Title: Nerone: commedia in cinque atti ed in versi, con prologo e note storiche
Author: Pietro Cossa
Release date: July 2, 2015 [eBook #49346]
Most recently updated: October 24, 2024
Language: Italian
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TEATRO IN VERSI
DI
PIETRO COSSA
——
Vol. VI
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TORINO—V. Bona Tip. di S. M. e dei RR. Principi.
TEATRO IN VERSI
DI
PIETRO COSSA
COMMEDIA IN CINQUE ATTI IN VERSI
CON PROLOGO E NOTE STORICHE
TORINO
F. CASANOVA, Editore
——
1882
——————
Proprietà Letteraria
(Legge 25 giugno 1865).
——————
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La presente edizione di 1000 copie venne fatta dietro speciale accordo col signor Carlo Barbini proprietario del diritto di stampa di questo lavoro.
PAG. | |
Introduzione. | 7 |
Prologo. | 15 |
Atto Primo. | 19 |
Atto Secondo. | 67 |
Atto Terzo. | 113 |
Atto Quarto. | 155 |
Atto Quinto. | 193 |
Note Storiche. | 213 |
AI MILANESI
Milano, 3 febbraio 1872.
DUE PAROLE
CHE
col beneplacito dei Lettori potrebbero pigliare anche il nome di Prefazione.
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E prima di entrare in argomento, ch’io paghi un debito di riconoscenza a’ miei cari concittadini, che vollero onorare dei loro applausi questa mia povera commedia. Fu detto che niuno è profeta in patria, e mi piace di poter confermare per prova che, come molti altri, anche questo proverbio è sbagliato.
Nonpertanto riconosco me stesso, e so che gli applausi mi sono dovuti in parte minima, perchè furono dati unicamente come sprone a far meglio.
E procurerò di fare questo meglio, aiutandomi Dio o la fortuna, la volontà e i tempi.
Non risponderò a tutte le critiche, e solamente osserverò che queste furono sempre cortesi, rispettose, e scritte, come suol dirsi, coi guanti. D’altra parte ciascun scrittore criticando o lodando secondo un diverso punto di vista, da questo giudizio emerge una diversità di elogi e di biasimi che mettono nell’imbroglio il povero autore, il quale spesso si trova lodato e criticato sulla stessa scena, sullo stesso personaggio, sullo stesso verso.
Ma una critica quasi universale mi fu fatta, ed è la seguente:
Questo Nerone è sempre un artista e mai imperatore.
A questa critica risponderà Nerone stesso, il quale in sul morire esclamò: Qualis artifex pereo, e non qualis imperator! Segno evidente ch’egli teneva più all’arte che all’imperio.
L’uomo politico infatti è nullo nel Nerone storico. Tutta la sua vita fu spensieratezza, e, benchè padrone del mondo, la traeva alla giornata come uno scioperato qualunque che non à cosa alcuna da perdere. Non capitanò mai eserciti, benchè spesso si mostrasse geloso dei loro conduttori, ma era gelosia momentanea; se li avesse avuti sotto la mano, li avrebbe uccisi;[9] avendoli lontani, li dimenticava. Sacrificò le sue vittime alla scoperta, senza raggiri, tranne sua madre, donna sotto ogni aspetto assai peggiore del figlio. La dignità personale non seppe mai cosa fosse. Ritornando da Napoli in Roma, e udita la ribellione di Vindice, disse sorridendo: Andremo, se Vindice ce lo permetterà. In un terribile proclama fatto agli eserciti di Spagna contro di lui erano numerati uno per uno i suoi delitti, ed egli non si adontò d’altro che d’essere chiamato col nome d’Enobarbo (barba di bronzo), soprannome dato ad uno de’ suoi maggiori e rimasto in famiglia.
Di altre debolezze di carattere e d’infamie infinite bisogna tacere per pudore.
L’imperatore dunque, uomo grave, politico, avvolto dignitosamente dal capo ai piedi nella sua porpora, può esistere nella mente di molti, ma non si trova nell’istoria.
La crudeltà e il suo amore alle arti: ecco le due sole qualità che costituiscono il suo carattere.
Il delitto che fu a lui più rimproverato dai contemporanei, dopo il matricidio, è l’incendio di Roma; eppure egli la diede alle fiamme artisticamente, se posso esprimermi così. I moderni[10] devastatori dei monumenti di Parigi, gli eroi del petrolio, ànno bruciato per bruciare; Nerone bruciò per riedificare: avea bisogno di spazio, e l’antico era ingombro da vie anguste, malsane per fango perenne, e fiancheggiate da casette tetre come il tufo che avevano adoprato alla loro costruzione. Giova però ricordare che in quelle casette erano nati e vissuti i vincitori di Pirro e d’Annibale.
Crudele assai meno di Caligola, perchè in questo la crudeltà era indole, voluttà, in Nerone paura; vile più d’un fanciullo, superstizioso quanto una femminetta del volgo; buon poeta, buon pittore, migliore scultore, nell’edificare magnifico, vanaglorioso tanto da voler dare il suo nome a Roma; nelle libidini nuovo, bestia, sotto la bestia. Ecco Nerone.
A quel gentile critico che m’à consigliato di circondare Nerone di altri personaggi più noti m’è forza di rispondere che non ò potuto risuscitarli per la buona ragione che erano morti tutti e bruciati da un pezzo. Io volli rappresentare soltanto gli ultimi giorni di Nerone; ad ogni modo Agrippina, Poppea, Seneca, Lucano, i Pisoni, Trasèa Peto, Britannico, non sono stati dimenticati, come il lettore potrà vedere da sè.
L’altro consiglio datomi dallo stesso dotto e gentile critico è stato quello di mettere in lotta il cristianesimo nascente col paganesimo che incominciava a sfasciarsi. Consiglio ottimo, ma già posto in opera stupendamente dal Gazzoletti nella sua tragedia San Paolo; ed io non volli far dopo e male ciò che l’illustre poeta aveva fatto prima di me, e così bene.
Non mi rimaneva dunque che presentare sulla scena Nerone artista, il vero Nerone—cosa, per quanto è a mia cognizione, non tentata da altri—; e questo ò fatto, ponendo nel fine del volume alcune note istoriche per giustificare il mio personaggio, se non dal lato della morale, affare che deve importare a lui, almeno da quello della verità istorica, affare che importa esclusivamente a me.
Se poi nella esecuzione del mio lavoro sono andato a sghembo e ò fatto molti scarabocchi, cosa di cui temo molto, sono pronto a dichiarare che la colpa è tutta mia, non avendo chiesto in prestito ad alcuno una falsariga qualunque.
Roma, maggio 1871.
Pietro Cossa
NERONE
PERSONAGGI
————
Claudio Cesare Nerone
Atte liberta
Egloge schiava e saltatrice greca
Varonilla Longina
Cluvio Rufo principe del Senato
Menecrate commediante e buffone
Petronio vecchio gladiatore
Nevio pantomimo
Babilio astrologo
Eulogio mercante di schiavi
Vinicio prefetto del Pretorio
Mucrone taverniere
Icelo centurione
Faonte | } | liberti di Nerone |
Epafrodito |
Una schiava d’Etiopia.
Schiave, Liberti, Pretoriani, Legionari.
——————
La scena è in Roma e nelle sue vicinanze.
Esce il buffone Menecrate e recita il Prologo
Il prologo son io. Faccio alle dame
Ed ai signori l’obbligato inchino,
Ed incomincio. Ambasciator non porta
Pena, dice il proverbio, ed io ripeto
Come un eco fedele quanto or ora
L’autor mi susurrò dentro l’orecchio.
Il personaggio dalla rea memoria
Che comparir vedrete innanzi a voi
[16]Non è già quel Nerone delle vecchie
Tragedie, una figura che spaventa
Con gli occhi, e lento incede sopra l’alto
Coturno, e fatti a suono di misura
Tre passi, dice una parola, anch’essa
Misurata e prescelta fra le truci
Di nostra lingua. Il mio Nerone—io dissi
Mio perchè sono il suo buffone—è un’altra
Cosa, egli è lieto sempre e buono mai.
Ei volontier frequenta co’ ghiottoni
La taverna, è cantor, pugillatore,
Scolpisce, guida cocchi, e fa il poeta;
È qual insomma lo si ammira vivo
Emerger dalle pagine immortali
Di Svetonio e di Tacito.—Nerone
Era un artista, al contrario di tanti
Altri Neroni di recente data
Che furon la più brutta negazione
E d’ogni arte e di Dio—Qui mi permetto
D’aprire una parentesi, dicendo
Che per l’Italia nostra fu ventura
Che un galantuomo Re dal Campidoglio,
Reso di nuovo italïana rocca,
Lacerasse, e sperar giova per sempre,
La lunga lista de’ pigmei tiranni
Più buffoni di me, grètte e derise
[17]Parodìe di Tiberi e di Neroni—
Quanto allo stile e al modo di condurre
Le scene, credo che l’autor s’attenne
A quella scola che piglia le leggi
Dal verismo e, stimando che in ogn’arte
Sia bello il vero, bandì dalla scena
Il verso ch’à romore e non idea,
Pago se potè trar voci ed affetti
Dal lirismo del cuore. S’ei chiamava
Commedia un fatto ove si sparge sangue,
E Locusta, la Borgia di quel tempo,
Ministra nei conviti i suoi veleni,
Ciò fece astretto dalle circostanze
Del fatto stesso. Eschilo primo, e poi
Sofocle intitolarono tragedie
L’Oreste furibondo e il Filottete,
Argomenti che chiude un lieto fine;
E l’autore seguiva, ma a rovescio,
L’esempio greco. Nerone si mostra
Comico stranamente nella sua
Ferocia, e i suoi compagni sono quali
Potè vederli Roma imperïale
In una età corrotta, senza fede,
Allegra ne’ suoi vizi, e lampeggiata
Tristamente qua e là dal suicidio
Di qualche stoico. Dopo queste ciarle,
[18]Vi prego tutti di cortese udienza.
Novamente mi volgo alle gentili
Dame, ai signori, nè porrò in oblio
Di riprodurre l’inchino obbligato,
E, rubando una frase di Manzoni;
Se mai l’autor riuscisse a darvi noia,
Giuro per lui che non l’à fatto a posta.
————
Una sala nella casa aurea di Nerone—Statue negli intercolunni, e fra queste una di Venere. Nerone siede in atto di dettare alcuni versi ad Epafrodito liberto che sta in piedi vicino all’Imperatore, avendo tra le mani le tavolette cerate e lo stilo; sopraggiunge dal fondo della scena l’istrione Menecrate, e s’avanza sogghignando.
MENECRATE
Claudio Nerone, del romano mondo
[20]Imperatore Augusto, per la quarta
Volta Console, padre della patria,
Pontefice massimo...
NERONE
Basta, buffone,
E vieni all’argomento.
MENECRATE
(curvandosi maliziosamente sull’orecchio dell’Imperatore)
Nella sala
Vicina due persone aspettan l’ora
D’essere ammesse al tuo cospetto: il calvo
Principe del Senato—ed una vaga
Fanciulla dai capelli biondi e folti;
(dopo una pausa e guardandolo)
A qual dei due vuoi dar l’ingresso?
NERONE
Al primo.
MENECRATE (meravigliandosi)
Al calvo?
NERONE (sorridendo)
A lui.—Gli affari dell’Imperio
Innanzi a tutto.
MENECRATE (andando verso il fondo della scena)
Segno questo giorno
Tra i nefasti.
NERONE (ad Epafrodito)
Tu vattene; più d’uopo
Non ò per ora dell’opera tua.
(Epafrodito depone le tavolette e lo stilo, ed esce)
Nerone, Cluvio Rufo, Menecrate.
RUFO (avanzandosi verso l’Imperatore)
Il Senato a Nerone invia salute.
NERONE (alzando le spalle e rimanendo seduto)
Grazie agl’Iddii l’abbiamo, e vigorosa.
Ieri nel circo atterrammo il più forte
Pugillatore della Gallia: un Ercole
Vero. In mezzo ai plausi rovesciato
Avea gli emuli tutti un dopo l’altro,
Ma i nostri polsi lo scrollaron quasi
[23]Fosse un fanciullo; i nostri polsi adunque
Stanno bene, o buon Rufo, e fanno a meno
Della salute che c’invia il Senato;
Però t’insegneremo uno che langue
In periglio di vita e ch’à bisogno
Di tutte le cure dei Padri coscritti:
Il nostro erario.
MENECRATE
Le gabelle nove
Guariranno il malato.
RUFO (guardando impensierito Nerone)
E vuoi?...
MENECRATE
Le nostre
Province sono tante e tanto ricche!
NERONE (dopo aver sorriso all’istrione)
Che ne pensi, buon Rufo? L’istrione
Par che s’intenda un po’ di medicina.—
(alzandosi e mutando tono di voce)
Domani sorgerà di nuovo il sole
Illustrator della battaglia d’Azio,
[24]Ed io d’Augusto erede aveva in mente
Di festeggiare il grande anniversario
Con larghezza di giuochi e di conviti;
Feci chiamare il capo de’ bestiari
Del nostro circo massimo, e indovina,
Buon Rufo? Non vi sono più che trenta
Leoni, e poche belve di minore
Conto.
(erompendo in un grido di collera)
Per Giove Statore! Avrei fatto
Io, Claudio Nerone, una bella figura
Al cospetto del popolo romano
Con quella miseria di trenta leoni!
RUFO
Lascia i giuochi del circo, e invita il popolo
A pubblico banchetto.
MENECRATE
Han tanta fame
Questi Quiriti!
NERONE
E vorrei sazïarli,
Inebriarli tutti, ma non posso.
RUFO
Non puoi?
NERONE
Tel dissi: l’erario è malato.
RUFO
Eppure le province...
NERONE
Le province
Dànno lievi tributi, ed io son troppo
Benefico. Perchè mi metti in viso
Gli occhi tuoi spaventati, o mio buon Rufo?
Ti comprendo: nessuno vorrà credere
Che questo imperïal paludamento
Nasconda i cenci d’un mendico e ch’io,
Dominatore della terra tutta,
Seduto innanzi a questa aurea mia casa
Sarò forse costretto di protendere
La mano supplicante ai cittadini
Che passano per via.
(scotendo violentemente per la toga Rufo, che è rimasto attonito ad ascoltarlo)
Pensi il Senato
A sì misero caso e vi provveda.
Io non ò più monete; i pretoriani
Stessi, la guardia della mia persona,
Da tre mesi contemplano l’effigie
Del loro prediletto imperatore
Soltanto nelle insegne.
MENECRATE (sospirando)
Ed anche questo
Conforto sarà tolto ai poveretti,
Se indugi ancora...
NERONE
E come?...
MENECRATE (freddo)
Venderanno
Le insegne.
NERONE
Abbia l’Averno la tua lingua!
MENECRATE
Ahi lingua trista! Essa à parlato il vero.—
(dopo una pausa, a Nerone)
Tu sei ridotto in povertà, ma vivono
Molti ricchi patrizi.
NERONE (dispiacente e fingendo meraviglia)
Odi, buon Rufo?
I patrizi son ricchi!
MENECRATE
Uno ad esempio
Nominerò: Cassio Longino; è questi
Perito nelle leggi e cieco d’occhi;
À quattro ville—due sulla ridente
Piaggia napolitana, una a Pompei,
L’altra ne’ colli tuscolani. Vidi
Quest’ultima ier l’altro. Qual stupenda
Magnificenza! V’è un intero popolo
Di statue.
NERONE (battendosi la fronte con la mano)
Per Giove! in casa mia
V’è penuria di statue.
MENECRATE
Fra quelle
[28]Che adornano il superbo peristilio
Una mi spaventò; tale tal marmo
Mettea fierezza!
NERONE (interrogando con curiosità)
Ed era?
MENECRATE (sorridendo)
Bruto, il vile
Percussore di Cesare.
NERONE
Cotesta
Statua non la vorrei.
MENECRATE (con prontezza)
Nè conservarla
Alcun vorrebbe che non fosse cieco.
NERONE
E il cieco è un uomo per metà già morto.
Non è vero, buon Rufo?
MENECRATE
(allegro d’aver dato nel gusto dell’imperatore)
Che gli Dei
[29]Mi perdano s’io pur non feci questo
Ragionamento! Quel Bruto di pietra,
Dissi, rivela nel suo possessore
Il desiderio d’adorarlo vivo:
È dunque un pompeiano.
RUFO (sorridendo)
Ma in ritardo.
MENECRATE
E che importa? È ribelle nel pensiero,
E reo di lesa maestà.
NERONE (battendo sulla spalla del buffone)
Per questa
Volta do lode alla tua lingua.
MENECRATE
À detto
il falso?
NERONE
O mio buon Rufo, apri gli orecchi,
E sia tua cura che li tenga aperti
Il nostro buon Senato: esso è il custode
[30]Delle leggi, e accusar deve i nemici
Dell’imperio e punirli;—io non pretendo
Che i diritti del fisco.
MENECRATE
I più odïati.
NERONE
Amo l’odio patrizio perchè figlio
Della paura.—Da quel dì che Silla,
Quasi fanciul stizzoso, gittò via
I fasci della truce dittatura
Come rotti giocattoli, moriva
Il patriziato, e sulle sue ruine
Surse il genio di Cesare, l’ardito
Vendicator di Mario e della plebe;
E per noi successori nell’imperio
Plebe romana non fu già quel pugno
Di valorosi che da questi colli
Un astuto Senato avventò sopra
I più lontani popoli;—romana
È per noi quanta gente abita il mondo.—
MENECRATE
Ieri due Sciti andavano pel fôro:
Scommetto che imparavano il mestiere
Del roman cittadino.
RUFO (a Nerone)
È a te ben noto
Che veglia alla salvezza del tuo capo
La mente del Senato. Ti ricorda
Della congiura de’ Pisoni: estremo
Era il periglio, ma la veneranda
Autorità de’ Padri ti coverse;
Ed acclamata scese la tua scure
Sul collo dei ribelli. Avrà tal pena
Qualunque sconsigliato in Roma osasse
Di tentar novità. Sol non vorrei
Gittar il peso di tributi novi
Sulle province: lettere venute
Di Gallia dànno annunzio che tra quelle
Legioni v’è tumulto.
NERONE (spaventandosi)
V’è tumulto?...
E che chiedono? Vindice dovea
Decimar le legioni.
MENECRATE
A tanto uffizio
Non saranno bastati i suoi littori.
NERONE
Bada, buffone, per te basta un solo.
MENECRATE (tastandosi il collo)
Ed è troppo.
NERONE
Di’ dunque, o mio buon Rufo,
Che chiedon que’ soldati?
RUFO
Una coorte
Ardìa di salutare imperatore
Vindice, ma s’opposer l’altre.
NERONE (sempre più spaventandosi)
Il vero
Narri?... Per tutti i Numi dell’Olimpo
E dello Stige io qui dichiaro Vindice
Nemico della patria! Ei ceda tosto
L’esercito e ritorni a render conto
[33]Di sua perduellione... Ma fidarmi
Posso di te?... Via, parla: io sono ancora
L’imperatore?
RUFO
Tal sei, nè il Senato
Volle ordinare per la tua salvezza
Supplicazioni pubbliche, sì lieve
Cosa stimò que’ gridi militari
Della Gallia—e ad offrirti un lieto augurio
Ti chiede in grazia che cotesto mese
Di Aprile sia chiamato in avvenire
Dal nome tuo Neroniano.
NERONE
Ed io
V’acconsento.
MENECRATE
Nerone è generoso!
NERONE
Anzi mi sembra che sarebbe giusto
Dal nome mio chiamare non l’Aprile
Ma Roma.
MENECRATE
E in ver Neropoli è parola
Di gran magnificenza!
NERONE
Ed ò diritto
Incontrastato a così grande onore.—
Romolo fabbricò poche capanne,
E mura da saltarsi per trastullo;
Meglio di Augusto, sui tuguri antichi
Io portici distesi, archi, teatri,
E terme, dove forzeremo il mare
A portare il tributo.
RUFO
Il desiderio
Tuo sarà legge al Senato.
NERONE
Va dunque,
Buon Rufo, e sappia il popolo ch’io stesso
Oggi darò spettacolo, cantando
Nel pubblico teatro... Ammireranno
[35]L’Edipo Re.—Che artista sovrumano
Quel Sofocle! Che limpida armonia
Di concetti e di versi!...
(correndo dietro a Rufo che sta per uscire)
Una parola,
Ancor, buon Rufo: Vindice sia tosto
Richiamato... M’intendi?—Il traditore
Troverà la sua croce.
(Rufo esce)
Nerone, Menecrate
NERONE
E tu introduci
Adesso la fanciulla, e poi disgombra.
Insieme armonizzavano il buffone
E il principe del nostro buon Senato,
Ma la bellezza, Menecrate mio,
Ahi! stonerebbe avanti a quel tuo ceffo
Come un verso d’Omero accompagnato
Dalla cetra d’un barbaro.
MENECRATE
Mi sembra
Omerico il confronto.
(Il buffone esce)
Nerone, poi Egloge.
NERONE
Ei fu gridato
Imperatore... Vindice!—Ed io tremo
Di lui? Stolto! La plebe è mia, m’adora,
E, immane belva dalle mille teste,
Incitarla saprò contro il fellone
Che ardisse di contendermi l’imperio.
(Vedendo comparire Egloge)
Ch’io passi intanto i giorni nel piacere,
Ed eccone la dea!—T’inoltra: ieri
Danzar ti vidi assai leggiadramente,
E mi piacesti.—Il tuo nome?
EGLOGE
Mi chiamano
Egloge.
NERONE
La tua patria?
EGLOGE
Io nacqui in Grecia.
NERONE (guardandola con entusiasmo)
Tu pure Greca! Amabile paese
È il tuo, bionda fanciulla: à il privilegio
Della bellezza. In quella terra tutto
È bello, dall’Iliade al Partenone.
Fin Leonida re co’ suoi trecento
Quando morì, creava la più bella
Delle battaglie.—Oh benedetto il suolo
Dove natura artistica produce
Statue divine e più divine donne!
E gli anni tuoi?
EGLOGE
Interroga il mio volto
[39]E avrai risposta. Io danzo spensierata,
E danzo sempre come vuol mio stato,
E non ò mai contato gli anni.
NERONE
Sei
Libera?
EGLOGE
Sono schiava.
NERONE
Schiava!—Narra
Ciò che conosci de’ tuoi casi.
EGLOGE
I miei
Casi son brevi.—Fanciulletta appena,
Con altre mie compagne atenïesi
Fui rivenduta in pubblico mercato
Ad un padrone astuto nel mestiere
Di offrir giochi e spettacoli alla plebe.—
Costui comprava insieme orsi e fanciulle:
Ei mi fece erudir nell’arte lieta
Delle danze, e danzando trasvolai
[40]Per le città dell’Africa e d’Italia.
Ecco i miei casi.—Qualche volta ai plausi
Aggiunsero le genti una corona,
Ed ànno detto che son vispa e bella.—
NERONE (pigliando un’aria feroce)
Sai chi son io?
EGLOGE (sorridendo)
Nerone imperatore.
NERONE
Abbi un’idea di mia potenza.—Avvenne
Che in certa notte io m’annoiassi:—in queste
Aule ahi sovente penetra la noia,
Tetra visitatrice e non chiamata!
EGLOGE
Io mai non la conobbi.
NERONE
Tu, fanciulla,
Non conosci la noia?
EGLOGE
Io danzo, e rido.
NERONE
E ridi sempre?
EGLOGE
Sempre.
NERONE
Io non t’ò fede;
Anche Giove s’annoia—e in que’ momenti
Sovverte le città, sveglia tempeste,
E par che pensi a scardinare il mondo.
È doppia voluttà: chi crea distrugge,
Ed io, Giove terreno, imitai l’altro
Ch’abita nell’Olimpo. Ardea la lampa
Monotona d’innanzi agli occhi miei
Che cercavano il sonno;—arda una luce
Più vasta, io dissi—e sorsi e bruciai Roma.—
EGLOGE (sorridendo)
Ài terribil potenza.
NERONE
Eppur non giunge
A quella de’ tuoi sguardi, o allettatrice
[42]Bellissima! Oh mai più questo tuo corpo,
Che le mani formaron delle Grazie,
Tenti il desìo ne’ torbidi teatri
D’una plebe villana!—A te fo tempio
Della mia casa.—D’ora innanzi i tuoi
Biondi capelli spargerai d’unguenti
Prezïosi, e le morbide carole
Moverai col tuo piè sopra i tappeti
Alessandrini; plaudirò sol io,
Io, che m’intendo nell’arte di Fidia,
Il tuo compatriota—e questa molle
Voluttà delle giovani tue forme
Eternerò fingendola nel marmo.
Tu mi piaci, o fanciulla.
EGLOGE (sfuggendo dalle braccia di Nerone)
In Grecia intesi
Narrar che una fanciulla piacque a Giove
Quando Giove venìa sopra la terra
In umana sembianza.—Ahi! l’infelice,
Spinta da cieco amor, volle abbracciarlo
Nella fulgente maestà del Dio,
E cadde incenerita.—Uccide adunque
Un amplesso di Giove.
NERONE (vezzeggiandola nei capelli e nel viso)
Queste sono
Istorie vecchie, e niuno più vi crede
Al nostro tempo.
EGLOGE
Un giorno, appena i tuoi
Littori apparver nel teatro, il grido
Universale si levò: Salute
A Cesare!—Febèa, la mia compagna,
Allor mi disse: vedi tu quell’uomo
Che pare un Dio?—Sciagura sulla donna
Ch’egli ama!
NERONE
Così disse?
EGLOGE (guardando maliziosamente e sorridendo)
Io già sapevo
Che avevi ucciso le tue mogli.
NERONE (pieno di meraviglia e scostandosi da lei)
Sai
Questo, mi stai d’innanzi, e mi sorridi?
EGLOGE
[44]E a che dovrei tremare? Un sol tuo cenno
Mi può tôrre la vita—e cosa è mai
La vita, o imperatore? Io vo’ sorridere
Finchè mi brilla in viso giovinezza,
E giovinezza d’una schiava è come
Quella corona che si pone in capo
Il convitato all’ora del banchetto:
Fra l’urto e il fumo delle tazze piene
La povera ghirlanda ecco è caduta
Dalla fronte dell’ebbro, e la raccoglie
Il servo, e via la gitta spensierato
A marcir sulla strada.
NERONE
Tu non sei
Più schiava.
EGLOGE
E il mio padrone?
NERONE
Io son padrone
Di tutti e, se n’ò voglia, sopra un dado
Posso giocare tutte le province
D’un tributario Re.
EGLOGE
Dunque son io
Libera?...
NERONE
Più che libera, tu sei
In queste sale imperatrice; io vesto
La tua persona con la luce mia,
E innanzi a te come d’innanzi a Diva
Roma si prostrerà per adorarti.
Schiava per ora, dal tuo ciglio schiavi
Tutti dipenderanno; e sapïenza
Fu degli antichi se inalzaron templi
E votive corone alla bellezza!
Danza frattanto. Sofocle m’aspetta,
Sofocle ch’ò svegliato dal sepolcro
Perchè con la mia voce un’altra volta
Insegni dalla scena i luttuosi
Fati del figlio di Giocasta.
(Nerone esce)
Egloge
Io sono
Libera! E posso dir questa parola
Ove alberga colui cui serva è Roma!
E non è sogno il mio?—Libera!—Sento
Un’ebbrezza nel sangue, e a me d’intorno
Esulta un’aria nova.—E se poi fosse
Un sogno... un sogno d’un’ora?...
(inginocchiandosi avanti la statua di Venere)
O divina,
Tu che prodotta fosti dalle bianche
Spume del mare, e ti compiaci in Gnido
Di avere inni e sospir dalle fanciulle,
Custodisci, ti prego, queste chiome
E la bellezza mia, tu regni il mondo!
Egloge, Atte
ATTE
Una donna!...
(avanzandosi verso Egloge)
Chi sei? Che ufficio è il tuo
In questa sala imperïale?
EGLOGE
Io sono
Egloge saltatrice.—E tu?
ATTE
Non giova
Che tu sappi il mio nome.
EGLOGE
Ti comprendo,
O poveretta, tu sei schiava.
ATTE
Schiava!
EGLOGE
Se tal non sei, meglio per te.—Poc’anzi
Io pure ero una schiava, e occultamente
Piangeva questo mio giovane tempo
Che il padrone spendea siccome il pazzo
Spende la sua moneta; or però sciolgo
Libere danze, e il mio vasto teatro
È la casa di Cesare.
ATTE
A lui devi
La libertà?
EGLOGE
A lui.—Perchè mi guardi
Così?... Quanto son truci gli occhi tuoi!
Tu mi metti spavento.
ATTE
(prendendo affettuosamente per le mani la saltatrice)
Odi! rivela
Ogni tuo detto un’infantile e gaia
Natura—e vo’ salvarti.
EGLOGE
Vuoi salvarmi?...
ATTE
Ritraggi il piede, o folle giovinetta,
E non danzar sull’orlo d’un abisso.
Sai tu bene chi sia questo Nerone
Che ti chiamava a sè? Fidi tu forse
Nelle impromesse sue?—Lieta di fiori
Tu fingi innanzi a’ passi tuoi la strada,
Ed ahi! t’è ignoto che in cotesta casa
I fiori stessi ne’ loro profumi
Accolgono la morte!—Va, fanciulla,
Al tuo Dio salvatore offri un incenso,
Nè rivolgerti indietro a rimirare
L’incantato palagio. Sopra l’uomo
Ch’abita qui, signore delle genti,
Non tiene imperio che una donna sola.
EGLOGE
E cotesta felice?
ATTE
Ti sta innanzi,
O fanciulla; son io.
EGLOGE
Tu dunque sei
Atte liberta?
ATTE
Quella.
EGLOGE
E tu non tremi
Di Nerone, tu sola?
ATTE
Io sola.
EGLOGE
Vengo
A contrastarti questo privilegio.
ATTE
Che dici?
EGLOGE
Io pur non tremo del feroce
Imperatore.
ATTE
Tremerai, ma quando
Giovarti non potrà la tua paura.—
Ascoltami, o fanciulla: al dolce modo
Del tuo parlar conobbi che sei Greca.
EGLOGE
Ài detto il vero.
ATTE
Ebbene, anch’io son nata
Nella patria di Pericle e di Fidia,
E schiava anch’io venni gittata in questo
Meraviglioso ergastolo di schiavi
Che si nomina Roma. Eppur benigna
[52]Provai la sorte: nelle case crebbi
Della gente Domizia, e quel Nerone
Ch’oggi ài veduto imperator del mondo
Io l’incontrai fanciullo, e seco i giochi
Dell’infanzia divisi e l’allegrezza.
Oh! egli allora non sembrò malvagio,
E implorata da lui mi fu concessa
La cara libertà.—Gli anni passaro;
Io rimasi una povera liberta,
Ed ei saliva al paventato seggio
Che fa dell’uomo un Dio; ma tutta intera
La ricordanza non morì di quella
Età felice, e in sua grazia non sono
Esclusa dalla turba a cui vien dato
In ogn’ora del dì goder la diva
Faccia del sommo imperatore. E quante
Stragi non vidi?—La potenza, come
Inebbriante vino, disnatura
L’intelletto,—e quell’indole sì mite,
Ch’adorai nel fanciullo, a poco a poco
Strana ferocia addiventò nell’uomo;
Occulta da principio e rara—e poi
Erompente implacabile su tutti,
E contro tutto. La sua madre, due
Sue mogli, il suo maestro, emuli, amici,
Empia ravvolse una fortuna stessa,
[53]E i delator che inventano congiure,
Seduti presso alle gemonie scale,
Contan monete sanguinose, e scherzano
Sui rotolati capi e sulle orrende
Agonie.—Va, fanciulla spensierata,
E che mai speri qui?... Nerone suole
Incoronar la vittima di rose:
Negagli fede, ancor n’ài tempo—vanne...
Esci di questa casa.
EGLOGE (sorridendo sempre)
Io vi rimango.
ATTE
Tu vi rimani!
EGLOGE
E perchè no? La tetra
Storia che mi narrasti erami nota,
E al tuo consiglio, o amica, debbo solo
Una risposta.
ATTE
E quale?
EGLOGE
Tu sei viva.
ATTE
E che intendi?
EGLOGE
Sfavilla novamente
L’ira dagli occhi tuoi... Perchè t’incresce
Che qui rimanga?—Oh lasciami ch’io goda
Di questa cara gioventù che fugge
Almeno un’ora! Al labbro mio la tazza
Io porsipôrsi appena del piacere, e vuoi
Che via la getti senza inebbriarmi?
L’imperatore stesso m’à donata
La libertà; qui per la prima volta
In queste sale rilucenti d’oro
Trovo un’idea di cielo nella terra,
E tu, cattiva amica, mi consigli
A ritornar sotto l’amara sferza
Del mio padrone? Predicesti un’alba
Fosca alla notte de’ miei folli sogni:
Ebben, che importa? Un’ora di tal vita
[55]Vale ben più di molti anni trascorsi
In servitù.—Godiam, godiamo adesso
Che la gioconda Venere ci bacia
Con l’odorata bocca sulla fronte;
Vecchiezza ne sta dietro e il regno morto
Ove più non si danza e non si gode!
ATTE
Il mio consiglio, o semplice fanciulla,
Non è di farti schiava un’altra volta.
Dimmi: da che lasciasti il bel paese,
Non t’assalse giammai la tormentosa
Febbre di rivederlo?
EGLOGE
È ver, talvolta,
Bench’io tenti scacciarla, in fondo al core
Mi siede una crudel melanconia,
E in que’ momenti come in visïone
Di sogno mi sorride un altro cielo,
E una città bellissima, e i suoi templi
Eleganti. Ma dura breve tempo
L’illusione, perocchè lontani
E confusi ricordi ò della sacra
[56]Città dove son nata... Ero bambina
Quasi, allorchè dalla fuggente nave
Volsi al Pireo gli ultimi sguardi. Rido
Allora di me stessa, e in più serena
Cosa fermo il pensiero. Mi domandi
Se ò mai desìo di rivedere la patria:
E a che dovrei vederla? Alcuna porta
Non s’aprirebbe innanzi a questa nova
Peregrina, nè un coro di compagne
Mi verrebbe d’intorno a farmi festa.
Come in ogn’altro loco della terra,
Sono straniera anche in Atene.
ATTE
Io posso
Mutar la tua fortuna, e troverai
Con essa le compagne, e quella vasta
Turba di parassiti e adulatori
Che s’accalca devota intorno al ricco.
Va, ritorna in Atene,—avrai tesori
Quanti finora immaginar non seppe
La tua povera mente.
EGLOGE
Li promise
A me l’imperatore.
ATTE
Egli!... Nè vuoi
Partir?...
EGLOGE
Tel dissi, io rimango abbracciata
Alla fortuna mia.
ATTE
Su te sciagura,
O malaccorta!
EGLOGE
Oh, che vuoi dire?...
ATTE
Io dico
Che dall’impuro stato ove giacevi
I tuoi provocatori occhi levasti
Fino al trono di Cesare, fidando
Nel reo potere della tua bellezza;
Ma non vi perverrai, stolta fanciulla;
Distruggere saprò con le mie mani
La turpe tua bellezza.
(leva un pugnale e corre sopra Egloge)
EGLOGE (mandando un grido e fuggendo)
Oh, chi mi salva
Da questa furibonda?
ATTE (inseguendola)
Non mi fuggi!
Atte, Egloge, Nerone, Faonte,
Liberti, Schiave
NERONE (accorrendo)
Chi manda tali strida?
EGLOGE (cadendo svenuta tra le braccia di Nerone)
O imperatore,
Aiutami!
NERONE (ad Atte)
Va indietro, o donna!
ATTE (allontanandosi)
Sempre
Salvar non la potrai.
NERONE
Esci—nè un motto non
Aggiungere.—Sarebbe il motto estremo.—
(Atte esce)
E voi, schiave, traete la svenuta
Alle mie stanze: balsami e profumi
Avvolgano la bella creatura,
E spargete di fiori il suo cammino.—
Tu, mio Faonte, bada! col tuo capo
Mi rispondi del suo.
(Le schiave trasportano via Egloge;
Faonte e i liberti la seguono)
Nerone
Fatal possanza
quell’Atte su me:—sovente ardisce
Gelosa opporsi alle mie voglie, ed io
Che potrei con un cenno l’eloquente
Gola troncar di tutti i senatori
Mi trovo inerme in faccia a questa sola
Femmina.—Non è caso naturale:
Costei per certo ottenne un incantato
Filtro da qualche maga di Tessaglia
E a me lo porse... Ma l’incanto infame
Romperò...
(passeggia inquieto)
L’improvviso impeto d’ira
Ecco toglie la dolce limpidezza
Alla mia voce... E in tal momento!... Vieni
Menecrate. Quai nuove?
Nerone, Menecrate
MENECRATE
Immensa folla
Si mostra per le vie; corre a bearsi
Nell’artista divino.
NERONE
Oggi son rauco.—
E i pretoriani?
MENECRATE
Armati ànno accerchiato
Tutto il teatro. Avrai sonanti applausi,
E spontanei.
NERONE
Mi siegui.
MENECRATE (fermandolo)
Un’altra nuova:
Cassio Longino è morto.
NERONE (meravigliato)
Così presto!
MENECRATE
Appena udì l’accusa del Senato,
Sorse dal desco, salutò gli amici,
E stoicamente si tagliò le vene.
NERONE (sorridendo)
I romani àn coraggio.
MENECRATE (sorridendo anch’esso)
E il morto avea
Quattro ville... tel dissi.
NERONE
Ebbene?...
MENECRATE
Ebbene?...
Io non ò ville.
NERONE
Intendo; ne avrai una.—
Ora al teatro!
MENECRATE
I lauri al gran cantore!
(escono)
Fine dell’atto primo
Una taverna in via della Suburra. Un desco e rozze panche di legno da un lato della scena. Notte. Una lampada pende dalla vôlta. Mucrone taverniere ed una Schiava d’Etiopia.
MUCRONE (sull’uscio della taverna,
guardando verso il cielo)
Eccola là l’orribile cometa;
La sanguinosa coda occupa quasi
[68]Metà del firmamento. Che gli Dei
Ci scampino! La fame già sovrasta
Alla città... Brutto mestiere è quello
Del taverniere quando manca il pane.—
(rientra nella taverna)
E tu che fai lì ritta come mummia
Del tuo paese?—Piglia un lume, scendi
Nel sotterraneo, e l’ànfore disponi
Ch’oggi colmai di limpido Falerno,
E sii cauta a non romperne qualcuna.
Meglio sarebbe che nella parete
Rompessi la tua nera fronte.
(La schiava prende il lume ch’arde sul tavolo ed esce)
E un passo
D’uomo non s’ode per la via... Che tutta
Roma sia morta?...—Giocherò coi dadi;
Giocando solo, avrò benigna almeno
La meretrice ch’ànno fatta Iddia
Chiamandola fortuna.
(Siede avanti al desco, e giuoca da sè coi dadi)
Entrano Petronio gladiatore, Nevio pantomimo, ed Eulogio mercante di schiavi.
PETRONIO
Taverniere,
Vino!
NEVIO
E sia quel di Cècubo.
MUCRONE (alzandosi e correndo incontro ai nuovi arrivati)
Salute
Ai cari ospiti!
EULOGIO
A te non la rimando.
Quella tua faccia rubiconda e lieta
Me ne dispensa.
MUCRONE (chiamando da un lato della scena)
Schiava, il mio migliore
Cècubo.
NEVIO
E che scintilli nel bicchiere
Come un’occhiata d’Egloge, la vaga
Saltatrice rubata da Nerone
Alle mie pantomime.
EULOGIO
Ei può rubare
L’imperatore—è tempo suo.—Ier l’altro
Certi ladroni entrarono nel tempio
Di Marte Ultore e gli tolsero l’elmo.
PETRONIO
Viva l’Ultore!
MUCRONE (dopo aver preso dalle mani della schiava
una grossa anfora, e presentandola)
Viva questa sacra
Anfora che ricorda almeno il tempo
Di dieci consolati!
(La schiava distribuisce le tazze; tutti bevono)
PETRONIO
È prezioso
Nettare.
NEVIO
Degno di Giove, fra i Numi
Massimo bevitore.
EULOGIO (alla schiava)
E tu ricolma
La mia tazza, sebben cotesto uffizio
Lo adempiresti meglio dove alberga
Pluto, il padrone tuo.
MUCRONE (al mercante di schiavi)
Pure è tua merce.
EULOGIO
Nè la pagasti più di ciò che vale.
MUCRONE (a Nevio)
E de’ Questori cosa avvenne?
NEVIO
Ridono
Anch’essi sulla fame della plebe.—
Udite questa: all’ora del tramonto
Oltre il ponte Sublicio io me ne giva
Lungo la via del Tevere, e là dove
Si calano le merci dalle navi
Veggo una turba immensa che s’affolla
Sulla riva, gridando: benedetto
Sia Nerone!—Eran donne con i loro
Bambini fra le braccia, eran fanciulli,
Ed uomini dipinti dal pallore
Della fame. Quel grido era speranza
Che in una nave, giunta poco prima
Dall’Egitto, il frumento s’accogliesse
Tanto desiderato.—Ahimè, ben presto
Quella speranza si mutò in feroce
Urlo d’imprecazione e di minaccia:
[73]La nave Alessandrina andava carca
Di certa polve destinata all’uso
De’ gladiatori imperïali!
PETRONIO
Credo
Che non sia giusto l’imprecar del volgo.
Vecchio qual sono, io l’ascoltai sovente
Gridare dietro ai Cesari: Vogliamo
Pane e i giochi del circo. Or bene, manca
Il pane di frumento? se ne faccia
Uno di quella polve; mille volte
Per sollazzarlo noi l’abbiamo aspersa
Con le nostre ferite.
MUCRONE
L’argomento
Mi sembra troppo acerbo—eppur non posso
Rispondervi.
PETRONIO (presentando la tazza vuota)
Rispondi a me, versando
Cècubo fino all’orlo.
EULOGIO (tutti ribevono)
[74]Alla salute
Del vecchio gladiatore!—Avete mai
Visto in una campagna abbandonata
Un rudere di tomba o d’una casa,
Tacito avanzo di perdute istorie?
È tale, amici, questa calva testa,
Rudere umano, avanzo dei cruenti
Giochi di quattro imperatori.
NEVIO
Il nostro
Petronio vide ben molte nefande
Cose.—Oh gli antichi tempi! O venerata
Età de’ padri nostri!
EULOGIO (sorridendo, a Petronio)
Il mimo ha letto
Qualche vecchio poema, ed inspirato
Dalla memoria degli eroici versi
In cor vagheggia quel divino Curio
Che andava dietro i buoi—nel capo ancora
Cinto dei lauri che fugaron Pirro!
(volgendosi a Nevio)
Ma questi son rettorici sospiri,
Amico mio; nel secolo moderno
Solo i bifolchi van dietro all’aratro.
NEVIO
Ed io con quanta voce ò nella gola
Ed ira in petto maledico a questo
Secol moderno, secolo di vili
Che genuflessi incensano il tiranno,
Secolo di bastarde anime!—Voi
Di me ridete, il so;—povero mimo
Avvezzo sulla scena a mutar faccia
Come la veste, io mi son venduto
Al capriccio e alle risa della plebe;
Ma questo mimo, in mezzo a così vasta
Dimenticanza, degli eroi sepolti
Legge ne’ monumenti, impara i nomi,
E quando i successori di que’ Padri
Che rimaser seduti incontro a Brenno
Decretaron corone al matricida
Imperatore, questo mimo seppe
Nascondere il suo volto per vergogna,
E ringraziò gl’Iddii che in tanto reo
Avvilimento del patrizio nome
Serbaron desta nel suo sangue oscuro
Una scintilla dell’orgoglio antico.
EULOGIO (battendo con enfasi le mani)
[76]Sublimemente! Roscio non avrebbe
Detto meglio di te. Ma fammi grazia
D’allontanarti; odori di carnefice
Lontano un miglio.
NEVIO
E voi mandate puzzo
Di codardìa.
PETRONIO
L’ingiuria che scagliasti
Non può toccarmi.
EULOGIO
Ed io la prendo intera
Nè m’offendo, poichè sono di quelli
(E conto i più) ch’aman lasciare il mondo
Come l’ànno trovato—e per natura
Pacifica ed in forza del mestiere
Odio la novità.—Già tra i miei schiavi
Udii parlar di carità e di dritti
Che loro accorda una novella legge
Trovata da un giudeo, che affisso in croce
Morì sotto Tiberio.—Or io dimando
Che avverrebbe di noi se, mentre in sogno
[77]Rifabbrichiamo il vecchio Campidoglio,
Questi schiavi s’accorgono che sono
Uomini veri e non roba da merce?
NEVIO
Ciò che di voi sarebbe, non predico;
Ma so che questa umanità soffrente
Otterrebbe vendetta.
PETRONIO
E allor potresti
Chiuder la tua bottega, o venditore
Di carne umana!
EULOGIO (inquietandosi)
E contro me tu pure
Bruto!—Non parlo più.
(Va a sedere solo avanti al tavolo)
Mucrone, Eulogio, Nevio, Petronio,
ed Icelo centurione.
ICELO (entrando)
Salute a voi,
Cittadini!
NEVIO (correndo verso Icelo)
Giungesti finalmente:
Ebbene?
ICELO
Reco splendide speranze.
NEVIO
Le narra.
(seguono a parlare fra loro sommessamente)
EULOGIO
Invito ai dadi.
MUCRONE
Accetto.
PETRONIO
Io pure.
MUCRONE
Dichiaro i patti: io non arrischio al gioco
Che il Cècubo bevuto.
EULOGIO (mettendo alcune monete sulla tavola)
Eccone il prezzo.
PETRONIO
Ed ecco il mio.
MUCRONE
Che Venere mi salvi!
(giuocano fra loro)
NEVIO
E creder posso?
ICELO
La novella è certa,
E l’udii susurrare fra i soldati
Nel campo pretoriano: al ribellato
Esercito di Gallia omai s’aggiunse
L’altro di Spagna, e d’adoprarsi è tempo
Per la caduta del tiranno. Avvezza
A mutare padroni ed affamata,
La plebe insorgerà, nè v’à legione
Che mova sì gagliarda alla battaglia
Come un popol ch’à fame.
NEVIO
E i pretoriani?
ICELO
Non piglian soldo da tre mesi.
NEVIO
Nostri
Saranno.—Oh! per gli Dei torni una volta
Quella che tanto amâr Catone e Bruto
Divina libertà.—Che ci lasciarono
Questi eredi di Cesare? vergogna,
[81]Ozio, catene. Conculcato giace
Ogni dritto—la scure dei littori
Troncar vorrebbe a mezzo anche il pensiero!
E là nel campo del romano Marte
Ove co’ plebisciti glorïosi
Il nostro popol-re parlava al mondo,
Or sta silenzio—quel vile silenzio
Che i vivi agguaglia ai morti, ed in sepolcri
Converte le città.—Tentiamo, o amico;
È sublime l’impresa e a noi seguaci
Non mancheranno. Se contraria avremo
Fortuna, avremo gloria, e un bel morire
Anteporremo a brutta vita.
EULOGIO
Fermi!
Venere! Ò il punto vincitore.
MUCRONE (scagliando via i dadi)
E sempre
Così con questi dadi maledetti!
EULOGIO
Taverniere, il tuo Cècubo è pagato.
(Ripiglia le sue monete)
I sopradetti personaggi, e Varonilla Longina
VARONILLA (entrando spaventata nella taverna)
Al soccorso!—m’inseguono!
NEVIO
Che avvenne?
ICELO
Una patrizia!
PETRONIO
In ora così tarda!
MUCRONE
E in tale strada!
NEVIO (andando verso Varonilla)
Càlmati;—qui stai
Fra cittadini, e sicura.
PETRONIO (a Mucrone)
Scommetto
Che l’insegue il marito.
MUCRONE
Od un amante
Sciocco a tal segno d’esserne geloso.
VARONILLA
Io son la figlia di Cassio Longino
Che fu dannato a morte, perchè buono,
Sotto un governo tristo; i suoi poderi
Li confiscò la legge, e debbo solo
A carità di amici se una tomba
Accolse il sacro cenere. Il mio loco
[84]È da più giorni là presso quell’urna,
E dianzi men tornava accompagnata
Da fida ancella, quando nella via
Che conduce al Velabro da due schiavi
Mi si vieta il cammino e con minaccie...
Ahi! m’inseguono ancora... Eccoli...
I sopradetti personaggi,
Nerone, Menecrate in veste da schiavi
NERONE (accennando sulla porta della taverna a Menecrate Varonilla Longina)
Pura
Colomba, ella conosce il proprio nido.
MENECRATE
E sceglie una taverna.
VARONILLA
Un tale insulto!...
ICELO
Io saprò vendicarlo.—E voi chi siete,
Malnati schiavi?
NEVIO
Non è questa notte
Di saturnali.
EULOGIO
Son giudei: alla croce
Come il loro profeta!
ICELO (a Nerone)
Non rispondi?
E come osavi alzar la mano infame
Su cittadina libera?
MENECRATE
Credendo
Che in questa Roma non vivesse alcuno
Libero cittadino.
NEVIO (avanzandosi)
Tu mentisci.
Io son quell’uno.
MENECRATE
O me più fortunato
Di Diogene! ò trovato un cittadino!
EULOGIO (afferrando per il collo Menecrate che invano si dibatte)
E in prova ti sequestro il vile corpo
In cui la legge non vede la testa.
ICELO (avanzandosi di più verso Nerone)
Ed io sequestro il tuo.
NERONE (scostandosi e levando di sotto la veste un corto coltello)
Va—non toccarmi,
O ch’io...
VARONILLA.
Brandisce un’arma!
PETRONIO
A me la lotta
Con costui.
(Nerone, udite le parole di Petronio, getta il coltello e si scaglia contro il gladiatore)
MENECRATE
Maledetto tafferuglio!
NERONE (dopo una breve lotta cadendo a terra)
Per gli Dei dell’averno!
PETRONIO
Ecco atterrato
Il grande atleta.
I sopradetti personaggi, Atte, Vinicio prefetto del Pretorio, soldati pretoriani.
ATTE (accorrendo)
Entrate, pretoriani,
Salvate il vostro imperatore.
MUCRONE
Quello
L’imperatore?
GLI ALTRI PERSONAGGI
Nerone!...
MENECRATE (dando un largo sospiro)
Era tempo.—
NERONE (balza in piedi rapidamente; tutti si scostano pieni di spavento)
Sì, Nerone son io;—nè tal sorpresa
È per voi molto grata, s’argomento
Dalla paura che v’imbianca il viso—
Ed è paura giusta.—È chiaro come
Luce meridïana che voi tutti
Al mio cospetto vi sentite rei
Di lesa maestà.
(Sbigottimento nei personaggi e silenzio)
Difenditore
Qual sono delle leggi dovrei quindi
Consegnarvi ai littori.
(Altro silenzio)
Ma compagna
Abbiamo nell’imperio la clemenza,
E assai volenterosi perdoniamo!
(Ad un cenno di Nerone Vinicio e i pretoriani escono dalla taverna)
MENECRATE
E a’ malcontenti piace d’inventare
Che Nerone è crudele!
NERONE (a Petronio)
A te, felice
Vecchio, per lode basti la memoria
Di avermi vinto!
PETRONIO
S’io sapea che meco
Lottava il divo imperatore, avrei
Rinnegato i miei polsi.
NEVIO (avanzandosi)
Io per contrario
Usato avrei della vittoria.
MENECRATE
Udiamo
Il cittadino!
NEVIO (piantandosi fieramente incontro a Nerone)
Avvezzo alle servili
Compiacenze tu sei;—nova ed ardita
Ti parrà dunque la parola mia,
E ignoro se darai grazie al tuo fato
[92]Che qui ti spinse ad ascoltarla.—Assiso
Sul gran fastigio del potere umano,
Prendi a gioco, o Nerone, uomini e Dei,
E resti ai lutti altrui sordo ed immoto
Come quel simulacro che inalzavi
Avanti alla tua casa, monumento
Fiero dell’arte e della tua superbia.—
Rammentati Trasèa, l’illustre vecchio
Che a morir condannasti. Il centurione
Ch’apportava il decreto del Senato
Lo rinvenne tranquillo ascoltatore
Di Demetrio filosofo.—All’iniquo
Annunzio eruppe il grido de’ congiunti
E dei servi—io là stavo in mezzo ad essi:
Il vecchio solo tacque, e parve lieto;
E poi ch’ebbe abbracciata la sua figlia,
Si fece aprir le vene, e poche accolte
Stille di sangue nella man tremante,
Ne sparse il suolo, offerendole a Giove
Liberatore—indi si volse a noi
Meravigliati, e disse: Addio! voi lascio
In prava età; vi giovi affrancar l’animo
Con forti esempi.—Tu, Nerone, or senti
Se que’ detti imparai.—Cotali infamie
Operi tu nelle poche famiglie
Che restan de’ patrizi; e potrei dirti
[93]Quelle infinite che nel nome tuo
Fanno i tuoi sgherri tra i plebei?—E non tremi?
Ma il pianto che si versa nei tuguri
Dell’oppresso diventa odio, e dall’odio
Poi nasce il giorno del final gastigo.
NERONE (dopo averlo ascoltato attentamente, rivolgendosi a Menecrate)
È un artista costui—declama bene
E à bella voce.
(Avanzandosi verso Nevio)
T’apro la mia casa
Come a compagno; anch’io sono un artista,
E conversando insieme, chi sa forse?
Noi giungeremo a divenire amici.—
Ma dove è mai la bella fuggitiva?
Perchè t’ascondi? via, lascia il timore,
Più non sono uno schiavo.
VARONILLA
T’allontana.—
Tu grondi sangue!
MENECRATE
E questo è falso: usciva
Pur or dal bagno.
VARONILLA
Sì, tu grondi il sangue
Del padre mio, Cassio Longino!
NERONE
Oh vedi
Fatalità!
MENECRATE
Proprio sua figlia!
NERONE
Intendo
Il tuo dolore, o giovinetta; eppure
Non spesi verbo ad accusar quel vecchio
Perchè non lo conobbi. Fu lo zelo
Del nostro buon Senato, zelo atroce
Spesso—ma necessario.
(Volgendosi a Nevio)
Non è vero,
O amico artista?—
(Indi a Varonilla)
Ma in parlarti sono
[95]Assalito nel cor da furïosi
Impeti di clemenza, e a te concedo
I beni confiscati.
MENECRATE (tutto spaventato corre all’orecchio dell’imperatore)
E la mia villa?
NERONE
Ricerca un altro Bruto.
MENECRATE
Ove trovarlo?
NERONE
Basta che sia di pietra.—
(Volgendosi agli altri personaggi)
È omai profonda
L’umida notte, come dice il nostro
Immortale Virgilio—e vi consiglio,
Buoni Quiriti, a ricercare il sonno
Entro alle vostre case.
ICELO (nell’uscire, a Varonilla)
A te, fanciulla,
Io sarò guardia nella via.
EULOGIO
Salute
A Cesare Divino!
NERONE
E tu chi sei?
EULOGIO
Un mercante di schiavi.
MENECRATE (sommessamente a Nerone)
Egli t’aiuta
A sostener l’imperio.
NERONE
Va—disgombra
Tu pure.
MENECRATE
Aspetterò lungo la strada.
(Varonilla, Icelo, Eulogio, Petronio, Nevio escono)
Mucrone, Nerone, Atte.
NERONE (guardando Mucrone)
In quel tuo pingue corpo riconosco
Il taverniere; ài ricca la cantina?
MUCRONE
Divo Nerone, per te conservai
Falerno Opimïano di cent’anni.
NERONE
Recalo dunque.
(Mucrone esce)
Io son prostrato!
(Siede sopra una panca)
Corsi
Come briaco per le vie di Roma,
E in quelle oscurità quanti terrori
Lasciai dietro i miei passi e quanto sdegno
Ne’ mariti gelosi!—Intanto pensa
Lo stoico, vigilando arcigno e chiuso
Nella sua stanza. Ed a che pensa?—Io rido.—
Cosa sarebbe priva d’ogni errore
Questa noia che i più nomano vita?
MUCRONE (rientrando con un’anfora)
Ecco il Falerno.
NERONE
Versa—e poscia bevi.
MUCRONE
Un tale onore!...
NERONE
Ciò che stimi onore
Nel tuo cervello—altro nome à nel mio.
MUCRONE
E lo chiami?
NERONE
Prudenza.
(Mucrone versa il liquore nella tazza e ne beve un sorso—Dopo una pausa guardando il taverniere che comincia ad impaurirsi)
Ài tu tranquillo
Il sonno tuo?
MUCRONE
Fatica lo prepara;
Dormo tranquillo.
NERONE (con un grido d’ira)
Ah! tu dormi, o furfante,
E dài ricetto nella tua taverna
Ai nemici del principe?...
MUCRONE (balbettando)
Che pensi?...
Giuro sopra il tuo capo...
NERONE (ridendo)
Basta.—Posa
L’anfora ed esci.—
(Il taverniere posa sul desco l’anfora ed esce)
Nerone, Atte
NERONE
Che da questo nappo,
Come dai labbri d’una cara donna,
Mi sia dato di suggere l’obblio
D’ogni uman fastidio!... Il nappo pieno
È il maggior dei poeti—e dagli acuti
Effluvi della magica bevanda
Si crea nell’aria il sogno dilettoso
Ch’inebria la mente e ingiovanita
L’eleva al regno della poesia!—
[102]Mi piace la taverna; quando ride
Il mio pensiero, anch’essa mi risplende
Come il triclinio imperïale.
(Volgendosi, e vedendo Atte
ch’è rimasta sempre silenziosa in fondo della scena)
E stai
Lì muta?
ATTE
Ascolto.
NERONE
E non mi lodi?
ATTE (avanzandosi)
Io piango
Su te, Nerone!
NERONE
Non ti pigli l’estro
Di darmi lezïone di morale
Filosofia; da Seneca già n’ebbi
Troppe, sebben lo stoico traesse
Non conforme la vita ai fieri scritti;
[103]Pur morì fieramente. Oh l’opportuna
Morte che gli mandai! Quell’ostinato
Declamator mi deve la sua fama.—
(Porgendola ad Atte)
Io t’offro questa tazza: un inno al Dio
Del piacere!
ATTE (ricusa la tazza; Nerone alza le spalle e la tracanna)
Insensato, il Dio che invochi
È il tuo peggior nemico.—Io vo’ parlarti,
Unir dovessi la parola estrema
All’estremo sospiro; e s’ascoltavi
Pur or codardamente le rampogne
Del primo ch’incontrasti nella via,
Ascolterai me pure.—E sei tu forse
Il successor dei Cesari?—Gli oppressi
Popoli di Germania, ancor non vinti,
Fasciano i corpi sanguinosi, e nuove
Nel fondo dei lor boschi impenetrati
Preparano battaglie: alla congiura
Tendon gli orecchi gli altri confinanti,
E l’odio stesso del romano nome
Unisce i Galli che ne son vicini
Ai remoti Brittanni.—A tanti esterni
[104]Nemici dell’imperio aggiungi i tuoi
Eserciti, rissosi, malcontenti,
E questa plebe che ti sta d’intorno
Piena d’odio e di fame. E tu, Nerone,
Che fai? Come provvedi alla ruina
Che ti minaccia? Tu canti; e allorquando
È d’uopo di mostrarsi eroe sul campo
Ti piace meglio il plauso tributato
All’eroe della scena. Oh, per gli Dei
Tutelari di Roma e dell’imperio,
Vergognati, Nerone! Esci di questo
Ozio una volta, e non per prodigate
Vane magnificenze ma per grido
Di fatti generosi in te risorga
La maestà del popolo di Roma.
NERONE (dando in uno scoppio di riso)
La maestà di Roma! Io ne conosco
Una soltanto, e si dimostra al guardo
Dai teatri ch’ò alzato e dalle terme;
Solida maestà, tormento ai ferri
De’ barbari venturi.—In me pur troppo
Finisce il sangue della casa Giulia,
Ma non degenerai.—Taccio d’Augusto,
L’istrïone più abile che mai
[105]Recitasse una parte imperïale
Sulla scena del mondo; a lui successe
Tiberio—un furbo che gittò sugli altri
I suoi delitti, e si nascose in Capri
Beffatore di Roma e de’ Quiriti.
Che dire di Caligola? Volea,
Endimïone novo, innamorare
La luna, e poi fe’ console un cavallo,
E il Senato approvò—forse credendo
Che in mezzo a tante bestie consolari
Stesse bene un quadrupede.—Mio zio
Claudio è un proverbio: istorico e filosofo,
Spinse la vista fra gli antichi Etruschi,
Ma non seppe gli affari di sua casa.
Lui vivo, la sua moglie si sposava
Ad un altro, e poichè l’ebbe ammazzata
Stupidamente l’aspettava a cena.—
(Riempie un’altra tazza e beve)
Ecco i miei quattro antecessori!
ATTE
L’ombra
Degli altri giovi al tuo splendore; puoi
Aver gloria immortale, e ti procuri
L’infamia?
NERONE
Ignori cosa sïano i morti?
Fantasmi ciechi e sordi.—È ver, nel vecchio
Mondo abitava la virtù; lo giurano
Gli storici, ma quel povero mondo,
Com’è destino delle vecchie cose,
Più non si trova, e il suo maggior campione
A Filippi si dolse amaramente
Di morir virtuoso.—In quanto a’ boschi
Impenetrati di Germania, abbiamo
Aquile da mandare a farvi il nido,
E punirem l’ingiuria onde fu reo
L’esercito di Gallia. La minuta
Plebe, lo so, soffre la fame e impreca,
Ma con vôte parole; essa nel core
M’ama perchè conosce che non sono
Io ch’ò bruciato i campi di Sicilia
E dell’Egitto; negherà gl’incensi
A Giove Pluvio.—Oh, ancora un altro nappo,
Ò sete.—
ATTE
Bevi—inebriati, fanciullo,—
E uguale al pazzo esulta della casa
[107]Che ti crolla sul capo!—Vuoi vedere
L’imperio tuo? lo guarda ne’ frantumi
Di questa tazza.
(Piglia dalle mani di Nerone la tazza e la getta per terra)
Fate saturnali
Sopra tutta la terra, o genti schiave,
E alzate l’inno della gran vendetta.
La terribile via del Campidoglio,
Che i vostri re salivano in catene,
È divenuta via d’una taverna,
E la spada di Cesare cadeva
Di mano all’ubbriaco successore!
NERONE (tentando di alzarsi e traballando)
Dunque raccogli quella spada; al fianco
La cingerò domani, ora m’abbaglia
Il lampo suo.—Cacciato ò fuor di sella
La brutta cura, che il poeta Orazio
Fa galoppar compagna al cavaliero,
E mille fantasie tutte gioconde
Mi scherzano d’intorno. Atte, va, scegli
Le più candide rose, e d’odorata
Corona adorna le mie tempie; i fiori
Nascondono le rughe, e in questa notte
Qual mi chiamasti vo’ parer fanciullo
[108]Ed un fanciullo pazzo e innamorato:
Spirante voluttà dai cari sguardi,
E stanca di sue danze, ella m’aspetta...
Egloge!...
ATTE
Di te, pubblico istrïone,
Degna è la saltatrice! I baci tuoi
Li raccogli dal fango.
NERONE
È così bella
Egloge...
ATTE
Bella!
NERONE
E tu, Atte, mi sei
In ogni giorno più odïosa.
ATTE
E ardisci
Di dirlo a me?
NERONE
Perchè stupirne? il vero
[109]Emerge dalle spume del Falerno,
Come Venere un tempo uscì da quelle
Del mare... Ma non farne grave conto;
Benchè odïosa, eserciti dominio
Sulla mia volontà.—Tu ridi?—Ancora
Non ò potuto ucciderti!
ATTE (andando con impeto d’ira verso Nerone)
Malnato,
Ed ài fidanza che non sorga alcuno
Che possa uccider te?
NERONE (retrocede spaventato)
Quale maniera
D’argomentare è questa?... Ed io son solo,
Per Ercole! e potresti... Olà, soldati!...
È strano, mi si muove sotto i piedi
La terra... E niuno m’ode...—I pretoriani...
Menecrate!...
ATTE
Codardo!...
Menecrate, Atte, Nerone
MENECRATE (entra e va verso Nerone)
Ò provveduto.
Feci condurre una lettiga.
NERONE (abbandonandosi su lui)
O dolce
Menecrate, sostieni col tuo braccio
L’imperatore... Uccider me!... chi mai
L’oserebbe?
MENECRATE (sostenendolo)
[111]Fu sempre un’ardua cosa
L’andar diritto e solo quando s’esce
D’una taverna.
ATTE
E l’àn chiamato un Dio!
MENECRATE (con un sogghigno, volgendosi ad Atte)
In altri tempi... adesso è men che un uomo.—
(Escono dalla taverna)
Fine dell’atto secondo[112]
[113]
Un’altra sala della casa imperiale, statue ed abbozzi di statue. Da un lato della scena una figura in marmo rappresentante Egloge.
ATTE
È questo il tempio ove prodigi d’arte
Meravigliosa spirano dal marmo
[114]Attica grazia, e qui l’imperïale
Pugillator, deposta ogni fierezza,
Si tramuta in artefice. Beffarda
Natura di costui!—La mente à greca,
Romano il core.—Eppure egli una volta
Pianse nel sottoscrivere il decreto
Che puniva di morte un cittadino,
E parve inconsolato, e la scïenza
Esecrò delle lettere!—Nerone
Piangeva, ed ora?—Oh quanto è mai nefanda
La mia fortuna! Io sento che disprezzo
Questo tiranno, e nondimeno l’amo
D’amor che m’impaura, e a lui son tratta
Da ineluttabil fato.—
(Fermandosi avanti la statua di Egloge)
Ecco, egli stesso
Scolpì l’effigie della saltatrice,
Ed a schernirmi le lasciò negli occhi
Quel continuo suo riso!—Non fidarti
Della tua sorte allegra. Ò conosciuto
Le spose di Nerone; erano belle
Più assai di te, di te più assai superbe,
O mercenaria druda d’una notte,
Nè avrian sofferto di mandarmi un guardo
Dal talamo divino... Ove son esse?
Atte, Menecrate
MENECRATE (avanzandosi dopo aver udite le ultime parole di Atte)
Ov’eran prima che fossero nate;
Nel nulla.
ATTE
M’ascoltavi?
MENECRATE
Contro il mio
Desiderio;—ò le orecchie.
ATTE
Non averle
In casa di Nerone.
MENECRATE
In questa casa
Non ò memoria; è ugual virtù.
ATTE
Sei tutto
Malvagio.
MENECRATE (ridendo)
Non ti credo.
ATTE
Io credo a’ tuoi
Costumi.
MENECRATE
A ognuno i suoi;—tu lo contristi,
Io faccio rider Cesare.
ATTE
Chi ride
Non pensa.
MENECRATE
E a che pensare? Oggi siam vivi:
La dimane è del fato.
ATTE
E questo incerto
Fato non temi? Uscito dalla turba
Degli istrioni, te protesse il genio
Cattivo di Nerone, e, accovacciato
Presso il suo trono, adoperi la lingua
Come adopera il carnefice la scure;
Ogni motto è un’accusa, ogni tuo riso
Un vitupero alla virtù. Dall’empia
Arte che speri? Più di te possente
Era Seiano...
MENECRATE
E perdè la sua testa.—
Il fatto è vecchio e noto, ed io non pongo
Grandissima fiducia sulla mia.
ATTE
Nè su quella degli altri.
MENECRATE
È conseguenza
[118]Legittima. Frattanto non mi credo
Nè ottimo nè tristo; io sono quale
Mi fabbricò natura, e in mezzo ai flutti
Di nostra vita navigo là dove
Mi sospinge il destino. In ciò mi vanto
Filosofo più assai di quel maestro
Che si chiamava Seneca. Che giova
Scrivere libri? Ogn’uomo è un libro vivo;
Apri le oscure pagine del core,
Se ti riesce, e leggi.—Io non mi perdo
In tal fatica, e penso che il delitto
E la virtù non siano altro che nomi
Che spesso il primo presta alla seconda
E viceversa, come vuole il tempo
E la gente mutata. Io son buffone;
E che perciò? La vita è un gioco alterno
Di lacrime e di riso e, dove questo
Abbondi, vi subentra il manigoldo
Per temperarlo. Le molte province
Di questo imperio pagano tributi
D’oro e di sangue... Ebbene? Roma à ventre
Per consumarli tutti in un banchetto.
ATTE
A che venisti qui?...
MENECRATE
Precedo il divo
Imperatore.—Nella scorsa notte
L’arte dell’ubbriaco, ed oggi quella
Dello scultore!
ATTE
Ed ami il tuo padrone?
MENECRATE
Se dona molto, l’amo molto, e ieri
M’à rubato una villa.—
ATTE
Oh, poco scaltro
Nerone!
MENECRATE
Ebbe un capriccio.
ATTE
Ed il tuo cuore
Se n’adontava.
MENECRATE (accennandole la statua d’Egloge)
Come il tuo s’adonta
Innanzi a quel capriccio effigïato
Nel marmo e che ti guarda coi maligni
Occhi d’una fanciulla.
ATTE
E che mai pensi,
Buffone?
MENECRATE
Ò già pensato;—adesso svelo
I miei pensieri.—Atte, m’è noto: sei
Gelosa di Nerone, ed è gran pena
L’esser gelosa del signor del mondo!
Non farmi il viso arcigno, ed alla mia
Colpa perdona.
ATTE
Alla tua colpa?
MENECRATE
Senza
Volerlo, afflissi di crudel ferita
[121]L’ambizione ed il tuo cuor di donna.
L’imperatore ed io stavam seduti
Nel teatro ch’à nome da Pompeo;
Sopra il volto di Cesare calava
Densissima la noia, e per cacciarla,
Gl’insegnai quella greca giovinetta
Che danzava levissima com’aria,
Dolce come una grazia.
ATTE
Ed adempivi
Il tuo mestiere.
MENECRATE
Ciò credo; Nerone
Si rallegrò.
ATTE
Malvagio! tu pretendi
Dall’abbiettezza della tua natura
A me scagliare il fango ove t’avvolgi,
E non t’avvedi che non t’è concesso
Neppure d’insultarmi! La tua casa
È la più sozza di quelle taverne
Ch’offendon la Suburra, tue compagne
[122]Son le matrone ch’educò la scola
Di Messalina, tuoi seguaci i vili
Che più non ànno patria nè pudore.
Ritorna in quel tuo mondo, e colà regna
Con l’esosa tua maschera di carne
Che usurpa il loco d’una faccia umana,
Ma qui ti crolla sotto i piè la terra:
L’imperiale porpora nasconde
Invano l’istrione, e molti in Roma
Sanno l’opere tue.
MENECRATE
Corta, a dir vero,
Ma eloquente filippica!
ATTE
E tu trova
Modo, se ti riesce, di forarmi
Con uno spillo la bugiarda lingua.—
(gitta sul buffone uno sguardo di disprezzo, ed esce)
Menecrate
E lo spillo dovrebbe essere acuto
Come la lingua sua! Chi può trovarlo?—
Frattanto vien di Spagna un brutto tempo
Che minaccia tempesta, e sarà bene
Ch’io cerchi un loco dove ricovrarmi
Finchè trapassi.—A Cesare salute!
Menecrate, Nerone
NERONE
Già qui, mio buon Menecrate?... Fu grande
Ventura ch’io sfuggissi alle querele
D’Atte gelosa; quella donna è l’ombra
Del corpo mio.
MENECRATE
Difficile non parmi
Di sfuggire a quell’ombra.
NERONE
E come?...
MENECRATE
Come?
E mel chiedi! Rendendola da vero
Un’ombra.
NERONE (battendo sulla spalla del buffone)
Buon Menecrate, tu parli
Com’uomo saggio, ed ò creduto sempre
Che sapïenza somma è nel cervello
De’ pazzi. Darò mente al tuo consiglio.
Adesso parliam d’altro.—
(Conducendolo avanti la statua d’Egloge)
Che ti sembra
Di quest’opera mia?
MENECRATE
Per Giove! è degna
Di Fidia o di Prassitele.
NERONE
Adulato
M’avresti meglio in dirmi a dirittura
Ch’è degna di Nerone.
MENECRATE
Ahi, son pur troppo
Un fiacco adulatore!
NERONE
E quanto pensi
Che pagar la potrebbe un qualche ricco
Patrizio?
MENECRATE
Pesa il marmo.
NERONE
E poi?
MENECRATE
Ripesa
Tant’oro.
NERONE (ridendo)
Il prezzo è buono.—Ahimè, l’artista
È caduto in miseria!
MENECRATE
Non mi spiace
[127]Il tuo mercato; tu rivendi in marmo
Ciò che comprasti in carne.
NERONE
Eppur scommetto
Di non francarmi della prima spesa.—
Ed il Patrizio?
MENECRATE
L’ò trovato: il nostro
Buon Rufo; è molto ricco, ed ama molto
La testa benchè sia calva.
NERONE
Confido
Nel compratore.
MENECRATE
Intanto udir potresti
L’astrologo.
NERONE
Babilio!
MENECRATE
Egli t’aspetta.
È il giorno suo.
NERONE
M’annoia.
MENECRATE
À consumato
La notte nello studio delle stelle,
E per tuo conto.
NERONE
Che s’inoltri adunque,
E ad un solo patto.
MENECRATE
E quale?
NERONE
Vo’ accertarmi
Se veramente dalle stelle piove
La luce del futuro.—Ad un mio cenno
[129]L’astrologo conduci innanzi a quella
Fenestra, indi abbracciatolo, lo innalza
E giù lo scaraventa.—Che ti pare?
MENECRATE
Scherzo degno di te.—Compiango l’ossa
Di Babilio.—
(Va verso il fondo della scena)
Babilio, Menecrate, Nerone
BABILIO (entrando)
Gl’Iddii siano propizi
A Cesare!
NERONE
Propizie ò le coorti
De’ pretoriani, e bastano.
BABILIO
T’inganni;
Che ponno armi terrene incontro al fato?
Presagi infausti reco a te.
NERONE
Mi svela
Questi presagi.
BABILIO
L’orrida cometa
Che ci splende sul capo, e apportò fame
Nella città, la stessa è che spargeva
Gl’influssi maledetti su la terra
Quando un ferro assassino il dì supremo
Prescrisse al divo Giulio.
MENECRATE
Ed è la stessa!
Come saperlo?
BABILIO (volgendosi a Menecrate)
Stolto, al tuo profano
Sguardo ogni luce è notte; io sono avvezzo
A leggere negli astri.
MENECRATE
Un sapïente
Di Grecia anch’egli come in libro aperto
[132]Leggea nel firmamento. Ahi, nel guardare
Troppo lassù, dimenticò la terra,
E ruinava entro una fossa.
NERONE
Aspetto
Il secondo presagio.
BABILIO
È più tremendo.
La pianta ruminale venerata
Fin dall’età di Romolo, prodigio
Ognora verde, e simbolo di questo
Latino imperio, s’intristisce, e mostra
D’inaridirsi.
MENECRATE
Convocar fa d’uopo
Il collegio degli Auguri.
NERONE
Per Giove
Capitolino, cotesta faccenda
Del fico ruminale m’impaura.
Un’aurëa età per certo assai migliore
[133]Di quella de’ poeti era sul Tebro
Quando l’arbore sacra fu piantata!
Allor le lupe uscivano dai boschi
Mansuete, correndo a far da balie
Agli esposti bambini.
MENECRATE
E un’altra volta
Con quell’età tornasser quelle lupe!
N’avrebbero suprema contentezza
Molte nostre matrone!
NERONE
Or di’, Babilio,
Dunque io sono spacciato?
BABILIO
Del dimani
Paventa; il tempo è burrascoso.
NERONE (conducendo Babilio verso la finestra)
Eppure
Nella sua maestà risplende il sole,
E torna primavera. La campagna
Ovunque esulta, ed è piacevol cosa
[134]Spinger lo sguardo fino ai colli d’Alba
Da questo mio palagio.—Meco vieni,
E innanzi a quella scena di splendori
Rallegrati per poco, o tenebroso
Veggente di sventure.
MENECRATE (abbracciando Babilio)
E non ti pare
Ammirabil veduta?
BABILIO (spaventandosi)
È la promessa
Di donna menzognera; il suo sorriso
Non corrisponde al core.
MENECRATE
Ed il tuo core
Che ti promette in tal momento?
BABILIO (con un grido)
I Dei
Mi salvino!
NERONE
Che dici?
BABILIO
Io son nel punto
Peggiore di mia vita; le sue mani
Stende su me la Parca.
MENECRATE
O mio Babilio,
Io non sono una Parca.
BABILIO
E cosa importa?
Senza pena alla terra io do le vecchie
Mie membra... Ma per te tremo, Nerone!
NERONE
Per me?...
BABILIO
Per te, cui ride ancor la bella
Giovinezza. Ma il turbin senza legge
La verde pianta abbatte e il vecchio tronco,
E il tuo destino si congiunge al mio.
NERONE (al buffone che à già sollevato l’astrologo)
Menecrate!... E tu spiegati.
BABILIO (con voce solenne)
Morrai
Trascorsa un’ora ch’io sarò spirato.—
NERONE (baciando con gran tenerezza Babilio)
Abbracciami, Babilio! Io te lo giuro
Per gl’Iddii tutti quanti, ò amato sempre
Più la tua vita che la mia, sebbene
Nol dimostrassi.—Però darti prova
In avvenir saprò di questo affetto,
E disponi di me, di mia potenza,
Come t’aggrada meglio.
BABILIO
Il sapïente
Sprezza il poter che viene dalla terra.
Nulla io ti chiesi.
NERONE
Ed io ti dono tutto,
E vo’ che tuo malgrado abbi gran cura
Di tua salute.—Menecrate, almeno
Una centuria de’ miei pretoriani
A guardia vegli della sua persona.
BABILIO
Mi metti dunque in carcere?
NERONE
Ti spiace
Restare in casa mia?
BABILIO
Carcere anch’essa.
Ma di ciò rido—ò libero il pensiero.—
Cesare, ti saluto.
NERONE (a Menecrate)
Va, lo segui.
MENECRATE (a Nerone)
Della sua furberìa solo è maggiore
La tua paura.
(L’astrologo ed il buffone escono)
Nerone, poi Egloge
NERONE
La paura?... È meglio
Di securarsi.—E chi lo sa? può forse
Correr da vero tra le stelle e noi
Qualche corrispondenza... Nel creato
Uomini e stelle son misteri.—
(Fermandosi avanti la statua d’Egloge e contemplandola)
Eppure
Cotesta mia scoltura non rivela
La mano d’un artefice possente,
E convien che la emendi.—Ecco, negli occhi
Mancano il lampo e la malizia.—
(dando un colpo collo scarpello sopra la statua)
Sorda
Materia, io vo’ che sotto il mio scarpello
Abbi palpiti e sangue.
EGLOGE (avvicinandosi a Nerone)
Il marmo è sempre
Freddo, o Nerone.
NERONE
Ed il tuo bacio è foco.
Ài ben detto, fanciulla—e scaglio a terra
Questo ferro che crea labbra di marmo
Che non dànno i tuoi baci.
(gitta lo scarpello)
Oh, sei pur vaga,
O tenerezza mia!
EGLOGE
Ti sembro forse
Più vezzosa di ieri?
NERONE
E contemplarti
Una volta potrò senza ch’io trovi
In quel tuo volto una bellezza nova?
EGLOGE
Vuoi che mova una danza?—Oggi son lieta
Più dell’usato, e nel mio cor sorride
Il tempo degli amori e delle rose.
NERONE
Metti, o fanciulla, per quest’oggi in calma
La tua febbre d’assiduo movimento,
E siedi accanto a Cesare.
EGLOGE (circondando con le sue braccia il collo di Nerone)
M’accordi
Una grazia?
NERONE (sorridendo)
E che chiedi? una provincia?
Od ameresti omai ch’io t’innalzassi
Al consolato? Per tutto l’Olimpo,
Ecco una bella idea! La consolare
Lista conta da Bruto fino a noi
Qualch’eroe, molti sciocchi, ed un cavallo:
Mettiamoci una donna.
EGLOGE
Io non mi curo
Di governar province.
NERONE
Ài miglior fato;
Tu governi Nerone.
EGLOGE
Mi donasti
Molte schiave; son belle e giovinette...
NERONE
Ebbene?
EGLOGE
È mio pensiero vendicarle
In libertà; la frase è della legge.
T’incresce?
NERONE
Ciò che dono è tuo; consento
Che tu sperda i miei doni.
EGLOGE
Io non li sperdo;
E dando a libertà quelle innocenti
Fanciulle adoprerò meglio i tuoi doni
Che se le conservassi incatenate
Alla superbia d’un mio cenno.—A prova
La servitù conosco e i suoi dolori,
Ed amo che davanti agli occhi miei
Tutto libero scorra, ed abbia vita
In questa infinità che il sol riempie
D’una ebbrezza di luce.—Io l’ombra abborro
E la catena.—Or dianzi me n’andava
In compagnia del gaio mio pensiero
Per i vïali de la ricca villa
Che circonda di statue e di profumi
Questa tua casa d’oro; era una festa
Nell’aria, e fin dall’ultimo orizzonte
Scintillava nei campi il nato Aprile.
Solo m’addolorò che dentro anguste
Siepi di ferro salutasser tanta
Giocondità di splendida natura
Carcerati augelletti: erano belli
Di penne, di vivezza, e d’armonie,
E lor dischiusi la crudel prigione
Acciò lieti sciogliessero pel cielo
Liberi voli e liberi concenti.
NERONE
Spensierata fanciulla, gli augelletti
Che liberasti torneranno schiavi,
Se non cadranno uccisi; il fato è questo
Di tutta la natura.—Nondimeno
Opra a tuo senno, e le dilette ancelle
Diventino liberte.
EGLOGE
Ecco il più grato
Di tutti i doni tuoi.
NERONE
Non curi adunque
La collana di gemme prezïose
Che ieri ti mandai?
EGLOGE
Non vedi? splende
Sovra il mio petto.
NERONE (toccando la collana)
Crudeltà dei casi!
Quella collana fu cara una volta
A mia moglie Poppea.
EGLOGE
Misera moglie!
La trucidasti.
NERONE
Ma l’amai.
EGLOGE (togliendosi con dispetto la collana e gittandola a terra)
Non voglio
Quest’ornamento della morta.
NERONE
E credi
Ch’ella dall’Orco la sua mano stenda
A ripigliarlo?
EGLOGE
M’è di tristo augurio.
NERONE
Lo caccia adunque, e danza.
EGLOGE
Ài conturbato
[145]Con quel ricordo l’allegrezza mia.—
Oggi non danzo più.
NERONE
Le cose morte
Non tocchino lo spirito che avviva
L’età d’una fanciulla; auspici lieti
Ti dà l’affetto mio.
EGLOGE
Cotesto affetto
L’ebbero molte donne.
NERONE
E niuna seppe
Meritarlo.—Su via, con quei divini
Occhi sorridi, e inspirami la dolce
Vertigine di amore.
(Avvicinandosi a lei)
Ài fatto bene
A spogliar d’ogni gemma il dilicato
Tuo collo,—vi riman più spazio ai baci.
E poter dire che, se n’ò talento,
Un cenno mio basta troncarlo!
EGLOGE (sfuggendo da Nerone)
Brutto
Pensiero!
NERONE
Non temerlo.
EGLOGE (allontanandosi sempre più)
È freddo quanto
Il taglio d’una scure.
NERONE
Ò dato un segno
D’onnipotenza.—Debbo al tuo cospetto
Rammentarmi che sono il regnatore
Delle province, io che dai sguardi pendo
Di debole fanciulla, io che a tua voglia
Opero e penso, e rinnovello Alcide
Che regge la conocchia alla sua donna
Tra i forti vizi ed i sprezzati affetti
Di nostra stoica età. Quando ciò volgo
Nel mio cervello, il prepotente amore
Che mi soggioga si tramuta in ira,
E poichè non m’è dato liberarmi
[147]Dai lacci suoi, vorrei con le mie mani
Cercar nelle tue viscere qual sia
La vera causa del poter tiranno
Ch’esercita su me la tua bellezza
EGLOGE
Or ti conosco... O me infelice!... Aveva
Atte ragione.
NERONE
E che ti disse?
EGLOGE
Nulla.
NERONE
Io vo’ saperlo.
EGLOGE
Non toccarmi!
NERONE
Sei
Ancor più vaga in questo tuo spavento.
[148]Ma non temer più oltre,—il regnatore
Delle province sparve, e non rimane
Che l’uomo che t’adora.
EGLOGE
E se ritorna
L’imperatore?
NERONE
Il lampo del tuo sguardo
Lo vincerà.—Chi giunge?
EGLOGE
Atte!...
Egloge, Nerone, Atte,
poi Cluvio, Rufo e Vinicio
ATTE
Il prefetto
Del pretorio ed il prence del Senato
Chiedono di parlarti.
NERONE
Gl’importuni!—
Entrino.
RUFO (entrando)
Salve, Augusto!
VINICIO
Salve!
NERONE
Ebbene,
Buon Rufo?
RUFO
Dalla Gallia e dalla Spagna
Pervennero al Senato queste due
Lettere; vuoi tu leggerle?
NERONE
A suo tempo
Le leggerò—per ora le deponi
Colà—E tu che chiedi?
VINICIO
Le coorti
Raccolte dentro il campo pretoriano
Alzan tumulto.
NERONE
E perchè?
VINICIO
Da più mesi
Non ànno soldo, e lo vogliono.
NERONE
Attendi,
Or ti darò risposta.—
(Conduce Rufo avanti la statua d’Egloge)
O mio buon Rufo,
Io pensai che saresti il compratore
Di questa statua, opera mia.—T’annunzio
Che vale assai.
(Senza attendere risposta pianta Rufo meravigliato, e va verso il Prefetto del Pretorio)
Vinicio, il nostro amico
Darà monete per i tuoi soldati:
Promettendone molte, intanto spargi
Quelle che avrai.
(lascia Vinicio)
Dopo ciò debbo dirvi
Che questa non è l’aula imperïale,
Ma l’officina d’un artista.—Andate.
(Rufo e Vinicio escono)
Egloge, Atte, Nerone
ATTE (rimasta silenziosa, s’avanza verso Nerone)
Fanciullo!
NERONE (volgendosi)
Ancor stai qui?
ATTE
Leggerò io
Quelle lettere.
NERONE
Leggi se ti piace.
ATTE (dopo averne letto una)
Giulio Vindice è morto.
NERONE
Me ne duole:
S’egli tornava in Roma, avrebbe inteso
Una più egregia morte.—E poi?
ATTE (dopo aver letto l’altra)
Fanciullo,
Ti risveglia: l’esercito di Spagna
À salutato Galba imperatore!
(Gitta la lettera ed esce)
NERONE
Che dicesti?... Ella sparve...—E sarà vero?
(Va per raccogliere la seconda lettera)
Imperatore Galba!... E cosa importa
Di tutto questo?—
(Corre verso Egloge e s’abbandona fra le sue braccia)
Amiamoci, o mia bella,
Finchè le nostre vene abbrucia il sangue
Di giovinezza.—Galba è ancor lontano!
Fine dell’atto terzo
Il triclinio imperiale—Da un lato della scena una grande apertura chiusa da vetri speculari—Ricche lampade pendono dalla vôlta—Luce e profumi in ogni parte.—È notte—Nerone, Atte, Vinicio Prefetto del pretorio, Egloge, Cluvio Rufo, Menecrate stanno sdraiati sui letti coperti di porpora che circondano il desco sul quale risplendono vasi d’oro e d’argento. I convitati indossano la bianca veste del convito ed ànno la fronte coronata di rose—Schiave anch’esse coronate di fiori, recano le vivande. Suono di flauti e di cetre—Orgia.
VINICIO
Viva Nerone!
MENECRATE
Il Dio nostro!
NERONE
Spargete
Balsami e vino sopra il pavimento.—
All’ebbrezza consacro questa notte
Ed alla voluttà!
(Al cenno di Nerone alcune schiave recano vasi di vino e di balsamo e li spargono sul pavimento)
RUFO
Inni all’ebbrezza!
EGLOGE
Inni alla voluttà!
NERONE
Portate in giro
La mia tazza murrina, e ognuno beva
Alla salute d’Egloge.
MENECRATE
Sia fatta
Regina del convito.
VINICIO
È facilmente
Regina ovunque la bellezza.
NERONE (alzandosi)
L’estro
Concitato scintilla poesia:
Io sciolgo un inno epicureo.
MENECRATE
Frenate
Le vostre lingue.
VINICIO
Canta il vincitore
Di Catullo.
RUFO
Ascoltiamo il gran poeta.
NERONE (con tuono di voce e con la esaltazione dell’improvvisatore)
Il più gradito letto
È quello del banchetto;
Beviamo, amici—e sia la gioia viva,
E sia vivo l’amore;
Beviam! Presto si muore,
Nè crescono le viti del Falerno
Lungo la tetra riva
Dei laghi dell’Averno.
Laggiù più il nostro labbro non si posa
Sulla bocca amorosa
D’una bella fanciulla.—
Amiam; ci aspetta dopo morte il nulla.—
Venere santa, a noi co’ tuoi sereni
Occhi, d’Olimpo vieni,
Perla voluttüosa e meraviglia
[159]De la natal conchiglia;
Ove non entra lume
Di tua beltà, si discolora il mondo,
È selvaggio il costume,
E il tedio più profondo
Si spiega sovra un popolo che dorme.—
Ma dove appaion l’orme
Del tuo piede divino
Ànno vita le grazie, e l’armonia
Di tutte l’arti—orgoglio
Del popol latino.
Sorridi, o bionda Iddia,
Il genio mio prepara
Alla dolcezza del tuo culto un’ara
Sul fiero Campidoglio.
Sorridi, o bionda Iddia; di noi più degno
È il tuo feminëo regno,
Tu sei nostra speranza.—
Giove è omai troppo vecchio, e muti stanza.
(Torna a sdraiarsi abbracciando Egloge)
VINICIO
Delizïosi versi!
MENECRATE
Io do il mio voto
Per l’esilio di Giove.
EGLOGE
Io bevo al culto
Di Venere!
NERONE
Al tuo culto, o bella!
MENECRATE
Udite:
Un distico mi scappa dal bicchiere.
RUFO
Un qualche zoppo esametro.
EGLOGE
Chiudete
Le delicate orecchie, o dolci Muse!
MENECRATE (alzando la sua tazza)
I vizi e gli anni mi resero stracco;
Lascio Venere in pace e inneggio a Bacco!
RUFO
Viva Bacco!
MENECRATE
Scommetto che il buon Rufo
È un uom stracco.
NERONE
Prezïosa mirra
S’infonda nelle tazze spumeggianti
Di vino greco.
(Le schiave recano vasi di mirra e li distribuiscono ai convitati)
RUFO
Al Dio del vino il vino!
VINICIO
È il suo migliore incenso.
MENECRATE
Il vituperio
Sulla legge Licinia!
NERONE
Legge degna
[162]D’una plebe mendica, e non dell’uomo
Ch’è signore del mondo.—Ognun ritenga
Come regalo mio la coppa d’oro
Che gli sfavilla innanzi.
MENECRATE
E questa io chiamo
Magnificenza imperïale.
VINICIO
Viva
il padre della patria!
NERONE
Dite meglio:
Viva l’artista!
RUFO
A te gli allori!
MENECRATE (presentando la tazza vuota)
Schiava,
A me vino!
EGLOGE
E tu sola, Atte, rimani
In quel silenzio disdegnoso?
ATTE (sorridendo tristamente)
Eppure
Parlai!
NERONE
Niuno t’intese.
ATTE
È rumorosa
Troppo quest’orgia.
MENECRATE
Troppo!
ATTE (alzandosi)
Ebbene, anch’io
Aggiungerò l’inverecondo grido
Ai vostri—anch’io son ebbra, e sento il sangue
Che s’infiamma...—A me il tirso e la corona
Di pàmpani...—Divenni una baccante.—
NERONE
Così mi piaci.
ATTE
Beviamo! L’allegra
Spensieratezza sia nostra compagna
Nella vita che fugge, e l’invocata
Venere ne circondi di sue grazie
E de’ suoi baci... Beviamo! La vita
Fugge.—Vedete quella saltatrice,
Già sospir delle plebi nel teatro,
Poi di Nerone?...—Essa è bella, raggiante
Di avvenire e di gioia... Un inno, o amica,
Un inno alla tua cara giovinezza!
Ahimè, declini mestamente il capo
Sul seno del diletto imperatore...
T’invito un’altra volta: un inno a’ tuoi
Anni!... Non puoi? Che!... t’ingannava adunque
La tua speranza?
(Egloge piega il capo sul seno dell’imperatore)
NERONE (abbracciandola)
Qual sospetto!... O mia
Egloge!
RUFO
Di mortale pallidezza
È coperto il suo volto.
MENECRATE (osservando il posto lasciato vuoto da Atte)
Il caso è strano,
Atte si dileguò.
NERONE (con un grido)
Si riconduca
A me d’innanzi o viva o morta... Udiste?
(Alcuni schiavi escono)
E tu rispondi, o amata mia fanciulla,
Cosa t’avvenne mai?
EGLOGE (con voce sempre più debole)
Sento un atroce
Dolore, e la favilla di mia vita
S’estingue...
NERONE
Olà, correte...
VINICIO
Un qualche aiuto...
MENECRATE (dopo aver gittato uno sguardo su Egloge)
È inutile.
NERONE
Che dici?
MENECRATE
Medic’arte
Nulla può contro quella di Locusta.
NERONE
Avvelenata!... Ciò non sia—non voglio
Ch’ella muoia.
EGLOGE
Ma questo vuole il fato
Che mi raggiunse.
VINICIO
Infelice!
EGLOGE
Io che tanto
Ò amato il sole non avrò più intorno
Che fredda oscurità... Povero sogno
Della fervida mente!... Ahi, la mia cara
Danza è finita!...
(Egloge muore)
NERONE (dopo averla scossa inutilmente)
Morta!... E ancor quell’Atte
Non è qui?—Troverò tormenti novi
Per lei che à spento la gioconda vita
Di questa giovinetta...—Ogni allegrezza
Esule vada dalla casa mia,
Divellete dai capi le corone,
Piangete tutti—io piango!
(I convitati si strappano dalla fronte le corone)
MENECRATE (gittando la sua)
Ed il convito
Può dirsi omai Neronïano.
(Il cadavere della saltatrice è adagiato sopra uno dei letti del triclinio)
I precedenti personaggi, Faonte, Epafrodito
EPAFRODITO
Accorri,
O imperatore.
NERONE
E qual spavento è il vostro?
FAONTE
La plebe insorge contro te.
NERONE
La plebe!
MENECRATE
Ahi, razza ingrata!
NERONE (a Faonte)
Narra adunque...
FAONTE
Scorre
La ribellione per le vie di Roma;
L’ira ministra l’armi, rovesciate
Son le tue statue, e ognun dà lodi al nome
Di Galba.
NERONE
Maledetta sia per sempre
Questa notte!
(Scompiglio.—Alcuni de’ convitati, i liberti e le schiave fuggono; i vasi del convito cadono rovesciati)
(correndo verso Rufo)
O mio buon Rufo, in pregio
Io tengo la tua fede, e in tal periglio
Non mi manchi...
RUFO
E che chiedi?
NERONE
Va—raduna
Il Senato.
RUFO
A quest’ora!
NERONE (spingendolo fuori della scena)
Puoi salvarmi,
E metti indugio?
(Rufo esce)
(correndo verso Vinicio)
E tu, Vinicio, irrompi
Contro i ribelli con le tue coorti,
Avranno l’oro che vorranno.—Intendi?
Usa l’ali del fulmine.
VINICIO
Nerone
E Roma mi conoscono.
(esce)
NERONE (al buffone che sogghigna guardandolo)
E tu ridi,
Menecrate?
MENECRATE
Sorrido degli eventi
Ciechi.
NERONE (abbracciandolo con affetto pauroso)
Ti prego, non lasciarmi solo.—
Ò bisogno di te.
MENECRATE (scostandosi)
Fragile scudo
È il petto d’un buffone.
NERONE
E che vuoi dirmi?
MENECRATE
Che la commedia nostra è terminata,
E in mezzo ai fischi; e omai convien ch’io cerchi,
Nerone mio, di recitarne un’altra
Che porti un nuovo titolo.
NERONE (con un grido di rabbia)
Le scale
Gemonie.
MENECRATE (tranquillamente)
E ciò può essere.—Frattanto
Permetterai ch’io pigli l’aurea tazza
Che m’ài donato.
(Prende sul desco una coppa d’oro e fugge)
NERONE (scagliandogli dietro la sua tazza murrina)
E piglia ancora questa,
O parassita infame.
Nerone, Epafrodito, Faonte
NERONE (ai due liberti)
Almeno voi
Non mi tradite!
EPAFRODITO
Giuro che il mio sangue
T’appartiene.
FAONTE
Ed il mio.
NERONE
Dunque volate,
Percotete le porte di coloro
(E sono tanti!) ch’io dalla miseria
Ò sollevato a splendide ricchezze:
Dite ch’armino i servi e i lor clienti,
Io qui li aspetto.
(I liberti escono)
Nerone
Eccomi solo.—Ahi, parmi
Questo silenzio pieno di spavento!
(Passeggia a grandi passi la scena come uomo che non sa a qual partito appigliarsi. Nel volgersi vede il cadavere di Egloge e le s’avvicina.—Un lontano rumore di tempesta)
Tu dormi intanto sopra il tuo guanciale,
O misera fanciulla—ed il tuo sonno
È lungo, tristo, senza visïoni.
Sonno fatal che non aspetta l’alba...—
(Una lunga pausa)
Eppur sei vaga ancora, e mi sorridi;
Brami, o diletta, ch’io pur teco dorma?
La tua bellezza m’affanna... Ch’io copra
Il tuo sorriso.
(Gitta il manto sul cadavere)
Ed io son solo!—Forse
Vinicio giunse in tempo, e la plebaglia
Ricacciò nei tuguri d’onde usciva
Di stragi desiosa e di novello
Imperatore.
(Andando verso la finestra ed aprendola)
Vediam.—Nella strada
Tutto tace, e soltanto la tempesta
Manda dal cielo lampi e rovinosa
Acqua sopra la terra...
(Retrocedendo spaventato)
O me perduto!
Le guardie pretoriane della casa
La lasciavan deserta... E se fra poco
La plebe irrompe qui?
(Un tuono; ripetuti colpi di vento spengono le lampade)
Ch’io mi nasconda!
E dove?... Muterò la triclinaria
Mia veste in quella sordida del reo,
E inginocchiato avanti i miei nemici
Implorerò misericordia... E cosa
È quest’imperio? Come bella donna
Di vil marito, omai l’imperio è merce
Che l’avarizia de’ soldati vende
[177]A chi più paga. Mi lascin la vita,
La prefettura dell’Egitto o d’altra
Provincia, ed io saluto il fortunato
Mio successore Galba... Galba!—E ad esso
Vilmente cederò? Non mi rimane
Salvezza alcuna?—Se con un mio cenno
Io potessi di furto per le vie
Spargere tutte le feroci belve
Che stan chiuse nei circhi... Qual paura
Nella città!... Che penso? E alcun non torna!
Sì nova è dunque la sciagura mia
Che più non mi concede nè un amico
Nè un inimico?
Atte, Nerone
ATTE (presentandosi dal fondo della scena)
Io t’offro e l’uno e l’altro;
Scegli.
NERONE
E sei tu, perversa?
ATTE
Io.
NERONE
Nè paventi
Di me?
ATTE
Non ò tremato quando Roma
Paurosa ubbidiva al suo tiranno,
E mi pretendi abbietta ora che ognuno
Si leva e ti disprezza?
NERONE
Ebben, tu pure
Gitta la pietra tua contro il ferito
Leone—ma se son per gli altri inerme,
Ò ancor per te gli artigli, e vendicarmi
Saprò.
(Avventandosi con ira sopra Atte)
ATTE (presentandosi fieramente innanzi a Nerone)
Vediam se l’osi.—Ecco, t’arretri.
NERONE
Ò paura di te: sì, t’allontana,
Implacabile donna, a me congiunta
Da un avverso destino.—A goder vieni
Dell’infortunio mio?
ATTE
Vengo a salvarti.
NERONE
A salvarmi!
ATTE
Io ciò posso.
NERONE
Tu m’illudi,
Tu m’illudi, o maligna.
ATTE
Io dico il vero.
NERONE
Il vero!
ATTE
Ài tu coraggio?
NERONE
E ridonarmi
Potrai l’imperio?...—Dillo: ai piedi tuoi
Mi prostrerò.
ATTE
L’imperio è morto.
NERONE
E quale
Salute m’offri?
ATTE (presentandogli una piccola ampolla)
Questa.
NERONE
Che?... un veleno!
ATTE
Lo ricusi?
NERONE
Un veleno! E non è quello
Che adoperava il tuo perfido ingegno
Contro la poveretta che là giace
Senza vita?
ATTE
Nerone è diventato
[182]Un uomo pio!—Rammento un’altra notte
Ed un altro convito. Andava in giro,
Come nel nostro, oscena contentezza:
duella degli ebbri. Un dolce giovinetto
Ti scherzava dappresso, e tu ridendo
A lui porgesti la tua tazza. Ei bevve
E spirò. Quell’ucciso si nomava
Brittannico.—La tazza racchiudea
Veleno: questo.
NERONE
Taci, o maledetta
Lingua! E che giova adesso di svegliarmi
Intorno l’ombre de’ sepolti?
ATTE
Il fato
Miserando degli altri almen ti sproni
A sfidare con grande animo il tuo.
La vita che menasti è vita piena
Di vizi e di delitti, e non v’è d’uopo
Di suggellarla con la brutta infamia
Del non saper morire—infamia estrema,
E non romana. Una sol volta pensa
Di qual patria sei figlio, ai suicidi
[183]Eroici delle tue vittime, e in questa
Ora di prova innalzati per poco
Dalla bassezza tua.
NERONE
Che mi consigli?
ATTE
La virtù sola che ti resta: cadi
Romanamente.
NERONE
Toglimi dal guardo
Quella truce bevanda; mi dà noia
Il morire... Ò trent’anni, e m’innamora
La vita; quest’amor, se vuoi, lo chiama
Codardia, non m’offendo. Io non mi tengo
Scolaro degli stoici... Morire!
E perchè lo dovrei? Perduto tutto
Ancor non è... Perchè vieni a rubarmi
Ogni speranza?
ATTE
E in che più speri? Il regno
Del tristo è breve.—Se tu m’ascoltavi,
[184]Avresti con l’esempio e con le leggi
Risuscitato alla grandezza antica
Questa Roma bastarda, effeminata,
Nell’ozio avvezza di sciupar la gloria
Che i padri le lasciarono pugnando
In tutti i campi che stan sotto il sole.
Ma tu di ciò nulla tentavi, ed ora
A chi ti volgi? forse a quel Senato
Che rendesti un ignobile consesso
D’adulatori e di vigliacchi, pronti
A mutare il signor come la toga?
Od ai patrizi di cui disertasti
Le famiglie più illustri, regalando
De’ loro averi le bugiarde spie?
Od al minuto popolo che rise
Di te, pugillatore nell’arena
E guidator di carri?—Ecco—raccogli
L’opra che seminasti.
NERONE
Eppure amai
Il popolo!
ATTE
E perchè sei solo, e niuno
Ti difende?
NERONE
Tel dico un’altra volta:
Allontanati, o donna. Più funesta
Di Galba e degli eserciti ribelli
M’è la tua compagnia.
ATTE (allontanandosi)
Li aspetta dunque,
Io ti lascio.
NERONE (correndo a lei preso dal più grande spavento)
Rimani.—Non ascolti
Giù nella strada un suon di minacciose
Grida?... Mi salva!
ATTE
Io non odo che il rombo
De la procella.
NERONE (rasserenandosi)
Ah!... m’ingannai.
ATTE
Fui dunque
[186]Tanto infelice di riporre il mio
Affetto in uom così codardo? E nota
È a te la donna che dispregi?...—Io so
Quando, spezzato il fren d’ogni nequizia,
Mascherato ladrone andavi attorno
Per la città, nè coi minori ladri
Partir sdegnavi la mal tolta preda,
Io sola, non richiesta e non veduta,
Di guardie circondavo e di salvezza
Le tue fughe notturne, ed a me devi,
A me soltanto, se dalle congiure
Che accerchiano la casa dei tiranni
Alcuno non sorgea che ti togliesse
Prima d’ora dal mondo.—E allor che vide
La propria sorte nella tua fierezza
Agrippina infelice, e stranamente
Immaginò domar l’atroce belva
Che nutrì col suo latte, io m’interposi
A voi due, risparmiando atto più infame
Del matricidio che adempisti poi.
E qual mercede ài reso al grande affetto
Di questa donna? Con crudel studio
Le più tenere fibre del mio core
Dilanïasti tutte ad una ad una,
E dopo avermi fatto abbietto gioco
Delle tue mogli adducesti in Senato
[187]D’uomini consolari il giuramento
A confermare ch’io non nacqui schiava
Ma da stirpe di regi, e ch’ero degna
Di sederti dappresso imperatrice.
Villano! E ciò ti parve ancora poco,
E raccolta dal trivio una venduta
E oscena saltatrice, anteponesti
Baci volgari alla provata, ardente
Onnipotenza dell’affetto mio!
Eppure quel tuo cinico disprezzo
Non colpiva soltanto, o smemorato,
il cuore d’un’amante, ed in quest’ora
Ch’àn preparata le tue colpe io sorgo
A te d’incontro, io madre d’un tuo figlio.—
M’è ignoto se gl’Iddii curan le cose
Mortali, ma so ben che la tua druda
È là senza la vita e che tu tremi
Avanti a me senza l’imperio.
NERONE
Dammi
Quel veleno... Alcun giunge... Ah, finalmente!...
Epafrodito, Faonte, Atte, Nerone
EPAFRODITO
Ogn’opera fu vana.
NERONE
E che?...
FAONTE
Gli amici
O restan sordi entro le lor case,
O imprecano al tuo nome.
NERONE
I rinnegati!
E Vinicio?
FAONTE
Con pochi pretoriani
A te fedeli un argine finora
Pose al furor del popolo, ma vinto
Dal numero cedeva... Ampia è la strage,
E vidi fra i caduti sanguinoso...
NERONE
Chi mai?
FAONTE
Babilio astrologo.
NERONE
Ed è morto?
FAONTE
M’è ignoto; qui volai senza curarmi
Di lui.
NERONE
Facesti male... Or si conviene
Ch’io fugga... È giunta l’ora mia.
FAONTE
La notte
E la tempesta aiuteran la nostra
Fuga... vieni.
NERONE (fermandosi avanti il cadavere di Egloge)
O beata nella tua
Miseria! O te beata! almen rimani
Nella casa di Cesare.
ATTE
Doveva
Cesare rimanervi.
FAONTE
Ogni momento
Cresce il nostro periglio.
NERONE
Precedete
Cauti... io vi sieguo.
(Volgendosi e vedendo Atte che lo accompagna)
E tu pure?
ATTE
Ancor t’amo,
Nè posso abbandonarti!
NERONE
E che mi resta
Più?...
(Girando gli occhi vede la sua cetra sul desco)
Che resta?—Faonte, la mia cetra!
(Faonte piglia la cetra di Nerone. Tutti escono)
Fine dell’atto quarto[192]
[193]
Una squallida stanza nel podere del liberto Faonte tra la via Nomentana e la Salaria. Un letto da un lato della scena, e dall’altro una rozza tavola.
Entrano Nerone, Atte, Faonte, Epafrodito
NERONE
Ed è questo il ricovero che m’offri?
Faonte, la tua casa suburbana
È molto brutta.
FAONTE
Per brev’ora almeno
Qui potrai riposarti.
NERONE
E siam lontani
Dalla città?
FAONTE
La pietra che sta innanzi
Alla mia porta segna il quarto miglio
Della via consolare.
NERONE
Avrei creduto
Di aver percorso più lunga distanza.—
Che paurosa fuga! Ad ogni passo
Mi sorgeva d’innanzi un qualche novo
Periglio. Tel ricordi?—Sulla porta
Salaria impetuosa ala di vento
Fe’ svolazzare un lembo del sudario
Nel quale m’ascondeva: un pretoriano
Mi riconobbe e mi mandò un saluto...
Più lunge con orribile fragore
[195]Un fulmin quasi mi strisciò la veste...
E quell’esangue corpo che, deforme
Per più ferite, con le braccia aperte
Traversava il sentiero!... O mio liberto,
La stanchezza mi vince, e orribil sete
Mi tormenta le fauci.
ATTE (ad Epafrodito, accennandogli una tazza che sta sopra la tavola)
Va, riempi
Quella tazza nell’acqua del fossato
Che fiancheggia la strada.
(Epafrodito piglia la tazza ed esce)
NERONE
E l’ora?
FAONTE
Nasce
L’alba.
NERONE
Se l’uomo nascesse e tramontasse
Per rinascere come fa il giorno,
[196]Non sarebbe un gran danno il tramontare.
Ma l’astro umano, ahimè scende nel buio,
Ove non è confine!
EPAFRODITO (rientra e presenta la tazza ad Atte)
Ecco la tazza.
(Atte porge la tazza a Nerone; egli se l’accosta avidamente alle labbra, e poi la respinge)
NERONE
Quest’acqua è fango; io non la bevo.
(Una lunga pausa)
Avete
Armi?
EPAFRODITO
Questo pugnale.
FAONTE
E questo.
NERONE (dopo aver preso i due pugnali)
Voglio
Sperimentarli.
(Li tenta sul collo)
Ahi! ahi!...
(Deponendoli sulla tavola)
Più tardi.—Sono
Due punte in fede mia molto più acute
Di quanto è necessario!—
(a Faonte)
Tu ritorna
Sulla strada di Roma, e se t’incontri
In qualche cittadino, ti dimostra
Pur mio nemico e apprendi quale sia
Lo stato delle cose.—Va, sii destro
E veloce.
(Faonte esce)
Nerone, Atte, Epafrodito
NERONE
Frattanto, Atte, potrei
Dare un po’ di quïete alle mie membra;
Ò sonno.
ATTE
Un letto è qui.
NERONE (andando verso il letto ed osservandolo)
Qui v’è un covile
Più buono per le bestie che per l’uomo,
Ma la necessità mi persuade
A non sdegnarlo.
ATTE
Vi distendo il mio
Manto.
(Si toglie il manto e lo distende sul letto)
NERONE (adagiandosi sul letto come persona stanca)
La bianca veste del convito
Avvolge il morituro... Egregio tema
Per un poeta! Epafrodito, in guardia
Rimani di quell’uscio e con l’orecchio
Scopri qualunque più lontan rumore
S’alzi per via.—
(Epafrodito esce)
(Ad Atte)
Tu recami quei due
Pugnali; amo sentirli sotto il capo
Che s’addormenta.
(Atte prende i due pugnali e li dà a Nerone)
NERONE (declamando e scotendo la testa)
«L’uom giusto e tenace
Del proposito suo non lo sgomenta
Nè il fulmine di Giove
[200]Nè di fiero tiranno
La faccia a lui vicina...
Se con estremo danno
Si rompe il mondo, costui non si move,
E impavido lo schiaccia la ruina».
(Sorridendo tristamente ed alzando di più la voce)
Un gran buffone è quel poeta Orazio!
Vorrei vederlo qui, lui che a Filippi
Per ruggir meglio buttò via lo scudo!
E poi quei versi son proprio noiosi...
E la noia dà sonno...
(S’addormenta)
ATTE
E mai tu possa
Risvegliarti, o infelice!
(Dopo una lunga pausa)
Io non credeva
Che mi regnasse in cor così profonda
Virtù di affetto... Ahi l’indomata angoscia
M’astringe al pianto!—Finch’egli sul trono
Degli Augusti regnò vile e beato,
Come tutti gli oppressi anch’io sentia
il diritto d’odïarlo, ma lo vedo
Ora prostrato nella sua sventura,
[201]Nè più ricordo i patimenti antichi
E i turpi oltraggi, e nel mio sen riarde
Il primo amore, il mio diletto amore,
Speranza della dolce giovinezza.
E inganno della vita.—Oh, ben feroci
Son questi Dei che chiedono gli altari
Al gener nostro, vittima di affetti
Da lor creati, per goder nel cielo
Dei mille inferni ch’ànno i petti umani!
(Ritornando verso il letto ove dorme Nerone)
Come agitato è il sonno suo!
EPAFRODITO (rientrando pieno di sgomento)
Deh, resta
Silenzïosa!
ATTE
E che avvenne?
EPAFRODITO
Scalpore
Di cavalli s’avanza per la via.
ATTE (accorrendo verso l’uscio)
È ver, l’odo—più cresce—è trapassato—
NERONE
Galba!...
ATTE
Si sveglia...
NERONE (balzando spaventato dal letto)
Galba è qui?...
ATTE
Nol vedi?
Qui non v’è alcuno.
NERONE
Ma colui ben stava
Dentro il mio sonno... Eppur non vo’ tristezza.
Tocca, o donna, le corde alla mia cetra,
Come solevi un tempo—io vo’ cantare,
Io, poeta maggior di quanti illustri
Ebbe il mondo latino... Ecco il teatro
Suona di plausi... Datemi corone,
E sian di rose; il lauro è pianta vecchia,
Nè dà più onore.
ATTE
È fuor di sè.
EPAFRODITO
Dagli occhi
Manda paura.
NERONE
Quanta folla! E dove
M’aggiro?—Mi s’accalcano d’intorno
Gl’importuni... Scostatevi... Littori,
Date loco al mio passo... È vano: i morti
Uccider non si ponno un’altra volta...
Sei tu, mia madre?—Non m’ascolta, sfibbia
Dalle mie spalle il manto imperïale,
Sorride—e fugge.—E tu, Cassio Longino,
Da me che chiedi? e come puoi guardarmi?
Nella vita eri cieco: e che? fa tali
Miracoli la tomba?—E tu qual nome
Avevi? la tua fronte è laureata,
Il volto ài scarno, e le nudate braccia
Verso di me agitando, lento, lento
Goccia il tuo sangue dalle rotte vene...
Ti ravviso, o cantor della Farsaglia,
E perchè mi sogghigni sulla faccia?
Credi che il tuo poema abbia vittoria
Sopra i miei versi?—Stolto! È ver, cantasti
Nel supremo momento di tua vita,
[204]Ma che perdevi? la vita—ed io perdo
Vita ed imperio, e nondimeno canto.
Dunque il poeta e l’uomo è assai più forte
Di te. Sgombra, e non ridere!
ATTE (circondandolo amorosamente con le sue braccia)
Nerone,
Ài d’uopo di tua mente, in te ritorna.
NERONE (fissandola senza riconoscerla)
In me?... Perchè ridevi?
ATTE
Io?
NERONE
Sì, ridevi.
ATTE
Io piangeva.
NERONE (riconoscendola)
Piangevi!... E col tuo pianto
Vuoi forse anticiparmi il funerale?
EPAFRODITO
Ecco Faonte.
Faonte, Epafrodito, Atte, Nerone
NERONE (correndo verso il liberto)
O amico mio, puoi darmi
O vita o morte: parla.
FAONTE
Oh, non avessi
La lingua!
ATTE
Ebbene?
FAONTE
Roma confermava
L’eletto imperatore.
NERONE
Ed il Senato?
FAONTE
Ti giudicò nemico della patria,
E rinnovò contro di te la legge
De’ nostri antichi.
NERONE
E qual pena è prescritta
Da questa legge?
ATTE
Non lo chieder...
NERONE (a Faonte)
Bada
Di non celarmi sillaba!
FAONTE
[207]Prescrive
Che il reo s’appenda nudo e si percota
Fino alla morte con le verghe.
NERONE (con un moto di ribrezzo)
I nostri
Antichi erano barbari...—E quel Rufo
Io lo chiamava buono!... Ahi traditrice
Onestà della faccia!—E non son paghi
Se non mi vedon morto i furibondi!
E non potevan relegarmi in Grecia
Od in altra provincia? In ogni loco
Vi son teatri e circhi...—E voi che fate
Istupiditi intorno a me? Vi dico
Ch’io vivo turpemente e ch’ho bisogno
Di morire... Intendeste? preparatemi
Il rogo.
ATTE
Or sì posso ammirarti, e parli
Come conviene ad un romano. L’opra
Sia luminosa come la parola;
Sorridi altero, come fan gli eroi,
Al fato—e muori.
NERONE (guardando Atte)
[208]Muori!—Ecco un consiglio
Che si dà facilmente, ma l’esempio
Avrebbe più efficacia...—E alcun di voi,
O vigliacchi, per darmi un po’ di core
Non sa ferire il suo?
ATTE (corre a prendere uno de’ pugnali e se lo immerge nel petto)
Mi guarda, e impara
Dunque...
NERONE
Che ài fatto?...
ATTE
Ripiglia il pugnale:
Posso dirti per prova, o mio Nerone,
Che non duole...
NERONE (piglia il pugnale, e poi si curva sul corpo di Atte osservando se fa ancora qualche movimento)
È già spenta.—Ed è poi vero
Che la morte non duole?—Ad ogni modo
Sarà dolore breve.
(Tocca ancora il cadavere e poi si rialza)
EPAFRODITO (venendo dall’uscio)
A questa volta
Corrono legionari.
NERONE (tendendo l’orecchio)
Odo il galoppo
De’ lor cavalli.
FAONTE
A te provvedi: vuoi
Cader vivo in poter de’ tuoi nemici?
NERONE
Oh mai!...—Faonte, aiutami... non oso...
EPAFRODITO
I soldati s’appressano...
NERONE (si pone il pugnale alla gola e rimane incerto. Allora Faonte afferra la mano di Nerone insieme all’elsa del pugnale e lo aiuta a ferirsi)
Che grande
Artefice perisce!... ahi!...
I precedenti personaggi, Icelo centurione, Legionari.
ICELO (entrando rivolto ai soldati)
Legionari,
Cercate in ogni loco...—Ma che veggo?
Non è quello Nerone?
FAONTE
Ei si feriva
Di propria mano.
ICELO (correndo verso Nerone)
Ch’io fermi il suo sangue...
NERONE (tentando di alzarsi, e guardando il centurione con occhi terribili)
Tardi, soldato!... È questa la tua fede?
(Ricade e muore)
Fine dell’atto quinto
NOTE STORICHE
——
Scena I.—Pag. 20.
Basta, buffone,
E vieni all’argomento.
Questo Menecrate è un personaggio storico, carissimo a Nerone, e da esso regalato di ville e di poderi rubati ad uomini insigni nel patriziato e che avevano meritato gli onori del trionfo (Svetonio nella Vita di Nerone, cap. XXX). Nè era nuova ai costumi dei Romani anche locati nelle più alte magistrature questa famigliarità con pantomimi, commedianti, citaredi, ed altre persone di simil genere. Silla il dittatore, che[216] uomo politico e conduttore di eserciti valeva assai più di mille Neroni messi insieme, si compiaceva sommamente d’una tale compagnia (Vedi Plutarco nella Vita di Silla).
Scena I.—Pag. 20.
Gli affari dell’imperio
Innanzi a tutto.
Quest’ironia era nel carattere di Nerone. Come accennai nella Prefazione, egli non pensò mai all’imperio. Augendi propagandique imperii nec voluntate ulla neque spe motus unquam, etiam ex Britannia deducere exercitum cogitavit, nec nisi, verecundia ne obtrectare parentis gloriae videretur, destitit (Svet. XVIII). Ciò in risposta a quelli che volevano ad ogni costo in Nerone l’imperatore e l’uomo politico.
Scena II.—Pag. 22.
Ieri nel circo atterrammo il più forte
Pugillatore della Gallia.
Comodo imperatore combatteva nel circo contro i gladiatori armati d’una spada di legno,[217] mentre egli ne imbrandiva una vera ed acutissima; Nerone per contrario pigliava la cosa sul serio e, nelle lotte principalmente, il giuoco suo favorito, obbediva scrupolosamente a tutte le regole ch’erano in uso. In certando vero ita legi obediebat ut, numquam excreare ausus, sudorem quoque frontis brachio detergeret (Svet. XXIV).
Scena II.—Pag. 25.
...Ed io son troppo
Benefico.
Divitiarum et pecuniae fructum non alium putabat quam profusionem: sordidos ac deparcos esse quibus ratio impensarum constaret (Svet. XXX).
Scena II.—Pag. 27.
...Uno ad esempio
Nominerò: Cassio Longino.
L’uccisione di questo insigne giureconsulto è storica, ed il crimine di lesa maestà che gli fu[218] apposto è quello di avere conservato nella propria casa la statua di Cassio, suo antenato ed uno dei feritori di Giulio Cesare (Svet. XXXVII).
Scena II.—Pag. 30.
...Romana
È per noi quanta gente abita il mondo.
E tale fu il concetto di Cesare dittatore. Aprire la cittadinanza romana al mondo. I figli di quella plebe che s’era ritirata sdegnosamente sul monte sacro erano ridotti a scarso numero, decimati dalle guerre esterne e civili, e già sotto Nerone s’incontrano rari i nomi appartenenti alle illustri famiglie repubblicane. Grande fu da principio lo stupore quando per decreto di Cesare si videro entrare e sedere nel Senato alcuni Galli avvolti nella toga romana; ma ben presto lo stupore si mutò in abitudine, e Roma divenne la sede d’un popolo nuovo formato dai vagabondi di tutte le nazioni che v’accorrevano ad esercitarvi il loro mestiere di cittadini; mestiere facile e che si contentava d’un pugno di farina[219] in ogni giorno e dei giochi del circo. Questa fu la politica costante degli imperatori, e se vogliamo dare alle parole il significato vero che ànno, Roma si mostrò ben più CATTOLICA, regnando Giove ottimo massimo, che sotto i successori di san Pietro.
Scena II.—Pag. 33.
Anzi mi sembra che sarebbe giusto
Dal nome mio chiamare non l’Aprile
Ma Roma.
Questa vanagloria di Nerone è attestata dal suo biografo (Svet. LV), e lo splendore degli edifizi inalzati sotto il suo imperio, se non la scusa, almeno la spiega.
Scena II.—Pag. 34.
Oggi darò spettacolo, cantando
Nel pubblico teatro.
E questa era la occupazione sua prediletta, sebbene avesse una piccola e stridula voce, costringendo amici e nemici ad ascoltarlo per più[220] ore continue. Supplizio nuovo, poichè a niuno era lecito uscire di teatro mentr’egli cantava. Alcune donne vi partorirono, altri si finsero malati ed anche morti per essere trasportati via. Cantò in Grecia, in Napoli, in Roma. Il Repertorio dell’imperiale cantore ci è stato conservato da Svetonio (cap. XXI); era composto dell’Oreste, dell’Edipo, dell’Ercole furibondo, e di molte altre tragedie; anzi il biografo racconta che, rappresentando Nerone la parte di Ercole, mentre era avvolto da catene, come richiedeva l’argomento, un soldatuncolo pretoriano, presa la cosa sul serio, accorse sulla scena per liberarlo. In una delle repubbliche dell’America meridionale avvenne un fatto quasi simile; la schiavitù dei negri era in pieno fervore, e si rappresentava l’Otello; nella terribile scena quando il geloso sta per soffocare la moglie, un soldato ch’era di guardia in platea appunta il suo fucile e stende morto il povero Otello, esclamando: Non sarà mai che in mia presenza un negro ammazzi una bianca! Strano zelo dell’antico soldato imperiale e del moderno soldato della repubblica!
Scena IV.—Pag. 37.
...La plebe è mia, m’adora...
E fino ad un certo punto Nerone avea ragione. Non profondeva egli tesori per dare banchetti pubblici e spettacoli d’ogni genere? E la plebe non chiedeva di meglio, e attestò il suo affetto per l’artista imperatore; e se all’annunzio della sua morte la città parve rallegrarsi, questa esultanza si può in parte attribuire all’amore di mutare padrone, novità sempre cara alle serve moltitudini. Per lunghissimo tempo il suo sepolcro e nell’estate e nell’inverno fu visto coperto di fiori, e Svetonio racconta (cap. LVII) che, essendo egli giovanetto e trascorsi già vent’anni dalla morte di Nerone, avvenne tra i Parti una terribile ribellione perchè un impostore aveva sparsa voce di essere il redivivo imperatore.
Scena VI.—Pag. 50.
...Tu dunque sei
Atte liberta?
Poche notizie ci pervennero di questa donna, ma bastevoli a dimostrare quanto sia stato il dominio esercitato da lei sull’animo di Nerone.[222] Tacito ne parla una volta sola, ma in quale circostanza! L’immortale istorico afferma che fu essa la quale impedì l’incesto fra Nerone ed Agrippina. Svetonio invece è in contraddizione con Tacito su tale turpe argomento, ed il lettore se n’avrà voglia potrà consultarlo da sè stesso. Questo secondo scrittore narra però che Nerone, preso da amore ardentissimo per Atte, fece giurare in Senato da personaggi consolari ch’essa era nata da sangue di re e che aveva stabilito di assumerla al trono imperiale come sua legittima moglie—ed avvenuta la morte dell’imperatore, la ricorda fra le liberte che bruciarono e seppellirono il suo cadavere (cap. XXVIII e L).
——
Scena I.—Pag. 67.
Eccola là l’orribile cometa.
L’apparizione di questa cometa e la fame che desolò la città in quel tempo sono fatti istorici.[223] Sembra che nel firmamento antico le comete fossero assai più frequenti che nel moderno, poichè alla morte di moltissimi imperatori non mancò mai di essere presente quella
«A’ purpurei tiranni infausta luce».
(Tasso)
Scena II.—Pag. 70.
...Entrarono nel tempio
Di Marte Ultore, e gli tolsero l’elmo.
Questa carissima facezia su Marte Ultore, che si lascia portar via l’elmo dai primi ladri che gli capitano innanzi, è di Giovenale (Satire).
Scena II.—Pag. 72.
La nave Alessandrina andava carca
Di certa polve ecc.
Anche questo è un fatto storico (Svet. XLV).
Scena III.—Pag. 81.
Fermi!
Venere! Ò il punto vincitore.
Nel gioco dei dadi i romani chiamavano Venus il numero maggiore e Canes quello minore.
Scena V.—Pag. 86.
Son giudei; alla croce
Come il loro profeta!
I Cristiani erano già numerosi in quel tempo in Roma. Svetonio e Tacito parlano di essi come di gente malefica e sovvertitrice dell’ordine pubblico, anzi quest’ultimo istorico, sempre cercatore e lodatore della virtù dovunque la trova, biasima Nerone di averli fatti mettere a morte, non perchè non la meritassero, ma perchè data con feroce e nuovo apparato di supplizi.
Scena VI.—Pag. 91.
Avvezzo alle servili
Compiacenze tu sei ecc.
Questi versi, co’ quali Nevio ricorda a Nerone la morte di Trasèa Peto, sono tratti quasi alla lettera dall’ammirabile racconto che ne fa Tacito.
Scena VII.—Pag. 98.
Corsi
Come briaco per le vie di Roma.
Ed era il suo costume. Appena fatta sera, si travestiva, ed in compagnia d’uomini rotti ad ogni vizio andava girovagando per le più remote strade della città, derubando e percuotendo i pacifici cittadini che facevano ritorno alle loro case, e spesso così percossi e derubati si compiaceva d’immergerli in qualche cloaca. Divideva poi come un ladruncolo d’infima classe la preda tolta. Nè sempre Nerone fece queste belle opere impunemente: una volta un marito lo lasciò quasi morto a furia di percosse, e da quella notte alcuni tribuni de’ pretoriani ebbero ordine di seguirlo da lontano per guardargli le spalle (Vedi Svetonio, Tacito, Dione).
Scena VIII.—Pag. 103.
Quell’ostinato
Declamator mi deve la sua fama.
Ed è vero. Seneca, uguale in ciò a tanti apostoli antichi e moderni, scrisse bene e visse[226] male; predicò la povertà stoica, e possedeva case, schiavi, e ville sontuosissime; insegnò nei libri la dignità umana, e fu compiacente educatore del tiranno. Guai alla fama del filosofo, se la morte fortemente sostenuta non avesse dato autorità ai suoi scritti!
——
Scena I.—Pag. 113.
...e qui l’imperïale
Pugillator, deposta ogni fierezza,
Si tramuta in artefice.
Habuit et pingendi FINGENDIQUE MAXIME non mediocre studium (Svet. LIII).
Scena I.—Pag. 113.
Eppure egli una volta
Pianse nel sottoscrivere il decreto
Che puniva di morte un cittadino.
Il principio dell’impero di Nerone fu buono;—egli emanò leggi sapientissime, nè lasciò trascorrere occasione alcuna senza mostrare la sua liberalità e la sua clemenza. È celebre la esclamazione ch’egli fece quando gli fu recata la prima sentenza di morte acciò la sottoscrivesse: Quam mallem nescire literas! Una volta, volendo il Senato rendergli pubbliche grazie, Nerone rispose: Quum meruero. Ma presto la sua natura si corruppe, aiutandola la potenza di fare ogni cosa che volesse, ed è noto che corruptio optimi viri pessima.
Scena II.—Pag. 115.
Ove son esse?
Ov’eran prima che fossero nate.
Questa sentenza che mette le anime de’ morti nel luogo ov’erano prima di nascere si trova in una tragedia attribuita a Seneca, e fu recitata senza che alcun magistrato gridasse allo scandalo per religione bestemmiata. Ò voluto ricordarla come prova dell’ateismo di quel tempo.
Scena IV.—Pag. 128.
Ad un mio cenno
L’astrologo conduci innanzi a quella
Fenestra.
Nerone conobbe veramente quest’astrologo Babilio, e soleva consultarlo; ma non appartiene a lui l’astuzia di salvare sè stesso dando ad intendere all’imperatore che morrebbe, trascorsa appena un’ora dalla sua morte. Un fatto simile avvenne realmente fra Tiberio e il suo astrologo, fatto che anche Walter Scott rubò a Tacito per farne regalo a Luigi XI di Francia in uno de’ suoi romanzi.
Scena VI.—Pag. 146.
Vorrei con le mie mani
Cercar nelle tue viscere...
UNICUIQUE SUUM, come stampa l’Osservatore romano, pesando cattolicamente gli uomini sulla bilancia delle cose e delle bestie.[229] Questo tratto di amore da macellaio è di Caligola, nè credo che Nerone si adonterà di questo prestito di ferocia fattogli dal suo antecessore.
——
Scena I.—Pag. 161.
Il vituperio
Sulla legge Licinia!
Questa legge insieme ad altre molte suntuarie prescriveva un limite alle spese de’ banchetti. Giulio Cesare tentò di riporla in vigore, ma inutilmente; cadde ben presto in dimenticanza, e il lusso de’ conviti divenne smisurato. Il lettore può consultare su tale argomento Petronio, Cena di Trimalcione.
Scena I.—Pag. 166.
Medic’arte
Nulla può contro quella di Locusta.
Locusta fu celebre compositrice di veleni al servigio della casa imperiale. Essa somministrò la bevanda che uccise Britannico, ed avvenne che, operando lentamente questa bevanda, Nerone fece chiamare a sè l’avvelenatrice, e la percosse con le sue mani, rimproverandola di aver dato a Britannico non un veleno ma un rimedio contro i veleni (Svet. XXXIII). Dopo la morte dell’imperatore fu presa, giudicata, e data al carnefice.
Scena IV.—Pag. 177.
Eccomi solo! ecc.
La maggior parte de’ pensieri espressi in questo monologo sono storici.
Scena V.—Pag. 182.
Pensa ai suicidi
Eroici delle tue vittime.
Nessuna età offre maggior numero di morti ammirabilmente sopportate. I martiri si dividevano in due categorie, diverse di scuola, di speranze, di coraggio: Stoicismo e Cristianesimo. Gli stoici morivano ridendo, ed i Cristiani pure; ma questi tolleravano pochi momenti di dolore tenendosi certi di avere la ricompensa d’una beatitudine eterna, mentre i primi ridevano unicamente per dar prova di forza d’animo. Ne’ cristiani dunque c’era un’usura assai maggiore. Davano a prestito uno per ripigliare molti milioni—dato per ipotesi che potesse farsi paragone fra il tempo e l’eternità.
——
Scena I.—Pag. 194.
Ad ogni passo
Mi sorgeva d’innanzi un qualche novo
Periglio.
Tutti gli episodi di questa fuga sono storici.
Scena II.—Pag. 198.
Potrei
Dare un po’ di quïete alle mie membra.
So di certo critico che non voleva darsi pace di questo sonno di Nerone in un momento così terribile. Svetonio risponde a tranquillizzarlo: Receptus (Nerone) in proximam cellam, decubuit super lectum ecc. (cap. XLVIII); e sopra un letto è più facile di dormire che di star desto, specialmente dopo una notte passata nell’orgia e nei travagli d’una fuga. La stanchezza vince tutto: si legge di moltissimi condannati che furono[233] svegliati dal carnefice, nè Nerone aveva ancora perduta la speranza di sfuggire a’ soldati che lo inseguivano.
Scena II.—Pag. 202.
Io vo’ cantare,
Io, poeta maggior di quanti illustri
Ebbe il mondo latino.
Se Nerone non fu de’ poeti più illustri, non fu certo degli ultimi. Svetonio racconta di avere avuti tra mano gli autografi dell’imperatore, autografi pieni di pentimenti, di cassature, e di versi soprascritti agli altri; prova, se non d’altro, che Nerone i versi li faceva da sè (cap. LI).
Scena II.—Pag. 203.
Sei tu, mia madre?...
Tutti gli storici narrano che Nerone negli ultimi mesi di sua vita era assalito da notturne visioni, e in esse fra i spettri delle molte sue vittime giganteggiava quello di sua madre.
Scena II.—Pag. 203.
È ver—cantasti
Nel supremo momento di tua vita.
Lucano, mentre il sangue colava dalle sue vene, declamava tranquillamente alcuni versi del suo poema Farsaglia.
Scena ultima.—Pag. 211.
Tardi, soldato; è questa la tua fede?
E furono le sue ultime parole: Sero: haec est fides? (Svet. cap. XLIX).
Fine
NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.
—Nell’opera originale non è presente l’indice; questo è stato prodotto ed inserito a cura del Trascrittore.
—L’immagine di copertina di questo libro è stata creata usando il frontespizio dell’opera originale. L’immagine è posta in pubblico dominio.