coll'ilarità del guerriero sospirando battaglie — Oh! certo, io avrei speso la mia vita con giubilo al lato di codesti prodi — se un conflitto vi fosse accaduto, co' nemici dell'Italia — Oggi, si diceva quell'esercito in rotta, senza sconfitte, morendo di fame nella pingue Lombardia, col Piemonte e la Liguria alle spalle; e senza munizioni, con Torino, Milano, Alessandria, Genova intatte, ed una nazione intiera, volenterosa e pronta ad ogni chiesto sacrificio — Eppure ricadeva nel servaggio, l'Italia! Disfatta a brani — e non apparì la mano capace di raccoglierli, e spingerli in fascio contro i nemici ed i traditori! Essi riuniti e ben guidati, erano bastanti per traditori e nemici! Armistizio, capitolazione, fuga, furon notizie che ci colpiron come fulmine l'una dopo l'altra — e con esse la paura e la demoralizzazione — tra popolo, nelle fila e dovunque — Certi codardi, che sventuratamente trovavansi tra la mia gente, abbandonarono i fucili sulla stessa piazza di Monza — e cominciarono a fuggire in tutte le direzioni — i buoni adirati, e scandalizzati a tanta vergogna, puntavan le armi per fucilarli; e per fortuna io e gli ufficiali, potemmo prevenire l'eccidio, ed impedire un completto scompiglio — Castigaronsi alcuni dei fuggenti — altri furono degradati e cacciati — Tale stato di cose mi decise ad allontanarmi da quel teatro di sciagure — e dirigermi verso Como, coll'intenzione di trattenermi in quell'alpestre paese, aspettando il risultato degli eventi — e deciso a far la guerra di bande se altro non si poteva — Da Monza a Como, mi comparì Mazzini[69] colla sua bandiera «Dio e popolo» — Egli si riunì a noi in marcia, e seguì a noi riunito sino a Como — Da Como passò in Svizzera — mentre io mi disponevo di tener la campagna nei monti Comaschi — Molti dei suoi aderenti, o supposti, lo accompagnarono e lo seguirono sulla terra straniera — Ciò naturalmente servì di stimolo ad altri, per abbandonarci — e si diradarono quindi le nostre fila — A Milano io avevo commesso l'errore, che Mazzini mai mi ha perdonato, di suggerirli: non esser bene il trattenere una quantità di giovani — colla promessa di poter proclamare la Repubblica — mentre esercito e volontari combattevano gli Austriaci — Giunti in Como vi trovammo meno disordine — però non meno lo sgomento cagionato dai successi funesti di Milano e dell'esercito — 2º periodo. CAPITOLO III. A Como, Sesto Calende, Castelletto. Giunti in Como fummo bene accolti da quella buona popolazione — che anteriormente già aveva manifestato per noi molta simpatia — essendo, la loro brama, stata manifestata sino dal nostro primo arrivo in Milano — cioè: che noi fossimo destinati a Como piutosto che in altro luogo per organizzarci — Le autorità municipali pure — ci accolsero bene, e ci provviddero di quanto potevano — massime di vestimenta di cui mancava molto la mia gente — Circa a metter la città in istato di difesa, e tenere contro gli Austriaci; — non fu del loro assentimento — e realmente codesta città abbisognerebbe di molte opere di fortificazioni esterne — e di molta gente per difendersi da un nemico superiore — Essa ha molte eminenze che la dominano — e trovassi nel basso, edificata sulla sponda del lago — Nel secondo giorno del nostro arrivo in Como — vi giunse il generale Zucchi in vettura — tragittando per la Svizzera — Quando la popolazione conobbe il suo arrivo — e la di lui intenzione di abbandonare l'Italia — si accese di sdegno — corse all'albergo ove aveva smontato — ed affollatta, manifestava l'intenzione di trarlo fuori, e malmenarlo. Io fui avvisato a tempo, mi recai sul luogo, e pervenni a calmare il popolo — osservando l'età, e le glorie passate del vecchio generale — Nella sera dello stesso giorno, sgombrammo Como — e dopo breve marcia, campammo a ponente della città sulla strada di S. Fermo. In Como disertarono molti dei nostri — passando nella vicina Svizzera — e credo molti altri non fecero lo stesso, per vergogna di quel bravo popolo — caldo sempre per la causa patria — ma aspettarono di esser fuori della città per abbandonar le fila dei prodi che si disponevano a difender l'ultimo lembo della terra Italiana — Nella prima notte di accampamento all'aria aperta la diserzione fu molta — e mucchi di fucili abandonati comparivano all'alba nel campo — Abbenchè in onore del vero — ed acciò i miei concittadini, coll'esempio del passato, imparino a non abbandonare sì leggermente il bellissimo lor paese al vorace straniero — io racconto come furono le nostre vergogne — In onore del vero, però, devo pur dire: che trovavansi i miei militi — massime un battaglione Vicentino — per la maggior parte vestiti di tela, e senza capoti — ad onta della generosità dei Comaschi — che fecero per noi quanto poterono — I commissari regi, che in Milano trovavano la camicia rossa troppo apparente alla vista del nemico — non curaronsi però di fornirci di un capotto — destino dei miei volontari in tante circostanze. La vicinanza della Svizzera, acresceva poi, la voglia di defezione — e certo la maggior parte preferivano di andare raccontando i loro fasti gloriosi, nei cafè, e negli alberghi di Lugano — che di rimanere ai disagi ed ai pericoli del campo — Pochi giorni vagammo per quelle montagne — raccogliendo le armi dei nostri disertori — caricandole su carri requisiti, che marciavano colla collonna — Ma tale soverchiante impedimenta cresceva ogni giorno, e somigliavamo piutosto ad una caravana di beduini — che a gente disposta a combattere per la sua terra — mi determinai quindi ad abbandonare provvisoriamente la Lombardia e passare in Piemonte — Ci dirigemmo per Varese, e di là a Sesto Calende — ove passammo il Ticino — avendo già sulle nostre traccia, un corpo di Austriaci — A Castelletto, sulla sponda destra del Ticino, io divisai di fermarmi — e consultai le autorità di quel piccolo paese, ma eccellente: se concorrerebbero alla difesa in caso fossimo lì attacati dal nemico — Assentirono volenterosamente tutti — autorità civili e popolo — e si principiò un lavoro di fortificazioni volanti, che non avrebbero mancato di attuare valida resistenza — essendo il sito assai difendibile — Il morale della gente erasi pure rinfrancato — Il Capitano Ramorino, mandato sulla sponda opposta del fiume, ov'eran comparsi i nemici, aveva fugato un loro posto avanzato, feriti alcuni, e portato come trofei nel campo nostro, alcune lancie ed attrezzi di cavalleria — Passammo alcuni giorni in Castelletto; il nemico mi significò la sospensione d'armi — ch'io feci osservare — ma non convenni sulla scambievolezza propostami, di visite reciproche dall'uno all'altro campo — Giunse l'armistizio Salasco, e tutti fummo sdegnati dalle degradanti condizioni — Si suggellava il servaggio, della, povera Lombardia — e noi eravamo venuti per difenderla — acclamati campioni di quel popolo infelice — e nemmen sguainammo le nostre sciabole per esso! Vi era da morire dalla vergogna! 2º periodo. CAPITOLO IV. Ritorno in Lombardia. Un proclama di reprobazione all'infame patto, era emesso immediatamente, e non ad altro si pensò più, che a ripassare sulla terra Lombarda — per combattere i suoi oppressori — comunque fosse — Da Lugano, alla notizia dell'armistizio, ci giunse Daverio, inviato da Mazzini, con promesse d'assisterci in uomini e mezzi, per ritentar la prova — e fu formaggio sui maccheroni — Eranvi, sul lago Maggiore, due vapori — impiegati per commercio e passeggieri, tra l'Italia e la Svizzera — e la prima idea fu naturalmente d'impossessarsi di quei vapori per agevolarci il traslato — Ad Arona aprodavano periodicamente, ed era il punto più prossimo a noi; in una marcia di notte fummo in Arona — e padroni d'uno di quei piroscafi, l'altro giunse nella giornata ed ebbe la stessa sorte — Un numero proporzionato di barche, ricevette cavalli, materiali, e parte della fanteria; i due piccoli cannoni furono collocati a bordo dei vapori — Diede la municipalità d'Arona, il richiesto, in fondi e viveri — e presimo la direzione per Luino, trascinando coi piroscafi tutte le barche cariche — Fu pure commovente spettacolo la marcia nostra, lunghesso la costa occidentale del magnifico lago —: Una gran parte delle famiglie Lombarde, emigrate dalle loro case, avevano scelto la loro residenza su cotesta pittoresca sponda, una delle più belle del mondo — Conscie del nostro proposito, ci salutavano dovunque, con bandiere, fazzoletti, panni, ed evviva di giubilo — Scorgevansi quelle bellissime nostre donne — sporgenti dai balconi delle case — con quei volti graziosissimi — così animate — come se avessero voluto volare per ragiungere i prodi che non disperavano di strappare all'oppressore i focolari loro — Noi rispondevamo agli evviva degli amati concittadini ed erimo orgogliosi certamente del loro plauso — e della risoluzione nostra. Traversammo il lago, e giunsimo a Luino — ove sbarcammo in numero di ottocento uomini circa, pochi cavalli, e lasciando a bordo dei vapori comandati da Tommaso Risso i due cannoni. All'altro giorno, mentre eravamo in disposizione di moversi dalla Becaccia (Albergo in Luino), per internarsi nel Varesotto — seppi che una collonna Austriaca si avanzava verso di noi, per la strada maggiore da mezzogiorno. Essendo già, la collonna nostra, internata in un sentiero che conduce pure a Varese per scorciatoja, feci retrocedere immediatamente la coda della collonna, ed ordinai ad una compagnia di retroguardia, che riprendesse la suddetta posizione della Becaccia — co' circuiti per impedirne la possessione al nemico — Ma fu tardi; già giunti in forze a quel punto — se ne impadronirono, e facilmente respinsero i pochi nostri — Divisa in tre corpi era la piccola nostra collonna — e ristretta nell'angosto sentiero — nell'impossibilità di spiegarsi, ed aver altra ordinanza, senonchè quella di fianco; per esser lo stesso incassato tra alte rupi — ma ritornando verso la Becaccia, eravi più spazio — e vi si potevano schierare in collonna per sezioni, il terzo ed il secondo corpo — Io consideravo l'Albergo, qual chiave della posizione, e quindi obbiettivo del campo di battaglia — di cui bisognava impadronirsi — o se no, abbandonare il campo coll'apparenza d'una sconfitta — La Becaccia aveva una forte casa, vari recinti, ed attorniata da una quantità di siepi, e pile di legna tuttociò in potere del nemico, e che bisognava conquistare. Era d'uopo quindi caricar la posizione risolutamente ed il terzo corpo assaltò per scaglioni — che ad onta degli sforzi del maggiore Marrocchetti che lo comandava, e dei suoi ufficiali — fu respinto — Il secondo corpo, de' bersaglieri Pavesi, comandato del Maggiore Angelo Pegurini, ebbe ordine di caricare — e fratanto il Capitano Coccelli, arrampicandosi colla sua compagnia, sopra un muro alla sinistra nostra — appariva sul fianco destro del nemico — I Pavesi, caricavano coll'intrepidezza di vecchi soldati — era il primo combattimento a cui assistevano — e ad onta di cadere vari di loro — pervennero a bajonettare gli Austriaci — che stupiti da tanto valore, e dall'apparizione di Coccelli sulla loro destra volsero in completta fuga — Con cinquanta cavalieri per perseguirli — pochi o nessuno si sarebbero salvati, di quei nemici d'Italia — I pochi uomini a cavallo ch'io avevo — tra loro gli ufficiali Bueno e Giacomo Minuto d'alto valore — erano occupati come esploratori o vedette — Morirono alquanti Austriaci, e 37 rimasero prigionieri, con un medico[70] Il risultato di quella vittoria, ci lasciò padroni del Varesotto, che percorremmo in ogni senso senza ostacoli — Le popolazioni di quei paesi, rialzaronsi dall'abattimento loro. ed entrammo in Varese, alle acclamazioni entusiastiche di quella buona gente — In tale occasione, rinatami era la speranza, nutrita da tant'anni, di portare i concittadini nostri, a quella guerra di bande, che a difetto d'esercito organizzato — potrebbe preludiare all'emancipazione della patria — promovendo l'armamento generale della nazione — quando questa, avesse avuto veramente l'intima e risoluta volontà di redimersi — Distaccai perciò la compagnia del capitano Medici, composta di gioventù scelta, e varie altre, ad operare separatamente. Ma in Luino dovevan terminarsi i successi della campagna — La capitolazione di Milano, la ritirata dell'esercito Piemontese — e l'abbandono del territorio Lombardo, dei numerosi corpi di volontari di Durando, Griffini, ecc. — avevano scoraggito le popolazioni, vi era stato bensì un barlume d'entusiasmo al nostro riaparire e colla pugna felice di Luino — ma lo sconforto ripigliava alla vista del piccolo nostro numero — ed alla diserzione dei nostri militi, fomentata da coloro stessi che da Lugano ci avean promesso sussidi e gente! Medici dopo d'aver fatto il possibile, e battuttossi coraggiosamente con un corpo superiore di nemici, era stato obligato di passare in Svizzera — Degli altri distaccamenti non merita far menzione — Fratanto ingrossavano gli Austriaci in ogni direzione — e non vergognavansi di mandar forze imponenti, contro un pugno di volontari Italiani — Stettimo poco in Varese, e vari giorni nelle vicinanze — gambettando per non incontrare i nemici, sempre a noi superiori — e giornalmente aumentando — Nei dintorni di Sesto Calende, ci si riunirono un Capitano Napoletano della collonna di Durando, con alcuni uomini, e due pezzi d'artiglieria di grosso calibro, che in altra circostanza, ci sarebbero stati preziosi — ma nella presente ci riuscirono di vero imbarazzo — non potendo noi misurarsi a campo aperto con sì numerosi nemici — Feci riprender la via del Ticino al Capitano coi pezzi, e rimasero con noi, i militi pochi ma buona gente — Era necessario moversi, e cambiar di posizione, quasi ogni notte, per ingannare i nemici — che per sventura d'Italia — massime in quei tempi — trovavan sempre una massa di traditori, disposti a far loro la spia — mentre per noi, anche con pugni d'oro, era difficile sapere esattamente del nemico — Qui facevo le prime esperienze — del poco affetto della gente della campagna, per la causa nazionale. Sia per esser essa creatura e pasto di preti — sia per esser generalmente nemica dei propri padroni — che coll'invasione straniera, eran, per la maggior parte obligati ad emigrare — lasciando così i contadini ad ingrassare a loro spese — Quindi altre fermate non si facevano — che per lasciar riposare i militi — e per raccogliere i viveri sufficienti — Si passò, in tal guisa, alcun tempo — aspettando i nemici di giorno, in forte posizione — ove non ardivano attaccarci — E quando ingrossando, cercavano di attorniarci — si marciava di notte per altre tali posizioni — ove ordinariamente succedeva lo stesso — In quei movimenti, che certamente richiedevano non poca pratica del paese — mi valeva immensamente il nostro Daverio — altro Anzani — nativo di quelle contrade — amato generalmente da tutte le classi — e con un'anima imperturbabile — e valorosissimo — egli qualunque cosa trovava facile, ed agevolava — Anche nel fisico, Daverio somigliava a quell'incomparabile mio fratello d'armi di Montevideo — ed avea di più, salute ferrea — L'imponenza delle numerose truppe Austriache atterrava le popolazioni — Un abitante solo, di qualunque classe, non si riuniva a noi — e difficilmente incontravansi guide — Dalla Svizzera — da dove si sperava corressero i giovani emigrati ad incorporarsi a noi — e ci venissero somministrati dei mezzi, da chi poteva — non solo nessuno si moveva ad ingrossar la piccola nostra collonna — ma di là stesso, ci giungevano voci d'alte imprese — preparate nel quartier generale di Mazzini — che cagionavano la diserzione tra i nostri militi — quindi scoramento tra i pochi che rimanevano — Verso Ternate, fummo rinchiusi talmente tra le collonne nemiche — che ben difficile riuscì lo scansarle — ed impossibile sarebbe stato in un terreno piano — ma la montuosità del paese ci favorì ancora, e ci salvò da certa perdita — Qui valse ancora sommamente Daverio, con alcune guide da lui trovate — Noi marciammo verso quella collonna nemica, che più vicina ci sembrava — e risolutamente — Tra noi, e la stessa, era una valle profonda — giunta la nostra testa al basso — mentre il nemico credeva d'esser attaccato dall'altra parte — si converse a sinistra — ed un po' precipitosamente, bisogna confessarlo — ci dirigemmo verso Morazzone — lasciando il nemico alcune miglia dietro di noi — Cammin facendo si riuniva il pane, ch'era possibile trovare nei paesi circonvicini, e sul [dorso] di fachini, in gerle seguiva la collonna. Giunti a Morazzone verso le cinque pomeridiane, si schierò la gente nella strada principale — ove doveva star di fianco per la strettezza di quella, e vi si divisero i viveri, e la paga competente, con ordine di non moversi dalle fila, e di non lasciar i fucili — Era terminata la distribuzione — e già si era data la disposizione di marcia — Io avevo preso un pezzo di pane ed un bicchier di vino, sullo stesso banco ove si faceva la distribuzione — quando alcuni de' miei ufficiali che avevano fatto preparare del brodo vennero ad invitarmi di condividere la loro mensa — Eravamo presso porta Varese nel pianterreno d'una casa, quando repentemente si odono grida al di fuori — e precisamente nella porta suddetta — Erano gli Austriaci che entravano frammisti alle guardie nostre — che per fame o per stanchezza s'erano lasciate sorprendere — Io non so tuttora di chi fosse il tradimento o la colpa, ma certo — se non fu tradimento — fu colpa di chi doveva vigilare — Comunque, erano i nemici dentro e non distavano cinquanta passi dal sito, ove mi trovavo con una mano d'ufficiali, gli stessi che mi avevano invitato. Cadeva la notte, e lascio pensare qual confusione nacque nella gente nostra — milizia di pochi giorni — e non troppo superiore in morale — Metter mano alla sciabola, ed uscire alla riscossa, fu mestieri, farlo in un punto e senza più riflessioni — coi pochi ma prodi ufficiali che mi accompagnavano — Tra quelli Daverio, Fabrizi, Bueno, Cogliolo, un Giusti, giovane Milanese ajutante mio, mortalmente ferito nel conflitto e poi morto — Giovane d'un valore incomparabile, e la di cui memoria, io raccomando ai miei conterranei — Alla voce nostra fermaronsi i fuggenti — e si rivolsero a chi li perseguiva cozzandosi corpo a corpo — Vi furono alcuni momenti di mischia, di flusso e di riflusso; ma finalmente il valore Italiano la vinse — e fu respinto il nemico fuori di Morazzone — Si presero delle misure di difesa, barricando le avvenute — ed impossessandosi d'alcune case sul limitare del villaggio atte all'offesa — Io devo menzionare un Capitano Pollaco, che con noi trovavasi con pochi suoi concittadini — e che fecero prodigi di valore — Duolmi non ricordare i nomi di quei bravi compagni — che sì brillantemente sostennero la riputazione di bravura della loro nazione — I nemici messi fuori di Morazzone, eseguivano intanto le atroci pratiche da loro usate sempre — e particolarmente in Italia, la terra delle espiazioni, e del martirio — cioè: l'incendio — ed incendiarono senza misericordia, tutte le case intorno al paese — mentre cannonegiavano indistintamente nell'interno — l'incendio comunicavasi dall'una all'altra casa, con spaventoso frastuono e progresso — mentre le fucilate d'ambe le parti ne aumentavano il rumore — Respinti una volta gli Austriaci — non tentarono più d'assaltarci — A noi, era impossibile d'attaccarli nelle loro posizioni; ma considerando ogni circostanza altro da fare non rimaneva che ritirarsi e tentarlo ad ogni costo — certi d'esser acerchiati da forze preponderanti nella mattina — Il nemico già numeroso riceveva gradatamente rinforzi — Noi, pochi, — col morale scosso[71], e soperchiati da un incendio che guadagnava mano mano, l'interno del villagio — eravamo ridotti come la salamandra — e non rimaneva per salvezza: che una ritirata — e la effetuammo verso le 11 della notte — Dopo d'aver ordinato la gente — medicati — come si poteva, i feriti, e posti alcuni di loro a cavallo, s'incominciò a difilare, per una delle stradelle non osservate dal nemico — e che già era stata barricata da noi — Guide non se ne poteva trovare — e fummo obligati di far marciare un curato, che ci accompagnò colla maggior renitenza — Ed era naturale quella classe di vampiri stanno in Italia per far i mezzani allo straniero — Codesto prete — consegnato a due dei nostri che lo conducevano in mezzo — ci servì poco — e potè fuggire a poca distanza ad onta della possibile vigilanza — Era oscura la notte, ed illuminata solo dall'incendio — La marcia si cominciò in ordine, e durò così per un pezzo; si chiedeva sempre e si raccomandava di far passare la voce: «se giungeva la coda della collonna» — Sì risposero alcune volte: «giunge, giunge» — Una volta poi, si rispose: «non giunge» e ad onta di fare una lunga fermata — far tornare quanti ajutanti si trovavano ancora vicini a me — tra i quali Aroldi e Cogliuolo — e quindi tornare io stesso sino vicino a Morazzone — non mi fu più possibile di riunire la gente — Erimo rimasti circa una sessantina — Tale avvenimento mi cagionò molto rammarico — tanto più, che tra i separati, v'erano i nostri poveri feriti — Coccelli, un bravo milite Polacco — Demaestri, ch'ebbe poi il braccio destro amputato — ed altri di cui non rammento i nomi — La mutilazione del prode Demaestri, non lo impedì poscia di combattere da valoroso qual'era stato sempre, alla difesa di Roma, a Palestrina, a Vellettri — e lasciar tra gli ultimi la nobile contesa Italiana verso S. Marino — ove congedato, lo arrestarono gli Austriaci, e lo malmenarono con atroce bastonatura — Chiedasi se tale trattamento fu mai operato ai nostri Austriaci prigionieri — e lo ricordino bene i nostri Italiani — quanto fecero a danno ed a vergogna nostra — cotesta peste, che per tanto tempo afflisse la bella penisola e che tuttora ne insudicia le frontiere — Dopo alquanto dimora, fu d'uopo seguire, ed allontanarsi dal grosso de' nemici durante la notte — In quella faticosa marcia di notte — per sentieri quasi impraticabili — circa una metà de' compagni si divise ancora — e si raggiunse la frontiera svizzera all'altra sera, in numero di circa una trentina — Frazionati a piccoli gruppi — guadagnarono la Svizzera tutti gli altri — 2º Periodo. CAPITOLO V. Inazione, e tedio. Le febbri acquistate a Roverbella mi continuavano — io avevo fatto tutta la campagna tormentato da esse — e giunsi quindi in Svizzera spossato — Comunque, io non disperavo: si potesse ritentare alcuna impresa sul territorio Lombardo — La gioventù era molta in Svizzera — la quale dopo d'aver tastato le primizie dell'esiglio — era volonterosa di ripigliare la campagna a qualunque costo. Il governo Svizzero non era disposto certamente a cimentarsi coll'Austria, proteggendo l'insurrezione Italiana — La popolazione Italiana però del Canton Ticino — simpatizzava naturalmente con noi, e si potevano sperare dei sussidï — dai singoli individui di cotesta parte della Svizzera — ove s'era raccolta la massa dell'emigrazione — Io ero obligato a letto in Lugano — quando un colonnello federale mi propose — che se fossimo disposti a ritentar la sorte — egli — non come appartenente al governo Svizzero — ma come Luini — (era il suo nome) coi suoi amici, ci avrebbero favoriti ed ajutati in qualunque modo possibile — Feci parte di tale proposta a Medici — allora il più influente nello stato maggiore di Mazzini — e Medici mi rispose: «Noi faremo meglio» — Dalla risposta di Medici — che capivo venire dall'alto — mi persuasi: esser la mia presenza in Lugano — inutile — e dalla Svizzera passai con tre compagni — per la Francia — per recarmi a Nizza, ove curarmi, a casa mia, delle febbri che continuavano ad assalirmi — Giunsi a Nizza, e vi passai alcuni giorni colla famiglia procurando di curarmi — Essendo però più ammalato ancora, d'anima che di corpo — il tranquillo soggiorno della mia casa — non mi convenne e passai a Genova — ove più romoreggiava l'insofferenza publica, per la patria umiliazione — ed ivi terminai di curarmi. La marcia degli avvenimenti in Italia, non minacciava ruina ancora — ma ispirava diffidenze fondate — La Lombardia era ricaduta sotto il tiranno — L'esercito piemontese che ne avea impugnato la difesa, era scomparso; non distrutto ma colla coscienza in cui stavano i suoi capi — della sua impotenza — Quell'esercito, con gloriose tradizioni, e composto di personale brillante — era sotto l'influenza d'un incubo; d'una fatalità inesplicabile — ma desolante ma terribile! Sia, chi si fosse: il genio della frodde, del mercimonio — della maledizione! delle nostre sciagure! ne presiedeva il destino, e ne incatenava l'azione — Esso non avea perduto battaglie — ma chi sa perchè? s'era ritirato davanti al nemico disfatto! Sotto il pretesto di premunirsi dalle trame degli esaltati — che fecondavano in Italia, naturalmente, per la fredezza e duplicità dei principi — s'infievoliva l'entusiasmo Italico nelle milizie — e si paralizzavano — Codesto esercito — che sostenuto dall'intiera nazione com'era — avrebbe fatto miracoli, sotto la direzione d'un uomo che avesse calpestato le paure e le differenze — marciando diritto alla meta — era all'incontro ridotto al nulla — Dalla Lombardia si ritirava l'esercito — sbandato, non vinto — Dall'Adriatico la squadra, men vinta ancora — Alla mercede del barbaro dominatore giacevano i popoli — che scossero con tanta gagliardia ed eroismo, il giogo infame — senza l'ajuto di nessuno! Che cacciarono, quando soli, in cinque memorabili giornate — gli aguerriti mercenari dell'Austria, come gregge —! Nei ducati — in potere ancora del nostro esercito, fermentava la reazione — ed in Toscana, retta da un dittattore che giudicherà la storia — In ambi i paesi, si armavano i contadini — che si armeranno sempre contro libero reggimento, fomentati da preti, spie e fautori dello straniero — Negli Stati Romani — eran chiamati Rossi e Zucchi alla direzione delle cose politiche e dell'esercito — per coprire sotto quelle vecchie reputazioni, i progetti retrogradi, che già dominavano — Le popolazioni ingannate, dopo d'aver contemplato l'aurora del risorgimento — infuriavano — Bologna nell'immortale 8 Agosto — riceveva il primo regalo d'Austriaci, chiamati da' preti, a fucilate, e li fugava spaventati fino al di là del Po — Il popolo di Napoli, faceva pure di magnanimi sforzi, contro il suo carnefice — ma era meno felice — La Sicilia che si presentava quale baluardo, e sostegno della libertà Italiana — dopo eroïci sforzi fluttuava nella scelta d'istituzioni politiche, per difetto d'un uomo che ne dirigesse i destini — Infine l'Italia tutta, piena d'entusiasmo, e d'elementi d'azione — capaci non solo di resistere, ma d'assalire il nemico sul suo terreno — era ridotta alla prostrazione ed all'inerzia, per l'imbecillità e la perfidia de' reggitori: — re, dottori, e preti — Giungeva, mentre io mi trovavo in Genova, Paolo Fabrizi, e m'invitava per parte del governo di Sicilia a passare in quell'isola — Io acconsentiva contento — e con 72 de' vecchi e nuovi compagni, la maggior parte buoni ufficiali — c'imbarcammo a bordo d'un vapore Francese a quella via — Toccammo Livorno — io contavo non sbarcare; ma saputo il nostro arrivo da quel popolo generoso ed esaltato — fu forza cambiare di proposito — Sbarcammo: io piegai forse indebitamente alle sollecitudini di quella popolazione, — che frenetica pensò: noi allontanarsi forse troppo dal campo d'azione principale — Mi si promise, che dalla Toscana si formerebbe una forte collonna, e che accresciuta di volontari sul transito, si poteva, per terra, marciare sullo stato Napoletano, e coadjuvare così, più eficacemente alla causa Italiana, ed alla Sicilia — Mi conformai a tali proposte — ma mi avvidi ben presto dello sbaglio — Si telegrafò a Firenze, e le risposte, circa ai progetti menzionati, erano evasive. Non si contrariava apertamente il voto emesso dal popolo Livornese, perchè se ne avea timore — ma da chi capiva qualche cosa, si poteva dedurne il dispiacimento del governo — Comunque fosse era la fermata decisa, e partito il vapore — Il nostro soggiorno in Livorno fu breve; si ricevettero alcuni fucili — ottenuti più dalla buona volontà di Petracchi, capo popolano e dagli altri amici, che da quella del Governo — L'aumento del numerico della nostra forza era insignificante — Si disse di marciare a Firenze, ove si farebbe di più; ma peggio — In Firenze, accoglienza magnifica del popolo — ma indifferenza, e fame per parte del governo — e fui obligato d'impegnare alcuni amici per alimentare la gente — Era il duca nella capitale della Toscana — Si diceva però, la somma delle cose — nelle mani di Guerrazzi — Io scrivo la storia — e spero non offendere il grande Italiano, se dico il vero — Montanelli, acclamato meritamente dalla generale opinione, lo trovai quale me l'ero immaginato: leale, franco, modesto, volente il bene dell'Italia, col cuore fervido d'un martire — ma l'antagonismo d'altri neutralizzava qualunque buona determinazione; e poco valse perciò, la breve permanenza al potere del milite prode e virtuoso di Cortatone — Da Firenze, ove stimai, inutile e tedioso il nostro soggiorno, divisai passare in Romagna, ove si sperava far meglio — e da dove, all'ultimo, sarebbe stato più facile di recarci a Venezia per la via di Ravenna. Però, nuovi guai, e più aspri, ci aspettavano sull'Apennino. Sulla strada, ove dovevimo avere i necessari sussidi, per provvedimento del governo Toscano — altro non trovammo, che la benevolenza degli abitanti — volonterosi ma insufficienti ai bisogni nostri — Una lettera del governo suddetto ad un sindaco della frontiera — limitava la sussistenza, ed ordinava lo sgombro agli importuni avventurieri — In tale situazione, giunsimo alle Filigari, e vi trovammo il divieto per parte del governo pontificio, di varcar la frontiera — Almeno i preti eran conseguenti — trattavano da nemici! Zucchi, lo stesso da noi salvato a Como — allora ministro della guerra, accorreva da Roma, per far eseguire gli ordini — E da Bologna marciavan un corpo di Svizzeri papalini, e due pezzi d'artiglieria, per opporsi all'ingresso nostro nello Stato. Intanto, imperversava la stagione in quelle montagne, e la neve giungeva al ginocchio sulle strade. Erimo in Novembre — Valeva veramente la pena: venire dall'America meridionale, per combattere le nevi dell'Apennino — I Governi Italiani, che avevo avuto l'onore di servire — ed i di cui territori avevo percorso — non erano stati capaci di dare un capotto ai poveri, e prodi miei compagni — Era lamentevole cosa, il vedere quei bravi giovani — in quella rigorosa stagione, nei monti, vestiti la maggior parte di tela, alcuni di cenci — e mancando del necessario alimento — sulla loro terra, consueta a nutrire grassamente tutti i ladri, e mascalzoni del mondo. Riunironsi tutti i mezzi pecuniari, posseduti per la maggior parte dagli ufficiali — se ne formò una cassa comune, ed ajutati dal buon albergatore delle Filigari, passaronsi miseramente alcuni giorni. Intanto gli Svizzeri pontifici prendevano posizioni militari sulla frontiera opposta — con tutte le misure di resistenza contro un tentato passaggio — ma umiliati dall'atto vergognoso del loro governo imbecille. La situazione nostra nelle Filigari, non era tenibile per molti giorni — non v'era altro rimedio che mutarla — Tornare indietro sulla Toscana, io avevo letto la comunicazione di quel Governo al Sindaco — nella quale si raccomandava di liberarsi di noi, al più presto — e sarebbe stato d'uopo: umiliarsi, od ostilizzare. Proseguire sul territorio Romano, bisognava combattere chi era lì preparato per vietarcelo — A che scellerata perplessità ci tenevano i governanti su cui speravano gl'italiani la loro liberazione! Eppure — noi avevimo varcato l'Atlantico — poveri sì, perchè avevamo rifiutato le richezze —[72] — ma col solo oggetto di offrire la nostra vita all'Italia! — Scevri da qualunque interessato proposito — pronti a sacrificare al nostro paese, anche i principï politici — e servire, per servirlo, anche chi non meritava la fiducia nostra, per antecedenti infami! I nomi di Guerrazzi, di Pio, erano venerati allora nell'anima nostra — eppure lì, nella neve — privi d'alimento — essi tenevano nell'angoscia, quel pugno di giovani veterani — le di cui ossa dovevano ben presto seminarsi, sulla terra delle sventure! alla difesa di Roma contro lo straniero — colla disperazione — morendo — di poterla redimere! Il popolo di Bologna seppe di noi — e sdegnossi per i scellerati procedimenti — Bologna è città che non si sdegna invano — e ben lo sanno gli Austriaci e se ne spaventarono i papalini governanti — Mi fu quindi concesso di giungere in quella città per abboccarmi col generale Latour comandante delle forze Svizzere al servizio del papa — Ed al generale Latour — mentre stava al balcone del suo palazzo, i Bolognesi gridarono: «O i nostri fratelli qui — o voi giù da quel balcone» Io giungeva a Bologna, tra le acclamazioni di quel generoso popolo — ch'ero obbligato a calmare perchè deciso di disfarsi da stranieri e retrogradi — Si patteggiava con Latour in Bologna, il passaggio nostro per le Romagne verso Ravenna — ove dovevamo imbarcarci per Venezia — Io raccomandavo a Latour di accelerare, e prestar sussidi ad una compagnia Mantovana partita da Genova coll'intenzione di riunirsi a noi. In un abboccamento con Zucchi, avevo ottenuto pure di aumentare la forza con volontari Romagnoli — e partirono alcuni comandati da un capitano Bazzani, Modenese, per ragiungerci a Ravenna — In tale circostanza vidi a Bologna, per la prima volta, il valorosissimo Angelo Masina, il quale bisognava vedere una volta sola per amare ed apprezzarlo — Masina, dopo la ritirata della divisione Romana dalla Lombardia, ove aveva combattutto da prode, era rimasto a Bologna, o nelle vicinanze — Ora, egli trovavasi alla testa di quei popolani Bolognesi, che avevano liberata, eroïcamente la loro città dagli Austriaci, nel passato 8 Agosto — e ne temperava lo sdegno eccitatto dalla viltà e tradimento dei preti e retrogradi — Egli, nello stesso tempo, dando sfogo all'ardentissimo genio, riuniva cavalli ed uomini — parte a proprie spese — ed organizzava una compagnia di lancieri — che potevano eccitar l'invidia di qualunque milizia, per la bellezza del personale, l'elegante uniforme, ed il valore. Potente d'individuale prestigio, egli infiammava o conteneva il popolo — Certo, lui ed il padre Gavazzi avevano influito assai sui Bolognesi, ed avean contribuito alla nostra liberazione dalle Filigari — Masina, era, in quell'epoca, destinato lui pure per Venezia — stanco d'inerte esistenza — e spinto in parte da' fautori dello straniero, e dai preti — Ed in Comacchio, egli faceva i suoi preparativi di passaggio verso la regina dell'Adriatico. Intanto colla gente, in numero di circa cento e cinquanta, io giungevo in Ravenna — e mi si riuniva Bazzani con cinquanta reclute — In Ravenna ebbimo nuovamente da altercare col governo prete — Le convenzioni passate in Bologna con Zucchi, erano state di aspettare nella prima città l'arrivo de' Mantovani — per di lì imbarcarsi tutti per Venezia — ma la diffidenza e la paura ch'eccitavano i miei pochi compagni male armati, e peggio vestiti, era tale da ispirare l'ardente desiderio nei preti, di sbarazzarsi di noi al più presto. Latour dopo alcune raggiri di parole, mi significò d'imbarcarmi immediatamente — Io risposi: che non m'imbarcherei senonchè, quando sarebbe arrivata la gente che aspettavo... Si fecero delle minaccie per parte dei papalini — e siccome i Ravennati come i Bolognesi — è certa gente — cui le minaccie impongono poco — quella coraggiosa popolazione preparò armi e munizioni, per riunirsi a noi, in caso di violenze. «La paura reciproca governa il mondo» diceva un amico mio con molto buon senso: E comunque sia i popoli che hanno meno paura — sono generalmente i meno malmenati — Così successe a Ravenna — ed i prepotenti trascinatori di sciabole e di cannoni, non ardirono — con un migliajo di aguerriti soldati — misurarsi con pochi poveri e quasi inermi amatori d'Italia — La situazione di Masina in Comacchio, era consimile — La forza del papa voleva obligarlo, ad imbarcarsi precipitosamente; e lui, per poterlo fare a suo agio — e combinare la sua marcia con noi, resisteva alle intimazioni violenti, e coll'ajuto della popolazione capitanata dal prode Nino Bonnet si poneva in istato di difesa imponente — E così anche a Comacchio trionfò la giustizia giusta[73] «Ajutati, che Dio ti ajuterà» Oggi, fo pompa di proverbi — me la perdoneranno, coloro che avranno la pazienza di leggermi. E qui per dovere storico mi tocca accennare ad uno di quegli uomini — cui l'Italia della monarchia e dei preti, innalza monumenti — Erano le cose, nello stato su descritto — quando una daga Romana, cambiava il nostro destino — da proscritti, ci faceva acquistare il diritto di cittadinanza, e ci apriva un asilo sul continente — Discepolo di Beccaria io sono nemico della pena di morte — e biasimo quindi, la daga di Bruto — il patibolo, che in luogo di mostrare penzolone il Nano ministro di Luigi Filippo — che ben lo meriterebbe — ci presenta il modesto cadavere d'un figlio di Parigi — che anelava i suoi diritti — ed infine il terribile rogo — che per se solo basta a provare esser il prete emanazione dell'Inferno — Comunque, gli Armodi, i Pelopidas, ed i Bruti che liberarono la loro patria da tiranni — non sono poi mostrati dalla storia antica, con colori sì sudici — come i moderni mangiatori di popoli — vorrebbero far comparire, chi tastò le coste al Duca di Parma — Borbone di Napoli, ecc. Erano dunque le cose nostre deplorevoli — siccome le abbiamo anteriormente descritte — ed una daga Romana ci fece degni — non più di proscrizione — ma di appartenere all'esercito di Roma — La vecchia metropoli del mondo — degna in quel giorno della gloria antica, si liberava d'un satellite della tirannide — il più temibile, e bagnava del suo sangue i marmorei gradini del Campidoglio — Un giovine Romano avea ritrovato il ferro di Marco Bruto! Lo spavento della morte di Rossi[74] aveva annientato i nostri persecutori — e non si fece più parola della nostra partenza — Roma, l'Italia non ottenevano lo stato politico desiderato colla morte del ministro del papa; ma si migliorava almeno la condizione di Roma — al punto di vista della libertà Italiana — di cui il papato, spogliato della sua maschera di riformatore — fu, è, e ne sarà sempre il mortale nemico — Per noi poi — oggetto spaventoso di repulsione alla corte Romana — comunque fosse — per paura di chi restava dopo la morte di Rossi — soffribile diventò la nostra presenza nella penisola — Quel colpo di daga, annunziava ai patteggiatori collo straniero, che il popolo li conosceva — e che non voleva ritornare al servaggio — ove gli stessi tentavano di ricondurlo, con menzogne e con tradimenti — CAPITOLO VI. Nello Stato Romano, ed arrivo in Roma. Colla morte di Rossi, capirono i governanti di Roma, che non impunemente, si calpesterebbero i diritti, e la volontà della nazione — Chiamaronsi uomini meno impopolari al ministero — e fu concessa la permanenza nostra sul territorio Romano — Non cessò però la stessa diffidenza in cui eravamo tenuti — e quantunque annessi all'esercito Romano — tardamente si provvedeva al nostro sussidio, al destino nostro, e massime al nostro armamento, ed ai capoti, indispensabili nel forte dell'inverno già ben vicino — In Ravenna erano giunti gli aspettatti Mantovani — Masina erasi riunito a noi, colla poca ma bella sua cavalleria — e formavano un personale di circa quattrocento uomini — non complettamente armati, la maggior parte senza uniformi — e malvestiti, o pochissimo — Il municipio di Ravenna da cui eravamo mantenuti, mi fece sentire: che sarebbe meglio, dividere tale carico con altre città, e perciò cambiare alternativamente di soggiorno — Così successe — e lasciammo, dopo una permanenza di venti giorni circa, quella simpatica e generosa popolazione — Io testimoniai in Ravenna, nel mio breve soggiorno, uno spettacolo unico e ben consolante — ciocchè non avea veduto in nessuna delle città nostre percorse antecedentemente — Vidi, nell'antica capitale dell'Esarcato, una concordia fra le classi diverse dei cittadini — veramente incantevole — La concordia perfetta fra i ceti diversi d'una città Italiana è la Fenice! è il perno della libertà e dell'indipendenza della patria, quando estesa generalmente — ed il suo difetto, non dubito: sia l'origine delle sventure e dell'abbassamento nostro — Essa mi sembrava, per ventura di cotesti cittadini — annidata accanto al mausoleo di Dante — sotto l'egide del collosso dei nostri grandi! Là non v'era un circolo popolare, uno Italiano — nazionale l'altro — una società di qui, ed una società di là avendo tutte e tutti, la loro chiesetta — il loro stato maggiore — interessati tutti a primeggiare, ed a non intendersi cogli altri — No! vi era un circolo solo, di tutti i cittadini composto; un'opinione sola dal nobile al plebeo — dal ricco al povero — Anelavano tutti la redenzione della patria — dallo straniero, senza occuparsi momentaneamente della forma di governo — quistione che avrebbe potuto complicare in quei giorni la situazione e distogliere l'attenzione generale dalla meta principale — Ho sperimentato i Ravennati — esser gente di poche parole — ma di fatti — e credo possibile il fatto seguente narratomi nella loro città: Appariva una spia in Ravenna — in pien meriggio, in mezzo alla folla, lo colpiva una fucilata — il feritore ritiravasi tranquillamente — non fuggiva, poichè altra spia non si sarebbe trovata — ed il cadavere maledetto rimaneva d'esempio alle moltitudini — Lasciammo Ravenna e soggiornammo in varie città delle Romagne ben accolti dal popolo e mantenuti dai municipï — In Cesena lasciai la gente, e mi diressi a Roma per abboccarmi col ministro della guerra — onde sistemare l'esistenza nostra vagabonda ed importuna — Seppi allora la fuga del papa — e col ministro Campello, si regolò: che la legione Italiana (questo fu il nome del corpo da me comandato in America, ed in Italia), apparterrebbe all'esercito Romano — che sarebbe perciò provveduto del necessario e diretto su Roma — onde complettarsi ed ultimare la sua organizzazione — Scrissi quindi al maggiore Marrocchetti, che avevo lasciato al comando del corpo, che procedesse verso Roma, ed io marciai al suo incontro — Dalla mia separazione dal corpo in Cesena — era successa una catastrofe nello stesso: La morte di Tommaso Risso — sensibilissima perdita — tanto più, perchè cagionata dalla discordia tra valorosi Italiani, ed eseguita dalla mano d'un fratello! In un alterco, Risso avea battutto Ramorino di frusta — ed un duello era divenuto inevitabile — Io, certo, avrei cacciato dalla legione, l'ufficiale che si fosse lasciato battere da chicchessia — e Ramorino, non era giovane da sopportare un insulto come quello ricevuto — Conosciuto il fatto, io rimasi freddo con ambi — ma col presentimento di sciagure — Avrei cancellato col mio sangue, la vergogna del compagno valoroso, ma non era fattibile! Partivo da Cesena per Roma — e Tommaso Risso ch'io avevo freddamente tratatto contro il mio solito — si avvicinò alla vettura e mi strinse la mano... mi sembrò di stringere la mano d'un cadavere! Il pressentimento della morte del mio amico — non mi abbandonò durante il viaggio — e quella notizia inviatami, mi addolorò, ma non mi sorprese — Si erano battutti fuori di Cesena — e Ramorino aveva ucciso Risso. Era Tommaso Risso una di quelle nature predilette, «Fiera natura» dicea una donna Italiana, innamorata di lui: — Nella infanzia avea abbracciato la carriera della marina, e giunto nel Rio della Plata — sbarcossi in Montevideo, prese la campagna — e vi trovò dell'occupazione, in uno stabilimento, di quelle contrade chiamato _Estancia_, assolutamente pastorizio — ed ove l'intiera vita si passa a cavallo — Egli s'era assuefatto intieramente agli usi di quel popolo cavalleresco — e di costituzione svelta e robusta — egli domava un puledro, a pari del _gauccio_, e si batteva con qualunque degli indigeni _coltello alla mano_ — come il primo di loro — ed il suo nome era pronunciato con rispetto tra i forti figli delle _Pampas_ — Nelle guerre perenni tra i popoli del Plata, aveva Risso combattutto nelle fila dei Montevideani, e creato ufficiale per la di lui bravura — servì valorosamente nella legione Italiana — e tra i molti combattimenti sostenuti — in uno delli stessi ricevette tale ferita nel collo da ammazzare un rinoceronte — Sanò miracolosamente di quella ferita; ma dal risultato della stessa, e di tante altre di cui aveva il corpo solcato — era rimasto colle braccia, quasi paralizzate — Poco o nulla era l'istruzione letteraria di Tommaso — ma supplivalo tale intelligenza naturale, da farlo capace di qualunque carica — Egli avea comandato i vapori sul Lago Maggiore, e disimpegnatosi a meraviglia della difficile incombenza — Gelosissimo dell'onore Italiano — egli si sarebbe battutto col diavolo, se questo lo avesse voluto macchiare — Era con tutte le qualità che fanno il capopopolo: forte, ben disposto, generoso, le moltitudini erano il suo elemento — ed era capace di quietarle — quando esaltate — o di suscitarle e condurle all'eroïsmo col gesto, ed il maschio suono della sua voce — Fu la morte di Risso, un doloroso avvenimento per i suoi compagni, e dolorosissimo per lui, di non poter spargere il suo sangue sui campi di battaglia per l'Italia ch'egli avea idolatrato. Serbi Cesena i resti del prode campione della libertà patria, e lo ricordino qualche volta i suoi cittadini, coll'affetto e la stima che meritava! Giunsi a Fuligno, e vi trovai la legione — ma nello stesso tempo ricevetti ordine dal governo di marciare con essa al porto di Fermo onde guarnire quel punto — che nessuno minacciava — e ciò mi provò non cessate le diffidenze dei nuovi governanti — e la volontà di questi di tenerci lontani da Roma — Le mie osservazioni: che la gente mancava di capotti indispensabili per ripassare gli Apennini coperti di neve — non valsero, e fu forza tornare indietro, ripassare il Colfierito, e recarsi verso Fermo. Io mi capacitai, naturalmente dell'intenzione del governo — ed il motivo del nostro invio al punto suddetto, altro non era, che allontanarci dalla capitale, ove si temeva il contatto, di gente, tenuta per essenzialmente rivoluzionaria, colla popolazione Romana allora disposta di far valere i suoi diritti — Mi corroborava in tale opinione l'ingiunzione del ministro della guerra: di non oltrepassare nella legione, il numero di 500 — In Roma dominava sempre lo stesso spirito, che avea retto Milano, e che reggeva Firenze — l'Italia non avea bisogno di militi, ma di oratori e patteggiatori — dei quali si poteva dire, ciocchè Alfieri diceva degli aristocrati: «Or superbi, or umili, infami sempre» — e di cotesti oratori massime — il nostro povero paese, non ne difetta in nessun tempo — Ed il despotismo avea cesso, per un momento, le redini della cosa publica, ai ciarloni per uccellare, ed addormentare il popolo colla quasi certezza che cotesti papagalli faciliterebbe la via alla tremenda reazione — che si preparava in tutta la penisola — Rivalicavasi dunque l'Apennino per la terza volta, sprovvisti i miei poveri compagni d'un capotto nel forte dell'inverno — in dicembre — 1848 — e tra i mali che infierirono contro di noi — e che ci tormentavano nel nostro povero paese — non i minori furono le calunnie della parte prete — di cui il veleno nascosto come quello del rettile, come quello mortale — s'era propagato tra le popolazioni ignoranti — e ci avea dipinti coi colori i più orribili — Secondo i negromanti, noi erimo gente capaci d'ogni specie di violenze, sulle proprietà, sulle famiglie — scapestrati senza ombra di disciplina — e perciò temuto il nostro avvicinamento, come quello dei lupi — o degli assassini — L'impressione però era sempre cambiata alla vista della bella gioventù educata che mi accompagnava — quasi tutto elemento cittadino e culto — poichè ben si conosce: che tra i corpo volontari ch'ebbi l'onore di comandare in Italia, l'elemento contadino è mancato sempre, per cura dei reverendi ministri della menzogna — I miei militi appartenevano quasi tutti a famiglie distinte delle diverse provincie Italiane. È vero che non mancarono tra i miei volontari, alcuni malandrini in tutte le epoche, intrusi furtivamente, o tra noi mandati dalle polizie o dai preti — per suscitarvi dei disordini e delitti — e così screditare il corpo — ma, questi difficilmente duravano — e sfuggivano al castigo che li colpiva subito — Cotesti malfattori erano svelati dagli stessi volontari — gelosi dell'onore della legione — Nel transito della legione dalle Romagne nell'Umbria, erasi saputo che i Maceratesi, temendo il nostro passagio per la loro città, avevano significato: che chiuderebbero le porte — ma nel ritorno — cioè nella marcia per porto di Fermo — meglio informati e pentiti della loro ingiusta risoluzione — mi fecero avvertito, che bramavano una nostra visita, per provarci l'inganno in cui furono trascinati la prima volta — Fu rigorosissimo il tempo nel nostro passaggio sull'Apennino — e molto vi sofferse la gente — ma l'accoglienza ricevuta in Macerata, fu una festa che ci risarcì dalle pene sofferte — I Maceratesi non solo ci accolsero come fratelli — ma ci supplicarono a rimanere nella loro città — sino a nuova disposizione del governo; e siccome il nostro destino a porto di Fermo — non avea altro oggetto, che lo allontanarci da Roma — Ora che ci trovavamo coll'Apennino tra noi e la metropoli — non fu difficile al popolo di Macerata, l'ottenere la permanenza nostra in quella città. In Macerata si trattò di vestire la gente — e grazie alla buona volontà degli abitanti, ed alle somministrazioni del ministero — vi si pervenne quasi complettamente — In quello stesso tempo, si procedette alle elezioni dei deputati alla Costituente — ed i nostri militi furono chiamati al voto — I deputati alla Costituente!..... E fu spettacolo imponente quello dei figli di Roma, chiamati nuovamente ai Comizi — dopo tanti secoli di servaggio e di prostrazione, sotto il giogo nefando dell'impero, e del più vergognoso ancora della teocrazia papale! Senza tumulti, senza passioni, fuori di quelle per la libertà — per la patria redenta! Senza venalità — senza prefetti o birri che violentassero la libera votazione delle genti — si eseguì la sacra funzione del plebiscito — e non vi fu l'esempio nello stato di un voto compro — di un cittadino che si prostituisse al padronaggio del potente — I discendenti del gran popolo, mostrarono il discernimento degli avi, sulla scelta dei loro rappresentanti — ed elessero tali uomini da onorare l'umanità in qualunque parte del mondo! Uomini il coraggio dei quali non cedeva a quello del senato antico — o dei moderni dell'Elvezia, e della terra di Washington! Ma l'odio, la gelosia, la paura della moderna canaglia dei potentati e dei preti, non dormivano — e spaventati dal rinascimento della temibile, rossa dominatrice — essi si collegarono subito per recidere i ricomparsi germogli di lei — quando teneri ancora ed incapaci di seria resistenza — Abbi speranza Italia! e nel periodo di afflizioni, ove codardamente t'han tenuto, e ti tengono tuffata — i prepotenti di fuori ed i ladri di dentro — non perderti di fiducia — non è tutta morta la bella gioventù che ti adornava sulle barricate di Brescia, Milano, Casale — al ponte del Mincio — sui baluardi di Venezia — di Bologna, d'Ancona, di Palermo — nelle strade di Napoli, di Messina, di Livorno — là sul Gianicolo, e nel Foro della vecchia capitale del mondo! Essa è sparsa sulla superficie del globo — dall'uno all'altro emisfero — ma tutta palpitante d'un amore per te, che non ha uguale — e per la redenzione tua — che non capiscono, i freddi speculatori, e patteggiatori delle tue membra e del tuo sangue — e che non capiranno senonchè il giorno del lavacro delle sozzure con cui t'hanno contaminato! Non perderti di fiducia! Essa incanutita oggi sotto il sole cocente delle battaglie — apparirà alla vanguardia della tua nuova generazione — cresciuta all'odio, ed alle fucilate del prete e dello straniero — ringagliardita dal ricordo di tanti oltraggi — e dalla vendetta dei tanti patimenti sofferti nel carcere e nell'esiglio — L'Italiano non si alletta nel bel clima straniero — coi vezzi della gentile straniera — non si trapianta per sempre in altra terra, come i figli del Settentrione — Egli vegeta, passeggia, tetro meditabondo sulla terra altrui — ma giammai l'abbandona la brama di rivedere il suo paese bellissimo — e di combattere per redimerlo! Nessuno sa la durata del periodo di degradazione in cui ti ravvolgi Italia! Ma tutti ben sanno: che non lontana è l'ora solenne del risorgimento! 1849. CAPITOLO VII. Proclamazione della Republica, e marcia su Roma. Soggiornammo in Macerata, sin verso la fine di Gennajo — da dove partimmo per Rieti, con ordine di guarnire quella città; la legione marciò a quella volta per il Colfiorito; ed io per la via di Ascoli, e la valle del Tronto, con tre compagni per percorrere ed osservare, la frontiera Napoletana — Valicammo gli Apennini, per le scoscese alture della Sibilla — la neve imperversava — e mi assalirono i dolori reumatici, che scemarono tutto il pittoresco del mio viaggio — Vidi le robuste popolazioni della montagna, e fummo bene accolti, festeggiati dovunque — e scortati da loro con entusiasmo — Quei dirupi risuonavano dagli evviva alla libertà Italiana — e da lì a pochi giorni — quel forte ed energico popolo — corrotto, e messo su dai preti sollevavasi contro la Republica Romana — ed armavasi colle armi somministrate dai neri traditori per combatterla — Giunsi in Rieti, ove si ultimò di vestire la legione; ma fu impossibile ottenere i fucili per complettare il suo armamento — ed io vedendo inutile qualunque richiesta — mi decisi a far fabbricare lancie, per provvederne i disarmati. In Rieti si riunirono a noi, Daverio, Ugo Bassi, ed alcuni buoni militi, tra cui i due fratelli Molina, e Ruggiero, che tanto si distinsero poi, come ufficiali nei vari combattimenti sostenuti dalla legione — Aumentava il corpo, mentre organizzavasi alla meglio; ma il ministero di Roma non voleva militi; e nella stessa guisa, con cui avea limitato il numero dei legionari a 500 — ora m'intimava di non oltrepassare i 1000 — dimodocchè, avendone già alcuni di più, fui obligato di menomare il misero soldo — compresi anche gli ufficiali — per mantenere tutti — Un solo lamento per ciò non s'intese nelle fila dei prodi miei fratelli d'armi. Si approfittò della stazione in Rieti per l'istruzione dei legionari — e si presero alcune misure di difesa alla frontiera, per guardarla contro i tentativi del Borbone, già smascherato, ed in aperta reazione contro la libertà Italiana — Eletto dai Maceratesi a deputato, fui chiamato a Roma, per far parte dell'assemblea costituente — ed il dì otto febbrajo 1849 — ebbi la fortuna, uno dei primi — alle 11 della sera, di proclamare colla quasi unanimità, quella Republica di sì gloriosa memoria, e che sì presto dovea essere schiacciata dal gesuitismo collegato come sempre all'Autocrazia Europea — Era l'8 febbrajo 1849 — ed io, addolorato dai reumatismi, ero trasportato sulle spalle del mio ajutante Bueno — nelle sale della assemblea Romana — l'8 di febbrajo 1846 quasi alla stess'ora, passavano sulle mie spalle, non pochi feriti, dei prodi nostri legionari, sul glorioso campo di battaglia di S. Antonio — e si adagiavano a cavallo per imprendere l'ardua, ma bella ritirata verso il Salto. Ora assistevo alla rinascita del gigante delle Republiche! la Romana! Sul teatro delle maggiori grandezze del mondo! Nell'Urbe! Che speranze, che avvenire! Non eran dunque sogni, quella folla d'idee, di vaticini, che avean fantasticato nella mia mente dall'infanzia — nella mia immaginazione di diciotto anni — quando per la prima volta, vagai tra le macerie dei superbi monumenti della Città eterna — quelle speranze di risorgimento patrio — che mi fecero palpitare nel folto delle foreste Americane e nelle tempeste degli Oceani — che mi guidarono al compimento de' miei doveri, verso i popoli oppressi — soffrenti! Lì — liberamente, nell'aula stessa ove si adunavano i vecchi tribuni della Roma dei Grandi — eravamo adunati noi — non indegni forse degli antichi padri nostri — se presieduti dal genio — ch'essi ebbero la fortuna di conoscere, e di acclamare sommo! E la fatidica voce di Republica risuonava nell'augusto recinto — come nel dì che ne furono cacciati i re per sempre! Domani dal Campidoglio — nel Foro — sarà acclamata la Republica, dal popolo soffrente per tanti secoli — ma che non dimenticò: esser egli il discendente del grandissimo popolo! Fratanto i millantatori _Chauvins_ d'oltr'Alpe — aveano assicurato: che gl'italiani non si battono — che non meritano d'esser liberi — e marciavano guidati dai preti, ad ingannare e distruggere la Republica Romana — L'unione Italiana spaventa l'Europa autocratica, e gesuita — massime i nostri occidentali vicini — i di cui dottrinari predicano come incontestabile, e leggitima dominazione, quella del Mediterraneo — non considerando: che tante sono le nazioni affluenti — che di loro vi hanno più diritto — Per le sciagurate nostre discordie, toglier ci ponno dal seno delle nostre famiglie, e dilapidare le sostanze nostre — colla ipocrisia del gesuita a cui si sono legati — ma non ci torranno il diritto di scaraventar loro in faccia il fallace procedere — e di far loro confessare almeno: che han paura di vederci stringere l'antico e terribile fascio! Oggi, essi sono, come noi, vassalli di quella parodia d'imperatore che li governa — che s'impone a tutti cotesti nostri Signorotti, e la di cui dominazione scellerata, sarà finalmente rovesciata nella polve dalla spada dell'eterna giustizia — Da Roma ritornai a Rieti, dopo la proclamazione della Republica Romana, e verso la fine di Marzo ebbi ordine di marciare per Anagni colla legione — In Aprile si seppe: esser i Francesi in Civitavecchia; e dopo aver occupato quella città marittima — che si poteva difendere senza l'inganno degli uni — e l'imbecillità degli altri — si conobbe la loro intenzione di marciar su Roma. Verso quel tempo era giunto nella capitale il generale Avezzana, ed assunse il Ministero della guerra — Io non conoscevo personalmente Avezzana, ma dalle informazioni avute sul suo carattere, e la sua vita militare, in Spagna, ed in America, io ne avea concepito alta stima — e la sua comparsa alla direzione di quel dipartimento, mi colmò di speranze e non m'ero ingannato — La prima prova l'ebbi, nell'invio di cinquanta fucili nuovi — non avendo, sino a quel momento, potuto ottenerne un solo — ad onta di reiterate domande — Non tardò a giungere l'ordine di marciare su Roma — minacciata dai soldati di Bonaparte — Inutile dire: se si marciava volentieri, alla difesa della città a grandi memorie — La legione era di circa mille duegento uomini — noi eravamo partiti da Genova in sessanta — È vero che avevamo percorso un buon tratto d'Italia — ma se si osserva: che ovunque erimo stati rigettatti dai governi — calunniati, come solo sanno calunniare i preti — miseri..... sino agli estremi bisogni — e per la maggior parte del tempo senz'armi — tutte mancanze, che disgustano certo i volontari — e ne ritardavano l'organizzazione — Con tante contrarietà si poteva quindi esser soddisfatti del numero raggiunto — Giunsimo in Roma, ed ebbimo quartiere in S. Silvestro — convento abbandonato, da monache — 2º periodo 1849. CAPITOLO VIII. Difesa di Roma. La permanenza della Legione in S. Silvestro — fu di breve durata — ed ebbimo, all'altro giorno, l'ordine di accampare sulla piazza del Vaticano — e quindi di guarnire le mura da Porta S. Pancrazio a porta Portese — Era imminente l'avvicinamento dei Francesi, e bisognava prepararsi a riceverli. Il 30 Aprile doveva illuminare la gloria dei giovani ed inesperti difensori di Roma — e la fuga vergognosa dei soldati dei preti e della reazione — Il sistema di difesa del generale Avezzana, era degno di quel veterano della libertà — Egli con attività instancabile, avea proveduto ad ogni cosa, e trovavasi su tutti i punti, che potevano abbisognare della di lui presenza — Incaricato della difesa da S. Pancrazio e Portese — io avevo stabilito fuori di quelle porte — dei forti posti avanzati — aprofitando perciò dei dominanti palazzi di Villa Corsini (quattro venti), Vascello — ed altri punti adeguati alla difesa — Osservando le imponenti posizioni di quei fabricati, era facile dedurne: che conveniva non permetterne il possesso al nemico — e che una volta perduti — difficile, ed impossibile sarebbe riuscita la difesa di Roma — Nella notte che precedeva il 30 Aprile — io, non solo mandai esploratori sulle due strade, che conducevano alle porte da noi guardate — ma due piccoli distaccamenti ebbero ordine d'imboscarsi — sull'orlo della via — in distanza da poter cogliere almeno, alcuni esploratori nemici — Al far del giorno, io avevo davanti a me, in ginocchio, un soldato nemico di cavalleria, chiedendomi la vita. Io confesso: che per insignificante che fosse, l'acquisto d'un prigioniero — me ne allegrai, ed augurai bene della giornata — Era la Francia inginocchiata, facendo ammenda onorevole per la vergognosa ed indegna condotta de' suoi governanti — Il prigioniero era stato fatto dal distaccamento, agli ordini del giovane Nicese, Ricchieri — con molta bravura e sangue freddo — Una squadra di esploratori nemici, era stata posta in fuga dai nostri — ed i fuggenti, benchè superiori in numero — abbandonarono anche alcune armi — Conoscendo l'avvicinamento d'un nemico, è sempre proficuo eseguire alcune imboscate sulle strade ch'egli deve percorrere per avvicinarsi — Vi sono due vantaggi quasi sicuri: il primo di conoscere ove ha raggiunto la testa di collonna nemica; il secondo, di acquistare alcuni prigionieri — Intanto dalle dominanti alture di Roma, scoprivasi l'esercito nemico che si avvicinava con precauzioni e lentamente — Seguiva la via che viene da Civitavecchia a Porta Cavalleggieri — marciando in collonna — Giunto a tiro di cannoni, stabilì alcuni pezzi di artiglieria in punti dominanti — e spiegò alcuni corpi che marciarono risolutamente all'assa[l]to delle mura — Era veramente disprezzante il modo d'attaccare del generale nemico: don Quisciotte all'assalto dei molini a vento — Egli attaccò non in altra guisa — che se non vi fossero stati baluardi — o se questi fossero stati guerniti con bimbi — Veramente per sbaragliare quattro _brigands d'Italiens_ — il generale Oudinot virgulto d'un maresciallo del primo impero — non avea creduto necessario: procurarsi una carta di Roma. Egli però, s'accorse ben presto ch'erano uomini che difendevano la loro città contro mercenari — che avevano il solo nome di Republicani — e cotesti prodi figli d'Italia, dopo d'aver lasciato, con molta calma, avvicinar il nemico — lo fulminarono con fuoco di moschetti, di cannoni — e ne distesero non pochi, di coloro che più s'erano avanzati — Dall'alto dei Quattro venti, io avevo osservato l'attacco del nemico — ed il bel ricevimento fatto dai nostri di porta Cavalleggieri — e dalle mura attigue — Un attacco sul fianco destro nemico, mi sembrò cosa da non disprezzarsi — e vi spinsi due compagnie che lo posero in molta confusione — Sopraffatte però da un numero assai superiore di nemici — esse furono obligate di ripiegarsi sulle posizioni di sostegno — cioè dei casini esterni di quella parte di Roma — In quel primo incontro, ebbimo a deplorare la perdita del prode Capitano Montaldi — Chi ha conosciuto Goffredo Mameli, ed il Capitano De Cristoforis — si farà un'idea di Montaldi — Lo stesso fisico, e l'anima stessa — Montaldi assisteva ad un combattimento, comandando i suoi militi — collo stesso sangue freddo che al campo di manovra — od in una conversazione, con un crocchio di amici — Egli non avea forse, tanta istruzione — quanto i due prodi campioni della libertà Italiana summentovati — ma la stessa intrepidezza, lo stesso valore — e lo stesso genio — Che stoffa da generale! Di cui l'Italia conserva sempre la stampa — ed a cui essa deve affidare i suoi figli — nel giorno del giudizio di alcuni prepotenti — o del lavacro d'alcun oltraggio. Egli fece parte della legione Italiana di Montevideo — dal principio della sua formazione — essendo giovanissimo allora — ma partecipò ad innumerevoli combattimenti, colla consueta bravura — e fu dei primi ad iscriversi tra coloro che da Montevideo — varcavano l'Oceano per venir a servire la causa patria — Genova può con orgoglio incidere il nome di Montaldi, accanto a quello del suo vate guerriero: Mameli — I Francesi giunti sotto le nostre posizioni dei Casini — furono ricevuti dai fuochi incrociati dei nostri posti — e si fermarono coprendosi dietro le accidentalità del terreno — e dietro ai muri delle numerose ville dei dintorni — e di là sparando a tutta possa — In tale stato durò alquanto il combattimento; ma giunti, a noi rinforzi da dentro, si caricò il nemico con vigore, che perdette mano mano terreno — sinchè volto in precipitosa ritirata — Il cannone dalle mura ed una sortita dei nostri da porta Cavalleggieri, complottarono la vittoria — Il nemico lasciò alquanti morti — e varie centinaja di prigionieri — ritirandosi sconquassato, e senza fermarsi sino a Castel Guido — Al prode generale Avezzana, che avea organizzata la difesa si deve il principale onore della giornata — Egli instancabile mostravasi durante la pugna — ovunque più ferveva — ed animava colla voce, e colla maschia sua presenza, i nostri giovani militi — Il generale Bartolomeo Galletti, colla sua legione Romana — ci furon compagni durante l'azione — e contribuirono assai alla vittoria — così il generale Arcioni con un corpo da lui comandato — benchè giunti tardi, cooperarono alla sconfitta del nemico — e fecero pure buon numero di prigionieri — Un battaglione di giovani Universitari, ed altre frazioni di corpi, agregati alla legione durante la pugna si comportarono pure egregiamente — Un collonnello Haug Prussiano — lo stesso che fu generale con noi nel 66 — mi servì in tutta la fazione, da ajutante di campo, con molto valore, e sangue freddo — Marrocchetti, Ramorino, Franchi, Coccelli, Brusco (Minuto), Peralta — e tutti i miei compagni di Montevideo — sostennero la loro riputazione di bravura — sì giustamente acquistata — I valorosi Masina, Daverio, Nino Bonnet — ed altri prodi, di cui vorrei ricordare i nomi — ebbero un contegno brillante — Questo primo fatto d'armi, contro truppe aguerrite — rialzò molto il morale dei nostri legionari — e ben lo provarono nei susseguenti — Il giorno che seguì l'attacco dei Francesi — io ebbi ordine di osservarli — e mossi colla legione, ed alcuna cavalleria verso Castel Guido — ove stettimo parte della giornata in vista del nemico — Verso il pomeriggio giunse un medico Francese parlamentare — e lo inviai al governo — Il generale Oudinot sentendosi debole per l'attacco di Roma, cercò di temporeggiare con trattative diplomatiche — aspettando intanto rinforzi dalla Francia — Noi avressimo potuto, profittando della sua debolezza e della sua paura, riccacciarlo in mare — e poi avressimo fatto i conti — In Maggio ebbero luogo i due fatti d'armi di Palestrina, e di Velletri — In ambi la legione si coprì di gloria — Giunti in Palestrina i soldati del Borbone di Napoli — che da tempo avevano invaso il territorio Romano — in combinazione con Francesi, Austriaci, e Spagnuoli — ci attaccarono, e furono complettamente respinti — Vi si distinsero Manara co' suoi prodi bersaglieri — Zambianchi, Marrocchetti, Masina, Bixio, Daverio, Sacchi, Coccelli, ecc. — A Vellettri, ove comandava il generale in capo Roselli, fu alquanto più serio il combattimento, per trovarsi il re di Napoli in persona con tutte le forze del suo esercito — e noi con circa otto milla uomini d'ogni arma — [Illustrazione: GARIBALDI NEL 1849.] Partiti da Roma per porsi alle spalle dell'esercito Napoletano — seguimmo la via di Zaccarolo a Monte Fortino — Io ero destinato dal generale Roselli, al comando del corpo di battaglia — ma trovandosi di vanguardia il collonnello Marrocchetti, colla legione Italiana — a me specialmente attacata, sin dal principio della sua formazione — e composta per la maggior parte de' miei vecchi fratelli d'armi — e marciai quindi colla vanguardia — raccogliendo, dagli abitanti, notizie del nemico, che facevo pervenire al quartier generale principale — Dalle notizie raccolte con cura, io potei dedurre: esser il nemico in via di ritirata, e non m'ingannai — Giunto colla vanguardia sulle alture che dominano Vellettri verso Monte Fortino, feci fare alto, e riconoscendo il terreno — feci spiegare la legione a destra e sinistra della strada che conduceva a Vellettri — Il terzo reggimento di linea appartenente anche alla vanguardia — rimase parte in collonna di riserva sulla strada, ed alcune compagnie scaglionate destra e sinistra nelle vigne laterali che dominavano la stessa strada incassata — Due pezzi d'artiglieria furon collocati in dietro del terzo reggimento, su d'una posizione dominante — e che infilava la strada — La cavalleria di Masina, parte in avanti come esploratori, e parte in riserva — Il nemico avea fatto marciare verso Napoli, per la via Appia, i bagagli, e la grossa artiglieria — ma avendo ancora la maggior parte delle sue forze in Vellettri — e informato del piccolo numero delle nostre che le stavano a fronte — volle almeno tentare una riconoscenza — Fece avanzare quindi una collonna sulla strada, alla nostra direzione, sostenuta e coadjuvata da forti linee di tiratori sui fianchi nelle vigne — ed attaccò i nostri avamposti — che spinse con molta furia, e rovesciò sul grosso nostro — Una vanguardia della sua cavalleria, aveva caricato, per la strada, i pochi cavalieri nostri che si trovavano sulla stessa in esploratori — e per sostenerli io feci caricare i cavalieri nemici dalla piccola nostra riserva di cavalleria — che bravamente li rispinsero — Ma giunta questa sul ciglione della collina, nella stessa strada, s'incontrò colla testa di collonna principale, che spuntava marciando contro di noi; e naturalmente retrocesse ricaricata dai cavalieri Borbonici — Siccome i nostri cavalli eran per la maggior parte giovani, e non aguerriti essi vennero in dietro in tutta furia; ciocchè sembrandomi poco decente, in presenza di tanti amici e nemici — io commisi l'imprudenza d'attraversar il mio cavallo per frenar la carriera dei nostri — e così fecero alcuni ajutanti miei ed il mio prode nero assistente Andrea Aguiar — In un momento nel sito da me occupato — si vide un mucchio d'uomini e cavalli rovesciati — Incapaci di frenare i loro cavalli, i cavalieri nostri — diedero con tanta furia su di noi, che ci rovesciarono, e caddero loro stessi, formando così un monticino informe in quella strada incassata — ove sarebbe stato impossibile ad un solo fante di transitare — tanto era ingombra — I cavalieri nemici giunsero a sciabolarci — e fummo salvati dalla confusione in cui ci trovavamo — Subito dopo poi, i legionari nostri schierati nelle vigne destra e sinistra della strada — alla voce dei loro ufficiali — caricarono energicamente il nemico, lo respinsero, e ci tolsero da quel desolante impiccio — Una compagnia di ragazzi che avevo alla mia destra — vedendomi caduto, si scagliarono sui nemici da furibondi — Io credo: dovetti, principalmente, la mia salvezza a quei valorosi giovani — poichè, essendomi passati, cavalieri e cavalli sul corpo, io n'ero rimasto contuso al punto di non potermi movere — Rialzato finalmente con molta fatica, io mi tastavo le membra per sentire, se ve n'era alcuno rotto — La carica dei nostri, sulla destra ch'era la dominante — e quindi la chiave della posizione — condotta dai prodi Masina e Daverio — fu spinta con tanto impeto, che poco mancò, non entrassero i nostri mischiati ai nemici dentro Vellettri — Più vicini alla città, io potei assicurarmi vieppiù, che le disposizioni del nemico, erano per la ritirata — Oltre alle notizie ch'io avevo raccolto — della marcia del bagaglio e grossa artiglieria — vedevo chiaramente la cavalleria nemica, ordinata in scaglioni — al di là di Vellettri, lateralmente alla via Appia — cioè su di quella per cui doveva ritirarsi. Fratanto io inviavo rapporto d'ogni cosa al generale in capo — ma sventuratamente trovavasi il corpo d'esercito nostro, trattenuto in dietro, verso Zaccarolo — aspettando i viveri che tardavano a giungere da Roma — Io all'incontro — avevo fatto mangiar la gente, cammin facendo — avendo fatto ammazzare dei bovi — che si trovavano in abbondanza, nelle ricche tenute contigue appartenenti a cardinali[75] — Finalmente il generale in capo — e le prime teste di collonne nostre, giunsero verso le 4 p.m. — avendo noi combattutto nelle prime ore del giorno — Molto durai a far credere alla ritirata del nemico — ma invano — Nonostante il generale Roselli — ordinò al suo arrivo un attacco di riconoscenza — e fece, dopo, prendere alla truppa, le disposizioni idonee per l'assalto nella mattina seguente — Ma il nemico trovò a proposito di non aspettare il nostro comodo — e sgombrò Vellettri nella notte — facendo scalzare i soldati — e fasciare le ruote dei cannoni — per poter ritirarsi con più silenzio — All'alba si seppe: esser la città sgombra — e dalle alture di questa — scoprivasi il nemico ritirandosi velocemente per la via Appia verso Terracina e Napoli — Da Vellettri il corpo nostro principale si ritirò a Roma — col generale in capo — ed io ebbi ordine da questo d'invadere lo Stato Napoletano, per la via d'Anagni, Frosinone, Ceprano, e Rocca d'Arce, ove giunsi coi bersaglieri Manara che facevano la vanguardia — Il reggimento Masi, la legione Italiana, e poca cavalleria seguivano il movimento — Il prode collonnello Manara, che faceva la vanguardia co' suoi bersaglieri, perseguì il generai Viale che comandava un corpo di nemici — e che non si fermò un sol momento, per riconoscere chi lo perseguiva. A Rocca d'Arce, ci giunsero varie deputazioni de' paesi circonvicini — che venivano a salutarci quali liberatori — ed a sollecitare l'entrata nostra nel regno, ove promettevano generale simpatia ed adesione. Vi sono dei momenti decisivi nella vita de' popoli — come in quella degli individui — e codesta fu occasione solenne e decisiva — Vi voleva del genio — Io opinavo, e mi preparavo a seguire per S. Germano, ove saressimo giunti con poca fatica, e nessun ostacolo — Là nel cuore degli Stati borbonici — alle spalle degli Abruzzi — le di cui forti popolazioni — erano dispostissime a pronunciarsi per noi — La buona volontà delle popolazioni — la demoralizzazione dell'esercito nemico, battutto in due incontri — e che sapevo in disposizione di scioglimento — desiderando i soldati tornare alle loro case — l'ardore de' miei giovani militi, vittoriosi in tutte le pugne sin lì combattutte — e disposti perciò a battersi come leoni, senza contare il numero de' nemici — la Sicilia non doma ancora — incorata dalle sconfitte de' suoi oppressori — Tutto infine, presagiva molta probabilità di successo, nello spingersi audacemente avanti — Ebbene un ordine del governo Romano ci richiamava a Roma — minacciata nuovamente dai Francesi — Per palliare tale atto d'intempestiva debolezza — e tale errore — mi si lasciava l'arbitrio, tornando a Roma di costeggiare gli Abruzzi —! Se chi mi chiamava a ripassare il Ticino in 1848, dopo la capitolazione di Milano — e che non solo mi tratteneva i volontari in Svizzera — ma me li faceva disertare, anche dopo la vittoria di Luino — facendomi dire da Medici: che loro avrebbero fatto meglio! Se colui che dietro il mio parere, mi lasciava marciare e vincere a Palestrina — Se egli, poi, non so per qual motivo, mi facea marciare a Vellettri — agli ordine del generale in capo Roselli — Se Mazzini infine, il di cui voto era assolutamente incontestabile — nel Triumvirato — avesse voluto capire: che anch'io dovevo sapere qualche cosa di guerra — avrebbe potuto lasciarlo il generale in capo a Roma, incaricarmi solo dell'impresa seconda, come lo era stato della prima — e lasciarmi invadere il regno Napoletano il di cui esercito sconfitto trovavasi nell'impossibilità di rifarsi — e le di cui popolazioni ci aspettavano a braccia aperte — Che cambiamento di condizioni! Che avvenire — presentavansi davanti all'Italia, non ancora scoraggita dall'invasione straniera! In vece di ciò, egli chiama le forze tutte dello stato, dalla frontiera borbonica a Bologna — e le riconcentra su Roma, per presentarle così in un solo boccone al tiranno della Senna — a cui se non bastavano i suoi quaranta milla uomini ne avrebbe mandato cento milla, per annientarci in una volta sola — Chi conosce Roma, e le sue diciotto miglia di mura, sa molto bene: esser impossibile difenderla con poche forze, contro un esercito superiore in numero ed in ogni specie di materiale di guerra — com'erano i Francesi nel 1849 — Non, tutte alla difesa della capitale — dovevano dunque impiegarsi le forze dell'esercito Romano — ma internarne la maggior parte nelle posizioni inespugnabili di cui abbonda lo stato — chiamare le popolazioni tutte alle armi — lasciarmi continuare la mia marcia vittoriosa nel cuore del regno — e finalmente dopo d'aver mandato fuori, quanto si poteva — i mezzi di difesa — uscire lo stesso governo, e stabilirsi in situazione centrale, e difendibile — È vero: che nello stesso tempo dovevansi prendere alcune misure di salute publica contro l'elemento prete — che non si presero — e che si lasciò, per dei riguardi malintesi, onnipotente a congiurare, tramare, e finalmente contribuire alla caduta della Republica — ed alle sventure d'Italia — ¿Chi sa quali sarebbero stati i risultati delle misure salvatrici suddette? Cadendo, se cader si doveva — saressimo caduti almeno, dopo d'aver fatto il possibile, il dovere — e certamente dopo l'Ungheria e Venezia! Giunto a Roma, al ritorno di Rocca d'Arce, vedendo di che modo si maneggiava la causa nazionale — e prevedendo inevitabile rovina — io chiesi la dittattura — e chiesi la dittattura, come in certi casi della mia vita, avevo chiesto il timone d'una barca — che la tempesta spingeva contro i frangenti — Mazzini ed i suoi rimasero scandalizzati! Però, il 3 giugno cioè pochi giorni dopo — quando il nemico che li aveva illusi — s'era impadronito delle posizioni dominanti la città — e che noi tentavamo — ma inutilmente — di riprendere, a costo di prezioso sangue — allora dico: il capo dei triumviri — mi scriveva: offrendomi il posto di generale in capo — Io ero impegnato al posto d'onore, e trovai bene di ringraziarlo — e continuare nella sanguinosa bisogna di quell'infausta giornata. Oudinot avendo ricevuto quanti rinforzi abbisognava, dalle trattative con cui aveva addormentato il governo della Republica — si dispose a passare ai fatti — ed anunciò a Roma, ch'egli ripiglierebbe le ostilità il 4 di giugno — ed il governo fidò alla parola del fedifrago soldato di Bonaparte — Da Aprile che durava il pericolo sino a giugno — a nessun opera di difesa s'era pensato — massime nei posti importanti e dominanti di fuori — che sono la chiave di Roma — Ed io ricordo: che il 30 Aprile dopo la vittoria — il generale Avezzana ed io — in una conferenza ai _quattro venti_ — avevamo deciso di fortificare cotesta eminente posizione — ed alcune altre laterali poco meno importanti — Ma il generale Avezzana, era stato mandato ad Ancona — ed io occupato ad altre faccende — Poche compagnie, trovavansi fuori porta S. Pancrazio, e porta Cavalleggeri — come posti avanzati, essendo il nemico da quella parte verso Castel Guido e Civitavecchia — Io ero tornato da Vellettri — e lo confesso: addolorato per l'andamento rovinoso della causa del mio povero paese — La legione occupava S. Silvestro e non si pensava che a lasciar riposare i militi, dalle fatiche della campagna — Oudinot che avea fatto l'intimazione per il 4 Giugno — trovò meglio di attaccare per sorpresa nella notte del 2 al 3 — Le ore antimeridiane di quella notte — ci svegliarono al suono di fucilate e cannonate verso porta S. Pancrazio — Si battè l'allarme, e benchè molto stanchi — i legionari furono in un momento sotto le armi — ed in marcia verso il rumore del combattimento — I nostri che guarnivano i posti esterni, erano stati vigliacamente sorpresi, massacrati o prigionieri; ed il nemico era già padrone, delle dominanti posizioni dei Quattro venti ed altre — quando noi giunsimo a Porta S. Pancrazio — Senza indugio — sperando: non fosse ancora fortemente occupato — io feci attaccare il casino dei Quattro venti — Là sentivo esser la salvezza — se nostro — o la perdita di Roma, se rimaneva in potere del nemico — e fu attaccato quel punto — non con bravura — ma con eroïsmo, dalla prima legione Italiana al principio — dai bersaglieri di Manara poi — e finalmente da vari altri corpi, successivamente, e sempre sostenuti dalle artiglierie delle mura — sino a notte chiusa — Il nemico conoscendo l'importanza della posizione suddetta — l'avea occupato con forte nerbo delle migliori sue truppe — ed invano noi tentammo con molti assalti de' nostri migliori per impadronirsene — Gl'Italiani condotti dal valoroso Masina — entrarono nello stesso Casino, e vi combatterono corpo a corpo coi Francesi — facendo piegare a molte riprese gli aguerriti soldati d'Africa — Vi s'impegnò una mischia tremenda — ma la superiorità numerica del nemico, era troppo forte — e forze imponenti fresche alternandosi successivamente, facevano inutili gli eroici sforzi dei nostri — Mandai in sostegno della legione Italiana il corpo di Manara, compagno nostro di gloria in tutte le pugne — poco numeroso, ma valorosissimo, ed il meglio organizzato e disciplinato di Roma — La lotta durò un pezzo nella posizione — ma finalmente soprafatti dal numero, sempre crescente — i nostri furono obligati alla ritirata — Quel combattimento del 3 Giugno 1849 — uno de' più gloriosi per le armi Italiane, durò dall'aurora alle ore prime della notte — Vari furono i tentativi per riprendere il casino dei Quattro venti — e micidiali tutti — Nella sera al bujo, io feci tentare l'assalto da alcune compagnie fresche del Reggimento Unione, sostenute da altre — Esse, con molta intrepidezza giunsero al casino — e v'impegnarono zuffa terribile — ma troppa era la calca del nemico — e quei prodi dopo d'aver perduto il loro comandante — e gran parte della gente, furon pure obligati di retrocedere — Masina, Daverio, Peralta, Mameli, Dandolo, Ramorino, Morosini, Panizzi, Davide, Melara, Minuto! che nomi!..... e tanti altri eroi che non ricordo — furon le vittime dei preti, e dei soldati d'una Republica fratricida — ¿Roma libera dalla negromanzia e dai ladri — lo erigerà un monumento a cotesti superbi figli d'Italia sui frantumi del mausoleo eretto dai preti allo straniero depredatore ed assassino? La prima legione Italiana che contava apena mille uomini, perdette ventitrè ufficiali — quasi tutti morti — Molti il corpo di Manara, ed il reggimento Unione — che avevano combattutto con pari valore — senza contare ufficiali d'altri corpi ch'io non ricordo — Il 3 giugno decise della sorte di Roma — I migliori ufficiali, e sott'ufficiali eran morti o feriti — Il nemico era rimasto padrone della chiave di tutte le posizioni dominanti — e fortissimo com'era di numero e d'artiglierie — vi si stabilì solidamente — siccome nei punti forti laterali, ottenuti per sorpresa e tradimento — e cominciò i suoi lavori regolari d'assedio — come se avesse avuto da fare con una piazza forte di prim'ordine — Ciocchè prova: aver egli incontrato degli Italiani che si battevano — Passerò sopra i lavori d'assedio, parallelle, batterie di breccia — bombardamento co' mortaj, ecc. — Tuttociò, lo credo assai minuziosamente raccontato da molti e non potrei io farlo con molta esatezza, mancando in questo momento di dati, e documenti, che potrebbero servirmi a tale narrazione — Ciocchè posso assicurare però, si è: che contro un esercito aguerrito, d'assai superiore in numero — meglio organizzato, e con immensi mezzi — i nostri giovani militi, hanno combattutto molto lodevolmente da Aprile a Luglio — Il terreno fu difeso palmo a palmo — in ogni posizione — e non vi fu un solo esempio di fuga davanti a sì formidabile nemico, nè uno scontro, in cui si cedesse alla forza ed al numero — senza combattimenti omerici — Come dissi: i corpi eran menomati dei migliori ufficiali e militi — Nei corpi di linea — cioè antichi papalini — alcuni s'eran ben comportati da principio — ora, vedendo andare a rompicollo ogni cosa — presentavano quell'aspetto inerte e di mala voglia, che precede la diffidenza od il tradimento — ciocchè manifestavano gesuiticamente, secondo la scuola dei preti — colla resistenza ai servizi loro comandati — Ufficiali superiori, particolarmente, che speravano nella ristaurazione papale — e che il governo della Republica non avea voluto o saputo eliminare — non solo opponevano resistenza ai comandi — ma suscitavano la svogliatezza in tutti gli ordini delle loro milizie — ciocchè al prode e bravo Manara, mio capo di Stato maggiore, cagionava degli immensi dissapori — ed era nello stesso tempo precursore non dubbio di rovina — Si tentò una sortita di notte — ma un panico tra coloro che marciavano in testa — comunicandosi in tutta la collonna annullò intieramente l'impresa — Dei punti esterni se ne tenevan più pochi — per mancanza di forze sufficienti a guarnirli — Il Vascello solo si sostenne fino all'ultimo per la bravura di Medici e della sua gente — e quando si abbandonò alla fine, non rimaneva di quell'esteso edifizio, che un mucchio di macerie — La situazione si faceva più difficile ogni giorno — Il nostro valoroso Manara incontrava sempre maggiori difficoltà per ottenere il servizio di posti e di linea — indispensabile per la sicurezza comune — ed il difetto di tale servizio contribuì certamente, alla facile entrata delle breccie, già praticate coi cannoni dai mercenari di Bonaparte — Esse furono superate di notte, e con pochissime perdite, perchè mal guardate — Se Mazzini — e non si deve incolpare ad altri — avesse avuto la capacità pratica — com'era prolisso nel progettare movimenti ed imprese — e se avesse poi ciocchè pretese sempre di avere, il genio di dirigere le cose di guerra — se di più, egli si fosse tenuto ad ascoltare alcuni de' suoi, che dai loro antecedenti, si potevan supporre conoscitori di qualche cosa — egli avrebbe commesso meno errori — e nella circostanza che sto narrando, avrebbe potuto senò salvare l'Italia almeno ritardare la catastrofe Romana indefinitamente — e ripeto forse: avrebbe potuto lasciar Roma, fregiata dell'onore d'esser caduta l'ultima, cioè: dopo Venezia e l'Ungheria — Il giorno prima della sua morte gloriosa — Manara era stato mandato da me a Mazzini, per suggerirli di sortire da Roma — e marciare con tutte le forze disponibili — materiali, e mezzi che non eran pochi — verso le forti posizioni degli Apennini — E non so perchè ciò non si fece! La storia non manca di antecedenti di tali risoluzioni salvatrici — Una, l'ho testimoniata io, nella Republica del Rio-grande — Un'altra degli Stati-Uniti d'America — e di non lontana data — Che non fosse possibile, non è esatto — giacchè io sono uscito da Roma pochi giorni dopo — con circa quattro milla uomini, senza incontrare ostacoli — I rappresentanti del popolo — per la maggior parte giovani ed energici patriota — amati nei loro dipartimenti — potevano inviarsi negli stessi — suscitare il patriottismo delle popolazioni — e così tentare ancora la fortuna — Invece si disse: che la difesa diventava impossibile e i rappresentanti rimanevano al loro posto — Risoluzione coraggiosa che onorava gli individui; ma mediocre per il decoro e l'interesse della patria — non lodevole, quando rimanevano ancora molti armati per combattere — e che tuttora pugnavano contro i nemici dell'Italia, l'Ungheria e Venezia — Intanto si aspettava l'ingresso dei Francesi, per consegnar loro le armi — che dovevano servire a prolongar un doloroso, e vergognoso periodo di servaggio — Io contando su d'un pugno di compagni — pensai di non sottomettermi, prender la campagna — e tentare ancora la sorte — Il Sig. Cass Ambasciatore Americano (2 Luglio 1849) conoscendo lo stato delle cose — mi fece dire: che desiderava parlarmi — Io fui da lui che trovai in istrada — Egli, gentilmente mi disse: esservi una corvetta Americana in Civitavecchia a mia disposizione, se desideravo imbarcarmi con quei compagni che potevano esser compromessi — Io risposi a lui: ringraziare il generoso rappresentante della grande Republica — ma esser disposto di sortire da Roma, con coloro che volevano seguirmi — e tentare ancora la sorte del mio paese ch'io non credevo disperata — Mi avviai in seguito verso piazza S. Giovanni, per ragiungere la mia gente, cui avevo dato ordine di marciare a quella direzione, e prepararsi alla sortita — Giunto su quella piazza trovai la maggior parte dei miei, ed il resto veniva arrivando — Molti individui di differenti corpi, indovinando il divisamento nostro, ed altri avvertiti, giungevano pure a riunirsi — per non sottomettersi all'umiliazione di depor le armi a' piedi dei soldati di Bonaparte, guidati dai preti — 2º periodo. CAPITOLO IX. Ritirata. La mia buona Anita, ad onta delle mie raccomandazioni per farla rimanere — avea deciso d'accompagnarmi — L'osservazione ch'io avrei da affrontare una vita tremenda di disagi, di privazioni, e di pericoli — frammezzo a tanti nemici — era piutosto di stimolo alla coraggiosa donna — ed invano osservare ad essa, il trovarsi in istato di gravidanza — Essa giunse in una prima casa, e pregò una donna di reciderli i capelli, si vestì da uomo, e montò a cavallo — Dopo d'aver investigato dall'alto delle mura — per vedere se alcun corpo nemico, si trovava sulla strada da percorrersi, io davo l'ordine di marcia per la via di Tivoli — disposti a combattere qualunque nemico che avesse voluto fermarci — La marcia seguì senza ostacoli — e si giunse a Tivoli la mattina del 3 Luglio — A Tivoli si pensò di organizzare alla meglio, tutti i frammenti di corpi, che componevano la mia piccola brigata — Sin qui le cose non andavano tanto male — La maggior parte de' migliori miei ufficiali mi mancava — morti o feriti: Masina, Daverio, Manara, Mameli, Bixio, Peralta, Montaldi, Ramorino, e tanti altri — ma alcuni rimanevano ancora: Marrocchetti, Sacchi, Cenni, Coccelli, Isnardi — e se lo spirito della generalità: popolo e militi, non fosse stato tanto depresso — avrei potuto per molto tempo fare una bella guerra — e porger occasione alle genti Italiane, rivenute dalla sorpresa e dall'abbattimento, di scuotere il giogo di depredatori stranieri; ma così non fu sventuratamente! Io m'accorsi ben presto che non c'era voglia di continuare nella gloriosa e magnifica impresa che la sorte porgeva davanti a noi — Mossomi da Tivoli, verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche, e suscitarne il patriotismo — non solo, non mi fu possibile riunire un sol uomo — ma ogni notte — come se avessero bisogno di coprire l'atto vergognoso colle sue tenebre — disertavano coloro che mi avean seguito da Roma. Quando con me stesso, paragonavo la costanza e l'abnegazione di quelli Americani, con cui avevo vissuto — che privi d'ogni agio della vita, contentandosi d'ogni specie d'alimento — e sovente privi dello stesso — sostenevansi per molti anni nei deserti o nei boschi — facendo una guerra d'esterminio, piutosto che di piegar il ginocchio davanti alle prepotenze d'un despota, o d'uno straniero — Paragonando dico: quei forti figli di Colombo, cogli imbelli, ed effeminati miei concittadini — mi vergognavo di appartenere a questi degeneri nipoti del grandissimo popolo — incapaci di tener un mese la campagna — senza la cittadina consuetudine di tre pasti al giorno — A Terni si riunì a noi il prode collonnello Forbes — Inglese, amante della causa Italiana, come il primo di noi — coraggioso ed onestissimo milite — egli ci ragiunse con alcune centinaja d'uomini ben organizzati — Da Terni, seguimmo verso tramontana ancora — traversando l'Apennino, or da una parte, e poi dall'altra — ma nessuna popolazione rispondeva all'apello — Per motivo delle frequenti diserzioni, rimanevano molte armi abbandonate — che si caricavano su muli — ma il numero strabocchevole delle stesse — e la difficoltà di trasporto — ci obligarono di lasciarle colle monizioni alla discrezione di quelli abitanti che si credevan migliori, acciò le nascondessero — e le serbassero per il giorno in cui essi sarebbero stanchi di vergogne e di battitture — Nella poco brillante nostra situazione — v'era nonostante di che andar superbi — Noi, avevamo lasciato le vicinanze di Roma e de' corpi Francesi, che inutilmente c'inseguirono per un pezzo — e ci trovammo poi impegnati tra corpi Austriaci, Spagnuoli, e Napoletani — quest'ultimi eran pure rimasti indietro — Gli Austriaci ci cercavano dovunque — conoscendo senza dubbio lo stato nostro poco florido — e bramosi senza dubbio di accrescere la gloria acquistata a poco costo nel settentrione — e gelosi pure delle glorie Francesi — Che la nostra collonna, menomavasi ogni giorno, lo sapevano perfettamente dalle numerose spie — pretti — traditori indefessi di questa terra, che per sua sventura li tolera! I preti poi, padroni dei contadini e gente tutta della campagna — la più pratica, ed idonea per transitare di notte tempo — informavano minutamente i nostri nemici d'ogni cosa nostra, della situazione occupata — e d'ogni impreso movimento nostro — Io all'incontro poco sapevo dei nemici — poichè la parte buona della popolazione era demoralizzata, impaurita, temente di compromettersi — dimodocchè, anche con oro, mi era impossibile di ottenere delle guide — Guidati dovunque da esperti conduttori (ed ho veduto i preti stessi, col crucifisso alla mano, condurre contro di noi, i nemici del mio paese) — essi sempre ci trovavano, ad una cert'ora del giorno — essendo sempre di notte le nostre mosse — Ma ci trovavano generalmente in forti posizioni, e non ardivano di attaccarci — Ma ci stancavano e suscitavano la diserzione. Così durò per un pezzo — senza che il nemico, immensamente superiore di forze — fosse capace di attaccare e sconfiggere la piccola nostra collonna — E ciò prova: quanto noi avressimo potuto oprare in vantaggio del nostro paese — se in luogo d'aver come sempre, i preti, e quindi i contadini nemici della causa nazionale, li avessimo avuti favorevoli — e suscitanti il patriotismo generale, contro stranieri dominatori e ladri — Corpi di truppe come gli Austriaci, vittoriosi allora di fresco dalla battaglia di Novarra — e che avevano riconquistata tutta la parte settentrionale della penisola con sole marcie — quei corpi, più numerosi assai di noi, noi tenevamo a bada senza che osassero attaccarci — Non si lusinghino i nostri concittadini sul conto degli uomini della campagna — Mentre essi saranno dominati dal prete, sorretti da un governo immorale — i contadini, come i preti saranno sempre disposti a tradire la causa nazionale — Il governo Italiano carico d'ogni colpa — più dei dottrinari — positivo pressente la situazione instabile del paese — e piutosto che apogiarsi sullo stesso ch'egli mal governa e ruba — e che potrebbe darli ad esuberanza uomini, e mezzi per combattere qualunque prepotente — il governo Italiano dico: si umilia a cercare alleanze al di fuori, ch'è sempre impossibile a trovar disinteressate — Collo stato depresso dei cittadini come dissi: e quello ostile della campagna in mano ai preti — ben precaria diventava la condizione nostra — e presto noi sentimmo gli effetti della reazione rinascente, in tutte le provincie Italiane — Nella notte io ero obligato di cambiar posizione — poichè era molto naturale che fermandomi più d'un giorno in quelle occupate — mi si agglomeravano i nemici — informatissimi d'ogni cosa — e più difficili diventavano i miei movimenti — Ed io non poteva ottenere una guida in Italia — mentre gli Austriaci ne abbondavano! Ciò serva agl'italiani che vanno a messa, ed a confessarsi — da quella bella roba nera che si chiaman scarafaggi! Pochi — per conseguenza — episodi importanti succedettero sino a S. Marino — e non vi furono che alcune insignificanti scaramuccie cogli Austriaci — Due prigionieri della cavaleria nostra, che andavano in esploratori — furon catturati dai contadini del vescovo di Chiusi — Da un vescovo capite bene — e se non erro: Chiusi ha ancora un vescovo oggi (1872) — Io reclamai quei miei prigionieri, che certamente credevo in pericolo, nelle ugna dei discendenti di Torquemada — e mi furon negati — Feci marciar allora, per rappresaglia, tutti i frati d'un convento alla testa della collonna — minacciando di farli fucilare, ma l'arcivescovo duro — fece sapere: che molta stoffa v'era in Italia per far dei frati — e non volle restituirmi i prigionieri — Credo poi di più: ch'egli desiderava l'eccidio di quei suoi soldati — per spacciarli poi alla canaglia — come tanti santi martiri — Io sciolsi i fratti allora — Uno dei fatti più dispiacenti per me, in quella ritirata, erano le diserzioni, massime degli ufficiali — alcuni pure de' miei antichi compagni — I gruppi dei disertori, scioglievansi sfrenati per le campagne, e commettevano violenze d'ogni specie..... Eran soldati di Garibaldi!... Codardi nell'abbandonare vilmente la causa santa del loro paese — essi naturalmente scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti — ciò sommamente mi straziava, peggiorava ed umiliava non poco la già sventurata posizione nostra! ¿Come potevo io mandare dietro a quelle scellerate masnade — attorniato come mi trovavo dai nemici! Alcuni colti in flagranti erano fucilati — ma ciò poco rimediava — andando la maggior parte impuniti — La situazione divenuta disperata, io cercai d'arrivare a S. Marino — Avvicinatomi alla sede di quelli eccellenti Repubblicani, giunsemi una loro deputazione, ed avvendone avuto notizie, mi avanzai per conferire con essa — E mentre io mi trovavo conferendo colla deputazione di S. Marino — un corpo di Austriaci comparì nella nostra retroguardia — e vi cagionò confusione tale, che tutti presero a fuggire — quasi senza veder nemici — almeno la maggior parte — Avvertito di tal contratempo — retrocessi, trovai la gente fuggendo — e la mia valorosa Anita, che col collonnello Forbes, facevano ogni sforzo per trattenere i fuggenti — Quella incomparabile donna incapace di qualunque timore, aveva lo sdegno dipinto sul volto — e non poteva darsi pace di tanto spavento, in uomini che poco tempo prima s'eran battuti valorosamente — Qui io devo far menzione d'un piccolo pezzo nostro, d'artiglieria — che alcuni de' nostri prodi artiglieri di Roma, che tanto s'eran distinti nell'assedio — avean trascinato sin dal principio della nostra ritirata — Essi, con una costanza impareggiabile, senza cavalli ed attrezzi — con molta fatica, lo aveano condotto — per sentieri impraticabili e per montagne — In cotesto giorno di fuga, lo difesero per un pezzo da soli — perlasciati dagli altri — e non lo abbandonarono senonchè dopo d'averlo difeso sino all'estremo soccombendo la maggior parte di loro — Quegli Austriaci assuefatti a spaventar gli Italiani fecero anche uso di quei famosi razzi — arma lor prediletta — che ci scagliavano con meravigliosa profusione — e che non ho mai veduto ferir un solo individuo — Spero: i miei giovani concittadini sapranno trattare col disprezzo che meritano, quei tali giocatoli, nel giorno, forse non lontano — in cui insegneremo a quei nostri padroni del Tirolo — che l'aria meridionale delle Alpi è loro micidiale — Giunti a S. Marino — io scrissi sul gradino d'una chiesa al di fuori della città l'ordine del giorno — espresso circa nei termini seguenti: «Militi, io vi sciolgo dall'impegno d'accompagnarmi — Tornate alle vostre case; ma ricordatevi che l'Italia non deve rimanere nel servaggio, e nella vergogna!» Un'intimazione era giunta al governo della Republica di S. Marino da parte del generale Austriaco — con condizioni per noi inamissibili, e ciò cagionò una reazione benefica nello spirito dei nostri militi — che si decisero di combattere a tutt'oltranza piutosto di discendere a patti ignominiosi — Il convenuto col governo della Republica: era di deporre le armi su quel territorio neutro — e che ognuno avrebbe potuto tornare liberamente a casa sua — Tale fu il patto conchiuso con codesto governo — e nulla si volle patteggiare coi nemici dell'Italia — Per parte mia, però, non avevo idea di depor le armi — Con un pugno di compagni — io sapevo, non impossibile, aprirsi strada e guadagnar Venezia — E così s'era deciso — Un carissimo e ben doloroso impiccio era la mia Anita — avanzata in gravidanza, ed inferma, io la supplicavo di rimanere in quella terra di rifugio — ove un asilo almen per lei, poteva credersi assicurato — ed ove gli abitanti ci avevan mostrato molta amorevolezza — Invano! quel cuore virile e generoso si sdegnava a qualunque delle mie ammonizioni su tale assunto — e m'imponeva silenzio, colle parole: «tu vuoi lasciarmi» — Io determinai di sortire da S. Marino, verso la metà della notte, e di guadagnare qualche porto dell'Adriatico, ove potersi imbarcare per Venezia — Siccome molti de' miei compagni, avevano divisato di accompagnarmi, a qualunque costo — massime poi alcuni prodi Lombardi e Veneti disertori dell'Austria — Io andai fuori della città, con pochi, aspettando gli altri in un punto determinato — Tale combinazione cagionò alcun ritardo — e fui obligato d'aspettare un pezzo prima di riunire gli aspettatti — Nella giornata stetti vagando per la campagna, a prendervi informazioni sui punti della costa più abordabili — La fortuna in cui non ho mancato d'aver sempre qualche fede, m'inviò un individuo che mi servì moltissimo in tale ardua circostanza — Galapini, giovane coraggioso di Forlì, mi si presentò in un biroccio — e mi servì di guida, e d'esploratore, correndo colla velocità del lampo, dalla parte ove si trovavano gli Austriaci — raccogliendo informazioni dagli abitanti e raguagliandomi d'ogni cosa — Dalle sue esplorazioni, io mi decisi a prender la via di Cesenatico — e Galapini mi trovò delle guide che mi accompagnarono a quella volta — Noi giunsimo a Cesenatico verso mezzanote — all'entrata del paese trovammo una guardia Austriaca — rimasero gli uomini di quella guardia stupiti dall'improvviso nostro apparire — e profitando di quel momento di esitazione, dissi ad alcuni circostanti de' miei a cavallo: «Scendete e disarmateli» — Fu l'affare d'un momento — ed entrammo quindi nel paese del quale rimasimo padroni — avendo pure arrestati alcuni gendarmi, che certo non ci aspettavano in quella notte — Una delle prime misure — fu quella d'intimare alle autorità municipali di dar ordine: fossero messe a mia disposizione, quel numero di barche che mi abbisognavano per il trasporto della gente — La fortuna, però, avea cessato di favorirmi in quella notte — Una burrasca innalzatasi dalla parte del mare, lo aveva agitato in modo — ed i frangenti — erano così forti nella bocca del porto — che la sortita era diventata quasi impossibile — Qui mi valse assai l'arte mia marinaresca — Era necessario, indispensabile uscire dal porto — il giorno si avvicinava, i nemici erano vicini — e per ritirata, non restava altro che il mare — Io andai a bordo dei _bragozzi_ — barche peschereccie — feci giuntare alcune alzane a due ferri impennellati[76] e provai di uscire fuori del porto con una barchetta, dar fondo ai ferri, per tonneggiare i bragozzi[77] — I primi tentativi furono infruttuosi — Invano si saltò in mare per spingere la barcata contro i frangenti — Invano si animavano, colla voce, e con molte promesse i rematori — Solo dopo ripetute e faticosissime prove, si pervenne a portare i ferri, alla distanza dovuta, e si diedero fondo — Tornando in porto di _rebuffo_ — cioè: mollando le alzane, dopo d'aver dato fondo ai ferri — e giunti all'ultima alzana — questa, per esser sottile e non buona — si ruppe e tutto il lavoro perduto, si dovè ricominciarlo — Era affare da impazzire simile contrarietà — Infine fui obligato di tornare a bordo ai bragozzi — cercare altre alzane, altri ferri — con gente sonnolenta e di mala voglia — che si doveva spingere a piatonate, per farla movere, ed ottenerne il necessario — Si ritentò finalmente la prova — e questa volta fummo più felici — e potemmo stendere i ferri quanto abbisognava — S'imbarcò la gente divisa in tredici bragozzi[78] — Il colonnello Forbes s'imbarcò per l'ultimo — essendo rimasto tutto il tempo che durarono i preparativi, all'entrata esterna del paese, facendo barricate, per respingere i nemici, se si fossero presentati — Messi fuori tutti i bragozzi, tonneggiandoli uno dopo l'altro — con tutta la gente a bordo — Si distribuì a ciascun di loro, una parte dei viveri ch'erano stati requisiti dalle autorità municipali — Si diedero alcune istruzioni verbali a tutti, raccomandando di navigare più uniti che possibile — e si salpò alla via di Venezia — Il giorno era già avanzato quando salpammo da Cesenatico — il tempo s'era abbellito e il vento favorevole — S'io non fossi stato addolorato dalla situazione della mia Anita, che trovavasi in uno stato deplorabile — soffrendo immensamente — io, avrei potuto dire; che superate tante difficoltà, e sulla via di salvazione — la condizione nostra — poteva chiamarsi fortunata; ma, i patimenti della cara mia compagna — erano troppo forti — e più forte era tuttora il mio rammarico di non poter sollevarla — Colla strettezza del tempo e le difficoltà incontrate per uscire da Cesenatico — io non m'ero potuto occupare di viveri — Ne avevo incaricato un ufficiale — e quegli avea raccolto il possibile — Con tutto ciò, di notte, in un paesetto sconosciuto — assalito di sorpresa — solo poche provviste aveva potuto procurarsi — quelle stesse che erano state divise fra i bragozzi — Delle mancanze, la principale era l'acqua — e la mia soffrente donna, aveva una sete divorante — indizio non dubbio dell'interno suo male! Avevo sete, io pure, affannato dalle fatiche, e l'acqua da bere era pochissima! Noi seguimmo tutto quel resto della giornata, la costa Italiana dell'Adriatico — ad una certa distanza, con vento favorevole — La notte pure, si presentò bellissima — Era plenilunio — ed io vidi alzare con un senso dispiacevole, la compagna dei naviganti, ch'io avevo contemplato tante volte col culto d'un adoratore! Bella come non l'avevo veduta mai — ma per noi sventuratamente troppo bella! E la luna ci fu fatale in quella notte! A levante della punta di Goro — trovavasi la squadra Austriaca — che i patriotici governi, sardo e borbonico — avevano lasciata intatta e padrona dell'Adriatico — Dai raguagli avuti da pescatori — io sapevo dell'esistenza di detta squadra — forse ancorata dietro cotesta punta — ma incerte erano le mie informazioni — Seguendo la nostra via per Venezia, il primo legno che scoprimmo, fu un brigantino — credo l'_Oreste_ — e questo scoprì noi al tramonto — Scoperti che fummo, il brigantino manovrò in modo da avvicinarci — Io procurai di far intendere ai bragozzi compagni, di obliquare alquanto a sinistra verso la costa — ed uscire quindi, quanto possibile, dalla linea della luna — nel chiarore della quale, era più facile al nemico di scoprire i nostri piccoli legni — Non valse tale precauzione essendo la notte chiara, come non l'avevo mai veduta — ed il nemico non solo ci tenne alla vista — ma cominciò da lontano con cannonate e razzi — per dar segno alla squadra di noi, e del nostro avvicinare — Io tentai di passare tra i bastimenti nemici, e la costa facendo il sordo alle cannonate a noi dirette — Ma i compagni bragozzi — intimoriti dal fracasso dei tiri, e dal numero crescente dei nemici — retrocessero, ed io con loro, non volendo abbandonarli — Spuntò il giorno, e ci trovammo nell'insenata della punta di Goro, acerchiati da legni nemici — essi continuavano a cannonegiarci — e m'accorsi con dolore che già alcuni bragozzi s'erano arresi — Retrocedere od avanzare era divenuto impossibile, essendo i legni nemici, più assai velieri, dei nostri — e non vi fu altro rimedio, che di dirigersi alla costa, ove giungemmo perseguiti dalle lancie — palischermi — e cannoneggiati — in numero di quattro soli bragozzi — Tutti gli altri erano in potere del nemico — Io lascio pensare: qual'era la mia posizione in quei sciagurati momenti: La donna mia infelice — moribonda! — Il nemico perseguendo dal mare, con quella alacrità che da una vittoria facile — Aprodando ad una costa, ove tutte le probabilità di trovarvi altri, e numerosi nemici — non solamente Austriaci — ma papalini — allora in fiera reazione — Comunque fosse — noi aprodammo — Io presi la mia preziosa compagna nelle braccia, sbarcai e la deposi sulla sponda — Dissi ai miei compagni, che collo sguardo mi chiedevano ciocchè dovevano fare: d'incamminarsi alla spicciolata, e di cercar rifugio, ove potrebbero trovarlo — In ogni modo d'allontanarsi dal punto ove ci trovavamo, essendo imminente l'arrivo dei palischermi nemici — Per esser impossibile seguitar oltre — non potendo abbandonare mia moglie moribonda — Gli uomini a cui mi dirigevo, mi erano pure molto cari: Ugo Bassi, e Ciceroacchio coi due figli! Bassi mi disse: io vado cercando qualche casolare, ove trovarvi un pantalone da cambiarmi questo, certamente troppo sospetto — Egli vestiva un pantalone rosso — credo tolto al cadavere d'un soldato Francese a Roma da uno dei nostri, e regalato alcuni giorni prima ad Ugo Bassi dallo stesso — per sostituirlo ad uno cencioso — Ciceroacchio mi diede un addio affetuoso, e si allontanò coi figli — Ci dividemmo con quei virtuosissimi Italiani per non più rivederci — La ferocia Austriaca e pretina satollava la sua sete di sangue, colla fucilazione di quei generosi — e si vendicava così — dopo pochi giorni delle passate paure — Con Ciceroacchio eran nove compreso lui e i due figli — un capitano Parodi — de' miei prodi compagni di Montevideo — e un Ramorino sacerdote Genovese — degli Altri non ricordo — «Cavate nove fosse» ordinò un Capitano Austriaco agli ordini d'un principe Austriaco — che comandava in quella parte d'Italia — e che avea arrestato i nove miei commilitoni — «Cavate nove fosse» diceva imperiosamente quel capitano austriaco ad una folla di contadini — che grazie ai preti — avean paura dei liberali Italiani — dipinti a loro come tanti assassini — e non dei soldati Austriaci — E le fosse furon cavate in pochi minuti, in quel terreno sabbioso e leggiero! Povero vecchio! Ciceroacchio! Il vero tipo dell'onesto popolano! Lì, con davanti a lui le fosse cavate che dovean racchiudere lui, i suoi compagni, ed i suoi figli! Un figlio di 13 anni!..... Pronte le fosse — furon tutti moschettatti — e sepolti da mani Italiane s'intende — Il soldato straniero era padrone — comandava ai servi — e l'ubbidienza doveva esser immediata — senò verghe! Ugo Bassi fu arrestato pure — e fucilato con Levrè — uno pure dei miei di Montevideo — prode e simpatico Milanese — Ugo Bassi fu torturato dai preti prima di fucilarlo — essendo stato prete — maggiore era la loro rabbia! Io rimasi nella vicinanza del mare in un campo di melica, colla mia Anita, e col tenente Leggiero — indivisibile mio compagno — che mi era rimasto pure in Svizzera, l'anno antecedente, dopo il fatto di Morazzone — Le ultime parole della donna del mio cuore erano state per i suoi figli! ch'essa pressentì di non più rivedere! Stettimo un pezzo i tre in quel campo di melica alquanto indecisi sul da farsi — Finalmente io dissi a Leggiero d'avanzarsi un po' nell'interno per scoprire qualche cosa nelle vicinanze — Egli da quell'ardito ch'era stato sempre — si mosse subito — Io rimasi un pezzo in aspettativa — ma tra non molto udii gente che si avvicinava — mi spinsi fuori del ricovero, e vidi Leggiero accompagnato da un'individuo, che riconobbi subito, e la di cui vista mi fu molto consolante — Era il collonnello Nino Bonnet, uno dei miei più distinti ufficiali — ferito a Roma nell'assedio — ed ove egli avea perduto un valoroso fratello — S'era ritirato a casa per curarsi — Nulla di più fortunato poteva accadermi che l'incontro di cotesto mio fratello d'armi — Domiciliato e possidente in quei dintorni — egli avea inteso le cannonate, e pressentito quindi il nostro aprodo — S'era avvicinato alla sponda del mare per trovarci e soccorerci — Coraggioso ed intelligente, Bonnet con gran pericolo di se stesso, cercò e trovò chi cercava — Ed una volta trovato tale ausiliario — io mi rimisi intieramente all'arbitrio suo — e ciò fu naturalmente, la salvezza nostra — Egli propose subito di avvicinare una casipola, che si trovava nelle vicinanze, per trovarvi qualche ristoro all'infelice mia compagna — Ci avvicinammo sostenendo Anita in due — ed a stento giungemmo a quella casa di povera gente — ove trovammo acqua, necessità prima della soffrente — e non so che altro — Passammo da questa ad una casa della sorella di Bonnet, che fu gentilissima — Di lì traversammo parte delle valli di Comacchio — ed avvicinammo la Mandriola, ove si dovea trovare un medico — Giunsimo alla Mandriola — e stava Anita coricata su d'un materazzo, nel biroccio che l'avea condotta — Dissi allora, al dottor Zannini — giunto pure in quel momento: «guardate di salvare questa donna!» Il D.re a me: «procuriamo di trasportarla in letto» — Noi allora presimo, in quattro, ognuno un'angolo del materazzo, e la trasportammo in letto d'una stanza della casa, che si trovava a capo di una scaletta della stessa — Nel posare la mia donna in letto — mi sembrò di scoprire sul suo volto, la fisionomia della morte — Le presi il polzo... più non batteva! Avevo davanti a me la madre de' miei figli — ch'io tanto amava! cadavere!..... Essi mi chiederanno della loro genitrice — al primo incontro!... Io piansi amaramente la perdita della mia Anita! di colei che mi fu compagna inseparabile — nelle più avventurose circostanze della mia vita! Raccomandai alla buona gente che mi circondava di dar sepoltura a quel cadavere! E m'allontanai sollecitato dalla stessa gente di casa, ch'io compromettevo rimanendo più tempo — M'avviai brancolando per S. Alberto, con una guida che mi condusse, in casa d'un sarto — povero — ma onesto e generoso — Con Bonnet, a cui confesso di dover la vita, cominciò la serie de' miei protettori — senza di cui, non avrei potuto peregrinare per trenta e sette giorni — dalle Foci del Po, al golfo di Sterlino, ove m'imbarcai per la Liguria — Dalla finestra della casa, ov'io mi trovavo in S. Alberto — vedevo passeggiare i soldati Austriaci — padroni ed insolenti come sempre! Abitai due case, in codesto piccolo ma eccellente paese — ed in ambe fui custodito, salvo, e trattatto con una generosità superiore alla condizione economica di tale buona gente — Da S. Alberto i miei amici trovarono bene di trasportarmi nella vicina Pineta — ove soggiornai qualche tempo — cambiando di luogo per maggior sicurezza — Eran vari i confidenti del segreto, che mi occultava come in magica nube alle ricerche de' miei persecutori — non solamente Austriaci, ma papalini peggiori ancora — E giovani la maggior parte, erano cotesti coraggiosi Romagnoli — Bisognava veder con che cura, essi attendevano alla mia salvazione — quando mi credevano in pericolo, in un punto — li vedevo giungere di notte con un biroccio..... e generalmente per imbarcarmi — e trasportarmi a molte miglia di distanza — in altre situazioni più sicure Gli Austriaci da parte loro, ed i preti, non mancavano di far le indagini possibili per scoprirmi — I primi avevano diviso un battaglione in sezioni, che percorrevano la Pineta in tutte le direzioni — I preti poi, dal pergamo e dal confessionale suscitavano le contadine ignoranti, a far la spia, per la maggior gloria di Dio — I miei giovani protettori, avevano combinato i loro segnali di notte, con una maestria ammirabile — per movermi da un punto all'altro — e per dar l'allarme quando si conosceva un pericolo — quando si sapeva esistere qualche pericolo, iscorgendo un fuoco in un sito determinato — si passava oltre — all'incontro, non si scorgeva fuoco, in quell'assegnato sito — si tornava indietro, o si prendeva un'altra direzione — qualche volta temendo di equivoci — il conduttore fermava il barroccio — scendeva, e si avanzava lui stesso per riconoscere — oppure senza scendere trovava subito chi lo informava d'ogni cosa — Tali misure, eran così esattamente prese, da eccittare l'ammirazione — Si osservi: che qualunque cosa fosse traspirato — qualunque cenno avessero avuto di quanto accadeva, i miei persecutori — essi avrebbero — senza processo, e senza misericordia — fucilato sino ai bambini della gente che mi favoriva — con tanta devozione — Quanto mi duole: non poter consacrare alla storia, i nomi di quei generosi Romagnoli, a cui certamente io devo la vita — S'io non fossi deditto alla santa causa del mio paese — quella sola circostanza certamente — me n'imporrebbe l'obligo — Così passai vari giorni nella bella Pineta di Ravenna — Un po' alla capanna d'un caro, onesto, e generoso popolano nominato Savini — Altre volte coperti dai cespugli di cui non difetta il bosco — In coteste ultime situazioni, succedette una volta, che mentre sdrajati, col mio compagno Leggiero, da una parte d'un cespuglio — passavano dall'altra gli Austriaci, e le loro voci, certo poco piacevoli, disturbarono alquanto la quiete della foresta, e le pacate nostre riflessioni — Essi passavano a poca distanza da noi — e l'oggetto della loro conversazione, un po' animata erimo noi certamente — Dalla Pineta, fummo trasportati a Ravenna, in una casa, fuori di Porta (di cui non ricordo il nome) ed ove fummo accolti, colla stessa cura, e la medesima amorevolezza, come sempre — Da Ravenna fummo trasportati verso Cervia, nello stabilimento agricolo d'un altro caro individuo, di cui ricordo perfettamente la benevola fisionomia, ma non il nome — Stettimo lì un pajo di giorni, e presimo quindi la direzione di Forlì — Da Forlì, ove passammo una notte, ospitati in casa di brava gente — seguimmo poi per l'Apennino con guide — Giova osservare, passando, che niuno tra quelle popolazioni generose, è capace di scendere alla delazione; e che raccogliendo un proscritto — essi lo custodiscono come cosa sacra — Lo salvano, lo mantengono, lo guidano con una benevolenza incomparabile — La lunga dominazione del più perverso, del più coruttore dei governi, non è stato capace di ammolire, e depravare il carattere di quelle maschie e generose popolazioni — Il governo di ladri (1872) succeduto al pessimo governo dei preti, non la conosce cotesta gente, per sventura caduta sotto la sua amministrazione — e la martoria senza considerazioni — Se ne accorgerà egli nel giorno in cui dalla terra dei Vespri, e dalle Romagne alle Alpi — si chiederà conto della sua gestione — Passammo la frontiera delle Romagne, ed entrammo in Toscana — lo stesso interesse, la stessa amorevolezza incontrammo in questa colta parte d'Italia — divisa dai preti e da lunghe sciagure, ma destinata per formare un popolo solo — Un Anastasio, tra gli altri, ci accolse, e ci custodì in una sua casa dei monti — Poi, un prete! Vero angelo custode del proscritto — ci cercò, ci trovò, e ci condusse in casa sua, in Modigliana — Rammenterò qui — a chi ha la pazienza di leggere queste memorie — ch'io dissi già molte volte: odiare il falso, perverso carattere del prete — ma tolto l'individuo alla sua qualità d'impostore — e tornando uomo — io lo considero come un altro — Il padre Giovanni Verità di Modigliana — vero sacerto del Cristo — E qui per Cristo m'intendo l'uomo virtuoso e legislatore — non quel Cristo fatto Dio dai preti, e che se ne servano per coprire l'oscenità e la fallacia della loro esistenza — Il padre Giovanni Verità — dacchè un perseguito dai preti per amore d'Italia, si avvicinava a coteste contrade — era il fatto suo: di proteggerlo, di nutrirlo, e farlo condurre, o condurlo lui stesso al sicuro dalle persecuzioni — Egli avea salvato, così, a centinaja, i Romagnoli proscritti, che si rifuggivano sul territorio Toscano — Condannati dall'inesorabile rabbia del clero — essi procuravano di passare in Toscana, ove se non buono, il governo — era almeno men scellerato di quello dei preti — Le proscrizioni poi, fra quelle sventurate — e coraggiose popolazioni, erano frequenti — ed ovunque nelle mie peregrinazioni, ne avevo incontrato molti dei Romagnoli proscritti — e da tutti avevo inteso benedire il nome del veramente pio sacerdote — Stettimo un par di giorni in casa di D.n Giovanni, nel proprio suo paese di Modigliana — ove la stima e l'affetto di cui godeva generalmente servivan di palladio all'ospitale suo domicilio — Fummo condotti poi dallo stesso a traverso l'Apennino — col divisamente di seguirne le vette, per passare negli Stati Sardi — Giunti nelle vicinanze delle Filigari, una sera — il nostro generoso conduttore — ci lasciò in luogo apartato — e si spinse verso coteste abitazioni per cercare una guida — Nacque un equivoco in questa circostanza, che ci deviò dalla cara compagnia del nostro prottettore — Una guida mandata da lui — presa forse dal sonno, essendo la notte avanzata — si smarrì e giunse da noi tardi — Entrammo nel paesello; e D.n Giovanni n'era uscito per ragiungerci — impaziente per il ritardo, non nostro, ma della guida — ed avea preso strada diversa — Faceva l'alba — ci trovavamo sullo stradale che conduce da Bologna a Firenze — e non potevamo più rimanere in una posizione sì esposta — Presimo la determinazione allora di cercare un biroccio, ed incamminarci per lo stradale verso Firenze — stacandoci, con grandissimo rincrescimento dall'uomo generoso che ci avea guidati e protetti sino allora — Seguimmo dunque lo stradale, verso la capitale della Toscana — e già era gran giorno — Noi c'intoppammo in un corpo d'Austriaci — che da Firenze marciava su Bologna — Fecimo buon contegno — per forza, e continuammo così un pezzo avanti verso la china Occidentale dell'Apennino — Pervenuti ad una osteria, a sinistra della strada che si percorreva — il condottore si fermò — e fu conveniente rimanere in quel punto — Entrammo nell'osteria, congedammo il vetturale, e chiesimo una tazza di cafè dall'oste — Mentre s'aspettava il cafè, io m'ero seduto a sinistra entrando, sopra una panca, accanto ad una lunga tavola — solita a trovarsi in tali stabilimenti — Seduto, ed un po' stanco, io m'apogiai sonnacchiando, sulle braccia distese sulla tavola — Leggiero toccandomi nella spalla con un dito — mi destò, e m'incontrai collo sguardo, nel volto poco piacevole di certi Croati che avevano invaso l'osteria — Era un altro, o forse parte dello stesso corpo nemico, che già avevamo incontrato più sopra — Riabassai il capo sulle braccia e feci conto di non aver veduto nessuno — Sgombra che fu l'osteria, e preso il nostro — dopo che furon serviti i padroni — noi traversammo lo stradale — e sulla parte destra dello stesso, noi cercammo, e trovammo asilo in una casa di contadini — Dopo aver riposato alquanto, e prese le necessarie informazioni — noi ci avviammo verso Prato, coll'intendimento di guadagnare la frontiera Ligure — Dopo d'aver marciato la maggior parte della giornata, si arrivò in una valle — ove trovammo una specie d'albergo di campagna — ed ove chiedemmo allogio per la notte — Trovavasi nello stesso albergo — un giovane cacciatore di Prato — che sembrava famigliare del luogo — e nell'intimità colla gente di casa — L'aspetto del giovane era decente, liberi i suoi modi — e con una di quelle fisionomie di onesta franchezza, che difficilmente ingannano — Io stetti ad osservarlo per qualche tempo, con significato esprimente il desiderio di conferire con lui — e lo avvicinai — Dopo poche interlocuzioni, diedi il mio nome — e vidi subito che non m'ero ingannato — Il giovane Pratese si commosse al mio nome — e vidi brillare negli occhi suoi la gentil voluttà di far bene — Egli mi disse: vado a Prato, che dista poche miglia — parlerò co' miei amici, e tornerò da voi in breve — Fu molto esatto l'eccellente Pratese — Tornò presto, e noi lo seguimmo a Prato, ove gli amici con a capo l'Avvocato Martini, avevano fatto preparare un legno, che doveva condurci per la strada d'Empoli, Colle ecc. — verso le maremme Toscane, ove raccomandati ad altri buoni Italiani — noi avressimo con molta probabilità trovato barche — per esser condotti in qualche punto del territorio Ligure — La determinazione, presa dai bravi patrioti Pratesi, di avviarci verso le Maremme, era motivata dalle molte e rigorose osservazioni, tenute dal governo del Duca sulla frontiera Sarda — per impedire il transito dei compromessi politici — allora numerosi, che cercavano salvezza al di là del limite occidentale — su quella terra Italiana — ove la prepotenza Austriaca giammai dovea trovar campo alle sue libidini di depredazioni e di assassinï. L'avvocato Martini di Prato — tra tutti i nostri benefattori e liberatori — meritò illimitata la vostra gratitudine — Egli non solamente si adoprò per facilitare il nostro viaggio — ma ci raccomandò caldamente ai suoi amici, e congiunti delle Maremme — che ci valsero sommamente — Mi duole assai, non ricordare il nome del bravo giovine — che primo, e tanto contribuì alla nostra salvazione — ed al quale, io lasciai un piccolo anello — di poco valore — per ricordo e per segno d'affetto — Il nostro viaggio da Prato alle Maremme — fu veramente singolare — Noi percorremmo gran tratto di paese in un legno chiuso — fermandoci per cambiar cavalli di tapa in tapa — ed in vari paesi le nostre fermate erano oltremodo lunghe — avendo, i cocchieri che ci guidavano, molto meno premura di noi di procedere avanti — Dimodocchè si dava agio ai curiosi di circondare la vettura — ed alcune volte, erimo pure obligati discendere per mangiare od altro — dovendo coprire alquanto e dissimulare, l'eccezionale condizione dei nostri individui — Nei piccoli paesi, erimo naturalmente alla berlina degli oziosi, che congetturavano in mille modi sull'esser nostro — disposti al cicaleccio sopra individui che non conoscevano — e che i tempi difficili d'una terribile reazione attorniavano di dubbï — A Colle, particolarmente, oggi paese patriotico ed avanzato — fummo attorniati da una folla — che non mancò darci segni manifesti di sospetto, e di avversione alle nostre fisionomie tutt'altro che, di pacifici, ed indifferenti viaggiatori — Non altro successe però — oltre a qualche parolaccia indecorosa — e che noi dissimulammo com'era naturale — Erimo, sventuratamente, ancora ai tempi, in cui i preti dicevano alla gente: esser i liberali una massa d'assassini (1849) — Alcuni anni dopo però io fui ricevuto nello stesso paese, con tanta entusiastica gentilezza — ch'io certamente ricorderò tutta la vita. Passammo sotto le mura di Volterra — ove trovavasi allora Guerrazzi, con parte dei compromessi politici della Toscana — e ci limitammo di calcare il cappello negli occhi, passando — Il primo sito di sicuro rifugio — ove giungemmo nelle vicinanze delle Maremme — fu S. Dalmazio, in casa del D.r Camillo Serafini — uomo generoso, vero patriota Italiano, e dotato d'un coraggio, e d'una fermezza non comune — Deputato Toscano al parlamento in 1859 — dopo l'emancipazione del suo nobile paese, egli certamente come il bravo Giovanni Verità — partecipò a qualunque coraggiosa deliberazione di quell'assemblea — e mi figuro: si sia ritirato in disgusto come tanti, per non trovarsi al contatto di gente che non meritano di rappresentare l'Italia — Soggiornammo vari giorni, in casa di Serafini — e fummo condotti in seguito in uno stabilimento di bagni, appartenente ad un altro Martini, parente del primo — e come questo benefico — Di lì, in casa d'un Guelfi, più vicino al mare — ed in ogni luogo, ricevemmo un'ospitalità degna della maggior gratitudine — Fratanto si trattava da quei generosi amici — con un pescatore Genovese — per esser portati nella Liguria — Un bel giorno vari giovinotti Maremmani, di quei dintorni, armati coi loro fucili a due colpi — come i cacciatori di Ravenna — e come questi svelti, forti, e coraggiosi — vennero a cercarmi in casa del bravo Guelfi — ci diedero ad ambi un'arma uguale alla loro — e ci condussero attraverso boschi, sulla sponda del mare, a poche miglia a levante di Follonica — porto caricatore di carbone, nel golfo di Sterlino — Là trovavasi la barca peschereccia, che ci aspettava — Noi c'imbarcammo commossi dalle prove d'affetto, che ci prodigarono i nostri giovani liberatori — Com'ero fiero d'esser nato in Italia! — In questa terra di morti! Fra questa gente che non si batte — dicono i nostri vicini: ove da molti secoli — perchè caduti dal trono da cui i nostri padri dominavano il mondo — pur ricordandosi dell'indole nostra — cotesti protervi limitrofi — c'imponevano il rettile nero della teocrazia — per umiliarci — depravarci — corromperci d'anima e di corpo — acciochè curvi, cretini non udissimo più il fischio della verga — a cui ci avevano dannato in eterno — Come se il loro regno di pigmei — fosse per durar sempre — mentre il tempo _con sue fredd'ali_, spazzava anche il gigante di tutte le grandezze umane, passate, presenti, e future — le di cui macerie risorgono oggi sui sette colli — Fiero d'esser nato in Italia, dico: ove ad onta di star sotto il dominio di preti e di ladri — sorge, una gioventù, che disprezzando i pericoli, le torture, e la morte — marcia impavida al compimento del dovere — all'emancipazione dello schiavo! Imbarcati nel golfo di Sterlino — a bordo d'un pescatore Ligure — veleggiammo verso l'isola d'Elba — ove si dovevano imbarcare attrezzi, ed alcune provviste — Passammo parte del giorno ed una notte a porto Longone — Di là, costeggiando la Toscana, giunsimo sulla rada di Livorno — e senza fermarci continuammo verso ponente — Io non dubitavo della sfavorevole accoglienza, che per parte del governo — m'aspettava negli Stati Sardi — e mi venne l'idea, sulla rada di Livorno, di chiedere asilo a bordo d'un vascello Inglese, che vi si trovava ancorato — Il desiderio, però, di veder i miei figli, prima di lasciar l'Italia — ove sapevo di non poter stare — prevalse — e verso settembre sbarcammo in salvo a Porto Venere — Da porto Venere a Chiavari, nulla di nuovo — e fummo ospitati in quest'ultima città, in casa di mio cugino Bartolomeo Pucci, di carissima memoria — Fummo festeggiati dalla buona famiglia di mio parente come pure da cotesta cara popolazione di Chiavari — e dai numerosi Lombardi che vi si trovavano rifuggiati dopo la battaglia di Novarra — Ma il generale Lamarmora, allora commissario regio a Genova, sapendo del mio arrivo — ordinò fossi trasferito in quella capitale — scortato da un Capitano di carabinieri travestito — Io non trovai, affatto strano il procedimento del generale Lamarmora — Egli era istromento della politica, prevalente allora nel nostro paese; ed istromento intimo — nemico poi per propensione di chiunque, fosse come me, macchiato del suggello Republicano — Fui rinchiuso in una segreta del palazzo ducale di Genova — e quindi trasportato di notte, a bordo della fregata da guerra il _S. Michele_ — In ambi luoghi, però, trattatto con deferenza, sia da Lamarmora, come a bordo dal cavalleresco comandante Persano — Io, altro non chiesi, che 24 ore per andare a Nizza ad abbracciare i miei figli — e tornare poi a prendere il mio posto di reclusione — Sulla mia parola mi permise ogni cosa il generale Lamarmora — Non so, se vi furono — a bordo del piroscafo _S. Giorgio_ che mi condusse — altri travestiti — ma sicuramente al mio arrivo in Nizza, vi si trovavano avvisi preventivi, ed i carabinieri in alerta — che secondo le consuetudini delle autorità regie — mi fecero ritardare varie ore per sbarcare — e quindi non ebbi altro tempo, che di giungere a Caras, ove si trovavano i miei figli, passarvi la notte, e ripartirne subito — La vista de' miei figli, ch'io ero obligato di abbandonare chi sa per quanto — mi addolorò sommamente — Essi rimanevano in mano amiche è vero: i due maschi con mio cugino Augusto Garibaldi — e la mia Teresa con i conjughi Deidery, che ad essa servirono di genitori — Ed io dovevo allontanarmi indefinitamente! Sì, indefinitamente — poichè mi si propose di scegliere un luogo d'esiglio! Qui, non devo passare sotto silenzio, la maschia difesa che presero della mia causa, i deputati della sinistra nel parlamento Piemontese — Baralis, Borella, Valerio, Brofferio, alzaron potentemente la voce in mio favore — e se non pervennero a sottrarmi all'esiglio — mi sottrarono certamente ad alcunchè di peggio — V'era, come sempre, insaziabile sete di sangue nel partito Austro-prete — ed era stato vittorioso dovunque nella penisola — Richiesto di scegliere un luogo d'esiglio — io scelsi Tunis — La mia speranza su migliori destini del mio paese — mi facea preferire un sito vicino — A Tunis trovavasi un Castelli di Nizza amico mio d'infanzia — ed un Fedriani amicissimo mio dal 34 — e compagno della prima mia proscrizione — M'imbarcai dunque per Tunis sul vapore da guerra il _Tripoli_ — A Tunis, il governo, subordinato alle ispirazioni della Francia — non mi volle — e fui trasportato indietro, e depositato nell'isola della Maddalena — ove stetti una ventina di giorni — Cosa ridicola! Non mancò chi m'accusasse al governo Sardo — o lo stesso governo lo finse: ch'io tramavo rivoluzioni — In quell'isola, ove la metà della popolazione — era in quel tempo a servizio regio — o pensionata — Buona popolazione d'altronde — che mi trattò molto bene — Dalla Maddalena, fui imbarcato per Gibilterra sul brigantino da guerra _Colombo_ — Il governatore Inglese di cotesta piazza — mi diede sei giorni di tempo per evacuarla — Con tanto affetto — e con ragione — com'ebbi sempre per quella nazione generosa — non posso dissimulare: che molto scortese, futile, ed indegno mi sembrò tale procedimento — 2º Periodo. CAPITOLO X. Esiglio. Se quel calcio al caduto — fosse stato dato da un vile, da un debole — pazienza! Ma da un rapresentante dell'Inghilterra — terra d'asilo universale! Ciò mi colpì sensibilmente! Bisognò sgombrare — però — anche che avessi dovuto gettarmi in mare — e dal consiglio d'alcuni amici io mi decisi di passar lo stretto — e cercare un rifugio in Africa, dal Sig. G. Batta Carpeneto — console Sardo a Tanger — che mi accolse e mi ospitò in casa sua per sei mesi — coi miei due compagni ufficiali Leggiero e Coccelli — A Modigliana io avevo trovato un prete benefico — A Tanger vi trovai un console regio, generoso ed onestissimo — Ad ambi io sono debitore della maggior gratitudine — E ciò prova bene: esser giusto il vecchio proverbio «l'abito non fa il monaco» — E ciò prova pure: esser l'esclusivismo, professato da certa gente, un'errore — ed esser ben difficile di trovare la perfezione nell'umana famiglia — Procuriamo d'esser buoni — inculchiamo, quanto è possibile, le massime del giusto e del vero — nelle moltitudini — combattiamo ad oltranza la teocrazia e la tirannide sotto qualunque forza — perchè rappresentanti della menzogna e del male; ma..... siamo indulgenti con questa nostra ferina razza — che fra gli altri titoli a benemerenza, ha pur quello di generar sempre una metà di sè stessa — composta d'imperatori, re, birri di tante denominazioni — e preti — che sembrano proprio tagliati con tutti i più scelti attributi di scorticatori — per maggior gloria, e benefizio del resto — A Tanger col generoso mio ospite Carpeneto — io passai vita tranquilla e felice — quanto lo può esser quella d'un esule Italiano, lontano da' suoi cari, e dalla patria sua — Almeno due volte la settimana, si andava a caccia, e si cacciava abondantemente — Poi, un amico mise un guzzetto (piccola barca) a mia disposizione — e si fecero anche delle partite di pesca — abondante pure in quelle coste — L'ospitalità gentile ricevuta in casa del Sig. Murray, Vice-console Inglese — mi toglieva qualche volta dalla solitaria e selvaggia mia consuetudine — Sei mesi dunque — passarono in quella vita — che mi sembrò tanto più fortunata — quanto era stato terribile il periodo anteriore — Nella mia relegazione, però, non ero dimenticato da tutti i miei amici Italiani — Carpanetto Francesco — a cui dovevo, sino dal principio del mio arrivo in Italia in 48, un'infinità di favori, e gentilezze — aveva ideato di raccogliere, per mezzo de' miei conosciuti, e suoi, una somma sufficiente da costruire un bastimento, destinato ad esser comandato da me per guadagnar la vita — Tale progetto mi sorrideva: Nulla potendo fare per l'adempimento della politica mia missione; mi sarei almeno occupato, lavorando mercantilmente, d'acquistare un'esistenza indipendente — e non più star a carico dell'uomo generoso che mi avea ospitato — Io accettai immediatamente il progetto dell'amico mio Francesco — e mi disposi a partire per gli Stati Uniti ove doveva effetuarsi la compra del legno — Verso giugno del 1850, m'imbarcai per Gibilterra, di là a Liverpool, e da Liverpool a New-York — Nella traversata per l'America, fui assalito da dolori reumatici, che mi tormentarono durante gran parte del viaggio — e fui finalmente sbarcato com'un baule — non potendo movermi — a Staten Island — nel porto di New York — I dolori mi durarono un par di mesi, passati parte in Staten Island, e parte nella città stessa di New York, in casa del mio caro e prezioso amico Michele Pastacaldi, ove godevo l'amabile compagnia dell'illustre Foresti — uno dei martiri dello Spielberg — Il progetto del Carpanetto, non poteva intanto attuarsi per mancanza di contribuenti — Egli avea raccolto tre azioni di dieci milla lire ognuna, dai fratelli Camozzi di Bergamo — e da Piazzoni; ma che bastimento si poteva comprare in America con trenta milla lire? Un piccolo barco per il cabotaggio — ma non essendo io cittadino Americano, sarei stato obligato di prendere un Capitano di codesta nazione — e non conveniva — Infine, qualche cosa bisognava fare — Un mio amico, Antonio Meucci, Fiorentino — e brav'uomo — si decide a stabilire una fabrica di candelle, e mi offre di ajutarlo nello stabilimento — Detto, fatto — Interessarmi nella speculazione, non lo potevo — per ragione di mancare i fondi; (giacchè le trenta milla lire suddette, non essendo state sufficienti per la compra del legno — erano rimaste in Italia) mi addatai quindi al lavoro colla condizione: di fare quanto potevo — Lavorai per alcuni mesi, con Meucci — che, benchè lavorante suo, mi trattò come della famiglia, e con molta amorevolezza — Un giorno però, stanco di far candele — e spinto forse da irrequietezza naturale ed abituale — uscï di casa, col proposito di mutar mestiere — Mi rammentavo d'esser stato marino — conoscevo qualche parola d'inglese — e mi avviai sul littorale dell'isola, ove scorgevo alcuni barchi di cabotaggio occupati a caricare e scaricar merci — Giunsi al primo, e chiesi d'esser imbarcato come marinaio — Apena mi diedero retta — tutti quanti scorgevo sul bastimento — e continuarono i loro lavori — Feci lo stesso, avvicinando un secondo legno — Medesima risposta — Infine ad un altro, ove si stava lavorando a scaricare — e dimando: mi si permetta di ajutare al lavoro — e n'ebbi in risposta che non ne abbisognavano — «Ma non vi chiedo mercede» io insisteva: e nulla. «Voglio lavorare per passare il freddo» (vi era veramente la neve) meno ancora. Io rimasi mortificato! Riandavo col pensiero a quei tempi ov'ebbi l'onore di comandar la squadra di Montevideo — di comandarne il bellicoso ed immortale esercito! A che serviva tuttociò — non mi volevano! Rintuzai infine la mortificazione, e tornai al lavoro del sego — Fortuna ch'io non avevo palesato la mia risoluzione all'eccellente Meucci — e quindi concentrato in me stesso, il dispetto fu minore — Devo confessar di più: non esser il contegno del mio buon principale verso di me, che mi avesse obligato alla intempestiva mia risoluzione — egli mi era prodigo di benevolenza e d'amicizia — siccome lo era la Signora Ester di lui sposa — La mia condizione non era dunque deplorabile — in casa di Meucci — e fu proprio un'accesso di malinconia, che m'avea spinto ad allontanarmi da quella casa — In essa, io ero liberissimo: potevo lavorare se mi piaceva — e preferivo naturalmente il lavoro utile a qualunque altra occupazione — ma potevo andare a caccia qualche volta — e spesso si andava anche a pesca, collo stesso principale, e con vari altri amici di Staten Island, e di New York, che spesso ci favorivano colle loro visite — In casa poi, non v'era lusso — ma nulla mancava delle principali necessità della vita — tanto per l'alogio che per il vito — Io devo qui menzionare il maggiore Bovi — il mutilato alla difesa di Roma — e che fu mio fratello d'armi in varie campagne — Egli m'avea raggiunto a Tanger in casa del Sig. Carpeneto — nell'ultimo tempo da me passato in quella casa d'asilo — e quando mi decisi di passare in America — non permettendo i miei mezzi di condurre meco tutti i miei compagni, lasciai Leggiero e Coccelli a Tanger raccomandati — e scelsi per accompagnarmi Bovi, incapace di lavoro perchè mancante della mano destra — Coccelli! Perchè non accennerò io ad un ricordo di cotesto mio giovine, bello, e valoroso compagno? Coccelli era entrato bambino nella legione di Montevideo, e con molta propensione alla musica, egli suona la tromba a chiave nella superba banda della legione — e la tromba di guerra, nelle famose cariche, con cui quel valoroso corpo fece rispettatto il nome Italiano in America — Coccelli seguì la Legione in tutte le sue campagne — e seguì la spedizione nostra del 48 in Italia — Fece con onore — come ufficiale le campagne della Lombardia e di Roma — e venne meco, quando proscritto dal governo sardo nel 49 — mi recai a Tanger — Alla mia partenza da Tanger per l'America — io lasciai a Coccelli il mio fucile, ed ogni mio attrezzo da caccia — Egli morì, ben giovane ancora, colpito dal sole Africano nella testa — Il mio cane da caccia, _Castore_, fui pure obligato di lasciarlo in Tanger al mio amico Sig. Murray — e quel mio fedele compagno, ne morì di disgusto! Finalmente giunse l'amico mio Francesco Carpanetto — a New York — Egli avea da Genova, iniziato una specolazione in grande per l'America centrale — Il _S. Giorgio_, nave a lui appartenente — era partita da Genova, con parte del carico — e lui stesso era passato in Inghilterra, a preparare il resto, ed inviarlo in Gibilterra ove la nave doveva prenderlo — Si decise: ch'io l'accompagnerei nell'America centrale — e fecimo i preparativi di partenza — e nel 51 dunque con Carpanetto effetuai un viaggio per Chagres, con un vapore Americano — capitano Johnson — Da Chagres passammo in un Jacht della stessa nazione in S. Juan del Nord — e di là presimo una piragua — rimontando lo stesso fiume di S. Juan, sino al lago di Nicaragua — Traversammo il lago, e giunsimo finalmente a Granada, porto e paese più commerciale del lago. In Granada stettimo pochi giorni — e vi fummo accolti gentilmente da alcuni Italiani ivi stabiliti — In Granada principiarono le operazioni commerciali dell'amico Carpanetto — e di là visitammo allo stesso oggetto, molte parti dell'America centrale, traversando varie volte l'Istmo di Panama — Io accompagnavo il mio amico in quelle escursioni, più come compagno di viaggio, che come collaboratore di commercio — in cui mi confesso novizio — ma tale non era Carpanetto — ed io ammiravo l'attività, e l'intelligenza con cui egli maneggiava ogni negozio, che poteva produrre dei vantaggi — Viaggiavo in quell'epoca sotto il nome di Giuseppe Pane, che già avevo assunto nel 34 — per scansare curiosi, e molestie poliziesche — Alle combinazioni commerciali del Carpanetto serviva di base, l'arrivo della nave _S. Giorgio_ a Lima — ed egli avea progettatto di recarsi in detta città per aspettarla — Tornammo quindi a S. Juan, del Nord, ripassammo a Chagres, e di lì rimontammo il fiume Cruz, per giungere a Panama — In codesto ultimo viaggio, io fui assalito dalle terribili febbri endemiche in quel clima ed in quel paese seminato da paludi — Esse mi colpirono come un fulmine e mi prostrarono — Io, non fui mai, così abatutto dal male come in quell'epoca — e se non avessi avuto la fortuna di trovare degli eccellenti Italiani — tra cui due fratelli Monti — a Panama — e vari buoni Americani — io credo non mi sarei liberato dal morbo — Il mio caro Carpanetto, poi in quella pericolosa circostanza, ebbe per me delle cure fraterne — M'imbarcai a Panama col vapore Inglese — che doveva condurci a Lima — L'aria del mare fu per me un balsamo — e ne fui sommamente rinfrancato. Nella traversata passammo a Guayaquil da dove cercai invano di scoprire la cima del Cimboraço — quasi sempre nascosto dalle nubi — A Païta sbarcammo, ci fermammo un giorno — e vi fui ospiziato in casa d'una generosa Signora del paese — che trovavasi in letto da anni — essendo stata colpita da un'attacco apopletico nelle gambe — Passai parte di quella giornata, accanto al letto della Signora — Io sopra un sofà — e benchè alquanto migliorato in salute, ero obligato di rimanermi sdrajato e senza moto — Doña Manuelita di Saenz, era la più graziosa, e gentile matrona, ch'io m'abbia veduto — Essa era stata l'amica di Bolivar, e conosceva le più minute circostanze della vita, del grande Liberatore dell'America centrale — la di cui vita intiera, consacrata all'emancipazione del suo paese, e le virtù somme che lo adornavano, non valsero a sottrarlo al veleno della lingua mordace dell'invidia, e del gesuitismo, che ne amareggiarono gli ultimi giorni — E sembra la storia di Socrate, di Cristo, di Colombo! Ed il mondo rimane sempre preda delle miserabili nullità che lo sanno ingannare! Dopo quella giornata ch'io chiamerò deliziosa — dopo tante angosciose — passata nella cara compagnia dell'interessante invalida — io la lasciai veramente commosso — Ambi cogli occhi umidi — pressentendo senza dubbio: esser cotesto — per ambi — l'estremo addio su questa terra — M'imbarcai nuovamente col vapore — e giunsi a Lima lunghesso la bellissima costa del Pacifico — Ho detto bellissima, parlando del littorale occidentale dell'America, da Panama a Lima — ed avrei dovuto dire pittoresca — giacchè quella costa se eccetuati i punti di Panama, Guayaquil, Païta e Lima — offre nella maggior sua estensione, dei tratti che somigliano alle aride arene dell'Africa — Comunque la parte verde, somiglia agli Oasis — e cosa stupenda: in quel paese ove rarissime sono le pioggie ed insignificanti — l'acqua dolce zampilla vicinissima all'Oceano — e basta dovunque cavar pochi palmi, per trovarla abondantissima — Le Ande veri giganti della terra — poco distanti dal littorale, sono il serbatojo di quelle acque purissime tesoro del paese — forse più prezioso dei ricchi metalli che vi abbondano tanto — Io mi aspettavo di trovare — in quel versante della grande catena Americana — più animata vegetazione — e meno desolanti deserti di sabbia — e me lo era ideato più bello assai il paese alle falde delle alte Cordigliere — Nato io stesso alle faldi delle Alpi, cercavo, invano, dal mare, una vallata deliziosa, da poter paragonare a quella della bella mia Nizza! Comunque, assai pittoresca, è quell'interessante costa — non tutta bella — ma con pezzi bellissimi — come Lima — e la Valle del Paradiso — Valparaiso! A Lima ove trovammo il _S. Giorgio_ — io ebbi splendida accoglienza da cotesta ricca e generosa colonia Italiana — e massime dalle famiglie Sciutto, Denegri, e Malagrida — Il Sig. Pietro Denegri mi diede il comando della _Carmen_, barca di 400 tonnellate, e mi preparai per un viaggio in China — Il mio amico Carpanetto partì da Lima col _S. Giorgio_ per recarsi nell'America centrale — a prendervi il carico da lui preparato — Io non dovevo più rivedere quel carissimo uomo — a cui io andavo debitore di tanto affetto, tante gentilezze, e forse della vita — Egli moriva alcuni anni dopo di cholera, senza aver potuto ultimare le spedizioni che avea iniziato con tanta speranza e tanta sagacia — e che non fruttarono che amare delusioni, e la morte — in contrade tanto lontane dall'Italia sua ch'egli idolatrava — Mi successe a Lima un fatto dispiacevole — prima d'imprendere viaggio — Io abitava nel principio del mio soggiorno a Lima in casa del Malagrida — ove convalescente ancora dalle febbri, io ebbi una cura ed assistenza veramente gentili da lui, e dalla cortese sua signora — In quella casa giungeva qualche volta uno di quei Francesi che professano il _chauvinisme_ — Io, poco accostevole di natura — e scorgendo cotesto individuo molto propenso a parlare — scansavo di legar conversazione con lui — quanto possibile — Un giorno però giunse a pigliarmi — e mi portò mio malgrado sul tema della spedizione Romana eseguita dall'esercito Bonapartesco — Tale argomento mi riusciva naturalmente tedioso — e procuravo di cambiarlo — ma inutilmente — ed egli non solamente si ostinò a continuarlo — ma straripò in termini poco decorosi agli Italiani — Io risposi con parole un po' aspre — trattenendomi nei limiti della decenza convenevole alla casa in cui io mi trovavo, e lì finì l'incidente — Pochi giorni dopo — trovandomi al Callao — porto di Lima — a bordo della _Carmen_, occupato ai preparativi del mio viaggio — mi giunse un giornale di Lima in cui quel _Chauvin_ m'insultava — Non feci parola — ma alla sera del Sabbato, in cui terminavano i miei lavori — me ne andai a Lima, cercai della casa sua — era un gran magazzeno — vi entrai — chiesi a lui se mi conosceva — ed alla sua risposta affermativa li diedi quattro bastonate con una canna leggiera che portavo di solito — siccome nel calore della cosa però, non mi ero curato s'egli fosse accompagnato o solo — mi trovai ad aver da fare con due antagonisti più robusti di me — Il nuovo arrivato vedendomi impegnato col suo compagno, mi amministrò una bastonata per di dietro sulla testa che mi coprì il volto di sangue, e nello stesso tempo cercava di ferirmi con uno stocco da tergo — Io vacillai per un pezzo — stordito — e fui sul punto di cadere — cadendo io ero morto — ed i miei avversari erano giustificati dall'atto mio d'averli assaliti in casa propria. Non cadetti per fortuna! E riscaldato dal sangue mio che m'inondava il volto — diventai furente — disarmai uno dei due — il più forte avversario — l'altro cominciò a fuggire nell'interno — certo più spaventato dello stato mio d'eccittamento — che dalla mia forza — e subito fu seguito dal secondo — Io rimasi padrone del campo di battaglia — in uno spazioso magazzeno di merci che non mi appartenevano — e cercai ricovero altrove — Degno di menzione, è l'amore dei miei concittadini, manifestatosi in tale circostanza — verso di me. La polizia di Lima eccitata da un furibondo console Francese — voleva violentemente arrestarmi ma il contegno degli Italiani le tolse tale voglia — Essi si mantennero dignitosi — ma v'eran tutti — e Lima li contava a migliaja — tutta gente forte, e ben disposta — Tutti vennero alla riscossa — e dissero rispettosamente al commissario di polizia che non m'arrestasse — Il commissario fece molto schiamazzo, ma non mi arrestò — attorniato com'era, da quella folla d'uomini — tranquilli, ma risoluti nel loro proposito — Il console Francese esigette da principio, una soddisfazione dal governo Peruano — che si formolava nientemeno: che in una multa, ed in parole di scusa da parte mia — Il console sardo Canevarro, era l'intermediario di quelle trattative — e non mancò d'interessarsi a me — Infine si conchiuse la cosa, senza multa, e senza parole di scusa — Quando io penso alle nostre colonie Italiane dell'America meridionale — vi è veramente da andarne superbi — Quei nostri conterranei sulla terra libera di quelle Republiche — mi sembrano, valer più assai che nelle nostre contrade — Il prete sotto codesto cielo benedetto — striscia da rettile, come dovunque — ma sui nostri non ha dominio — e pochissimo sui figli di quel paese prediletto — I governi, non sempre son buoni — ma interessati come sono a fomentare l'immigrazione straniera — la proteggono, massime d'Italiani, che tanta affinità hanno colla razza Iberica — Nell'America meridionale l'Italiano è generalmente laborioso ed onesto — quando qualche perverso si presenta, i nostri lo tengan d'occhio — e se fallisce non son tranquilli — finchè non sia cacciato dal loro consorzio — La parte marina poi, di codesta nostra emigrazione, è poco conosciuta, massime dal governo Italiano — ma certo, essa si compone della frazione più energica dell'immensa marina nazionale — massime Ligure — di cui detto governo non ha saputo trar partito sin'ora — e che in nessun tempo — dev'essere inferiore alle marine mercantili o da guerra dei nostri vicini — Veleggiai poco dopo, colla _Carmen_ — verso le isole di Cincia, a mezzogiorno di Lima — ove si caricò guano — destinato per la China — e tornai al Callao per le ultime disposizioni del lungo viaggio — Il 10 gennaio 1852 salpai dal Callao per Canton — Impiegammo circa 93 giorni nel viaggio — sempre con vento favorevole — Passammo alla vista delle Isole di Sandwich — ed entrammo nel mare di China tra Luzon e Formosa nelle Filipine — Giunto a Canton, il mio consegnatario mi mandò a Amoy — non trovandosi a vendere il carico guano nella prima piazza — Da Amoy tornai a Canton — e non essendo pronto il carico di ritorno — caricai per Manilla differenti generi — Da Manilla tornai a Canton — ove si cambiarono gli alberi della _Carmen_, trovati guasti — ed il rame. Pronto il carico — lasciammo Canton per Lima — Dagli studi fatti dei venti regnanti — sulle due linee da percorrere per tornare a Lima — l'una al nord in cerca dei venti variabili di quell'emisfero — l'altro al sud, passando fuori dell'Australia — io scelsi la seconda — Nella zona torrida, che sarebbe di 46° 56′ coll'equatore in mezzo — e che più generalmente si può calcolare sino a 60° — poichè le brezze per lo più si estendono a 30° di latitudine d'ogni lato dell'equatore — Nella zona torrida dico — ove le brezze soffiando da levante a ponente, con eterna costanza — chi tentasse di traversare diritto da Canton a Lima — non ultimerebbe il viaggio nemmen se fosse carico di viveri, poichè avrebbe sempre contrari, venti e maree — Allontanandosi invece da cotesta zona verso i poli, si va colla quasi certezza di trovarvi dei venti variabili — e che generalmente soffiano da ponente a levante — massime se si oltrepassano i 50° gradi di latitudine in un emisfero o nell'altro — Veleggiammo verso il mare d'India — ed uscimmo dall'arcipelago Indiano per lo stretto di Lombok — dopo d'aver bordeggiato con alcune difficoltà in quelli stretti, avendo trovato la Monsoon[79] del Sud Ouest, ancora attiva — Nel mare Indiano — fuori di quello stretto, trovammo le brezze costanti da levante — a pochi gradi di distanza — Presimo le mura a sinistra,[80] e continuammo così, sino verso i 40° gradi di latitudine meridionale — ove trovati i venti da ponente, seguimmo per lo stretto di Bass — tra l'Australia e Van-Diemen — In codesto stretto, aprodammo in una delle Hunter Islands, per avere dell'acqua. Vi trovammo uno stabilimento, lasciato di fresco da un Inglese colla moglie — per motivo d'esservi morto il compagno — notizia, che ci diede una tavola eretta sulla di lui tomba — ed ove era scritta sommariamente la storia della colonia — «I conjughi» diceva la iscrizione; «intimoriti di trovarsi soli in quell'isola deserta, l'abbandonavano per passare a Vandiemen» — Il più importante dello stabilimento era una casetta rozza — ma comoda — d'un piano — industriosamente costrutta, ove si trovavano tavole, letti, sedie, ecc., non di lusso certamente, ma con quell'impronta d'agiatezza, così naturale agl'inglesi — Un orto, per noi, il più utile ritrovato — poichè, vi trovammo delle patate fresche — ed altra ortaglia, di cui fecimo abbondante provvista — Isola deserta dell'Hunter Islands — quante volte tu m'hai deliziosamente solleticato l'immaginazione — quando stuffo di questa civilizzata società — sì ben fregiata da preti e da birri — io mi trasportavo coll'idea verso quel tuo grazioso seno — ove aprodando per la prima volta fui ricevuto da uno stormo di bellissime pernici — ed ove tra secolari piante d'alto fusto — mormorava il più limpido, e più poetico ruscello — in cui ci dissettammo piacevolmente — e con abbondanza fecimo la necessaria provvista d'acqua per il viaggio — Dallo stretto di Bass, veleggiammo tra la nuova Zelanda, e _Lord Aukland land_, mettendosi poi a cavaliere del 52º di latitudine meridionale, e su cui spinti da forti venti da ponente, ci dirigemmo verso la costa occidentale dell'America — Avvicinando quindi detta costa — dopo molti giorni di prospera navigazione — obliquammo a sinistra verso la zona torrida, cercando i venti generali, che soffiano eternamente dal Sud-Est — e che ci condussero a Lima, dopo una traversata di circa 100 giorni — Negli ultimi giorni si scarseggiò di viveri, per cui si mise la gente alla razione per previdenza — Si sbarcò il carico a Lima, e si partì in zavorra per Valparaiso — ove giungendo, si noleggiò la _Carmen_ per un viaggio dal Chilì a Boston con rame. Aprodammo in vari porti della costa di Chilì: Coquimbo, Guasco, Herradura — e si terminò il carico con lana sopra il Rame, a Islay (Perù). Partimmo da Islay, veleggiammo a mezzogiorno per il capo di Horn, e dopo una traversata molto tempestosa nelle alte latitudini giunsimo a Boston — Da Boston ebbi ordine di andare a New York — ove giunto ricevetti una lettera, con alcuni rimproveri dal proprietario della _Carmen_ — che mi sembrò, non meritare — e per cui lasciai il comando di detto legno — Io devo agiungere, sul conto di D.n Pedro Denegri padrone della _Carmen_: esserne stato trattatto con molta gentilezza, in tutto il tempo ch'ebbi la fortuna di servirlo — Ma un Tersito — parasita, che s'era introdotto in casa sua, era pervenuto a mettermi in sospetto col principale. Rimasi alcuni giorni ancora a New York, godendo la cara compagnia dei miei preziosi amici Foresti, Avezzana, e Pastacaldi — ed in quel mentre, essendo giunto nel porto, il Capitano Figari, con intenzione di comprare un bastimento — mi propose di comandarlo per condurlo in Europa — Io accettai, e fummo col Capitano Figari a Baltimore, ove si acquistò la nave _Commonwealth_ — si caricò di farina e grano — e veleggiai per Londra, ove giunsi in Febbraio del 54 — Da Londra andai a Newcastle ove caricammo carbon fossile per Genova — e giunsimo in quest'ultimo porto il 10 Maggio dello stesso anno — Giunto a Genova ammalato di reumatismi, fui trasportato in casa del mio amico, Capitano G. Paolo Augier — ove ricevetti ospitalità gentile per 15 giorni — Da Genova passai a Nizza, ove ebbi finalmente la fortuna di stringere al seno i miei figli — dopo un esiglio di cinque anni — Il periodo decorso, dal mio arrivo a Genova in Maggio del 54 — sino alla mia partenza da Caprera in Febbrajo 1859 — è di nessun interesse — Io lo passai: parte navigando — e parte coltivando un piccolo possesso — da me acquistato nell'isola di Caprera — 2º Periodo. CAPITOLO XI. Ritorno alla vita politica. In febbrajo 1859 — io fui chiamato in Torino dal conte di Cavour, col mezzo di Lafarina — Entrava nella politica del gabinetto Sardo, allora in trattative colla Francia — e disposti a far la guerra all'Austria — di accarezzare il popolo Italiano — Manin, Pallavicino, ed altri distinti Italiani, cercavano di avvicinare la democrazia nostra alla dinastia Sabauda — per giungere, col concorso della maggior parte di forze nazionali — all'adempimento di quell'unificazione Italica — sogno di tanti secoli delle menti elette della penisola — Credendo: io avessi conservato alcun prestigio nel popolo — il conte di Cavour onnipossente allora mi chiamò nella capitale — e mi trovò certamente docile all'idea sua, di far la guerra alla secolare nemica d'Italia — Non m'ispirava fiducia il suo alleato — è vero — ma come fare: bisognava subirlo — Pesa sull'Italia — come un incubo — una terribile coscienza di debolezza — frutto, certo delle discordie, e dell'educazione pretina — che non manca di padroneggiare, anche oggi — ultimi giorni del 59 — un gran numero degli ammoliti figli dell'Ausonia — massime nelle classi assuefate agli agi della vita — Bisogna arrossire, ma pur confessarlo: colla Francia per alleata, si faceva la guerra allegramente — senza di essa — nemmen per sogno! Tale era l'opinione della maggioranza di codesti degeneri figli del grandissimo popolo — E tuttociò per non sapere — o non volere — far uso degli elementi nazionali a disposizione — e d'esser sempre la causa del nostro povero paese — in mano, a malvagi — o della casta delle dottrine — assuefata ad argomentare con lunghe ciarle — ma non ad oprare gagliardamente — Un popolo disposto a non piegar il ginocchio davanti allo straniero è invincibile — e non abbiam bisogno di andar lontani per cercar degli esempi che lo provino: Roma dopo la perdita di tre grandi battaglie — e col terribile suo vincitore alle porte — faceva sfilare le sue legioni alla vista d'Annibale — e le mandava in Spagna! Si trovi un esempio simile in qualunque storia del mondo! E quando si è nati sulla terra di tali portenti — colla fronte alta si ponno sprezzare le tracotanze straniere! Del governo, vedevo il solo Cavour, a Torino — L'idea di far la guerra col Piemonte all'Austria, non era nuova per me — nè quella di far tacere qualunque convincimento politico — allo scopo di far l'Italia comunque sia — Era quel programma — lo stesso, che fu adottatto alla nostra partenza da Montevideo per Italia; e quando la bella risoluzione di Manin e Pallavicino — di unificare la patria Italiana con Vittorio Emanuele, mi fu comunicata a Caprera — essa mi trovò collo stesso credo politico — ¿E non fu tale il concetto di Dante, Macchiavelli, Petrarca — e tanti altri nostri grandi? Io posso con orgoglio dire: fui, e sono Republicano; ma nello stesso tempo — non ho creduto il popolare sistema, esclusivo al punto, da imporsi colla violenza — alla maggioranza d'una nazione — In un paese libero — ove la maggioranza virtuosa del popolo — senza pressione — vuole la Republica — il sistema Republicano è certamente il migliore. Trovandomi dunque nel caso, di dover dare il mio voto — come mi successe a Roma in 1849 — a tale sistema — lo darei sempre; e procurerei sempre di convincere nella mia opinione le moltitudini — Non essendo possibile la Republica — almeno per ora (1859) sia per la corruzione che domina la società presente — sia per la solidarietà in cui si mantengono le monarchie moderne — e presentandosi l'opportunità di unificare la penisola colla combinazione delle forze dinastiche colle nazionali — io vi ho aderito assolutamente — Dopo pochi giorni della mia permanenza a Torino — ove dovevo servire di richiamo ai volontari Italiani — io m'accorsi subito con chi avevo da fare — e cosa da me si voleva — Me ne addolorai — ma che fare: accettai il minore dei mali — e non potendo oprare tutto il bene — ottenerne il poco che si poteva — per il nostro paese infelice — Garibaldi dovea far capolino — comparire, e non comparire — sapessero i volontari ch'egli si trovava a Torino per riunirli — ma nello stesso tempo, chiedendo a Garibaldi di nascondersi per non dare ombra alla diplomazia — Che condizione! Chiamar i volontari — e molti — per comandarne poi il minor numero possibile — e di questi coloro che si trovavano meno atti alle armi — I volontari accorrevano — ma non dovevano vedermi — Si formarono i due depositi di Cuneo e Savigliano, ed io fui relegato a Rivoli — verso Suza — La direzione e l'organizzazione dei corpi, fu affidata al generale Cialdini — Di Cuneo ebbe il comando Cosenz — di Savigliano Medici — ambi egregi ufficiali — che formarono il primo e secondo reggimento — base ed orgoglio dei cacciatori delle Alpi — Un terzo reggimento si formò pure a Savigliano con Arduino — composto anche questo delli stessi elementi — ma che non fece la buona figura dei primi per colpa del capo — Una commissione d'arruolamento, istituita a Torino sceglieva la gioventù più forte e meglio conformata — dell'età da 18 a 26 anni per i corpi di linea — I troppo giovani — troppo vecchi — o difettosi — ai corpi volontari — Nell'ufficialità si fu più corrivi — e si ebbe il buon senso d'accettare la maggior parte degli ufficiali da me proposti — Non tutti erano academici — ma quasi tutti furono secondo le mie speranze — degni della santa causa che si propugnava — Formai il mio Stato Maggiore, con Carrano, Corte, Cenni, ecc. — Come ho detto: l'organizzazione era intieramente a carico del generale Cialdini — Vari progetti, furono sbozzati dal governo, in quei primi tempi — Il primo fu: di operare io, verso il confino dei Ducati — avrebbe avuto quello — immensi risultati — ma fu presto cambiato — per timore, senza dubbio, di mandarmi a contatto di popolazioni che potevano aumentar troppo i corpi volontari — e si preferì destinarmi all'estrema sinistra degli eserciti — Cara, mi era pure, l'idea di rivedere la terra Lombarda — e quelle belle popolazioni così malmenate dalla tirannide straniera — Mi si promise da principio la truppa di finanza, e credo non passò loro per la mente i guardaciurma — Promessi pure alcuni battaglioni di bersaglieri — era troppa gente — e non ebbi mai gli uni nè gli altri — Anzi affluendo oltremodo i volontari — per paura che ne avessi troppi, si chiamò il generale Ulloa a formare i cacciatori degli Apennini — che dovean ragiungermi — e che giammai vidi — sino alla fine della guerra — Il generale Lamarmora — ministro della guerra — che sempre avea avversato l'istituzione dei volontari — si rifiutò a riconoscere i gradi de' miei ufficiali — dimodocchè vi fu l'obligo, per dare alcune legalità a quei rejetti, di ricorrere al sutterfugio di dar brevetti firmati dal Ministro dell'Interno — e non dall'eccellenza della guerra — Tutto — comunque — si soffriva in silenzio: trattavasi di far la guerra per l'Italia — e combattere gli oppressori dei fratelli nostri — Le cose politiche incalzavano — e le jattanze dell'Austria, mostravan prossimi i desiderati conflitti. Ciò, attivava alquanto l'armamento dei corpi volontari, e la loro organizzazione era spinta dall'attività del generale Cialdini — L'invasione degli Austriaci sul territorio Piemontese, non ci trovò pronti — ma disposti però sempre, a marciare comunque fosse — Fummo destinati sulla sponda destra del Po, a Brusasco — sulla estrema destra della divisione Cialdini destinata a difendere la linea della Dora Baltea — e coll'intento di coprire — lo stradale che da Brusasco conduce a Torino — Il ministero avea mandato alcuni cannoni, al vecchio Castello di Varrene — per dominare dicevasi: la strada da Vercelli a Torino — Io ricevetti ordine di occupare e difendere cotesta posizione — ciocchè avrebbe inceppato i miei movimenti, in caso il nemico si fosse avanzato — Comunque fosse — noi erimo lanciati alla liberazione della nostra Italia! sogno di tutta la vita!... Io, ed i miei giovani compagni, anelavamo l'ora della pugna — come il fidanzato quella di congiungersi a colei ch'egli idolatra — Puri di qualunque bruttura d'oro, di ciondoli, di grandezze — noi ci spingevamo: avanti — accarezzando i disagi, i pericoli, i soprusi...... ed anche gli oltraggi delle sette — che per inimicizia, o per invidia — ci insidiavano — seminando di spine il nostro sentiero — e c'insidiavano, sino a voler annientare l'assisa — il nome glorioso — acquistato su cento campi di battaglia! Sì! sino agli oltraggi, eravam decisi di tolerare, mediante ci lasciassero combattere i nemici dell'idolo nostro! Passaronsi alcuni giorni a Brusasco, a Brozolo, a Pontestura — quelle prime marcie cominciarono ad assuefarvi i militi — Si approfittava delle fermate nei vari paesi per esercitarli — assuefarli ai differenti servizi d'avamposti, di pattuglie, ecc. Essendo stato chiamato il generale Cialdini, alla difesa di Casale — noi fummo destinati ai suoi ordini. Si fece una sortita di ricognizione da quella piazza, e si videro gli Austriaci per la prima volta. In un finto attacco, fatto dai nemici sulle posizioni esterne della piazza, il secondo Reggimento agli ordini di Medici, diede prova di quanto sarebbero capaci i Cacciatori delle Alpi — caricando valorosamente gli Austriaci, e cacciandoli davanti a loro — Si distinsero in quella occasione il Capitano Decristoforis ed il sargento Guerzoni, poi sottotenente — Lo stesso giorno di quell'attacco, e poco prima che succedesse — io ero stato chiamato dal re al suo quartier generale di S. Salvatore. Egli mi ricevette benevolmente — mi diede delle istruzioni, e delle facoltà larghissime — per recarmi a coprire la capitale, mentre vi potesse esser pericolo d'un assalto imprevisto del nemico — e portarmi una volta quel pericolo svanito — sulla destra dell'esercito Austriaco per incomodarlo — Ritornai dunque verso Torino sino a Chivasso — Là trovai l'ordine, di mettermi a disposizione del generale Sonnaz, colla brigata — Ebbi occasione in quella circostanza di ammirare il valore, e sangue freddo, di quel bravo vecchio generale — in una riconoscenza, spinta sino nelle vicinanze di Vercelli — Il nemico in forte numero, usciva da cotesta città, faceva delle scorrerie, toglieva, e depredava, quanto si trovava davanti — gettando lo spavento e la desolazione, tra le popolazioni circonvicine. Negli ordini; in scritto, avuti dal re — v'era quello di chiamare a me, tutti i volontari rimasti nei vari depositi — ed il reggimento dei Cacciatori degli Apennini, composto dei giovani, venuti dalle differenti provincie Italiane, per servire ai miei ordini — Per l'invio dei Cacciatori degli Apennini — ne scrissi a Cavour — e sotto un pretesto od altro — mai volle mandarmeli, ad onta del ordine suddetto — dimodocchè, mi persuasi: che non si voleva crescere il numero de' miei militi — Vecchia rogna, cominciato a Milano in 1848 da Sobrero, seguita a Roma da Campello — quando decretava: che il corpo da me comandato, non potrebbe oltrepassare il numero di cinquecento uomini — e continuato da Cavour nel limitarmi ai tre milla — La composizione dei tre reggimenti, era di sei battaglioni, ciascuno di 600, formante un totale di 3600 — ma i depositi, e la poca assuefazione alle marcie dei miei giovani militi, li aveva ridotti, prima di passare il Ticino a tre milla — Il Re, che se non avesse il difetto d'esserlo — ciocchè lo spinge e lo tuffa in molte più colpe — ma che, di coloro che lo attorniavano nel 59 — non era certo il peggiore — il re dico: inviò un second'ordine di marcia verso il lago Maggiore per operare sulla destra dell'esercito Austriaco — Ciò non piacque forse alla camarilla — ma a me moltissimo — e mi trovavo quindi libero nelle mie manovre — posizione che mi valeva un tesoro — Mi congedai dunque, dal prode mio vecchio generale — a cui già mi legava un vero affetto — e marciai a Chivasso e di là a Biella — L'accoglienza brillante e simpatica, fatta dai Biellesi alla mia gente, fu di buon augurio — Soggiornammo un giorno o due in quella cara città — e seguimmo poscia per Gattinara — I nemici da Novarra — avendo sentito che mi dirigevo a quella volta — mandarono una ventina di soldati per tagliar la corda del Porto della Sesia — ma una guardia nostra, situata in quel porto ne impedito l'atto a fucilate — Qui non è fuori di proposito, accennare ad un fatto ben vergognoso per noi Italiani — e che le popolazioni non devono permettere — perchè disonorevolissimo — nei paesi ove ciò succede — È vero che il sistema di terrore adottatto dagli Austriaci in Italia — aveva intimorito le popolazioni sommamente — e quello di Cavour: d'ordinare il disarmo delle guardie nazionali ai confini era inqualificabile — Non era quindi straordinario di veder commettere: atti di debolezza dai nostri paesani — e di prepotenza da cotesti signori ultramontani — che per tanto tempo si son creduti padroni delle case nostre, nostre sostanze, e di noi stessi — Preceduti dalla paura che avevano saputo incutere i dominatori dell'Italia, estorcevano dagli abitanti quanto volevano — ed il fatto seguente per noi, ben umiliante lo prova abbastanza — e fa tanto più stupire: che ciò succedeva fra le forti popolazioni subalpine — di tradizioni militari, ricche, e che da molto tempo possedevano un brillante esercito — La stessa ventina d'Austriaci mandati a tagliar la corda del Porto[81], non potendovi riuscire, se ne tornarono a Novara da dove erano partiti — e per non perder intieramente il frutto delle loro fatiche — requisirono, non so quanti viveri — carri per trasportarli; e s'incamminarono quindi sui carri, ubbriacchi, verso il loro quartiere — percorrendo uno spazio di quindici miglia almeno, in un paese nemico, ove le abitazioni sono agglomerate e numerose — e la gente forte e ben disposta quanto ne' più favoriti paesi del mondo — senza che venisse l'estro ad un solo Italiano — di tirare una pietrata a quell'ebbra masnada — ¡Ma questo non dovrebbe più succedere nel nostro paese perchè troppo degradante! Eppure succede: perchè il prete ha insegnato ai contadini — che non son gli Austriaci i nemici d'Italia — ma noi liberali scomunicati! Ed il governo per la _grazia di Dio_ protegge i preti! Dieci giovani di quei dintorni, che avessero deciso: di assalire quei trionfatori a bastonate — gli disarmavano, o gli uccidevano — Tanto però, può lo sconforto e l'inganno, seminati tra le popolazioni — che ne rimangono snervate, per forti e bellicose che sieno — E quelle stesse poi — all'uopo — vi danno dei militi — che ben guidati — valgono i primi del mondo — Passammo la Sesia, e marciammo su Borgomanero — Giunto in cotesto ultimo paese — io presi le mie disposizioni per passare il Ticino — A Biella già avevo conferito col prode Capitano Francesco Simonetta — sul modo di passare quel fiume — e lo aveva mandato avanti con alcuni de' suoi cavalieri — per prendervi le disposizioni necessarie a tale operazione[82] — Cotesto prode ed intelligente ufficiale, aveva uno stabilimento a Varallo Pombia — era quindi praticissimo dei luoghi che avvicinavano le sponde del Ticino — ed amato dalle popolazioni — dimodocchè egli preparò qualunque cosa per il passaggio, con una sagacia veramente ammirabile — Io conferï con pochi de' miei più distinti ufficiali sulla mia determinazione, ed in termini da far capire ch'ero risoluto a tentare senza esitazione — La mia paura — francamente — era: d'esser richiamato indietro — o d'aver qualche contr'ordine — Da Borgomanero io ordinai i viveri ad Arona — e gli alogi — persuaso, che in quel paese, non mancherebbero spie Austriache da informarne il nemico — Giunsi ad Arona colla brigata al principio della notte — entrai nel paese con alcuni cavalieri — fingendo di volervi prendere stanza — ciocchè facevano pure gli Ufficiali d'allogio, comissari e forieri — Ordinai segretamente che si prendessero tutte le precauzioni, nelle differenti avvenute del paese, acciocchè la truppa non entrasse — e la feci incamminare verso Castelletto — Giunti a Castelletto vi trovai le barche pronte al dissotto del paese — feci passare il secondo reggimento col Collonnello Medici — Tutto il resto, rimase sulla sponda destra — Il passaggio si effettuò in buon ordine — solamente siccome le barche erano un po pesanti, e molto cariche — non potendosi maneggiare facilmente, non approdavano allo stesso luogo — alcune era trasportate alquanto abbasso dalla corrente — e ciò cagionò alcun ritardo per la riunione del reggimento sulla sponda Lombarda — Finalmente, si marciò su Sesto Calende — si fecero prigionieri alcuni preposti e gendarmi — e si stabilì subito il porto, su cui continuò a passare il resto della brigata — Credo il 17 Maggio 1859 — Erimo sulla terra Lombarda! Al cospetto della potente dominatrice che da dieci anni preparava il suo esercito vittorioso — ch'essa ora credeva invincibile — a compiere ciocchè le avea mancato Novara — Forse sognando piacevolmente — di metter le ugne dell'aquila sua su l'intiera penisola — Erimo tre milla — il bagaglio era poco, giacchè avevimo lasciato il sacco della gente a Biella — I carri avevano avuto ordine di fermarsi in Piemonte — meno pochi destinati alle munizioni — Alcuni muli per le stesse, e per l'ambulanza — s'erano provveduti — dall'egregio ed instancabile Bertani, capo-chirurgo — Da Sesto Calende marciai colla brigata a Varese nella notte — Bixio col suo battaglione prese per la sponda del lago Maggiore verso Laveno — con ordine di fermarsi sullo stradale, che da quel punto mette a Varese — Decristoforis rimase a Sesto colla sua compagnia, per tenerci le comunicazioni aperte col Piemonte — questo valoroso ufficiale, fu il primo, come lo era stato a Casale, ad impegnarsi col nemico — Gli Austriaci sapendoci a Sesto Calende — mandarono una forte ricognizione — e vi trovarono Decristoforis colla sola sua compagnia — Quel prode non contò il nemico, si battè risolutamente, e dopo una onorevole pugna, ripiegò sul distaccamento di Bixio — Tale era stato il concerto — perchè, io era ben persuaso, di non poter con sì poca forza — tenere l'importantissimo punto di Sesto Calende — Gli Austriaci però — con quella loro caratteristica prudenza, non lo tennero nemmeno — e si ritirarono su Milano — Fratanto le popolazioni Lombarde si animavano — non v'era da sperare da questo buon popolo una di quelle insurrezioni decisive — terminanti — I disinganni erano stati molti, e molti i patimenti — La gioventù più animosa trovavasi la maggior parte nell'esercito Austriaco, nel nostro, in esiglio — o con noi — Ciononostante io ero ben contento della loro cara accoglienza — della premura usata per provederci i bisogni e quella di darci notizie delle mosse dei nemici, e servirci di guide, ove abbisognava — Sopratutto poi, per le cure ai nostri feriti, prodigate da quelle care donne Lombarde — L'accoglienza ricevuta a Varese, nella notte che seguì quella del nostro passaggio — è qualche cosa di ben difficile a descriversi — Pioveva dirottamente — ciononostante, io sono sicuro — che non mancava uno solo della popolazione — uomo, donna, o ragazzo — che non fosse fuori a riceverci — Era spettacolo commovente! il veder popolo e militi confusi in abbracciamenti di delirio! Le donne, le vergini, lasciando da parte, la naturale pudicizia si lanciavano al collo de' rozzi militi con effervescenza febbrile! Non eran però tutti rozzi i miei compagni — poichè molti appartenevano a distinte famiglie della Lombardia, e di altre provincie Italiane — Ma Italiani tutti — legati al patto santo dell'emancipazione patria, come a Pontida — La manifestazione d'affetto del caro popolo di Varese per il primo in quel periodo — era tanto più soddisfacente: che si era certi, non vi si trovavano persone compre — vociferazioni ufficiali, o birresche! E cosa sono i disagi, le privazioni, i pericoli — quando sono compensati così — dall'affetuosa gratitudine d'un popolo che si redime! Contemplino, per un momento, questo spettacolo, i freddi, egoisti, insaziabili mercanti di popoli — e se non si commovono — rinunzino essi a far parte dell'umana famiglia a cui non son degni di appartenere! Varese avea rovesciato lo stemma imperiale — sostituendovi il vessillo nazionale, pria del nostro arrivo — avea disarmato alcuni gendarmi, e preposti imperiali — Noi erimo in una città amica, piena d'entusiasmo — e che compromessa, com'era, ci trovavamo nell'obligo di difendere — E con tre milla uomini al cospetto dell'immenso esercito Austriaco — si può difender poco — Di più dovendo stare alla difesa d'una città — si perdeva quella mobilità indeterminata, occulta — che costituiva la parte più preziosa della nostra esistenza su d'un fianco del nemico — Varese ha delle posizioni forti, come Bium, per esempio e potrebbe esser difesa da forze superiori — mediante alcune fortificazioni che non v'erano — S'innalzarono delle barricate, nelle principali entrate della città — e si cominciò ad armare alcuni cittadini, colle armi da loro stessi prese ai nemici — Urban, generale Austriaco, era il destinato all'esterminio nostro — Le prime notizie ch'io ebbi di quel feroce nemico, venendo dalle parti di Brescia — erano nientemeno ch'egli comandava a quaranta milla uomini — V'erano nemici a Laveno — e s'avanzava un corpo dalla parte di Milano — V'era proprio da aver i brividi — L'obligo di difendere la città di Varese, per non esporla al castigo di Urban — che si diceva inesorabile — mi poneva in qualche aprensione — Libero di movermi in qualunque senso, fuori della città — io, poco avrei temuto i numerosi nemici — ma nell'obligo di aspettarli a punto fisso, in una città non fortificata e senza un cannone — quindi poco o niente preparati a seria difesa, era cosa poco tranquillante — Però non v'era rimedio — per tanti motivi, non si poteva abbandonare Varese — e conveniva decidersi ad aspettarvi il nemico a qualunque costo — Una volta decisi, poi, ogni timore era scomparso — Il collonnello Medici col secondo reggimento, occupava lo sbocco della strada di Como, cioè la nostra Sinistra — Il collonnello Arduino, il centro, col terzo — Ed il collonnello Cosenz col primo la destra — cioè: lo stradale che viene da Milano — Io era sulle alture di Bium superiore colle riserve — Si conosceva l'arrivo d'Urban a Como — ed altri movimenti di truppe dalla parte di Milano — che senza dubbio, dovevano esser combinati con quelli del primo — Medici che ad un valore a tutta pruova — riunisce molta sagacia militare, aveva coperto l'ala sua, con quante opere, si poterono effetuare in quei pochi giorni — e ben valsero — giacchè quel punto, fu veramente l'obbiettivo su cui Urban venne a cozzare, con tutta la sua potenza — Nella mattina del 25 Maggio, apena giorno — si scoprì la collonna nemica, che si avanzava su Varese dallo stradale di Como — Il Capitano Nicolò Suzini, che colla sua compagnia era stato mandato in imboscata, alla distanza di circa un miglio dalla città — in un caseggiato di campagna dominante lo stradale — ricevette per il primo il nemico, e con molta bravura — Dopo d'averlo fucilato per un pezzo, a poca distanza, si ritirò sulla nostra destra — Dopo quel primo ostacolo — Urban formò la sua collonna d'attacco per lo stradale — e preceduta d'alcune linee di tiratori — la lanciò contro la nostra sinistra, che la riceveva dalle posizioni antecedentemente preparate — col sangue freddo da veterani — Io feci sostenere quell'ala da due compagnie del primo reggimento, battaglione Marrocchetti — Il conflitto durò poco — dopo d'averli ricevuti a brucia pelo — i prodi cacciatori del secondo reggimento animati dai valorosi Medici e Sacchi — saltaron fuori dei ripari — e caricarono i soldati dell'Austria alla bajonetta — facendo loro rifare la strada da dove eran venuti — assai più celeremente — Io mi ero figurato: che l'attacco non si sarebbe limitato al fronte solo della nostra sinistra — e che secondo tutte le regole per assaltare una posizione come quella di Varese — si avrebbe dovuto: simulare se si voleva sulla strada principale della sinistra — ma portare le massime forze a rovescio — ossia al nord di Bium — ove il terreno è dominante — Urban invece attaccò il toro per le corna — e tanto meglio per noi — che pochi come eravamo — avevam bisogno di non esser distratti con combinazioni d'assalti su vari punti — e dalla parte di Milano ove esistevano delle forze nemiche considerevoli — Dall'alto di Bium — ove avevo posto il mio quartier generale — posizione dominante — e preziosa per padroneggiare un campo di battaglia — io scoprivo perfettamente ogni mossa del nemico, e nostra — e la parte posteriore — cioè la settentrionale che non potevo scoprire — la feci esplorare dal capitano Simonetta colle sue guide — servizio di cui ero perfettamente sicuro — Assicuratomi, che di nient'altro si trattava, che dell'attacco di fronte sulla nostra sinistra — io scesi da Bium, e feci seguire le persecuzioni del nemico — dando ordine al resto della brigata di continuare in buon'ordine il movimento — I nemici co' due pezzi d'artiglieria di cui s'eran serviti all'attacco di Varese — ed un plottone di cavalleria di scorta agli stessi — si fermavano ad ogni conveniente posizione — ma continuavano a ritirarsi al primo aparire dei nostri — quantunque male si perseguita un nemico che possiede le tre armi — senza cannoni e cavaleria — Solo nella posizione di S. Salvatore, passato Malnate, gli Austriaci fecero testa — In quel punto, successe un combattimento accanito a fucilate — ove si distinsero i prodi carabinieri Genovesi — I nemici da una parte d'un burrone perpendicolare alla strada, ed i nostri dall'altra. Noi ebbimo più feriti in quest'ultimo, che nel primo combattimento — essendo la posizione del nemico dominante, e coperta da folto bosco — Il nemico, borioso di quel vantaggio — procurato dai cannoni, e da moschetti superiori ai nostri — fece avanzare, sulla nostra sinistra, un corpo di fanti — che ci caricò energicamente — e la fece ripiegare alquanto — Ma essendo stata occupata dai nostri una cascina — che dominava quella parte del campo di battaglia — e codesti vedendosi sostenuti da riserve che marciavano in soccorso — caricarono con tanto vigore il nemico, che lo precipitarono nel burrone, da dove non si vide più comparire — La posizione occupata dagli Austriaci, dall'altra parte del burrone suddetto, era formidabile, e dominava la strada — Di fronte, era temerario attaccarla — ed io meditavo il modo di poterla girare — ciocchè non era impossibile — essendo rimasti tranquillamente padroni della cascina descritta, dominante la nostra sinistra — e da cui quasi coperti, potevimo varcare la parte superiore del burrone, e fiancheggiare il nemico per la sua destra, senza che ce lo potesse impedire — Ero deciso a quest'ultimo espediente — quando mi giunse come un fulmine, la notizia, che una forte collonna nemica, sulla sinistra nostra, marciava su Varese — Io rimasi veramente mortificato — e dicevo tra me stesso: possibile che la fuga di Urban, altro non sia stato che uno stratagemma! N'ero indispettito oltremodo — ed immediatamente, mandai ordine al collonnello Cosenz, che formava la riserva, di marciare su Varese — occuparlo militarmente e difenderlo a tutt'oltranza — Io feci colla brigata, una marcia di fianco sulle alture di sinistra per ingannare il nemico — che non poteva conoscere: se tale marcia era eseguita per girarlo — e quando giunto al coperto della montagna, si obliquò a sinistra per un sentiero che conduceva a Malnate — ove si riunì la gente per marciare su Varese, senza perdita di tempo — La notizia della collonna nemica, marciando su Varese esistendo sempre — io n'ero un po sorpreso — tale collonna, non solamente era stata veduta dai contadini, e da militi — ma da ufficiali superiori — Finalmente si giunse a Varese — e non se ne parlò più — quell'idea svanì tra le acclamazioni del buon popolo — e fu come una nube nera cacciata dall'entusiasmo cittadino — Io mi figuro: che veramente aveva esistito tale collonna, e credo in questo modo: Attaccando Urban, col grosso delle sue forze, la nostra sinistra a Varese — doveva aver mandato, per girarci — come attacco combinato, la forza che s'era veduta, e di cui avevo avuto notizie da S. Salvatore — Tale combinazione riuscì, come molte combinazioni di notte — o come certe di giorno — in luoghi ove non si conosce bene il terreno — cioè: di molto difficile riuscita — Una combinazione d'attacchi di notte — con varie collonne — per riuscire, abbisogna di molte circostanze favorevoli — e gran pratica del terreno con buone guide — una perizia a tutta prova, per chi conduce le collonne — una milizia che non sia molto novizia — e finalmente un terreno con meno ostacoli di quello che da Varese conduce a Como — o alle Alpi — Poichè, allontanandosi destra o sinistra dalle strade, si cade in sentieri difficilissimi — Tale, credo, fu il motivo dell'apparizione della strana collonna — altro che una forza traviata — forza ch'era stata destinata a girarci per la nostra sinistra — e che vedendosi ingolfata in burroni sconosciuti — avea procurato di uscirne — movendosi in varie direzioni — e finalmente spossata — s'era gettatta in alcuna valle recondita per riposarsi — Questa fu la conclusione da me dedotta — dai vari rapporti avuti su questa forza nemica — e se la gente nostra non fosse stata stanca — io avrei inseguito certamente quei traviati — con molta probabilità di catturarli — Codesti fatti succedono nel nostro paese — ove i preti insegnano ai contadini: esser la loro patria il cielo — non l'Italia — che insegnano ad odiare! e gli eretici liberali che insegnano a maledire — ed a benedire i liberatori Chauvins od Austriaci! E lo dico con anima amareggiata: «anche oggi — sventuratamente, succederà lo stesso — perchè il prete non si mette al suo posto — ed oggi, come sempre — egli insegna ad amar lo straniero ed odiar l'Italia! Se quella masnada Austriaca — si fosse trovata invece, in un paese — ove s'insegna al contadino d'amare una patria che lo fa prospero — essa sarebbe stata certamente distrutta, od obligata di posar le armi — Si raccolsero tutti i feriti nostri ed Austriaci — e s'inviarono a Varese — I prigionieri — che giustamente potevano pagare col loro sangue — quello dei nostri preziosi — assassinati dall'Austria — Ciceroacchio — Ugo Bassi — e tanti — furono invece trattatti con cure — forse più gentili ancora — dei nostri stessi. Ciò non monta! Italia ben fa d'esser umana co' suoi carnefici! Il perdono è l'apannagio dei grandi — e la nostra bella patria — lo sarà grande — quando sanata dalla nera, scrofolosa genia — dei gesuiti e gesuitanti — Marciammo quindi su Varese, con tutta la brigata, per lasciar riposare la gente — che molto abbisognavano di riposo — Era questo, il primo combattimento per i nostri cacciatori delle Alpi — ed essi vi avevano spiegato un valore al dissopra d'ogni aspettazione — Militi giovani e nuovi alla pugna per la maggior parte — avevano combattutto con truppe regolari — ed educate a disprezzar gl'italiani — e le avevan fugate in ogni incontro — Io augurai bene da questa prima vittoria — Le nostre perdite erano state comparativamente insignificanti, — per ciò che riguarda il numero — ma importanti, sensibili...! considerando la classe d'individui, che si perdevano — poichè la maggior parte degli uomini che mi ubbidivano — erano — non solo giovani di famiglie distinte ed educati — ciò era il meno — poichè gli educati ed i distinti — come i proletari — devono pagare il loro tributo alla patria — ma vi si trovavano nelle fila — come semplici militi, delle celebrità artistiche distintissime — Bella e cara gioventù speranza dell'Italia — e che dovea nella ventura epopea del suo risorgimento — dar gli uomini che compirono Calatafimi — Monterotondo, e Dijon — Tra i feriti non s'udiva un lamento — e se qualche grida si udivano — tra gli operati dal ferro chirurgico — quello era il grido di: «Viva l'Italia!» E quando un popolo giunge a questo punto: le tiare — le prepotenze dello straniero — e la tirannide domestica ponno far fagotto — Tra i morti v'era pure un figlio — il suo primo perduto — di quella donna — per cui la posterità, confonderà questo periodo di miserie — coi giorni più gloriosi di Sparta e di Roma! — Un figlio dell'incomparabile madre dei Cairoli — la matrona Pavese — Il più giovane dei tre ch'essa aveva mandato — Ernesto — cadeva — combattendo, rotto il petto da piombo Austriaco — sul cadavere d'un tamburino nemico ch'egli aveva ucciso di bajonetta! Mi passò per la mente tutta l'afflizione di quella madre, sì buona! si affetuosa per i suoi figli — e per chi aveva la fortuna di avvicinarla! Io m'incontrai lo stesso giorno, collo sguardo del maggior fratello... Benedetto — valoroso e modesto ufficiale!... caro, come tutta quella cara famiglia — I suoi occhi si fissaron nei miei — ma... una sola parola non usci da ambedue — solo io lessi in quel malinconico sguardo — «mia madre!....» e pensai io pure a tutta la somma di dolori che si preparavano a quella generosa! E quanti altri di cui non conoscevo le madri — giacevano su quel campo di strage — o mutilati e morenti, col desiderio di veder ancor una volta la desolata genitrice! Poveri giovani! O piutosto felici giovani! il di cui sangue riscattava l'Italia da lungo servaggio — e per sempre! Le generose donne di Varese — supplivano all'assenza dei parenti! Donne Italiane!... io scrivo commosso vedete: e lo credereste: ho pianto nel narrarvi della Cairoli — sarà debolezza — prendetela come volete — eppure ne ho già veduto dei campi di battaglia e feriti, e morenti, e cadaveri — e mi sento ancora, permettetene la presunzione, non più forte come lo ero a vent'anni — ma fervido d'anima, come lo ero allora — ove si tratti di tempestare per questa sacra terra! Dio mi conceda di chiuder gli occhi pronunciando l'ultimo accento: «Essa è libera tutta!» Sì! le donne di Varese, supplivano alle madri dei nostri feriti — e bisogna confessarlo — anche i feriti nemici, dividevano le cure di quelle sante donne — Io sono in dubbio: se fu il 25, o il 26 Maggio — il giorno del combattimento di Varese — pare certo però: che il 27 si marciò su Como — Io sapevo quanto vale: attaccare un nemico sconquassato da una prima batosta — per forte ch'egli sia — e non ne volevo perder l'occasione — Marciammo dunque per Como da Varese, nella mattina del 27 Maggio, per la strada di Cavallasca — e giunsimo in cotesto paese dopo mezzogiorno — La gente avea marciato molto ed era stanca — Ma l'ora era propizia: all'avvicinar della notte si può attacare anche una forza superiore, con meno pericolo — massime in posizioni montane, come quelle che dovevan servir di teatro alle nostre imprese — ed ove la cavalleria, ed artiglieria, possedute dal nemico avevan poca eficacia. Lasciai dunque riposare la gente — e cominciai a prendere tutte le informazioni possibili, sulle posizioni occupate dal nemico, la sua forza, ecc. — ed avendo notizie ch'egli occupava in numero, la forte posizione di S. Fermo, ch'io stimai subito esser la chiave di tutte le altre — destinai alcune compagnie agli ordini del bravo capitano Cenni — per girare tale posizione sulla sua destra — Il secondo reggimento attaccherebbe di fronte — subito che le compagnie fiancheggiatrici, avessero avuto tempo di portarsi sul fianco nemico — Passato il tempo determinato — il collonnello Medici fece attaccare colla solita bravura la fronte della posizione — mentre Cenni colle compagnie suddette l'attaccava di fianco — Il nemico sostenne intrepidamente il nostro attacco — e si battè con ostinatezza e valore — La posizione era forte — dominante, e con fortissimo recinto — ed il combattimento durò accanito per circa un'ora — Finalmente, avvolti da tutte le parti, gli Austriaci cominciarono a cedere, fuggire ed una parte arrendersi — Questo primo sollecito successo — ci rese padroni di tutte le posizioni dominanti — e ben valse — perchè gli Austriaci si avanzavano grossi dalla Camerlatta e da Como — in soccorso dei loro distaccamenti nelle alte posizioni — Medici alla destra, Cosenz alla sinistra — apogiati da alcune compagnie del terzo reggimento guidate dai prodi maggiori Bixio e Quintini — respinsero il nemico su tutti i punti — Il fuoco dei bravi carabinieri Genovesi — colle loro armi di precisione — contribuirono molto al successo della giornata — I nemici eran molti — ed i nostri valorosi cacciatori, non ebbero che la superiorità del terreno, guadagnato col loro primitivo slancio — Eran respinti gli Austriaci — però con un terreno montano come quello su cui si combatteva — essi trovavan sempre una posizione da tenersi fermi — e qualche volta da respingere i nostri militi, che da troppo vicino li incalzavano. La stessa configurazione del terreno, impediva di poter scorgere uno spazio grande del teatro della pugna — e spesso si aveva notizia d'un impegno parziale dalle fucilate che si udivano — Dall'alto si vedevan le forti riserve del nemico, schierate in buon ordine, nel piano sottostante — e le sue artiglierie — 12 pezzi — che a nulla li servirono — Dopo i combattimenti narrati, e venendo la notte, io procurai di riunire le nostre forze, molto sparse e divise dalle ineguaglianze del terreno — e dalla moltiplicità delle pugne — Riunita la brigata, si marciò immediatamente per lo stradale che scende a Como in zig-zag — ed nemico retrocedeva — mentre noi avanzavamo — Nel borgo S. Vito si fece alto per prendervi notizie — ma era difficile trovare abitanti — scomparsi dal timore d'esser maltratatti — E finalmente fu deciso l'ingresso nella città — La popolazione impaurita — da principio — e non sapendo che truppa fosse l'invadente — giacchè oscura era la notte — si manteneva, porte e finestre chiuse — e non si vedeva una sola persona — Ma quando conobbero — all'accento della favella: esser noi! Gl'Italiani! I fratelli! Allora successe una scena — impossibile a descriversi — e che meritava esser illuminata dal sole — Fu lo scopiare di una mina — In un lampo la città fu illuminata — le finestre ghermite di popolo — e le strade ingombre — Le campane tutte tempestarono a stormo — e non contribuirono poco, io credo, a spaventare i fuggenti nemici — ¿Chi può descrivere la scena commovente di Como in quella notte — e chi può ricordarla senza esserne commosso? La popolazione era frenetica! Uomini, donne, bambini, s'erano impadroniti dei miei militi — Abbracciamenti, pianti, grida, pazzie! erano all'ordine della notte! I pochi a cavallo che con me marciavano alla testa della collonna — duravan fatica, per non esser rovesciati — e tirati giù per le gambe — massime dalle ragazze la di cui bellezza, sembrava autorizzarle a padroneggiare i concittadini liberatori! De' nemici, non si sapevan notizie certe — Chi diceva: ch'erano in tale, od in tal'altro quartiere — Chi diceva: fossero marciando verso la Camerlata — Il fatto che mentre noi entravamo da una parte — loro uscivano dall'altra — e che non trovandosi sicuri alla Camerlata, proseguirono in confusione verso Milano — lasciando dietro loro, nei depositi della Camerlatta molte vettovaglie ed armi — I poveri, valorosi Cacciatori delle Alpi — bivacarono per le vie, e piazze della città di Como — ed avevan ragione d'esser stanchi — Partiti la mattina da Varese — avevan marciato tutto il giorno — e poi combattutto, e marciato ancora la metà della notte — Ed era un prodigio per giovani non fatti alla fatica delle marcie — L'amor sacro di patria, poteva solo sostenere in piedi quella magnifica gioventù Italiana — Io la feci da veterano: dopo d'aver combinato la formazione d'alcune barricate — allo sbocco di strada verso la Camerlatta — e d'aver contemplato commosso d'affetto, i miei stanchi compagni — sdrajati nelle strade e sulle piazze, io accettai per un momento un'asilo offertomi, credo: in casa Rovelli — Il nemico aveva ricevuto un forte colpo — Dalla natura del terreno, dai vari combattimenti, e dalla sovrastante notte — v'era da suporre ch'egli aveva molti dispersi — e quindi fosse demoralizzato — Così succedette veramente — Però, persuaso ch'egli contava circa 9000 uomini — 12 pezzi d'Artiglieria, e un bel po di cavalleria — e noi meno di 3000, con poche guide a cavallo — senza un sol cannone — e pensando: che la posizione di Como, in un fosso dominato da tutte le parti da formidabili alture — tuttociò mi teneva all'erta su quanto poteva succedere il giorno seguente — se avessimo avuto da fare con un nemico intraprendente — Tutti codesti pensieri turbarono il brevissimo mio riposo — e l'alba mi trovò a cavallo, marciando verso la Camerlata, per prender notizie del nemico — Egli aveva evacuato quel punto importante... fu il sommario delle notizie raccolte — e ne fui ben contento — I miei bravi militi erano spossati, al punto, da non augurar loro un combattimento per quella giornata — Si prese possesso della Camerlatta — e si occupò militarmente — I cacciatori riposarono — tutto il giorno — a loro grandissima soddisfazione — La vittoria era stata compra con alcune perdite ben sensibili! Non eran molti, i morti e feriti nostri ma di vaglia — Il prode Capitano Decristoforis, avea pagato colla vita, l'intrepidezza e lo slancio generoso — con cui avea portato la sua compagnia all'attacco di fronte della posizione di S. Fermo — ed era sensibilissima perdita questa — Giovane, bello, modesto com'una fanciulla — egli aveva tutte le doti che fanno gli eroi — ed i gran Capitani — Decristoforis era della terra degli Anzani, dei Daverio, e dei Manara — era come loro nato in terra serva — ma avea provato come loro: che un popolo generatore d'uomini di quella tempra — deve servir a nessuno! Come loro: eran poca cosa la bravura, il valor personale, accanto alle brillanti qualità dell'anima, che lo adornavano — e la patria dei Scipioni, e dei Gracchi — la nazione che conta i Vespri e Legnano — ponno esser deviate compresse per un momento — per un momento calpestate dalla prepotenza straniera — o prostratte dal contagio corrutore degli impostori — ma non esauste giammai, di figli tali, da far stupire il mondo — Pedotti! non della statura di Decristoforis, ch'era piccolo — ma della stessa bravura — aveva pur pagato il suo tributo alla patria — giacendo cadavere tra i valorosi che avevano assalito di fronte — Pedotti, apparteneva pure alla schiera eletta dei giovani Lombardi delle prime famiglie — che vennero al principio dell'armamento dei volontari — ad ingrossarne le fila — Egli avea largito il suo oro per la compra d'armi — e dava la vita al suo paese! Cartellieri prode come i primi della stessa schiera — s'era trovato anche lui dal 48 avanti — ovunque si pugnava per l'Italia — Giovani coraggiosi! le vostre ossa serviranno di fondamento eterno all'edifizio di questa patria — che voi avete idolatrata — e le donne delle venture generazioni Italiane, insegneranno ai loro bimbi le vostre gesta gloriose — ed a benedire i santi vostri nomi! Io non ricordo i nomi dei tanti miei fratelli d'armi — in quella veramente grandiosa fazione — caduti — ove pochi ed inesperti giovani — sbaragliavano, collo slancio del patriotismo — le falangi più numerose assai del feroce Urban — che sino a Monza fuggiva, senza girarsi indietro per vedere chi l'avea sconfitto — Il possesso di Como, ingigantiva la situazione nostra di mezzi d'ogni specie, di credito, e di riforzi d'uomini e d'armi — I piroscafi, grazie alla buona volontà dell'amministrazione — e de' loro comandanti, erano nostri — e quindi noi padroni del Verbano — Tutt'i paesi del lago — la Valtellina, Lecce, ecc. — s'eran pronunciati a favore nostro — Dovunque si chiedevano armi, per contribuire all'impresa patria — Si difettava d'armi però — e massime di munizioni — già consumate nelle pugne antecedenti — E non solamente lontani dalla nostra base il Piemonte ma quasi intieramente interrote le comunicazioni — Il patriotismo d'alcuni individui — suppliva alcune volte alle comunicazioni — col Piemonte riguardo alle notizie — ma armi e munizioni era difficile od impossibile d'averne — Ciò mi fece nascere l'idea di riavicinarmi al lago Maggiore — e tentare nello stesso tempo un colpo di mano su Laveno — Ecco dunque nuovamente i cacciatori delle Alpi sulla strada da Como a Varese — Il maggiore Bixio, distinto e risoluto ufficiale — uno di quelli come Cosenz e Medici — a cui si può affidare la direzione di qualunque impresa — ove certamente faranno il loro dovere — Bixio, dunque lo destinai ad avanzarsi, per osservare Laveno — Ma a lui non toccò l'assalto meditato — perchè nell'avvicinarmi a quel punto — mi venne suggerito: l'operazione potersi coadjuvare dal lago — e Bixio era il migliore che poteva incaricarsi d'un'impresa acquatica — perchè alla dote d'esser un bravo militare riunisce quella d'esser un esperto Capitano di mare — Si stette poco in Varese, e si marciò a Gavirate — scaglionando poi la brigata da Gavirate a Laveno — Avrei potuto tentare un'assalto serio di notte su Laveno con tutta la brigata — però da notizie ricevute sapevo Urban in traccia nostra, molto ingrossato — e non mettevo dubbio quindi — a non impegnarmi con tutte le forze — avendo un formidabile nemico alle spalle — non lontano — Mi limitai dunque ad un colpo di mano parziale — e ne incaricai due compagnie del primo reggimento — I capitani Bronzetti, e Landi — Il maggiore Marrocchetti doveva sostenerli col resto del battaglione — ed il collonnello Cosenz col resto del reggimento — Fratanto mi erano arrivati due piccoli obici di montagna — e due cannoncini con alcune munizioni — condotti dal prode Capitano Griziotti — L'operazione su Laveno non riuscì: il capitano Landi che assaltò per il primo — entrò nel forte verso la una della mattina, con una ventina di uomini — e non seguito dal resto della compagnia fu obligato di evacuarlo, essendo lui stesso gravemente ferito — Il Capitano Bronzetti fu traviato dalle guide, e non giunse a tempo per cooperare all'assalto — dimodocchè, respinti, i nostri furono obligati di prender posizioni scoperte; ed ai nemici da dietro a' ripari dei parapeti riescì facile il ferirne alcuni — Se col Capitano Landi, fosse entrato il resto della compagnia — e fosse stato seguito dall'altra compagnia di Bronzetti — il forte occupato da un'ottantina di nemici — sarebbe certamente rimasto in nostro potere — Preso quel forte, dominante tutte le altre posizioni, ed i vapori — io avrei potuto facilmente occupare Laveno — e tenermi così — aperte le comunicazioni col Piemonte — Mancò l'assalto del forte, e mancò quello del lago sui vapori — non avendo potuto il maggiore Bixio indurre le barche di finanza della riva Piemontese ad accompagnarlo — Bisognò quindi pensare alla ritirata — Quando il nemico s'accorse — all'alba — che il nostro assalto era stato mancato — cominciò un fuoco tremendo, contro le compagnie che si ritiravano e le riserve — I forti ed i vapori canoneggiavano disperatamente, come s'avessero voluto vendicarsi della paura ricevuta nella notte — Essi tiravano dei razzi — trastullo favorito degli Austriaci — in quantità strabocchevole — Vero trastullo: giacchè mai ho veduto un'uomo od animale ferito da quella specie di spauracchi — Volendo l'Austria — colla spavento massime — dominare in Italia — essa si è servita con molta compiacenza dei descritti razzi — che intimorivano senza ferire — e degli incendi che impaurivano e ferivano — Se ne ricordino bene i nostri concittadini! Io spero: le popolazioni che per loro sventura, l'hanno ancora sul collo, se ne sbarazzeranno presto — e più non vedremo i suoi razzi ed i suoi incendi — Ma se a caso — andasse diversamente la cosa — ricordiamoci dei razzi, degli incendi, e degli assassinï! A mezzogiorno di Laveno, vi è un'altura coronata da boschi — dalla quale si domina perfettamente tutte le posizioni di Laveno ed il porto — Io avevo inviato la nostra piccola artiglieria su quella posizione — Essa servì ad allontanare alquanto i vapori — e la ritirata si fece in assai buon'ordine — Il Capitano Landi si condusse da prode — avendo condotto sino dentro la fortezza la testa della sua compagnia — Forse l'oscurità della notte fu causa del traviamento del resto — Egli vi fu gravemente ferito — Se tanta fortuna avesse avuto il Bronzetti — anche valorosissimo — la riuscita dell'impresa era sicura — I tenenti Spegazzini, e Sparvieri, vi furono pure feriti combattendo egregiamente — La sera dello stesso giorno, io ebbi avviso: che Urban era entrato in Varese — Ciò mi contrariava alquanto — io ero tagliato da Como — e non c'era tempo da perdere — Ci gettammo in Val Curia colla brigata — ed attraversammo Val Gana — per questa valle scesimo alla vista di Varese — e giunsi colla vanguardia sino sotto Bium superiore — Cominciava la notte — si poteva attaccare il nemico con poco rischio — colla ritirata sicura in caso avverso, nelle forti posizioni di Val Gana — Dalle alture che dominano Varese dal settentrione, io avevo perfettamente osservato tutte le posizioni occupate dal nemico — e dal numero che ne scorgevo mi sembrava numeroso — abbenchè non tanto quanto lo dicevano gli abitanti — Niente meno però di 12 a 15 milla — L'artiglieria la vidi — e vidi pure occupate le posizioni dominanti — com'era naturale — Era grande la mia voglia di attaccare Urban e liberare Varese — Ma sapevo: il generale Austriaco: voler vendicare sui poveri abitanti le sue sconfitte — e sapevo pure: quanto era capace di farlo — Contuttociò io non attaccai — e mi decisi di ricondurre la brigata a Como — A Malnate v'era pure un corpo Austriaco — e non si poteva però seguire lo stradale — che da Varese conduce a Como — Fui obligato quindi, di seguire più alpestri vie — che grazie alle buone guide datemi dal podestà di Arcisate — noi potemmo percorrere, ad onta d'un diluvio di pioggia — che continuò senza interuzzione d'un solo minuto — per tutta la strada — Fu questa una nuova prova di costanza, e di coraggio per i miei giovani compagni — Noi passammo a poca distanza da Malnate — ma era tanto il temporale — che non v'era pericolo di trovarvi esploratori Austriaci — La collonna s'era fatta lunghissima — ed una volta, io tentai di fermarne la testa, ma impossibile — solo marciando si poteva tener contro il temporale — ed il freddo — che colpiva i poveri militi — Fu quella, una marcia lunga e disagiata — Alcuni fiumicelli, e torrenti ingrossati ci diedero molta fatica a passarli — massime la coda della collonna ed i carri — Giunsimo a Como, e quella buona popolazione, accolse i nostri cacciatori colla solita amorevolezza — presto, furono dimenticati i pericoli e le fatiche passate — Era ben tempo però, di giungere a Como — alquanto sconforto s'era manifestato nel paese — per la nostra lontananza — Gli Austriaci, ed i preti amici loro — maestri di menzogne — ne avevano inventato d'ogni genere — ed avevano massime: un talento singolare, per fare aparire masse, e corpi nemici in ogni punto e direzione — Le autorità s'eran ritirate sul lago — ed alcune compagnie ch'io avevo lasciato pria di partire per Laveno — s'eran pure ritirate — I feriti — cosa inconveniente — furon pure trasportati a Menaggio — Tutto ciò aveva sgomentato la popolazione — e se qualunque forse nemica fosse comparsa su Como, in quel poco tempo della nostra assenza — tutto sarebbe ritornato agli Austriaci — Chi mi aveva poi informato di tutto questo fu una coraggiosa ed avvenente fanciulla — che mi comparse — in un legno, sulla strada da Rubarolo a Varese — come una visione — mentre io marciavo colla brigata su quella città per attaccarvi Urban — Quella bella fanciulla, si era partita da Como, per annunciarmi lo stato deplorabile in cui si trovava, e sollecitare il mio ritorno — A Como si pensò a qualche opera di difesa — su tutti i punti dominanti ed importanti dei dintorni — La popolazione si prestò alacremente a tali opere — La battaglia di Magenta però succeduta in quei giorni cambiò la faccia delle cose — Quella battaglia, com'era ben naturale, elettrizzò lo spirito publico — e fece più facile la condizione nostra — mentre quella del nostro avversario Urban a Varese — era divenuta ben critica — e non sarebbe stato difficile di farli metter giù le armi, se avessimo avuto alcune migliaja d'uomini di più — Considerando però: esser la mia brigata in quei giorni di circa due milla uomini — capaci di combattere — io non potevo certamente rischiarmi ad esser schiacciato, gettandomi attraverso la strada che doveva seguire il nemico tanto superiore in numero — Io così stesso — avevo deciso una mattina di spingermi a cavaliere, sulle strade che Urban doveva percorrere per Monza — e ne fui distolto da varie ragioni — massime da quella che Urban sapendoci sulla strada di Monza — avrebbe preso quella di Como — per noi più importante e più sicura — sotto tutti gli aspetti — Padroni del lago di Como coi vapori — non v'era più un solo punto sul lago — che non avesse abbassato le abborrite insegne dell'Austria — ed innalzato il tricolore — La importante città di Lecco — ci apriva pure la gran strada della Valtellina — e quella dell'Oriente, che va a Bergamo e Brescia — con cui era già in relazioni strette il nostro prode Gabriele Camozzi — Gabriele Camozzi — è uno di bei caratteri — di cui fu ricca l'Italia nell'epoca del suo risorgimento — caratteri ch'è sempre una fortuna trovare, e che vi appariscono proprio nelle ore solenni d'un modo interessante — Io l'avevo veduto per la prima volta a Bergamo — ed avevo amato quella fisionomia simpatica — modesta e risoluta — La simpatia suscitatami era corrisposta — poichè all'atto del bisogno — io trovai le dieci milla lire del Camozzi — pronti a migliorare la mia condizione — Verso l'epoca della battaglia di Novara — noi troviamo Camozzi — riunendo verso Bergamo, tre o quattro cento compagni — tra loro molti de' propri contadini — e marciando al soccorso di Brescia — la città eroïca — i di cui cittadini pugnavan col coltello, contro i numerosi ed aguerriti soldati dell'Austria — e si sostenevano per vari giorni — esempio sublime! Che seguito da tutte le città Italiane — insegnerebbe ai tracotanti vicini — che questa terra non è più vileggiatura per loro — e che non v'è potenza sulla terra che potrebbe dominare l'Italia con tali figli! Sì! Il Camozzi marciava unico coi suoi compagni, in sostegno del valoroso popolo di Brescia — e fu bello quell'atto di coraggio e di slancio — per animare, per proteggere i combattenti, e pericolanti fratelli — o almeno per dividerne la sorte infelice! Io ero lontano quando seppi tanto del Camozzi — e ne fui commosso d'ammirazione e di rispetto! Oggi (1872) l'Italia non deve più temere: invasioni straniere — Una nazione che può armare più di due millioni di cittadini — chi diavolo potrà domarla! Ma perciò si dovrà seguire l'esempio de' prodi Bergamaschi — Gabriele Camozzi — come già dissi: era in corrispondenza con Bergamo, e co' paesi circonvicini — è superfluo il dire, quanto valevole mi era la cooperazione di quell'egregio compagno — Ho già accennato, più sopra, i motivi che m'impedivano di gettarmi sulla linea di ritirata di Urban — Non abbracciando tale determinazione — e non volendo rimanere ozioso — divisai di operare sulla linea di Lecco, Bergamo e Brescia — linea più consentanea al genere nostro di operazioni — ed alle esigue forze a cui era ridotta la brigata — Si continuava a suscitare l'insurrezione di coteste città e paesi importanti — conservando sempre la nostra libertà d'azione — Deciso dunque a quest'ultimo partito — cominciai ad imbarcare sui vapori parte della brigata per Lecco — In quel tempo ricevetti una comunicazione del generale Fanti — ove mi diceva: se mi sembrava possibile, di operare in combinazione colle forze da lui comandate, contro Urban — Io non so da chi fu rimessa tale comunicazione — ma siccome non vidi il messo — ne fui richiesto da lui di risposta — io continuai la mia mossa verso Bergamo — lasciando agli alleati, la cura di perseguire Urban — allora in ritirata su Monza e l'Adda — Da Lecco seguimmo la marcia su Bergamo — ove si trovavano gli Austriaci — si fece prigioniero un ufficiale nemico — che girava nei dintorni — imponendo una contribuzione di dodici milla svanziche — sotto minaccia in caso di rifiuto — della distruzione del paese — soliti complimenti di quei gentili padroni — consueti a metter subito in opera le loro minaccie — Questa volta — essi furon pagati con moneta simile a quella con cui Camillo pagò in Roma i Galli — cioè: con ferro. Nell'avvicinarsi a Bergamo di mattina a buon'ora — seppimo dagli abitanti — che i nemici evacuavano la città — e per celere che fosse la nostra marcia, non fu possibile ragiungerli — Noi occupammo Bergamo — ove trovammo cannoni e molte munizioni — ad onta d'aver il nemico procurato di distruggere ogni cosa — Successe in Bergamo un fatto curioso — Al principio della nostra occupazione — dalla stazione della strada ferrata ci venne la notizia — che un corpo di mille uomini — partiva da Milano in soccorso del presidio di cotesta città — Io radunai la brigata in detta stazione — occultandola nei fossi e nei caseggiati — e nei punti dei dintorni vantaggiosi ad occuparsi — Veramente il treno colla truppa Austriaca avvicinava; ma un cantoniere di codesta nazione che si trovava a Seriate — alla distanza di due miglia circa — avvertì il nemico della nostra presenza in Bergamo — Il nemico avvertito non proseguì il suo cammino, e si fermò a Seriate — indeciso probabilmente sul da farsi — Il capitano Bronzetti, colla sua compagnia — inviato a quella direzione, in riconoscenza, caricò risolutamente il nemico, dieci volte più numeroso, e lo pose in fuga. Quando io giunsi con alcuna forza per sostener Bronzetti il nemico era già scomparso — Ciò serva d'esempio ai nostri concittadini: Che tali padroni non meritavano, certo, d'averci per servi — e ciò prova a qual punto di demoralizzazione eran giunti i fucilatori di Ugo Bassi e Ciceroacchio — Ebbimo alcuni feriti in quell'incontro veramente straordinario — ed il valoroso tenente Gualdo — fu malamente ferito in una gamba — che le venne amputata — Poco stettimo in Bergamo, sapendo: che il nemico metteva a contribuzione i paesi della Bassa — Marciammo in giù colla brigata — e si riparmiarono molte depredazioni ai poveri abitatori delle campagne — Ci avviamo dopo verso Palazzolo — ove avevo fatto precedere il Cosenz col suo reggimento — Giunti a Palazzolo e sapendo il nemico sulla strada di Brescia — divisai di accelerare la marcia verso l'egregia città — che già era stata evacuata — ma che temeva una ricomparsa de' vicini nemici — alcuni messi della stessa eran venuti a raguagliarmi d'ogni cosa — e sollecitarmi a nome dei Bresciani — I miei poveri cacciatori eran giunti a Palazzolo spossati da forzate marcie — ma contavo sullo slancio della prode gioventù che mi accompagnava — e non m'ingannai! Feci sondare dai comandanti di corpi: se non si sentirebbero capaci di proseguire nella stessa notte sino a Brescia: ed una sola voce si alzò tra quei valorosi campioni dell'Italia! A Brescia! A Brescia! e verso le 11 della sera, eccoli ancora avviati per quella città — colla stessa alegria e disinvoltura — dimentichi come sempre — di disagi e stanchezza. Cacciatori delle Alpi! Miei giovani e coraggiosi compagni! Nel momento in cui scrivo di voi — unico pegno ch'io possa consacrarvi dell'affetto mio — in questo momento voi siete perseguiti, dalla pedanteria e dall'invidia — di chi fece nulla, o poco per l'Italia — mentre voi opraste quanto un patriota può per il suo paese! In questo momento, i vostri prodi ufficiali, sono supplantati dai Tersiti dell'Illiade Italiana — che gozzovigliano lautamente — e la maggior parte dei nostri — i migliori — respinti, come se fossero nemici — vagando, elemosinando, per le stesse contrade — ove con voi debellarono i depredatori delle nostre terre — Ebbene, Cacciatori delle Alpi — poveri e generosi miei fratelli d'armi! il nostro paese non potrà rifiutarvi un plauso — per le tante gloriose fatiche sopportate — ed egli spera, che nell'ora del pericolo, benchè repulsi — maltrati dai malvagi — voi, tornerete ancora, collo stesso slancio, e la stessa ilarità — a combattere i suoi nemici — Coloro, che tanto si mostrano interessati ad abbassarvi — e far sparire l'assisa gloriosa — che li abbarbaglia — e che poveramente vi adornava a Varese, a Como, a Seriate, non potranno negarvi un senso d'ammirazione per le vostre gesta — e sopratutto per la vostra costanza a supportare i disagi, e le fatiche delle marcie straordinarie da Varese a Como — da Palazzuolo a Brescia! A mezza strada da Palazzuolo a Brescia — in un punto che non ricordo — si trovava il nemico — non si doveva attaccare, ma evitarlo — giacchè l'impresa ne sarebbe stata ritardata — e poca v'era — probabilità di successo nell'attacare un nemico superiore — Si prese quindi una strada a sinistra — assai buona e non molto più lunga — I Bresciani avvisati mandarono ad incontrarci una quantità di vetture, per gli stanchi — e nella mattina seguente, si giunse a Brescia, ove si trovò quella popolazione, riunita tutta ad accoglierci — come avevan fatto a Bergamo — ma qualche cosa più d'entusiasmo — che si potrebbe chiamare Bresciano — cioè unico! Palermo — Genova — Milano — Brescia — Messina — Bologna — Casale! Quando le città Italiane, saran tutte decise, di trattare i nemici del nostro paese — come voi avete fatto — Oh! Non più terra di padroni e di servi — sarà questa nostra — ma di libera gente e da tutti rispettatta — Nella rocca di Brescia, come in quella di Bergamo si trovarono molti cannoni, e munizioni — Si passò in quella città alcuni giorni, per lasciar riposare la gente — quindi si marciò verso Rezzate ed il Chiese — ove si credeva: il nemico passasse in ritirata — Egli, però, trovavasi ancora in forze a Castenedolo — e ciò indicavano le pattuglie, che numerose, si avvicinavano alla strada principale — che da Brescia mette a ponte S. Marco — da noi percorsa — Essendo a Rezzate, io ricevetti — dal quartiere generale del re — l'ordine di occupare Lonato — e che mi si manderebbe, per cooperare a tale operazione, due reggimenti di cavalleria, ed una batteria d'artiglieria — agli ordini del generale Sambuy — Coi nemici in forza a Castenedolo — io non potevo certamente passare il Chiese a ponte S. Marco — e cercai informazioni per poter passare più sopra — dalle notizie raccolte, mi decisi: di rifare il ponte del Bettolletto, distruto dagli Austriaci alcuni giorni prima — L'ordine del re, quantunque accolto con gioja, da principio — mi poneva in imbarazzo — per i reggimenti di cavalleria, e l'artiglieria che doveva ragiungerci e cooperare — Marciare con tutta la brigata — al Chiese — io lasciavo lo stradale scoperto — ove artiglieria e cavalleria — senza il nostro sostegno avrebbero corso un rischio sicuro — Mi decisi dunque di lasciare il primo, e secondo reggimento, scaglionati sullo stradale — facendo fronte al nemico di Castenedolo, ed osservandolo — ed io con parte del terzo, la compagnia dei bersaglieri Genovesi, i quattro pezzi e le guide — mi portai sul Chiese per la costruzione del ponte a Bettolletto. Era quasi terminato il ponte — quando mi venne la notizia: il nemico aver attaccatto i due reggimenti nostri lasciati sullo stradale — Abbandonai i lavori del ponte, ed a galoppo mi recai sul luogo della pugna — Il primo reggimento ch'era stato attaccatto — condotto da' prodi collonnelli Cosenz e Türr, aveva respinto il nemico con molta bravura, sino sul grosso delle sue forze a Castenedolo — ma soprafatto dal numero — era stato obligato di battere in ritirata — e fu in tale stato, un po disordinato, ch'io lo trovai quando giunsi sul campo di battaglia — Il collonnello Türr che si trovava alla sinistra, ov'io giungevo, era stato ferito — e portato fuori del campo — Io, ed i miei bravi ajutanti — Cenni, Trecchi, Meryweather riordinammo alquanto, i valorosi nostri cacciatori che nuovamente fecero testa — ma che furono obligati di ripiegare ancora, davanti all'imponenza delle forze nemiche, assai superiori — e che, non solamente incalzavano di fronte — ma cercavano di girare i nostri, ed avviluparli — La ritirata — comunque — ebbe luogo in buon ordine protetta dal secondo reggimento — avvertito dal maggiore Carrano mio capo di stato maggiore — Tra i prodi Ufficiali caduti nella pugna — noi ebbimo a deplorare la perdita del maggiore Bronzetti, che s'era meritato il titolo di _prode dei prodi_ — in tutti i nostri scontri — Egli fu trasportato dal campo con tre ferite di palla — e morì pochi giorni dopo — Gradenigo discendente dai famosi patrizi Veneti — ufficiale pieno di bravura — e d'un sangue freddo ammirabile — era morto alla testa dei suoi militi caricando il nemico — Aporti — antico mio compagno di Roma — e di Lombardia — tanto valoroso nella pugna, come caro e gentile, nell'ordinario consorzio della vita — era caduto tra i nemici — e nella ritirata non potendo moversi per avere una coscia rotta — fu lasciato ed amputato poco dopo — Io non so: se potrò palesare col tempo, i nomi dei tanti miei fratelli d'armi — martiri dell'Italia — che non ricordo — e che sì brillantemente pugnarono e cadettero sul campo di battaglia, in quel giorno ben memorabile per i cacciatori delle Alpi — Codesta giornata detta dei Treponti — fu la più contrastata e la più micidiale, in cui si trovassero i nostri del primo reggimento — ch'ebbero l'onore della giornata — Il secondo sostenne la gloria acquistata nei combattimenti anteriori — E le compagnie del terzo comandate dal bravo maggiore Croce — mostrarono ch'eran degne di combattere accanto ai valorosi loro compagni — Il tenente Specchi fu ferito in un braccio — da quel valoroso che fu sempre — sostenendo la ritirata — Un distaccamento della compagnia Genovese — ch'io avevo condotto dal Chiese — giunse a tempo per sostenere i nostri — e segnalare la bravura di quella gente scelta — Stallo, Burlando, Canzio, Mosto, Rosaguti, Lipari — si distinsero come sempre — Gli Austriaci cessarono di avanzare — ed i corpi de' cacciatori delle Alpi — che avean preso parte al combattimento — si riconcentravano sullo stradale presso i Treponti — raccogliendo i feriti — e ben stanchi dalla marcia, e pugna sostenuta — Questo combattimento ebbe luogo sotto condizioni sì sfavorevoli — per aver avuto l'onore di trovarci agli ordini immediati del quartier generale principale — e quindi esser stato obligato di divider la brigata, lasciandone due terzi in protezione di quelle cavallerie ed artiglierie, che dovevano avanzare — e che mai si videro — Per la prima volta — nella campagna — che mi trovavo a contatto del quartier generale del re — non avevo certamente motivo di lodarmene — ¿Si sapeva, o no: esser, il quartier generale dell'imperatore d'Austria a Lonato — centro di un'esercito di dugento milla uomini? — E se si sapeva, perchè mandarmi a Lonato con mille e otto cento uomini? Che non si sapesse — sarebbe aver un concetto poco favorevole allo stato maggiore del re di Sardegna — che d'altro poteva esser colpevole — non di mancar di spie — ¿E perchè promettere d'inviarmi due reggimenti di cavalleria, e una batteria d'artiglieria — per la salvezza delle quali, la mia piccola brigata fu sul punto d'essere intieramente distrutta — mentre non solo — nulla si mandava — ma nulla ho mai più saputo di tale batteria e tale cavalleria? Fu dunque un tranello in cui si voleva avvolgermi — e perdere un pugno di valorosi — che davan sui nervi a certi grandi mastri da guerra! Mi andai finalmente persuadendo: aver voluto burlare con noi — il quartier generale del re — e burlare un pò tragicamente — e ciò mi fece capire: non esser seria l'idea di voler occupar Lonato — e dovermi occupare dei fatti nostri — senza aspettare gli oracoli superiori — Tanto più: che partecipando — la sera — al Generale Cialdini — gli avvenimenti della giornata — egli mi fece la seguente risposta: «Mi stato fresco se vi fidate a tale gente» Io, quindi dovevo contare su me stesso, e sui miei compagni per ulteriori disposizioni — e procurare di non cader nelle ugne dell'esercito nemico — ancora intiero e poco distante da me — come lo provarono i fatti che seguirono da vicino — Durante il combattimento già descritto — avendo osservato, che il nemico guadagnava terreno sulla sua destra — io pensai con fondamento, ch'egli tentasse di tagliar fuori la forza nostra — che si trovava sul Chiese — Per tal motivo, io mandai ordine al collonnello Arduino, che abbandonasse il ponte già costrutto — e che si ritirasse verso i monti poco distanti di Nuvolento — Quel collonnello dando una interpretazione troppo spinta all'ordine mio — non solamente si ritirò su Novolento — ma avendo diretto l'artiglieria per Gavardo su Brescia — prese lui stesso, colla fanteria, i sentieri della montagna, e si ritirava alla stessa direzione — Avendo dato le disposizioni di concentramento in punti determinati ai Collonnelli Cosenz e Medici — io galopai verso Arduino — per metterlo a contatto degli altri corpi alle falde dei monti — posizioni adeguate per poter sostenersi contro forze superiori — Privo d'ajutanti perchè Cenni col cavallo morto, e gli altri con cavalli stanchi — od in missione — io avanzavo solo — chiedendo notizie a chi incontrava — ed eran pochissimi gli abitanti che non fossero fuggiti o nascosti — per salvarsi dalle angherie o depredazioni, a cui li assoggettavano i soldati — amici o nemici — Poi, le _gloriose battaglie_ — hanno naturalmente poco interesse per gli indifferenti — E la gente della campagna — sin'ora almeno — è sempre stata indifferente alle pugne Italiane — quando non è stata nemica nostra — Ogni notizia raccolta da me — facea lontana, la gente ch'io cercavo — dimodocchè alla bontà della mia cavalla — che avea galopato tutto il giorno — io dovetti di poterla raggiungere — Senza essa — io avrei dovuto nell'altro giorno, cercare quella frazione della brigata, nelle montagne verso Brescia — od in cotesta città stessa — con non poca mortificazione — La brigata rimase scaglionata — nella sera — da Rezzate a Nuvolera, Nuvolenta ecc. — Intanto l'esercito del re s'avanzava per la strada di Brescia — Il generale Cialdini — a cui ero vincolato d'amicizia — all'annunzio del nostro impegno dei Tre ponti — aveva fatto il possibile, per spingersi avanti — facendo lui la vanguardia dell'esercito reggio — ed alcuni de' corpi suoi leggieri — diceva: averli mandati in sostegno nostro comunque essi non giunsero — perchè spossati dalle lunghe marcie — o giunsero a pugna terminata — Rimanemmo alcuni giorni scaglionati nelle posizioni suddette — La presenza nostra — ed il progresso del nostro esercito — tenevano le popolazioni di Gavardo, Salò ecc. — in eccellenti disposizioni — e di più: quei di Gavardo — avendo ristabilito il ponte sul Chiese — ch'era pure stato distrutto dagli Austriaci — io divisai di spingermi sino a Salò — passando su detto ponte — Si riunì quindi tutta la brigata a Gavardo — e nella notte passammo il Chiese dirigendoci su Salò — Il maggiore Bixio ebbe ordine di occupare cotesta città sul lago di Garda — nella notte col suo battaglione — e la brigata rimase sulle alture, dominanti lo stradale che va al nord per quella notte — facendo il nostro ingresso a Salò, nella mattina del giorno seguente — Contemporaneamente al progetto, di marciare sul lago di Garda, io avevo commissionato alcune barche dei laghi di Como ed Iseo — che arrivarono con noi a Salò — Io avevo procurato delle barche, pensando naturalmente: che il nemico abbandonando la sponda occidentale del lago — avrebbe ritirato, o distrutto le barche — Esse però non furono ritirate nè distrutte — Occupammo Salò per alcuni giorni — e l'episodio il più importante della nostra presenza in quella città — fu la distruzione d'un vapore nemico — Essendo noi in Salò — un vapore Austriaco veniva ogni giorno a spiarci — e perciò entrava sino nel fondo del porto — _sciando_[83] e presentando sempre la prora alla bocca del porto per esser pronto alla ritirata in caso di bisogno — Avendo osservato tale giornaliera manovra — io chiesi — al comandante d'un forte distaccamento dell'esercito, che si trovava a Gavardo, una mezza batteria di campagna, tra cui due obici — Giunta la mezza batteria, la feci collocare all'entrata del porto, alla destra entrando, in una posizione — che costrutta a proposito, non poteva riuscire più idonea — Erano i pezzi perfettamente collocati alla sponda del lago — e coperti da piante, che li nascondevano intieramente guardando di fuori — ma che li lasciavano liberi di far fuoco sul lago in qualunque direzione — Sulla sinistra, entrando nel porto, avevo mandato i bersaglieri Genovesi, col Capitano Paggi, ad imboscarsi tra piante situate da quella parte — Il vapore giunse nel porto, al solito — vogando indietro — e venne a portata da bersaglieri, che cominciarono a fucilarlo colle loro carabine di precisione — Il fuoco dei bersaglieri fece sì, che il vapore si allontanasse da loro, e si avvicinasse alla parte opposta, ove si trovava la mezza batteria imboscata — Ai pochi tiri di cotesti bravi artiglieri — si manifestò il fuoco a bordo del vapore — che non fu più possibile di estinguersi — Esso tentò di guadagnare — a tutta velocità, — la sponda opposta del lago — ma non vi riuscì — e si sommerse a poca distanza da quella — Duolmi non ricordare il nome, del bravo ufficiale d'artiglieria, che diresse quei pezzi — E qui mi è caro: inviare una parola d'encomio alla nostra artiglieria Italiana — certo non seconda a nessuna nel mondo! Il generale Cialdini — ai di cui ordini — ero stato posto dal re — mi ordinò di marciare in Valtellina colla brigata — Io anticipai il collonnello Medici a quella volta — che riunì tutti i distaccamenti nostri, che si trovavano a portata di quella valle — e spinse gli Austriaci verso lo Stelvio — Seguitai colla brigata in Valtellina — traversando il lago di Como — da Lecco a Colico coi vapori — Occupammo la valle sino a Bormio — da dove Medici, spingendosi verso lo Stelvio, obligò i nemici a sgombrare il territorio Lombardo — I nostri giovani cacciatori delle Alpi — condotti da Medici, Bixio, Sacchi ecc. — diedero nuove prove di valore e di costanza in tale nuovo genere di guerra, tra le gole, e ruppi delle Alpi — coperte da neve eterna — ed ove i nemici avevan la pratica dei luoghi — ed erano acclimati — essendo quasi tutti Tirolesi. Erimo dunque padroni della Valtellina — ed il generale Cialdini, occupava colla quarta divisione dell'esercito — la Val Camonica, Val Trompia — sino al lago di Garda — Il colonnello Brignone della stessa divisione occupava Val Camonica — Non credo fuori di proposito — dire, qui, una parola sul destino di questa quarta divisione — senza dubbio, una delle migliori dell'esercito Italiano — comandata da ufficiali distintissimi — ¿Fu essa, staccata dal nostro esercito — perchè realmente si temeva la comparsa d'un grande corpo Austriaco da quella parte del Tirolo? O fu per diminuire il nostro esercito — e farle fare una men bella figura — nella battaglia decisiva che indispensabilmente doveva darsi sul Mincio? O fu per custodire il corpo cacciatori delle Alpi, che ingrossava spaventosamente in quei giorni — e toglierli quell'Indipendenza — che sembrava non dispiacere del re — ma che non piaceva a certa gente alto locata? A quel volpone di Bonaparte, credo non fosse estranea la prima ipotesi — e fu un mero pretesto lo allontanare la divisione suddetta dall'esercito — e privarlo così d'un capo valoroso — e d'una eccellente divisione — Poi, i cacciatori delle Alpi — che da mille otto cento uomini, a cui eran stati ridotti dopo l'affare dei Treponti — s'eran aumentati — quasi per incanto — in poco più d'un mese a circa dodici milla — e crescevano ogni giorno — non mancavano di dar ombra alla gente a coda di paglia — che, nonostante aver predicato: a nulla servire i volontari — questi avevan la debolezza di incutere spavento a tale gente — Quella gente stracarica di colpe — à paura di noi — e ne ha ben donde — Ci chiama rivoluzionari — e ci onora — non rinunciando noi, all'onorevole titolo — finchè vi sia canaglia sulla terra — che per gozzovigliare nelle lussurie — mantengono la parte migliore delle nazioni nel servaggio, e nella miseria — Cotesto stolto modo di procedere — poteva aver origini dallo spirito tortuoso del terzo Napoleone — e riflettersi nell'anima del re — e de' piccini suoi cortiggiani — Il fatto sta: che la battaglia di S. Martino ebbe luogo — e l'esercito Italiano composto di cinque divisioni in tutto — mancò della quarta — che poteva: dar un brillante colpo di mano ai nostri — ed agevolare l'ardua battaglia ch'essi ebbero a sostenere — La paura di corpi Austriaci, scendendo dal Tirolo — finta, o reale — mi fu manifesta, sino dal mio arrivo a Lecco — ov'io trovai un distaccamento del genio Francese, con un'ufficiale superiore, occupati a minare la strada maestra che da Lecco conduce in Valtellina — È vero: che tale ufficiale aveva ordine d'intendersi con me sul da farsi — ed io nessuna notizia avendo di corpi nemici avanzandosi da quella parte — lo pregai di desistere nell'opera sua di distruzione — Io credo: il generale Cialdini, aveva ordini, emanati — senza dubbio — dalla stessa sorgente — di distruggere nelle valli superiori, strade e ponti — e tali ordini furono trasmessi al Collonnello Brignone, che occupava Val Camonica ed a me in Valtellina. Il collonnello, a malincuore, fece distruggere qualche cosa — ed io feci studiare da alcuni ingegneri i punti più idonei ad esser distrutti in caso di bisogno — ma nulla feci distruggere — sembrandomi un'atto di timore intempestivo: rovinare ponti e strade di una necessità assoluta ai miseri valiggiani — senza che vi fossero notizie di nemici — almeno in gran numero — Intanto accadevano le grandi battaglie di Solferino, e S. Martino — e poco dopo la pace di Villafranca — che molti tennero qual calamità, ed io come una fortuna. All'armistizio, e poi pace di Villafranca — i Cacciatori delle Alpi, passavano i dodici milla uomini, in cinque reggimenti — ed occupavano le quattro vallate: Valtellina — Camonica — Sabbia — e Trompia — sino alla frontiera del Tirolo — Il generale Cialdini s'era ritirato colla sua divisione su a Brescia — Di più dei cinque reggimenti — Cacciatori delle Alpi — era giunto finalmente il reggimento: Cacciatori degli Apennini — che Cavour ad onta degli ordini del re — ricevuti sin dal principio della campagna — non volle mandarci — sotto differenti pretesti — e che ci mandò poi a guerra finita — Coll'arrivo dei Cacciatori degli Apennini — giunse pure il Collonnello Malenchini — quello stesso, che al principio dell'emigrazione della gioventù Italiana, nelle fila dell'esercito in Piemonte — se ne venne dalla Toscana con nove cento giovani — Il Malenchini fu per me un'acquisto — sia per l'affetto ch'egli aveva dai suoi militi — quanto per l'amicizia, veramente gentile a me prodigata. Poco dopo, venne pure Montanelli — uomo, per cui avevo conservato affetto, dal momento che lo avevo conosciuto a Firenze nel 48 — e che meritava la stima di tutti per la sua abnegazione veramente esemplare! Egli era semplice milite nel corpo Cacciatori degli Apennini — quest'uomo, con Filopanti e Massimo d'Azeglio — m'hanno sempre ispirato un vero rispetto — Uomini sommi! per coraggio e superiore intelligenza — Io venero in loro l'ideale del gran cittadino! Due di loro, hanno potuto esser dottrinari per un momento — ma pagarono della persona nel giorno del pericolo — A Curtatone ed a Vicenza furon feriti quei due illustri capi di governo — pugnando da semplici militi a fronte dei patrioti Italiani! Filopanti il grande Astronomo — l'intemerato deputato alla Costituente Romana — l'ho veduto io, col suo moschetto, combattendo alla difesa di Roma — Italia, può ben andar superba d'aver generato tali grandi! Montanelli frammezzo alla gioventù Toscana a Curtatone — e Massimo nei ranghi de' combattenti a Vicenza — sono figure che giganteggiano — e l'onorevoli cicatrici segnate sui campi di battaglia — adornano con aureola di gloria eterna — gli autori della Costituente Italiana — e del Nicolò dei Lapi — Quando Malenchini marciò in Piemonte colla gioventù Toscana — egli avea lasciato il posto di ministro della guerra a Firenze — che l'opinione publica, onnipotente in quei tempi, aveale giustamente assegnato — Avvicinandosi l'ora delle pugne in Lombardia — egli piantò il ministero — e corse ove si trattava di combattere — Tale abnegazione è sovente portata troppo oltre dai modesti patrioti di merito — poichè, i posti superiori da loro generosamente abbandonati — sono generalmente coperti da intriganti, che contribuiscono al male del paese — L'armistizio di Villafranca, che tutti capirono esser preliminare di pace — lasciava i Cacciatori delle Alpi in uno stato inadeguato alla loro natura. Giovani generosi — avendo abandonato arti, e comodi della vita per giungere ove si pugnava per l'Italia — non erano certamente idonei alla pacatezza delle guarnigioni, del quartiere, e sopratutto alle esuberanti discipline della monarchia in tempo di pace — Sin dal principio dell'armistizio, quindi, si capì: i Cacciatori delle Alpi, diventerebbero pianta esottica — in mezzo dell'esercito permanente — e sotto la perenne ed antipatica amministrazione del ministero Lamarmora — Le notizie dell'Italia centrale all'incontro presentavano alcunchè di bellicoso — Si diceva: il Duca di Modena, pronto ad invadere il ducato — e gli Svizzeri del Papa — dopo l'eccidio di Perugia — esser avidi di gittarsi sulle Romagne — 2º Periodo 1859. CAPITOLO XII. Nell'Italia Centrale. Un desiderio naturale — manifestavasi nell'Italia del centro — allora in piena ostilità contro i suoi padroni — di avere i Cacciatori delle Alpi — Cotesto corpo godeva meritamente la stima del paese — d'indole indipendente — com'erano gli elementi che lo componevano — si poteva pensare con probabilità di non ingannarsi — ch'esso non fosse vincolato indefinitamente agli ordini monarchici — Non abbisognava quindi, stimolarlo molto — per spingerlo contro tirannelli e preti — Montanelli e Malenchini me ne parlarono — anzi ambedue fecero un giro nel centro, e tornarono, sollecitandomi — ed esternandomi il desiderio dei governi di Firenze, Modena, e Bologna — cioè: ch'io mi recassi nell'Italia centrale — ove mi sarebbe stato dato il comando di coteste truppe — Quando io risposi a Montanelli, che marcerei senza indugio — chiedendo la mia demissione — egli m'abbracciò commosso — Malenchini poi giunse con una lettera di Ricasoli — che mi chiamava nell'Italia centrale per comandarne l'esercito — o _parte di esso_ — In questa espressione io cominciai a capire che v'era qualche diffidenza — ma siccome, mai ho servito la causa dei popoli con condizioni — e massime quella del mio paese — io non feci parola — Il buon Malenchini però, mi diceva: che Farini con cui aveva parlato a Modena — e Pepoli che aveva veduto a Torino — lo assicurarono: che mi darebbero il comando di tutte le truppe colà esistenti — Chiesi la mia demissione, e m'incamminai per la via di Genova a Firenze — Nella capitale della Toscana principiai a realizzare il mio dubbio — e capire che avevo da fare colla stessa gente, con cui mi era toccato di trattare dal mio primo arrivo in Italia — Lasciato in Montevideo il comando in capo d'un esercito che si batteva eroïcamente da sei anni — e giunto in Italia, coi miei poveri e valorosi settanta tre compagni — dopo vari mesi di girovagare da Nizza a Torino, da Torino a Milano — di là a Roverbella — e poi ancora a Torino, ero pervenuto ad ottenere il comando, d'alcuni resti di quartieri — poco prima della capitolazione di Milano — col grado di Collonnello — E tale comando lo ottenni quando le cose della guerra già andavano a rompicollo — e perchè a rompicollo andavano — Io ero venuto dall'America per servire il mio paese — anche da semplice milite — e del resto poco m'importava — M'importava però assai: veder l'Italia decorosamente servita — e non lasciata in preda a certe masnade che non ci valgono — A Roma un Ministro Campello, tenendomi co' miei lontani della capitale — con sospetti meschini, m'imponeva di non superare il numero di cinquecento militi — In Piemonte al principio del 1859 — mi tenevano come una bandiera per chiamare i volontari — i volontari accorrevano — ma da 18 a 26 anni eran destinati ai corpi di linea — I troppo giovani i troppo vecchi — ed i difettosi, erano destinati a me — a cui s'imponeva di non comparire in publico — per non spaventare la diplomazia (si diceva:) — Una volta poi sui campi di battaglia, ove avrei potuto fare qualche cosa — mi si negavano quei volontari — ch'erano accorsi alla mia chiamata — A Firenze non mi fu difficile capire: che avevo da fare cogli stessi uomini — e si cominciò a parlarmi della possibilità dell'accettazione del generale Fanti al comando supremo, con cui avean creduto di lusingarmi — Poverissimi furbi! Avrei dovuto forse accettar nulla — e tornarmene alla vita privata — ma, come dissi prima: il paese era minacciato — E poi? Avevo io per costume di chiedere alcuna cosa trattandosi d'una causa sì bella! Accettai dunque il comando della divisione Toscana. Il buon popolo di Firenze, mi acclamò, mentre io entravo in palazzo vecchio — ed i governanti, com'era naturale, gradivano poco tali acclamazioni — e mi chiesero di calmare il popolo — e partire al più presto per Modena — ove si trovava il quartier generale della divisione — A Modena vidi Farini — egli m'accolse assai bene — e mise ai miei ordini le forze organizzate di Modena e Parma — Farini, uomo d'intelligenza superiore — assai scaltro — Egli, come tutti i governanti dell'Italia centrale, era molto ben seduto sul seggio dittattoriale di quelle belle provincie — ed un'uomo popolare accanto a lui, non lo garbava molto — Ricasoli da principio sembrommi più franco di Farini — non così astuto — ma sventuratamente collo stesso senso repulsivo verso di me — che si copriva colla mia troppa temerità ecc. Cipriani poi, governatore di Bologna — era un Napoleonico sfegatato — e come tale, poca lega con me poteva fare — Con quest'ultimo quindi, una franca antipatia reciproca fu manifestata, sino dal principio del mio arrivo nell'Italia centrale — e non v'era pericolo ch'egli trattasse di pormi al comando delle truppe delle Romagne ch'egli governava — La mia chiamata da parte di quei signori — era stato dunque stimolata da quella poca popolarità di cui godevo — e di cui essi volevan servirsi per popolarizzare essi stessi — Non altro, e presto ne vedremo le prove — Farini..... così per _celia_ — era espressione sua — un giorno scrivendo a Fanti, le aveva proposto il comando delle truppe dell'Italia centrale — Fanti con quella sua propria pacatezza — non aveva accettatto risolutamente — ma faceva sperare: che accetterebbe, una volta regolata la sua posizione col governo Sardo — Il fatto sta: che la mia presenza nel centro — era accettattissima dalle popolazioni e dall'esercito — e quanto più tale sentimento era manifesto — tanto più diventava insopportabile ai governanti — quindi questi animosi a sollecitare l'arrivo del generale Fanti — che collocato militarmente come mio superiore — poteva solo frenare l'ardore mio di far bene — e tranquillare i nuovi regnanti — come gli antichi gelosissimi dell'aure popolari — Abbenchè nato rivoluzionario — perchè non quieto, non stabile, può rimanersi chi soffre. ¿E chi non soffre vedendo la sua patria serva e depredata? Cio nonostante, io non ho mancato, quando necessario, di sottopormi a quella disciplina necessaria — indispensabile alla buona riuscita di qualunque impresa — e sino dal tempo ch'io m'ero convinto: dover l'Italia marciare con Vittorio Emanuele — per liberarsi dal dominio straniero — io ho creduto un dovere sottomettermi agli ordini suoi a qualunque costo — anche facendo tacere la coscienza mia Republicana — Ho creduto di più: qualunque sia la capacità sua — che l'Italia doveva concederli la Dittattura, sinchè il suo territorio fosse complettamente sgombro dallo straniero — Tale fu il mio convincimento nel 1859 — oggi modificato, perchè le colpe della monarchia sono molte — perchè poteva farsi un mondo da noi soli — e si è sempre preferito inginocchiarsi or a' piedi dell'uno — ed ora dell'altro, implorando miseramente, e vergognosamente il nostro — Ciò premesso — Nell'Italia centrale — agli ultimi mesi del 59 — cento milla giovani si sarebbero serrati intorno a me — e con loro — si volgeva certo, favorevole la diplomazia Europea — oppure coi soli trenta milla allora riuniti nei ducati, e nelle Romagne potevasi decidere in quindici giorni la sorte dell'Italia meridionale — Fare infine, ciocchè si fece coi Mille un'anno dopo — I governanti sarebbero rimasti ai loro posti — frattanto — avrebbero amministrato le loro provincie — ed avrebbero fatto una figura secondaria — è vero — ma gloriosa — coadjuvando le nostre operazioni — Essi così non stimarono — quindi si collegarono ad abbassarmi, ed annientare l'azione mia — due di loro per meschine considerazioni — il Cipriani in ubbidienza, probabilmente, agli ordini di colui — che — potrei ingannarmi — vuole tutt'altro — che l'Unione dell'Italia (1859) Intanto io trascinai una ben deplorabile esistenza per alcuni mesi — facendo poco o nulla — in un paese ove si poteva, e si doveva far tanto! Organizzare della truppa — tediosissima occupazione per me — con un'antipatia nata per il mestiere di soldato! Per me, fatto milite qualche volta, perchè nato in paese schiavo — ma sempre con repugnanza — convinto: sia un delitto doversi maccellare reciprocamente per intendersi! Obligato di limitarmi alla divisione Toscana — io m'occupai a migliorarne la condizione — Venne Fanti — vi furono alcune panzane, verso il tempo del suo arrivo — per esempio: Farini mi assicurava, dover Fanti assumere il Ministero della guerra — ed io terrei il comando delle truppe — Giunse Valerio, mandato dal ministero Piemontese, e mi disse: «guarda che se tu non sei contento, Fanti non vuol accettare» ed io risposi a Valerio: «non sono contento» e così stesso Fanti accettò — Infine, l'interessante per quei signori — era di sbarazzarsi del mio individuo — senza eliminare intieramente il mio nome — di cui abbisognavano per farsene belli colle plebi — A loro sembrò di aver trovato un'espediente a tante miserie — nominandomi: secondo capo delle truppe della lega — Questa lega — poi, erano tre provincie della penisola — i di cui forti governi — per non dispiacere a certi padroni — non ardivano di chiamarsi Italia! Ecco in che modo si va costituendo — questo umile, e vergognato nostro paese! Qui, cominciarono i bassi intrighi per disgustarmi — Fanti ricusava di accettare i miei prodi ufficiali dei Cacciatori delle Alpi — chiamati da me col consenso del governo di Modena — ed accoglieva qualunque altra classe di ufficiali — I miei poveri Cacciatori venuti in folla — sin dal principio, che mi seppero nell'Italia centrale — ad accrescere i corpi esistenti e formarne dei nuovi — erano maltrattatti — Giungevano per esempio: dalle più remote parti della Lombardia — scalzi, colla loro giacchettina di tela — stanchi, affranti dal viaggio — e per qualunque piccola mancanza di età, di costituzione fisica, di statura, ecc. erano repulsi — E credete: si domandasse loro, se avevan mangiato — e se avevan mezzi per mangiare, e tornare alle loro case? Nemmen per sogno! Il governatore Cipriani, d'intelligenza con Fanti mi manda a Rimini per armare due legni mercantili con cannoni — e mi fa scortare da un suo fratello, portatore della cifra d'intelligenza — con cui corrispondeva col primo senza ch'io nulla sapessi — Ero a Rimini — e qualunque ordine, parole ecc. si davano al generale Mezzacapo — che trovavasi esser mio subordinato — Io apprezzavo tutta la difficoltà della mia posizione — e mi toccava ad inghiottir veleno — colla speranza di poter giovare a questa sventurata mia terra — Per fortuna, ero alquanto compensato dei soprusi d'una codarda consorteria — dall'affetto delle popolazioni e dei miei militi — Un tempo — io mi lusingai di modificare l'ingrata situazione — e poter fare qualche cosa d'utile — cercando di guadagnare Fanti con amicizia — e feci ogni sforzo per acquistarla — ma si vedrà ben presto come m'ingannavo — e come si giuocò la mia buona fede — Ancona, le Marche, l'Umbria — erano insofferenti del giogo papale — e prima del mio arrivo — erano d'intelligenza con Cipriani per sollevarsi — L'armamento dei due bastimenti a Rimini, era stato motivato da quella circostanza — ed io avevo avuto istruzioni, per coadjuvare un movimento in quei paesi — La mia presenza a Rimini, esaltava quelle buone popolazioni — Ma francamente: massime per parte di Cipriani — si voleva aver l'apparenza di fare — e non solamente, si voleva non fare — ma inceppare l'azione e farla retrocedere — Con me, intanto, si usavano astuzie: un'idea non so se di Cipriani o di Fanti — era suggerita: di far giurare i volontari per 18 mesi. I volontari, sin dal principio degli avvenimenti, che ci avean portati al nuovo stato di cose — erano colla ferma: di _sei mesi dopo la guerra_ — Tutta quella brava gioventù serviva volenterosa, e non avrebbe fiatatto, anche se avesse dovuto servire per 10 anni — guerra durante — I diciotto mesi però di ferma fissa, non piacevano — io lo sapevo — e l'osservai prima a Cipriani, poi al generale in capo. Le mie osservazioni non valsero — e poco mancò: non perdessimo l'intiera divisione Mezzacapo, per tale intempestiva misura — Essendo a Bologna, io fui chiamato dall'Intendente Mayer di Forlì, e dal Collonnello Malenchini — Spaventati dalla diserzione, e dai congedi richiesti, nei corpi stanziati sulla linea della Cattolica. Io corsi, e pervenni a fermare in parte la dissoluzione di quei corpi — ma mentre faticavo in tale lavoro, Mezzacapo impiegava ogni sforzo per ottenere il contrario — cioè: far giurare per 18 mesi, con ordine forse di Fanti — e lo faceva colla compiacenza di contrariarmi — e forse anche di farmi scomparire, dagli occhi di chi non mi conosceva — Invano, io avevo chiesto di sospendere temporariamente il giuramento — Intanto le popolazioni delle Marche, e dell'Umbria, continuavano ad agitarsi — Il vecchio, e prode brigadiere Pichi — veterano della libertà Italiana — nativo d'Ancona, mantenevasi in costante corrispondenza colle oppresse popolazioni — Pratiche erano aperte pure col regno di Napoli — e con la Sicilia — Con meno opposizione per parte dei governanti, e dei loro generali — che se fossero stati pagati dai nostri nemici, per far male, non potevano far peggio — noi potevamo tentare ogni cosa — e seguire una marcia trionfale, verso il mezzogiorno dell'Italia — più facilmente, e più complettamente, che non si eseguì un anno dopo — Io avevo bensì delle istruzioni dal generale Fanti, espresse circa nei termini seguenti: «Essendo attacatto dalle truppe pontificie, respingerle — ed invadere il loro territorio — oppure, in caso d'insurrezione d'una città come Ancona — o d'un intiera comarca — invadere in ajuto dell'insurrezione» La prima ipotesi, era impossibile, perchè certamente i pontifici non pensavano ad attacarci — La seconda, era diventata difficilissima pure — essendo gli avversari nostri molto vigilanti — ed avendo aumentato i presidï d'Ancona, Pesaro, ecc. Nonostante s'introducevano armi in Ancona, nelle Marche, e si tenevano di buon animo quelle popolazioni — I giovani militi che componevano i corpi di vanguardia avrebbero risposto ad un ordine di marciare avanti con grida frenetiche di gioja — tale era l'entusiasmo generale, per correre a liberare i fratelli — Ma pesava sulla nostra povera patria quella fatalità, che da tanti secoli, la tiene incatenata indietro — sotto una forma, o sotto un'altra — essa trova sempre in se stessa quel germe maledetto — che ne contraria il progresso — Sempre — sono sono le sue discordie — che la martoriano — oggi poi, vi si agiunge tale stormo di dottrinari — che impossessati del timore della cosa publica — e sostenuti da chi non vuole l'Italia grande (1859) ne addormentano gli slanci generosi — Mentre io preparavo tutto per agire — di dietro si mandavano ordini ai miei subordinati, di non ubbidirmi — Il generale Mezzacapo per esempio: aveva un dispaccio, in cui il generale Fanti diceva: «Nessuno si mova, senza mio ordine — e questo trasmettetelo al generale Roselli» — Non solo i miei subordinati generali Mezzacapo e Roselli, avevano ordine di non ubbidirmi — ma lo stesso mio stato maggiore, aveva ordine, di andare a mettersi, a disposizione del collonnello Stefanelli preposto al comando della divisione Toscana — Tale era la mia condizione nell'Italia centrale quando giunse a Rimini il generale Sanfront inviato dal re — Egli mi trovò molto perplesso, e sdegnato contro la condotta sleale de' miei avversari, e senza il suo arrivo non so: a quel disperato partito, io mi sarei deciso — Accompagnai il generale Sanfront a Torino, ed ebbi una conferenza con Vittorio Emanuele — la conseguenza della quale fu: ch'egli consiglierebbe al generale Fanti d'accettare la demissione offertali dai governi di Firenze e Bologna — che la presenza di Cipriani nelle Romagne, era divenuta nociva — e che io alla testa delle forze del centro, avrei operato per il bene della causa comune, come avrei trovato a proposito — non dandomi però il suo consentimento — per l'invasione del territorio pontificio — Solite reticenze molto naturali nella sua posizione al cospetto d'un rivoluzionario: come non consentì un'anno dopo alla spedizione di Sicilia — al passaggio dello stretto di Messina — e finalmente alla marcia su Roma che finì ad Aspromonte. Io partivo da Torino — contento — e non perdevo tempo certamente nel recarmi a Modena — ove trovai Farini e Fanti, a cui spiegai francamente il risultato della mia missione — I miei oppositori, però, non dormivano: un telegrafo del Ministero della guerra, diceva a Fanti: di non accettare la demissione — e fratanto si lavorava presso Vittorio Emanuele, per cambiare le sue disposizioni a mio riguardo — La prima misura da prendersi nell'Italia centrale: era quella di far discendere Cipriani, dal governo di Bologna — Egli doveva scendere colle buone, o colle cattive: io lo significai a quei Signori — In caso, avessimo dovuto operare nello stato pontificio, non si poteva lasciare, dietro di noi un governatore contrario — che ad altro non tendeva — che ad inceppare l'armamento nazionale — La misura Cipriani, fu accolta favorevolmente da tutti — Tutti erano interessati all'allontanamento di quell'uomo — Farini e Fanti sopratutti — Fanti prevenuto da me sulla risoluzione del re, non era uomo da resistervi — ma Napoleone, Cavour, Farini, Minghetti, ecc. — erano troppo interessati a sostenerlo — Rattazzi — forse l'unico, fra i mestatori politici, che avrebbe dovuto apogiarmi — era debole, irresoluto — e forse anche lui alquanto Napoleonizzato — Ecco dunque Vittorio Emanuele — contrastato (se tuttociò non era un tranello) nelle sue buone intenzioni — e piegando ancora davanti alle prepotenze Cavouriane, come l'aveva fatto al principio della guerra, quando aveva dato l'ordine d'acrescere la mia forza col reggimento dei Cacciatori degli Appennini — che mi furono mandati poi a guerra finita — Farini — volpe vecchia — barcheggiava — Io, all'interpellanza di Minghetti: ¿Chi succederebbe a Cipriani? risposi: Farini. E veramente con ciò, si ottenevano due vantaggi — Il primo: era quello dell'unione delle Romagne ai ducati di Parma e Modena — con un governo solo — Il secondo: con Farini, uomo d'intelligenza superiore e di cuore Italiano — si otteneva: ciocchè non s'era mai potuto ottenere coll'altro — cioè spingere all'armamento ed all'unificazione — Sin dal principio del mio arrivo nell'Italia centrale, io avevo capito Farini — e s'egli non m'ispirava diffidenza come Italiano — non molta fiducia m'avea ispirato come amico personale — ed all'ultimo poi, m'ero accorto: ch'egli non agiva meco di buona fede. L'ultime mie parole a Farini, nel palazzo di Bologna furono le seguenti: «voi non foste schietto con me» e siccome lui mi rispondeva alquanto alterato — io aggiunsi ancora: «Sì! voi avete la principale colpa di questo pasticcio!» Devo confessare però, che a Modena, Farini avea fatto molto bene durante la sua dittattura — e che a Bologna — egli continuò a fare lo stesso — A Modena, lui e Frapolli fecero ciò, che nessuno ha potuto uguagliare nelle altre parti d'Italia — in misure energiche, armamenti, organizzazione ecc. Tutto questo però, non deviava il dittattore, dalla sua condotta poco schietta con me — e mentre egli rimaneva d'accordo sul da farsi a Bologna — lui al governo amministrativo ed io alle armi — scorgevo nel contegno della sua pallida faccia — ch'egli riceveva impressioni avverse dal di fuori — e ch'era disposto ad agire secondo l'aura che soffierebbe dal Piemonte — E l'aura aveva cessato di soffiare favorevolmente per me da Torino — I miei avversari avevano avuto il dissopra sullo spirito del re, influenzato senza dubbio, anche da Parigi — ove la discesa di Cipriani dal seggio di Bologna, e la mia comparsa al comando delle truppe del centro — non piacevano certamente — Io in luogo de' miei avversari — avrei detto: «Garibaldi ritirati!» ma cotesta gente, non era capace di tanta franchezza e cercava invece di allontanarmi — con ogni specie di contrarietà — e miserabili stratagemmi — Il prestigio mio nei militi, e nelle popolazioni — (sembravami almeno) mi poneva nel caso: di poter operare, anche a dispetto de' miei avversari — Io, non temevo certamente di lanciarmi una volta ancora nel vortice rivoluzionario — ove non mancava d'esservi probabilità di riuscita — ma era una rivoluzione ch'io dovevo iniziare — dovevo sciogliere nella milizia, e nel popolo ogni vincolo di disciplina — Vi era davanti e dietro a me l'intervento Francese: a Roma, a Piacenza, ecc. — Infine la sacra causa del mio paese, ch'io potevo compromettere mi trattennero dal fare. Io aspettavo dal re, qualche cosa — come fummo d'accordo — che doveva: se non autorizzare il mio operato — almeno implicitamente condiscendere — lasciandomene tutta la responsabilità — e pronto a reprimermi — anche se fosse occorso — A tutto io mi sottomettevo — ed a qualunque evento ero disposto — Ma nulla giunse! Io mandai finalmente il maggiore Corte da Vittorio Emanuele — e fui chiamato a Torino — Giunto nella capitale — mi presentai al re — e m'accorsi subito del cambiamento in lui operatosi dalla mia ultima conferenza — Egli mi ricevette colla solita bontà — ma mi fece capire in poche parole: che le esigenze del di fuori lo obligavano allo Statu quo — e che credeva meglio: tenermi da parte per qualche tempo — Il re desiderava ch'io accettassi un grado nell'esercito — non accettai ringraziandolo — ma accettai un bel fucile da caccia, ch'egli volle regalarmi — e che m'inviò per il Capitano Trecchi — del mio stato maggiore, mentre io era già in un vagone del treno per Genova — Giunsi a Genova, da Genova a Nizza — ove passai tre giorni coi miei figli — e tornai a Genova per trovarmi pronto al vapore che partiva per la Maddalena — il 28 Novembre 1859 — Ero pronto alla partenza — avevo il mio bagaglio a bordo — quando trovandomi in casa del mio amico Coltelletti — mi giunse una deputazione di distinti Genovesi — col sindaco della città il Sig.r Moro — Quei signori, mi significarono: che il mio allontanamento sarebbe stato un male in quelle circostanze: io mi conformai a rimanere — ed accettai l'ospitalità offertami dal mio amico Signor Leonardo Gastaldi — in una sua villa di Sestri — ove passai pochi giorni — In quel tempo parlavasi di guardie nazionali mobili — ed il Collonnello Turr — mi disse che il re desiderava di vedermi per combinare qualche cosa a tale proposito — Giunto a Torino vidi il re — con me sempre buono — vidi Ratazzi ministro, ed assicuro che m'ispirò poca fiducia — Con ambi, rimasi d'accordo, ch'io sarei incaricato dell'organizzazione, della guardia Nazionale mobile della Lombardia — ed io mi contentai di tale disposizione per due motivi — Il primo era quello di poter preparare un buon contingente per l'esercito nella guerra indispensabile, in cui l'Italia dovrebbe necessariamente tuffarsi ancora — Il secondo, di poter collocare in quelle guardie mobili — tanti, de' miei poveri fratelli d'armi, raminghi e senza pane — una gran parte — Mentre a Torino, io aspettavo la nomina che dovea prepormi alla suddetta organizzazione — e fui visitato dagli egregi patrioti Brofferio, Sineo, Asproni — ed altri deputati liberali — che mi manifestarono voler profitare del mio soggiorno nella capitale per conciliare le diverse frazioni del partito avanzato — scisse da qualche tempo, e che si facevano una guerra indecorosa e nociva alla causa Italiana — solite magagne del nostro povero paese! Da principio dubitando di poter riuscire all'intento propostomi — ed avversando un po', qualunque associazione, che non sia quella della nazione intiera — io ricusai di accettare — e sarebbe stato meglio: avessi perseverato in tale risoluzione — Ma sollecitato ancora, e facendomi capire: che si poteva fare gran bene, riuscendo, io accettai finalmente — e si combinò d'istituire una Società, che sotto il nome di _nazione armata_ — accoglierebbe tutte le altre[84]. Sin lì — tutto andava perfettamente — e tutti gl'individui appartenenti alle differenti società — che si presentavano a me — aderivano all'idea della fusione, e se ne mostravano contenti — Una riunione della Società: _Libera Unione_ — doveva sancire l'atto conciliativo — ma all'opposto quelli stessi che con me s'eran mostrati soddisfatti dell'avvicinamento proposto — propugnarono idee affatto contrarie, e con un pretesto o coll'altro — dissero: essere la conciliazione impossibile — Era idea mia antica — e me ne persuasi sempre più: che per metter d'accordo noi Italiani — vi voglion le stangate — e niente meno. Fu tutta fatica perduta — e peggio poi: gli ambasciatori stranieri, forti della debolezza governativa — e come si disse: eccitatti da Cavour e da Bonaparte allora onnipotente — chiesero delle spiegazioni — e per corollario, il ministero in massa — meno Ratazzi, chiese la demissione — Il pretesto fu la nazione armata — la mobilizzazione della guardia nazionale — e se mi è permesso tanta presunzione: il mio povero individuo, implicato in tutto ciò — La _Nazione armata_ — fu cotesto un fulmine per quella miserabile diplomazia che vuole l'Italia debole — Diplomazia _chauvine_, Bonapartesca, e che ha per continuatore il piccolo monarca della Republica Francese[85]. Ciò serva ai miei concittadini: e sappiano dunque, che per passare dallo stato di conigli, come siamo stati sin'ora a quello di leoni da spaventare i prepotenti nostri vicini, vi vuole la _nazione armata_ — cioè due millioni di militi — ed i preti, onestamente occupati alle bonifiche delle paludi Pontine — Il re mi fece chiamare, e mi disse: che bisognava desistere da qualunque delle idee progettatte — _P. S._ Per dimenticanza io non ho forse menzionato il collonnello Peard — chiamato volgarmente: «L'Inglese di Garibaldi» Questo valoroso figlio della Britannia, comparì nel 59 tra i nostri volontari, armato di tutto punto, con una preziosa carabina — e facendo l'ammirazione di tutti per la precisione dei suoi tiri, e per lo straordinario sangue freddo — ove maggiore era il pericolo — Il collonnello Peard — modesto e senza pretese — giacchè egli non voleva soldo — compariva ogni volta che i nostri volontari entravano in campo — Si distinse molto nel 59 — e nel 60 egli contribuì molto alla venuta di quel bellissimo contingente Inglese — che quantunque giunto tardi — fece eccellente prova — negli ultimi fatti d'armi combattutti nelle pianure di Capua — Se Bonaparte, e la monarchia Sarda — non ci avessero vietato di marciar su Roma, dopo la battaglia del Volturno — il contingente Inglese — che si aumentava ogni giorno — ci avrebbero giovato sommamente all'acquisto dell'immortale capitale d'Italia — Il maggiore d'artiglieria Dawling — ed il cap.no Forbes — ambi Inglesi — pugnarono da valorosi nelle fila dei volontari — Come loro, io vorrei poter segnalare alla gratitudine della mia patria tutti quei prodi e valorosi che la servirono colla vita — Deflotte — che dobbiamo considerare martire nostro — e Bordone — oggi generale — meritarono pure tutta la riconoscenza nostra — TERZO PERIODO CAPITOLO I. Campagna di Sicilia — Maggio 1860. Sicilia! Un filiale, e ben meritato affetto mi fa consacrarti queste prime parole d'un periodo glorioso — terra di prodigi e d'uomini prodigiosi! Tu genitrice degli Archimedi — porti nella luminosa tua storia — due impronte — che si cercano invano nella storia dei più grandi popoli della terra — Due impronte del valore e del genio — che provano: la prima, che non v'è tirannide per fortemente costituita essa sia — che non possa esser rovesciata nella polve, nel nulla — dallo slancio, dall'eroismo d'un popolo — come il tuo insofferente d'oltraggi — Questa prima: sono i sublimi — gl'immortali tuoi Vespri! La seconda appartiene al genio di due fanciulli — che fanno probabili le scoperte della mente umana nelle sterminate regioni dell'Infinito[86]. Anche una volta — Sicilia! Ti toccava di svegliare i sonnolenti! Di strappare dal letargo, gli addormentati dalla diplomazia, e dalla dottrina — Coloro, che non del proprio ferro armati — confidano ad altri, la salvezza della patria, e così la mantengono nella dipendenza, e nell'umiliazione — L'Austria è potente — i suoi eserciti sono numerosi; alcuni formidabili vicini — sono contrari per miserabili mire dinastiche al risorgimento d'Italia — il Borbone ha cento milla soldati! E che monta! Il cuore di 25 millioni, palpita, freme d'amor di patria! La Sicilia che lo riassume tutto — insoffrente di servaggio, ha gettatto il guanto alla tirannide — Essa la sfida dovunque: la combatte tra le mura del monastero — e sulle cime de' suoi estinti volcani — Ma son pochi! Le falangi del tiranno sono numerosissime — ed i patrioti sono schiacciati, rigettatti dalla capitale — ed obligati di ricoverarsi nei monti — ¿E non sono i monti, l'albergo, il santuario della libertà dei popoli? Gli Americani, gli Svizzeri, i Greci — tennero i monti, quando soverchiati dalle ordinate coorte dei dominatori — «Libertà non fallisce ai volenti» E ben lo provarono cotesti fieri isolani — cacciati dalle città, e mantenendo il fuoco sacro nelle montagne! Fatiche, disagi, privazioni — che importa! quando si pugna per la causa santa del proprio paese, e dell'umanità! O Mille!..... In questi tempi di vergognose miserie, giova ricordarvi — l'anima rivolta a voi — si sente sollevata dal mefìte di quest'atmosfera da ladri, e da prostituti — pensando: che non tutti — perchè la maggior parte di voi, ha seminato l'ossa su tutti i campi di battaglia della libertà — non tutti ma bastanti ancora per rappresentare la gloriosa schiera — restate, avanzo superbo ed invidiato — pronti sempre a provare ai boriosi vostri detrattori — che tutti non son traditori e codardi — non tutti spudorati sacerdoti del ventre — in questa terra dominatrice e serva! «Ove vi sono dei fratelli che pugnano per la libertà Italiana, là bisogna accorrere» voi diceste: ed accorreste, senza chiedere s'eran molti i nemici da combattere — se sufficiente il numero de' volenterosi — se bastanti i mezzi per l'ardua impresa — Voi, accorreste sfidando gli elementi, i disagi, i pericoli — con cui vi attraversaron la via, nemici, e sedicenti amici — Invano il Borbone col numeroso naviglio, incrociava, stringendo in un cerchio di ferro la Trinacria, insofferente di giogo — e solcava in tutti i sensi il Tirreno — per profondarvi ne' suoi abissi — Invano! Vogate! vogate pure, Argonauti della libertà! Là, sull'estremo orizzonte dell'Ostro, splende un'astro che non vi lascerà smarrire la via — che vi condurrà al compimento della grande impresa — l'astro che scorgeva il grandissimo cantore di Beatrice — e che scorgevano i grandi che lo successero, nel più cupo della tempesta — la stella d'Italia! ¿Ove sono i piroscafi, che vi presero a Villa Spinola, e vi condussero attraverso il Tirreno, nel piccolo porto di Marsala? Ove? Son forse essi, nuovi Argo — gelosamente conservati — e segnati all'ammirazione dello straniero, e dei posteri — simulacro della più grande e più onorevole delle imprese Italiane? Tutt'altro — essi sono scomparsi! L'invidia, e la dapoccagine di chi regge l'Italia, hanno voluto distruggere quei testimoni delle loro vergogne! Chi dice: essi furono distrutti in premeditati naufragi — Chi: li suppone a marcire nel più recondito d'un arsenale — E chi: venduti agli ebrei — come veste sdruscite — Vogate però! Vogate impavidi: _Piemonte e Lombardo_[87] nobili veicoli d'una nobilissima schiera — la storia rammenterà i vostri nomi illustri, a dispetto della calunnia — E quando l'avanzo dei Mille, che la falce del tempo avrà risparmiato per gli ultimi, seduti al focolare domestico, racconteranno ai nipoti, la quasi favolosa impresa — a cui ebber l'onore di partecipare — Oh! essi ben ricorderanno, alla gioventù attonita, i nomi gloriosi che componevano l'intrepidissimo naviglio — Vogate! Vogate! Voi portate i Mille — a cui s'agregherà il millione — il giorno in cui queste masse ingannate capiranno: esser un prete un'impostore, e le tirannidi un mostruoso anacronismo — Com'eran belli, i tuoi Mille, Italia! Pugnando contro i piumati indorati sgherri — spingendoli davanti a loro, come se fosse gregge — Belli! Belli! e variovestiti — come si trovavano nelle loro officine — quando chiamati dalla tromba del dovere — Belli! Belli erano coll'abito ed il capello dello studente — colla veste più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro[88]. Io ero in Caprera quando mi giunsero le prime notizie d'un movimento in Palermo — Notizie incerte — or di propagante insurrezione, ora annientata alle prime manifestazioni — Le voci continuavano però a mormorare d'un moto — e questo soffocato o no, — aveva avuto luogo — Ebbi avviso dell'accaduto dagli amici del continente — Mi si chiedevano le armi ed i mezzi del _millione di fucili_ — Titolo che s'era dato ad una sottoscrizione per l'acquisto d'armi — Rosolino Pilo, con Corrao, si disponevano a partire per la Sicilia — Io conoscendo lo spirito di chi reggeva le sorti dell'Italia settentrionale — e non ancora desto dal scetticismo in cui m'avevano precipitato i fatti recenti degli ultimi mesi del 59 — sconsigliavo dal fare, se non si avevano nuove più positive dell'insurrezione — Gettavo il mio ghiaccio di mezzo secolo nella fervida, potente risoluzione di 25 anni — Ma era scritto sul libro del destino! Il ghiaccio, la dottrina, il pedantismo — seminavano in vano di ostacoli la marcia incalzante delle sorti Italiane! Io consigliavo di non fare — ma per Dio! Si faceva — ed un barlume di notizie, anunciava che l'insurrezione della Sicilia, non era spenta. Io consigliavo di non fare? Ma l'Italiano, non dev'essere, ove l'Italiano combatte per la causa nazionale contro la tirannide? Lasciai la Caprera per Genova — e nelle case de' miei amici Augier e Coltelletti — si cominciò a ciarlare della Sicilia e delle cose nostre — A Villa Spinola poi, in casa dell'amico Augusto Vecchi — si principiò a fare dei preparativi per una spedizione — Bixio è certamente il principale attore della spedizione sorprendente — Il suo coraggio, la sua attività — la pratica sua nelle cose di mare — e massime di Genova suo paese natio — valsero immensamente ad agevolare ogni cosa — Crispi, Lamasa, Orsini, Calvino, Castiglia, gli Orlandi, Carini, ecc. tra i Siciliani, furono fervidissimi per l'impresa — così Stocco, Plutino, ecc. Calabresi — Si era tra tutti, stabilito, che comunque fosse: battendosi i Siciliani bisognava andare — probabile, o no — la riuscita — Alcuni voci di sconforto — mancarono però di poco, a distruggere la bella spedizione — Un telegramma da Malta, mandato da un amico degno di fede — anunciava tutto perduto — e ricoverati in quell'isola, i reduci della rivoluzione Siciliana — Si desistè quasi intieramente dall'impresa — Bisogna però confessare: che nei Siciliani suddetti — mai venne meno la fede — e che guidati dal bravo Bixio, essi erano ancora decisi di tentare la sorte — almeno per verificare la cosa sul terreno stesso della Sicilia. Intanto il governo di Cavour — cominciava a gettare quella rete d'insidie, e di miserabili contrarietà, che perseguirono la nostra spedizione sino all'ultimo — Gli uomini di Cavour non potevano dire: «non vogliamo una spedizione in Sicilia» l'opinione generale dei nostri popoli, li avrebbe dichiarati reprobi — e quella popolarità fittizia — guadagnata col denaro della nazione — comprando uomini e giornali sarebbe stata scossa probabilmente — Io potevo dunque, preparare qualche cosa — per i fratelli militanti della Sicilia — temendo poco d'esser arrestato da cotesti Signori — e sorretto dal generoso sentimento delle popolazioni — commosse fortemente dalla maschia risoluzione dei coraggiosi Isolani — La disperazione, ed il forte proposito degli uomini del Vespro potevano soli spingere avanti tale insurrezione — Lafarina delegato da Cavour per sorvegliarci — mostrava non aver fede nell'impresa — e valevasi per dissuadermi della sua conoscenza del popolo Siciliano — essendo lui stesso nativo di quell'isola — e mi alegava: che avendo perduto Palermo — gl'insorgenti comunque essi fossero, erano perduti — Una notizia governativa però, data da lui stesso contribuì a corroborarci nella risoluzione d'agire — A Milano esistevano una quindicina di milla fucili buoni — e di più, mezzi pecuniari di cui si poteva disporre — A capo della direzione: _Millione di fucili_ — stavano Besana e Finzi — su cui si poteva contare pure — Besana giunto a Genova, da me chiamato, con fondi — ed avendo lasciato l'ordine alla sua partenza da Milano: che ci fossero inviati fucili, munizioni, ed agli [altri] oggetti militari che vi si trovavano — Nello stesso tempo Bixio, trattava con Fauché dell'amministrazione dei vapori Rubattino — per poterci recare in Sicilia — La cosa non marciava male — e grazie all'attività di Fauché e Bixio — e lo slancio generoso della gioventù Italiana, che accorreva da ogni parte — noi ci trovavamo in pochi giorni atti a prendere il mare — quando un'incidente inaspettato, nonchè ritardarci, quasi impossibile rendeva la nostra impresa — I mandati, per ricevere i fucili a Milano, trovarono alla porta del deposito, carabinieri reali, che intimarono di non pigliare un solo fucile! Cavour aveva dato tal ordine — Cotesto ostacolo non mancò di contrariarci ed indispettirci — non però di farci desistere dal nostro proposito — e siccome non potendo avere le armi nostre, noi tentavamo d'acquistarne altrove — e ne avressimo trovato certamente — allora Lafarina offrì mille fucili, ed otto milla lire — ch'io accettai senza rancore — Liberalità pelosa delle volpi alto-locate — E realmente: noi fummo privi dei buoni fucili nostri che restarono in Milano, e fummo obligati di servirci dei cattivissimi fucili Lafarina — I miei compagni di Catalafimi, racconteranno con che armi pessime, essi ebbero a combattere — contro le buone carabine Borboniche — in quella pugna gloriosa — Tutto ciò ritardò la nostra partenza — e fummo quindi in dovere di rimandare a casa molti volontari — il cui numero diventava superfluo — per l'insufficienza dei trasporti — e per non insospettire inutilmente le polizie — non eccetuate la Francese e la Sarda — La ferma volontà di fare, però, e di non abbandonare i nostri fratelli della Sicilia, vinse ogni ostacolo — Si richiamarono i volontari ch'eran stati destinati alla spedizione — che accorsero immediatamente, massime dalla Lombardia — I Genovesi erano rimasti pronti — Le armi, le munizioni, i viveri, i pochi bagagli — s'imbarcarono a bordo di piccole barche — Due vapori: il _Lombardo_ ed il _Piemonte_ — comandati il primo da Bixio ed il secondo da Castiglia — furono fissati — e nella notte del 5 al 6 maggio — uscirono dal porto di Genova — per imbarcare la gente che aspettava, divisa tra la Foce e Villa Spinola — Alcune difficoltà inevitabili, in tale genere d'imprese, non mancarono di contrariarci — Giungere a bordo di due vapori nel porto di Genova, ormeggiati sotto la darsena — impadronirsi degli equipaggi, e costringerli ad ajutare i predoni — Accendere i fuochi — prendere il _Lombardo_ a rimorchio del _Piemonte_ — che si trovò pronto — mentre non lo era l'altro — e tutto ciò con uno splendido chiaro di luna; son tutti fatti più facili a descriversi, che ad eseguire — e vi fa mestieri molto sangue freddo, capacità, e fortuna — I due Siciliani Orlando, e Campo, della spedizione — ed ambi macchinisti ci valsero sommamente in tale circostanza — All'alba tutto era a bordo — L'ilarità del pericolo, delle venture — e della coscienza di servire la causa santa della patria — era impronta sulla fronte dei Mille — Erano Mille, quasi tutti Cacciatori delle Alpi — quelli stessi che Cavour abbandonava alcuni mesi prima nel fondo della Lombardia alle spalle degli Austriaci — e che rifiutava di mandar loro il rinforzo ordinato dal re — quelli stessi cacciatori delle Alpi, che si ricevevano nel ministero di Torino — quando disgraziatamente ne abbisognavano — come se fossero apestati — e come tali si cacciavano — gli stessi mille, che si presentavano due volte in Genova per correre un pericolo certo — e che si presenteranno sempre, ove si tratta di dar la vita all'Italia — non aspettando altro guiderdone che quello della loro coscienza — Belli! eran quei miei giovani veterani della Libertà Italiana — ed io superbo della loro fiducia mi sentivo capace di tentare ogni cosa — 3º Periodo, 1860. CAPITOLO II. Il cinque Maggio. O notte del 5 Maggio — rischiarata dal fuoco di mille luminari, con cui l'Onnipotente adornò lo spazio! L'Infinito! Bella, tranquilla solenne — di quella sollennità che fa palpitare le anime generose, che si lanciano all'emancipazione degli schiavi! Tali, erano i mille — adunati e silenziosi, sulle spiaggie dell'orientale Liguria — raccolti in gruppi, cupi — penetrati dalla grande impresa — ma fieri d'esservi caduti in sorte — succedan pure i disagi o il martirio! Bella, la notte del gran concetto! Tu romoreggiavi nelle fibra di quei superbi — con quell'armonia indefinita, sublime, con cui gli eletti sono beati contemplando, nello spazio sterminato, l'Infinito! Io l'ho sentita quell'armonia, in tutte le notti che si somigliano alla notte di Quarto — di Reggio, di Palermo, del Volturno — ¿E chi dubita della vittoria quando portato sulle ali del dovere e della coscienza — tu sei sospinto ad affrontare i perigli, la morte — siccome il bacio delizio della tua donna? I Mille battono il piede sulla roccia — come il corsiero generoso impaziente della battaglia — ¿E dove vanno essi a battagliare in pochi — contro numerose ed aguerrite soldatesche? Han forse ricevuto l'ordine d'un sovrano — per invadere, conquistare una povera infelice popolazione — che rovinata dalle imposte di delapidatori ha rifiutato di pagarle? No! essi corrono verso la Trinacria — ove i Picciotti, insofferenti del giogo d'un tiranno — si son sollevati — ed han giurato di morire — piutosto che rimanere schiavi — ¿E chi sono i Picciotti? Con quel modestissimo titolo, essi altro non sono: che i discendenti del grandissimo popolo dei Vespri — che in un'ora sola trucidò un'intiero esercito di sgherri — senza lasciarne vestigio! I due piroscafi giunsero sulla rada di Quarto — e l'imbarco dei Mille fu eseguito celeremente — essendo stati preventivamente preparati tutti i gozzi[89] necessari all'uopo — 3º periodo, 1860. CAPITOLO III. Da Quarto a Marsala. Tutti imbarcati, e pronti a proseguire verso Sicilia nuovo incidente, fece rabbrividire i più risoluti — e poco mancò non giungesse ad annientare l'impresa. Due barche appartenenti a certi contrabandieri, eran state caricate colle munizioni, capsule, ed armi minute — Quelle barche dovevano trovarsi sulla direzione del monte di Portofino e la lanterna di Genova — Si cercarono per più ore in quella direzione e fu impossibile di trovarle — Importantissima mancanza: munizioni da guerra con capellozzi — ¿E chi ardisce avventurarsi ad un'impresa ove bisogna combattere — senza munizioni? Eppure dopo d'aver cercato tutta la mattina — in ogni direzione — e dopo d'aver preso olio e sego a Camugli, per la macchina — i due piroscafi si dirigevano a Scirocco — fidando nella fortuna d'Italia — Per aver munizioni conveniva toccare un porto della Toscana — e si scelse Talamone — Io devo encomiare le autorità tutte di Talamone, e di Orbitello, per la cordiale e generosa accoglienza — ma particolarmente il tenente collonnello Giorgini comandante militare principale — senza il di cui concorso, non avressimo certamente potuto provvederci del necessario — Non solamente trovammo munizioni a Talamone, ed Orbitello, ma carbon fossile e cannoni — ciocchè facilitò molto e confortò la spedizione nostra — Dovendo agire in Sicilia, non era male apparire — anche con una diversione nello stato pontificio — minacciando cotesto stato e quello del Borbone verso tramontana — con cui si otteneva almeno: di ocupare l'attenzione del nemico — o dei nemici — per alcuni giorni — verso quella parte — ed ingannarli sul vero obbiettivo dell'impresa — Lo proposi a Zambianchi, ed accettò risolutamente — Egli avrebbe fatto certamente di più — s'io avessi potuto lasciarli più uomini e mezzi — e s'accinse all'opera difficoltosa con una sessantina d'uomini — Infine da S. Stefano, ove si caricò un po di carbon fossile, noi salpammo direttamente per la Sicilia — con prora al Marettimo — nelle ore pomeridiane del 9 Maggio — La navigazione fu felice — ebbimo però due incidenti dispiacevoli prodotti dallo stesso individuo — che aveva la mania di volersi annegare — ma che per due volte, ci diede molto disturbo, senza poter ottenere l'intento — Egli s'era gettatto in mare dal _Piemonte_ — e lo salvammo malgrado tutta la velocità del vapore — con uno di quei colpi di mano che tanto onorano l'uomo di mare — Fermare il piroscafo — metter un canoto in acqua — e precipitarsi nello stesso con tutta la velocità, di cui è capace il marino — senza misurare il pericolo — e vogare verso il pericolante, alla direzione indicata da quei di bordo — fu tanto presto fatto quanto si descrive — Il marino Italiano, non è secondo a nessuno, in quei momenti, che molto abbisognano di sveltezza e coraggio — Eppure tale individuo che sembrava così deciso a morire, cambiava divisamento colla freschezza dell'acqua — e colla prossimità della morte — giacchè una volta in mare, egli nuotava com'un pesce — e faceva ogni sforzo per ragiungere i suoi salvatori — Lo stesso successe al _Lombardo_, e questa volta, quasi diveniva fatale alla spedizione, la pazzia del preteso suicida — Quell'individuo aveva fatto la prima prova col _Piemonte_ a Talamone — In quel porto, ove sbarcammo la gente in terra — per meglio adagiarsi che a bordo ove necessariamente era ristretta — egli s'imbarcò sul _Lombardo_, di contrabbando; poichè tenuto per pazzo — s'era sbarcato dal primo — e s'era raccomandato al comandante di Talamone — Non si sa come però — egli s'era trovato nuovamente sul _Piemonte_ — e col canoto che lo salvò s'era rimesso al _Lombardo_. Da questo fece l'ultima prova d'annegamento nella sera del giorno 10 — vigilia del nostro aprodo in Sicilia — In quella sera del 10, lusingandomi di poter scoprire il Marettimo — io avevo fatto fare grande sforzo di macchina al _Piemonte_, di marcia superiore — E quindi per tale motivo — e per la caduta in mare dell'individuo suddetto dal _Lombardo_ — questo nostro compagno era rimasto indietro fuori di vista — Non avendo potuto scoprire il Marettimo — io pensai subito al compagno — che avevo rilevato al tramonto e che compariva una nuvoletta sull'orizzonte — Mi nacque subito un senso di pentimento — di timore, aumentato dalla caduta della notte — Staccarci dal _Lombardo_, e per colpa mia — era spiacevolissima cosa — ed un contratempo alla già ben ardua impresa — Feci perciò, diriger subito la prora alla direzione del compagno — Aumentandosi l'oscurità della notte cresceva il mio timore — ogni minuto sembravami un'ora — l'incidente poi dell'uomo in mare — non saputo e ch'era causa del ritardo — io stetti per un momento in dubbio di smarrire il _Lombardo_ — È indicibile, ciocchè io soffersi in quel breve tempo — e qual rimprovero facevo a me stesso — per la folle impazienza di spingermi alla scoperta del Marettimo — Finalmente comparve il _Lombardo_ — ed era naturale il non perderlo, navigando l'uno sull'altro — eppure io avevo avuto una paura maledetta! Ora, per compimento ne accadde una più bella —: Nella posizione, ove noi avevamo fatto notte col _Piemonte_ v'erano vari bastimenti sconosciuti, in vista — Bixio li avea veduti — e non avea potuto riconoscerli, per la gran distanza — Dimodocchè scorgendo noi — che in luogo di aspettarlo — com'era successo avanti — vogavimo con tutta velocità alla sua direzione — ci prese per un gran piroscafo nemico, e cercò di allontanarsi da noi, dirigendosi a tutta forza verso Libeccio — Vera disperazione! Io m'accorsi dell'errore — e feci fare ogni segnale — convenuto — e non convenuto — giacchè si adoperarono fanali, ch'eravamo convenuti di non usare — per non suscitar sospetti — ma non valendo questi, corsimo dietro il compagno, prima di perderlo di vista nell'oscurità. Lo ragiungemmo felicemente — e ad onta del romore delle ruote, la mia voce fu conosciuta, e tutto fu riparato — Navigammo vicini il resto della notte — e nella mattina scoprimmo il Marettimo, e ci dirigemmo a mezzogiorno di quell'isola — Durante il viaggio s'erano formate otto compagnie di tutta la gente, con a capo d'ogni compagnia, gli ufficiali i più distinti della spedizione — Sirtori era nominato capo di Stato Maggiore — Acerbi Intendente — Türr ajutante di campo — S'erano distribuite le armi, e le poche vestimenta, che si poterono raccogliere prima della partenza — Il primo progetto di sbarco, fu per Sciacca — ma il giorno essendo avanzato — e temendo d'incontrare incrociatori nemici — si prese la determinazione di sbarcare nel porto più vicino di Marsala — 11 Maggio 1860 — Avvicinando la costa occidentale della Sicilia — si cominciò a scoprire legni a vela, e vapori — Sulla rada di Marsala, erano alla fonda due legni da guerra, che si scoprirono esser Inglesi — Deciso lo sbarco a Marsala ci dirigemmo verso quel porto — ove approdammo verso il meriggio — Entrando nel porto vi trovammo legni mercantili di diverse nazioni — La fortuna aveva veramente favorito e guidato la spedizione nostra — e non si poteva giungere più felicemente — Gli incrociatori borbonici da guerra — avevano lasciato il porto di Marsala nella mattina — s'eran diretti a levante — mentre noi giungevamo da Ponente e si trovavano alla vista verso capo S. Marco — quando noi entrammo — Dimodocchè quando essi giunsero a tiro di cannone, noi avevamo già sbarcato tutta la gente dal _Piemonte_ — e si principiava lo sbarco del _Lombardo_ — La presenza dei due legni da guerra Inglesi, influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de' legni nemici — naturalmente impazienti di fulminarci — e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro — La nobile bandiera di Albione, contribuì anche questa volta — a risparmiare lo spargimento di sangue umano — ed io, beniamino di cotesti Signori degli Oceani — fui per la centesima volta il loro protetto — Fu però inesatta la notizia data da nemici nostri: che gl'Inglesi avessero favorito lo sbarco in Marsala direttamente, e coi loro mezzi — I rispettatti, ed imponenti colori della Gran Brettagna — sventolando su due legni di guerra della potentissima marina — e sullo stabilimento Ingham — imposero titubanza, ai mercenari del Borbone — e dirò anche vergogna — dovendo essi far fuoco, con imponenti batterie, contro un pugno d'uomini armati di quei tali fucili — con cui la Monarchia suole far combattere i volontari Italiani — Ciò nonostante i tre quarti dei volontari, trovavansi ancora sul molo, quando i Borbonici cominciarono la loro pioggia di ferro — sparando con granate e mitraglie — che felicemente nessuno ferirono — Il _Piemonte_ abbandonato da noi fu portato via dai nemici — Lasciarono il _Lombardo_ perchè arenato — La popolazione di Marsala, attonita dall'inaspettato evento non ci accolse male — Il popolo ci festeggiò — I magnati fecero le smorfie — Io trovai tutto ciò molto naturale — Chi si assuefa a calcolare ogni cosa al tanto per cento — non è certo tranquillo alla vista di pochi disperati — che vogliono sradicare il cancro del privilegio e della menzogna da una società corrotta per migliorarla — Massime poi, quando cotesti disperati — in pochi — senza cannoni da trecento e senza corazzate — si avventano contro una potenza creduta gigante — come quella del Borbone — I magnatti, ossia gli uomini del privilegio — pria di avventurarsi in un'impresa — vogliono assicurarsi da che parte soffia il vento della fortuna — e dei grossi battaglioni — ed allora i trionfatori ponno esser certi di trovarli docili — senza smorfie — ed esaltati se occorre — ¿Non è questa la storia dell'egoïsmo umano in tutti i paesi? Il povero popolo all'incontro ci accolse plaudente — e con segni manifesti d'affetto — Egli ad altro non pensò che alla santità del sacrificio — all'ardua e generosa impresa, a cui s'accingeva quel pugno di prodi giovani venuti da lontano in soccorso dei fratelli — Passammo il resto dell'11, e la notte a Marsala — qui, cominciai a valermi di Crispi — Siciliano onesto — e di molta capacità — e che mi giovò sommamente negli affari governativi — e nelle indispensabili relazioni col paese, ch'io non conoscevo — Si cominciò a parlare di Dittattura, ch'io accettai senza replica — poichè l'ho sempre creduta la tavola di salvezza, nei casi d'urgenza — e nei grandi frangenti in cui sogliono trovarsi i popoli — La mattina del 12, partirono i Mille per Salemi — ma essendo la distanza troppa per una tappa — ci fermammo allo stabilimento agricolo di Mistretta, ove passammo la notte — Non vi trovammo il principale dello stabilimento — ma un giovinetto fratello di quello, fece gli onori dell'ospitalità — con modo gentile e generoso — A Mistretta si formò una nuova compagnia con Griziotti — Il 13 marciammo a Salemi — ove fummo bene accolti dalla popolazione — ed ove cominciarono a riunirsi a noi le squadre dei S. Anna d'Alcamo, ed alcuni altri volontari dell'isola. Il 14 occupammo Vita o S. Vito — ed il 15 cominciammo a vedere il nemico, che occupando Calatafimi, e sapendo del nostro approssimarsi a quella volta — aveva spiegato la maggior parte delle sue forze sulle alture, chiamate: «il pianto dei Romani»[90]. 3º periodo. CAPITOLO IV. Calatafimi — 15 Maggio 1860. L'alba del 15 Maggio — ci trovò in buon ordine sulle alture di Vita — e dopo poco, il nemico ch'io sapevo in Calatafimi — usciva in collonna dalla città alla direzione nostra — I colli di Vita, sono fronteggiati, dalle alture suddette «del pianto dei Romani» ove il nemico spiegò le sue collonne — Dalla parte di Calatafimi, coteste alture hanno un dolce declivio — Il nemico le ascese facilmente, e ne coronò tutti i vertici — che dalla parte di Vita sono formidabilmente scoscesi — Occupando noi le alture opposte ad ostro — io avevo potuto scoprire esattamente tutte le posizioni tenute dai Borbonici — mentre questi, appena potevano vedere la catena di tiratori formata dai carabinieri Genovesi alli ordini di Mosto — e che coprivano la fronte nostra — essendo tutte le compagnie indietro coperte, e formate in scaglioni — La nostra povera artiglieria era collocata alla sinistra nostra, sullo stradale, agli ordini di Orsini — che fece alcuni buoni tiri — comunque — Dimodocchè tanto noi, che i nemici occupavamo fortissime posizioni, di fronte le une delle altre — e divise da uno spazioso terreno, con pianure ondulate e poche cascine di campagna — Era quindi vantaggioso: aspettare il nemico nelle posizioni proprie. I borbonici, in numero di circa due milla uomini con alcuni pezzi d'artiglieria — scoprendo poca gente dei nostri, non uniformati, e frammisti a dei villici — avanzarono baldanzosi alcune catene di bersaglieri, con sostegni, e due pezzi d'artiglieria — Giunti a tiro — essi cominciarono il fuoco: di carabine e cannoni — continuando ad avanzare su di noi — L'ordine tra i Mille, era di non sparare, e di aspettare il nemico vicino — Comunque — già i prodi Liguri, avendo un morto, e vari feriti — uno squillo di tromba, suonando una sveglia Americana — fermò il nemico — come per incanto — Esso capì: che non aveva da fare colle sole squadre dei Picciotti — e le sue catene coi pezzi — accennarono ad un movimento retrogrado — Fu questa la prima paura che sentirono i soldati del despotismo al cospetto dei Flibustieri[91]. I Mille toccarono allora la carica: i Carabinieri Genovesi in testa — e con loro un'eletta schiera di giovani, impazienti di venir alle mani — L'intenzione della carica: era di fugare la vanguardia nemica e d'impossessarsi dei due pezzi — ciocchè fu eseguito con un impeto degno dei campioni della libertà Italiana — non però di attacar di fronte, le formidabili posizioni occupate dai borbonici — con molte forze — Però, chi fermava più, quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul nemico? Invano le trombe toccarono «alto» — i nostri non le udirono — o fecero come Nelson alla battaglia di Copenhaguen[92] — I nostri fecero i sordi al tocco d'_alto_ delle trombe — e portarono a bajonettatte la vanguardia nemica, sino a mischiarla col grosso delle sue forze — Non v'era tempo da perdere — o perduto sarebbe stato quel pugno di prodi — Subito dunque, si toccò a carica generale — e l'intiero corpo dei Mille — accompagnato da alcuni coraggiosi Siciliani e Calabresi — mosse a passo celere alla riscossa — Il nemico avea abandonato il piano — ma ripiegato sulle alture, ove trovavansi le sue riserve — tenne fermo — e difese le sue posizioni, con una tenacità ed un valore degni d'una causa migliore — La parte più pericolosa dello spazio che si doveva percorrere, era nella vallata piana, che ci divideva dal nemico — Ivi piovevano projetti d'artiglieria e di moschetteria, che ci ferirono un bel po' di gente — Giunti poi al piede del monte Romano — si era quasi al coperto delle offese — ed in quel punto, i Mille — alquanto diminuiti di numero, si aggruparono alla loro vanguardia — La situazione era suprema: bisognava vincere — e con tale risoluzione, si cominciò ad ascendere la prima banchina del monte — sotto una grandine di fucilate — Non ricordo il numero — ma certo eran varie le banchine da superare prima di giungere al vertice delle alture — ed ogni volta che si saliva da una banchina all'altra — ciocchè si doveva fare allo scoperto — era sempre sotto un fuoco tremendo. L'ordine di far pochi tiri fra i nostri — era consentaneo al genere di catenacci — con cui ci avea regalati il governo sardo — quasi tutti ci mancavano fuoco — Qui pure, fu grande il servizio reso dai prodi figli di Genova — che armati delle loro buone carabine, ed esercitati al tiro, sostenevano l'onore delle armi — E ciò serva di stimolo alla gioventù Italiana per esercitarsi — e si persuada che non basta il valore sui campi odierni di battaglia — bisogna esser destri nel maneggio delle armi — e molto — Calatafimi! Avanzo di cento pugne — io, se all'ultimo mio respiro — io miei amici mi vedranno sorridere, per l'ultima volta, d'orgoglio — sarà ricordandoti — Poichè, io non rammento una pugna più gloriosa! I Mille, vestiti in borghese — degni rappresentanti del popolo — assaltavano con eroïco sangue freddo, di posizione in posizione, tutte formidabili, i soldati della tirannide — brillanti di pistagne, di galloni, di spalline, e li fugavano! ¿Come potrò io scordare: quel gruppo di giovani che tementi di vedermi ferito, mi attorniavano, serrandosi, e facendomi del loro prezioso corpo, un baluardo impenetrabile? Se io scrivo commosso a tante memorie — ne ho ben donde! E non è forse dover mio rammentare all'Italia, almeno i nomi di quei suoi valorosi caduti? Montanari, Schiaffino, Sertorio, Nullo, Vigo, Tuckeri, Tadei — e tanti ch'io sono ben dolente di non ricordare? Come ho già detto: il pendio meridionale, che noi dovevamo salire — del monte Romano — era formato di quelle banchine usate dagli agricoltori nei paesi montani — Si giungeva celeremente sotto la ripa d'una banchina cacciando avanti il nemico e posavamo per prender fiatto — e preparsi all'assalto — coperti dalla ripa stessa — Così procedendo, si guadagnava una banchina dopo l'altra, sino all'alta cima, ove i borbonici fecero un'ultimo sforzo, e la difesero con molta intrepidezza — al punto che molti cacciatori nemici — avendo terminato le munizioni — ci scaraventavano delle pietre — Si diede finalmente l'ultima carica — I più prodi dei Mille serrati in massa sotto l'ultimo riparo — dopo d'aver preso fiatto — misurando coll'occhio lo spazio da percorrere ancora — per incrociare i ferri col nemico — si avventarono come leoni — colla coscienza della vittoria, e della santissima causa per cui pugnavano — I borbonici non sostennero la terribile spinta dei maschi campioni della libertà — fuggirono, e non si fermarono che nella città di Calatafimi — distante alcune miglia dal campo di battaglia — Noi cessammo di perseguirli, a poca distanza dell'entrata della città, situata in posizione fortissima — Combattendo, bisogna vincere — quest'assioma è verissimo in tutte le circostanze — ma massime, quando s'inizia una campagna — La vittoria di Calatafimi, benchè di poca importanza per ciò che riguarda gli acquisti — avendo noi conquistato un cannone, pochi fucili, e pochi prigionieri fu d'un risultato immenso per l'effetto morale, incoraggiando le popolazioni, e demoralizzando l'esercito nemico — I pochi flibustieri, senza galloni o spalline, e di cui si parlava con solenne disprezzo — avevano sbaragliato più migliaja delle migliori truppe del Borbone, con artiglieria ecc. — e comandate da un generale di quelli — che come Lucullo — mangiano il prodotto d'una provincia in una cena — Un corpo di borghesi — ancorchè flibustieri — animati da amor di patria — ponno dunque vincere anch'essi — senza bisogno di tante dorature — Il primo risultato importante, fu la ritirata del nemico da Calatafimi, che noi occupammo nella mattina seguente — 16 Maggio 1860 — Il secondo risultato, molto valevole, fu l'assalto dato delle popolazioni di Partinico, Borgetto, Montelepre ed altre, sul nemico che si ritirava — In ogni parte poi, si formarono squadre, si riunirono a noi — e l'entusiasmo in tutti i paesi circonvicini giunse veramente al colmo. Il nemico sbandato, non si fermò sino a Palermo — ove portò lo sgomento nei borbonici — e la fiducia nei patriotti — I nostri feriti e del nemico furono raccolti in Vita e Calatafimi — Noi contammo tra i nostri delle perdite ben preziose: Montanari, compagno mio di Roma e di Lombardia, ferito gravemente, morì dopo pochi giorni — Egli era uno di quelli, che i dottrinari chiamano demagoghi, perchè insofferenti di servaggio — amano la patria — e non vogliono piegare il ginocchio alle adulazioni, ed ai capricci dei grandi — Montanari era di Modena — Schiaffino giovine Ligure, di Camogli — anch'egli dei Cacciatori delle Alpi, e delle guide — morì sul campo tra i primi — vedovando l'Italia d'uno dei migliori e più valorosi militi — Egli lavorò molto, nella notte della partenza da Genova ed ajutò Bixio in quella delicata impresa — De Amici — anch'egli dei cacciatori delle Alpi e delle guide — da valoroso morì tra i primi sul campo di battaglia — Non pochi dell'eletta schiera dei Mille, caddero a Calatafimi, come cadevano i nostri padri di Roma — incalzando i nemici a ferro freddo — e colpiti per davanti — senza un lamento — senza un grido, che non fosse quello di _viva l'Italia!_ Ho già veduto alcune pugne, forse più accanite, e più disperate — ma in nessuna, ho veduto militi più brillanti, dei miei borghesi flibustieri di Calatafimi — La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del 60 — Era un vero bisogno: iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d'armi — Esso demoralizzò gli avversari — che colla loro fervida immaginazione meridionale, raccontavan portenti sul valore dei Mille — V'erano tra loro quei che avean veduto le palle delle loro carabine, — dai petti dei militi della libertà — repulse — come se avessero colpito una lastra di bronzo — e rinfrancò i prodi Siciliani — anteriormente scossi dall'imponenza degli armamenti borbonici, e dal gran numero delle loro truppe — Palermo, Melazzo il Volturno, videro molti più feriti e cadaveri — Secondo me, però, la pugna decisiva fu Calatafimi — Dopo un combattimento come cotesto, i nostri sapevano che dovevano vincere — E quando s'inizia una pugna con quel prestigio, con quel vaticinio — si vince! Novara, Custoza, Lissa, e forse anche Mentana — ad onta di tanta disparità di mezzi e di forze — sono una sventura per l'Italia — non tanto per le perdite nostre d'uomini e di mezzi — come per la boria de' nostri nemici, che certamente non valgono più degli Italiani — ma che dovendo combatterci, verranno a noi, come su preda facile — su gente... che si spinge avanti col calcio del fucile. Alle prime, e solenni prove dell'Italia, vi vorrà un Fabio, che sappia temporeggiare occorendo — ed il nostro paese è tale, da poter guerreggiare come si vuole — accettare o no una battaglia — E quando le posizioni, e circostanze sieno convenienti — lanciare gl'italiani che saranno divenuti impazienti di pugna — e che per natura sono suscettibili di slancio — Verrà poi Zama — ove un Scipione, senza chiedere il numero dei nemici — li cercherà, e li porrà in fuga. Anche in questo — io devo esser tormentato dall'idea del prete — che vuol fare degl'Itali tanti sagristani — E se l'Italia non vi rimedia è un affare serio — I gesuiti, altro non ponno fare: che ipocriti mentitori e codardi! Vi pensi chi deve — e sopratutto: che per marciare e dar delle splendide bajonetatte — vi vogliono uomini forti — 3º periodo, 1860. CAPITOLO V. Da Calatafimi a Palermo. Calatafimi sgombro da' nemici fu da noi occupato — 16 Maggio 1860 — La maggior parte de' nostri feriti, era stata trasportata a Vita — A Calatafimi trovammo i più gravi feriti del nemico, e furon trattati da fratelli — ¿Avevano alcun rimorso coteste dominatrici famiglie d'Italia, nell'aizzare queste nostre popolazioni infelici — siccome mastini — le une contro le altre? Rimorsi! Ma che rimorsi! Tutto il loro studio, non è stato forse d'inimicarle — per puro interesse individuale o dinastico? Ed il _monticino di fimo e di sangue_ — come Guerrazzi chiama il papato — non è forse lì, in Roma — nel cuore d'Italia — per venderla al maggiore offerente — e per tenerla perennemente divisa? Sarebbe lunga e tediosa la storia di tutti cotesti signorotti — oggi per fortuna del nostro paese — per la maggior parte mendicanti — E se no, tuttora traditori e pervertitori delle nazioni — Il 17 giungemmo ad Alcamo, città importante — e vi fummo accolti con molto entusiasmo — A Partinico il popolo era frenetico — Molto maltrattato dai soldati borbonici, anteriormente alla pugna di Calatafimi — quando questi tornarono fuggendo e sbandati, la popolazione di Partinico diede loro adosso — massacrando quanti potevano, e perseguendo il resto verso Palermo — Miserabile spettacolo! noi trovammo i cadaveri dei soldati borbonici, per le vie, divorati dai cani! Eran cadaveri d'Italiani — da Italiani sgozzati — che se cresciuti alla vita dei liberi cittadini, avrebbero servito eficacemente la causa del loro oppresso paese — ed invece: come frutto dell'odio, suscitato dai loro perversi padroni — essi finivano straziati, sbranati dai loro proprï fratelli, con tal rabbia da far inorridire le jene! Dalle belle pianure d'Alcamo e di Partinico, la collonna ascendeva per Borgetto sull'alti-piano di Renne — da dove dominava la Conca d'oro[93] e la vezzosa Regina dei Vespri — che se Italia, fra le sue cento città, avesse una mezza dozzina di Palermo — da molto tempo lo straniero, non calpesterebbe questa nostra terra — e certo, i governi dei birri e delle spie — o marcerebbero diritto, o il diavolo se li porterebbe via — Renne, sarebbe una posizione formidabile, se, nello stesso tempo che domina lo stradale da Palermo a Partinico — essa non fosse dominata dalle alture immediate ad ostro e tramontana — che appartengono ai monti irregolari, che circondano la ricca vallata della capitale. Renne è famosa nella campagna dei Mille, per due giorni di copiosa pioggia, passati senza il necessario per affrontare le intemperie — Ove fu assai incomodata la gente — ed ove quel pugno di prodi, provò: esser disposto ai disagi — siccome a sanguinose battaglie — 3º Periodo, 1860. CAPITOLO VI. Rosolino Pilo e Carrao. Prima del cinque Maggio, partivano da Genova due giovani Siciliani, con destinazione alla Trinacria — L'uno, bellissimo, e castagno di capigliatura, apparteneva ai principi di Capace — ed aveva quella delicatezza di forme, che sembrano una specialità dell'agiatezza — L'altro aveva la bellezza del plebeo meridionale con una capigliatura d'ebano — un volto regolare ma bronzato — tarchiato della persona — e robusto — Egli era, a non ingannarsi, uno di quella casta — che la fortuna ha condannato a menar le braccia per la sussistenza — e che qualche volta, stimolati dall'ambizione, si lanciano al di fuori della loro orbite, e se coadjuvati dal genio, si vedono transitare dall'infimo della condizione umana, ai gradini superiori — Tali i Cincinnati, i Mario, ed i Colombi — Ambi poi, Rosolino Pilo e Corrao — a cuore di Leone — E i Mille, li trovarono in Sicilia, dopo di una traversata portentosa — facendo propaganda emancipatrice — e solleticando i coraggiosi figli dell'Etna a sollevarsi — colla speranza di pronti soccorsi dal continente — Due individui e non più, sbarcavano sulla loro terra, proscritti, condannati a morte — e correvano l'isola intiera — compiendo il loro santo apostolato. E senza esitare dirò: con tanta sicurezza — come sulla terra d'asilo — Sappilo tirannide! E sappi: che questa non è contrada da spie! Tu hai perduto il tuo tempo, prodigando ogni specie di corruzione! Qui, su questa lava del padre dei Volcani — il tuo potere brutto di sangue — e di vergogne — è efemero! Butta giù: quella tua maschera di Statuto, a cui nessuno più crede, e mostrati col tuo ceffo deforme da Eliogabalo, o da Caracalla — qui, altro non è — che quistione di tempo — d'anni — forse di giorni — Che s'intendano questi ringhiosi discendenti delle discordie e della grandezza — ed in poche ore — come nei Vespri — verun vestigio resterà più del Maniscalchi, e simile sudiciume — Rosolino Pilo, in una scaramuccia, con i borbonici, mentre i Mille facevano alcune fucilate nelle vicinanze di Renne, fu colpito da piombo nemico — mentre si accingeva a scrivermi, dalle alture di S. Martino — e stramazzò cadavere — Italia, perdeva uno de' più prodi di quella brillante schiera — che col nobile contegno — fa obliare — o sentir meno le sue umiliazioni, e le sue miserie — Corrao men fortunato di Rosolino — dopo d'aver pugnato valorosamente, in ogni combattimento del 60 — morì di piombo Italiano per gare individuali — Sicilia — non dimenticherà certamente quei due eroïci suoi figli — veri precursori dei Mille — 3º periodo, 1860. CAPITOLO VII. Continua da Calatafimi a Palermo. Dopo d'aver passato due giorni a Renne — con forti piogge — senza ricoveri — e poca legna — per cui fummo obligati, bruciare anche i pali da telegrafo — scesimo sino al villagio di Pioppo — sopra Monreale; ma non era quella, posizione conveniente, per la pochezza delle nostre forze — Verso il 21 — una ricognizione del nemico — ove vi furono poche fucilate — mi fece determinare di ripigliar posizioni più forti — al dissopra dell'incrocicchio delle strade che confluiscono a Renne — tenendo così, libere le comunicazioni, per la via di Partinico che avevamo percorso — e per S. Giuseppe più ad Ostro — La posizione suddetta era conveniente, come punto tattico — ed avressimo potuto ricevervi il nemico con vantaggio — Ma la strada, che da Palermo va a Corleone — mi sembrò più conveniente — a noi — sotto la doppia considerazione: di presentarci un teatro d'operazioni più vasto assai — e per metterci a contatto colle bande più numerose — che trovavansi dalla parte di Misilmeri, Mezzojuso e Corleone — ove mandato Lamasa per riunirle — Mi decisi dunque, di traversare di notte — dallo stradale che occupavamo, a Parco, che si trova su quello di Corleone a Palermo. Il movimento si principiò prima di notte — ma le difficoltà del sentiero, per ove dovettimo passare a spalla d'uomini — cannoni e materiale — e la dirottissima pioggia che durò tutta la notte — con folta nebbia — resero quella marcia la più disagiata ch'io m'abbia eseguito — ed era già gran giorno quando la testa della collonna, alla spicciolata giungeva in Parco — I cannoni poi, appena verso sera terminarono d'arrivare con grandissimo stento — La stessa pioggia, con nebbia folta, fu causa che il nemico, non ebbe conoscimento della nostra marcia — senonchè molto dopo il nostro arrivo a Parco — Parco è dominato da posizioni forti — che noi occupammo — e sulle quali fecimo alcune opere di difesa collocandovi i nostri cannoni — Coteste posizioni però sono dominate da alti monti — e quindi girabili — Il 24 Maggio, il nemico uscì da Palermo, con forze considerevoli, divise in due collonne — La prima veniva per la gran via, che dalla capitale va a Corleone, e nell'interno dell'isola — passando a Parco — La seconda dopo d'aver seguito per un pezzo, la strada di Monreale — traversò la vallata — e minacciò le nostre spalle — fiancheggiandoci alla sinistra — ed avviandosi verso le Portelle di Piana dei Greci — Io non avrei temuto l'attacco di fronte — ad onta d'esser il nemico assai superiore in forze — ma il movimento alle spalle, per i monti che ci dominavano — mi fece disporre alla ritirata — prima dell'arrivo del nemico — Ordinai, dunque, la marcia immediata dei cannoni e bagagli per la strada maestra — ed io con un pugno di Picciotti — e la compagnia Cairoli — mi recai ad incontrare per le Portelle, quella seconda collonna, che tentava di tagliarci la ritirata — Il movimento nostro riuscì a meraviglia — Io giunsi sulle alture, prima che il nemico se ne impadronisse — ed alcune fucilate lo fecero fermare — Dimodocchè io mi trovai con tutte le mie forze a Piana — avendo per lo stradale di Corleone, libero tutto l'interno dell'Isola — e potendo movermi a piacimento — Le popolazioni di Piana e Parco — ci giovarono moltissimo come ausiliari, e come pratici — massime un Barone Peta del primo paese — A Piana dei Greci passammo tutto il resto della giornata — lasciando riposare la gente — In quel giorno ebbimo a deplorare la morte del prode giovane Mosto, fratello del Maggiore comandante della compagnia carabinieri Genovesi — che col solito valore, avea ritardato il procedere dei borbonici — A Piana io mi decisi di sbarazzarmi dei cannoni e del bagaglio — per poter operare più liberamente su Palermo — congiungendomi colle squadre di Lamasa che si trovavano allora a Gibilrossa — Al far della notte — quindi, io feci seguire cannoni, e bagagli, sulla strada di Corleone agli ordini di Orsini. Io colla gente, dopo d'aver preso la stessa via per un pezzo — obliquai a sinistra nella direzione di Misilmeri — per un sentiero boschivo non molto disagiato — Il movimento dei cannoni sulla via di Corleone, ingannò il nemico, siccome io l'avevo sperato — Egli il 25, continuò la marcia verso quella città — credendo di perseguire tutta la forza nostra — ma non seguiva altro che Orsini — quasi senza gente — Io traversai colla collonna il bosco Cianeto, ove dormimmo — il giorno seguente si raggiunse Misilmeri, ove la popolazione ci accolse con grande entusiasmo — ed il 26 a Gibilrossa — ove si trovava il nostro Lamasa con varie squadre riunite — Dopo d'aver conferito con Lamasa, e cogli altri capi Siciliani, di fuori e dentro Palermo — si decise d'attaccare il nemico nella capitale della Sicilia — In quel giorno 26 — vi furono vari stranieri, nel nostro campo — massime Inglesi ed Americani — manifestando molta simpatia per la bella causa dell'Italia — Un giovane ufficiale americano, si staccò un revolver dal cinturone e me l'offerse gentilmente come pegno dell'interesse che prendeva a noi — Van Meckel e Bosco, comandavano la collonna borbonica che seguiva per Corleone dietro la nostra artiglieria — ed ignorando il nostro movimento su Gibilrossa — E bisogna confessare ad onore del bravo popolo Siciliano — che solamente in Sicilia, era ciò eseguibile — Sì! e solamente dopo due giorni, della nostra entrata in Palermo — seppero quei capi nemici: d'esser stati da noi ingannati — e giunti nella capitale, mentre ci credevano a Corleone — La sera del 26, al principio della notte — s'iniziò la nostra marcia su Palermo, scendendo per un sentiero coperto, ed assai difficile, che conduce da Gibilrossa, sullo stradale di Porta Termini — Alcuni incidenti successero nella notte — e ritardarono alquanto la nostra marcia — La nostra collonna composta di circa tre milla uomini, dovendo seguire un sentiero angusto e disagiato — formava una striscia estesissima — Per lo stesso motivo era impossibile: percorrere avanti e indietro la collonna per rannodarla — Poi un cavallo sciolto cagionò alcune fucilate, che bastante allarmarono — Infine la testa avendo preso una strada che non era la buona, fummo obligati fermarci — per rimetter la gente sulla buona via — Dimodocchè quando giunsimo agli avamposti nemici di Porta Termini — era gran giorno — 3º periodo. CAPITOLO VIII. Assalto di Palermo — 27 Maggio 1860. Un nucleo di valorosi, condotti da Tuckery e Missori — marciavano di vanguardia — Tra essi, contavano: Nullo, Enrico Cairoli, Vigo Pelizzari, Tadei, Poggi, Scopini, Uziel, Perla, Gnecco — ed altri valorosissimi, i cui nomi son dolente di non poter ricordare[94] — Cotesta schiera, scelta fra i Mille — non contava il numero, le barricate, i cannoni, che i mercenari del Borbone avevano assiepato fuori di Porta Termini — Essa tempestava e fugava — gli avamposti nemici, al ponte dell'Ammiraglio — e proseguiva — Le barricate di Porta Termini, furono superate volando, e le collonne dei Mille, e le squadre dei Picciotti, calpestavano le calcagna della superba vanguardia e gareggiavano d'eroïsmo — Non valse una vigorosa resistenza di numerosi nemici su tutti i punti — il fulminare delle artiglierie di terra e di mare — e massime un battaglione di cacciatori, collocati nel dominante convento di S. Antonino, che fiancheggiava sulla loro sinistra gli assalitori — a mezzo tiro di carabina — Nulla valse: la vittoria sorrise al coraggio ed alla giustizia — ed in poco tempo, il centro di Palermo, fu invaso dai militi della libertà Italiana — Trovandosi la popolazione della capitale, complettamente inerme — essa non poteva da principio esporsi ai fuochi tremendi, che avevan luogo, per le strade — giacchè non solo sparavano le artiglierie della truppa e dei forti — ma la flotta borbonica infilando le strade principali, le spazzava coi suoi forti projetti — Ed ognuno sa: che quando i bombardatori, ponno bombardare una povera città senza esserne molestati — la loro bravura da cannibali s'acresce sommamente — Ben presto, però, il popolo di Palermo, accorse all'erezione di quei propugnacoli cittadini, che fanno impallidire i mercenari della tirannide — le barricate! e vi si distinse come direttore il collonnello Acerbi dei Mille — milite valoroso di tutte le battaglie Italiane — I popolani armati d'un ferro in qualunque guisa, dal coltello alla scure — presentavano nei giorni susseguenti, quelle masse imponenti — irresistibili — in una città, a qualunque truppa, per ben organizzata che sia — Da Porta Termini, a Fiera Vecchia, e da questa, io giunsi a Piazza Bologna — ove — vedendo difficile di poter concentrare un forte nucleo dei nostri, sparsi nella grande Metropoli — scesi da cavallo e presi stanza in un portone — Posando la sella della mia _Marsala_ (cavalla) per terra — e le pistoliere — una pistola percuotendo nel suolo — prese fuoco — e la palla mi sfiorò il piede destro, portando via un pezzo della parte inferiore del pantalone — «Le felicità — mai giungo sole» dissi tra me — Col comitato rivoluzionario di Palermo, composto di caldi patrioti, si risolvette di stabilire il mio quartier generale al palazzo Pretorio — punto centrale della città — Non gran contingente di armati, ci diede la città di Palermo — giacchè i borbonici aveano avuto gran cura di tenerla assolutamente inerme — ma convien confessare: l'entusiasmo di quei bravi cittadini mai venne meno — ne per i sanguinosi combattimenti delle vie — ne per il feroce bombardamento della flotta nemica — del forte di Castellemare, e del palazzo reale — Anzi molti, per mancanza di fucili, si presentavano a noi armati di pugnali coltelli spiedi — e ferri di qualunque specie — I picciotti[95] delle squadre[96], si battevano anche loro con bravura, e supplivano al decimato numero dei Mille. Anche le donne furono sublimi di patriotico slancio — frammezzo a quell'inferno di bombe e di fucilate esse animavano i nostri, coi plausi, colle gesta, cogli evviva — Precipitavano dalle finestre, sedie, matterazzi, suppelletili d'ogni genere per il servizio delle barricate — e molte, si vedevano scendere nelle strade per ajutare ad innalzarle — La popolazione era rimasta sorpresa dall'ardito ingresso — ma passati i primi momenti di stupore, essa crebbe ogni giorno di coraggio e d'intrepidezza. Le barricate uscivano da terra come per incanto — e Palermo diventò assiepato di barricate — Il loro gran numero, era forse esorbitante — ma senza dubbio ciò influì moltissimo ad animare il popolo, e gettar lo spavento nelle truppe borboniche — Poi, quel lavoro continuo, manteneva tutta la gente in moto, e serviva di pascolo all'entusiasmo — Una delle difficoltà maggiori della situazione, era la mancanza di munizioni — Si trovarono però fabbriche di polvere — notte e giorno si lavorò a far cartuccie — ma la quantità era insufficiente per il battagliare incessante continuo contro le numerose truppe borboniche, occupanti i punti principali della città — Quindi i militi e particolarmente i Picciotti che tiravano molto — mancavano di munizioni — e mi mettevano in croce per averne — Nonostante, i borbonici, erano stati ridotti nel forte di Castellamare, palazzo di finanze, e palazzo reale, con alcune case adjacenti — e noi erimo padroni dell'intiera città. Il forte numero di nemici stanziava al palazzo reale, ove si trovava il generale in capo Lanza — e privi di comunicazioni col mare e colle altre loro posizioni — Varie squadre nostre, occupavano gli sbocchi che dalla città mettono alla campagna — dimodocchè la truppa del palazzo reale col suo generale in capo — trovavansi assolutamente isolati — e cominciarono dopo i primi giorni a sentir penuria di viveri, e ad esser ingombri di feriti — Ciò decise il Lanza a far delle proposizioni — la di cui base — era la sepoltura dei morti, che cominciavano ad imputridire, ed il trasporto dei feriti a bordo della flotta — per esser condotti a Napoli — Ciò richiese un'armistizio di 24 ore — e Dio sa: se noi ne avevimo bisogno — obligati com'eravamo di fabricar polvere e cartucci — che si tiravano appena fabricati — E qui giova ricordare: che nessun soccorso d'armi, o di munizioni ci venne dai legni da guerra ancorati nel porto e sulla rada — compresa una fregata Italiana — in cui giorni solenni, in cui avressimo pagato a peso di sangue, alcuni mazzi di cartuccie — Se ben ricordo: si comprò un vecchio cannone in ferro da un bastimento Greco — L'apparizione delle collonne borboniche Van Meckel e Bosco, — che dopo d'aver proseguito verso Corleone in traccia di noi — tornavano sulla capitale — quasi fece cambiare di risoluzione il generale nemico — Realmente, i due capi suddetti alla testa di cinque a sei milla uomini di truppe scelte — era fatto di molta importanza e che poteva riuscir fatale a noi — Essi delusi nella speranza d'averci sorpresi e dispersi — ed informati all'opposto della nostra entrata in Palermo — ingannandoli — arrivarono bollenti di dispetto — ed assaltarono risolutamente Porta Termini — Le poche mie forze, e spiegate su tutta la superficie della città — potevano difficilmente presentare il contingente bastevole, per opporsi all'irrompente nemico — Nonostante i pochi nostri che si trovavano verso Porta Termini, si difesero bravamente — ed il terreno ceduto sino a Fieravecchia, fu disputato palmo a palmo — Avvertito del progresso del nemico da quella parte, io raccolsi alcune compagnie dei nostri — e mi spinsi a quella via — Cammin facendo, io fui avvertito che il generale Lanza desiderava continuare le trattative a bordo dell'_Annibale_ vascello ammiraglio Inglese — che si trovava sulla rada di Palermo — comandato dall'ammiraglio Mundy — Io lasciai il comando della città al generale Sirtori mio capo di Stato Maggiore, e mi recai sul vascello suddetto, ove trovai i generali Letizia e Chretien, che venivano per conferire con me, da parte del generale in capo dell'esercito nemico — Io non ho ora presenti le proposizioni fattemi dal generale Letizia — Ma ben ricordo: trattarsi di cambio di prigionieri, d'imbarco dei feriti sui bastimenti della flotta — permesso di viveri a quelli del palazzo reale — di concentramento delle forze nemiche ai quattro venti — posizione con grandi stabilimenti a contatto col mare — e finalmente un presentazione di rispetto e d'ubbidienza per parte della città di Palermo — a S. M. Francesco II — Io udï con pazienza la lettura dei primi articoli della proposta — ma quando il lettore giunse all'articolo umiliante per la città di Palermo — mi alzai sdegnato, e dissi al generale Letizia — ch'egli ben conosceva: aver da fare con gente che sapeva battersi, e che non avevo altra risposta — Mi chiese egli una tregua di 24 ore per imbarcare i feriti, ch'io accordai, e così fini la conferenza — Qui v'è da osservare passando, che il capo dei Mille trattatto da Flibustiere, sino a questo punto, divenne a un tratto Eccelenza — titolo con cui egli fu nojato in tutte le transazioni seguenti — e sempre disprezzato — Tale è la bassezza dei potenti della terra, quando colpiti dalla sventura — La situazione comunque, era tutt'altro che bella — Palermo mancava d'armi, e di munizioni — Le bombe avevano smantellato parte della città — Il nemico stava dentro colle sue migliori truppe — e ne occupava col resto le posizioni più forti — La flotta infilava le strade colle sue artiglierie — ed i cannoni di palazzo reale, e Castellamare l'ajutavano nell'opera di distruzione — Io rientrai nel palazzo Pretorio, ove trovai i principali cittadini che mi aspettavano — e che coll'acuto sguardo meridionale, cercavano di leggere negli occhi miei le mie impressioni sui risultati delle conferenze — Esposi francamente le condizioni proposte dal nemico, e non trovai dell'abbattimento — Essi mi dissero di parlare al popolo, assembrato sotto i balconi — e lo feci — Io lo confesso: non ero scoraggito — e non lo fui, in circostanze forse più ardue — ma considerando la potenza ed il numero del nemico — e la pochezza dei nostri mezzi — mi nacque un po' d'indecisione sulla risoluzione da prendersi — cioè: se convenisse continuare la difesa della città — oppure, rannodare tutte le nostre forze e ripigliare la campagna — Quest'ultima idea mi passò per la mente come un'incubo — e con dispetto l'allontanai da me — trattavasi d'abbandonare la città di Palermo — alle devastazioni d'una soldatesca sfrenata! Mi presentai quindi — quasi indispettitto con me stesso — al bravo popolo dei Vespri — e palesai la mia condiscendenza, per tutte le condizioni chieste dal nemico — quando venni però, all'ultima — io dissi: che l'aveva rigettatta con disprezzo! Un ruggito di sdegno e d'approvazione — surse unanime da quella folla di generosi! E quel ruggito decise della sorte dei millioni! della libertà di due popoli — e decretò la caduta d'un tiranno! Io ne fui ritemprato — e da quel momento ogni sintomo di timore — di titubanza, d'indecisione — sparve — militi e cittadini, a gara, rivaleggiavano d'attività, e di risoluzione — Le barricate moltiplicavansi — Ogni balcone — ogni poggiuolo, si copriva di materazzi per la difesa — di sassi, e di projetti d'ogni specie, per schiacciare il nemico — L'elaborazione della polvere, e la costruzione di cartuccie, si attivavano febbrilmente — Alcuni vecchi cannoni, dissoterrati — non so da dove — apparirono, si montarono, e furono collocati in posizioni convenienti — altri, si comprarono da bastimenti mercantili — Le donne d'ogni ceto aparivano nelle strade ad animare i lavoratori, e coloro che si preparavano alla pugna — Gli ufficiali Inglesi ed Americani che si trovavano in rada, regalavano i nostri coi loro revolver e fucili da caccia — Alcuni degli ufficiali sardi manifestarono pure della simpatia per la santa causa del popolo — e i marinari della fregata Italiana, bruciavano di divedere il pericolo dei fratelli e minacciavano di disertare — Solo, chi ubbidiva ai freddi calcolatori del ministero di Torino, non si commoveva a tanto spettacolo — e restavano impassibili spettattori della distruzione d'una delle più nobili città Italiane — ed aspettavan ordini! Ossia: già avevan ordini di darci il calcio dell'asino se vinti — e farla da amiconi — se vincitori! Un giovane Siciliano di famiglia decente — mandato da me a bordo della fregata Sarda — e che vi riuscì con molto pericolo — si udì rispondere: «voi potete esser una spia» in luogo di ottenere alcune munizioni, per cui io lo avevo incaricato — Comunque, il nemico si avvide della risoluzione nostra e della città... e non si sfida un popolo impunemente — quando deciso di combattere a tutta oltranza — Il despotismo poi, s'inganna molto — ingrassando i suoi proconsoli — che naturalmente, non sanno decidersi ad esporre l'epa in pericolo tra le barricate della canaglia — Pria di spirare le 24 ore d'armistizio — un nuovo parlamentare mi annunziò il generale Letizia — Egli mi chiese tre giorni di tregua — non essendo sufficienti le 24 ore per il trasporto dei feriti a bordo — Anche i tre giorni io concessi — ed intanto non si perdeva un secondo all'attivo lavoro della polvere e delle cartuccie — Si continuava il lavoro delle barricate — Le squadre vicine alla capitale ingrossavano le nostre forze — e minacciavano le spalle del nemico — Orsini, coi cannoni rimasti, era giunto pure — e con lui altre squadre — La condizione nostra migliorava ogni giorno — e dava meno voglia ai borbonici di attaccarci — In una nuova conferenza col generale Letizia — si stipulò la ritirata delle truppe che si trovavano a palazzo reale, ed a Porta Termini, per riconcentrarle tutte ai quattro venti e sul molo — Era per noi tanto di guadagnato — La sospensione delle ostilità, e la ritirata dei borbonici verso il mare — riempì la popolazione di fiducia, e baldanza — talchè fummo obligati di collocare ai posti avanzati delle camicie rosse[97] per evitare la collisione dei Siciliani colle truppe borboniche — essendo l'odio immenso per quest'ultime — Si trattò infine della partenza della truppa — non potendo essa certamente rimanere per molti giorni, nelle anguste posizioni occupate — e dello sgombro completto della città e dei forti — Il valore dei Mille, ed in generale dei difensori di Palermo — era stato grande — Il loro contegno, e quello della popolazione, non s'erano smentiti un momento — Si era disposti, in fatto, di seppellirsi sotto le ruine della bellissima capitale — E conviene confessare: il risultato fu magnifico — e non si poteva sperare di più — Quando si videro capitolare quei venti milla soldati del despotismo — davanti ad un pugno di cittadini votati al sacrificio, ed al martirio, se abbisognava — sembrò proprio un portento — poichè, era superba truppa — quella — e che si batteva bene — Giubilate pure — uomini, donne, fanciulli — che contribuiste alla liberazione della patria! Palermo libera, e cacciando i tiranni, vale ben la pena d'esser fieri — di giubilare! La superba capitale dei Vespri — come i suoi volcani manda ben lungi le sue scosse — e crollano al gagliardo suo ruggito, i troni mal fermi della menzogna e della tirannide! Perdemmo in Palermo il valoroso Tuckery — Ungherese — e ricorderò quando informato le altre preziose perdite — Tra i prodi nostri feriti — contavano: Bixio, i due Cairoli Benedetto ed Enrico, Cucchi, Canzio, Carini, Bezzi — 3º periodo. CAPITOLO IX. Melazzo. La partenza dei borbonici da Palermo, fu una vera festa nazionale — tanto più che secondo condizioni stipulate, essi lasciavano in libertà tutti i prigionieri politici, delle principali famiglie che si trovavano detenuti in Castellamare — La vista dei cari condannati dal Borbone — che tanto avevan sofferto in orride carceri — riempì di giubilo la popolazione intiera — e l'accoglienza da essa fatta a quei generosi, era commovente — Io avevo stabilito il mio quartier generale ad un padiglione del palazzo reale, da dove si scopre tutta la via Toledo, e dall'altra parte il prolongamento della stessa sino a Monreale — Di là potei bearmi nello spettacolo, che presenta un grande e fervidissimo popolo nelle sue emozioni — I liberati eran portati in trionfo verso la mia abitazione, da una folla immensa — frenetica per la libertà acquistata dei suoi carissimi — Io m'ebbi un tesoro di gratitudine da loro — ed una lagrima inumidì la mia guancia — Allora cominciò un periodo di riposo — e ne avean bisogno — massime i Mille — Poveri giovani! la parte eletta di tutte le popolazioni Italiane — non avezzi ai disagi, alle privazioni — gran parte studenti, e molti laureati — E tutti con poche eccezioni — consacrati all'eroïsmo ed al martirio — per la liberazione di questa nostra terra — avversata dallo straniero — e forse meritamente schiava — perchè un dì padrona del mondo — E fu gran colpa la conquista del Mondo conosciuto — che dovea necessariamente aver per conseguenza: depredare e fare dei servi — e quindi raccogliere l'odio universale — I Mille per la maggior parte non marini — avean lasciato le nausee del mare, per ingolfarsi nelle stragi delle battaglie — e per sentieri quasi impraticabili — eran pervenuti in Palermo — ove cacciando davanti a loro un'esercito di venti milla soldati delle migliori truppe borboniche — coll'ajuto della popolazione liberavano la Sicilia intiera in venti giorni — Il nemico si allontanava da noi per prepararsi a nuove battaglie — e noi dovevimo pure metterci in istato d'incontrarlo ancora — Si aprirono dunque degli arruolamenti, in Palermo — ed in ogni parte dell'isola, sgombra dai Borbonici — Si contrattarono delle armi al di fuori — Si stabilì una fonderia nella capitale — e si lavorò indefessamente a far polvere ed a costruire cartuccie — Palermo, piazza d'armi del despotismo divenne in pochi giorni un semenzajo di militi della libertà — Che bel vedere: nelle ore fresche della giornata — quei vispi giovani figli della Trinacria — all'esercitazioni militari — con uno slancio — una volontà — da consolar l'anima del veterano, per cui l'Italia redenta fu sogno di tutta la vita — E l'Italia avrebbe potuto redimersi intieramente, se l'inerzia degli uni, e la malizia degli altri, non avessero conculcato l'eroïsmo nazionale in quell'epoca gloriosa — La sosta in Palermo, dopo l'evacuazione dei nemici fu pure impiegata ad opere giovevoli — Il gran numero di ragazzi vagando per le strade — ove, per lo più essi trovano una scuola di corruzione — furono raccolti, riuniti in stabilimenti idonei — ed educati per la vita dell'onesto cittadino e milite — Si migliorò la condizione dei stabilimenti di beneficenza — e si supplì di viveri tutta la parte indigente della popolazione — e quella danneggiata dal bombardamento e dalla guerra in generale — l'organizzazione del governo dittattoriale fu pure attuata — e vi contribuirono vari egregi patriotti della Sicilia — tra cui primeggiava l'illustre avvocato Francesco Crispi — uno dei Mille — Distribuite le forze nazionali in tre Divisioni, esse presero il nome d'esercito meridionale, che mosse poi verso l'oriente al compimento dell'assunta missione emancipatrice — Durante i giorni di combattimento in Palermo, era giunto l'_Utile_, piccolo piroscafo Italiano — con un centinajo dei nostri dal continente — che da Marsala ove sbarcarono felicemente — arrivarono nella capitale — ancora in tempo a prendere parte alle ultime pugne — La spedizione Medici con tre vapori, e circa due milla uomini, arrivò a Castellamare — poche miglia a Ponente di Palermo — che non tutte le truppe borboniche s'erano imbarcate ancora — Altri contingenti di tutte le provincie Italiane seguivano — ed in poco tempo ci trovammo in bellissima condizione — e capaci di staccare delle collonne spedizionarie su differenti punti dell'isola per far riconoscere il nuovo governo — cosa ben facile perchè già acclamato dovunque — o per cercare il nemico ove si trovava ancora — Una divisione comandata dal generale Türr — s'incamminò per il centro dell'isola — La divisione di destra comandata dal generale Bixio — per il littorale a mezzogiorno della Sicilia — e quella di sinistra comandata dal generale Medici — per il littorale del settentrione — con ordine di riunire quanti volontari si sarebbero presentati — e finalmente di concentrarsi tutti nello stretto di Messina — Giunse pure in Palermo il generale Cosenz — con due milla uomini — che furono seguiti da altri mandati dai vari comitati di _provvedimento per soccorsi alla Sicilia_, che s'eran formati nelle diverse provincie — e che facevan centro a Genova sotto la direzione del D.re Bertani — La collonna Cosenz, seguì pure per Messina, in sostegno di Medici, minacciato da un forte corpo di borbonici comandati da Bosco — che da quella città per Spadafora s'avviavano in cerca dei nostri — Bosco alla testa di circa 4 milla uomini di buona truppa, con artiglieria — era uscito da Messina — coll'oggetto di mantenere le comunicazioni tra Melazzo e quella città — e di tentare un colpo di mano sul corpo di Medici, che occupava Barcellona, Santa Lucia, ed alcuni villagi circonvicini — Egli lo attaccò realmente — ed essendo respinto — si ripiegò su Melazzo — occupandone le pianure meridionali — ed infestando quelle contrade — Conveniva sbarazzarsi di quella forza nemica, che unica teneva ancora la campagna — Avvisato dal generale Medici, sui movimenti e forze del nemico — io profitai dell'arrivo a Palermo del Colonnello Corte con circa due milla uomini — e senza permettere che sbarcassero — ne feci trasbordare una parte sul piroscafo _City of Aberdeen_, ove m'imbarcai io stesso — e giungemmo il giorno seguente a Patti — Riunitomi ai generali Medici, e Cosenz — a cui non era giunta ancora la brigata, che marciava per il littorale — decidemmo di attaccare i borbonici all'alba del giorno dopo il mio arrivo — 3º periodo. CAPITOLO X. Combattimento a Melazzo. Fu ben malizioso, e non veritiero, colui che trattò di _facili vittorie_, quelle del 60 — vinte dai liberi Italiani sulle truppe borboniche — Io, ho vedute alcune pugne nella mia vita — e devo confessare: che le battaglie di Calatafimi, Palermo, Melazzo e Volturno — fanno onore ai militi, e soldati che vi presero parte — Quando su cinque o sei milla uomini nostri, che pugnarono a Melazzo, circa mille furon posti fuori di combattimento — ciò prova: che non fu tanto facile la vittoria — Il generale Medici, come abbiam detto, era marciato per la costa settentrionale della Sicilia, verso lo stretto di Messina — colla sua divisione; ed il generale borbonico Bosco, con uno scelto corpo delle tre armi — superiore al nostro in numero — intercettava la strada principale che mette a Messina — apogiandosi alla fortezza e città di Melazzo — Già alcuni piccoli scontri erano accaduti tra un corpo e l'altro — ed i nostri vi si eran condotti colla solita bravura — avendo da fare coi cacciatori di Bosco, bella truppa, ed armata d'eccellenti carabine — Giunti i due milla uomini di Corte — ed imminente l'arrivo del corpo di Cosenz — si decise d'attaccare il nemico — L'alba del 20 Luglio trovò i figli della libertà Italiana, impegnati coi borbonici, ad ostro di Melazzo, ed impegnati in modo, molto favorevole ai mercenari — per le forti loro posizioni — Praticissimi del terreno, i nemici, aveano con molta sagacia, profitato di qualunque naturale, od artificiale ostacolo di quella campagna — La loro destra, scaglionata davanti alla formidabile fortezza di Melazzo — n'era protetta dalle sue grosse artiglierie — ed aveva la fronte coperta da varie linee di fichi d'India — trincee non indifferenti — da dietro alle quali i cacciatori di Bosco — colle loro buone carabine potevano fulminare i male armati nostri militi — Il centro colle sue rispettive riserve, sullo stradale che conduce in Melazzo — seguendo il littorale — avea la fronte coperta da un muro di cinta fortissimo — a cui s'eran praticate molte feritoje — Lo stesso muro poi, era coperto da foltissimo cannetto — che ne rendeva l'assalto di fronte impraticabile — Dimodocchè il nemico ben riparato, con armi buone — osservava, e fucilava i nostri poveri militi, fallacemente coperti dai suaccennati cannetti — La loro sinistra, in possesso d'una linea di case, a levante di Melazzo, formava martello — e quindi fiancheggiava con fuoco micidiale chi assaltava il centro — l'ignoranza del terreno su cui si pugnava, fu la causa principale di perdite considerevoli per parte nostra — e molte cariche che si fecero sul centro nemico, potevano risparmiarsi — La mia prima idea d'attacco — era stata di assaltare il nemico, prima di giorno, rompendone il centro con una forte collonna in massa — coll'oggetto di dividerlo, separar la sua sinistra — farla prigioniera se possibile — e menomare così la sua superiorità in artiglieria e cavalleria — Non fu però possibile l'esecuzione di tal piano, per esser giunti a riunirsi tardi i corpi nostri sparsi in diverse posizioni — ed era gran giorno quando s'iniziò il combattimento generale — L'oggetto mio principale — essendo stato pure: di chiudere il centro e la destra nemica in Melazzo — ove non avrebbero potuto sostenersi molto tempo — tanta gente e la guarnigione della piazza — feci perciò portare la maggior parte delle nostre forze sul centro e la sinistra del nemico — ove si attaccò vigorosamente — Essendo il campo di battaglia, una pianura perfetta, coperta d'alberi, vigne, e cannetti — non si potevano scoprire le posizioni del nemico — Invano io ero salito sul tetto d'una casa per poter discernere qualche cosa — Invano, avevo fatto caricare sullo stradale per lo stesso motivo — Molti morti, e molti feriti, erano il risultato delle nostre cariche sul centro — ed i nostri poveri giovani erano respinti, senza aver potuto scoprire il nemico, che da dietro il terribile riparo — dalle feritoje li fulminava — Si durò così, in una pugna ineguale ed accanita sino dopo il meriggio — A quell'ora la nostra sinistra avea ripiegato alcune miglia — e si rimaneva scoperti da quella parte — La nostra destra e centro — che s'erano riunite al comun pericolo — tenevano — ma con molta difficoltà — e con perdite ben considerevoli — Bisognava però vincere: e tale era il fatale animatore di quella stupenda campagna — ove nei più serii dei nostri combattimenti — come Melazzo ed il Volturno — fummo perdenti per più di metà della giornata — ed ove a forza di costanza — e di non disperar giammai — si pervenne a sconfiggere un nemico superiore in tutto — Servan gli esempi di coteste _facili vittorie_ ai nostri figli che dopo di noi saranno obligati di sostenere l'onore Italiano sui campi di battaglia — Bisognava vincere! Le nostre perdite eran maggiori, di quante lo furono nelle varie pugne dell'Italia meridionale — La gente era stanca — Il nemico aveva comparativamente perduto nulla — I suoi soldati freschi, intatti — e le sue posizioni formidabili — Eppure bisognava vincere! E gl'italiani devono vincere — sinchè duri sotto il talone straniero — la benchè minima parte della terra — che dia vita ai Bronzetti[98] ed ai Monti[99] — Come già dissi: tutte le condizioni della battaglia erano in favore del nemico sino verso il pomeriggio — ed i nostri prodi, non solo, non avevano avanzato un passo — ma avevan perduto terreno — massime sulla nostra sinistra — «Procura di sostenerti come puoi, dissi io al generale Medici — che comandava nel centro: — io raccolgo alcune frazioni dei nostri, e cercherò di portarmi con esse sul fianco sinistro del nemico» Tale risoluzione fu la chiave della giornata — Il nemico incalzato di fianco dietro ai suoi ripari, cominciò a piegare — si caricò francamente — e vi si tolse un cannone che ci aveva danneggiato molto tirando a mitraglia di rimbalzo lungo lo stradale — Una carica della cavalleria, che si trovava di sostegno al pezzo catturato — fu eseguita dai borbonici d'un modo brillante — e ricacciò i nostri un pezzo indietro — dimodocchè io stesso rimasi oltrepassato dai caricanti cavalieri, ed obligato di gettarmi in un fosso laterale alla strada — ove difendermi colla sciabola alla mano — Tale circostanza durò poco — Il collonnello Missori colla solita sua bravura — mi apparve alla testa dei vari distaccamenti nostri — che antecedentemente avean conquistato il cannone — e mi disimpegnò — e sbarazzò col suo revolver del mio antagonista di cavaleria nemica — I distaccamenti suddetti erano: la compagnia Bronzetti — e siciliani di nuova formazione — comandati dal prode collonnello Dunne — Non ricordo gli altri — Rincalzato il nemico da cotesti valorosi — piegò finalmente, e ritirossi precipitosamente verso Melazzo, spinto dall'intiera assalitrice nostra linea — La vittoria fu completta — Invano le forti artiglierie della piazza proteggevano la ritirata dei borbonici — I nostri militi disprezzando il grandinare della metraglia, e dei moschetti — assaltarono Melazzo, e prima di notte, erano padroni della città — avevano circondato il forte da tutti i lati — ed innalzato barricate nelle strade esposte ai tiri della fortezza — Il trionfo di Melazzo fu comprato a ben caro prezzo il numero de' morti e feriti nostri, fu immensamente superiore a quello dei nemici — E qui, è nuovamente il caso di ricordare le armi pessime con cui hanno dovuto combatter sempre — i nostri poveri volontari[100] — Quella giornata, se non fu delle più brillanti, fu certo delle più micidiali — I borbonici vi combatterono — e sostennero le loro posizioni bravamente per più ore — Comunque il destino del Borbone era segnato — I risultati ne furono stupendi — Il nemico rinchiuso in Melazzo, fu presto obligato di ritirarsi nella cittadella — ove fu cinto di barricate, erette da noi stessi — ed ove trovandosi calcato, per mancanza di spazio a tanta gente, fu obligato di capitolare, il 23 Luglio 1860 — rendendo fortezza, artiglieria, munizioni — ed una quantità di muli per i cannoni — Padroni di Melazzo, e di tutta l'isola — meno le fortezze di Messina, Agosta, e Siracusa — portammo subito le nostre forze sullo stretto — Il generale Medici, occupò Messina, senza resistenza — fortificammo la punta del Faro; ed i nostri vapori poterono liberamente trafficare da Palermo alle posizioni del littorale da noi occupate — Dall'occupazione di Palermo — si erano acquistati altri piroscafi mercantili — e coll'acquisto poi del _Veloce_[101] vapore da guerra borbonico, che ci condusse il bravo comandante Anguissola — ci trovammo con una piccola marina, che ci servì ottimamente in tutti i nostri bisogni — Occupammo dunque lo stretto di Messina dal Faro, a quella città — Le collonne Bixio, ed Eber[102] ci ragiungevano per le vie di Girgenti e Caltanisetta — e si formò una quarta divisione Cosenz — Dimodocchè ci trovammo ben presto, con una forza imponente, per noi assuefatti a vederne ben poca — 3º periodo. CAPITOLO XI. Nello stretto di Messina. Giunti allo stretto — bisognava passarlo — Sicilia reintegrata nella grande famiglia Italiana — era certo un bellissimo acquisto ¿Ma che? Dovevamo noi, per compiacere alla diplomazia, lasciare incompletta, monca, la patria nostra? E le Calabrie, e Partenope, che ci aspettavano a braccia aperte? Ed il resto d'Italia, ancora servo dello straniero o del prete? Bisognava passarlo — a dispetto della vigilanza somma dei Borbonici — e di chi per loro! Un giorno, si potè, per mezzo d'un parteggiante nostro Calabrese, aprire intelligenza con alcuni militari del presidio della fortezza d'Alta fiumara — molto importante punto, della costa orientale dello Stretto — Incaricai i colonnelli Missori, e Mussolino di passare con dugento uomini nella notte — e procurare d'impadronirsi del forte suddetto — Ma sia per difetto d'intelligenza — per paura della guida — o per altri motivi, l'impresa fallì — La gente sbarcata s'incontrò con una pattuglia nemica, che sconfisse — ma che, dando l'allarme furono i nostri obligati di prender le montagne — Il preludio dell'impresa non era favorevole — e convenne abandonare il progetto di passare lo stretto a Faro e cercare di eseguire il passaggio in altra parte — In quei giorni, giunse da Genova, Bertani e mi annunciò: che dovevano riunirsi agli Aranci, sulla costa orientale della Sardegna — circa cinque milla uomini dei nostri, da lui riuniti a Genova — e spediti a quella via pria della sua partenza di là — Tale determinazione di fermare cotesta gente agli Aranci, aveva origine da chi: come Mazzini, Bertani, Nicotera, ecc. — senza disapprovare le operazioni nostre nell'Italia meridionale, opinavano per diversioni nello stato pontificio o Napoli — o forse ancora, repugnavano di sottomettersi all'ubbidienza della Dittatura — Per non urtare intieramente coll'idea strategica di quei Signori — mi nacque il pensiero di ragiungere io stesso cotesti cinque milla uomini, e con essi tentare un colpo di mano su Napoli — M'imbarcai dunque con Bertani, a bordo del _Washington_, dirigendoci per gli Aranci (golfo) — Giunti in quel porto — trovammo parte soltanto della spedizione — il maggior numero s'era già diretto per Palermo — Tale circostanza mi fece cambiar d'opinione sul progetto per Napoli — Imbarcammo parte della gente sul _Washington_ perchè fosse più comoda — passammo alla Maddalena per far carbone, di lì a Cagliari, a Palermo, a Melazzo, e tornammo a punta di Faro — ove il generale Sirtori avea già disposto: due piroscafi nostri, il _Torino_ ed il _Franklin_ — facessero il giro della Sicilia, da Settentrione, ad occidente, e ostro sino nella parte orientale dell'isola a Taormina — Fu cotesta: savia e felice risoluzione — I due piroscafi suddetti — giunsero a Giardini — porto di Taormina, v'imbarcarono la divisione Bixio, e la passarono felicemente a Melito in Calabria — Dovendo la spedizione de' due piroscafi colla divisione Bixio partire da Giardini per Calabria — lo stesso giorno del mio arrivo a Faro — io m'imbarcai per Messina — vi presi una vettura — e giunsi a tempo per imbarcarmi col _Franklin_, e passare anch'io in Calabria — Io voglio narrare un'incidente curioso successo a Giardini pria della nostra partenza per Calabria — Giunto in quel punto della costa orientale Siciliana, vi trovai il generale Bixio, occupato ad imbarcare parte della sua gente e la brigata Eberard — a bordo dei due piroscafi _Torino_ e _Franklin_ — Il magnifico _Torino_ aveva già molta gente a bordo, ed era in buonissimo stato — Il _Franklin_ all'incontro andava a pico, era quasi pieno d'acqua — ed il macchinista, protestava che non poteva seguire viaggio in tale stato — Da ciò Bixio si trovava molto contrariato — e si disponeva a partire col _Torino_ solo — Io però, essendo stato a bordo al _Franklin_ — ed avendo fatto gettar in mare quasi tutti gli ufficiali di bordo — sommergersi e cercare se potevano trovare la falla[103]. Mandai — nello stesso tempo — sulla costa per avere degli escrementi di animali erbivori — e con quelli fare della purina[104] — ciocchè stagnò alquanto il legno — radolcì il macchinista — e sapendosi che io stesso andrei col _Franklin_ — si cominciò ad imbarcare il resto della gente — e verso le 10 p. m. navigammo verso la costa di Calabria — ove si giunse felicemente — 3º periodo. CAPITOLO XII. Sul continente Napoletano. Circa alla fine d'Agosto 1860 — e verso le 3 a. m. d'una bella giornata aprodammo sulla spiaggia di Melito — All'alba era tutta la gente in terra con armi e bagagli — e senza l'arenamento del _Torino_ — che non potè uscire, ad onta degli sforzi fatti dal _Franklin_ per tirarlo fuori — potevasi in quello stesso giorno procedere verso Reggio — Alle 3 p. m. comparvero tre vapori borbonici capitanati dal _Fulminante_ — e cominciarono a cannonegiare, gente, vapore, ed ogni cosa — Provarono di metter fuori il _Torino_ — ma non potendovi riuscire lo incendiarono — Il _Franklin_ era partito e fu salvo — Verso le 3 della mattina, del giorno seguente lo sbarco, noi marciammo su Reggio — Passammo il capo dell'Armi, per lo stradale, e meriggiammo vicino un villagio, che si trova tra quel capo — e la bella sorella di Messina — La squadra nemica osservava i nostri movimenti — Verso sera, ripresimo la marcia su Reggio — e giunti ad una certa distanza della città — obliquammo a destra per sentieri remoti, evitando così, gli avamposti nemici, che ci aspettavano sullo stradale. Il collonnello Antonino Plutino, e vari patriotti Reggiani erano con noi — dimodocchè avevamo delle buone guide. Fecimo varie fermate, durante la notte, per lasciare riposare la gente, e per riunirla — ed alle due della mattina — assaltammo Reggio — 3º periodo. CAPITOLO XIII. Assalto di Reggio. L'assalto di Reggio, si eseguì dalla parte delle colline, cioè dall'oriente — ove trovammo poco resistenza per non essere aspettatti da quella parte — Le truppe borboniche si rinchiusero nei forti — dopo d'averci scaricato le loro armi — per cui ebbimo feriti il generale Bixio, il collonnello Pluttino e pochi altri ufficiali e militi — Gli avamposti nemici furono tagliati e parte fatti prigionieri — In quella notte successe uno di quei fatti, che può servire di norma ai giovani militi — e che si deve scansare inesorabilmente. Io raccomando sempre: nelle operazioni di notte, di non sparare — e non mancai di ripeterlo varie volte in quella stessa notte — prima, e durante la marcia — Ma ad onta delle mie ammonizioni, i miei giovani compagni — mentre erano schierati sulla piazza di Reggio — dopo d'aver fugato il nemico nei forti — un tiro che partì dalle file — e chi dice da una finestra — forse involontariamente — fece sparare i fucili a tutta la collonna, composta di circa due milla uomini, senza vedere un solo nemico. Io, che mi trovavo a cavallo, in mezzo a quel quadrato di tempesta — l'ordinanza della gente era in quadrato come la piazza — mi gettai giù, con una sola venturosa palla nel capello. Non è la prima volta ch'io vedo tale sconcio, veramente vergognoso per dei militi — che al coraggio devono sempre aggiungere il sangue freddo — Sconci, che quando non sono accompagnati dalla fuga sono rimediabili — come successe in questa circostanza — Ma quando il panico si complica colla fuga — e qualche volta da certi codardi — col «salva chi può» allora ciò diventa proprio roba disonorevolissima — non da castigarsi colla fucilazione, ma a legnate ed a calci! «Cavalleria! Cavalleria!» io ho udito gridare dalla canaglia — e quel grido aver per conseguenza la fuga di giovani militi non sperimentati — che trascina poi sovente i provetti con loro — Ed uomini cui succedono tali vergogne — devono desiderare naturalmente: sia la codardia loro, coperta dalle tenebre della notte — perchè, se di giorno — essi avranno il soghigno — il disprezzo — anche delle abitatrici di lupanari. Ma stolti che sono! Se vi fosse realmente della cavalleria — ciocchè non succede generalmente nei panici — cagionati per lo più da cause frivole — ¿Non sarebbe meglio ricevere tale cavalleria, alla punta del moschetto — che col piatto delle spalle — essendo la cavalleria — veramente temibile per la gente che fugge? Una carica di cavalleria, per le strade, o piazze d'una città — con cui una ventina d'uomini a cavallo, disperdono moltitudini di migliaia — Ma un individuo solo a piedi, col suo fucile, mettendosi lateralmente alla strada, alla piazza — in una porta — o dietro un pilastro — punta un cavaliere qualunque — e li porta via la punta del naso — in caso non abbia voglia di rovesciarlo — In ogni modo i panici — a cui vanno soggetti, massime i meridionali — sono disonorevoli a qualunque classe di militi — e l'unico miglior rimedio: si è di procurare non sparino i militi — cioè: sparino poco di giorno — e meno ancora di notte. Padroni della città, al far del giorno, io dissi al generale Bixio: «Io, salgo sulle alture per scoprire, e vi lascio». Due erano i motivi, che mi spingevano a tale determinazione. Il primo: era di osservare, se rimanevano forze nemiche fuori di Reggio — Il secondo: veder se arrivava la collonna Eberard ch'era rimasta in dietro, e doveva giungere nella mattina — Appena giunto sulle alture che dominano Reggio, io vidi una collonna nemica, forte di due milla uomini circa — che veniva da tramontana, avanzandosi sulle alture ch'io occupavo — Nel muovermi da Reggio — avevo fatto marciare meco una piccola compagnia di fanteria — e mi accompagnavan pure i tre ajutanti miei: Bezzi, Basso, e Canzio — che tutti furono obligati di moltiplicarsi in quel giorno, per la pocchezza del nostro numero, a proporzione di quello del nemico — Io avevo collocato la mia piccola forza, sul punto culminante delle colline — ove si trovava la casa d'un colono — ch'io feci ritirare prevedendo un combattimento. La mia previsione non andò errata: la collonna del generale Ghio, comandante in capo le forze di Reggio — s'avanzava realmente ed era vicinissima. Io posi in situazione di difesa la compagnia suddetta — e mandai per rinforzi nella città. La posizione era delicata: i nemici eran molti — i miei pochi — e se i borbonici, in luogo di seguire il loro metodo prediletto: di far fuoco avanzando — caricano a dirittura i miei pochi militi — era impossibile di resister loro — ed incerto, l'esito della giornata — Giacchè essendo la città di Reggio, sulla sponda del mare — le colline circostanti la coronano da quasi ogni parte, meno da quella dello stretto — ed essendo i borbonici padroni di tali alture dominanti, e dei forti che si trovavano tuttora in loro potere — facilmente diventava per noi un rovescio — Ma anche questa volta la vittoria doveva sorriderci: giungendo in pochi — ma solleciti, i rinforzi inviati dal generale Bixio — si tennero le alte posizioni, da prima occupate — ed essendo accresciuti i nostri, in numero sufficiente — si caricò il nemico, che abbandonò il campo di battaglia — e si pose in ritirata verso settentrione. I risultati dei combattimenti di Reggio — furono d'un'importanza somma — Si arresero i forti dopo alcuna difesa — Si rimase padroni d'un enorme materiale, da bocca e da guerra — ed ebbimo come base d'operazione sul continente una piazza, per noi, ben importante. Nella mattina si perseguì il corpo di Ghio — che capitolò il giorno dopo — lasciando in nostro potere, molte armi minute — ed alcune batterie di campagna. Si arresero tutti i forti che dominano lo stretto di Messina — compresovi Scilla — nelle vicinanze del quale era sbarcata la divisione Cosenz — che riunita alla divisione Bixio, contribuì alla capitolazione di Ghio. Qui, devo menzionare una perdita preziosa per la democrazia mondiale — Deflotte, rappresentante del popolo a Parigi nel tempo della Republica — proscritto dal Bonaparte — s'era riunito ai Mille in Sicilia — e passò lo stretto colla divisione Cosenz. I borbonici, all'annunzio dello sbarco di detta divisione, giunsero al littorale per attaccarla — e si contentarono però: di molestarla con alcune scaramuccie — In una di queste, il nostro Deflotte con un contegno d'intrepidezza ammirabile — fu ferito a morte da piombo nemico. La nostra marcia lungo le Calabrie, fu un vero, e splendido trionfo, progredendo celeremente, tra marziali e fervidissime popolazioni, una gran parte di loro in armi, contro l'oppressore borbonico. A Soveria mise abasso le armi, la divisione Vial, forte di circa otto milla uomini — dandoci un materiale immenso, in cannoni, moschetti, e munizioni — La brigata Caldarelli, capitolò colla collonna Calabrese di Morelli a Cosenza. Infine dopo una corsa celere, di pochi giorni da Reggio a Napoli — precedendo sempre le mie collonne che non potevan ragiungermi, ad onta di marcie forzate — io giunsi nella bella Partenope. 3º periodo. CAPITOLO XIV. Ingresso a Napoli — 7 Settembre 1860. L'ingresso nella grande capitale — ha più del portento, che della realtà — Accompagnato da pochi ajutanti — io passai frammezzo alle truppe borboniche, ancor padrone, e mi presentavano l'armi, con ossequio più rispettoso certamente — che non lo facevano in quei tempi ai loro generali. Il 7 settembre 1860! E chi dei figli di Partenope, non ricorderà il gloriosissimo giorno? Il 7 settembre cadeva l'aborrita dinastia, che un grande statista Inglese, avea chiamato «Maledizione di Dio!» e sorgeva sulle sue ruine, la sovranità del popolo — che una sventurata fatalità, fa sempre poco duratura. Il 7 settembre, un figlio del popolo, accompagnato da pochi suoi amici, che si chiamavano ajutanti[105], entrava nella superba capitale dal focoso destriero[106] acclamato, e sorretto dai cinque cento milla abitatori, la di cui fervida ed irresistibile volontà, paralizzando un'esercito intiero — li spingeva alla demolizione d'una tirannide — all'emancipazione dei sacri loro diritti — la di cui scossa, avrebbe potuto movere l'intiera Italia, e portarla sulla via del dovere — il di cui ruggito, basterebbe a far mansueti i reggitori insolenti ed insaziabili — ed a rovesciarli nella polve! Eppure il plauso, ed il contegno imponente del grande popolo, valsero nel 7 settembre 1860 a mantenere innocuo l'esercito borbonico, padrone ancora dei forti, e dei punti principali della città — da dove avrebbe potuto distruggerla. Io entrava in Napoli — mentre tutto l'esercito meridionale, trovavasi ancora ben distante verso lo stretto di Messina — ed il re di Napoli — avea abandonato, il giorno antecedente, il suo seggio per ritirarsi a Capua. Il nido monarchico, ancor caldo, venne occupato dagli emancipatori popolani — ed i ricchi tapeti delle reggie, furon calpestati dal rozzo calzare del proletario. Esempi questi, che dovrebbero servire — a qualche cosa, anche per i governi — che falsamente si titolano riparatori — almeno al miglioramento della condizione umana — ma che non servono per l'egoïsmo, l'albagìa, la cocciutaggine degli uomini del privilegio — che non si correggono nemmeno quando il leone popolare, spinto alla disperazione, rugge alle loro porte, per sbranarli con ira selvaggia, ma giusta, ma figlia dell'odio seminato dalla tirannide — A Napoli, come in tutti i paesi percorsi dallo stretto di Messina — le popolazioni furono sublimi d'esaltazione e d'amor patrio — ed il loro imponente contegno — contribuì certo moltissimo, a sì brillanti risultati. Altra circostanza ben favorevole alla causa nazionale — fu il tacito consenso, della marina militare borbonica — che avrebbe potuto: se intieramente ostile, ritardare molto il nostro progresso verso la capitale — E veramente i nostri piroscafi trasportavano liberamente i corpi dell'esercito meridionale, lungo tutto il littorale Napoletano, senza ostacoli — ciocchè non avrebbero potuto eseguire con una marina assolutamente contraria. In Napoli più potente che a Palermo, aveva il Cavourismo lavorato indefessamente — e vi trovai non piccoli ostacoli — Corroborato poi dalla notizia: che l'esercito Sardo invadeva lo stato pontificio, esso diventava insolente. Quel partito basato sulla corruzione — nulla avea lasciato d'intentato — Esso s'era lusingato pria, di fermarci al di là dello stretto — e circoscrivere l'azione nostra nella sola Sicilia — Perciò aveva chiamato in sussidio il magnanimo padrone — per cui già un vascello della marina militare Francese era comparso nel Faro — Qui ci valse immensamente il veto di Lord John Russel — che in nome d'Albion imponeva al sire di Francia: di non mischiarsi delle cose nostre. Ciocchè più mi urtava nei maneggi di cotesto partito — era di trovarne le traccia in certi individui che mi erano cari, e di cui mai avrei dubitato. Gli uomini incorrutibili, erano dominati coll'ipocrita, ma terribile pretesto della necessità! La necessità d'esser codardi! La necessità di ravvolgersi nel fango, davanti ad un simulacro di effemera potenza — e non sentire, non capire, la robusta, imponente, maschia volontà d'un popolo che volendo _essere_ ad ogni costo — si dispone a frangere cotesti simulacri insettivori, e disperderli ne letamajo da dove scaturirono. Cotesto partito, composto di compri giornali, di grassi proconsoli, e di parassiti d'ogni genere — sempre pronti a servire — con ogni specie d'abbassamento e di prostituzione — chi lo paga — e pronto sempre a tradire il padrone quando questi minaccia di crollare — quel partito dico: mi fa l'effetto dei vermi sul cadavere — il loro numero ne segna il grado di putridume! In ragion diretta del numero di questi vermi — si può valutare la corruzione d'un popolo! Io ebbi a soffrire delle mortificazioni da quei signori, che da protettori la facean, dopo le nostre vittorie — e che il calcio dell'asino, ci avrebbero dato — come lo diero a Francesco II — se sconfitti — mortificazioni ch'io certo, non avrei tolerato — se d'altro trattatto si fosse, che della causa santa dell'Italia. Per esempio, giungono due battaglioni dell'esercito Sardo, non dimandati — Il di cui scopo reale, era: il non lasciar fuggire la preda della ricca Partenope, ed assicurarla — col pretesto però di porli ai miei ordini — se richiesti — Io li chiedo — e mi si risponde: che devesi ottenere il beneplacito dell'ambasciatore — questo, consultato — risponde: che si deve chiedere il permesso a Torino!... Ed i miei prodi compagni — si battevano, e vincevano sul Volturno — Non solamente senza il concorso di un solo soldato di truppa regolare — ma privi dei contingenti che la gioventù generosa di tutta Italia, voleva inviarci — e che Cavour e Farini trattenevano od imprigionavano. I pochi giorni passati in Napoli — dopo l'accoglienza gentile, fatami da quel popolo generoso — furon piutosto di nausea — giustamente per le mene e sollecitudini, dei sedicenti cagnotti delle monarchie — che altro non sono in sostanza, che sacerdoti del ventre — Aspiranti immorali e ridicoli — che usarono i più ignobili espedienti per rovesciare quel povero diavolo di Franceschiello — colpevole solo d'esser nato sui marciapiedi d'un trono — rovesciarlo, per sostituirlo del modo che tutti sanno. Tutti sanno le trame d'una tentata insurrezione — che doveva aver luogo prima dell'arrivo dei Mille — e per toglier loro il merito di cacciar il Borbone — e farsene belli poi, presso l'Italia — con poca fatica e merito — Ciò poteva benissimo eseguirsi — se coi grassi stipendi, la monarchia sapesse infondere nei suoi agenti — un po più di coraggio — e meno amor per la pelle — Non ebbero il coraggio di una rivoluzione, i fautori Sabaudi — ed era allora tanto facile di edificare sulle fondamenta altrui — eppure sono maestri in tali apropriazioni — ma ne avevan molto per intrigare — tramare — sovvertire l'ordine publico — e quando nulla avean contribuito alla gloriosa spedizione — oggi, che poco rimaneva da fare — ed era divenuto il compimento facile — la smargiassavano da protettori ed alleati nostri — sbarcando truppe dell'esercito sardo in Napoli — (per assicurare la gran preda s'intende) e giunsero al punto di protezionismo — da inviarci due compagnie dello stesso esercito, il giorno dopo la battaglia del Volturno, il 20 ottobre — Sempre il calcio dell'Asino! Trattavasi di rovesciare una monarchia per sostituirla — senza volontà, o capacità di far meglio per quei poveri popoli — ed era bello, veder quei magnati di tutti i despotismi — usar ogni specie di malefica influenza — corrompendo l'esercito, la marina, la corte, i ministeri — servendosi di tutti i mezzi i più subduli — per ottenere l'intento indecoroso. Sì! era bello il barcamenare di tutti cotesti satelliti, facendola da alleati del re di Napoli consigliandolo — cercando di condurlo a trattative _fraterne_ ed attorniandolo d'insidie, e di tradimenti — E se non avessero tanto temuto per la brutta loro pelle — essi potevano presentarsi all'Italia come liberatori. Che bello! se potevano far stare con tanto di naso, i Mille, e tutta la democrazia Italiana — Ma sì! sono i bocconi fatti che piacciono a cotesti liberatori dell'Italia, a grandi livree. Anche a Palermo — com'era naturale — tramavano i fautori Cavouriani — e gettavano contro i Mille la diffidenza tra la popolazione — spingendola ad un'annessione intempestiva. Essi mi obligarono di lasciare l'esercito sul Volturno — alla vigilia di una battaglia — per recarmi a Palermo — e placare quel bravo popolo, suscitato da loro — Assenza che costò all'esercito meridionale — la sconfitta di Cajazzo — unica, in tutta quella gloriosa campagna. 3º periodo. CAPITOLO XV. Preludi della battaglia del Volturno — 1º Ottobre 1860. Obligato di lasciare l'esercito sul Volturno — e di recarmi a Palermo — io avea raccomandato al generale Sirtori degno capo dello stato maggiore — di lanciare delle bande nostre, sulle comunicazioni del nemico — Ciò fu fatto — ma pare, chi ne avea l'incarico — trovò opportuno di fare qualche cosa di più serio — e col prestigio delle precedenti vittorie — non dubitò: qualunque impresa esser possibile, ai nostri prodi militi. Fu decisa l'occupazione di Cajazzo — villagio all'oriente di Capua sulla sponda destra del Volturno — Tale posizione piutosto difendibile, distava però, dal grosso dell'esercito borbonico, accampato a levante di Capua, di poche miglia — Tale esercito contava circa una quarantina di milla uomini, ed ingrossava ogni giorno. Per occupare Cajazzo, si fece una dimostrazione sulla sponda sinistra del Volturno — ove perdemmo alcuni buoni militi — massime per la superiorità delle carabine borboniche, e per essere i nostri allo scoperto. Il 19 settembre ebbe luogo l'operazione — si occupò Cajazzo — ed io giunsi nello stesso giorno da Palermo, per assistere al deplorevole spettacolo, del sacrifizio dei nostri militi — che avendo marciato — secondo il costume dei volontari, con impetto verso la sponda del fiume — furono poi obligati, non trovandovi ricovero, contro la grandine di palle nemiche — di retrocedere fuggendo, fulminati nella schiena. Questo fu il risultato della dimostrazione sul fiume per chiamar l'attenzione del nemico, ed occupar Cajazzo — Il giorno seguente poi — attaccato Cajazzo da forze borboniche preponderanti — i pochi nostri furono obligati di evacuarlo, e ritirarsi precipitosamente sul Volturno — ove si perdettero non pochi militi, fucilati, ed affogati nel passagio del fiume — l'operazione di Cajazzo, fu più che un'imprudenza — fu una mancanza di tatto militare — da parte di chi la comandava. Fra i perduti nostri, contammo il prode collonnello Tita Cattabene, coperto di ferite e prigioniero — ed il valoroso Bovi, figlio del maggiore Paolo Bovi — anche ferito e prigioniero — Non ricordo gli altri — Intanto l'impresa infelice di Cajazzo — una d'Isernia, ed il risveglio dell'Idra pretina, nelle campagne a tramontana del Volturno — risveglio, che aumentava in ragion diretta del concentramento ed acrescimento dell'esercito borbonico a Capua — Non poco anche: le astute mene dei Cavouriani — che lavoravano a tutt'uomo per screditarci — Tutto ciò demoralizzò alquanto parte nostra — rialzò il morale dei borbonici — e fu per loro, fortunato preludio, della gran battaglia meditata, che ebbe luogo poco dopo: il 1º e 2º Ottobre. L'esercito borbonico, sconquassato in Sicilia, nelle Calabrie, ed a Napoli, da tante perdite — si ritirava dietro il Volturno, facendo centro a Capua — che provvedeva e fortificava. Le prime collonne dell'esercito meridionale — arrivate appena nelle vicinanze di Napoli — furono dirette verso Avellino ed Ariano, a sedare alcuni moti reazionari, suscitati da preti e da borbonici — Il generale Türr ne fu incaricato — ed adempì perfettamente. Sedati che furono i torbidi d'Avellino, Türr ebbe ordine di occupare Caserta colla sua divisione — e S.ta Maria, e gli altri corpi erano avviati a quella direzione, a misura che arrivavano su Napoli — lasciandoli soggiornare, meno tempo possibile in quella capitale — La divisione Bixio occupò Maddaloni, coprendo la strada principale, che mette a Campobasso ed Abruzzi e formando la destra del nostro piccolo esercito. La Divisione Medici occupò monte S. Angelo — che domina Capua ed il Volturno — e fu rinforzato poi, da corpi di nuova formazione comandati dal generale Avezzana — Una brigata della Divisione Medici comandata dal generale Sacchi, occupava il pendìo settentrionale del monte Tifate che mette nel Volturno — Tutte quelle forze formavano il nostro centro — La divisione Türr occupò S.ta Maria — formando la nostra sinistra. Le riserve agli ordini del capo di Stato Maggiore generale Sirtori, stazionarono in Caserta. 3º periodo. CAPITOLO XVI. Battaglia del Volturno. L'aurora del 1º Ottobre, illuminava — nelle pianure della vecchia capitale della Campania — un'atroce mischia — una battaglia fratricida! Dalla parte dei borbonici — è vero — eran molti i mercenari stranieri: Bavaresi, Svizzeri, ed altri che da vari secoli, sono assuefatti a considerare questa nostra Italia, come una villeggiatura od un lupanare — E cotesta ciurmaglia, sotto la guida e la benedizione del prete — ha sempre sgozzato — di preferenza — gl'italiani, dal prete educati a piegar il ginocchio — Ma pur troppo: la maggior parte dei combattenti alle falde della Tifate[107] eran _figli_ di questa terra infelice — spinti a maccellarsi reciprocamente — gli uni condotti da un giovine re, figlio del delitto — gli altri propugnando la causa santa del loro paese — Da Annibale, vincitore delle superbe legioni — ai giorni nostri, le campagne Campane — non avean certo veduto, più fiero conflitto — ed il bifolco passando l'aratro su quelle zolle ubertose, urterà, per molto tempo ancora, nei teschi, dalla rabbia umana seminati. Tornato da Palermo, e visitando ogni giorno la posizione dominante di S. Angelo — da dove scorgevasi bene il campo nemico — a levante della città di Capua — e sulla sponda destra del Volturno — io congetturai: esser i borbonici in preparativi di battaglia — Essi si disponevano di passare all'offensiva — acresciuti — quanto potevano — di numero — e baldanzosi per pochi parziali vantaggi, ottenuti su di noi. Da parte nostra, si fecero alcune opere di difesa — che molto valsero — a Maddaloni, a S. Angelo, e massime a S. Maria — che più ne abbisognava per esser in pianura, e la più esposta — senza ostacoli naturali. La nostra linea di battaglia era difettosa — Essa era troppo estesa da Maddaloni a S. Maria — Il centro nemico che dovevasi considerare la massa più forte — era in Capua, da dove poteva sboccare a qualunque ora della notte, e sorprendere a circa tre miglia di distanza, l'ala nostra sinistra — schiacciarla pria di poter essere sostenuta dalle altre parti — e dalle riserve. S. Angelo centro della nostra linea, è posizione forte per natura — ma avressimo dovuto aver più tempo, per eseguirvi le opere, di difesa, necessarie — e più gente per difenderne la vasta sua area — È, poi, dominata dall'altissimo Tifate — che la padroneggia assolutamente, se in mano del nemico — Maddaloni, posizione importantissima — che doveasi pure, tenere con tutta la divisione Bixio — poichè passando il nemico nell'alto Volturno — e prendendo la via di Maddaloni per Napoli con molta forza, sarebbe stato in poche ore nella capitale, lasciandoci noi sul Volturno Capuano. Le riserve tenevansi a Caserta — e non eran numerose — certamente, dovendo noi occupare una linea sì estesa — Eravamo, di più, obligati di tenere alcuni corpi di concatenazione al fronte, tra monte S. Angelo e Caserta sul Volturno, a S. Leucio per impedire al nemico di frammettersi tra le nostre ali. S.ta Maria era la più difettosa delle nostre posizioni: per esser in pianura — colle poche opere di difesa da noi innalzate in pochi giorni — per prestarsi favorevole alla numerosa cavalleria nemica — ed alla sua artiglieria, anche più numerosa e meglio servita — Essa era stata occupata, in ossequio della buona sua popolazione — che avendo avuto alcune velleità liberali, alla ritirata dei borbonici — era tremante all'idea di rivedere i suoi antichi padroni. La forza nostra di S. Maria, collocata in riserva di monte S. Angelo, alle falde del Tifate — avrebbe reso la nostra linea assai più forte. Occupata S. Maria, conveniva occupare Santammero come suo posto di sinistra — e mantener una forza sulla strada di S. Maria a S. Angelo — per tenere le comunicazioni aperte tra i due punti. Tuttociò era debole, e consiglio i miei giovani concittadini, che potrebbero trovarsi nello stesso caso — a non rischiare la sicurezza dell'esercito, in considerazione del pericolo d'un paese — di cui ponno ritirarsi gli abitanti in luogo sicuro. E veramente: il difetto della nostra linea — non mi lasciava tranquillo — siccome i preparativi d'una imminente battaglia — a cui preparavasi l'esercito borbonico, più numeroso e meglio fornito d'ogni cosa del nostro. Circa alle 3 del mattino del 1º Ottobre — io montavo in via ferrata a Caserta, ove tenevo il mio quartier generale — seguito da parte del mio stato maggiore — e giungevo in S. Maria prima dell'alba — Montavo in carrozza per recarmi a S. Angelo — ed in quel momento udivasi la fucilata verso la sinistra nostra — Il generale Milbitz che comandava le forze ivi riunite — venne a me, e mi disse: «Siamo attaccati verso Santammaro — e vado a vedere ciocchè v'è di nuovo» Io ordinai di marciare, con tutta velocità, alla carrozza — Il romore delle fucilate ingrossava — e si estese poco a poco su tutta la fronte sino a S. Angelo — Al primo albore, io giunsi sulla strada, a sinistra delle nostre forze di S. Angelo — già impegnate — e giugendo mi accolse una grandine di palle nemiche — Il mio cucchiere fu ucciso — la carozza fu crivellata di palle — e con me, i miei ajutanti, fummo obligati di scendere e sguainar le sciabole per aprirsi cammino — Io mi trovai presto, in mezzo ai Genovesi di Mosto — ed ai Lombardi di Simonetta — quindi, non fu necessario di difenderci noi stessi — quei prodi militi, vedendoci in pericolo, caricarono i borbonici con tant'impetto — che li respinsero un buon pezzo distanti — e ci facilitarono la via per S. Angelo — L'addentrarsi del nemico nelle nostre linee, ed alle spalle — movimento d'altronde ben eseguito — con molta sagacia, e di notte naturalmente — provava esser egli ben pratico del paese — Tra le strade che dal Tifate, e da monte S. Angelo mettono verso Capua, ve ne sono incassate nel terreno che posa sul tufo volcanico — alla profondità di più metri — Tali strade furon forse praticate in tempi antichi — come comunicazioni tatiche d'un campo di battaglia — e le acque piovane scendendo dai monti circostanti — hanno senza dubbio influito a scavarne maggiormente il fondo. Il fatto sta: che in una di quelle strade — ponno transitarvi forze considerevoli, anche delle tre armi — ed assolutamente al coperto. I Generali borbonici, nel loro meditatissimo piano di battaglia, aveano accortamente profitato di tali strade per far passare alcuni battaglioni alle spalle della nostra linea — e collocarsi sulle formidabili alture del Tifate — nella notte. Disimpegnatomi dalla mischia in cui m'ero trovato per un momento — io m'incamminai coi miei ajutanti verso S. Angelo — credendo: esser il nemico solo alla sinistra nostra — ma procedendo verso le alture mi accorsi presto esserne il nemico padrone — ed alle spalle della nostra linea — Erano certamente i battaglioni borbonici — che di notte — per le strade coperte — di cui ho già fatto cenno — avean tagliato la nostra linea, e s'eran portati dietro di noi nell'alto. Senza perder tempo, raccolsi quanti militi mi cadettero sottomano, e ponendomi per le vie della montagna, cercai di girarlo al dissopra — Mandai nello stesso tempo una compagnia Milanese ad occupare la sommità del Tifate — o S. Nicola che domina tutte le colline di S. Angelo — Detta compagnia, e due compagnie della brigata Sacchi, ch'io avevo chiesto, e che comparirono opportunamente — fermarono il nemico — che si disperse, e di cui si fece una quantità di prigionieri — Io potei allora salire sul monte S. Angelo — da dove vidi la pugna, fervere energicamente su tutta la linea da S. Maria a S. Angelo — ora favorevole a noi — ed ora i nostri piegando davanti all'impulso delle masse nemiche — Da vari giorni — da monte S. Angelo — ove tutto potevo discernere nel campo nemico — molti indizi mi anunziavano un'attacco; e perciò io non mi ero lasciato allettare, dalle differenti dimostrazioni fatte dal nemico sulla destra, e sulla sinistra nostra — il di cui motivo principale, era quello di obligarci ad allontanare delle forze nostre dal centro — ove esso pensava dirigere, i maggiori suoi sforzi — E ben ci valse — poichè i borbonici, impiegarono contro di noi nel 1º Ottobre, quanta forza disponibile ancora — avevano in campo e nelle fortezze — e per fortuna ci attaccarono simultaneamente su tutte le posizioni — nell'estensione della linea nostra — Dovunque si combatteva, e con molta ostinazione da Maddaloni a S. Maria — A Maddaloni, dopo varia fortuna — il generale Bixio — avea respinto vittoriosamente il nemico. A S. Maria, ove il generale Milbitz fu ferito — fu pure respinto — ed in ambi i punti lasciò prigionieri, e cannoni — A S. Angelo successe lo stesso dopo un combattimento di più di sei ore — ma essendo le forze nemiche tanto imponenti in quel punto — esse eran rimaste con una forte collonna, padrone delle comunicazioni tra cotesto punto e S. Maria — dimodocchè, per portarmi alle riserve, ch'io avevo chiesto al generale Sirtori — e che colla via ferrata dovevano giungere da Caserta a S. Maria — io fui obligato di fare un giro a levante dello stradale e giunsi in S. Maria dopo le 2 p. m. Le riserve da Caserta, giungevano in quel momento — e le feci schierare in collonna d'attacco sullo stradale che mette a S. Angelo — La brigata Milano in testa, sostenuta dalla brigata Eber — ed ordinai in riserva parte della brigata Assanti — Spinsi pure all'attacco i prodi Calabresi di Pace, che trovai tra le piante sulla mia destra — e che combatterono pure splendidamente — Appena uscita la testa di collonna dal folto — che copre lo stradale vicino S. Maria — verso le 3 p. m., essa fu scoperta dal nemico, che cominciò a tirarci delle granate — ciocchè cagionò un po di confusione tra i nostri — ma per un momento — ed i giovani bersaglieri Milanesi, che marciavano avanti — al tocco di carica, si precipitarono sul nemico — Le catene dei bersaglieri Milanesi furon tosto seguite da un battaglione della stessa brigata — che caricò impavidamente il nemico, senza fare un tiro come aveva l'ordine. Lo stradale che da S. Maria va a S. Angelo — è a destra di quello da S. Maria a Capua — e forma con questo, un'angolo di circa 40 gradi — dimodocchè procedendo la collonna nostra per lo stradale, lo spiegamento della stessa doveva esser sempre sulla sinistra — ove si trovava il nemico in gran numero dietro a ripari naturali — Impegnati che furono i Milanesi e Calabresi — io spinsi al nemico la brigata Eber, sulla destra dei primi — Ed era bel vedere i veterani dell'Ungheria[108] coi loro compagni dei Mille — marciare al fuoco colla tranquillità, col sangue freddo — con cui si passeggia in un campo di manovre, e collo stesso ordine — La brigata Assanti, seguì il movimento in avanti — e la ritirata del nemico tardò poco a manifestarsi verso Capua. Il movimento di cotesta collonna d'attacco sul nemico del centro — fu quasi simultaneamente seguito a destra dalle divisioni Medici ed Avezzana — e sulla sinistra dal resto della divisione Türr — sullo stradale di Capua. Il nemico dopo d'aver combattutto ostinatamente fu sbaragliato su tutta la linea — e si ritirò in disordine dentro Capua, protetto dal cannone della piazza — verso le cinque p. m. — Circa a quell'ora il generale Bixio, mi annunciava la sua vittoria dell'ala destra sui borbonici — Per cui, io potei telegrafare a Napoli: «Vittoria su tutta la linea». Il fatto del 1º Ottobre al Volturno — fu una vera battaglia campale — Ho già detto: esser la nostra linea difettosa, per irregolarità, e per troppa estensione — Ebbene, per fortuna nostra, fu pur difettoso, il piano di battaglia dei generali borbonici. Essi ci diedero una battaglia parallella, potendo darcela obliqua — con cui avrebbero inutilizzato le opere nostre di difesa — e ricavato dei vantaggi immensi. Essi ci attaccarono con forze considerevoli, su tutta la linea — in sei punti diversi — A Maddaloni — a Castel Morrone — a S. Angelo — a S. Maria — a S. Tammaro, ed a S. Leucio[109] — Diedero così una battaglia parallella — cozzando con posizioni e forze preparate a riceverli — Se avessero, invece, preferito una battaglia obliqua, ciocchè stava in loro potere — avendo essi l'iniziativa dell'attacco — facilitata dalla forte posizione di Capua — a cavallo — e con ponti sul Volturno — minacciando con avvisaglie di notte — cinque dei punti sumentovati — e nella notte stessa portare quaranta milla uomini — sulla nostra sinistra a Santammaro — io non dubito: essi potevano giungere a Napoli, con poche perdite. Non sarebbe stato — perciò — perduto l'esercito meridionale — ma un grande scompiglio ce lo avrebbero cagionato — massime tra le impressionabili popolazioni Partenopee — Un'altro motivo d'inferiorità borbonica — era pure: «il far fuoco avanzando» prediletto sistema dei nostri nemici — a cui fu fatale, in tutti gli incontri coi volontari nostri — che all'incontro li vinsero sempre — colle loro cariche a fondo e senza fare un tiro — Mi si obbietterà: tale nostro sistema esser nocivo, colle nuove armi di precisione — ed io dico con convincimento: esser più necessario ancora con tali armi — Supponiamo un campo di battaglia piano, e sprovvisto d'ostacoli — Due linee di bersaglieri stanno in presenza — l'una marciando, e facendo fuoco sull'altra, ferma e rispondendo ai tiri nemici — Io dico: il vantaggio esser per la linea ferma — poichè questa, carica l'arma e fa fuoco con più sangue freddo e meno spossatezza — Il milite obliqua meglio il corpo — per presentare meno superficie possibile ai projetti nemici — Mentre quello che avanza, deve essere più agitato — quindi meno precisi i suoi colpi — e sopratutto è impossibile, ch'egli possa andare avanti senza esporre il suo corpo, più di quello che aspetta — Colle armi odierne — se una catena di bersaglieri ha il sangue freddo d'aspettarne una nemica che venga, facendo fuoco avanzando — essa perderà certamente molti uomini — ma certo dei nemici non ne giungerà uno illeso — Poi, son pochi i paesi — e pochi i casi — ove una linea di bersaglieri, dovendo aspettare il nemico in posizione — non trovi nella stessa, alcun'ostacolo da coprire in parte, od in totale i suoi militi — In quest'ultimo caso — a parità di numero — non vi sarà un solo soldato — della catena avanzando, che possa giungere a quella che aspetta in posizione. O non si deve caricare il nemico nelle sue posizioni — o conviene caricarlo sino alla mischia — senza di che, si perderà molta gente — e non si giungerà alla meta — Uno dei grandi vantaggi nostri alla battaglia del Volturno — fu pure la bravura dei nostri ufficiali — Quando si ha dei luogotenenti come Avezzana, Medici, Bixio, Sirtori, Türr, Eber, Sacchi, Milbitz, Simonetta, Missori, Nullo ecc. — è ben difficile: veder la vittoria, disertar le bandiere della libertà e della giustizia — 3º periodo. CAPITOLO XVII. Bronzetti a Castel Morrone — 1º ottobre 1860. Accanto alle immortali famiglie dei Cairoli, Debenedetti — e di tante altre — per cui veste lutto l'Italia — posiamo alla venerazione di tutti quella dei Bronzetti — Il maggiore fratello — caduto contro gli Austriaci a Seriate — Il secondo, non meno eroïcamente a Castel Morrone — Resta un terzo ai vecchi genitori — ed anche questo col consenso degli incomparabili vegliardi — pronto a dar la sua vita all'Italia — Servano tali esempi d'eroïsmo alle generazioni venture — Mentre la pugna ferveva nelle pianure Capuane — il maggiore Bronzetti, alla testa di circa dugento uomini, sosteneva l'urto di quattro milla borbonici — e li respingeva a varie riprese dalle posizioni da lui occupate — Invano il nemico, per tante volte, intimò la resa, a qualunque patto — meravigliato da tanta bravura — Invano! Il prode Lombardo, avea deciso di morire co' suoi compagni — ma non arrendersi — Avanzo di dieci assalti pochi restavano del piccolo suo battaglione — la maggior parte giacevano morti, o morenti sul campo della strage — I pochi restanti però — non vollero udire di resa — trincierati nell'alto del rovinato castello — ed animati dall'esempio del loro valoroso capo — «Arrendetevi ragazzi» gridavano gli ufficiali borbonici: Arrendetevi — non vi sarà torto un capello — e già faceste abbastanza per l'onore» «Che arrendersi!» gridavano quei superbi, e gloriosi figli d'Italia: «Fatevi avanti — se avete animo!» Essi terminarono sino all'ultimo cartuccio — sostennero l'urto finale colla bajonetta — e caddero tutti! Soli, alcuni pochi, gravemente feriti, furono trasportati a Capua — ¿Ed ove giacciono le ossa di cotesti eroi, dell'eroïco Bronzetti? Italia! Terra di monumenti — Le ricorderai? 3º periodo. CAPITOLO XVIII. Combattimento di Caserta Vecchia — 2 ottobre 1860. Reduce la sera del 1º — in S. Angelo — stanco ed affamato, per nulla aver preso nella giornata — io ebbi la fortuna di trovarvi i miei prodi carabinieri Genovesi — in casa del parrocco — Fu quella una venturosa scoperta: ebbi un lauto pranzo, il cafè dopo quello — e mi sdrajai saporitamente — non ricordo ove — Comunque: nemmen quella notte, ero destinato a riposare. Appena sdrajato, ebbi notizie: che una collonna nemica di 4 a 5 milla uomini — trovavasi a Caserta Vecchia — minacciando di scendere a Caserta — Era notizia da non disprezzarsi — e diedi ordine: per le due della mattina, ai Carabinieri Genovesi di trovarsi pronti, con 350 uomini del corpo di Spangaro — ed una sessantina di montanari del Vesuvio — Con tale forza — marciai all'ora suddetta su Caserta, per la via della montagna e S. Leucio — Prima di giungere a Caserta — il collonnello Missori, ch'io avevo incaricato di scoprire il nemico — con alcune delle valorose sue guide — mi avvertì: trovarsi il nemico, schierato, sulle alture di Caserta Vecchia — stendendosi verso Caserta — ciocchè potei verificare io stesso, poco dopo — Mi recai a Caserta, per concertare col generale Sirtori il modo d'attaccare quel nemico — che non credetti sì ardito, d'attaccare il quartier generale nostro — e che m'ingannai in tale apprezzamento, come si vedrà presto — Combinai col generale suddetto di riunire tutte le forze che si trovavano alla mano, e di marciare al nemico per il suo fianco destro, cioè: attaccandolo per le alture del parco di Caserta — mettendolo così tra noi, la brigata Sacchi di S. Leucio, e la divisione Bixio, a cui avevo mandato ordine di attaccare il nemico dalla parte di Maddaloni — I borbonici, dalle alture, scoprendo poca gente in Caserta, proposero d'impadronirsene — non conoscendo probabilmente il risultato della battaglia del giorno antecedente — e quindi lanciarono circa la metà delle loro forze su cotesta città assaltandola vigorosamente — Dimodocchè mentre io mi trovavo marciando al coperto — girando il loro fianco destro — due milla di loro scendevano dalle alture piombando sul nostro quartier generale — e se ne sarebbero forse impadroniti — se il generale Sirtori — colla solita bravura, con una mano di prodi che si trovavano nella città — non li avessero respinti — Io procedevo intanto, coi Calabresi del generale Stocco, quattro compagnie dell'esercito regolare nostro[110] ed alcune altre frazioni di corpi — verso la destra del nemico — che trovammo schierato in battaglia nell'alto — servendo di riserva, a coloro che stavano attaccando Caserta — e che senza dubbio non s'aspettava l'improvisa apparizione nostra — I borbonici sorpresi resistettero poco — e furono spinti quasi alla corsa — perseguiti dai coraggiosi Calabresi ecc. — sino a Caserta Vecchia — Alcuni si sostennero un momento, in cotesto villaggio, facendo fuoco dalle finestre, e da certe macerie, che loro servivano di riparo — ma presto furono circondati e fatti prigionieri — quei che fuggirono verso ostro, caddero in potere dei corpi di Bixio — che dopo d'aver combattutto e vinto, valorosamente il 1º a Maddaloni — giungeva come un lampo, sul nuovo campo di battaglia — Quei che presero verso tramontana, capitolarono col generale Sacchi — a cui avevo ordinato di seguire il movimento della mia collonna — Dimodocchè di tutto il corpo nemico — che giustamente, ci aveva alquanto sgomentati — pochi furono quelli che poterono salvarsi — Tale corpo era lo stesso, che aveva attaccato, e distrutto il piccolo battaglione del Maggiore Bronzetti, a Castel Morrone — e che l'eroïca difesa di quel valoroso, col suo pugno di prodi — aveva trattenuto la maggiore parte del giorno 1º Ottobre, ed impedito quindi, che ci giungesse alle spalle nella fiera battaglia — Chi sa: il sacrificio dei dugento martiri — non fosse la salvazione dell'esercito nostro. Come si è veduto durante la battaglia del Volturno chi la decise furono le riserve giunte sul campo di battaglia, verso le 3 p. m. E se coteste riserve fossero state trattenute a Caserta da un corpo nemico — la giornata risultava almeno indecisa — Ciò prova pure: esser state le disposizioni dei generali borbonici — non tanto cattive — e che nelle combinazioni di guerra — bisogna esser secondati dalla fortuna, o da un genio, molto superiore — Il corpo di Sacchi, contribuì non poco — a trattenere la collonna nemica suddetta — al di là del parco di Caserta, nella giornata del 1º respingendola valorosamente — Colla vittoria di Caserta Vecchia — 2 Ottobre 1860 si chiude il glorioso periodo delle nostre battaglie nella campagna del 60 — L'esercito Italiano del settentrione che Farini e compagni, inviavano per combatter noi, personificazione della rivoluzione[111], ci trovò frattelli — ed a cotesto esercito toccò la cura di ultimare l'annientamento del borbonismo nelle due Sicilie — Per sistemare la condizione de' prodi miei commilitoni — io chiesi il riconoscimento dell'esercito meridionale — siccome parte dell'esercito nazionale — e fu un'ingiustizia non concederlo — Si voleva godere il frutto della conquista — ma cacciarne i conquistatori — Ciò inteso: io deposi a mano di Vittorio Emanuele,[112] la Dittattura, che m'era stata conferita dal popolo — proclamandolo re d'Italia — A lui raccomandavo i miei valorosi fratelli d'armi — e questa era la sola parte sensibile del mio abbandono — desïoso com'ero di ripigliare la mia solitudine — Io lasciavo quella gioventù generosa — che s'era lanciata attraverso il mediterraneo, fidente in me — disprezzando ogni genere di contrarietà, di disagi, di pericoli — affrontando la morte, in dieci accaniti combattimenti, colla sola speranza dello stesso guiderdone, ottenuto in Lombardia, e nell'Italia centrale: nel plauso dell'angelica loro coscienza — e in quello del mondo, testimone di fatti stupendi — Con tali compagni — alla di cui bravura — io devo la maggior parte de' miei successi — io affronterei certo volentieri — qualunque più ardua impresa! QUARTO PERIODO Dal 1860 al 1870. CAPITOLO I. 1862 Campagna di Aspromonte. Una pianta vale in ragion diretta — del suo prodotto — E così l'individuo: vale, secondo il prodotto benefico — ch'egli può donare al suo simile — Nascere, vivere, mangiar e bere — e morire poi — è apannagio anche dell'insetto. In un periodo come quello del 1860 — nell'Italia meridionale — un'uomo vive: e vive di vita utile per le moltitudini — Cotesta è la vera vita dell'anima! «Lasciate fare a chi tocca»! dicevano generalmente coloro — che col muso nella greppia dell'erario publico — eran disposti a far nulla, o far male — In conseguenza di tale teoria, la monarchia Sabauda — per tre volte lanciava il suo veto — alla Spedizione dei Mille: la prima volta non voleva che si partisse per Sicilia — la seconda che si passasse il Faro — e la terza, che si passasse il Volturno — Si partì per Sicilia — si passò il Faro ed il Volturno — e perciò le cose d'Italia non andarono peggio — «Voi dovevate proclamare la Republica» gridarono i Mazziniani, e gridano anche oggi — come se cotesti dottori, assuefati a legislare il mondo dal fondo delle loro scrivanie — dovessero conoscere lo stato morale e materiale de' popoli — meglio di noi, ch'ebbimo la fortuna di capitanarli e guidarli alla vittoria — Che le monarchie, come i preti, provino ogni giorno più: che nulla di buono, si può sperare da loro — è cosa patente — Ma che si dovesse proclamare la Republica, da Palermo a Napoli nel 1860 — ciò è _falso_! E coloro che vogliono persuader del contrario — lo fanno per quell'odio di parte che hanno manifestato dal 48 in quà, in ogni occasione — e non, per esser convinti di quanto asseriscono — Ebbimo il veto della monarchia nel 1860 — e l'ebbimo nel 1862 — Rovesciare il papato — credo tanto valesse — e qualche cosa di più — che rovesciare il borbone — E nel 1862 — ciocchè si proponevano le solite camicie rosse — era di buttar giù il papato — incontestabilmente, il più fiero ed accanito nemico dell'Italia — ed acquistare la naturale capitale nostra — senz'altra meta, senz'altra ambizione — che quelle di fare il bene della patria — La missione era santa, le condizioni erano le stesse — e la generosa Sicilia — meno alcuni che già stavano comodamente seduti, alla mensa da noi preparata nel 60 — rispondeva col solito suo slancio, al grido di «Roma o morte» da noi proclamato a Marsala — E qui, giova ripetere — ciocchè già dissi altra volta: «Se Italia avesse posseduto due Palermo — noi avressimo potuto ragiunger Roma, non disturbati» Il venerando martire dello Spielberg — Pallavicino, governava a Palermo — A me certo repugnava: cagionar alcun disturbo a quel mio vecchio amico — Io però, ero convinto: esser colpa «il lasciar fare a chi tocca» sicuro che nulla, si tentava di fare, senonchè colla spinta — di chi non voleva rimaner pianta inutile — Quindi: il grido: «Roma o morte» a Marsala, seguito dalla raccolta de' miei prodi alla Ficuzza — tenuta, e selva a poche miglia da Palermo — Quivi si riuniva un'eletta schiera della gioventù Palermitana — e poi dalle provincie — Corrao, il valoroso compagno di Rosolino _Pilo_, ed altri egregi, procuravano armi — Bagnasco, Capello, ed altri illustri patrioti — formavano un comitato di provvedimento — Dimodocchè co' miei inseparabili fratelli d'armi del continente Nullo, Missori, Cairoli, Manci, Piccinini, ecc. — presto nuovi Mille — si trovavano in campo — disposti come i primi ad affrontare la tirannide sacerdotale, certamente assai più nociva della borbonica — Ma colla monarchia, noi avevimo il delitto di dieci vittorie, e l'insulto d'aver aggrandito i suoi apannagi — tutte cose che i re non perdonano — Una gran parte di coloro, che vociferarono con entusiasmo l'unificazione patria, nel 60 — ora ben seduti e soddisfatti — o biasimavano l'impresa nostra — o si tenevano da parte — per non appestarsi al contatto di rivoluzionari, incontentabili ed irrequieti — Comunque, grazie alla fiera attitudine di Palermo — ed alle vive simpatie della Sicilia tutta — noi potemmo percorrer l'isola sino a Catania — senza ostacoli serï — La brava popolazione di Catania — non fu da meno — ed il suo contegno — trattenne nei limiti dell'inazione — chi, certamente, aveva voglia di fermare l'impresa nostra. — Due piroscafi — uno Francese — e l'altro della compagnia Florio — capitati nel porto di Catania fornirono il mezzo di trasporto per il continente — Alcune fregate della marina militare Italiana incrociavano davanti al porto — ed avrebbero potuto impedire l'imbarco ed il passaggio — Esse — senza dubbio ne avevano l'ordine — Ma, sia detto ad onore di chi le comandava — ostilità non ve ne furono da parte loro — Ed io invio un plauso a quei comandanti — E credendo di conoscer anch'io l'onor militare — dirò con coscienza del vero: che in casi simili, un'uomo d'onore deve fare a pezzi la sua sciabola — Il modo in cui si passò lo stretto di Messina — fu molto pericoloso, per esser stracarichi di gente — i piroscafi, ad onta che molti de' nostri militi, non poterono imbarcarsi per mancanza di spazio — Nella mia vita da marino — ne ho già veduto dei bastimenti molto carichi — Mai però, come in detta circostanza — Essendo la maggior parte dei nostri militi — nuovi arrivati — non contati ancora nelle compagnie — quindi non conosciuti dagli ufficiali — essi si affollarono talmente a bordo di quei poveri piroscafi sommergendoli — Inutile era pregarli di sbarcare — nemmeno per sogno — e si correva a pericolo sommo — forse alla morte — Io rimasi per un pezzo in dubbio —: se si doveva partire in tal modo — Che perplessità, che responsabilità era la mia! Dalla risoluzione d'un momento, dipendeva chi sa chè — per il mio paese — Come dar ordini? Mentre ognuno che si trovava sui piroscafi, era impossibilitato di moversi dal suo posto, ed anche di girarsi — Già la notte cadeva colle sue tenebre — bisognava decidersi — a metter in moto — o rimanere lì — serrati come sardelle — in una posizione intenibile — aspettando il giorno ad illuminar un fiasco — Si mise in moto — e la fortuna, anche questa volta parteggiò per il diritto e la giustizia — Il vento ed il mare furon proporzionati alla situazione dei veïcoli — V'era come nella prima traversata del 60 — un po' di vento al Faro — e fortunatamente poco mare — Verso l'alba, dopo d'aver felicemente traversato lo stretto — approdammo nella spiaggia di Melitto, ove si sbarcò tutta la gente — Come nel 60, si prese la strada del littorale verso il capo dell'Arma — con direzione a Reggio — Allora avevamo per avversari i borbonici — che si cercavano per combatterli — Oggi stava davanti a noi l'esercito Italiano, che si voleva evitare a qualunque costo — ma che pure a qualunque costo ci cercava per annientarci — Le prime ostilità contro di noi, furono commesse, da una corazzata Italiana — che costeggiando il littorale parallellamente alla direzione nostra, ci regalò d'alcuni tiri di moschetteria, obligandoci ad internar la gente per metterla al coperto — Alcuni distaccamenti inviati da Reggio — con ordini ostili — assalirono alcuni dei nostri che marciavano di vanguardia; invano si fece sapere loro, che non si voleva combattere — invano — la loro intimazione era di arrenderci — e non volendolo com'era naturale — conveniva fuggire alle loro scariche fratricide — A tale stato di cose — e per scansare un'inutile spargimento di sangue — io ordinai di obliquare a destra, e prendere la via dell'Aspromonte — Le ostilità dell'esercito Italiano contro di noi — ebbero la naturale conseguenza di spaventare le popolazioni — e renderci gli approvigionamenti molto difficili — I miei poveri volontari mancavano d'ogni cosa, anche del più necessario: l'alimento — e quando si poteva, per miracolo, incontrar qualche pastore — con gregge — questi non voleva con noi trattare — peggio che se fossimo stati briganti — Infine, noi erimo tenuti per scomunicati, e fuori legge — i preti, ed i retrogradi — avendo poca difficoltà, a persuaderne, quelle buone ma rozze popolazioni — Noi erimo però la stessa gente del 60 — e la nostra meta era tanto nobile, quanto quella di prima — Eravam certo meno favoriti dalla fortuna — e non fu la prima volta — ch'io vidi le popolazioni Italiane inerte — ed indifferenti per chi le voleva redente — Non così la Sicilia — io devo confessarlo — e quel popolo generoso — fu fervido nel 62 come avanti — Egli ci diede i migliori della sua gioventù — e fra i provetti, il venerando barone Avizzani, di Castrogiovanni, che sopportò come un giovinotto le grandi privazioni e disagi della campagna — E furon molti i disagi e le privazioni! — Io, vi ho sofferto la fame — e mi figuro: molti dei miei compagni, più di me la soffersero — Infine dopo marcie disastrose, per sentieri quasi impraticabili — l'alba del 29 Agosto 1862 — ci trovò sull'altipiano di Aspromonte, stanchi ed affamati — Alcune patate mal mature, furono raccolte, e servirono d'alimento — prima crude — passato poi il primo orgasmo della fame — se ne mangiarono arrostite. E qui devo far giustizia alle buone popolazioni montane di quella parte della Calabria — Esse non comparirono subito, per i disagiati sentieri, e le difficoltà di comunicazioni — ma nel pomeriggio, comparvero cotesti generosi abitanti — con abbondanti provviste — di frutta pane ed altro — L'imminente catastrofe però ci diede poco tempo per profitare di tanta benevolenza — A Ponente, alla distanza d'alcune miglia — si cominciò a scoprire, verso le 3 p. m. la testa della collonna Pallavicini, destinata ad attaccarci — Ed io, considerando la posizione piana, ove avevamo riposato nella giornata — troppo debole, ed esposta ad esser accerchiata — ordinai un cambiamento di campo verso la montagna — e si giunse al limitare della bellissima foresta di pini, che corona l'Aspromonte — ove accampammo, colle spalle alla stessa, e la fronte verso i nostri assalitori — E veramente: nel 60 fummo minacciati d'esser attaccati dall'esercito sardo — e vi volle molto amore del proprio paese — per non entrare in una guerra fraticida — Nel 62 però, l'esercito Italiano, perchè più forte, e noi più deboli assai — ci votò all'esterminio — ed alacremente corse su di noi — come su briganti — e forse più volontieri. Intimazioni, non ve ne furono di sorta — Giunsero i nostri avversari — e ci caricarono, con una disinvoltura sorprendente — Tali, certamente erano gli ordini: si trattava d'esterminio — e siccome tra figli della stessa madre — potevasi temare titubanza — cotesti ordini, furono senza dubbio, di non dar tempo nemmeno alla riflessione — Giunto a lungo tiro di fucile, il corpo Pallavicini formò le sue catene — avanzò risolutamente su di noi, e cominciò il solito «fuoco avanzando» sistema adottatto anche dai borbonici, e che ho già descritto difettoso — Noi, non rispondemmo — Terribile fu per me quel momento! Gettatto nell'alternativa di deporre le armi come pecore — o di bruttarmi di sangue fraterno! Tale scrupolo, non ebbero certamente i soldati della monarchia — o dirò meglio: i capi che comandavano quei soldati — ¿Che contassero sul mio orrore per la guerra civile? Anche ciò è probabile — e realmente, essi marciavano su di noi con una fiducia che lo facea supporre — Io ordinai: non si facesse fuoco — e tale ordine fu ubbidito — meno da poca gioventù bollente — alla nostra destra, agli ordini di Menotti — che vedendosi caricati un po sfacciatamente, caricarono, e respinsero — La posizione nostra nell'alto — colle spalle alla selva — era di quelle da poter, tenere dieci contro cento — Ma che serve, non difendendosi, era certo che gli assalitori dovevano presto ragiungerci — E siccome succede quasi sempre: esser fiero chi assale, in ragion diretta della poca resistenza dell'avverso — i bersaglieri che chi marciavano sopra, spesseggiavano maledettamente i loro tiri, ed io che mi trovavo tra le due linee, per risparmiare la strage — fui regalato con due palle di carabina — l'una all'anca sinistra — e l'altra al maleolo interno del piede destro — Anche Menotti fu ferito nello stesso tempo — Coll'ordine di non sparare — quasi tutta la gente nostra ritirossi nella foresta — rimanendo presso di me tutti i miei prodi ufficiali — fra cui i tre egregi chirurghi nostri — Ripari, Basile, ed Albanese — alla cura gentile dei quali, io devo certamente la vita — Mi repugna, raccontar miserie! — Ma tante furono, manifestate in quella circostanza — dai miei contemporanei — da nauseare anche i frequentatori di cloache! — Vi fu: chi si fregò le mani, al fausto per lui anunzio, delle mie ferite — che si credettero mortali — Vi fu: chi sconfessò l'amicizia mia — e vi fu: chi disse, essersi ingannato cantando qualche merito mio — Però in onore dell'umana famiglia — devo confessare che anche i buoni, vi furono che ebbero per me cura di madre — che mi custodirono con cure veramente amorevoli — filiali! — E fra i primi, io devo rammentare il mio caro Cencio — Cattabene — tolto prematuramente all'Italia — La monarchia Sabauda — avea ottenuto la gran preda — ed ottenuta come la volea — cioè: in uno stato — che il diavolo probabilmente — se la porterebbe via — Si usarono veramente quelle civiltà banali — comuni, che si costumano anche per i grandi delinquenti, quando si conducono al patibolo — ma, per esempio — invece di lasciarmi in un ospedale di Reggio o di Messina — fui imbarcato a bordo d'una fregata — e condotto al Varignano — facendomi così transitare tutto il Tirreno — con immenso tormento alla mia ferita del piede destro — Giacchè — se non delle più mortali — essa era certamente delle più dolorose — Ma la preda si voleva vicina, ed al sicuro — Ripeto: mi ripugna di narrar miserie — e mi fastidia di tediare chi ha la pazienza di leggermi — con ferite, ospedali, prigioni, e carezze di reggi avvoltoj — Fui dunque condotto al Varignano — alla Spezia, Pisa e quindi a Caprera — Molti furono i patimenti — e le cure gentili degli amici miei — molte — Al decano dei chirurghi Italiani — all'illustre professore Zanetti — toccò l'onore di operar l'estrazione della palla — Finalmente dopo tredici mesi — cicatrizzò la mia ferita del piede destro — e sino al 66 — condussi vita inerte ed inutile — 4º periodo 1866. CAPITOLO II. Campagna del Tirolo. Circa quattr'anni, eran passati dal giorno in cui fu fucilato in Aspromonte — Io dimentico presto le ingiurie — e così credettero gli opportunisti — Coloro, per cui, più l'utilità, che la moralità dei mezzi, serve di bussola — Già da giorni si vociferava d'alleanza colla Prussia contro l'Austria — ed il 10 Giugno 1866 — giungeva in Caprera — il mio amico Generale Fabrizi — ad invitarmi per parte del governo, e dei nostri a prendere il comando dei volontari, che numerosi si riunivano in ogni parte d'Italia — Lo stesso giorno si partì con un piroscafo per il continente — e si marciò subito verso Como, ove doveva aver luogo la maggiore concentrazione di volontari — I volontari eran veramente molti — la solita bella e focosa gioventù — sempre pronta a combattere per l'Italia — senza chieder mercede — Con essa, brillavano per condurla — i coraggiosi veterani di cento pugne — Comunque: non cannoni — i volontari ponno perderli — catenacci al solito, e non buone carabine di cui già era fornito l'esercito — Parcimonia miserabile nel vestiario ecc. — per cui molti militi andarono al nemico vestiti da borghesi — Infine le solite miserie, a cui hanno assuefatto i nostri volontari — le cariatidi della monarchia — Gli auspici sotto i quali, s'iniziava la campagna del 66 — promettevano all'Italia un risultato brillante — e quel risultato fu meschino — vergognoso! Il pessimo sistema, con cui si governa questo paese — ove il denaro publico, serve a corrompere quella parte della nazione — che dovrebbe essere incorruttibile — cioè gli uomini del parlamento, i militari, e gli impiegati d'ogni specie — tutta gente, sventuratamente, che con poca fatica si fa inginocchiare ai piedi del Dio Ventre — La corruzione portata da Buonaparte, o moltiplicata in Francia, colla distribuzione del salame e del vino alle truppe, da cui egli voleva il 2 Decembre, si estese massime in questo nostro povero paese, che è condannato a scimiottare sempre i nostri vicini — Corruzione, certo non ne mancava in Italia — ed i corrutori vi si trovavano abili come dovunque; ma coi successi dell'impero — col suo avvenimento fatale — Impero menzogna — sin dal suo nascere — poichè esso nacque coll'epigrafe della pace — e fu un continuo fomite di guerra — senza la quale sapeva di non poter vivere — In tutte le epoche rivolgendo i suoi sforzi, ad abbattere la libertà, dovunque, e dovunque sostituirvi il despotismo — Con tale corrutore, per modelo, dico: la società Italiana più intimamente si pervertiva, e contaminava l'esercito nostro, chiamato ad esser uno dei migliori del mondo — Si complettava il quadro di corruzione coll'elemento contadino, il più numeroso del nostro esercito, ed il più forte — che il prete mantiene nell'ignoranza — e nell'odio della causa nazionale, percui in Italia, come in Francia, si son vedute le famose sbandate di Novara e di Custosa — Per un momento noi fummo sottratti all'ignominioso protettorato del Buonaparte — e non sapendo far da noi, mai, gettatti in altra alleanza, meno antipatica almeno — quella della Prussia — che certo ci valse molto al dissopra dei meriti nostri — Comunque fosse: la campagna del 66 — si apriva con un'orizzonte brillante — La nazione, benchè esausta da un governo predone, si mostrava ricca d'entusiasmo e di sacrifizi — La flotta numerosa, doveva misurarsi con un nemico inferiore — e che si teneva per vinto — e per la prima volta, il nostro esercito, quasi doppio dell'Austriaco in Italia — vedeva sotto i suoi vessilli i figli tutti della penisola dal Lilibeo a Cenisio — vogliosi, e gareggianti di combattere il secolare nemico — e che sola la boriosa ignoranza, ed incapacità di chi lo guidava, poteva condurre a Custosa — I volontari che potevano ammontare a cento milla con un mediocre governo, per la solita paura, furono limitati circa a un terzo di quel numero — e al solito trattatti in armamento vestiario ecc. — E quando la catastrofe di Custosa ebbe luogo — poche migliaia trovavansi a Salò, Lonato e Lago di Garda — mentre i loro reggimenti di coda, erano ancora nell'Italia meridionale aspettando scarpe, armi, ecc. — Tutto prometteva una campagna brillante — nonostante tanti ostacoli — e che doveva annoverare la nostra nazione tra le prime dell'Europa — ringiovinire questa vecchia matrona e ricondurla ai tempi primitivi della vita Romana — Ma non fu così: condotta dal gesuitismo, in vesta marziale, essa fu trascinata in una cloaca d'umiliazioni! Il governo spinto dall'opinione publica — ma sempre nemico dei volontari — di cui diffida e teme — perchè rappresentanti dei diritti, e della libertà dell'Italia — ne arma alquanti, ma il loro armamento, organizzazione e bisogni — si rissentono dell'antipatia e della malevolenza con cui furono accolti — E così stesso essi sono spinti alla frontiera, ove tra due giorni deve ruggire la battaglia! La precipitazione, con cui furono accelerate le mosse dell'esercito — e gli eventi sfortunati che seguirono subito — favorirono la concentrazione dei volontari — Giacchè — solite gesuitiche corbellerie — era intenzione nell'alte sfere — per non metter tanti volontari insieme — di dividerli in due e lasciarne la metà nell'Italia meridionale con certi pretesti divolgati per mascherar la magagna — ma ch'eran soli pretesti — Qui, io devo fare giustizia al re: sino dai primi momenti, in cui mi comunicava la sua intenzione di propormi al comando dei volontari, per via del dottore Albanese — egli mi partecipava l'idea di gettarci sulle coste Dalmate per cui mi sarei inteso coll'ammiraglio Persano — e si disse che tale determinazione, fu assolutamente combattutta dai suoi generali, e in particolare dal generale Lamarmora — La risoluzione di spingerci verso l'Adriatico, mi piacque talmente ch'io ne feci fare a Vittorio Emanuele, i miei complimenti per il concetto proficuo e grandioso — Era veramente troppo bello il concetto, perchè potesse capere in certi cervelli del consiglio Aulico Italiano — ed io presto potei pesuadermi — che il trattenere cinque reggimenti di volontari ad ostro — altro non era che diffidenza — volendoli togliere dai miei ordini — e fare circa: ciò che s'era fatto nel 59 col reggimento degli Apennini — Ebbi dunque per campo d'azione, le sponde del lago di Garda — contrariamente alle prime proposte fattami: ove si diceva di lasciarmi la scelta delle operazioni — Che magnifico orizzonte si presentava all'oriente per noi — Sulle coste Dalmate con trenta milla uomini — v'era proprio da sconvolgere la monarchia Austriaca — quanti elementi simpatici ed amici — trovavamo noi in quella parte dell'Europa Orientale, dalla Grecia all'Ungaria! Tutte popolazioni bellicose, nemiche dell'Austria e della Turchia — e che poca spinta abbisognano per sollevarle contro i loro dominatori — Noi avressimo occupato certamente il nemico, da obligarlo ad inviare un potente esercito contro di noi — diminuire le sue armate dell'occidente e del Settentrione — e se no internarci nel cuore dell'Austria — e gettare il tizzone del risorgimento alle dieci nazionalità — che compongono, quel corpo eterogeneo e mostruoso — Dovendo operare sul lago di Garda, io chiesi di porre sotto il mio comando la flottiglia esistente a Salò, ciocchè facilmente ottenni — Ma, se si osserva il misero stato, in cui si trovava quella flottiglia — si vedrà facilmente, com'essa riuscì di mero imbarazzo — e di non poco fastidio per salvarla dalla flottiglia nemica più numerosa, e molto meglio organizzata. I volontari dovettero fornire la maggiore parte della gente — massime di marini — per equipaggiar la flottiglia, e guarnir il littorale per proteggerla, massime dopo l'infausta giornata di Custoza — e la ritirata dell'esercito nostro — Un reggimento intero dovette rimanere a Salò col solo intento di dare il servizio di vigilanza in quel porto, ed in tutta la costa contigua — e forti che si eressero man mano, per proteggerlo — Il generale Avezzana, con un numero adeguato di ufficiali — compresovi un forte distaccamento di volontari marini, venuti da Ancona, Livorno e da altri porti di mare — dovettero pure rimanere in Salò allo stesso oggetto — La flottiglia Austriaca contava sul lago di Garda otto piroscafi da guerra, armati di 48 cannoni — con equipaggi proporzionati — e forniti d'ogni bisogno — La flottiglia Italiana — al mio arrivo in Salò — non aveva pronta che una sola cannoniera da un cannone — le altre cinque, come la prima, a vapore e collo stesso armamento — una era in terra — inutile — e le altre quattro colle macchine non in ordine — È vero: che si lavorò subito, a metter in istato di muoversi le quattro galleggianti — ma appena verso la fine della guerra, si ebbero in pronto cinque cannoniere, con un cannone da 24 ciascuna, cioè cinque cannoni da 24 — mentre il nemico contava 48 cannoni del calibro da 80 in giù. Si lavorò pure alla costruzione ed armamento di zattere — che avrebbero potuto essere di non poca utilità — ma la mancanza del necessario — e la lentezza del lavoro — fecero sì: che non si pervenne mai, a poterne avere una sola, pronta da trascinarsi sul lago — 4º periodo 1866. CAPITOLO III. Battaglie, combattimenti. Chiamati sulla sponda occidentale del lago di Garda, tutt'i reggimenti nostri — ed avendo l'ordine di operare nel Tirolo — io spinsi il 2º reggimento ed il 2º bersaglieri verso il Caffaro, per impadronirsi di quel ponte e della forte posizione di Monte Suello — ciò che fu eseguito con celerità e bravura — cacciandone gli Austriaci in un combattimento glorioso — L'iniziativa della nostra campagna, cominciava bene, e col resto dei reggimenti disponibili, io mi accingevo a seguir da vicino nel Tirolo, quella prode nostra vanguardia — quando accade la fatale battaglia del 24 Giugno — Comunicatomi dal generale Lamarmora, l'esito infelice di quella giornata — coll'ordine di coprire Brescia — e di non contare sull'apogio dell'esercito nostro che si ritirava dietro l'Oglio — io richiamai dal Tirolo la vanguardia — e pensai subito ad un concentramento, di quante forze potevo riunire, su Lonato — Punto che soddisfava il triplice obbietivo di coprire Brescia, Salò, e che poteva giovare a raccogliere alcuni dispersi e materiali dell'esercito — Ciòcche ebbe luogo realmente — I nostri prodi volontari, ricchi solo di patriotismo e di entusiasmo — all'ordine mio venivano avanti a marcie forzate — verso Lonato — ma armati di fucilacci, e privi de' principali oggetti di corredo — che si provvedevano marciando — era difficile, potessero arrivare presto — massime i reggimenti del mezzogiorno — Nei giorni che seguirono lo sventurato 24 — noi occupammo Lonato e Desenzano, con posti avanzati a Rivertella — prima con uno, poi con vari reggimenti, che prendevano il loro posto di battaglia, mentre arrivavano — Essendo da suppore con probabilità: che gli Austriaci non resterebbero inerti, dopo la ritirata dell'esercito nostro — I Reggimenti dell'Italia meridionale, nonostante, ad onta di ogni sforzo per venire avanti — non sarebbero stati a tempo per coadiuvarci — se il nemico, profitando de' suoi vantaggi — si fosse spinto su di noi — E mi pare, che verso il 26 — giorno probabile dell'apparizione del nemico — noi non avressimo potuto opporre — al dissopra di otto milla uomini — con una batteria di montagna — ed un pezzo da 24 della flottiglia — collocato sull'altura di Lonato — Da tutto ciò si deduce: che la risoluzione di tener Lonato contro l'esercito nemico vittorioso — se fosse marciato avanti — era un pò arrischiata nondimeno essa fu ben proficua — I volontari Italiani, ne ponno andare superbi — ed i giovani ponno ritrarne l'ammaestramento: che prima di ritirarsi davanti a un nemico — per forte che sia — conviene almeno vederlo, assaggiarlo — e calcolare freddamente il danno, e la vergogna che può risultare da una ritirata precipitosa — Tenendo Lonato, Desenzano — e gli avamposti nostri a Rivoltella — e sulla destra della nostra fronte sino a Pozzolengo — noi coprimmo veramente Brescia — come ci veniva ordinato — Salò col suo arsenale, depositi e flottiglia — e potemmo con grande soddisfazione raccogliere dispersi dell'esercito e convogli dello stesso — A me rincresce di calpestare i caduti — e non vorrei che si considerasse il mio dire, sulla direzione dell'esercito — come una rapresaglia per i molti torti ricevuti, da chi allora dirigeva — Ma bisogna pur confessare — che aspettando tutti dei risultati brillanti — da un brillante esercito, il doppio in numero del nemico — con mezzi immensi — la prima artiglieria del mondo — molto entusiasmo nella truppa — e molta bravura — e trovarsi in un momento delusi — con quel bell'esercito in confusione — ritirandosi senza essere perseguito dal nemico — dietro un fiume alla distanza di trenta miglia — e lasciando scoperta la quasi intiera Lombardia — bisogna confessare — lo ripeto: che fu un terribile colpo per tutti — L'esercito principale, si ritirava dal Mincio all'Oglio — e si ritirava dopo d'essersi battutto — E l'esercito di destra — cioè del Po — perchè si ritirava? Con novanta milla nomini — ed un fiume come il Po davanti al naso — quell'esercito si ritirava — inseguito da chi? Il nemico avea ottanta milla uomini sul Mincio — e benchè vittorioso — dopo una battaglia con un'esercito superiore — quegli ottanta milla uomini dovevano esser almeno menomati e stanchi. ¿E perchè ritirarsi dal Po, sino all'Apennino? Io non me ne posso dar ragione — Non conosco il generale Austriaco che comandava i nostri nemici nel 1866 — comunque — egli dev'esser un generale di genio — avendo vinto un'esercito più numeroso del doppio — e composto di militi, che certamente valevano i suoi — Le vittorie dei Prussiani al settentrione — influirono certamente a fermarlo — Egli però con un poco più di risoluzione — poteva schiacciare i miei ottomilla uomini senza artiglieria — e venirsene a villeggiare nel cuore della Lombardia e del Piemonte — con molta probabilità di ottenere una pace a condizioni per lui favorevoli — Tra i volontari però non vi fu confusione — non timore — non sconcerto — Tutti afflisse cotesta sciagura nazionale — ma a nessuno nacque un senso di diffidenza, sui destini del paese — e lo stesso entusiasmo con cui quella brava gioventù, avea lasciato i suoi focolari, durava — anzi cresceva per la delicata, e temeraria posizione nostra — Guerra! combattere! chiedevan tutti — E se avessero avuto, almeno, un mese d'organizzazione — di scuola da campo — ed armati dovutamente essi avrebbero operati miracoli — Meditando pacatamente sulle cause del rovescio del nostro esercito — e lasciando da parte l'incapacità di certi comandi e la poca affezione dell'elemento contadino alla causa nazionale — coll'imparzialità della storia — si può arditamente stabilire: esser difettoso il piano di campagna adottatto sino dal principio — È sempre: voler battere il nemico tutto — colla metà sola del nostr'esercito — Mentre il generale Austriaco batte la metà del nostro esercito coll'intiero suo — sistema che generalmente da la vittoria a chi l'adotta — e di cui vi sono tanti esempi nella storia delle battaglie — L'esercito Italiano dividevasi in due: il primo di cento venti milla uomini sul Mincio — ed il secondo di novanta milla sul Po — Ambi come si vede, superiori all'esercito nemico — che contava circa ottanta milla uomini fuori delle sue fortezze — Minacciare su vari punti, con divisioni, o al più con corpi d'esercito — poi con una massa di circa cento ottanta milla uomini dar il colpo decisivo al forte dell'esercito nemico — questo sembrami il primo errore commesso dal nostro generale in capo — Le foci del Po — io credo fosse il punto più adeguato per il passaggio del nostro grande esercito — ove si potevano avere quanti se ne volevano — piroscafi e barche per facilitarlo — E padroni poi delle due sponde del gran fiume — potevasi subito dopo passare il resto delle forze nostre e tutto il materiale in poco tempo — Accorrendo il nemico per combatterci — egli non avrebbe avuto almeno il sostegno del terribile quadrilatero. Il generale Austriaco profitando degli errori nostri — concentrava saviamente, quante forze aveva disponibili nei dintorni di Verona — e cadeva sull'esercito nostro del Mincio dimezzato — che prima iniziava l'offensiva — Napoleone il 1º non eran molti anni, che avea manovrato in modo simile — ed avea battutto lasciando l'assedio di Mantova — le due metà dell'esercito Austriaco l'una dopo l'altra — su ambe le sponde del Garda — Esse avevano commesso l'errore di dividersi per attaccarlo — mettendo il grande lago tra esse — e il gran capitano le prevenne e le distrusse — Dopo la grande battaglia di Custosa, noi tenemmo le posizioni di Lonato e Desenzano — sinchè un ordine dal comando supremo — ci ordinava di ripigliare le operazioni nel Tirolo — essendo l'esercito nuovamente in istato da tornare all'offensiva — Lasciando il 2º Reggimento a coprire Salò — la flottiglia, ed i punti più importanti del lago sino a Gargnano — Il tutto agli ordini del generale Avezzana — ed avendo ultimato le batterie di difesa della costa occidentale — noi ripigliammo la via del Caffaro col 1º, 3º reggimenti — e 1º battaglione bersaglieri — Il nemico intanto dopo il nostro abbandono del Caffaro — e gonfio della vittoria di Custosa — avanzò guarnito fortemente cotesto punto, e Monte Suello — io decisi con un colpo di mano di cacciarnelo, per aprire la via del Tirolo — Partito il 3 luglio da Salò — all'alba — io giunsi a Rocca d'Anfo verso il meriggio — e trovai il colonnello Corte, allora al comando della vanguardia, composta dei tre corpi suddetti — che aveva già preso le sue disposizioni, per sloggiare il nemico dalla nostra frontiera — Egli aveva spedito il maggiore Mosto, verso Bagolino, con 500 uomini, per la via montana — e per le valli a ponente di Rocca d'Anfo — coll'oggetto di operare una diversione sulla destra, ed alle spalle del nemico — Scoprendo da Rocca d'Anfo, un'avamposto Austriaco, a S. Antonio — circa ad un tiro di cannone dalla fortezza, si cercò pure di girarlo, inviando un distaccamento del 1º bersaglieri, agli ordini del Cap.o Bezzi, per la montagna — Nessuno dei due distaccamenti diversivi, riuscì nell'impresa, per la difficoltà delle strade, e per la pioggia dirotta — Io forse, contai troppo sullo slancio dei prodi volontari — ed avrei dovuto differire l'attacco all'altro giorno, essendo i militi stanchi e fradici dalla pioggia — colle loro armi, e munizioni in deplorevole stato — Ma contando sull'effetto di un brusco inaspetato attacco — e sopratutto sull'entusiasmo d'uomini, che aveva veduto superare ostacoli ben maggiori — mi decisi alla pugna — Verso le 3 p. m. essendo giunto il Capitano Bezzi, per la montagna di sinistra, al punto convenuto, fece un segnale — ed io ordinai alla collonna d'attacco — rimasta sin'allora coperta dalla fortezza — di marciare avanti a passo celere — e di assaltare il nemico — Il colonnello Corte, marciava alla testa della collonna, coi suoi aiutanti, e disponeva — con quel sangue freddo che lo distingue — l'attacco in buon ordine — e collo slancio degno dei volontari Italiani — Per un pezzo, tutto andava bene, ed il nemico ripiegava davanti alla bravura dei nostri — ma rinforzato dalle riserve, che coronavano le alture di Monte Suello — ed i nostri militi trovando sempre posizioni più formidabili — essi furono alla fine fermati nel loro slancio, ed un numero grande di feriti, venendo indietro per lo stradale, sostenuti dai loro compagni, alcuna confusione comunicarono nella collonna — Perdemmo uno dei nostri migliori ufficiali — in quell'affare — il Capitano Bottino — e tanti altri prodi militi — Il numero de' feriti nostri, fu certo molto maggiore di quello dei nemici — Solito apannaggio conferito ai volontari Italiani dal solito consiglio Aulico — dovendo loro combattere sempre con catenacci — contro armi superiori — E quì trattavasi di carabine Tirolesi, essendo i nostri nemici tutti di quei montanari. Fuga non vi fu veramente — il timore non invase i nostri giovani militi — ma erano affranti dalla fatica delle marcie anteriori alla pugna, e dall'assalto in posizioni così difficili — La maggiore parte — e massime il 3º reggimento — sprovvisto di giberne, non avevano un solo cartuccio asciutto — Dei fucili pessimi che non facevano fuoco, o se lo facevano, non arrivavano il nemico — che armato di superbe carabine ci fulminava. Infine la giornata restò indecisa, e si rimase nelle posizioni occupate sotto Monte Suello — Ferito alla coscia sinistra, io fui obligato di ritirarmi — lasciando il comando al colonnello Corte, che si sostenne bravamente, tutto il resto della giornata nelle posizioni acquistate — Il colonnello Bruzzesi del 3º lo coadiuvò valorosamente — All'alba del 4, essendosi ritirato il nemico da Monte Suello, noi l'occupammo col battaglione Cairoli del 9º reggimento — al quale — avendolo trovato sulla strada verso Barghe — avevo ordinato di marciare avanti nel giorno antecedente. Nello stesso giorno, si occupò Bagolino ed il Caffaro — Il resto dei corpi volontari, ancora sprovvisti del necessario — venivano avanti, ma lentamente — verso il Tirolo — per essere obligati di provvedersi cammin facendo — Lodrone e Darzo, furono occupati con poca resistenza, e finalmente si occupò ponte Dazio, e Storo, ove si stabilì il mio quartier generale — Storo piccolo villaggio al confluente delle due valli Giudicaria e d'Ampola — era per noi importante — ma per esserlo veramente: si dovevano occupare le alture che lo dominano — massime Rocca Pagana — altissimo pico che lo minaccia quasi verticalmente — Dovendo penetrare nella Giudicaria poi, conveniva, indispensabilmente, impadronirsi prima del forte d'Ampola, che padroneggia la valle dello stesso nome, e che mette nella val di Ledro, da dove il nemico poteva sboccare, e tagliarci, — impadronendosi di Storo e ponte Dazio — dalla nostra base d'operazione, Brescia — Avendo coperto la nostra sinistra, coll'occupazione di Condino, e le alture di ponente tutta la nostra cura, fu rivolta nel dominare e circuire il forte d'Ampola — In quei giorni ci giunse la famosa 18ª brigata comandata dal maggiore Dogliotti — con 18 magnifici pezzi da 12 — Con tale brillante artiglieria, io ho potuto formarmi una idea esatta — di ciò che vale la nostra artiglieria Italiana — ch'io stimo con orgoglio, non seconda a nessuna nel mondo — Il 16 luglio, il nemico tentò di cacciarci da Condino — I nostri contrariamente agli ordini miei, si erano spinti da Condino sino a Cimego — ed occuparono il ponte, ivi esistente sul Chiese — senza provvedere di guarnir le alture — indispensabili in quel paese scoscese — per proteggere la forza che si trova nella valle — Il nemico con forze superiori delle tre armi — respinse i nostri da Cimego — e senza alcuni pezzi della nostra eccellente artiglieria — giunta in quei giorni — la giornata poteva costarci molto. Fortunatamente le perdite non furono grandi e quivi come sempre, l'inferiorità dei nostri fucili fu causa delle perdite nostre — maggiori di quelle del nemico — Il maggiore Lombardi, uno dei prodi, di tutte le pugne Italiane, e dei migliori ufficiali nostri, morì in quel giorno sul campo — Lo stesso giorno tornando da Condino a Storo in carozza — un'imboscata nemica su Rocca Pagana — ci fulminò per un pezzo — ma senza ferimenti. In tale giorno a Condino, si distinse molto il collonnello Guastalla — I prodi generali Haug, e maggiore Dogliotti incaricati dell'assedio del forte d'Ampola — lo condussero presto a buon segno — I volontari arrampicati sulle scoscesissime montagne, che lo dominano, ridussero gli assediati a non potere mostrare la faccia all'aperto in nessuna parte, e lo circuirono complettamente — I pezzi portati a spalla dai volontari ed artiglieri — o tirati con corde fra i dirupi sulle alture, fecero ben presto un mucchio di macerie — non delle casamatte, di grande solidità, ma di tutti gli edifizi attigui a quelle — Molte granate tirate dai bravi artiglieri nostri penetrarono per le canoniere e fecero stragi — Un pezzo nostro collocato sulla strada dal valoroso tenente Alasia — che vi perdè la vita — contribuì molto a sconcertare il nemico — Infine, dopo pochi giorni d'assedio, di canoneggiamento, e di fucilate — si arrese quel piccolo — ma per noi importantissimo forte — La guerra del Tirolo, come in tutti i paesi di montagne — non può essere condotta, senonchè col possesso delle alture — Invano si tenterebbe anche con forze formidabili, contro minori d'inseguire il nemico nelle valli — Questo coi suoi eccellenti tiratori sulle vette dei monti, e sui pendii — farebbe sempre una strage delle truppe, avanzando per le strade delle vallate — Perciò ad eccezione del monte Suello — ove, forse per impazienza — non ci attennemmo esattamente a tale massima — tutte le nostre operazioni in avanti, furono sempre precedute dall'occupazione dei monti circostanti — e quantunque i cacciatori Tirolesi, sieno pratici di quel genere di guerra — armati di eccellenti carabine — che maneggiano con una maestria stupenda — e che sono anche soldati valorosi — se si arriva a dominarli dalle creste — essi cedono — e la tenacità nostra nel procedere avanti — fu sempre coronata dal successo, ad onta di perdite ben considerevoli — Successo dovuto all'occupazione delle alture particolarmente — «Fare l'aquila» era quindi il motto prevalso tra i volontari — a cui si raccomandava particolarmente — «Fare l'aquila» cioè impadronirsi delle alture — pria di qualunque marcia avanti per le vallate — Tale massima deve osservarsi anche nelle ritirate — ove il terreno e le circostanze lo permettano — La resa del forte d'Ampola, e l'occupazione della catena di monti che stendonsi da Rocca Pagana, sino alle sommità del Burelli, Giovio, Cadrè, ecc. — dominando le due valli di Ledro, e Giudicaria — ci apersero facile la via in val di Ledro — e potemmo stendere la testa della nostra collonna di destra, sino a Tiarno e Bezzeca — Il nostro movimento per la destra, in val di Ledro — era tanto più importante — poichè si doveva da quella parte, proteggere la giunzione del 2º reggimento, ingolfato per il Monte Nota, verso Pieve Molina, ed il lago di Garda — contrariamente ai miei ordini che lo chiamavano per la val Lorina su Ampola — a coadjuvarvi l'assedio — Quel reggimento si era disordinatamente portato troppo a destra — ed esposto ad esser distrutto dal nemico — ad onta, che le sue singole compagnie, si erano valorosamente battutte contro nemici superiori — Io dissi anteriormente: aver lasciato il 2º reggimento a Salò, in protezione della flottiglia arsenale e forti — Lo stesso era stato cambiato dal 10º reggimento — ed ebbe ordine di marciare per val Vestina sulla destra nostra, salir quella giogaja, e discendere per val Lorina su Ampola — Molti furono i disagi e fatiche sofferti in quella marcia dal 2º e non pochi gli errori commessi — E se la resa d'Ampola avesse tardato un giorno solo — o noi ritardato l'occupazione di Bezzeca — certo, quel reggimento era perduto, come si vedrà da quanto segue — Premendomi l'occupazione di val di Ledro — massime per assicurare la giunzione del 2º reggimento — io avevo ordinato al generale Haug, di lasciare al maggiore Dogliotti, la cura dell'assedio d'Ampola — e di portarsi nella valle suddetta, con quanta forza poteva prelevare dall'assedio. Era impresa ardua — pria della resa del forte — e non potè eseguirsi — È vero: che la brigata Haug componendosi del 7º e del 2º — il primo quasi tutto occupato — ai lavori d'assedio — e del 2º essendovi poche compagnie su Ampola — era ben arduo eseguire l'ordine mio — Comunque io ero inquieto sulle sorte del 2º reggimento — e subito la resa effetuata — non perdei un momento a spingere sulla val di Ledro — il quinto reggimento — unico rimasto in riserva — le compagnie dei diversi reggimenti, che avean contribuito alla capitolazione d'Ampola — e due battaglioni del 9º reggimento — che occupava le alture di monte Giovio, ecc. — Il movimento per val di Ledro, fu fatto a tempo, poichè il nemico avendo riunito nella valle di Conzei, sei milla de' suoi migliori soldati — scendeva per quella valle su Bezzeca coll'intenzione di separare i distaccamenti del 2º reggimento da noi — e farli a pezzi — La valle di Conzei, scendendo da tramontana, giunge perpendicolarmente nella valle di Ledro, a Bezzeca — Il 20 — essendo la strada d'Ampola libera — dopo la reddizione del forte — la nostra testa di collonna di destra aveva occupato quel villagio — e nella notte fu mandato un battaglione del 5º reggimento — comandante Martinelli — in ricognizione sulle alture orientali — Cotesto battaglione — non so di chi la colpa — o per caso — trovossi, all'alba, avvilupato da forze nemiche considerevoli — e fu obligato di retrocedere con perdite considerevoli — Gli avanzi di detto battaglione, perseguiti dal nemico, si ripiegarono sulla collonna principale, che occupava Bezzeca, ed i villagi attigui a tramontana di quello — ed ivi s'impegnò un serio combattimento — 4º periodo. CAPITOLO IV. Combattimenti di Bezzeca — 21 luglio. Il nemico gonfio de' suoi primi successi — venne avanti, con un'intrepidezza, alla quale erimo poco assuefatti — e successivamente cacciò da tutta la valle di Conzei, i nostri — Invano si era collocato una batteria da 8, in avanti di Bezzeca, che lo fulminò per un pezzo — Invano i capi, e gli ufficiali nostri, alla testa dei volontari — pagando di persona, si precipitarono alla carica per arrestarlo — Invano! Sino a Bezzeca, tutte le posizioni nostre, furono guadagnate dal nemico — ed egli, non solo occupò quel villagio — ma si spinse avanti dallo stesso, e portò un distaccamento sulla destra nostra — ad Ostro della val di Ledro — ad attaccarci di fianco — Io ero partito all'alba da Storo in carozza — essendo fresca ancora la mia ferita del 3 Giugno — e dalle notizie avute — non mi aspettavo a trovar la mia gente impegnata in sì fiero combattimento — Avevo però — lasciando Storo — dato ordine di marciare avanti alla mia direzione — per le 3 p. m. al 7º reggimento — ed al 1º bersaglieri — Giunto nelle vicinanze di Bezzeca, il cannone e le fucilate — mi avvisarono della pugna impegnata — Feci chiamare il generale Haug per averne contesa — e dai raguagli, vidi che si trattava di un affare serio — Ambi convenimmo di far occupare le alture di Sinistra, coi battaglioni del 9º reggimento che cominciavano ad arrivare — E ben ci valsero, poichè la salvazione prima della giornata, furono quelle posizioni — occupate dai prodi di quel reggimento — e lo dico con vero orgoglio: capitanati da mio figlio Menotti — I due battaglioni del 9º eran comandati da Cossovich e Vigo Pelizzari — ambi dei Mille, e ben degni d'esserlo — Nel centro e sulla destra nostra, i volontari venivano indietro — e lo stesso la batteria suddetta, facendo fuoco in ritirata e comportandosi valorosamente — Un cannone di cotesta batteria, ebbe tutti i cavalli morti, e i serventi morti o feriti — meno uno — Questo prode, dopo d'aver mandato l'ultimo projetto al nemico, montò a cavallo del suo pezzo, con tanto sangue feddo — come se si fosse trovato su d'un campo di manovre — In quel mentre, il maggiore Dogliotti mi avvisò tenere indietro una batteria fresca — Avanti! io gridai; e quella brava gente — in pochi minuti — giungeva al galoppo — obliquava a destra, collocava i suoi sei pezzi, sopra un terreno, gentilmente elevato — e fulminava il nemico, con tiri tali, che più sembravano fuoco di moschetteria — anzichè di cannone — tale era la lor celerità — De' sei pezzi in ritirata se ne agiunsero tre alla batteria fresca — ciocchè formò un insieme di 9 bocche a fuoco formidabili — Tutti gli ufficiali del mio quartier generale, e quanti mi capitavano a portata della voce — ebbero da me incarico, di ragranellar gente, e spingerla avanti — Canzio, Ricciotti, Cariolatti, Damiani, Ravini, ed altri, si precipitarono alla testa di un nucleo di valorosi — e coadiuvati dall'intrepido 9º sulla sinistra — fugarono il nemico già scosso dal fulminar della nostra artiglieria — oltre Bezzeca ed i villagi attigui — Il nemico non resse più e si diede, ad una ritirata completta, abandonando tutte le posizioni acquistate, sino ben in su nella valle di Conzei, e per i monti da levante — Cotesto combattimento del 21 Agosto, il più serio e micidiale di tutta la campagna, ci costò un gran numero di morti e feriti. Tra i primi, cadeva l'eroico collonnello Chiassi, alla testa del suo reggimento — Furon feriti: i prodi maggiori Pessina, Tanara, Martinelli — i capitani Bezzi, Pastore, Antongina — e tanti altri dei migliori — Il nemico pure, ebbe tali perdite — che da quel giorno abbandonò ogni idea di difendere il Tirolo Italiano — e prese disposizioni di ritirata sul Tirolo Tedesco — Il 22, io passeggiai in carozza sino a Pieve di Ledro — ove trovai il collonnello Spinazzi, con parte del suo 2º Reggimento — Si osservi che Pieve, era a un tiro di carabina da Bezzeca — Chiesi a quel collonnello: da quanto tempo si trovava in quella posizione — e mi rispose da tre giorni — Io rimasi confuso, e dimandai: perchè non avea preso parte al combattimento del giorno antecedente — Mi disse: per mancanza di munizione — Lo lasciai — ed ordinai al generale Haug, che lo arrestasse, subito dopo aver riunito il suo reggimento — Nel contegno del collonnello Spinazzi — pare vi fossero sintomi di demenza — poichè la condotta antecedente di quel capo per quanto sapessi — non era stato da vigliaco — poi, per codardo che possa essere un'uomo, quell'uomo — con parte d'un reggimento, che avea valorosamente combattutto, colle sue singole compagnie — non poteva rimanersi indifferente, ad un chilometro di Bezzeca, ove la pugna durò dall'alba sino alle 2 p. m. — ove il cannone avea ruggito per 9 ore — ed ove erano accanitamente impegnati dodici milla uomini da una parte e dall'altra — Dal suo processo però, pare ch'egli non si trovasse il 21 a Pieve di Ledro — ma bensì sul monte Nota, che domina ad ostro quel paese — (ciocchè mi conferma nella mia opinione di demenza in quello sventurato ufficiale) che sul monte Nota riunì un consiglio de' suoi ufficiali, che decisero di marciare verso il campo di battaglia ove finalmente, per troppo lentezza, giunsero tardi — Il 2º reggimento con un capo attivo poteva compiere una parte ben gloriosa in quella giornata — Esso si trovava giustamente alle spalle del nemico, quando questo occupava Bezzeca — ed impadronendosi delle alture a levante — che dominano cotesto villagio — esso, complettava un trionfo che avrebbe costatto agli Austriaci, la lor artiglieria, e molti prigionieri — Basta portarsi sul luogo, per capacitarsi della verità della mia asserzione — Al contrario quel bel reggimento, per la salvezza del quale, si combatteva a Bezzeca, con tanto spargimento di sangue, rimaneva inoperoso, senza giovarci menomamente — Serva tale fatto, ad esempio dei giovani ufficiali — Ove il cannone rugge — e che si sa esservi i compagni impegnati — non v'è scusa che tenga — là si deve marciare — Vi mancano munizioni — ebbene — i feriti ed i cadaveri ponno provvedervele — Là si deve marciare, ripeto: almeno che non abbiate altra missione, od ordini contrari ben espressi — Io non narrerò i combattimenti parziali — eseguiti nei monti, e ve ne furono dei ben gloriosi, a cui certamente non ho potuto assistere — Dirò soltanto che nel 21, il nemico, per mascherare il serio movimento su Bezzeca, aveva accennato con una forza rispettabile, anche su Condino — ove il prode generale Fabrizi — capo di Stato Maggiore lo respinse colla brigate Nicotera e Corte — ed alcuni pezzi di artiglieria — Anche su Molina, verso il lago di Garda — vi furono due impegni col nemico — in varie circostanze, in cui alcune compagnie del 2º reggimento combatterono valorosamente — Dopo il 21 — non comparì più il nemico — ed avendo spinto il colonnello Missori, colle sue guide — in avanti di Condino in esplorazione — seppi esser disoccupata tutta la valle sino ai forti di Lardaro — Lo accennare, ed operare, verso la nostra sinistra — per la valle Giudicaria — come si fece — avea per oggetto la congiunzione della collonna Cadolini — che lasciando val Camonica, si dirigeva verso noi, per le valli di Fumo, e di Daone — Contemporaneamente ai combattimenti di Bezzeca e Condino — ne avveniva uno alla nostra sinistra — nei monti — ove il maggiore Erba — con distaccamento — credo del primo reggimento — si era sostenuto contro una forza superiore di nemici — Ciocchè prova — esser molto numerosi gli Austriaci che ci stavano di fronte — Sgombra di nemici, la valle Giudicaria — la giunzione con Cadolini fu facile — e riconosciuti i forti di Lardaro — io decisi un movimento per la destra su Riva ed Arco — e già si prendevano disposizioni, per rinforzare il generale Haug, incaricato di quell'ala, e di tale operazione — Ma l'ordine del 25 Agosto, di sospendere le ostilità, ci colpì al principiare di quella mossa — La campagna del 66 — è così impronta di eventi sciagurati — che non si dire: se si debba imprecare alla fatalità — o alla malevolenza di chi la dirigeva — Il fatto sta: che dopo d'aver faticato tanto, e sparso tanto sangue prezioso, per giungere a dominare le valli del Tirolo — al momento di raccogliere il frutto delle nostre fatiche — noi fummo arrestati, nella marcia nostra vittoriosa — Non si terrà tale asserzione per esagerata — quando si sappia: che il 25 Agosto — giorno in cui ci fu imposta la sospensione d'armi — non si trovavan più nemici sino a Trento — che Riva si abbandonava, gettando i cannoni della fortezza nel lago — che per due giorni, non si potè trovare il generale nemico — a cui si doveva partecipare la sospensione — che il 9º reggimento nostro, già scendeva dai monti, alle spalle dei forti di Lardaro, senza nessun ostacolo — naturalmente — giacchè tutta la guarnigione di quei forti, consisteva in meno di una compagnia — Infine, che il generale Khun comandante supremo delle forze Austriache nel Tirolo — in un'ordine del giorno, anunciava: che non potendo difendere il Tirolo Italiano si ripiegava alla difesa del Tirolo Tedesco — In quel giorno il generale Medici, dopo i suoi brillanti fatti d'armi nella val Sugana — trovavasi a pochi chilometri da Trento — Il generale Cosenz lo seguiva colla sua divisione — e certo in due giorni — noi potevamo effetuare la nostra giunzione sulla capitale del Tirolo con 50 milla uomini — Insuperbiti dai nostri vantaggi — ed ingrossati dalle numerose bande, che già si formavano nel Cadore, Friuli ecc. — cosa non avressimo potuto tentare! Invece, io sono qui ad insudiciar carta perchè i venturi sappino delle nostre miserie. Un'ordine del comando supremo dell'esercito — intimava la ritirata, e lo sgombro del Tirolo — Io rispondevo: «Ubbidisco» parola che servì poi alle solite querimonie della Mazzineria — che come sempre: voleva ch'io proclamassi la Repubblica — marciando su Viena, o su Firenze — In tutta la campagna del 66 — io fui molto secondato dai miei ufficiali superiori — non potendo io stesso, dovutamente assistere, ai movimenti ed operazioni di guerra — per essere obligato in carozza — Chiassi, Lombardi, Castellini, e i tanti prodi caduti in quella campagna — riscattarono, col loro nobile sangue, i nostri fratelli schiavi — che l'Italia, certamente non abbandonerà più allo straniero fosse egli il diavolo! — Anche in questa — alcune buone carabine — ci giunsero a guerra finita — e fermo il dire! Dal Tirolo ci ritirammo a Brescia — ov'ebbe luogo il scioglimento dei volontari — e quindi il mio ritiro a Caprera — _P. S._ Qui pure io devo ricordare alla gratitudine de' miei concittadini il collonnello Chambers — Inglese, che mi servì d'ajutante di campo nella campagna del 66 — Egli al combattimento di Bezzeca, fu a mio fianco durante tutto il conflitto, con un contegno intrepido — e sarebbe stato veramente più valevole se conoscitore della lingua Italiana — considerando: esser tutti i miei ajutanti occupati in diverse missioni — Anche la sua signora, rese segnalati servigi ai nostri feriti, con cure personali — e colle sue generose oblazioni, in tutte le epoche — Una febbre intermittente terribile mi privò per qualche tempo della cara compagnia del collonnello Chambers — 4º periodo 1867. CAPITOLO V. Agro Romano. La breve campagna del 67 nell'agro Romano — fu da me preparata, in una escursione sul continente Italiano ed in Svizzera — ove assistetti al congresso della _lega della pace e della libertà_ — Io ne assumo quindi la maggior parte della responsabilità — Generale della Republica Romana — investito di poteri straordinari, da quel governo, il più leggittimo, che mai abbia esistito in Italia — vivendo in un'ozio ch'io ho creduto sempre colpevole, quando tanto resta ancora da fare per il nostro paese — io mi figuravo con ragione: esser giunto il tempo di dare il crollo alla barracca pontificia — ed acquistar all'Italia l'illustre sua capitale — Aspettare l'iniziativa da «chi tocca» era una speranza come quella scritta sulle porte dell'inferno — I soldati di Buonaparte non eran più a Roma — e poche migliaia di mercenari — scoria di tutte le cloache Europee — dovevano tener a bada una grande nazione — ed impedirla di far uso de' suoi diritti i più sacri — Io mi accinsi alla crociata — Pria nel Veneto — e poi nelle altre provincie nostre, che avvicinano Roma — I due governi di Parigi e di Firenze — coi loro segugi, mi tenevano dietro — com'era naturale — Molti furono i buoni che mi coadjuvarono nell'impresa — e non pochi coloro che la contrariarono massime la Mazzineria, che si dice indebitamente partito d'azione — e che non tolera iniziativa emancipatrice a chicchessia — Infine dopo d'aver girovagato per l'Italia — ed al mio ritorno della Svizzera — credendo non dover più indugiare — mi decisi all'azione — verso settembre — Nello stesso tempo che si preparava il moto al settentrione — chiedevasi il concorso degli amici dell'Italia meridionale — per operare simultaneamente su Roma — Io avea però fatto il conto senza l'oste — ed una bella notte — giunto a Sinalunga, ove fui gentilmente accolto ed ospitato — venni arrestato per ordine del governo Italiano, e condotto nella cittadella d'Alessandria — Da Alessandria — ove mi lasciarono alcuni giorni — fui condotto a Genova, e da questa a Caprera — attorniando l'isola con bastimenti da guerra — Eccomi prigioniero nella mia dimora — guardato a vista e ben da vicino — da fregate corazzate minori piroscafi — ed alcuni legni mercantili, che il governo avea noleggiati a tale proposito — La spinta data al movimento sul continente, e ch'io stesso non avevo potuto iniziare per i motivi suddetti — non avea mancato di aver effetto tra i nostri amici, che non si scoraggirono per la mia detenzione — Il generale Fabrizi mio capo di Stato maggiore con altri generosi — formarono un comitato di provvedimento a Firenze — Il generale Acerbi entrò con una collonna di volontari nel Viterbese; Menotti con altra, entrò per Corese, anche sul territorio Pontificio — e l'eroico Enrico Cairoli, con suo fratello Giovanni, ed una settantina di coraggiosi, gettandosi in barca nel Tevere — portavan armi ai Romani che ne mancavano — Dentro Roma pure il prode maggiore Cucchi, con un pugno di valorosi — entrato con molto rischio della vita — organizzavano la rivoluzione interna — che combinata cogli assalitori di fuori doveva finalmente rovesciare quel mostruoso potere del papato — che come un canchero posa nel cuore dell'infelice nostro paese. Io non ero esattamente informato d'ogni cosa nella mia prigionia di Caprera — ma, da quanto avevo lasciato ne supponevo lo svolgimento — e poi, dai giornali, e dalla voce publica — qualche cosa si udiva — e di certo: che i miei figli ed i miei amici, erano sulla terra Romana alle mani coi mercenari pretini — Lascio pensare: s'io potevo rimanermi ozioso — mentre quei miei cari, per istigazione mia, trovavansi pugnando per la liberazione di Roma — il bello ideale di tutta la mia vita! — Grande era la vigilanza di coloro, che avean per missione di guardarmi — e molti i bastimenti e mezzi, di cui potevan disporre — ma maggiore era il mio desiderio di compiere il mio dovere, ragiungendo i coraggiosi che pugnavano per la libertà Italiana — Il 14 Ottobre 1867 — alle 6 p.m. io abbandonavo casa mia, dirigendomi verso il mare a settentrione — Giunsi alla spiaggia — e vi trovai il _beccaccino_ — piccolo legno comprato nell'Arno — e capace di trasportare due sole persone — Il beccaccino, trovavasi casualmente — a pochi metri della spiaggia — e dalla parte di levante d'un piccolo magazzino che serve a metter le imbarcazioni al coperto — Nella stessa parte trovavasi una pianta di lentisco che copriva quasi intieramente il minuto schifo — dimodocchè i miei regi guardiani non avean potuto scoprirlo — Giovanni, un giovane Sardo, custode della Goletta — dono generoso de' miei amici Inglesi — che si trovava nel porto dello stagnatello — Giovanni dico: stava nella spiagia aspettandomi — Col suo ajuto, posi il beccaccino in acqua, e m'imbarcai — Egli partì col palischermo della goletta cantarellando — Io costeggiai a sinistra la spiaggia della Caprera — facendo meno romore d'un'anitra — ed uscì in mare per la punta dell'Arcaccio — ove Frosciante altro mio fido — e Barberini ingegnere di Caprera avevano esplorato il terreno per timore di alcuna imboscata — I miei custodi erano molti — Essi occupavano le isolette del porto dello Stagnatello — ove tenevano una barcaccia da guerra, con altre minori, pattugliando in ogni direzione, tutta la notte — meno nella direzione da me scelta, per uscire dalle loro unghie — Era plenilunio, circostanza, che rendeva più difficile assai la mia impresa — e secondo i miei calcoli: la luna dovea uscire dal Teggialone (montagna che domina la Caprera) — un'ora circa, dopo il tramontar del sole — Io dovevo quindi profitare di quell'ora per il mio passaggio alla Maddalena — non prima ne più tardi: prima mi avrebbe tradito il sole — e più tardi la luna — Una circostanza imprevista che mi favorì molto fu la seguente: Maurizio, assistente mio, era andato alla Maddalena in quel giorno — e verso quell'ora tornava in Caprera — Un po allegro forse, non badò al «chi viva» delle barche da guerra che incrociavano numerose nel canale della Moneta che separa la Maddalena dalla Caprera — e coteste barche lo fulminarono di fucilate, che felicemente non lo colpirono — Per combinazione ciò succedeva, mentre io stava operando la mia traversata, favorito pure dal vento di scirocco, le di cui piccole ondate servivano mirabilmente a nascondere il beccaccino, che apena usciva d'un palmo dalla superficie del mare — La mia pratica — acquistata nei fiumi dell'America, nelle canoe Indiane, che si governano con un remo solo — mi valse sommamente — Io avevo un remo, o pala di circa un metro, con cui potevo remare, con tanto romore quanto ne fanno gli acquatici — Dunque, mentre la maggiore parte de' miei custodi si precipitavano su Maurizio — io tranquillamente, traversavo lo stretto della Moneta, ed approdavo nell'Isolella, divisa dalla Maddalena da un piccolo canale guadabile — Giunsi a Greco dell'Isolella, e vi approdai fra i numerosi scogli che la circondano — quando il disco della luna, spuntava dal Teggiolone — tirai il beccaccino in terra, e lo nascosi nella macchia — poi, mi diressi ad ostro, per passare il canale guadabile, e dirigermi verso la casa della Signora Collins — Nel canale suddetto, mi avevano aspettatto il Maggiore Basso, ed il capitano Cuneo amico mio — che avean supposto il mio passaggio in quella parte — ma il cataclisma Mauriziano — e la quantità di fucilate che credettero sparate contro di me — li persuase esser affare finito — ed io morto o almeno prigioniero — Presero quindi la decisione di ritirarsi alla Maddalena — Indebolito dagli anni e dai malanni — l'agilità mia era poca — tra gli scogli e cespugli dell'isola della Maddalena — Per fortuna ero illuminato dalla luna, che avrei temuto sul mare — ma che benedivo in quel mio difficile transito — tanto più difficile: che avendo dovuto passare il canale guadabile senza scalzarmi, per essere irto di punte granitiche, avevo gli stivali pieni d'acqua — e quindi il canticchiare dei miei piedi nel bagno — cosa ben dispiacevole camminando — In tale stato, giunsi con tutte le precauzioni possibili in casa della Signora Collins — e vi fui accolto generosamente — 4º periodo. CAPITOLO VI. Sardegna — Traversato sul mare — Continente. In casa della Signora Collins — ove ricevetti la più gentile, ed amichevole ospitalità — io rimasi sino alle 7 p.m. del 15 Ottobre 1867 — A quell'ora giunse in casa della Signora suddetta il mio amico Pietro Susini col suo cavallo — Montai — e con quella guida praticissima — attraversai l'isola della Maddalena, e giunsi a calla Francese, a ponente dell'isola — ove m'aspettavano Basso ed il capitano Cuneo — con uno schifo ed un marinaro — M'imbarcai, ed attraversammo in sei lo stretto che divide la Maddalena dalla Sardegna — Giunti sul territorio della Sardegna, e rimandata la barca alla Maddalena — vi passammo il resto della notte in una Conca,[113] vicino allo stazzo[114] di Domenico N. e verso le 6 p. m. del 16 — dopo d'aver riuniti tre cavalli — c'incamminammo — metà a piedi in principio, e tutti a cavallo poi — traversammo i monti della Gallura, il golfo ed il paese di Terranova — ed all'albeggiare del 17, ci trovammo sulle alture che dominano il porto di S. Paolo — Non trovando in Porto di S. Paolo, il legno — che Canzio e Vigiani vi dovevano tenere — passammo la mattinata nello stazzo di Nicola — ed il capitano Cuneo, ad onta della stanchezza di quindici ore di cavallo, si spinse verso ostro a porto Prandinga — ove ci aspettavano i nostri amici — colà giunti felicemente dopo molte peripezie — colla paranzella _S. Francesco_ — Prima di lasciare la Sardegna, io devo una parola di lode e di gratitudine, ai buoni amici che mi facilitarono la liberazione — I capitani Giuseppe Cuneo e Pietro Suzini si adoperarono a mio favore d'un modo veramente lodevolissimo — Buoni, coraggiosi e molto pratici, essi ci servirono di guida, di consiglio — ed affrontando con noi, i disagi, le fatiche, ed il rischio — non ci vollero lasciare, senonchè dopo d'averci accompagnati sul _S. Francesco_ — Domenico N. del primo stazzo — tolse il solo materazzo che aveva dal letto ove giaceva la moglie inferma — e lo portò nella Conca per accomodarvi il mio letto — con alcuni cussini — Tale è l'ospitalità Sarda — Egli fu operosissimo nel procurarci tutti i cavalli necessari — senza i quali, sarebbe stato quasi impossibile il nostro viaggio attraverso i monti della Gallura — Nicola dello stazzo di porto S. Paolo — subito che m'ebbe conosciuto, ad onta del mio travestimento, e della barba e capelli tinti — mi accolse con quella franchezza, e benevolenza — che distingue il ruvido, ma generoso e fiero pastore Sardo — Io sono innamorato del popolo Sardo in generale — ad onta di difetti che le si attribuiscono e sono certo — che con un buon governo — che volesse veramente occuparsi della prosperità, e progresso di cotesto buona, ma poverissima popolazione — si potrebbe fare di essa, una delle prime — ricca com'è d'intelligenza e di coraggio — Grande ed ubertosissima terra — un vero Eden, si farebbe della Sardegna — oggi un deserto — ove la miseria, lo squallore, la mal'aria sono impronte sulle caratteristiche fisionomie degli abitatori — Il governo che per disgrazia di tutti, regge la penisola, appena sa se esiste una Sardegna — occupato com'è a preparare una schifosa reazione, e ad impiegare i tesori dell'Italia — a comprare spie, poliziotti, preti, e simile canaglia — demoralizzando e rovinando l'esercito, per compiere le voglie libidinose del Buonaparte — di cui non è che una miserabile prefettura (1867) — Il 17 Ottobre 1867, alle 2 p. m. circa, io abbracciavo affetuosamente, i cari Canzio e Vigiani, a bordo della paranza _S. Francesco_ — Essi aveano compiuto una difficilissima missione — affrontando disagi e perigli per liberarmi — Alle 3 p. m. dello stesso giorno, si salpava, e con vento da Scirocco, mediocre — dopo una bordata, la paranza navigava fuori di Tavolara, con prora a Tramontana quarta a Greco — Il 18 verso i meriggio, avvistammo Monte Cristo, e nella notte stessa entrammo nello stretto di Piombino — Il 19 albeggiò minaccioso, con vento forte da Ostro e Libeccio con pioggia — Tale circostanze favorirono il nostro approdo a Vado — tra il canale di Piombino e Livorno — Il resto del giorno 19, si passò in Vado, aspettando la notte per sbarcare — Verso le 7 p. m. sbarcammo sulla spiaggia algosa ad Ostro di Vado — in cinque: Canzio, Vigiani, Basso, Maurizio ed io — Vagammo per un pezzo a trovar la strada — essendo quella spiaggia assai paludosa — ma ajutato nei passi più difficili dai miei compagni — potei giungere con loro, nel villagio di Vado — ove per fortuna Canzio e Vigiani trovarono subito due biroccini, e via per Livorno — A Livorno si giunse in casa Sgarellino — ove trovammo le sole donne, che ci accolsero con molta benevolenza — Ivi, venne Lemmi, che da vari giorni ci aspettava con una carozza, per condurci a Firenze — Montammo, e si giunse nella capitale verso la mattina — accolti con gentile ospitalità in casa della famiglia Lemmi — Il 20 — in Firenze, fui accolto dagli amici, e dalla popolazione, a cui non si potè nascondere il mio arrivo — Accolto con dimostrazioni di gioia — eppure trattavasi di acquistar Roma capitale d'Italia — e togliere il primato alla metropoli madre di Galileo, e di Michelangelo — Ed il generoso popolo di Firenze, giubilava — Grande e vera manifestazione di patriotismo — di cui l'Italia — come a Torino, in pari circostanza — deve tener conto — Ragiungere i miei fratelli d'armi — ed i miei figli, che si trovavano al campo in presenza dei nemici — era il mio gran desiderio e quindi fu breve la mia permanenza nella capitale — Passai a Firenze il resto del giorno 20 e tutto il 21 Ottobre — Il 22 con un convoglio speciale, mi avviai verso la frontiera Romana sino a Terni, e di là in carozza per il campo di Menotti — che raggiunsi il 23, al passo di Corese — Essendo la posizione di Corese, poco idonea ad una difesa, per truppe in pessima condizione — com'erano i nostri poveri volontari — marciammo per monte Maggiore — e da questa posizione, nella notte dal 23 al 24 — ci dirigemmo in diverse collonne su Monterotondo — ove si sapeva trovarsi circa 400 nemici con due pezzi d'artiglieria — La collonna comandata dai maggiori Caldesi, e Valsania, doveva principiare il suo movimento alle 8 p.m. del 23 — giungere a Monterotondo verso mezzanote — e procurare d'introdursi nella città con un'assalto dalla parte di ponente, che si credeva, ed era veramente la parte più debole — ove le mura di cinta rovinate, erano state supplite da case, con porte esterne, e quindi di non difficile accesso — Questa collonna di destra, composta per la maggiore parte di coraggiosi Romagnoli — per gli inconvenienti inseparabili ad un corpo, non organizzato — mancante di tutto — stanco — e senza poter trovare guide pratiche del paese — arrivò di giorno sotto la cinta di Monterotondo — e fu per conseguenza fallitto l'attacco di notte — È incredibile lo stato di cretinismo, e di timore in cui il prete, ha ridotto cotesti discendenti delle antiche legioni di Mario e di Scipione! Io già lo avevo provato nella mia ritirata da Roma nel 49 — ove con oro alla mano — non mi era possibile di trovare una guida — E così successe nel 67 — Quando si pensa: in una città Italiana come Monterotondo — colle porte di casa — a ponente — che mettevan fuori della cinta — non trovarsi un solo individuo — capace di darci relazione, su ciò che esisteva dentro — Mentre noi erimo Italiani per Dio! pugnando per la liberazione patria — mentre dentro — v'era la più vile ciurmaglia di mercenari stranieri, al servizio dell'impostura — «Libera chiesa in libero Stato» ha detto un grande ma volpone statista: Sì! ebben lasciatela libera cotesta nera gramigna — ed avrete i risultati ch'ebbero la Francia e la Spagna — oggi, per i preti cadute all'ultimo gradino delle nazioni — La collonna di sinistra comandata da Frigezy, giunse fuori di Monterotondo a Levante, occupò il convento dei Capuccini verso le 10 a.m. colle posizioni adjacenti — e spinse alla sua sinistra alcune compagnie, per darsi la mano coi corpi nostri di destra — ciocchè fu impossibile per tutto il giorno 24 — essendo tremendo il fuoco nemico da quella parte — La collonna del centro — guidata da Menotti — con cui mi trovavo — avendo marciato da Monte Maggiore, direttamente all'obbiettivo, fu pure arrestato da' passi disagevoli della strada Moletta — e nonostante giunse la prima all'albeggiare, sotto le posizioni che contornano Monterotondo da Tramontana — Io ordinai a questa collonna, comandata da Menotti — e composta per la maggiore parte dai prodi bersaglieri Genovesi di Mosto e Burlando — di occupare le forti posizioni settentrionali, già accennate — ma di non assaltare — pensando poter combinare l'attacco colle altre collonne che dovevano giungere a poca distanza di tempo — Ma lo slancio dei volontari non potè trattenersi — ed invece di limitarsi ad occupare le posizioni suddette — essi si lanciarono all'assalto di porta S. Rocco — affrontando un fuoco micidialissimo — che da tutte le finestre del paese — in quella parte — li fulminava — Essendomi allontanato dalla collonna del centro sulla sinistra, per potere scoprire la collonna di Frigezy, che doveva giungere da quella parte — io mi accorsi con pena e stupore dell'impegno in cui s'eran avventati i bersaglieri Genovesi per troppo coraggio — Quell'attacco prematuro ci costò una quantità di morti e feriti — valse però a stabilire nelle case adjacenti a porta S. Rocco, alcune centinaia di volontari — che più tardi, sostenuti e coadjuvati da compagnie fresche d'altri corpi — poterono incendiare la porta suddetta — ciocchè ci valse l'entrata e presa del paese — Tutto il 24 Ottobre, fu dunque occupato a cingere colle forze nostre la città di Monterotondo, e la guarnigione composta di zuavi papalini, per la maggiore parte, armati d'eccellenti carabine, e due pezzi d'artiglieria — ci fulminava — senza che si potesse rispondere dovutamente, coi soliti nostri catenacci — e per trovarsi i nemici al riparo, da non poterne scoprire uno solo — Monterotondo è dominato dal palazzo dei principi di Piombino — di cui un giovane di quella famiglia militava con noi — Cotesto palazzo, o piutosto castello è spaziosissimo e fortissimo — Il nemico ne avea fatto una fortezza, con delle feritoie tutto attorno ed un parapetto sulla piattaforma orientale ove teneva i due pezzi — uno da 12 e l'altro da 9 — Tra i caduti all'attacco di porta S. Rocco — contavano i prodi maggiore Mosto, gravemente ferito, il capitano Uziel mortalmente — il mio caro e buon Vigiani che tanto avea contribuito alla mia liberazione da Caprera — a cui dovevo tante gentilezze — morto! e tanti altri valorosi! — Io ricorderò nella pagina seguente i nomi di coloro che cadettero valorosamente per la liberazione di Roma nel 67 — e non rammentandoli tutti, certamente, incarico il mio stato maggiore di compiere a quel sacro dovere: MORTI Achille Cantoni — maggiore Vigo Pelizzari — idem Martino Franchi — idem Martinelli — idem Testori Luigi — idem Defranchis — idem De Benedetti Uziel — capitano Vigiani Antonio — 1º tenente Latini Ercole Achille Borghi Annighini Antonio Lombardi Pio Permi Giuseppe Conte Bolis di Lugo Andreuzzi Silvio — T.te Ettore Morasini Bovi figlio del maggiore Bortulacci Gironimo Lenari Sante } Trovati feriti alla stazione Giordano Ettore } di Monterotondo, dai zuavi Scholey Giovanni di Londra } del papa — e massacrati FERITI Bezzi Egisto — maggiore Mosto Antonio — idem Stallo Luigi — idem Gavitani Vincenzo Galliani Giacomo Manara Domenico Sgarbi Antonio Mayer di Livorno Sgarellino Pasquale Capuani Paolo Galliani Giacomo 4º periodo, Ottobre 1867. CAPITOLO VII. Assalto di Monterotondo. Cotesto assalto prova abbastanza: a qual punto trovavasi il morale della gente ch'io comandava — pria della propaganda Mazziniana che invitava i volontari a tornare a casa per proclamare la Republica — Passammo il giorno 24 Ottobre — come abbiamo detto — a cingere Monterotondo — preparare fascine e zolfo per incendiare la porta di S. Rocco — e prendere tutte quelle disposizioni d'assalto, che si poterono — Le tre collonne comandate da Salomone, Caldesi, Valsania e Menotti — meno alcune osservazioni verso la via Romana, da dove potevano giungere soccorsi ai nemici — s'erano massate per l'assalto decisivo di porta S. Rocco — Frigezy doveva attaccare simultaneamente la città, da levante — e possibilmente incendiarvi pure la porta del castello — L'attacco era deciso per le 4 a.m. del 25 — I nostri poveri volontari, nudi, affamati, e bagnate le poche vesta si erano sdrajati sull'orlo delle strade, che le dirotte pioggie dei giorni antecedenti aveano colme di fango — e rese quasi impraticabili — Pure spossati dalla stanchezza anche nel fango si sdrajavano quei bravi giovani! Io confesso: ero quasi disperato di poter far rialzare quei soffrenti per l'ora dell'assalto — e volli dividere la loro miserabile situazione sino verso le 3 a.m. seduto tra loro — A quell'ora, gli amici che mi attorniavano, mi chiesero: ch'io entrassi un momento nel convento di S. Maria, distante pochi passi, per sedermi all'asciuto — e mi condussero, unico sedile, in un confessionale — ove stetti pochi minuti. Non appena seduto, ed apogiate le spalle addolorate dal star molto tempo in piedi — quando un rumore come di tempesta — un grido solenne d'una moltitudine dei nostri, che si precipitavano nell'uscio della porta ardente mi fece risaltare, e correre con quanta celerità potevo verso la scena d'azione — gridando anch'io: «Avanti!» — Incendiata intieramente la porta, colpita da due piccoli nostri cannoncini, che sembravan due canocchiali — e non presentando più, che un mucchio di rovine ardenti — di cui si aspettava l'estinzione — i nemici ritentavano di barricadarla nuovamente — e perciò cominciavano ad avvicinarvi, carri, tavole, ed altri oggetti d'ostruzione — Ciò però non garbava ai nostri, cui tanta fatica e pericolo avea costato lo incendiarlo — Il primo oggetto che si presentò alla porta spintovi dai zuavi, fu un carro — ma non ebbero tempo di metterlo a posto — Una scintilla elettrica, eroica, si sparse come il fulmine nelle fila dei patriotti — e furibondi, si precipitarono nell'uscio ardente come energumeni — Altro che stanchi, spossati, e affamati! — Non avevo forse già visto operar dei miracoli a cotesta gioventù Italiana! Diffidarne era un delitto — roba da vecchio decrepito! Non valsero ad arrestarli, il carro attraversatto — i rottami ardenti, ammonticchiati sulla soglia — una grandine di fucilate, che pioveva da tutte le direzioni — Essi mi facevano l'effetto d'un torrente, che rotti gli argini ed i ripari — si precipita nella campagna — In pochi minuti la città fu inondata dai nostri, e tutta la guarnigione rinchiusa nel castello — Alle 6 p.m. si cominciò l'attacco del castello, essendo i nostri, già padroni di tutti gli sbocchi di strade, che conducevano a quello — ed avendoli barricati tutti si mise il fuoco alle scuderie, con fascine, paglie, carri, e quanti oggetti combustibili vi si trovavano — Alle 10 a.m. si respinsero con poche fucilate circa due milla uomini — che da Roma, avanzavano al soccorso degli assediati — Alle 11, la guarnigione affumicata, e temente di saltare in aria, col fuoco alle polveri, che tenevan di sotto — alzò bandiera bianca, e si arrese a discrezione — Il prode maggiore Testori, poco prima della resa dei nemici, aveva preso la determinazione di mettersi allo scoperto, alzando una bandiera bianca, per intimar loro di arrendersi — ma quei mercenari, violando ogni diritto di guerra, lo fucilarono con vari colpi, e lo lasciaron cadavere — Ebbi un'immensa fatica, dopo tanti e siffatti atti di barberie di cotesti sgherri dell'inquisizione — per salvar loro la vita — essendo i nostri irritatissimi contro di loro. Io stesso fui obligato di condurli fuori di Monterotondo, e farli scortare al passo di Correse — da quaranta uomini, agli ordini del maggiore Marrani — Successe in Monterotondo, ciocchè succede in una città presa d'assalto — e che poca simpatia s'era meritata, per il mutismo e l'indifferenza, quasi avversione — manifestata verso di noi — E devo confessare: che disordini non ne mancarono — E tali disordini impedirono pure, di poter organizzare dovutamente la milizia nostra — quindi, poco si potè fare in quel senso, nei pochi giorni che vi soggiornammo — Colla speranza, di meglio poter organizzare la gente fuori, tenendola in moto — toglierla ai disordini della città — ed avvicinarci a Roma — uscimmo da Monterotondo il 28 ottobre, ed occupammo le colline di S. Colomba — Frigezy, facendo la vanguardia occupò Marcigliana — e spinse i suoi avamposti sino a Castel Giubileo, e Villa Spada — Nella sera del 29, trovandomi a Castel Giubileo, mi giunse un messo da Roma, che avea parenti nella collonna e quindi conosciuto — egli mi assicurò esser i Romani decisi a fare un tentativo, d'insurrezione nella notte stessa — Ciò m'imbarazzò alquanto — non avendo tutta la gente a mano — Nonostante mi decisi io stesso, di spingermi coi due battaglioni dei bersaglieri Genovesi — sino al casino dei Pazzi, a due tiri di fucile dal ponte Nomentana — nell'alba del 30 — Una guida nostra, con un'ufficiale, che giunsero primi nel casino stesso, v'incontrarono un picchetto nemico, e vennero con quello a colpi di revolver — La guida fu ferita leggiermente nel petto — e siccome era maggiore il numero di nemici — i nostri si ritirarono, avvisandomi con altri tiri della presenza dei papalini — Ma fecero tutto ciò con sangue freddo e da valorosi — Retrocedemmo da quel punto, all'incontro dei due battaglioni in marcia — e subito ch'essi arrivarono, si occupò il casino dei Pazzi, le case della Cecchina — ch'è uno stabilimento pastorizio, ad un lungo tiro di carabina a tramontana dal primo — e la strada, fiancheggiata da un muro a secco, che va dal casino alle case — Rimanemmo tutto il giorno 30, in cotesta posizione aspettando di udire qualche movimento in Roma — o qualche avviso dagli amici di dentro — ma inutilmente — Verso le 10 a.m. uscirono due collonne nemiche in ricognizione — una dal ponte Nomentano — l'altra alquanto dopo, dal ponte Mammolo — I soldati del papa, sulla destra nostra, avanzando in tiratori, a portata di carabina — ci fecero fuoco tutto il giorno — ma i nostri, ubbedendo agli ordini, non rispondevano — giacchè sarebbe stato inutile, coi nostri fucili pessimi — sprovvisti com'erano i Genovesi delle loro buone carabine — Solamente, quando baldanzosi, o irritati dal nostro silenzio, i zuavi si avanzarono più vicini — i nostri imboscati al casino dei Pazzi — ne uccisero quattro — e ne ferirono alquanti — La nostra posizione, a pochi passi da Roma — ove s'era concentrato tutto l'esercito papale — era arrischiata — e quando io vidi uscirne le due collonne, di cui non si poteva precisare il numero chiesi a Menotti, che si trovava indietro: che ci facesse sostenere da alcuni battaglioni, ch'egli stesso portò immediatamente — Persuaso che nulla si faceva in Roma — e meno si sarebbe fatto, coll'arrivo dei Francesi già anunciato, e realizzato in quei giorni — io disposi la ritirata su Monterotondo — lasciando molti fuochi accesi, in tutte le posizioni da noi occupate — per ingannare il nemico — Qui, la Mazzineria profitò della circostanza per fare il broncio — e seminare il malcontento tra i volontari — «Se non si va a Roma, dicevano essi: — meglio tornare a casa —». E veramente: a casa, si mangia bene, si beve meglio, si dorme caldi — e poi, anche... la pelle è più sicura. Le posizioni da noi occupate: Castel de' Pazzi — Cecchina, Castel Giubileo, ecc. — eran troppo vicini a Roma, e non difendibili contro forze superiori — convenivano quindi, altre posizioni più forti, e più lontane — Monterotondo ci offriva tali condizioni, e più facilità per vivere — 4º periodo, 3 Novembre 1867. CAPITOLO VIII. Mentana — 3 novembre 1867. Il 31 ottobre era tutta la forza dei volontari rientrata in Monterotondo — e vi rimase sino al 3 novembre — Tutto quel tempo fu impiegato a vestire alcuni militi, i più bisognosi, calzarli, armarli organizzarli come si poteva — Si fecero occupare da tre battaglioni, le forti posizioni di S. Angelo, Monticelli, e Palombara — comandati dal colonnello Paggi — Tivoli fu occupato dal collonnello Pianciani, con un battaglione — Il generale Acerbi, occupava Viterbo con un migliaio d'uomini — il generale Nicotera occupava Vellettri con un altro migliaio — Ed il maggiore Andreuzzi operava sulla sponda destra del Tevere con dugento uomini — Prima del 31 Ottobre, molti volontari accorrevano ad ingrossare le collonne comandate da Menotti dimodocchè esse ascendevano già al numero di circa 6000 uomini — La situazione dei corpi volontari, quindi, se non era brillante, non era deplorabile — se avessimo coll'ajuto del paese, potuto complettare l'armamento, il vestiario, e quanto abbisognavano i nostri poveri militi — L'esercito papalino era demoralizzato, ne avevimo battutto una parte a Monterotondo, ed il resto s'era concentrato in Roma — ove sfidato da noi non aveva osato di uscirne — Il popolo Romano, oppresso, massacrato ne' suoi tentativi insurrezionali — gridava vendetta — e si preparava con nuovo animo — capitanato da Cucchi ed altri prodi — a cooperare co' suoi liberatori di fuori, a farla finita con preti e mercenari — Tutto prometteva infine, la caduta del prete nemico del genere umano — Ma il genio del male vegliava ancora sulla conservazione del principale suo sostegno: il pontefice della menzogna! Dalle sponde della Senna — ov'egli impera, per la disgrazia della Francia e del Mondo — esso minacciava sull'Arno, accusava di codardia i conigli — e suscitava il coraggio della paura, e della malafede — Alla voce del padrone gli uomini che sì indegnamente governano l'Italia — coprendosi il volto, colla solita maschera del patriotismo — ingannavano la nazione, invadendo il territorio Romano — e dicevano: «Eccocci! noi abbiamo tenuto parola — Alle prime fucilate di Roma, noi corriamo all'ajuto dei fratelli!» — Menzogna! Menzogna! Voi correste: ma per l'eccidio dei fratelli, in caso essi fossero stati fregiati dalla vittoria finale — E correste, quando eravate sicuri: che i patrioti di Roma, erano schiacciati! Morti! — Menzogna! Menzogna! Voi, ed il magnanimo alleato, occupaste Roma ed il suo territorio, per lasciare l'esercito dei mercenari del Papa, libero, intiero, risollevato dalle sue sconfitte — pesare con tutte le sue forze — la superiorità delle sue armi, e dei suoi mezzi — sopra un pugno di volontari, malissimamente armati — e privi d'ogni cosa più necessaria — coll'oggetto di vederli soccombere — E se l'esercito papalino — non era suffiente — come non lo fu — lì, stavano loro tutti: i soldati del Bonaparte — e, mi fa orrore il pensarlo — anche quelli che hanno la disgrazia di ubbidirvi! — ¿Nel 60, non si marciava su di noi per combatterci? E perchè non si doveva fare lo stesso nel 67? (Dispaccio di Farini a Bonaparte) — Le colline di Mentana furono coperte di misti cadaveri de' prodi figli d'Italia, e di mercenari stranieri — come lo furono le pianure di Capua, sette anni prima — E la causa per cui pugnavano i militi che avevo l'onore di comandare — era sacra nell'Italia meridionale — quanto quella che ci aveva spinti sotto le mura della vecchia metropoli del mondo! — Qui con dolore, devo ricordare un'altra delle cause della sventura di Mentana — Già dissi: i Mazziniani aver cominciato la loro propaganda dissolvente — dacchè cominciò la nostra ritirata dal casino dei Pazzi — e il motivo della loro propaganda era falso — senza ragione alcuna — Per chi ha senno, è ben facile concepire: non esser tennibile la posizione nostra sotto le mura di Roma — all'arrivo dei Francesi — e per la composizione delle forze che comandavo — In uno stato d'ogni bisogno — senza artiglieria, ne cavalleria — Infine incapaci di poter far fronte a una seria sortita — anche dei soli papalini — e senza mezzi — se pure non ci avessero attaccati — di sussistervi due giorni — Padroni invece di Monterotondo — che trovasi anche alla vista di Roma — eravamo nel centro dei piccoli nostri mezzi — con posizioni dominanti — e ad una distanza da potere pressentire il nemico — quando ci fosse venuto sopra — Tuttociò, però dalla parte dei Mazziniani erano pretesti — e non bastava: l'opposizione sleale ed accanita del governo — la potenza del pretismo, ed il sostegno del Bonaparte — No! anche loro, come sempre, dovevano giungere a dare il calcio dell'asino — a chi non aveva altra aspirazione: che la liberazione degli schiavi nostri fratelli. «Noi faremo meglio» mi dicevano gli uomini della setta, che oggi, sono uomini della Monarchia — a Lugano nel 1848 — E vedete che data da molto tempo la guerra a me fatta, a punta di _spillo_ dai Mazziniani — «Andiamo a casa a proclamar la Republica — e far le barricate» dicevano ai miei militi nell'agro Romano nel 1867 — E veramente, era molto più comodo, per quei poveri ragazzi che mi accompagnavano — di tornarsene a casa, che di rimaner meco in novembre, senza il necessario per coprirsi — mancanti di molte cose necessarie — con, contro di noi l'esercito nostro — ed i papalini e Francesi che bisognava combattere. Il risultato di queste mene Mazziniane, fu: la diserzione di circa tre milla giovani, dalla nostra ritirata dal Casino de' Pazzi sino a Mentana — e lascio pensare: quando in una milizia di circa sei milla uomini — vi ha la diserzione motivata, come la palesavano apertamente — di una metà della gente — lascio pensare dico: a che punto di moralità, e di fiducia nel compimento dell'impresa, potevano trovarsi i rimanenti volontari — Immensi sono i danni a me cagionati da cotesta gente Mazziniana — e potrei dimenticarli, se a me personalmente fossero stati inflitti — Ma è alla causa nazionale che lo furono! E come posso dimenticarli — come non devo accennarli a quella parte eletta della gioventù nostra da loro traviata! — Mazzini era certo migliore dei suoi seguaci — ed in una sua lettera a me diretta, in data dell'11 Febbraio 1870 — relativamente al fatto di Mentana, egli mi scriveva: «Voi sapete ch'io non credevo nel successo — ed ero convinto, esser meglio concentrare tutti i mezzi, sopra un forte movimento in Roma[115], che non irrompere nella provincia — ma una volta la impresa iniziata giovai quanto potei» — Io non dubito dell'asserzione di Mazzini — ma il danno era fatto: O egli non fu a tempo di avvisare i suoi fautori — o questi vollero continuare nel danno — Ricciotti non trovò in Inghilterra, i mezzi che si potevano sperare — perchè tra cotesti nostri amici, s'era fatta pure circolare la voce seguente: «perchè» si diceva: «rovesciare il papato per sostituirvi un governo peggiore». E nell'Agro Romano — i suoi — come già dissi: disseminavano lo sconforto tra i miei militi, e cagionarono l'enorme diserzione già narrata — e senza dubbio, motivo principale del rovescio di Mentana — Dall'alto della torre del palazzo Piombino, a Monterotondo — ove passavo la maggiore parte della giornata — osservando Roma, gli esercizi dei giovani nostri militi nel piano — ed ogni movimento nella campagna — io la vedevo la processione di gente nostra, che s'incamminava verso passo di Correse — cioè: che se ne andavano alle loro case — Ed ai compagni, che me ne avvertivano, io rispondevo: «Oibò! cotesti non sono nostri che se ne vanno, saran campagnoli che vanno o vengono dal lavoro» — Ma nell'anima mia sentivo il rancore dell'atto perverso — e tentatavo di nasconderlo — o di menomarlo ai circostanti — solito contegno, nelle circostanze urgenti — In conseguenza dello stato morale della gente — sopra descritto — e trovandosi per noi — ermeticamente chiusa la frontiera settentrionale dai corpi dell'esercito Italiano — e quindi nell'impossibilità di procacciare il necessario oltre quella frontiera — Noi dovevamo cercare altro campo d'azione ed altra base — per poter vivere, mantenersi, ed aspettare gli eventi, che dovevano finalmente sciogliere la quistione Romana. Per tuttociò, fu deciso di marciar per il fianco sinistro verso Tivoli, onde metter l'Apennino alle spalle — ed avvicinare le provincie meridionali — La marcia fu decisa per il 3 Novembre mattina ma per motivi d'aspettare e distribuire scarpa — non si potè esser pronti a movere senonchè verso il meriggio — di quel giorno — Noi uscimmo da Monterotondo sulla via di Tivoli. L'ordine di marcia era circa il seguente: Le collonne agli ordini di Menotti marceranno in buon ordine con una vanguardia di bersaglieri in avanti — da circa mille passi a due milla — In avanti della vanguardia, marceranno esploratori a piedi, preceduti da guide a cavallo — Su tutte le strade che vengono da Roma, sulla nostra destra — si spingeranno dei fiancheggiatori a piedi ed a cavallo — più verso Roma che possibile, sulla stessa destra; e sulle alture che dominano il paese, si collocheranno delle vedette — che ci possono avvisare a tempo, di qualunque movimento nemico — Una retroguardia si occuperà di spingere avanti i restii, e lascierà nessuno indietro — L'artiglieria marcerà al centro delle collonne — I bagagli seguiranno in coda delle collonne rispettive — Con questo — più o meno — ordine di marcia, c'incamminammo da Monterotondo per Tivoli — Sventuratamente però — pare: cadessero nelle mani dei nemici — i pochi nostri esploratori a cavallo — e ne avevimo pochissimi — dimodocchè i papalini, giungendo per la via Nomentana — quasi sorpresero la vanguardia nostra e l'impegnarono — Passato il villaggio di Mentana, le fucilate mi avvisarono della presenza del nemico. Retrocedere in tale contingenza, e già impegnati coi nemici — valeva una fuga — e non v'era altro espediente: che di accettare il combattimento — occupando le forti posizioni che ci stavano a mano — Io mandai dunque a Menotti — che marciava alla vanguardia — l'ordine di occupare le forti posizioni suddette — e di far testa. Feci successivamente seguire avanti il resto delle collonne, spiegandole destra e sinistra in sostegno delle prime — ed alcune compagnie, rimasero in collonna sulla destra di riserva — La strada che da Mentana va a Monterotondo — linea d'operazione nostra in quel giorno — è una strada buona, ma incassata e bassa — Fui obligato quindi di cercare sulla nostra destra, una posizione adeguata, per collocarvi i due pezzi nostri presi ai nemici nel giorno 25 Ottobre. Ciò si eseguì con molta difficoltà, per mancanza di gente e cavalli pratici, e per essere il terreno frastagliato di sieppi, vigne — e molto ineguale — In tanto il combattimento ferveva micidiale su tutta la linea — Noi avevamo occupato posizioni che valevano quelle del nemico — anzi migliori — poichè egli non potè mostrare la sua artiglieria durante il giorno — e per un pezzo le posizioni nostre si sostennero, ad onta dell'immensa superiorità delle armi dei contrari — siccome del maggior numero di loro — Devo però confessare: I volontari, demoralizzati com'erano, per il gran numero di disertori nostri già accennato — non si mostrarono in quel giorno degni della loro fama. Distinti ufficiali, ed un pugno di prodi che li seguivano, spargevano il lor sangue prezioso, senza cedere un palmo di terreno — ma la massa non era dei soliti nostri intemerati — Essa cedeva superbe posizioni — senza opporvi quella resistenza, ch'io mi potevo aspettare — All'1 p.m. circa ebbe principio il combattimento — e verso le 3, di posizione in posizione, il nemico ci avea cacciati mille metri indietro sul villagio di Mentana — Alle 3 i nostri pezzi poterono esser collocati in posizione vantaggiosa sulla nostra destra — e cominciarono a sparare con effetto sul nemico — Una carica alla baionetta da tutta la nostra linea — ed i tiri a bruciapelo dei nostri collocati nelle finestre delle case di Mentana, avevano seminato il terreno di cadaveri papalini — Noi erimo vittoriosi — il nemico fuggiva, si riocuperavano le posizioni perdute — e sino alle 4 p.m. la vittoria sorrideva ai figli della libertà Italiana — ed eravamo padroni del campo di battaglia — Ma lo ripeto: un infausta demoralizzazione serpeggiava nelle nostre fila — Si era vittoriosi — e non si voleva complettar la vittoria, perseguendo un nemico che aveva abbandonato il campo — Voci di collonne Francesi — marcianti su di noi — circolavano fra i volontari — e non v'era tempo di trovarne l'origine — naturalmente proveniente da nemici nostri — neri o diavoli — Si sapeva l'esercito Italiano contro di noi — arrestando i nostri alla frontiera — ed intercettando qualunque roba a noi destinata — siccome ogni comunicazione. Infine, governo Italiano, preti, e Mazziniani erano pervenuti a gettar lo sconforto nelle nostre fila — E non è per la tempra d'ogni uomo — resistere allo sconforto — e marciare quantunque, risolutamente al compimento del suo dovere — Verso le 4 p.m. la voce che una collonna di due milla soldati del Bonaparte — ci attaccava in coda — diede l'ultimo crollo alla costanza dei volontari, ed era falsa — Ciocchè era vero però era: il corpo spedizionario de Failly — che giungeva sul campo di battaglia — in sostegno dei soldati del papa sconquassati — Le posizioni riacquistate con tanto valore — si lasciano nuovamente — ed una folla di fuggenti, si ammassa sullo stradale — Invano la mia voce e quella di molti prodi ufficiali, tenta riordinarli — Invano! Si perde la voce a gridare a rimproverare — Invano! Tutti si avviano verso Monterotondo — lasciando un pezzo abbandonato — che solo il giorno seguente rimase in potere del nemico — ed abbandonando un pugno di valorosi, che dalle case di Mentana, fanno strage dello stesso — Ognuno è valoroso, quando il nemico si ritira — e naturalmente così successe ai nostri avversari — quei papalini ch'erano scapati davanti a noi — ora sostenuti dalle collonne Francesi, vengono avanti baldanzosi — Essi ci incalzano nella nostra ritirata, e colle loro armi superiori — ci cagionano molte perdite, tra morti e feriti — I Francesi, da principio, creduti da noi papalini — vengono avanti coi loro tremendi chassepots, grandinando projetti — ma fortunatamente cagionando più timore, che eccidio — Ah! se i nostri giovani, docili alla mia voce avessero tenuto — e si poteva con poco pericolo — le posizioni riconquistate di Mentana — e limitarsi a difenderle — forse il 3 Novembre andrebbe annoverato tra le giornate gloriose della democrazia Italiana — anche con tante mancanze — e tanta inferiorità di numero come ci trovammo a Mentana — In molte delle nostre antecedenti pugne — noi eravamo stati perdenti, sino verso la fine della giornata — ed un'aura favorevole ci avea rigettatti sulla via della vittoria — In Mentana padroni, alle 4 p.m. del 3 Novembre, del campo di battaglia — con un'ora più di costanza cadeva la notte — e fors'essa consigliava ai nostri nemici una ritirata su Roma — essendo poco tenibile la lor posizione al di fuori contro gente che non avrebbero loro lasciato riposo nella notte — Verso le cinque p.m. — meno i pochi difensori di Mentana collocati nelle case — tutte le nostre collonne erano in ritirata su Monterotondo, ed in disordine — Appena si potè occupare la forte posizione dei Capuccini — con alcune centinaia di militi — Munizioni da cannoni non ce n'erano più — pochissime le munizioni da fucile — E l'opinione di una ritirata sul passo di Correse era generale — Dall'alto della torre del castello, in Monterotondo, m'ero assicurato, ch'era falsa la notizia dei due milla Francesi sulla via Romana — che dovevano attaccarci in coda — Notizia che fu data a me stesso, da molti durante il combattimento — Sembra impossibile, che tali cose possano succedere — eppure succedono: Vari, tra i miei stessi ufficiali, di cui la fede era indubitata mi asserivano averla udita — E nella peripezia della pugna — _si diceva_: Ora in tali frangenti andatemi a cercare l'origine d'una notizia, che implica un nerissimo tradimento — Fratanto tale voce circolava fra i militi, e li sconfortava, — e tra loro si propagava colla velocità del lampo — Malvagia umana! io esclamerò — E quanti malvagi non vi sono da purgare in questa società Italiana, tanto corrotta dai preti, e dagli amici dei preti! — Una polizia di campo è indispensabile, in ogni corpo di milizia — E tra i volontari, tanta è la ripugnanza delle polizie — che sempre difficile riesce — od impossibile d'istituirla — Nel principio della notte del 3 Novembre — ci ritirammo sul passo di Correse[116], e passammo il resto della stessa sul territorio Romano, dentro e nei dintorni dell'osteria — Alcuni comandanti mi fecero sapere: che parte dei militi, erano disposti di non abbandonar le armi, e ritentare la fortuna — ma nella mattina io mi persuasi, che tali disposti, o non avean mai esistito — o più non esistevano — Nella mattina del 4 Novembre, si deposero le armi sul ponte — ed i militi disarmati passarono sul territorio non papale — Io devo una parola di lode al Generale Fabrizi, mio capo di Stato Maggiore e che lasciai incaricato per le ulteriori disposizioni del disarmo. Cotesto prode veterano dell'Indipendenza Italiana, comportossi colla solita bravura, sul campo di battaglia di Mentana — e spossato dalla fatica e dagli anni, fu trasportato in Monterotondo accompagnato da' militi — dopo d'aver animato colla parola e colla sua presenza, la gente nostra a far il dovere — Il collonnello Caravà, che comandava a Correse un reggimento Italiano — e che era stato ufficiale ai miei ordini in anteriori campagna — ebbe con noi un contegno veramente lodevole, in tutte le circostanze — Egli mi accolse, molto amichevolmente, fece per me e per i volontari quanto poteva — e mise ai miei ordini un convoglio della strada ferratta per recarmi a Firenze — Ma tali, non erano le disposizioni governative: Il deputato Crispi, ch'era con me nel convoglio, opinava: non esservi motivi ad arresto — Io ero di contraria opinione, conoscendo con chi avevo da fare — Conformandovi però all'avviso dell'amico — e non essendovi altro da fare — continai col convoglio verso la capitale — Nel viaggio le solite miserie governative: di carabinieri, bersaglieri, paure ecc. — viaggiando a tutta velocità — fui finalmente depositato all'antico mio domicilio del Varignano — da mi lasciarono poi tornare alla mia Caprera — QUINTO PERIODO 1870-1871. CAPITOLO I. Campagna di Francia. A chi ha la pazienza di leggermi — io accennerò una circostanza, che sembrerà straordinaria — ma che pure è verissima — e sulla quale preferisco lasciare i commenti al lettore — Ch'io non sia entrato nelle buone grazie della Monarchia Sabauda al mio arrivo in Italia dall'America nel 1848 — è cosa naturale — Ch'io abbia suscitato delle antipatie fra i suoi servitori, dal primo Ministro ai generali dell'esercito — e da questi agli ultimi uscieri — innestati all'esistenza del governo reggio — era pure conseguenza normale degli uomini e delle cose — Ciocchè non posso esattamente spiegarmi — si è: la sfavorevole accoglienza fattami da quegli uomini, che ponno chiamarsi giustamente, i luminari del moderno periodo di risorgimento nazionale, e che ne furono tanto benemeriti — come per esempio Mazzini, Manin, Guerrazzi, ed alcuni de' loro amici — La stessa sorte toccommi in Francia nel 1870 e 1871 — Eppure in Francia come in Italia, io ho trovato una simpatia entusiastica tra le popolazioni — certamente molto superiore al mio merito — Il governo della difesa nazionale, composto di tre onesti individui, e che meritavano la fiducia del paese — mi accolsero imposto dagli avvenimenti — ma con freddezza — Coll'intenzione manifesta — come certe volte m'era succeduto in Italia — di volersi servire del mio povero nome — ma non altro — ed in sostanza privandomi dei mezzi necessari, per cui la cooperazione mia poteva riuscir utile. Gambetta, Cremieux, Glais-Bisoin — individualmente furono con me gentili — ma, il primo più di tutti, su cui avrei dovuto aspettarmi — se no, sua simpatia individuale — almeno su d'un concorso attivo ed energico — mi lasciò in abbandono per un tempo prezioso — Nei primi di Settembre 1870 fu proclamato il governo provvisorio in Francia — ed io il 6 offrì i miei servigi a quel governo — che ebbe sempre vergogna di proclamarsi Republicano — Il governo Francese stette un mese, senza rispondermi — tempo prezioso, in cui si poteva far molto — e che fu perduto o pochissimo si fece — E qui giova ripetere: esser grande errore dei popoli, che rimangono padroni di loro stessi — come successe alla Francia ed alla Spagna in due settembre consecutivi — di non eleggere il governo di un solo Onesto col nome di Dittattore od altro — ma d'un solo! Non ricorrere ai governi molteplici, generalmente di dottori, che passano la maggior parte del tempo a deliberare, invece di agire celeremente, come esigono le urgenti circostanze — In Francia, anche peggio fecero — in luogo d'uno molteplice, ve ne furono due — E tutti conoscono il risultato del difettoso sistema — Invece, eletto un solo — quel desso — avrebbe probabilmente, identificato la sede del Governo col suo quartier generale — ciocchè in sostanza ebbero i Prussiani — e che diede loro tanto immenso vantaggio sui loro avversari — Ed in luogo d'una Babele, la Francia avrebbe avuto un governo forte — Solo in principio di ottobre, seppi che sarei accolto in Francia — ed il generale Bordone, a cui solo si deve la mia accettazione — venne a cercarmi in Caprera — col piroscafo la _Ville de Paris_ capitano Coudray — e collo stesso giunsi a Marsiglia il 7 ottobre 1870 — Esquiros prefetto dell'illustre città — e la popolazione entusiasmata, mi accolsero festosamente — ed ivi un telegramma del governo di Tours mi chiamava immediatamente presso dello stesso — Giunsi a Tours ove trovai Cremieux, e Glais-Bisoin, ambo uomini simpatici, e che credo onestissimi — non sufficienti però a sollevare la Francia dalla tremenda sventura, in cui l'avea precipitata il Buonaparte — Essi poi appartenevano ad un sistema di governo vizioso — in cui, anche colla capacità di fare il bene, non lo potevano — Gambetta giunto in pallone il giorno dopo — scosse alquanto l'inerte macchina governativa, la galvanizzò, improvvisò dei mezzi immensi; ma fu da meno lui stesso, delle circostanze, sia per il motivo del difettoso governo — per l'erronea disposizione di affidare il nascente esercito agli stessi uomini dell'impero, che avevano perduto il primo — sia per mancanza dell'esperienza necessaria in tali terribili frangenti. A Tours perdetti vari giorni, per l'indecisione del governo — e mi trovai sul punto di dovermene tornare a casa — perchè compresi: volersi, come già dissi, servirsi del mio povero nome — e non altro — L'incarico che si voleva darmi era quello di organizzare alcune centinaia di volontari Italiani che si trovavano a Chambery, ed a Marsiglia — Dopo varie controversie con cotesti Signori — mi recai finalmente a Dole per raccogliere quelli elementi d'ogni nazionalità, che dovevano servire di nucleo al futuro esercito dei Vosges — I Prussiani marciavano su Parigi — dopo Sedan — e naturalmente sul loro fianco sinistro — ove s'addensavano le nuove reclute della Francia essi dovevano tenere dei fiancheggiatori — e questi stessi fiancheggiatori comparvero alcune volte sino nei dintorni di Dole — ove tenevo i pochi uomini da me riuniti, in via d'organizzazione — poco equipaggiati e male armati per molto tempo. Il nostro contegno comunque fu energico — prendendo posizione a Mont Rolland prima e poi nella _foret de la Serre_ — dimodocchè Dole fu inviolato in tutto il tempo che noi vi soggiornammo — Marciando l'esercito nemico su Parigi, era naturale, si dovesse minacciare almeno la sua linea di operazione, dal Reno alla capitale della Francia — e tale necessità fu sentita dal governo della difesa — che inviava nei Vosges, la maggiore parte dei corpi dei Franchi-tiratori — ed il generale Cambriels, con una trentina di milla uomini, delle nuove leve dei mobili — alcuni battaglioni del vecchio esercito, e qualche pezzi d'artiglieria — Tutte quelle forze, furono respinte dai Vosges su Besançon, dal preponderante nemico, mentre ci trovavamo ancora a Dole — ed il prefetto Ordinaire di Besançon, mi telegrafò per due volte, acciò mi recassi da lui, per provvedere ai mezzi d'impedire lo sbandamento delle forze suddette — Il Sig. Ordinaire avea ideato di ragranellare sotto il mio comando tutte le frazioni di corpi esistenti nel dipartimento — ed io ero stato accolto da tutte quelle truppe e dalla popolazione di Besançon, collo stesso entusiasmo come se trovato mi fossi in Italia. Ma il Sig. Gambetta, giunto poco dopo, trovò bene di conciliare ogni cosa, e rimettere agli ordini del generale Cambriers, tutte le forze riunite dell'Est — Si osservi che il generale Cambriers, alegava: d'aver bisogno di riposo per curare una ferita alla testa, che assai lo incomodava — Da Dole, ebbi ordine in Novembre, di portarmi colla gente nel Morvan, minacciato dal nemico, e minacciato lo importante stabillimento metallurgico del Creusot — Io scelsi Autun per porvi il mio quartier generale — Ivi trovammo la popolazione alquanto intimorita per l'avvicinarsi dei Prussiani — per cui s'erano gettarti nel fiumicello Arroux, i soli due piccoli pezzi esistenti — L'arrivo degli Italiani di Tanara, quei di Ravelli, alcuni Spagnuoli greci e Pollacchi, ed alcuni battaglioni di mobili — cominciarono a rialzare un po' l'effettivo del nostro nucleo d'esercito — Con alcuni pezzi di montagna cominciò la nostra artiglieria — che furono seguiti, da due batterie da 4 rigate di campagna — Alcune guide a cavallo, composte per la maggiore parte d'Italiani, e che divennero due squadroni completti, verso la fine della campagna — così successe colla cavalleria di linea Francese che cominciò con un distaccamento di trenta uomini di cacciatori a cavallo — e verso il termine della guerra, s'acrebbe sino a un reggimento completto. Si organizzarono tre brigate: la prima comandata dal generale Bosak — la seconda dal colonnello Delpech, che poi passò sotto gli ordini del colonnello Lobbia — e la terza comandata da Menotti — Alcune compagnie di Franchi-tiratori — comandate: una dal Tenente Colonnello Odoline, altra dal T.te col.o Braün — una terza dal Tte Col.o Grouchy — la quarta dal Tte Col.o Loste — una quinta dal Maggiore Ordinaire — e tutte meno Braün, operando agli ordini di Menotti, e facendo parte della sua 3ª brigata — Tutte queste compagnie operarono durante l'organizzazione — come truppe attive tra le collonne del nemico che incomodavano assai — La 4ª brigata, sotto il comando di Ricciotti — si componeva da principio, di sole compagnie di Franchi-tiratori — operando in collonne volanti, come gli altri — e nell'ultimo della campagna la stessa quarta brigata venne accresciuta con alcuni battaglioni di mobilizzati — Capo di Stato maggiore dell'Esercito il generale Bordone — quest'uomo che più fece per la mia andata in Francia — e che tanto fu avversato — io lo credo tutt'altro che perfetto — e poco conosco dei suoi antecedenti — se non sia nella campagna del 60 nell'Italia meridionale, ove venne col bravo Deflotte — ed ove servì meritamente — Comunque, in onore del vero, io devo confessare ch'egli giovò sommamente all'organizzazione dell'esercito — all'acquisto di ogni cosa necessaria e ch'ebbe un contegno da prode sui campi di battaglia — Nello stato mio infermo — egli poi, supplì a me stesso in ogni circostanza — Come secondo capo di Stato Maggiore, il collonnello Lobbia fu pure molto utile — Mio capo del quartiere generale il collonnello Canzio — sinchè egli prese il comando della 5ª brigata, a cui agiunse la 1ª dopo la morte del generale Bosak. Canzio fu surrogato al comando del quartier generale dal Maggiore Fontana — Il comandante dell'artiglieria dell'esercito fu il collonnello Olivier — Il comandante Bondet, che chiamato all'esercito della Loire, vi morì — comandò il primo nostro distaccamento di trenta uomini di cavalleria — Il reggimento di cavalleria, alla fine della campagna, venne comandato dal maggiore d'uno squadrone d'Ussari, di cui non ricordo il nome. I due nostri squadroni di guide, furono organizzati dal comandante Parlatti — Il D.re Timoteo Riboli fu capo dell'ambulanza — Il sott'intendente Beaumés — servì da intendente sino all'arrivo d'uno di questi — il di cui nome non ricordo — Il pagatore fu il Collonnello Martinet — Capo del Telegrafo il collonnello Loir — Capo del genio — collonnello Gauklair — Comandante di piazza, presso il quartier generale il T.te Col.o Demay — Non ricordo il nome del presidente della corte marziale. Con tale organizzazione un po improvvisata, noi movemmo verso la metà di Novembre per Arnay le Duc, e la valle _de l'Ouche_ che scende a Dijon, ove si trovava l'esercito Prussiano di Werden, che minacciava la vallata del Rodano — e che teneva i suoi avamposti verso Dole, Nuits, Sombernon ecc. — taglieggiando con delle scorrerie, tutt'i paesi circonvicini — Il sedicente esercito dei Vosges, in numero dai sei agli agli otto milla uomini tutto compreso — marciava dunque contro l'esercito vittorioso di Werden di circa venti milla uomini, con molta artiglieria e cavalleria. Ebbero luogo alcune scaramuccie coi nostri Franchi-tiratori di poco conto — se si eccetua la brillante impresa di Ricciotti su _Chatillon sur Seine_ e quella di Ordinaire. Nella prima massime, i Franchi-tiratori della 4ª brigata, eseguirono una magnifica sorpresa — Essa è narrata nell'ordine del giorno seguente: ORDINE DEL GIORNO. I Franchi-tiratori dei Vosges, i cacciatori _de l'Isére_, i cacciatori delle Alpi (Savoiardi), il battaglione del Doubs, ed i cacciatori dell'Havre, che sotto la direzione di Ricciotti Garibaldi, han preso parte all'affare di Chatillon, hanno ben meritato della Republica. In numero di 400, essi assalirono circa 1000 uomini — li sconfissero, fecero loro 167 prigionieri tra cui 13 ufficiali — presero 82 cavalli sellati, 4 vetture d'armi e munizioni — ed il carro della posta — I nostri ebbero 6 morti e 12 feriti — più i nemici — Raccomando i prigionieri alla generosità Francese. Arnay le Duc 21 Novembre 1870 G. GARIBALDI Si può dire: che in generale tutti i nostri franchi-tiratori, diventavano ogni giorno, più temibili al nemico — Nella prima occupazione di Dijon per i Prussiani, mentre noi erimo ancora tra Dole, e la _forêt de la Serre_ — si tentò un'attacco di notte su quel nemico, pensando — come si diceva: esser la popolazione di Dijon, disposta a difendersi. E considerando lo stato, in cui si trovava la gente ch'io comandava — era veramente una temerità, la risoluzione nostra: voler andare a misurarsi con un nemico tanto superiore di numero — vincitore di tante battaglie, e quindi aguerritissimo — Ma si trovava — dicevano: la popolazione Digionese combattendo e noi andavamo volentieri a dividerne i pericoli — Già erimo a poche miglia della capitale di Borgogna — quando un messo della città ci anunziava: essersi Dijon arreso, e proibita la resistenza dalle autorità municipali — Retrocedemmo allora verso le nostre posizioni — Giunti circa alla metà di Novembre — ora — nulla ancora s'era da noi operato, tranne i nostri franchi-tiratori — e non mancavano alcune voci d'impazienza, tra i nostri, bramosi al solito di misurarsi col nemico — e forse alcuni lamenti sulla nostra inazione, da parte di coloro stessi che ci negavano i mezzi per un'azione energica — quindi qualche cosa conveniva fare — Misurarsi in un'attacco di giorno, contro l'esercito di Werden, che occupava Dijon — sarebbe stato stoltizia, e ve n'era proprio da non tornar più indietro — Si poteva fare una prova di notte — Di notte la diversità delle armi, spariva — Giacchè anche in Francia c'eran toccati i soliti ferracci — e questi, nelle tenebre, potevano sembrare i fucili ad ago, con cui erano armati i nemici nostri — Poi, io sono persuaso: che non si deve sparare in un'attacco di notte — massime da militi nuovi — Mentre il piccolo esercito dei Vosges — marciava verso Dijon per la vallata dell'Ouche — tutti i corpi di Franchi-tiratori nostri, per la maggior parte trovavansi sulla nostra sinistra, colla 1ª brigata — e convergevano tutti su di noi, per prender parte all'impresa — La mattina del 26 novembre, essendo io montato a cavallo a Lentenay, per riconoscerne l'altipiano — trovavomi collo Stato Maggiore e quartier generale su quelle alture — quando una collonna d'alcune migliaia di Prussiani, colle tre armi — uscita da Dijon, avanzavasi per la strada maestra verso noi — La posizione di Lentenay è formidabile, verso il fiume Ouche — Dalla parte dell'altipiano però, verso Paques, e Prenois, essa è complettamente dominata, e intenibile contro forze superiori — Io feci in conseguenza, salire da Lentenay, sull'altipiano, tutte le forze nostre, che si trovavan nel villagio, e collocarle a misura che arrivavano, nei loro posti di battaglia, destra e sinistra della strada per cui giungevano — e lasciando sulla stessa strada alcuni battaglioni in collonna, come riserve — e per una carica decisiva, in caso il nemico si spingesse sino nelle nostre linee — La maggior parte della 3ª Brigata, che formava il nerbo delle forze nostre — occupava la sinistra schierata nell'orlo del bosco, ed avendo le sue linee di tiratori in fronte, sul ciglione della collina, che dominava il bosco suddetto — Le riserve nella strada appartenevano pure alla 3ª Brigata. I carabinieri Genovesi, eran collocati all'estrema sinistra, e la nostra artiglieria, composta d'una batteria di campagna da 4 rigata, e da due batterie di montagna, si era collocata alla sinistra dei Genovesi — per esser la posizione dominante tutte le altre — Sulla nostra destra, eranvi i franchi-tiratori di Loste — che furono poi rinforzati da quei di Ricciotti e da altri — La poca cavalleria, formata da trenta cacciatori, e da alcune guide — s'era collocata in fronte del centro nostro, in una depressione del terreno — Si vede quindi: consistere la forza principale nostra, della 3ª brigata — formando da essa sola, centro, sinistra, e riserva — in tutto 3 milla uomini circa — E la sedicente 4ª brigata, tutta di franchi-tiratori — non contando più di 4 o 5 cento uomini in quel giorno — e che con tutti gli altri franchi-tiratori, potevano ascendere a circa due milla uomini — In tutto dunque non più di 5 milla — Nel combattimento di Lentenay — 26 Novembre 1870 non presero parte la 1ª e la 2a brigata — La 1ª impegnatasi nel giorno anteriore verso Fleury, — ed erasi in conseguenza di quella pugna, ritirata verso Pont de Pany — La 2ª era in marcia, ed arrivò il 27 a Lentenay — Il reggimento Ravelli della 3ª brigata composto d'italiani, era pure assente verso l'Ouche — 5º periodo 1870. CAPITOLO II. Combattimenti di Lentenay e Autun. La nostra linea di battaglia, sull'altipiano di Lentenay, nell'orlo del bosco, era quasi intieramente nascosta al nemico, che non poteva distinguere altro che i Franchi-tiratori di Loste, sulla nostra estrema destra — Ciò fu il motivo, forse, ch'esso mandò un battaglione ad occupare il villagio di Paques — vicino alla nostra sinistra, mentre il grosso delle sue forze, occupava Prénois — e si scorgeva in ordine di battaglia sulle alture di cotesto villaggio — Il battaglione inviato a Paques, sarebbe rimasto prigioniero, se avessimo avuto soltanto, cento uomini di cavalleria — Occupato Paques dal nemico, io feci avanzare due pezzi della nostra artiglieria, sostenuti da alcune linee di tiratori, che cacciarono, con pochi tiri, il nemico dal villagio — I Prussiani, mentre ciò succedeva, avean fatto gran mostra della loro forza schierandola pomposamente sulle dominanti alture di Prénois — Il loro battaglione si ritirò con precipitazione, e loro apena lo sostennero con alcuni pezzi — senza avanzare la superba linea — che stava in riserva — «Dunque essi non sono in gran forza» Ecco il ragionamento ch'io mi feci subito — «Non vengono» io dissi ancora: «ebbene noi andremo a trovarli» — Mi decisi quindi di attaccare, e marciammo risolutamente al nemico, colla stessa ordinanza di battaglia, con cui lo avevimo aspettatto nelle posizioni nostre — I nostri Franchi-tiratori di destra, caricarono la sinistra nemica bravamente, minacciando di avvolgerla. La 3ª brigata avanzava in ordine perfetto — colle sue linee di bersaglieri al fronte, seguite da collonne serrate di battaglioni — da destare invidia a' soldati più aguerriti — Io andavo superbo di comandare tale gente — e mi pavoneggiavo contemplando tale bell'ordinanza su d'un campo di battaglia senza ostacoli — e tanta intrepidezza da parte de' miei giovani fratelli d'arme. L'artiglierie nemiche collocate sulle alture di Prénois, fulminavano le nostre linee nel loro progresso — e fulminavano come sanno farlo i pezzi dei Prussiani — eppure non si scorgeva nei nostri la minima esitazione; veruna ondulazione nelle linee — ammirabile era il contegno dei nostri militi — L'energia, la fermezza, e la fredda bravura dei Republicani — scosse l'impassibile intrepidezza, dei superbi vincitori di Sedan; e quando essi si avvidero, che non si temevano le loro granate; ma si avanzava coraggiosamente, e celeremente alla carica, cominciarono la lor ritirata verso Dijon. La fronte del villagio di Prénois da noi assalita, aveva una strada che piegava a sinistra, nell'entrata del paese — per motivo d'esser questo situato su d'una eminenza — e quindi la strada a zig-zag — I nostri caricanti il villagio, ove si trovava ancora un battaglione nemico — non s'accorsero di tale sinuosità della strada — oppure non vollero occuparsene — e marciando direttamente, e velocemente sulle case — incontraronsi con un muro altissimo di un orto adiacente al paese — che molta difficoltà e perdita di tempo cagionò loro per superarlo — Una sola compagnia nostra fiancheggiò il villagio sulla destra, proteggendo la nostra poca cavalleria — e con questa caricarono, un battaglione di riserva Prussiano, che con due pezzi d'artiglieria, erano rimasti indietro per proteggere la ritirata — vi si distinsero in quella carica, il collonnello Canzio ed il Comandante Bondet, che ambi ebbero morti i cavalli — E la maggiore parte dei cavalieri perdettero pure i cavalli, morti o feriti — Duolmi non ricordare il nome del capitano della compagnia di fanti — ch'ebbero un contegno magnifico pure, in quella carica — L'alto muro che incontrò la nostra carica di fronte, e che tanta perdita di tempo cagionò — ed uno men alto, che trovavasi sul nostro attacco di fianco, a destra, furono la salvezza del nemico — senza dei quali, un battaglione Prussiano ed i due pezzi, cadevano certamente in nostro potere — Il combattimento del 26 Novembre, sull'altipiano di Lentenay non fu gran cosa per i risultati — ma per il contegno dei nostri militi — al cospetto degli aguerriti soldati della Prussia — esso fu brillantissimo — Dopo l'impegno dell'altipiano, il nemico, cessò ogni resistenza, e continuò la sua ritirata verso Dijon — noi sino a Dijon lo perseguimmo — Con circa cinque milla uomini, e deboli d'artiglieria attaccare il corpo di Werden, trincerato nella capitale della Borgogna, era temerità, lo confesso: e certo non mi sarei esposto di giorno ad un'impresa si formidabile — Ma tale era il concepito progetto: un colpo di mano! E poi erimo stati sì felici nella giornata! — E veramente, solo un disperato colpo di mano ben riuscito poteva rialzar la causa della sventurata Republica in quella parte della Francia — e forse obbligare il nemico, ad abbandonare l'assedio di Parigi minacciando sulla principale sua linea di comunicazioni! ¿Ma quali mezzi, avea posto in mia mano — il governo della difesa? Io rabbrividisco pensandovi! Lo spirito de' miei poveri militi, era stupendo — e tutti marciarono all'assalto della città con ammirabile slancio — Era molta presumere lo sperare una vittoria. Però, in una notte di Novembre, e piovosa, v'è molto tempo per ritirarsi, in caso di non riuscita — Ho già veduto il panico, impadronirsi di truppe numerose e aguerrite — e da quanto seppi poi dagli stessi abitanti di Dijon — in quella notte, vi fu molta confusione tra i vincitori di Buonaparte. La numerosa artiglieria corse per le contrade, quà e là, senza direzione, e finì per esser collocata in nessuna parte — La frazione _impedimenta_ del corpo d'esercito di Werden, benchè assai meglio regolata della Francese — non mancò di precipitarsi sulle vie di ritirata — Gli uni, col pretesto di salvar la cassa — altri col pretesto di salvar munizioni ecc. Il fatto sta vi fu confusione grande — Comunque, sia detto in onore della Germania: i numerosi corpi di fanteria, stanziati in Dijon, scaglionaronsi nelle forti posizioni di Talant, Pontaine, Hauteville, Daix ecc. — e ci ricevettero con una grandinata tale di fucilate — come non vidi l'uguale mai — e vi voleva qualche cosa più che intrepidezza, per presentare il muso a tale tempesta — I miei giovani militi, compirono quanto si poteva compiere in tale circostanza — I posti esterni dei Prussiani furono assaliti l'uno dopo l'altro, e distrutti ad onta di una fiera difesa — La mattina i nostri cadaveri trovavansi ammontichiati su quelli del nemico — la maggiore parte, forati di baionette — giacchè l'ordine era di non sparare — Giunti nel forte del vespaio sotto Talant — il fuoco nemico era troppo formidabile da poterlo superare, e si cominciò a ripiegare destra e sinistra della strada maestra — per scansare i tiri diretti, che la solcavano orribilmente — Il nostro assalto delle posizioni di Dijon, cominciò verso le 7 p.m. — era oscurissimo, e piovigginava — tutte circostanze molto favorevoli a tal genere d'imprese — Io, sino alle 10, ebbi molta fiducia di riuscire — i corpi nostri marciavano alacremente, e serrati quanto si poteva, l'uno dietro l'altro — sistema ch'io credo sempre preferibile negli attacchi di notte — a meno: che sia possibile inviare delle avvisaglie su altri punti dell'obbiettivo, per chiamarvi l'attenzione del nemico — E ciò mi era impossibile: considerando il piccolo numero delle nostre forze, e la natura del terreno — Verso le 10, i capi della mia vanguardia — mi fecero sapere: esser inutile il persistere nell'assalto, essendo spaventosa la resistenza del nemico, ed impossibile far più avanzare la gente nostra — che guadagnava la campagna lateralmente alla strada — Con reluttanza, mi conformai alle asserzioni de' miei fidi — e pensai subito alle sfavorevoli, e repugnanti circostanze d'una ritirata — Per fortuna era di notte, e di novembre — Il nemico non si mosse dalle sue posizioni, e potemmo eseguire la nostra ritirata indisturbati — Una ritirata, dopo un combattimento vittorioso, ed un'assalto fallitto — cioè camminando dalla mattina alle 10 di sera — per gente nuova come quella da me comandata — non poteva eseguirsi con ordine — massime che si era affamati e stanchi — quindi l'ordine di ritirarsi su Lentenay, fu inesattamente eseguito — Alcuni presero la via di Sombernon, Arnay le Duc — e sino ad Autun non si fermarono — La maggior parte però giunsero a Lentenay — ed essendovi già giunti in quel punto, un reggimento di mobili, il reggimento Ravelli, e la maggior parte della 2ª Brigata, ci trovammo ancora in numero da far qualche cosa — Il 27 di Novembre, i prussiani, dopo il meriggio, giunsero sulle alture di Lentenay, in numero più considerevole del giorno antecedente — ciocchè prova esser essi molto numerosi in Dijon — e che Werder avendoci respinti da quella capitale — voleva naturalmente profitare del suo vantaggio — Chi sostenne le prime scosse del nemico, furono i corpi nuovi — trovandosi spossati, quelli che avean combattutto tutto il giorno antecedente — Le forze Prussiane però, essendo imponenti, e la ritirata per i boschi, facile — non s'impegnò un combattimento serio — e si continuò la ritirata verso Autun — ove si sperava pure di riunire quella gente, che s'era ritirata per diverse vie — Fra le nostre perdite in quel fatto del 27 — se ne contò una ben sensibile: quella del comandante Chapeau, Marsigliese — un'eccellente e prode ufficiale — In certi casi, conviene agire coll'animale uomo, come si agisce coll'animale bue — Rompe! lasciatelo rompere, correre a sua voglia — Guai a voi, se commettette l'imprudenza d'attraversare la sua via — egli vi rovescierà cavalli e cavalieri — come mi successe a Vellettri nel 1849 — Ove salvai la mia pelle, nera di contusioni per un miracolo — Rompe! — lasciatelo rompere, fuggire, e contentatevi di tenervi su d'un fianco, o alla coda — egli troverà un'ostacolo — _non te ne incaricare_: lo fermerà un fiume, una montagna, la fame, la sete — od una nuova paura, più prossima o maggiore di quella che lo fece fuggire — Allora è tempo: riordina come puoi gli animali uomini — procura di trovar per loro da mangiare, da bere, e del riposo; e quando satulli, riposati e rialzati di morale — essi si ricorderanno d'una vergognosa fugga — di dovere calpestato — e di gloria! — La peggiore d'ogni pazzia umana! Meno la gloria, a cui credo, non pensano i bovi per fortuna nostra — succede lo stesso a cotesti bruti — Per esempio: guidati da più cavalieri, si spaventano per una qualunque causa: un tuono, un lampo, una bufera, od altro — e cominciano a correre, con quella velocità, di cui sono capaci animali selvaggi — Il savio conduttore, non è sì stupido di comandare ai suoi uomini, di fermarli attraversando loro la via — sarebbe rovina certa — Ma egli li seguita ponendosi su d'un fianco, o di dietro — e li seguita senza perderli di vista — sinchè un'ostacolo qualunque si presenti ai fuggenti: un fiume, un bosco, un monte — ed allora la testa di collonna si ferma, raggira — e tutto il resto raggira e si ferma — I bruti, sono ritornati sotto il dominio del loro tiranno, l'uomo — che non so: se più di loro valga — In quel punto ravveduto conduttore ordina ai suoi cavalieri, di circondare la truppa di bovi — ridivenuti docili come agnelli — In Autun concentraronsi quasi tutti i corpi ritiranti, del sedicente esercito dei Vosges — meno alcuni che corsero più lontani, per diversi motivi — Corpi intieri ed individui sbandati — certamente per nessuna voglia di combattere — Con questi ultimi, si trovava un collonnello Chenet, comandante della guerriglia d'Oriente che i preti collocarono tra i santi martiri, come S. Domenico, Arbuès, e simile canaglia — e più martire l'avrebbero fatto — s'io avessi lasciato eseguire la sentenza di morte contro lui — pronunziata dalla Corte marziale d'Autun — E Chenet, avea commesso tale militare delitto, tale codardia, da meritare cento volte la morte — A mezzogiorno, Chenet doveva esser fucilato, ed io lo graziai verso le 11 a.m. in seguito d'intercessione d'alcuni ufficiali — colla condizione però di publica degradazione — ch'io considero certamente, peggiore della morte — In Autun, quartier generale di predilezione, ove il prefetto Marais, ci avea benevolmente accolti — ed aiutati nella nostra organizzazione — In Autun, dico: si riformò l'esercito dei Vosges — e s'acrebbe massime di cannoni, di cui tanto abbisognava. Il 1º Decembre però il nemico imbaldanzito dalla nostra ritirata, ci cercò nelle nostre posizioni d'Autun, e ci comparve inaspettatto. Dico inaspettatto — e potrò anche dire ci sorprese — e non vi sarebbero certo, esagerazioni — Era verso la metà della giornata — ed io usciva come al solito, in carozza, per fare una passegiata — Ogni mattina si lanciavano, esploratori a cavallo in tutte le direzioni — e tutti i nostri posti verso il nemico erano occupati da forti distaccamenti — Io avevo visitato, in una mia prima passeggiata di mattino a buon ora — cotesti avamposti, m'ero assicurato della loro esistenza, ed avevo ammonito gli ufficiali di questi, di tener esatta vigilanza — Gli avamposti suddetti si componevano: della guerriglia d'Oriente comandata da Chenet — dalla guerriglia Marsigliese, comandata, dopo la morte di Chapeau, da un bravo ufficiale di cui non ricordo il nome — questa guerriglia giungeva al convento di S. Martino, centro dei nostri avamposti quando io ne partiva — e finalmente dal battaglione dei Bassi Pirenei alla sinistra, nel convento di S. Jean. Gli avamposti di destra erano collocati in un altro convento: S. Pierre (por la gracia di Dios!) Nella mia passeggiata di mezzogiorno — fidente d'aver i nostri avamposti ben custoditi — non mancai però di puntare il canochiale, dalle ruine d'un tempio di Giuno, Romano, che domina Autun — ov'ero salito — verso le pianure circostanti — Ma le mie osservazioni pare fossero troppo lontane, e nulla vidi — Nulla scoprendo, dal sito ov'ero disceso per osservare — tornai verso la carozza — ed i miei aiutanti — come al solito — mi sorreggevano gentilmente per ajutarmi a montare — Avevo un piede sul gradino della carozza, e stavo per sedermivi — quando l'occhio rivolto ad Autun, scorsi nel basso della città — nel borgo di S. Martino, una testa di collonna nemica, che s'avanzava lentamente — e se avesse continuato a progredire — certo la città d'Autun diventava facilissima preda dei Prussiani, e l'esercito dei Vosges; io arrossisco al rammentarlo, avrebbe subìto una di quelle sconfitte da far paura — «Subito» ai miei ajutanti a cavallo: «correte da Bordone, a Menotti, a tutti — che prendan le armi e si pugni» Io ero più schiacciato dalla vergogna, e dal dispetto — che dal timore — Dati gli ordini, la carozza con tutta sollecitudine, scendeva ad Autun — attraversava la città, e portavasi, con quanta celerità era possibile, al piccolo seminario, ove stava collocata la nostra artiglieria, in una piattaforma di cotesto stabilimento clericale — in posizione dominante — per fortuna — la collonna nemica — L'artiglieria nostra componevasi allora: in due batterie da quattro rigate di campagna — ed una di montagna — in tutto diciotto pezzi — Ma non v'erano artiglieri — Canzio e Basso, misero il primo pezzo in batteria — quei miei prodi, uno per ruota d'un pezzo, l'ebbero presto puntato all'obbiettivo — furon presto coadiuvati dagli altri miei ajutanti che giungevano successivamente, e finalmente dagli artiglieri rispettivi che precipitatisi fuori dei loro allogiamenti — si comportarono egregiamente — La sorte nostra — fu: non essere il nemico conscio dello stato di sorpresa in cui ci trovavamo — e dal silenzio e deserto ch'egli osservava dovunque, sospettò probabilmente alcuna imboscata — Che se in luogo di fermarsi colla sua testa di collonna a S. Martin — egli entra celeramente in Autun — certo, non trovava affatto resistenza — ed avrebbe sorpreso le genti nostre nei loro quartieri. I Prussiani invece collocarono le loro artiglierie sulle alture di S. Martin, e cominciarono a trarre contro le posizioni nostre — Da tale disposizione del nemico, noi fummo salvi — I nostri diciotto pezzi concentrati in posizione dominante quello del nemico — e serviti con ardore dai nostri giovani artiglieri, mortificati d'esser stati sorpresi, tempestarono di proietti l'avversario, e lo obligarono dopo varie ore di combattimento, a ritirare in dietro i suoi pezzi. Alcune compagnie di Franchi-tiratori, ed alcuni battaglioni di mobili, lanciati sul fianco sinistro dei Prussiani — complettarono la giornata ed il nemico fu obligato di ritirarsi — Le perdite più sensibili nostre furono quelle dell'artiglieria, tra ufficiali e soldati — e che ricordi un maggior Nizzardo — Guido — ferito ed amputato d'una coscia — I Franchi-tiratori, ebbero il solito valoroso contegno — I due reggimenti Italiani, furono tenuti in riserva nella città — e pochi presero parte all'azione — se non sia, i carabinieri Genovesi che marciarono al centro — e contribuirono valorosamente alla ritirata del nemico — Le tre posizioni di avamposti, che dovevano coprire il nostro piccolo esercito, e che non lo coprirono, in Autun, erano: S. Martin al centro, S. Jean a sinistra, e S. Pierre a destra — (anche i Francesi non burlano per abbondanza di santi, che sembrano, come a noi, poco atti a proteggerli) S. Jean era guarnito da un battaglione di mobili dei Bassi Pirenei — della 3ª brigata, che aveva tutte le simpatie di Menotti, e le mie — e che ne fu ben degno — sempre — e massime in tale circostanza — comportandosi valorosamente — ed imponendo rispetto al nemico — Alcuni distaccamenti di mobili, tennero pure a S. Pierre — Nel centro però la forte posizione di S. Martin, venne abbandonata dalle due guerriglie d'Oriente e Marsigliese, circa 700 uomini, per ordine e codardia del coll.o Chenet — e tale abbandono, pare: ebbe luogo prima dell'arrivo del nemico — per cui questo a suo bell'agio potè occupare l'importante posizione — Se questo non sia un tradimento per parte del suddetto collonnello — io non saprei trovarvi altro titolo — Comunque sia — e comunque, voglia egli giustificarsi — sostenuto dai clericali in Francia — la condotta di tale ufficiale — che senz'ordine abbandonò la più importante delle nostre posizioni, ponendo così l'esercito al rischio d'esser distrutto — e la città saccheggiata — conducendo nella sua fuga, il corpo che comandava — ed un altro corpo, che ubbidì alle sue insinuazioni per imperizia degli ufficiali — fuggendo in dietro per 40 o 50 Kilometri — è qualche cosa che non ha nome! qualche cosa, che non ricordo d'aver udito succeder giammai nella mia vita militare! Una colpa, che non ha castigo sufficiente per reprimerla! — Ebbene quel collonnello Chenet, ch'io ebbi la dabbenaggine di strappare alla morte — cui lo avea condannato la corte marziale — quel vigliaco dico: diventò il sommo eroe dei preti, e della chauvinerie — da cui poco mancò non venisse beatificato — e che ebbe dai giornali reazionari sperticate biografie, e lodi per l'azione la più scellerata del mondo — Tale è questo secolo civilizzato — la di cui base principale di civiltà, è la corruzione, e la menzogna! — Io non voglio terminar quest'articolo, senza ricordare il simpatico e coraggioso corrispondente del Daily News — il giovin Zicchitelli — Egli non combattè contro i Prussiani — no! la sua missione non era quella — ma mi servì stupendamente d'ajutante, nel tempo ch'ebbi la fortuna d'averlo in compagnia — Al combattimento di Lentenay, io passai varie ore a cavallo — e siccome non avevo cavalli propri — mi si era offerto un cavallo qualunque — Cotesto povero animale, al principio della pugna, non so per qual motivo, si lasciò andare sui quattro piedi, e stramazzò — ponendomi dolorosamente sotto, colla mia coscia sinistra — Grazie agli amici miei che mi attorniavano, fui subitamente tolto d'impaccio, e Zicchitelli che si trovava al mio fianco, mi offrì gentilmente, ed io accettai un eccellente suo cavallo bianco, che cavalcai il resto della giornata — Marais, sotto-prefetto d'Autun, è pure un nome che gli Italiani dell'esercito dei Vosges, ricorderanno, con amore e gratitudine — Quell'onesto Republicano — ci accolse con benevolenza e simpatia al nostro arrivo in Autun — e nel soggiorno nostro in quella città — mai egli cessò di esserci benevole — Il 1º Decembre in cui fummo attaccati dai Prussiani il sotto-prefetto Marais, lasciò la prefettura — e col suo fucile — presentossi valorosamente, in fronte dei combattenti, facendo la sua fucilata quale semplice gregario — 5º periodo. CAPITOLO III. 21, 22 e 23 gennaio 1871. La vittoria di Autun, rimontò il morale un po scosso dei nostri giovani militi — e quei Prussiani che ci avean respinti a Dijon — erano a loro volta da noi respinti, e cacciati in disordine — Un corpo fresco, benchè non numeroso — avrebbe bastato a precipitar la ritirata del nemico, e lo avrebbe obligato almeno di abbandonarci i suoi cannoni; e buon numero di prigionieri — Lo cercai invano — E ciò che noi non eseguimmo, fu operato dal generale Cremer — che trovandosi presso Beaune, con alcune migliaia d'uomini — buona truppa — varcò i monti da Beaune a Bligny — ed attaccando il nemico di fianco verso Vendenesse — lo mise in rotta completta — La maggiore parte di Decembre fu passata a Autun, in organizzazione di nuovi corpi, qualche artiglieria di più — ed alcuni squadroni di cavalleria — In aspettattiva sempre di capotti, indispensabili per la rigidità della stagione — ed altri oggetti di vestiario — e fucili per rimpiazzare il nostro vecchio e pessimo armamento — Il fatto d'armi d'Autun, acrebbe pure il prestigio del nostro piccolo corpo, e le popolazioni che furono salvate da quella vittoria ci benedicevano ed a gara c'inviavano, molti oggetti di lana per i nostri militi — e somme di denaro per i nostri feriti — A Autun, servimmo di cortina, e protezione, ai due movimenti di fianco, che si operarono da Chagny a Orleans, dal generale Crousat — e dal grande esercito della Loire, verso l'Est, comandato dal generale Bourbaki — Tutto il paese coperto di neve e ghiaccio, faceva ben penibili cotesti movimenti, e micidiali per cavalli ed uomini — In conseguenza del movimento del generale Bourbaki, i Prussiani abbandonarono Dijon, e noi l'occupammo con alcune compagnie di Franchi-tiratori — e l'avressimo occupato subito, con tutte le forze nostre, se i treni della strada ferrata non fossero stati impiegati al servizio del generale suddetto — Tra la fine di Decembre, ed il principio di Gennaio, la temperatura era divenuta rigidissima — la neve s'era consolidata in ghiaccio, ed il transito diventato difficilissimo, massime per cannoni, e cavalleria — I nemici, con truppe aguerrite — equipagiate di tutto punto — col prestigio della vittoria — e colla presunzione del soldato vincitore in paese straniero — ove si fa lecito — siccome facevano — non solo di spogliare di ogni vivanda e suppelletili i poveri abitanti — ma di cacciarli da letto per porvisi — I nemici dico: avevan molti vantaggi sugli inesperti soldati Francesi — di nuova formazione — e mancanti delle cose più necessarie — Il movimento del generale Bourbaki, ben ideato, era di difficile esecuzione, per i motivi accennati — e per tanti altri: particolarmente il pessimo congegno degli Intendenti — Un generale di cavalleria dell'esercito di Bourbaki, che passò ad Autun, colla sua divisione, e visitommi — mi assicurò esser quell'esercito, in uno stato ben deplorabile — «Io, mi disse: — posso far fare ai miei cavalli in marcia pochi kilometri — ma certamente, essi sono nella incapacità di combattere — e deteriorano ogni giorno —» Così succedeva ai cavalli dell'artiglieria, e dei treni — e così succedeva in ogni arma — e potevasi sin d'allora vaticinar sventure a cotesto esercito — Quel numeroso e giovane esercito — con quindici giorni più d'organizzazione e di riposo — passato il terribile periodo dei ghiacci di gennaio — avrebbe potuto ravvivare le speranze della Francia esausta e prostrata — Invece esso fu sprecato e distrutto d'un orribile modo — Il movimento di Manteuffell, parallello a quello di Bourbaki, per ingrossare le forze di Werden, e degli assediati a Belfort — mi era noto, e secondando il desiderio del governo, io avrei certamente fatto il possibile per arrestarlo nella sua marcia di fianco — Dio sa, quanto io ero dolente di non poter eseguire tale operazione — che tanto avrebbe giovato all'esercito dell'Est — Mi vi provai una volta — ed ero uscito di Dijon col nerbo delle mie forze — per attaccare il nemico a Is-sur-Till — lasciando al comando della città il generale Pelissier, con una quindicina di milla mobilizzati — Ma fui indotto dalle forti collonne nemiche, che mi stavano a fronte — di ripigliare le primitive posizioni — Comunque, due delle mie quattro brigate: la seconda e la quarta, operavano sulle comunicazioni del nemico — congiuntamente a tutte le compagnie dei miei Franchi-tiratori — Deciso di difendere Dijon, la mia prima cura fu di continuare le opere di fortificazione — che già erano state cominciate dai Prussiani, e dal generale Pelissier — Le posizioni di Talant e Fontaine, che dominano la strada principale che va a Parigi — e che sono nello stesso tempo, le più eminenti, ed importanti, a due kilometri a ponente della città — furono le prime ad esser coronate da alcune opere volanti — e vi si collocò: a Talant due batterie di campagna da 12, e due da 4 — e nella seconda una battaria da 4 rigata di campagna, ed una di montagna dello stesso calibro — Alcune batterie da 12, che il governo mandava successivamente al generale Pelissier — si collocavano in altre opere, innalzate a Montmuzard, Mont Chapé — a Bellain — e nelle altre posizioni, le più indicate nella cinta di Dijon — per tener lontani i fuochi del nemico dalla città — in caso di un attacco; ciocchè si doveva aspettare da un giorno all'altro — Nella guerra — domina Signora la Fortuna — e fummo veramente favoriti da essa — attacandoci il nemico nel 21 Gennaio dalla parte di ponente — e si può dire: ch'egli attaccò il toro per le corna — Studiato, da noi il terreno, acuratamente, da quella parte, con forti posizioni coperte di muri e ripe, per linee di tiratori — destra e sinistra della strada maestra — e con 36 pezzi di artiglieria, collocati sulle formidabili posizioni di Talant e Fontaine — che dominano tutto — la nostra difesa riuscì brillante — E ve n'era ben donde: poichè la formidabile collonna che ci venne dalla strada di Parigi — poteva ben chiamarsi: collonna d'acciaio! — Ed appena furono bastanti i nostri 36 pezzi, infilanti la strada — e varie migliaia dei nostri migliori distesi dietro ripari — per fermarla — Accertato l'attacco da quella parte, vi si concentrò buon nerbo delle nostre truppe — senza il bisogno di sguarnire il settentrione, e la parte da levante, della cinta di difesa — ov'io supposi sempre, che vi sarebbe il principale attaco — e da ponente — solo un'attacco finto — Non fu così: l'attacco fu da ponente — per sorte nostra — e solo da quella parte — con attacchi simultanei però di corpi fiancheggiatori, alla sinistra del nemico, verso Hauteville e Daix — e per la sua destra, verso Plombière nella vallata dell'Ouche — L'attacco fu formidabile: io vidi in quel giorno soldati nemici — come mai avevo veduto migliori — La collonna che marciava sulle nostre posizioni del centro, era ammirabile di valore e di sangue freddo — Essa ci giungeva sopra compatta come un nembo — a passo non celere, ma con una uniformità — un ordine, ed una pacatezza spaventevoli — Quella collonna battutta da tutte le nostre artiglierie in infilata, e da tutte le linee di fanteria in avanti di Talant e Fontaine, lateralmente alla strada, lasciò il campo coperto di cadaveri — e per varie volte riordinandosi nelle depressioni del terreno, essa ripigliava il suo contegno ed il suo progresso — collo stesso ordine e pacatezza — Eran famosi soldati! — Un solo istante furono i nostri sconcertati da un terribile attacco di fianco sulla destra nostra dalla parte di Daix, che ci costò un buon numero di prodi — questi, respinti i nemici, sin dentro un cimitero del villagio — si vedevano arrampicarsi per il muro e stringersi alle baionette Prussiane per strapparle — Sulla nostra sinistra invece il nemico era avvilupato da forti linee di tiratori nostri a martello — e minacciato d'aver tagliata la sua destra di Plombieres — Cotesta destra nemica fu pure assalita a fucilate dalle genti del collonnello Pelletier, e franchi tiratori di Braün, che scese da Bellair sulla valle dell'Ouche — l'obligaron a precipitosa ritirata — Così durò la battaglia dalla mattina sino al tramonto — con quanto accanimento fosse possibile, da una parte e dall'altra — e senza un vantaggio marcato da nessuno — Al tramonto noi erimo padroni delle posizioni tenute nella giornata ed il nemico stava sulle sue — Ma qui successe ciocche ho veduto succedere in altre simili circostanze, tra truppe nuove, e soldati aguerriti — questi stanno agli ordini — e gli altri col pretesto delle munizioni, della fame della sete od altro — cercano di lasciar i loro posti, per andare a rifocilarsi — oppure a raccontare le glorie della giornata — E ciò succede particolarmente se vicini ad una città — Io non cesserò quindi di raccomandare ai miei giovani concittadini, la maggior costanza e pertinacia nei combattimenti[117] — A misura che giungevano le tenebre della notte, i nostri militi, che avrebbero potuto molto bene tener le posizioni, sì valorosamente difese nella giornata — con un pretesto o coll'altro — ritiravansi verso la città, e s'agglomeravano sullo stradale sotto Talant — Dimodocche vi formarono una confusione, da non potersi più intendere — ne dare, ne ricevere ordini — ed io stesso che discendevo da Talant — ov'ero in tutta la durata della pugna — mi trovai ingombrato in una folla densissima da non poter più governare il mio cavallo — Il nemico all'incontro più astutto ed aguerrito, esplorando le posizioni nostre avanzate, e trovandole sgombre, venne avanti — e ci fulminò con orrenda scarica, mentre ci trovavamo nella confusione suddetta — e per fortuna ci trovavamo in una depressione di terreno — e fra il nemico e noi, una marcata eminenza — per cui le palle passarono per la maggior parte sulla testa — E lì, la folla mi spinse sì brutalmete — che poco mancai di andar gambe all'aria col mio cavallo — La ritirata dei nostri posti avanzati — ed il procedere avanti del nemico mi fecero passare una brutta nottatta — peggiorata poi assai dalla circostanza seguente — Eran le 11 p.m. Io m'ero sdraiato — stanchissimo — sul mio lettuccio nella prefettura di Dijon — quando una comitiva, composta: dal generale Pelissier — dal Maire della città — parte del consiglio municipale, e della magistratura — venne a parteciparmi: che il nemico era in dentro delle nostre linee — in possesso di Talant, e forse di Fontaine — e che un colonnello nemico — per parte del generale, comandante le forze Prussiane — avea significato ad un magistrato, lì presente: che se all'alba Dijon non capitolava — egli l'avrebbe bombardata — A 64 anni — ed avendo veduto un po di mondo — non è poi tanto facile d'esser corbellati — ed io concepï all'istante: esser una corbelleria del generale nemico, innalzato alle rodomontate dalle strepitose vittorie degli eserciti Prussiani — Comunque, tale notizia comunicatami da persone autorevoli, non era da disprezzare — Giacchè il magistrato presente che la comunicava — era uscito verso il campo di battaglia, la sera, in cerca d'un figlio che temeva ferito — e là s'era incontratto col collonnello Prussiano suddetto — Fu quindi terminato il mio riposo — e diedi ordine di attaccare subito i cavalli alla mia carozza — dando quante disposizioni mi furono possibili, per l'invio di esploratori, alla rettificazione dell'annunzio — Le vie erano cristallizzate dal ghiaccio, e nevicava — per un invalido come son'io era ardua l'impresa di riccorrere gli avamposti — Ma non v'era altra via. Come si poteva rimanere in casa a tale notizia — colla gente spossata, e con un nemico sì intraprendente e valoroso? — Dopo d'aver ordinato, un buon nucleo della miglior gente — ciocchè abbisognò di varie ore — e d'aver comandato, che tutti si trovassero pronti a combattere prima di giorno — io m'incamminai nelle prime ore antimeridiane, verso Montchappé, prima delle nostre posizioni verso il nemico — ove eran collocati due pezzi da 12, protetti da un battaglione di mobilizzati — Nulla trovai di nuovo in quel punto — e tutto in buon'ordine — Mi recai in seguito a Fontaine — e finalmente a Talant, ove nessuna traccia si trovò del nemico — Era stata una mera Gradassata dei Prussiani la minaccia del bombardamento — ed invece nel giorno 22 non fummo bombardati da loro — ma verso sera, ebbimo la fortuna — dopo un'altra giornata di combattimento — di cacciarli dalle posizioni occupate la vigilia e metterli in fuga — Pertinaccia e costanza nelle battaglie: Ecco una delle chiavi della vittoria! «Ma la gente è stanca — siamo stanchi ed affamati! Sì! ebbene, andate in cerca di cibo e riposo — Il nemico verrà avanti — vi mangierà i viveri raccolti, e riposo... ve lo darà col calcio del fucile» — Pertinaccia, costanza, e vigilanza sopratutto — questo poi, mai è abbastanza — quanti generali si conoscono fra gli odierni — che per esser generali, generalissimi, o più alti ancora, credono d'essere dispensati d'assistere da vicino, nelle battaglie — e si contentano da lontano, di ricevere delle informazioni, e dare degli ordini ai comandanti di corpi loro subordinati — Errore! Il comandante supremo — senza esporsi inutilmente — deve assistere tanto vicino che possibile, al centro od obbiettivo del campo di battaglia — In alto — ove lo possa, da poter scoprire più terreno — e da imprimere una preziosa celerità: agli ordini inviati, ed alle informazioni da ricevere — Il colpo d'occhio dell'uomo che deve dirigere — poi — vale sempre assai più delle informazioni — Il 22 Gennaio 1871 — provò: che se noi erimo stanchi della battaglia del 21 — i Prussiani eran più stanchi, e più sgangherati di noi — poichè valorosi ed intrepidi come s'erano mostrati nel primo giorno — lo furono ancora nel secondo — ma tennero meno — e ciò mi fece sperare: che nel 23, avressimo tempo di riposare dalle fatiche dei due giorni antecedenti — Il 22 Gennaio perdevamo tra gli altri, un'ufficiale di molto merito — il comandante Loste, dei franchi-tiratori riuniti — corpo dagli ottocento e tanti uomini — che molto contribuì a respingere il nemico, attaccandolo vigorosamente sul fianco destro nel giorno antecedente, e che coadjuvò molto alla vittoria del 22 — Egli fu sorrogato nel comando di quel bravo corpo — dal Ten. collonnello Baghino ufficiale di belle speranze — La _valanga_ dei Prussiani (per servirmi del moto d'un mio ufficiale di merito) era sì grande — che fummo minacciati d'esser sepolti anche nel giorno 23 — Essi verso la metà della giornata, ci minacciarono d'un attacco su Fontaine — e v'inviarono alcuni battaglioni — fingendovi un'assalto — ma subito dopo comparvero a settentrione sullo stradale di Langre — in dense collonne, e con collonne di fiancheggiatori, da levante verso Montmuzard, e S.t Apollinaire — L'attacco sulla via di Langre fu formidabile, e degno del terribile esercito che ci stava di fronte — quasi tutti i nostri corpi piegavano — meno la 4ª brigata che si sostenne in una fabrica di nero animale, munita per fortuna d'un chiuso, ove s'erano praticate delle feritoje — alla sinistra della strada. Alcune centinaia di militi, della 5ª brigata, in formazione, e decimata nel combattimento del 21 — sostennero pure l'urto, in uno stabilimento contiguo indietro, e si riunirono poi alla quarta — Questi corpi, rimasero per un pezzo, avvilupati dal nemico, per la ritirata dell'ala destra nostra — Avendo il nemico collocato le sue artiglierie, sulla prima collina che domina Pouilly e Dijon, a tramontana — e tirando con quella maestria a cui ci aveano assuefatto i Prussiani — ci smontarono in poco tempo tutti i nostri pezzi del centro collocato sullo stradale, e lateralmente — sostenendo alcun tiro da parte nostra, 2 pezzi di Montmuzard, 2 del Montchappé ed altri due che si collocarono su d'una strada obliqua allo stradale, e sulla destra dello stesso — quando si vide l'impossibilità di tenerli nella prima posizione — fulminata dalle artiglierie nemiche — Verso il tramonto, la nostra situazione era critica, ed i Prussiani padroni del campo — minacciavano d'assaltare la città — Ai nostri corpi ritirati si procurava di assegnare posizioni indietro presso la stessa cinta — ove vi sono buona mano di recinti, ed alcuni muniti di feritoie — Alcuni codardi disertati dai loro posti — o che avevano moneta da metter in salvo, già avean sparso l'allarme in città — e lo spavento dovunque, sollecitando treni alla stazione della ferrovia per esser trasportati in salvo, presto — La nostra estrema sinistra formata per la maggior parte della 3ª brigata — e situata a Talant, e Fontaine — alla vista della ritirata del centro — aveva spinto i suoi franchi-tiratori sulla destra nemica — e marciava risolutamente per sostenerlo — e sull'imbrunire alcuni corpi di mobilizzati sulla destra nostra — spingendosi energicamente su Pouilly — obbiettivo principale del campo di battaglia — ricacciarono il nemico dal terreno conquistato, e lo respinsero sino al di là di quel castello[118] — In tal modo, la 4ª brigata, cui si doveva il primo onore della pugna, venne rischiarata dal nembo nemico, che l'avea avvolta per un pezzo — e nel respingere i reiterati assalti del 61 reggimento Prussiano, e combattendo corpo a corpo — essa pervenne a toglierli la bandiera — lasciata sepolta sotto un monte di cadaveri — Io ho già veduto alcune pugne ben micidiali — e certamente ho contemplato poche volte, sì gran numero di cadaveri, ammotichiati su piccolo spazio, a tramontana dell'edifizio suddetto — come vidi in quella posizione, occupata dalla 4ª brigata, e da parte della 5ª — Narrando della 4ª e 5ª brigate, opposte ad un reggimento Prussiano — non si creda: fossero esse brigate complette — ma nuclei di brigate in formazione esse erano; contando la 4ª circa mille uomini — e meno di 300 la 5ª. Nelle prime ore della notte, il nemico era in piena ritirata — e per vari giorni, ci lasciò tranquilli in Dijon — Sgombrò pure i villagi circostanti che noi occupammo — La maggiore parte dei nostri Franchi-tiratori, che onorevolmente, avean partecipato ai tre giorni di pugna, furono nuovamente lanciati su tutte le direzioni verso le comunicazioni del nemico — da Sombernon a Dole ecc. — E la 2ª brigata staccata dal corpo principale da più giorni, guerreggiava splendidamente a tramontana nei dintorni di Langre — Io non darò termine alla narrazione della gloriosa battaglia di Dijon, senza un ricordo al mio diletto amico e valorosissimo fratello d'armi, il generale Bosak — Cotesto eroe della Polonia, m'avvisò nella mattina del 21 Gennaio — che siccome correvano voci dell'approssimarsi dei Prussiani venendo da val Suzon — egli stesso pensava di scoprirli — Alla testa di pochi uomini, egli s'avanzò verso il nemico, per riconoscerlo e riconoscerne il numero — Ma spinto da indomito coraggio — egli freddamente s'impegnò nella vanguardia nemica, e volle assicurarsi se stesso di quanto occorreva, per dare un esatto raguaglio — e s'impegnò talmente, che sdegnando di fuggire — egli cade vittima della sua bravura — Io stetti molti giorni senza saper di lui — e si credette, che fosse rimasto ferito in qualche casa di campagna — Anzi, allo Stato Maggiore si conosceva la preziosa perdita — e mi si nascondeva per delicatezza — Io confido: quando la Francia abbia un governo migliore — essa adotterà, ne sono certo, gli orfani del prodissimo Bosak che morì per essa — 5º periodo. CAPITOLO IV. 1871 — Ritirata — Bordeux — Caprera. Le notizie dell'armistizio prima — della capitolazione di Parigi poi, e finalmente l'emigrazione dell'esercito di Bourbaki in Svizzera — cambiarono l'aspetto delle cose — ed un certo panico, ed incertezze, s'impadronirono delle popolazioni, che avean sperato in un miglioramento nelle condizioni della Francia, coi vantaggi da noi ottenuti — Nella maggior parte l'effetto fu favorevole — sperando prossimo il termine di quella terribile guerra — Come m'era successo sempre in Italia — approssimandosi la fine, il governo della difesa largheggiava per noi, in mezzi d'ogni specie, ed in accrescimento di forze d'ogni arma — Il nostro piccolo esercito, coll'agregazione d'una quindicina di milla uomini dei mobilizzati del generale Pelissier, ascendeva a circa 40 milla — Comunque, il nemico libero di Parigi, e dell'esercito dell'Est passato in Svizzera; cominciava ad ammassare su di noi, forze imponenti — e malgrado tutte le opere di difesa da noi eseguite, e l'aumentazione nostra numerica — esso avrebbe finito per schiacciarci, od attorniarci come avea fatto degli eserciti Francesi — a Metz, a Sedan, ed a Parigi — I Prussiani coi loro strepitosi vantaggi, facean naturalmente la parte del lupo — e mentre avea luogo l'armistizio a Parigi, ed in tutta la Francia, per noi non era valevole — Una delimitazione poi, male accennata, che diceva di traversare la Borgogna — spiegava malissimo il terreno neutro, tra le linee nemiche, e le nostre — ma ci cacciava in ogni modo da Dijon, e da tutte le posizioni occupate sin'ora — rigettandoci verso ostro — Facendo, ripeto: la parte del lupo — il nemico insolentiva, a misura che riceva rinforzi — ed ogni giorno li riceveva considerevoli — E con uno od altro pretesto, egli tentò varie volte di avviluppare i nostri avamposti e farli prigionieri — A ciò non riuscì però, avendo da fare con gente che di lui non si fidava — Per ordine del governo di Bordeaux, dovevasi trattare coi Prussiani, per armistizio delimitazione ecc. — ed il generale Bordone, capo di Stato Maggiore, recossi varie volte nel campo nemico a tale oggetto — Siccome dissi però: il risultato della sua missione fu: che per noi non v'era armistizio — Dal 23 Gennaio al 1º Febbraio, si tenne come si potè nella capitale della Borgogna — in tutte le nostre posizioni — contro l'incalzante avversario — Esso, certamente, colle lezioni ricevute nei tre giorni di combattimento — capiva che non bastavano poche forze per scuoterci — e ne accumulava — alla sordina sì — ma molte — e verso la fine di Gennaio, le sue collonne occupavano in forza la nostra fronte, e cominciavano a stendersi per avvilupare i fianchi nostri — l'esercito di Manteuffell libero dal nostro dell'Est, scendeva verso la vallata del Rodano, e minacciava la nostra linea di ritirata — Il 31 Gennaio si cominciò a combattere, verso la sinistra nostra — dalla mattina, e si continuò sino a notte avanzata — Il nemico ci tastava su vari punti, prendendo posizioni al di fuori di Dijon, per un'attacco generale — Alcuni corpi Prussiani, mostravansi nella valle della Saone, minacciando di prenderci a rovescio per la nostra destra — Non v'era tempo da perdere — Noi erimo l'ultimo boccone, che avidamente solletticava il grande esercito vincitore della Francia — e senza dubbio esso voleva farci pagare la temerità d'aver contestato per un momento la vittoria — Si ordinò la ritirata su tre collonne: La prima brigata — comandata da Canzio dopo la morte del generale Bosak — a cui s'era agregata la 5ª doveva scendere parallellamente alla strada ferrata di Lione — proteggendo l'artiglieria pesante e tutto il nostro materiale che marciavano in vagoni — La 3ª brigata con Menotti s'incamminò nella vallata dell'Ouche, verso Autun — La 4ª prese la via di S. Jean de Losne, per la sponda destra della Saone verso Verdun — Il quartier generale, marciò in via ferrata — e fu fissato a Chagny, punto centrale della riunione dell'esercito — e vari altri corpi, e compagnie di Franchi-tiratori distaccati dalle brigate si diressero pure sulla nuova base — Tutto fu eseguito col miglior ordine possibile grazie all'attività del capo di stato maggiore, del comandante generale d'artiglieria collonnello Olivier — e dei comandanti dei corpi in generale — senza esser molestati dal nemico — e con minor confusione, di ciò che si poteva aspettare da truppe nuove, in una ritirata notturna — La ritirata ebbe luogo nella notte del 31 Gennaio al 1º Febbraio — ed il nemico occupò Dijon, verso le 8 a.m. del 1º — Da Chagny il quartier generale passò a Chalons-sur-Saone — poi a Courcelles, in un castello nelle vicinanze di quella città. La capitolazione di Parigi, essendo un fatto compiuto, e l'armistizio ridottosi a preliminari di pace — io eletto fra i deputati all'assemblea nell'8 febbraio, decisi di recarmi a Bordeaux, ove quella doveva riunirsi, coll'unico intento di portare il mio voto all'infelice Republica — e lasciai Menotti provisoriamente al comando dell'esercito — Tutti sanno, com'io fui ricevuto dalla maggioranza dei deputati all'assemblea — e certo di nulla più potere per lo sventurato paese ch'ero venuto a servire nella sciagura — mi decisi di recarmi a Marsiglia, e di là a Caprera, ove giunsi il 16 Febbraio 1871 — L'esercito dei Vosges, composto di elementi troppo Republicani, dovea naturalmente godere dell'antipatia del governo di Thiers — e fu sciolto — _Civitavecchia 15 Luglio 1875._ APPENDICE ALLE MIE MEMORIE La battaglia di Custoza, di cui ho la pianta qui presente — somiglia a tutte le battaglie antiche, e moderne ove il genio ha prevalso da una parte — Da Epaminondas — alle battaglie di Leuctro e di Mantinea — sino ai generali prussiani del 70 — la regola delle battaglie oblique è stato incontestabile ed ha prodotto vittorie sempre — A Rosbach Federico secondo — con tutta la massa delle sue forze — e colla celerità delle sue manovre prendeva l'esercito Francese di Fianco, e lo schiacciava — A Mantova Napoleone 1º sentendo gli Austriaci che scendevano dalle due sponde del Garda — abbandonava le sue grosse artiglierie — e marciava con tutto il suo esercito a battere seperatamente i due corpi nemici rifiutando una delle sue ale — In America il generale Paz — sapendo il generale Echague, schierato in battaglia dietro un cappao (isola d'alberi) — presentò al nemico una linea parallella — coll'ordine però di rifiutare la destra e rinforzare la sinistra — In tal modo: la sinistra d'Echague, trovò soltanto pochi squadroni di cavalleria alla destra del nemico, che si ritirarono al galoppo — Intanto la sinistra di Paz rinforzata dalle migliori truppe, sconfisse la destra nemica ed ottenne così una splendida vittoria — A me duole di dover fare l'elogio d'un generale Austriaco — comunque ad edificazione della gioventù nostra — che avrà forse bisogno ancora di combattere soldati stranieri — io devo narrare il vero — l'Arciduca Alberto fu il solo e vero generale della battaglia di Custoza — Profitando dell'errore commesso dai nostri — di passare il Mincio sulla grande estensione da Mantova a Peschiera — egli, simulò attacchi sulla destra nostra, e sul centro, e massando i suoi tre corpi d'esercito sulla nostra sinistra — egli schiacciò cogli ottanta milla uomini che comandava, il solo corpo di Durando — I nostri corpi del centro e della destra — divertiti con alcune finte cariche di cavaleria — seppero tardi la sconfitta della nostra sinistra — e conseguentemente agli errori commessi sino dal principio della campagna — sei o sette brillanti divisioni si ritirarono mordendosi le labbra per non poter combattere. Ho detto errori commessi sino dal principio della campagna — e fu veramente così — ¿Perchè dividere l'esercito in due? — Errore condannato in ogni tempo — Forse per compiacere il brillante generale Cialdini — che ripugnava di ubbidire al generale Lamarmora capo di stato maggiore? — ¿Non bastava una divisione per minacciare il passaggio del Po — senza impiegarvi 90 milla uomini delle migliori truppe — che, ad altro non servirono, che a dar un impronta vergognosa di ritirata al nostro prode esercito — E narro del nostro prode esercito con orgoglio — Duolmi veramente: manchino a noi quei superbi generali Govone, Bixio, Cuggia, Sirtori, che tanto oprarono in quella giornata — alla testa di quei valorosissimi nostri militi — e che se fossero stati sostenuti come si doveva — avrebbero glorificato quel campo di battaglia con inni di trionfo — Ecco dunque, giovani ufficiali — che forse dovrete ancora affrontare prepontanti[119] sui campi di battaglia — Ecco gli errori commessi dai nostri: Tutto il corpo di Cucchiari, tre divisioni, la divisione Bixio, la divisione Umberto, la divisione Pianell, e la divisione Cosenz — cioè sette divisioni — non entrano in battaglia — mentre i tre corpi d'esercito nemici, combattono la nostra sinistra e la schiacciano — Tuttociò è dovuto alla sagacia del generale nemico — Di più delle sette divisioni non impegnate — oltre a trenta batterie della riserva, rimasero inattive, e si ritirarono senza fare un tiro! — Tutte coteste forze intatte — bastavano da sole se impiegate a tempo — per sbaragliare un nemico scosso e disordinato da una giornata di battaglia — INDICE Avvertenze _Pag._ VII Prefazione alle mie Memorie » 1 PRIMO PERIODO CAPITOLO I. — I miei genitori _Pag._ 7 » II. — I miei primi anni » 9 » III. — I miei primi viaggi » 11 » IV. — Altri viaggi » 13 » V. — Rossetti » 16 » VI. — Corsaro » 17 » VII. — » 21 » VIII. — » 23 » IX. — » 26 » X. — Luigi Carniglia » 29 » XI. — Prigioniero » 30 » XII. — Libero » 33 » XIII. — Ancora Corsaro » 36 » XIV. — Quattordici contro cento e cinquanta » 40 » XV. — Spedizione di Santa Caterina » 44 » XVI. — Naufragio » 46 » XVII. — Assalto e presa della Laguna di Santa Catterina » 50 » XVIII. — Innamorato » 52 » XIX. — Ancora Corsaro » 54 » XX. — Ritirata » 57 » XXI. — Combattimento ed incendio » 59 » XXII. — Vita militare per terra — Vittoria e sconfitta » 61 » XXIII. — Ritorno in Lages » 66 » XXIV. — Soggiorno in Lages — Discesa della Serra — e combattimento » 68 » XXV. — Combattimento di fanteria » 72 » XXVI. — Spedizione del Nord » 78 » XXVII. — Invernata e preparazione di canoe » 80 » XXVIII. — Ritirata disastrosa per la Serra » 83 » XXIX. — Montevideo » 89 » XXX. — Comando la squadra di Montevideo — combattimenti nei fiumi » 91 » XXXI. — Combattimento di due giorni con Brown » 96 » XXXII. — Ritirata su Corrientes — Battaglia del Arroyo-grande » 104 » XXXIII. — Preparativi di resistenza » 108 » XXXIV. — Principio dell'assedio di Montevideo » 111 » XXXV. — Primi fatti della Legione Italiana » 113 » XXXVI. — Flottiglia — Fatti di questa » 115 » XXXVII. — Pugne brillanti della Legione Italiana » 119 » XXXVIII. — Spedizione del Salto » 123 » XXXIX. — Il Matrero » 126 » XL. — Jaguary » 130 » XLI. — Spedizione a Gualeguaychù — Hervidero — Anzani » 132 » XLII. — Arrivo al Salto — Vittoria del Tapeby » 138 » XLIII. — Arrivo d'Urquiza » 142 » XLIV. — Assediati nel Salto da Lamas e Vergara » 145 » XLV. — S. Antonio » 147 » XLVI. — Rivoluzione a Montevideo e Corrientes — Combattimento del Dayman (20 Maggio 1846) » 154 » XLVII. — Alcuni morti e feriti della Legione » 163 » XLVIII. — Ritorno a Montevideo » 165 SECONDO PERIODO CAPITOLO I. — Viaggio in Italia _Pag._ 169 » II. — A Milano » 174 » III. — A Como, Sesto Calende, Castelletto » 178 » IV. — Ritorno in Lombardia » 180 » V. — Inazione, e tedio » 187 » VI. — Nello Stato Romano, ed arrivo in Roma » 195 » VII. — Proclamazione della Repubblica, e marcia su Roma » 202 » VIII. — Difesa di Roma » 205 » IX. — Ritirata » 218 » X. — Esiglio » 238 » XI. — Ritorno alla vita politica » 250 » XII. — Nell'Italia Centrale » 286 TERZO PERIODO CAPITOLO I. — Campagna di Sicilia — Maggio 1860 _Pag._ 301 » II. — Il cinque Maggio » 307 » III. — Da Quarto a Marsala » 308 » IV. — Calatafimi — 15 Maggio 1860 » 313 » V. — Da Calatafimi a Palermo » 319 » VI. — Rosolino Pilo e Carrao » 320 » VII. — Continua da Calatafimi a Palermo » 322 » VIII. — Assalto di Palermo — 27 Maggio 1860 » 325 » IX. — Melazzo » 332 » X. — Combattimento a Melazzo » 335 » XI. — Nello stretto di Messina » 339 » XII. — Sul continente Napoletano » 342 » XIII. — Assalto di Reggio » _ivi_ » XIV. — Ingresso a Napoli — 7 Settembre 1860 » 346 » XV. — Preludi della battaglia del Volturno — 1º Ottobre 1860 » 350 » XVI. — Battaglia del Volturno » 352 » XVII. — Bronzetti a Castel Morrone — 1º ottobre 1860 » 359 » XVIII. — Combattimento di Caserta Vecchia — 2 ottobre 1860 » 360 QUARTO PERIODO Dal 1860 al 1870. CAPITOLO I. — 1862 Campagna di Aspromonte _Pag._ 363 » II. — Campagna del Tirolo » 369 » III. — Battaglie, combattimenti » 373 » IV. — Combattimenti di Bezzecca — 21 luglio » 382 » V. — Agro Romano » 387 » VI. — Sardegna — Traversato sul mare — Continente » 391 » VII. — Assalto di Monterotondo » 396 » VIII. — Mentana — 3 novembre 1867 » 400 QUINTO PERIODO CAPITOLO I. — Campagna di Francia _Pag._ 409 » II. — Combattimenti di Lentenay e Autun » 416 » III. — 21, 22 e 23 gennaio 1871 » 425 » IV. — 1871 — Ritirata — Bordeaux — Caprera » 434 Appendice alle mie memorie » 437 NOTE: [1] Nome del primo bastimento con cui ho navigato. [2] Morto da vari anni — ma vivente quando principiai le mie memorie. [3] Scriveva nel 1849. [4] Tali furono sempre le mie idee — scritte nel 1849 e copiate oggi 1871. [5] Giardino di destra — angolo destro alla poppa della nave. [6] In quell'epoca, era proibito a Marsiglia di tener lumi, anche di notte a bordo ai bastimenti. [7] Viamâo, villagio fuori di Porto-Alegre, a poche miglia — nella provincia del Rio Grande del Sud — I Republicani avean chiamato quel villaggio Settembrina — in onore d'una vittoria in settembre. [8] _Garopera_, barca destinata alla pesca delle _garope_ pesce squisito del Brasile. [9] Una quarta: la trentaduesima parte di tutta la circonferenza della bussola — E _orza_, significa andar più verso l'origine del vento — che ci spingeva verso la costa a destra — [10] _Barrancas_ — rupi — in Francese _falaise_ — [11] _Pampero_ — vento il più formidabile per la costa sinistra del Rio de la Plata — e che prende il suo nome dalle _Pampas_ — pianure immense alluvionali nella costa destra — [12] Traversia — vento che soffia sulla costa, e fa una perpendicolare con essa — [13] Ho veduto l'ultima famiglia dei Chanuas-aborrigeni abitatori di quelle contrade — mendicando un pezzo di carne nei nostri campamenti — [14] Fiumicello. [15] Bassa tra una collina e l'altra. [16] Erba alta e dura. [17] Lo stallone mai è domato in quei paesi. [18] Infusione di foglie d'albero dello stesso nome, che supplisce nell'America meridionale al cafè, e the. [19] Rez: vaccina ammazzata per maccellare. [20] Si ricorda il lettore: che il Rio della Plata, ha un'imboccatura di cento miglia di largo — [21] In panna: disposizione delle vele, acciò il bastimento resti ancora immobile — [22] Manovra per spingere il bastimento avanti — [23] Giardino: angolo nella poppa della nave. [24] Orlo superiore dei bordi o ripari della tolda. [25] Bracci — corde che servono a manovrare i pennoni — [26] Nostr'uomo — capo dei marinari dopo il Capitano ed Ufficiali — [27] Confluente del Rio della Plata. [28] _Jakarè_ — Cocodrillo. [29] _Estancia_ — che corrisponde allo stazzo sardo — cioè stabilimento pastorizio. [30] Barco di fiume di mediocre grandezza — [31] Arroyo — fiumicello — [32] Evidentemente una svista, invece di _legni_ (N. dell'Ed.). [33] _Serra do Espinasso_ — Spina dorsale del Brasile — parallella alla sua costa orientale — su cui verdeggia una delle più belle e delle più grandi foreste del mondo — [34] Sartia — cordame che tiene gli alberi lateralmente — [35] Boccaporto — porta che chiude la stiva della nave — [36] Giardini — angoli nella poppa delle navi — [37] L'opera mia durante la catastrofe, può sembrare straordinaria ai non pratici del mare — ad un marino però — comparirà praticabile — considerando: che generalmente, nelle tempeste, dopo tre forti marosi, succede un momento di calma — E fu in tale periodo ch'io potei ajutare i compagni — [38] Campestre — campo senza piante nella foresta — [39] Nella Laguna di S. Catterina, anche la città chiamasi Laguna — [40] I tre nomi dei piccoli legni da guerra, provenivano da località, ove i Republicani furono vittoriosi — [41] _Ganado_ truppa di bovi o vacche — che devono servire d'alimento alla gente — che non porta altre impedimenta — [42] _Cavalladas_ — cavalli di riserva, indispensabili in quei paesi, ove la maggior parte della forza è cavalleria nutrita sui propri campi — per cui ogni milite, è obligato d'aver tre cavalli — uno montato, e gli altri alla riserva — [43] Dal prezioso trattatto l'_Universo_, del professore Filopanti — vedo oggi esser codesti i fiumi maggiori — mentre credevo prima: il Mississipì il più grande del mondo — [44] Quel generale Bento Manuel — tradì poi la Republica e passò agli imperiali — [45] Continente — nome probabilmente dato dagli scopritori — alla vasta e bella provincia del Rio-grande del Sud — essendovi un'altra provincia dello stesso nome al nord del Brasile — [46] L'arrosto di vaccina, principale alimento dei militi Americani — si cuoce infilzato ad un ramo verde degli alberi della foresta — quindi facile da portarsi in spalla. [47] Gli imperiali chiamavano Farrapos (cenciosi) i Republicani — e questi Caramurù, gli altri (uomini di fuoco, nel dialetto indigeno). [48] Che gusto per un discepolo di Beccaria nemico della guerra. Ma che volete: ho trovato sul sentiero della mia vita gli Austriaci, i preti, ed il despotismo — [49] Settembrina, nome d'un villagio vicino a Porto-Alegre nominato così dai Republicani, in onore del mese in cui fu proclamata la Republica — Prima chiamavasi Viamâo (Vidi la mano) perchè da quel punto vedevansi i cinque fiumi che formano il Rio-grande — [50] La Republica non pagava i suoi militi — e perciò non era peggio servita — [51] Tratta perciò coll'Inghilterra — [52] In quei paesi — ove si mangia sola carne, e la carne è acquistata col cavallo e col laccio — si capisce che sola la cavalleria trovasi nell'abbondanza — in tempo di carestia — e la fanteria spesso patisce la fame — [53] Si osservi: che con moglie e bambino — ero stato obligato di provvedermi d'una tenda e poco bagaglio — [54] Io ricordo con affetto e gratitudine — di quell'epoca — la generosa amicizia di G. B.ta Cuneo — invariabile amico di tutta la vita — dei Fratelli Antonini — e Giovanni Risso — [55] Perdetti un ufficiale Italiano di molto valore in quella pugna — per nome Pocaroba di Genova — Ebbe la testa portata via da una palla di cannone — [56] Arroyo, fiumicello — [57] I fiumi grandi e piccoli hanno nel loro letto dei canali ove l'acqua è più profonda, e più forte la corrente — [58] Lavalle fa uno dei più prodi dei generali Argentino nemico accerrimo del tiranno Rosas — [59] Evidentemente una dimenticanza nel manoscritto — (Nota dell'Editore). [60] Dopo la battaglia, il generale Paz mi strinse la destra — e mi disse: Oggi ho veduto, che gl'italiani sono veramente valorosi! [61] La fortezza del Cerro è altissima, edificata su quel pan di zucchero — che scorto dal mozzo Portoghese — dalla punta dell'albero del barco scopritore — esclamò: «Monte vide eu» che in Italiano significa: «Monte vidi io» — e che diede il nome a Montevideo — [62] Si ricordi il lettore: che la Republica di Montevideo, si chiama: Republica Oriental dell'Uruguay per trovarsi sulla sponda Orientale di quel fiume — e quindi il titolo _Oriental_ del popolo — [63] Ad uno di quelli uomini del campo, dell'America meridionale, l'arrosto di giovenca scelto e cotto da lui, è il primo ed il più saporito alimento — Io l'ho veduto sorridere di compassione vedendomi mangiar pernici — [64] Già si sà: chiamano gli Spagnoli _Salto_ — una cattarata di fiume — essendo frequenti tali cascate nelle vicinanze di cotesta città — dall'Hervidero al Salto grande nella parte superiore del fiume — [65] Carona cuojo crudo che va sotto la sella — Ora legando i quattro canti di tale cuojo si forma una barchetta capace di portare le armi e vestimenta — e tale barchetta si lega alla coda del cavallo, a rimorchio dello stesso — e si chiama _pelota_ — [66] Queste divisioni sono molto inferiori alle Europee, in numero e si compongono generalmente di sola cavalleria — [67] Bollas — una delle armi più terribili della cavalleria Americana — Costrutte con tre palle — di ferro generalmente fasciate di cuojo, e legate a tre gambe di fune, anche di cuojo — quei veri centauri dell'America del Sud — le maneggiano, tenendone una nella mano — e rotando le altre due nell'aria — al dissopra della testa — con il cavallo lanciato a carriera — Avvinghiate, che sian le bollas, nelle gambe d'un animale fuggente — è forza per esso fermarsi — e per lo più cadere — Tale è il modo con cui si fanno molti prigioni — Guai! a chi ha il cavallo stanco dopo la pugna — Io ho veduto fermare anche gli struzzi — colle bollas — [68] Nizza che i nostri odierni uomini grandi hanno venduto allo straniero — come un cencio! Un cencio — che non apparteneva al miserabile loro corredo!!! [69] 28 di Marzo 1872 — Oggi egli è morto — All'individuo io sono solito non portare odio — massime quando morto — Scrivendo la storia però, io mi trovo in dovere di palesare pacatamente i torti ch'egli con me ebbe — in varie circostanze — [70] Io devo qui una parola di lode all'egregia sig.ra Laura Mantegazza — Codesta generosa — non eran terminate ancora le fucilate — ch'essa apparve in una barca attraversando il Lago — e raccolse indistintamente tutti i feriti — che condusse e curò in casa sua — Sia essa benedetta da tutti! [71] Uno dei grandi inconvenienti di tal guerra — in un paese poco consueto — come vi era la Lombardia di quei giorni — erano le grandi masse di nemici che gli abitanti vedevano in ogni direzione e con cui spaventavano i nostri giovani militi — [72] Noi non avevamo accettatto terreni offerti dal presidente della Republica di Montevideo — [73] parole con cui converrà fregiare il nuovo vocabolario — in questo secolo di ladri — e metterle accanto alla Republica Republicana di Francia — [74] Un figlio di Rossi ha servito meco in Lombardia — ed è un distinto e valoroso ufficiale — Il di lui padre sarà stato un genio — come alcuni voglion descriverlo — Ma un genio od un uomo onesto devono servir la causa del proprio paese — ed il papato in quei giorni la tradiva — [75] Io scriverò pacatamente di Mazzini — non voglio però mentire alla mia coscienza — e quando dico Mazzini — intendo il governo Romano — giacchè egli era in fatto il dittatore di Roma — titolo di cui non voleva assumere la responsabilità — ma di cui si sa aveva il potere — conoscendo il carattere onesto e docile dei triumviri Saffi e Armellini — Dunque il Dittatore Mazzini — cui facevano ombra, Avezzana ed io — relegò il primo ad Ancona — ed io, fui lasciato alla difesa di porta S. Pancrazio — Generale in capo fu nominato il Collonnello Roselli — che credo avrebbe fatto molto bene il suo dovere alla testa del suo reggimento: ma che non aveva sufficiente esperienza per comandare in capo l'esercito della Republica — [76] ferri — piccole ancore di bastimenti — impennellati, cioè legato uno in coda all'altro — Alzane — lunghe corde di bordo — [77] tonneggiare — spingersi avanti tirando sulle alzane — [78] Si vede: che molti ancora erano quelli che vollero accompagnarmi — circa 200 — e ben pressentivano: giacchè molti dei nostri caduti nelle mani degli Austriaci — furon bastonati, oltre quei che fucilarono — Se ne ricordino gli Italiani! [79] Monsoon — venti che soffiano sei mesi da una parte — e sei dall'opposta — [80] Mura a sinistra — cioè: ricevendo il vento dalla parte sinistra — mentre si tiene la prora, quanto possibile, vicina all'origine del vento — [81] Si chiama così il punto di un fiume ove si trova una barca grande che passa uomini, animali, ed arnesi — [82] Il Capitano Francesco Simonetta, comandava le poche guide a cavallo, che s'eran potute riunire — e come ogni cosa nostra, erano ancora vestite in borghese e mancavano di tutto. Simonetta non morì generale per trascuranza mia — [83] _Sciando_ — camminar colla poppa avanti — si cammina in tale direzione colle ruote a rovescio in un vapore — o coi remi a rovescio in un palischermo — [84] Non so quando si attuerà cotesto sogno della mia vita — che con meno i preti — farebbe dell'Italia una potenza di prim'ordine — [85] Thiers, Bonaparte, _Chauvinisme_ — tutti titoli che riassumano le ridicole pretenzioni — della Francia clericale e dominatrice — sull'Italia — e che senza dubbio — sarà un perenne motivo di rancori fra due nazioni che potrebbero — convenientemente ad ambi — vivere amiche. Non voglio passare questo secondo periodo delle mie memorie senza palesare due fatti che mi concernono — e che provano la malizia dell'uomo del 2 Decembre — de' suoi complici — e l'ingerenza che lo stesso, aveva sulle cose nostre — A Gavardo — ov'io passai il Chiese per recarmi a Salò nella campagna descritta — mi giunse un conosciuto N. A. inviato dal quartier generale dell'imperatore colla missione seguente — «Io sono incaricato» mi disse: «di offrirvi quanto abbisognate per voi, e per la vostra gente: denaro, oggetti di qualunque specie, saranno messi — a vostra disposizione — Chiedete pure — l'imperatore conosce i molti vostri bisogni — dei vostri militi — e vuol rimediarli — Egli non può tolerare l'abbandono, e lo stato miserabile in cui siete lasciato». Io risposi: «Di nulla abbisogno» — Era un mercato bell'e buono: Si stava trattando di vendere Nizza — anzi era già venduta — e si voleva un complice di più: un Nizzardo —! A 52 anni — corpo di Dio! e quando si ha veduto un po di mondo — non è poi tanto facile d'esser canzonato — Tanto però, era il cinismo corrutore dell'uomo dei Versanti — e tanti erano stati i codardi che sperano prostrati davanti a quel simulacro di putredine! Il secondo fatto è il seguente: Dopo i fatti dell'Italia centrale narrati antecedentemente — io avevo chiesto la demissione dal comando di coteste truppe — e se Bonaparte aveva la mano — in tutti quei maneggi — lo dice la seguente sua lettera al papa — Lettera di Napoleone al papa: «I miei conati non riuscirono che ad impedire il propagarsi dell'insurrezione — e la demissione di Garibaldi, ha preservato le Marche d'Ancona — da una sicura invasione». [86] Due fanciulli Siciliani, — negli ultimi tempi — dell'età non superiore ai quattordici anni — estraevano una radice algebrica del grado 32º — a mente, ed in pochi minuti — operazione veramente portentosa — [87] I due piroscafi che trasportarono i Mille a Marsala — [88] Di cuore avrei voluto agiungere: e del contadino — ma non voglio alterare il vero — Cotesta classe robusta, e laboriosa, appartiene ai preti — che se la mantengono nell'ignoranza — E non v'è esempio d'averne veduto uno tra i volontari — Essi servono nell'esercito, ma per forza — e sono i più eficaci istromenti del despotismo e del clero — [89] gozzi — nome dei palischermi usati a Genova per trasporto di gente e merci — [90] Si conta che vi furono distrutti i Romani dagli indigeni, in una grande battaglia, nei primi tempi dell'occupazione dell'isola per i primi — [91] Titolo con cui ci onoravano i nostri nemici — [92] A la battaglia di Copenhaguen — Parker, ammiraglio supremo Inglese — fece il segnale di ritirata a Nelson impegnato nel combattimento — Il vincitore del Nilo — avvisato dall'Ufficiale ai segnali — mise il canochiale all'occhio orbato — e disse: non lo vedo! La battaglia continuò e fu vittorioso. (Nelson aveva un occhio solo) — [93] Nome della Valle di Palermo — che sembra indorata dalle sue superbe piante d'aranci — quanto maturi — [94] Non potendo ricordare i nomi di coloro, che fecero parte di quella sacra schiera, ho pensato d'introdurvi i suddetti gloriosi martiri dei Mille — che mi si presentano alla memoria, abbenchè non tutti appartenenti a detta schiera — [95] Picciotti — uomini della campagna — [96] Squadre — compagnie formate dai Picciotti — [97] Le camicie rosse, poche, al principio della spedizione — avevano acquistato molta importanza — ed ispiravano fiducia e rispetto agli amici — siccome ai nemici terrore — I parlamentari borbonici chiedevano delle camicie rosse per esser scortati nelle vie di Palermo — Io ne avevo ordinato quanto era possibile di farne e fatte distribuire per acrescere l'imponenza di quel colore — [98] Trentino. [99] Romano. [100] Fra i morti in questa gloriosa pugna — contano: Poggi, ufficiale nei carabinieri Genovesi — dei Mille che tanto si distinse a Calatafimi — Migliavacca del corpo di Medici anche valorosissimo — Vi furono feriti Cosenz e Corte — [101] A cui diedimo il nome di _Tuckery_ — il valoroso comandante della nostra vanguardia all'entrata di Palermo — ove morì eroicamente — [102] Il generale Türr era passato sul continente per motivo di salute, ed avea lasciato il comando della brigata ad Eber — [103] falla — apertura, buco, o fessura per ove entra acqua nel bastimento — [104] purina — escrementi di vaccina, ecc. — o qualunque altro sudiciume, che con cesta in punta di pertica si sommerge sotto il bastimento, verso il punto in cui si crede esistere la falla — la quale naturalmente: attraendo l'acqua — attrae pure qualunque pagliuzza — e tura, almeno in parte, la falla — [105] Missori, Nullo, Basso, Mario, Stagnetti, Canzio. [106] Emblema di Napoli. [107] Monte che domina le pianure di Capua. [108] Türr, Tuckery, Eber, Dunyow — erano Ungheresi — ed in detta brigata vi eran molti, di quei valorosi nostri fratelli d'armi — a piedi ed a cavallo. [109] Io credo: saranno i Meridionali — degni d'esser liberi e prosperi — quando avran cancellato cotesti brutissimi nomi — Si osservi che anche la posizione migliore di Maddaloni — si chiama S. Michele (quindi tutti santi) — [110] Il maggiore di cotesti prodi militi — si offrì di accompagnarmi — ed io accettai volontieri l'offerta — [111] Si allude alla lettera di Farini al Bonaparte — [112] In altri tempi si sarebbe potuto riunire una costituente — in quell'epoca era impossibile — ed altro non si sarebbe ottenuto che perdita di tempo ed uno svolgimento ridicolo della questione — Allora eran di moda le annessioni coi plebisciti — I popoli ingannati dalle consorterie — tutto speravano dal governo riparatore — [113] Conca — grotta formata da un masso di granito — ove i Sardi spesso si allogiano — e sovente serve di rifugio ai banditi. [114] Stazzo, stabilimento pastorizio. [115] Piano intieramente disapprovato dai nostri amici di Roma. [116] Il ponte di Correse divideva in quell'epoca il territorio Romano dall'Italiano. [117] Due eserciti in America — dopo d'aver combattutto valorosamente di giorno — giunse la notte — ed ambi abbandonarono il campo di battaglia — Uno dei due generali lo seppe — tornò sul campo, e si proclamò vincitore. [118] Castello di Pouilly a un tiro di cannone di Dijon, ch'era stato abbandonato dai nostri al principio della battaglia. [119] Probabilmente «_forze preponderanti_». L'appendice è scritta affrettatamente, colla gloriosa mano rattrappita dall'artrite. (_Nota dell'Edit._). Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le numerose grafie alternative, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE: EDIZIONE DIPLOMATICA DALL'AUTOGRAFO DEFINITIVO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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