Title: I mattoidi al primo concorso pel monumento in Roma a Vittorio Emanuele
Author: Carlo Dossi
Release date: April 11, 2015 [eBook #48682]
Most recently updated: October 24, 2024
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
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I MATTOIDI
AL PRIMO CONCORSO PEL MONUMENTO IN ROMA
A
VITTORIO EMANUELE II
NOTE
DI
CARLO DOSSI
ROMA
CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C.
Via Umiltà — Palazzo Sciarro,
1884.
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Non Voi — amico Lombroso — ma molti di quelli egregi signori che scrìvon giornali, cioè libri che hanno la vita di un giorno, e parecchi di quelli, non meno egregi, che scrìvono libri senza affatto vita perchè senza lettori; soffermàndosi al tìtolo del presente studio, lo [6] incolperanno d'inattualità, e però, senza lèggerlo manco, lo porranno tra i letti ossìa tra i dimenticati.
Che dirò loro? Un anno e mezzo aspettài che qualcuno, per dir così, del mestiere, compiesse il lavoro che io ho quì, solo da orecchiante, adombrato. [7] Ma inutilmente aspettài. Pochi avvertìrono, nessuno dei crìtici nostri si occupò del contingente enorme che il cretinismo e la pazzìa, hanno dato al primo concorso pel monumento al defunto Sovrano.
Io non appresi mai scienze mèdiche, [8] e nemmeno insegnài, in alcuna Università, nè a disposizione de' mièi sperimenti psichiàtrici tengo alcun manicomio, salvo quello dei libri. A rigore quindi di etichetta professionale, non apparterrèbbesi a mè di parlare di cosa che esce dalla giurisdizione della [9] letteratura — ma che farò se tàciono tutti? Nel silenzio de' dotti è permesso, presumo, ad un ignorante di avventurar la sua voce, il suo aqua alle corde.
In ogni modo, se questo sunto o commento foss'anche spoglio di ogni valore scientìfico, avrà sempre quello [10] di attirare lo sguardo degli uòmini competenti sovra un soggetto, per loro e per lo studio dell'umano cervello, interessantissimo. Non c'è libro, per quanto imperfetto, dal quale non si possa cavar qualche bene. Perfino dalle patate l'industria sa stillare lo spìrito.
[11] E quanto poi a quella attualità di cui si accusasse mancante il presente lavoro, mi limiterò ad osservare che la follìa è il suo tema. E dirò con Voi — insigne Lombroso — qual tema più eternamente attuale della follìa?
Roma, 1º agosto 1883.
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Èccomi a voi, pòveri bozzetti fuggiti od avviati al manicomio, dinanzi ai quali chi prende la vita sul tràgico passa facendo atti di sdegno e chi la prende, come si deve, a gioco, si abbandona a momenti di clamorosa ilarità. Chiusa la gara, attribuiti gli onori, se non del marmo, della carta bancaria a un progetto che all'arte contemporanea fà ingiuria ed è dell'antica una parodìa, menzionate con lode ufficiale la impotenza accadèmica e la mediocrità intrigante, raccomandato a qualche linea di giornale [16] il ricordo dei cattivi e de' buoni, di voi soli — aborti forse di geni ammalati — traccia non rimarrebbe. Ma io vengo a voi, mostriciàttoli della fantasìa, vengo a raccògliervi nei baràttoli del mio spìrito, a collocarvi nel musèo patològico de' scritti mièi.
Anzitutto, voi lo meritate. Non siete affatto, come si dice, indegni di considerazione. Per lo meno, i vostri babbi danno prova con voi di un ingegno molto più grigio di fòsforo che non gli autori di que' progetti che appartèngono alla burocrazìa dell'arte. Che sono infatti questi? Sono progetti di cose che esìstono già, ardimenti che non oltrepàssano «il lùcido» combinazioni da rimario e ricetta, furti coll'aggravante di avere guastata la roba furata per dissimularne l'origine[1]. Voi, invece, avete comuni cogli autori di genio la smania della ricerca e l'ambizione del nuovo, qualità che spavèntan perfino dalla bellezza la folla ignorante e l'accadèmica plebe. Cadeste, è vero, nel tentativo — che non vi soccorse bastante ala di mente — ma, almeno, fu propòsito vostro di volare alle stelle, non di saltare una staggionata.
Nè lo studio di voi è superfluo. A indovinare quella artistica perfezione che da tutti si ciarla e pochi [17] raggiùngono, perfezione che sfugge a qualunque precetto assiomàtico, si arriva tanto per la meditazione delle òpere belle quanto per l'esame di quelle che ne sono il contrario. Dalla sola mediocrità nulla s'apprende. Conconi, Otto, Amèndola, Ximènes e altri pochi, coi loro progetti magnificamente pensati ed eseguiti, ci danno una idèa della sanità in arte. Quì si analizza invece la malattìa, studio del pari importante.
Importante ho detto e avrèi dovuto dire indispensàbile. Non c'è atto di questa vita, non avvenimento, in cui non oscìllino i sonagliuzzi della follìa. Sembra anzi che l'umano cervello, sviluppàndosi, affinàndosi a traverso le generazioni, si faccia vie più sensìbile alle turbatrici metèore e che il quoziente mattòide entri in quantità sempre maggiori nella cifra delle nostre azioni.
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La sacra pazzìa non poteva quindi mancare al concorso pel monumento al Re Galantuomo e infatti vi è apparsa in tutta la pompa del suo variopinto vestito. Ai sei bozzetti che raffigùrano, salvo errore, la categorìa del genio ossìa l'esuberanza della salute intellettuale, fanno riscontro ben 39 che pèndono decisamente alla follìa, ossia all'eccesso del disòrdine. Quest'ùltima classe segna per conseguenza sul nùmero di 296 progetti, chè tanti sono gli esposti, il 13,2 per cento, proporzione [22] che salirebbe a quella del 25, qualora vi si comprendèssero anche i progetti (circa 35) di menti semplicemente cretine, progetti i quali, stretti di parentela con i pazzeschi, stanno di fronte a questi, come, rispetto a quelli di genio, i duecento-sèdici altri, rappresentanti l'ingegno mediocre.
Concentrando però il nostro dire sui bozzetti mattòidi, i caràtteri coi quali essi distinguonsi a tutta prima, sono, in generale, il subisso di sìmboli e di allegorìe che li sopracàrica, la spropositata prolissità del commento che li accompagna — tantochè, in qualche caso, il bozzetto si riduce unicamente alla sua descrizione — le confidenze affatto personali e affatto estranee al soggetto che l'autore ci favorisce; sovratutto, ove sia possìbile di accertàrsene, la condizione o professione del medèsimo autore che è tutt'altra di quella che occorrerebbe per un lavoro scultorio od architettònico.
Infatti, per quest'ùltimo capo, noi troviamo, tra i nostri progettisti, de' maestri di grammàtica e di matemàtica, dei dottori di medicina e di legge, dei militari, un impiegato telegràfico[2] un ragioniere, nonchè altri parecchi che ci dichiàrano di non aver mai maneggiato nè scalpello nè matita nè seste. [23] Ringraziamo questi cortesi che si son compiaciuti di farci conoscere la lor condizione professionale a giudicare però dall'esecuzione dei bozzetti esposti anche dagli altri, si dovrebbe inferire che non pìccola parte dei concorrenti ha studi, ha inclinazioni, che non hanno nulla a che fare colle arti plàstiche.
Affrettiàmoci a soggiùngere che l'imperizia artistica, per sè sola, non è sintomo di follia. Le maglie del programma per il gran monumento èrano amplissime e perciò vi poteva passare qualunque sia idèa: si èbbero quindi proposte di stabilimenti industriali (bozz. n. 22, Camillo Ferrara)[3], od igiènici, come bagni (bozz. n. 24)[4], e fùron proposte, se non accettàbili, ragionèvoli.
Senonchè, l'imperizia della mano, quando è accoppiata alle incongruenze della mente o ad altri disòrdini cerebrali, concorre ad accentuare le caratteristiche della pazzìa. Non è ammissibile infatti che una persona, nel pieno possesso della sua coscienza, si ostini a far cosa alla quale è assolutamente incapace, e ancor meno, ne faccia pùbblica mostra e chieda un premio per essa. Pur consentendo che i bozzetti segnati coi numeri 11, 19, 28, [24] 16 a e b, 66, 74, 112, 115, 134, 234, 242, 277, 290, 293, 241[5] e altri molti, non sìeno che infelici conati di majùscoli bimbi completamente ignari dell'arte del disegno; chi non porrebbe senza alcun scrùpolo nella razza mattòide quel prof. E.P. Wanderburg (bozzetto n. 267) che invìa all'imponente concorso un mezzo fogliuzzo di carta con su mal delineata una colonnetta ed in cima, fatta ancor peggio, una croce? o quei progettisti (nella più parte, come i sovraenumerati, inglesi e tedeschi[6]), fra i quali — oltre i parecchi di cui diremo poi di propòsito — primeggia il signor Delmar Philippis William Thomas Lambert H.A.D. (n. 59) (nota filza di nomi!) che circonda il suo orrìbil progetto di tempio indiano-barocco con una corona di sgorbi a matita, affatto incoerenti col tema, oppure quel n. 181 (Esperia, Ausonia, Italia civile e guerriera) che ci offre tre tàvole di sìmboli ridicolosi e di più còmiche spiegazioni, o quel n. 65 (Num et Sàul?) che dal Würtemberg manda sette fogli mal disegnati a làpis con una relazione spropositata in latino, ed anche quel n. 158 (Felix Hodorowitch) che dal Càucaso ci fà il presente di un cerotto di gesso e di colla rossa con quattro mostricini sui lati, da [25] lui creduti guerrieri etruschi — bozzetto che, per la forma, il colore e la puzza, imprime allo stòmaco quel moto di ripugnanza e di nausea che incoglie alla vista di roba in putrefazione. La qual cosa osserviamo, poichè, tra i segni della mente non sana, è pure da annoverarsi la deficenza, più o meno totale, di quel sentimento che insegnò all'uomo il sapone e la scopa, la decenza nei modi, il pudore nelle espressioni.
Quanto diciamo dell'imperizia artìstica, può anche valere per la sgrammaticatura letteraria, la quale pure, quando è isolata, non dà altro indizio che della ignoranza di chi la commette. Ora, ignoranza non è mai stata demenza: trovi anzi, non raramente, in iscritti di quasi-analfabeti maggiore buon senso che nei volumi di parecchi filòsofi, di un Quìrico Filopanti ad esempio. Un sorriso e non più, mèritano quindi i farfalloni grammaticali di cui sono assiepate moltissime relazioni annesse ai bozzetti e noi non c'inquieteremo davvero per il concorso imbandito al mondo del n. 214 (Optimus ille est qui minimis urguetur), pei leoni di marmo colchi del 253 (al Re ed alla patria), tanto più che il loro descrittore [26] vorrebbe posto il monumento in piazza di Tèrmini affine di non dar disturbo; pel gioco d'aratro del n. 147 (Fr. Romaniello); per l'òrdine romano, scelto dal n. 222 (ars longa, vita brevis) come il più venusto ed eròe; nè ci formalizzeremo se gli autori del n. 40 (Pinaroli I. ed Enrico) hanno mutato tutti i q della lor relazione in altrettanti e. Quando però alla scorrettezza puramente grammaticale si allea o si sostituisce quella delle idèe, è un altro pajo di màniche, e l'ignorante lascia il posto al cretino o al mattòide. Ecco quindi il sig. Paolo Torchiana (bozz. n. 206) che, propòstosi di sistemare la piazza del Pòpolo (la quale, tra parentesi, non ha alcun bisogno di sistemazione, comechè perfetta), la ingombra di nuovi edifizi, che ròmpono la euritmìa dei preesistenti; ecco l'autore del nùmero 36 (Ezechiel CXLVII-v. 5) un inglese, il quale, dichiarato anzitutto che il monumento non deve avere uno scopo utilitario — chè sarebbe ignòbile idèa — non deve èssere cioè nè un ospedale nè una scuola ecc., conchiude proponendo la costruzione di un ponte, costruzione che, in una città traversata da un fiume, è tra tutte la più utilitaria. Così il n. 292 (Fons vitae), che ha preso a modello una rapa per disegnare [27] uno scoglio e un tacchino per fingere un'àquila — ci avverte che lo scoglio sarà fatto di ghisa: ho scelto — nota egli — tale metallo onde caratterizzare l'època nostra; mentre il n. 46 (Concordia), progettato un mucchietto di rocce e fontane che renda imàgine de' sette colli, vi sovrappone il tempio della Concordia con il colosso della Dea possibilmente in oro, aggiungendo, che, quanto alle altre statue, permettèndolo il mite clima di Roma, si faranno di marmo. Nè va taciuta la peregrina trovata dal professore cav. Domènico Mollajuoli (n. 216) che, tracciato confidenzialmente in matita su due branicelli di carta una colonna e un archetto, ci spiega, che: in cima all'arco si porranno le cèneri di Vittorio Emanuele, cosicchè chi vi passa sotto, dirà: qui sopra ripòsano le cèneri di colùi che mi ha dato l'indipendenza e la unità, e l'altra idèa, non meno preziosa, del n. 287 (Dall'uno all'altro polo) il quale, dopo di èssersi con molte considerazioni persuaso che la statua del Re debba, èssere equestre ossìa posta su di un cavallo, esce a dire: la mia architettura io la chiamerò romano-arcimperiale in omaggio alla Nazione ed al Re.... Finalmente — e si noti che non spicchiamo per ora [28] che qualche foglia da ogni manoscritto — c'è il signor A. B. di Messina (n. 41) il quale non spedisce alla Commissione il suo monumento perchè è troppo grandioso: quindi si lìmita a mandarne la fotografìa (che viceversa è uno sconcio disegno a penna) e ci annuncia che il monumento dev'èssere in marmo scolpito e bronzo fuso. È di stile che sfida ogni descrizione. Sullo schizzo sta scritto: Concetto a colpo d'occhio — Due granatieri di bronzo, ai lati del monumento — così spiega l'autore — stanno impiantiti, in atteggiamento stanco, su due tamburi dello stesso metallo... col kepì indietro, in modo da lasciar vedere ciocche di capelli bagnate di sudore, ossìa in quel riposo-arm, comandato da Vittorio Emanuele.[7]
Ma procediamo un passo più addentro nell'ànimo di questi egregi signori, e, giacchè vògliono ad ogni costo onorarci delle lor confidenze, ascoltiàmole. Non prenderemo nota, però, della scusa di non aver potuto, per mancanza di tempo, presentare completi lavori o di non èsservisi dedicati che ad intervalli, nè dell'affermazione di non aver fatto il progetto che dopo maturo esame, circostanza aggravante, o che il progetto fu accolto con deferenza [29] dalla Casa Reale e dal giornalismo, tentativo di corruzione. Sono scuse troppo comuni, sono affermazioni sbugiardate presto dal fatto. Piuttosto compiangeremo quel pòvero n. 291 (V) al quale una quantità d'inaspettate vessazioni impedì d'inviare de' competenti disegni, e quel n. 163 (Hanc ratus sum partem meam) che, nel medèsimo caso del suo collega, si lìmita ad incolparne gli incòmodi che sono attinenti alla sua avanzata età. Non sappiamo, peraltro, che farci se il signor Cànfora (n. 294) non sia nè ingegnere, nè architetto, ma solamente inspirato da Dio, e se il signor Giacinto Carmelo di Francesco (n. 237) si affacci al concorso sfornito di severi studi essendo la sua professione di sèmplice ebanista. Resta a vedere se si dovrà chiùdere un occhio per quel n. 46 già citato, che non intese presentare un saggio d'inappuntàbile architettura e tanto meno una esatta prospettiva: ma seguiremo invece, attenti più che potremo, le elucubrazioni del n. 35 (l'architettura e la scultura sono arti inseparàbili) il quale comincia scrivendo: diciàmolo sùbito; il progetto che io presento, meglio che una trovata puramente artìstica, è il risultato, è la conclusione d'un breve [30] ragionamento, ed ecco, filo per filo, come ragionò la mia pòvera testa...; oltrepasseremo, ammirando, quel professore nelle scuole tècniche di Arezzo, (n. 183, Esperienza è madre di scienza), che, offerta la più visìbile prova di una assoluta incapacità, delineando un arco che è il trionfo del cretinismo, modestamente c'informa che la sua applicazione fu immensa, essendo da solo riuscito a portare a tèrmine il suo lavoro; e quell'altro (n. 191, Secondo-Primo) che ha fatto una colonna, quantunque piena d'immense difficoltà; e finiremo col fermarci dinanzi al signor Alessandro Mugnaini di Lucca (n. 26) il quale, dopo di aver saputo felicemente comporre il dissidio tra la Roma transtiberina e la Roma dei monti, che vorrèbbero ciascuna esclusivamente per sè il gran monumento, collocando quest'ùltimo in mezzo al Tèvere su un ponte piramidale, è tanto gentile da presentarci il suo viso[8], incollàndone la fotografìa sullo stesso progetto (viso somigliantìssimo a quello, sorridente a sè stesso, di Benedetto Cairoli); è tanto ossequente ai regolamenti in vigore da non affìggersi al pùbblico senza la dèbita marca da bollo.
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Senonchè, le frontiere tra la mediocrità e il cretinismo, come tra questo e la follìa e tra la follìa e il genio, non sono così precise e distinte da tògliere ogni perìcolo di sconfinamento a chi volesse esclusivamente occuparsi dell'uno o dell'altro tema. È quindi probàbile che, tra i bozzetti che abbiamo sommariamente citati, qualcuno non appartenga veramente alla classe in cui lo si collocò; come è possibile che al nostro occhio di dilettante ne sia taluno sfuggito i cui pazzeschi caràtteri, quantunque [34] meno appariscenti degli altri, sarèbbero di non minore importanza e forse più degni di nota. Disgraziatamente, il rimedio non è più in nostro potere; e però bisogna che il caro lettore si accontenti con noi di fermare la sua attenzione — màssime per quanto riguarda la forma, i sìmboli e il commento che li costituìscono — sovra i progetti più spiccatamente mattòidi che or passeremo in rassegna.
Il primo posto va serbato alla scienza. Essa è rappresentata dal n. 86 (Ove speme di gloria agli animosi — intelletti rifulga ed all'Italia — quinci trarrem gli auspici) cioè da un professore di matemàtica nel R. Licèo Virgilio di Màntova, certo dott. Giuseppe Tezza. I monumenti destinati a vivere i sècoli — scrive egli — dèbbono essere robusti, grandiosi per mole, sorprendenti per l'ordine. Per conseguenza, il suo monumento è d'òrdine toscano benchè possa èssere effettuato anche in qualsìasi altro òrdine. Si compone di una colonna attorniata da quattro obelischi, da quattro scalinate, e da quattro triàngoli circondati, ciascuno, da dòdici agugliette; in complesso, quarant'otto per qualità. Tutto spira matemàtica [35] e simetrìa. Sulle agugliette poggeranno i busti, sulle colonnine le statue dei grandi italiani. Sei statue però saranno solamente precarie, con riserva di mutarle in perpetue alla morte delle illustrazioni che rappresèntano, (come Sella, Mamiani ed altri da destinarsi) qualora si troveranno degne di salire sul piedistallo. Si vede che il purus mathemàticus intèrpreta alla lèttera i translati poètici. Per timore poi che qualche bell'umore prenda quella sua gagliarda concezione per quel che sembra, ossia per un giuoco di birilli, e vi faccia occasionalmente alle palle, il prof. Tezza si dà premura di osservare che, se il monumento non sarà guardato da costanti sentinelle, dovrà èsser protetto da una grande cancellata di ferro.
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[39] Anche il n. 88 predilige gli edifici sèmplici e sodi e prende esempio dalle rudi ma pur maestose costruzioni dei prischi quiriti che sfìdano la eternità. L'autore, convinto, perciò, di avere trovata la vera ed appropriata ìndole del monumento che deve concretinizzare la gloriosa apoteosi del risorgimento italiano, propone di estòllere in cima dei sette colli una gran cassa quadrata di pietre, senza cornici nè altri risalti, una specie di bigattiera o di gabbia per uccelli di sasso, ch'egli chiama torre retto-quadrangolare, destinata a trasportarvi e collocarvi le preziose spoglie del Re al sicuro dai voraci flutti tiberini. Tutto, in questa mole, è quadrato e cùbico; ciò nonostante, l'autore confida che le statue e i busti innùmeri in marmo bianco e i dòdici candelabri per l'illuminazione e i blasoni delle città d'Italia col rispettivi colori e le iscrizioni in bronzo dorato, romperanno la moltèplice uniformità delle continue rette, facendo risaltare il fondo roseo della nuova Tarpèa granìtica e rilevare la voluta mesta impressione monumentale.
Diamo quì sotto il profilo del robusto edificio:
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[43] Un'altra mole faragginosa è messa innanzi dal n. 82 (Una idèa 1ª), il quale però ci avverte che la sua idèa e forse troppa americana per questa parte di mondo ma storicamente lògica. E domanda: chi ha fatto l'Italia? Il progresso: di progresso deve dunque la nuova Italia farsi banditrice al mondo. L'autore si limiterebbe a pigliare, per base del suo monumento, Castel Sant'Angelo, e nel monumento, da chiamarsi Gloriaedum, porrebbe le effigi degli uòmini illustri di qualunque età e paese. Tra essi, la statua di Cristo, colle spalle vôlte al Vaticano. A giustificare poi la statua equestre del Re sul cùlmine della ex mole Adriana, l'autore, per mostrarsi anche in ciò ragionèvole, propone di usufruire l'antica interna salita a spirale, rendèndola non solo accessìbile ai cavalli, ma anche ad un pìccolo tram.
Se il n. 82 ha progettato un Gloriaedum, il 38, ossìa il sig. Francesco Vallònica, propone un Meganthropon. Consiste in una fortezza con su un tempio toscano. Nella fortezza gira un androne da ospedale coi busti di tutti gli uòmini celebri. L'artista non si accontenta di esporre il suo progetto (che è, come altri non pochi, roba vecchia riutilizzata [44] per l'occasione) ma vi còlloca tutt'intorno una serie di quadri, nei quali, sotto il vetro, si lèggono i lusinghieri giudizi che di lui hanno dato parecchi riputati giornali italiani, quali il Diritto, il Bersagliere e la Gazzetta d'Italia. Vero servizio da amico che egli rende a que' crìtici!
Una fiera di uòmini cèlebri è pure l'idèa che ha provocato il bozzetto n. 168 (Dante, Vittorio Emanuele e l'Unità italiana). Quì si tratta di un tavolone, càrico, come quelli che rècano in capo pel mondo i figurinài di Lucca, di statuette di gesso, nane e sciancate, equidistanti tra loro. Rappresèntano tutte, salvo rade eccezioni, un personaggio medèsimo, non avendo l'artista potuto per ragione di tempo e di salute modellarle tutte. In questo archetipo — così si esprime l'autore — non vi si trova niente di tuttociò che chiàmasi decorazione e che è la vernice con che si abbellisce una composizione: la impressione che se ne ricava è quindi l'effetto di linee in cui l'occhio si riposa saporitamente, essendo quelle linee la natura stessa in tutta la sua nuditezza (sic). In ogni modo, il concorrente, affinchè non si dùbiti che egli abbia trasandato quegli abbellimenti per incapacità, crede [45] suo òbbligo di dichiarare, 1º che, vìttima della più fiera prepotenza di gente ingorda e maligna oramài sotto l'impero della giustizia, egli non ha potuto, suo malgrado, fare nella esecuzione del progetto il voler suo, bensì quello del potere al quale poco mancò a mètterlo nella dura necessità di rinunziare al concorso e pèrdere così un pensiero cotanto carezzato e che può darsi sarà quello che più splenderà nel concorso — 2º che egli prega la Commissione di crèdere la verità delle sue parole, le quali, del resto, pòssono èssere autenticate da fatti legali e giurìdici indistruttìbili che hanno avuto luogo, ecc. — La figura principale del monumento è naturalmente quella di Vittorio Emanuele. Il Re, in mezzo a un loggiato dal quale si scende per due gradinate semicircolari, è in atto di chiùdere la Divina Commedia e di prendere una grande risoluzione, proferendo una lunga filastrocca che si trova consegnata nel manoscritto esplicativo e che comincia: Sì, pòvera patria mia, tuttora tu duri frantumata... ecc. — Quanto non è grande il pensiero dell'artista! — soggiunge con convinzione l'artista stesso.
Segue poi una minuta descrizione di tutte le [46] statue e gruppi e basso-rilievi che attòrniano il simulacro del Re, e fra i nomi degli uòmini cèlebri che vi s'incòntrano, si lèggono quelli di Cavour, Ricàsoli, Galilèo, Colombo, Crispi, Bertani, misti agli altri di Montezèmolo, Pianciani, ecc. Ventidue basi sono poi destinate alle statue di altrettanti ufficiali di grado superiore.
Nòtisi che il monumento offre qua e là degli spiazzi da coltivarsi a giardino, nonchè quattro cafeaus, i quali, per il concetto polìtico-militare dell'autore, hanno all'esterno apparenza di alloggiamenti militari, ed all'interno sèrvono per alloggiarvi la guardia che deve montare al monumento o per altri usi.
Ma il monumento è un nulla in confronto della soddisfazione che sente per le sue belle pensate il coscienzioso autore. Dal fin qui detto — egli scrive — si vede che, il concetto non solo corrisponde perfettamente al programma di concorso da non lasciare niente da desiderare, ma che quest'ùltimo vi è svolto in modo che tutto il monumento è una composizione artìstica..... Di più, siccome ci voleva un edificio che non avesse nulla di quelli fàttisi dai greci fino ai giorni che còrrono, il medèsimo [47] autore osserva che, tanto la maestosa grandezza che la novità si tròvano nel progetto del concorrente, il quale ha una specie di convinzione che nello stile, il suo progetto sarà solo tra gli altri, mentre egli è sicuro delle proprietà scientìfico-artìstiche dello stesso progetto...... Parlando poi di una vasca da collocarsi nel centro del piano sottostante al loggiato, vasca coi sòliti cavalli marini: È fàcile — egli esclama — vedere l'effetto màgico che deve fare questa parte del monumento poichè la vasca così fatta gli dà una grazia veramente incantèvole; ed altrove: l'artista arricchì il monumento del giardino nella maniera che si vede, non a casaccio, ma a ragione veduta, imperocchè tutto il monumento, così com'è nel progetto del concorrente, òbbliga chiunque, qualunque sia la sua condizione sociale e finanziaria, nonchè la sua coltura, la sua nazionalità ed anche il sesso, di dovervi andare tutti i giorni..... Tale monumento, che sarebbe la delizia nel dì, diverrebbe un'incanto nella notte, illuminato dal gas e animato dai concerti delle bande musicali, nonchè dal mòversi, per lungo e traverso di quei viali, di tutto un mondo di bellezza e di eleganza — ciò tanto più, perchè i due «kaffeehäuser» [48] sovracitati, a tergo del monumento, essendo ben disposti ed elegantemente messi, pòssono servire per còmodo di quelle persone d'ambo i sessi che si tròvano a passeggiare per tutto il monumento e ciò onde evitare a quelle persone la pena di dover allontanarsi, pel soddisfacimento di un bisogno, da quel luogo di delizia, nonchè di soffrire sino a che arrìvino a trovare un locale che faccia per il fatto loro.
Questa lodèvole preoccupazione pei bisogni dei visitatori, appare anche, benchè meno apertamente, nel bozzetto n. 157. (La nostra propizia cometa). Anzitutto, il suo autore espone, in gesso, una torre pentagonale di stile senza esempio — così egli c'informa — come fu il modo della costituita nostra nazionalità. E i dieci giri di cui si compone la torre rappresèntano gli anni impiegati per la costituzione della nazione. Nelle fermate havvi per ogni piano due finestre ed una porta che mette in comunicazione colla scala interna ed una càmera per qualunque evento potesse giùngere ai visitatori. — Alla torre pentagonale, l'autore aggiunge un bozzetto, parimente di gesso, raffigurante [49] Vittorio Emanuele che, giunto all'apice, si arresta dando il segno dall'alto: sotto il cavallo, la Discordia si ròsiga il dito.
Passiamo ora rapidamente dinanzi il n. 280 (Fannomi onore e di ciò fanno bene) che propone una fontana con tritoni e nerèidi, avvegnachè le principali battaglie della indipendenza furono combattute sui fiumi; diamo un fuggèvole sguardo al n. 282 (Tricolor) che vorrebbe, a materiali di un suo infelice tempietto, adoprare per lo zòccolo il granito rosso di Baveno, per le colonne il marmo bianco e per la copertura il bronzo leggermente ossidato, allo scopo, dice, di raffigurare i gloriosi colori d'Italia; e, medesimamente, non più di una occhiata al manoscritto del n. 251 (Epopèa) che gravemente comincia: L'opera sapiente del Fattore dell'Universo, incombendo agli elementi tutti la loro divisione, volle che il nostro suolo configurasse di sua natura l'unità...; e soffermiamoci invece qualche istante dinanzi al bozzetto n. 32 del professor Pietro Montani.
Questo signor Montani, membro della Società imperiale russa d'archeologìa, membro del Sìllogo [50] ellènico, architetto in capo della Romelia Orientale, già architetto e decoratore dei palazzi dei sultani, cavaliere e commendatore di più òrdini equestri ed allievo dell'Accademia di Milano — com'egli si qualifica — ha disegnato 11 tavole, di cui le prime cinque riguàrdano il monumento da lui progettato, che è in sostanza il Pandrosio sul quale s'impernia il tempietto di Lisìcrate, guasto il tutto da aggiunte del concorrente, e le altre sei si riferiscono alla struttura geomètrica della razza italiana appresso Raffaello — alla struttura della razza dominante in Italia ed a quella della sua minorità risultante dalla legge di atavismo — alla struttura geomètrica della razza ellènica — finalmente, alla colorazione dello spettro solare e tuoni corrispondenti rilevati dalla colorazione di un tapetto (sic) persiano di magnìfico aspetto.
Il professor Montani principia la sua relazione pienamente in possesso della facoltà ragionatrice, osservando che per Vittorio Emanuele non si può erìgere un monumento individuale, giacchè la sua personalità si confonde con quella dell'Italia intera[9]; passa poi alla descrizione particolareggiata delle pitture e delle statue allegòriche del monumento, [51] che sono le sòlite Prudenza, Concordia, Vittoria, Diritto, Valore, Giustizia, ecc.; quindi, entrato in considerazioni sullo stile da esso prescelto, il quale stile dovrebbe èssere esclusivamente italiano (in che modo lo faccia italiano, il signor Montani, s'è visto) si mette a commentare Vitruvio, diffòndesi negli argomenti delle cùpole emisfèriche e parabòliche, degli archi di cerchio parabòlici ed a ciclòide, delle volute a spirale geomètrica ed a curve generate da una lama che si ripieghi, della risoluzione delle diagonali che risùltano in pianta... e vie via, si estende a parlare della legge del ritmo, alla quale dee sottostare l'opera d'arte destinata a far parte integrante di un monumento. Come si vede, il signor Montani, ha già fatto assài strada per dilungarsi dal tema del concorso. Ma non par che gli basti. La camminata gli rende sempre più spedite le gambe, ed èccolo ch'egli scantona a discùtere dell'òbbligo che incombe all'artista di rispettare la struttura angolare della razza che imprende a rappresentare. E qui l'egregio architetto della Romelìa Orientale, agitando la sua «marotte»: L'animale — scrive — trovàndosi nel suo stato di stazione naturale, la projezione ortogonale del [52] suo profilo, fatta su di un piano che dividerebbe il corpo in due parti simètriche, rappresenta un polìgono i di cui lati agiacente sono fra loro riaccordati parabolicamente. Ora, egli è dalla forma e dalla misura di questo polìgono che si riconosce, secondo il professor Montani, la diversità delle razze. Naturale quindi che il disserente venga a trattare delle caratterìstiche delle varie speci. Raccogliendo qualche pensiero dal suo dotto fascìcolo, troviamo che le speci dei brutti (sic) sono uniformi, mentre la specie umana è polimorfa... La caratterìstica italiana e il triàngolo equilaterale... Negli accoppiamenti eterogenei, la caratterìstica dei prodotti è rappresentata da una caratterìstica risultante dal prodotto degli ìndici delle caratterìstiche degli individui accoppiati. Così l'ìndice della caratterìstica trìgona essendo 3 e quello della pentàgona essendo 5, il loro prodotto sarà 15, indice di una caratterìstica quinquepentagonale......... Indicati poi diversi àngoli particolari e generali delle razze e ricordato il dovere di ogni buon artista di porvi mente: i greci — soggiunge il signor Montani — dàvano alle loro òpere la caratterìstica decapentagonale, pur si trattasse di effigi [53] di cavalli. Gli egizi, però, riuscìvano meglio nei leoni che non i greci, avendo con essi identità di caratterìstica... Così, la caratterìstica encagonale (sic) è fortemente accusata dai giapponesi, l'eptagonale dagli atzechi, ecc.
Tanto poi per camminare un altro tantino fuor di propòsito, il signor Montani accenna alle opere di pittura, le quali oltre alla servitù del ritmo ed alla legge di struttura, sono anche astrette all'armonìa del chiaroscuro ed a quella del colorito. E però entra a parlarne, dichiarando di non voler cangiare la sua memoria in un volume — e va a finire nello spettro solare che si divide in 12 intervalli, i quali raffigùrano la colorazione che si trova in uno splèndido tapetto persiano; concludendo di aver scritto la sua diffusa e confusa spiegazione per obedire al dettame della legge di concorso, ove è detto che i concorrenti dèbbono chiaramente spiegare quanto intèsero di fare.
Impigliàmoci ora nel mare algoso delle allegorie.
Il signor Romaniello, che è quell'impiegato telegràfico cui già abbiamo accennato, benchè dilettante, ardisce presentare una colonna ottàgona [54] tutta sìmboli (bozz. 147). Su questa colonna — così ci spiega l'autore — il Genio della Indipendenza preme col piede un gioco d'aratro rotto e quasi consumato dalla sua fiàccola; ha nella sinistra un globo; ai polsi i ceppi spezzati; sulla fronte la stella intorno, l'alloro; e sul cucùzzolo un'àquila.... Sotto, la Sfinge, che rappresenta la scienza polìtica.
Quanta roba!
La colonna è pure la forma preferita dal n. 7, che ha per motto del suo lavoro queste vispe strofette:
Fisò in seno all'avvenire
I suòi sguardi rilucenti,
Pesò il carco degli eventi,
Corse, infranse e trionfò;
E l'Italia in suo desire
Nella pompa riaquistata,
Ossequente, lieta e grata
Il suo serto a Lui donò.
Il n. 7 ci disegna dunque una colonna, che quì appresso riproduciamo. Secondo il concetto dell'autore, rappresenta l'unità della patria[10]. Gli stemmi di tutte le città italiane ne rivèstono il càndido [55] fusto dorati e colorati e sono incatenati ciascuno con tre anelli (Concordia, Amore e Prudenza). Lo zòccolo è di marmo rosso, come la balaustrata; il capitello è verde. Su i quattro gradini del piedistallo, sei leoni di marmo giallo da 1400 libre l'uno, non un'oncia di più nè di meno.
La macchinosa colonna è poi circondata da altre quattro minori, dedicate ai quattro genii degli ex regni d'Italia. Nella decorazione predòminano amorini, urne del plebiscito ed orologi. Questi ùltimi ìndicano l'ora del trionfo in ciascuna città che formava la capitale di ogni ex Stato.
[57]
[59] Per la forza delle allegorìe, il n. 7 è però vinto dal n. 142 — ossìa dal sig. Luigi Gatteschi, il quale ha fatto un grosso arco di cartapesta e di trionfo, guidato dai seguenti concetti:
Nel piano della parte superiore s'innalza la grande massa di nùvole in cristallo, opaco in buona parte, e naturale ove occorra lumeggiare le nubi, e sopra, la statua equestre in bronzo del gran Re....
Il pensiero predominante in detta parte del monumento, che è la principale, è stato quello di rappresentare il Re Vittorio Emanuele, che, posato su di un focoso destriero, trasvola nelle regioni celesti, avvolto in un manto di gloria.
Che l'abuso dei translati e dei sìmboli non sia — in ogni modo — un privilegio del poètico pòpolo della penìsola itàlica, ce lo pròvano molti bozzetti venuti dall'èstero, e, tra gli altri, questi:
Il n. 162 (Per aspera ad astra) che, a giudicare dal manoscritto, è lavoro di un tedesco, dividerebbe il monumento in tre parti, da costruirsi in tre differenti riprese. La prima ricorderebbe l'imàgine di Vittorio Emanuele, nella sua migliore età (45 anni), abbigliato da cacciatore, con cane e fucile, ed in marmo nero, [60] per raffigurare il lutto degli italiani. La seconda sarebbe costituita da un'altra statua di pari grandezza e di pari colore, da porsi spalla a spalla con quella di Vittorio: cioè la statua di Umberto I in uniforme di generale, coll'elmo in pugno. La terza infine, da collocarsi tra i due sovrani in modo da far con essi un triàngolo (comechè figura perfetta e che ricorda la divinità) rappresenterebbe il principino di Napoli, anch'esso della stessa grandezza e nel medèsimo marmo del padre e dell'avo, vestito di frac e in cravatta bianca, e colle tàvole delle leggi sulle braccia.
Molto più ardito del tedesco, è però l'inglese n. 296 (U.S.A.), che ci disegna un obelisco zeppo di simboli nella elegantìssima forma che quì a lato riproduciamo.
[61]
[63] Quadrata è l'ara che sopporta la guglia ottagonale e rappresenta, su di una faccia, la coltivazione della mùsica presso gli italiani; nelle altre tre, la coltivazione della pittura, le bèlliche disposizioni dell'època, e la luce dell'intelletto che fonde le catene delle prigioni. Il marmo è di un grigio chiaro, emblema di giorni lieti.
Sotto l'ara, giàciono quattro grossi calepini incatenati: Galilèo, Boccaccio, Petrarca e Dante. Indicano the chained conditions of thought ai tempi di que' quattro scrittori. Marble of the block to be dark, heavenly clouded, with sudden streaking of white, running thorough. Represents the dark days of thought lighted by irreprensible intellect.
Sotto poi ai libroni, un gran tronco di albero con corteccia growing on Rome. Represents the growth of Italy on the fall of Rome. Intorno al tronco una viva vite forma la parola «Italia». La vite è un emblema della prosperosa vita italiana. The stump is Italy.
Nè basta; ma otto grandi radici si innàlzano dagli àngoli dello zòccolo ottagonale inferiore; quattro di esse dispàjono subitamente: le altre quattro si svilùppano fin quasi alla cima dell'obelisco, decorato da un pupazzetto di stile cinese.
[64] Intorno allo zòccolo, otto scene allegoriche ricòrdano, in marmo scuro, i tristi giorni di Roma[11].
Torniamo ora tra i nostri concittadini. Vi ha chi ci chiama per proporci un affare.
E questi è il n. 98, che, coerentemente, si fregia per epìgrafe delle parole «ad onore di S. E. il ministro Magliani». Il suo monumento è una delle sòlite colossali puddinghe, sovra la quale si eleva un gruppo rappresentante il buon senso di Vittorio Emanuele. Il monumento è denso di allegorìe e di strafalcioni. Vi si scorge, ad es., un ardito giòvane (il 1848) che strappa un velo con modo sdegnoso dalle mani di una vecchia dal volto grinzoso ed ipòcrita (la calunnia), vi si tròvano parecchi gradini che condùcono alla sommità e sono posti di fianco perchè la Rivoluzione dovette divèrgere ed usare per raggiungere la meta, spesso, mezzi soltanto legittimati dall'indiscutìbile necessità. Quanto però dà maggiormente nell'occhio è la proposizione con cui si chiude il manoscritto illustrativo. «Edificando il monumento — scrive l'artista, ammiratore di Magliani, — L'Italia darebbe una somma ad usura alla curiosità mondiale. Il monumento entrerebbe cioè nel [65] nòvero di quelli per visitare i quali è stabilita una tassa d'ingresso. Da ciò conseguirebbe che in breve corso di anni, lo Stato avrebbe dalla tassa ricavato, oltre le spese di custodia e di manutenzione, la somma sborsata, rimanendo poi sempre fonte di lucro.»
Ma affrettiamoci alle gemme della collezione.
Sono tre.
La prima reca il n. 163 ed il motto: hanc ratus sum partem meam. Il suo autore non è nè ingegnere nè architetto ma ha sempre avuto trasporto per l'architettura. Scusatosi per la temerità della sua fatica, propone l'erezione, in mezzo ad un lago, di un tempietto di forma quadrata che figurerà un galleggiante. Nel tempietto, le cèneri di Vittorio Emanuele. Il lago, tutt'intorno, sarà rotondo ed ottusangolato. Il tempio poggierà su quattro piloni a ciascuno de' quali sarà attaccata una barchetta di pietra, e, sovra il ponte di ciascuna barchetta, un leone pure di pietra, adagiato col corpo ma con testa alta e maestosa. Nel tempietto si leggeranno quotidianamente messe. Non si aprirà al pubblico che qualche volta nell'anno, in occasione di feste nazionali od altre solennità, e il pùbblico vi accederà [66] per mezzo di un ponte di ferro che rimarrà nascosto sotto il lago, nell'acqua, durante il resto dell'anno e si alzerà mediante un giro di manubrio. A capo del ponte, lungo la balaustrata che circonda il lago, due pilastri con due statue, rappresenteranno l'una, l'Italia che, con una coppa in mano versa di continuo le sue làgrime nel lago (al quale scopo sarà praticato un opportuno canaletto nella schiena della stessa Italia); l'altra, suo figlio Umberto. I giardini che fan corona al laghetto, verranno divisi tra le principali persone domiciliate a Roma. Ciascuna avrà l'esclusivo uso del suo giardinetto. Naturalmente — soggiunge l'autore — il monumento sarà collocato dove ci sia dell'acqua, non però troppo in vista, perchè il continuo aspetto del medèsimo lo renderebbe stucchèvole. Non si dissìmula che la sua idèa non possa venir presa in alcuna considerazione; spera pur tuttavìa che la Casa Reale concorrerà nella spesa e conclude, osservando che trova inùtile di presentare il modello del suo progetto essendochè, dalla lettura del manoscritto, ciascuno può dire di avere dinanzi a sè il monumento.
Ne offre, in ogni modo, la pianta che è questa:
[67]
[69]
N. B. — I punti isolati che sono in questa pianta, denòtano il luogo ove si dèbbono piantare gli alberi.
L'altra preziosità del concorso è il sig. Arìstide Mariani (n. 197) il quale ha rivestito di creta una faragginosa pignoccata, pinza di roba allegòrica, che poi spiega partitamente in una voluminosa relazione. Ringraziata la sorte per aver potuto misurare le forze in così grande arringo, il sig. Arìstide comincia a distìnguere fra lavori obbiettivi e subiettivi, disserta sui quattro sensi in cui si dèbbono intèndere le scritture de' nostri antichi poeti, fà una passeggiatala tra i Volsci, i Rùtuli, i Greci, i Latini, gli Etruschi, e, ripromettèndosi compatimento se le dèbol leve del suo ingegno non gli permìsero di elevarsi quanto avrebbe meritato la natura dell'àrgomento, nonchè sperando che gli sarà riconosciuta [70] la schietta e calorosa manifestazione dell'ànimo suo, addita, come acconcio monumento, un tessuto ùnico e complesso, intricatìssimo, un vero intreccio dinàmico di linee quale soltanto potrebbe riscontrarsi nella volta celeste, un intreccio insomma da formare ciò che dìcesi una epopèa, il quale cùmolo è il vero monumento da erìgersi al padre della patria.
E, perchè maggiormente risalti la ragionevolezza della sua proposta, egli osserva che archi, templi, colonne, tutto insomma si sfascia e perisce: altro mezzo, quindi, non resta, per salvare nella perpetuità il gran monumento, che di fabbricare addirittura una colossale rovina.
Riconoscendo però di aver detto nebulosamente quanto nebulosamente gli fermentava nella mente e dubitando di aver sognato come sognava l'antica fàvola; — Omero — egli scrive — dice che dalla mente di Giove procede il sogno. Cita quindi i versi di Virgilio: At Venus aetheros inter Dea candida nimbos, e quelli di Dante: Dentro del monte sta dritto un gran veglio, con quel che segue; rimembra, sempre a propòsito, l'avventura di Enèa e Didone, parla dell'odio che è antico quanto l'amore, della caduta dell'impero romano, causata dalla Grecia, fà una [71] giaculatoria di una paginetta a Vènere (E ora, tu, o celeste idàlica Dea ecc.) e se la piglia colla fiera Giunone non sazia della distruzione di Troja, vede ad un tratto un vecchio antico nel mezzo di un arco trionfale e, domandato chi è, si sente a rispòndere dalla falce che è il Tempo, vede ali d'àngelo e ali di pipistrello, l'Italia del nord e l'Italia del sud, la notte con veste coperta di stelle che regge due putti ossìa il giorno clic nasce e il giorno che muore, incontra il radiante cocchio del sole, il carro della libertà, e la quadriga del Cristianèsimo che esce dalle catacombe, si ferma a due acquedotti, con cascatelle di vetro, ermi e diruti, siccome le due arterie maggiori delle passioni umane, scorge pure l'albero de' sogni, il serpe dell'Eternità, poi Vestali che consèrvano il fuoco sacro e Clio che presiede alla storia, e i nemici della patria che precìpitano a capofitto nel bujo di una spelonca, l'Averno dei Greci, nato dal Càos e dalla Notte. — Il solo gruppo dell'Italia risorta — soggiunge il sig. Mariani — che pareggiasse per la fattura il Laocoonte, basterebbe a tramandare epicamente alla posterità l'autore del nostro risorgimento. Fatta quindi un'altra orazione a Giove Statore, si riassume dicendo: nebulosamente [72] ho appena intuito il concetto complessivo del mio lavoro e con màssima fretta impressi nella creta quel lampo di un'idèa forse grande che il mio sogno dettava... Il tempo non mi ha consentito, per ora, di fare di più, e, nel bisogno di calma e di riposo, torno a riveder le stelle.
Intanto, acciochè il pubblico possa interamente comprènderlo, il sig. Mariani, ha appiccicato al suo quintale d'incòndita creta alcuni tabelloni dimostrativi, i quali ci danno il seguente inventario dei sìmboli ch'egli sognò di abbozzare.
[75]
TABELLONE II.
Quadro dimostrativo dell'òpera nelle sìngole parti.
[I nùmeri di questa tàvola corrispòndono a quelli segnati nel profilo della tàvola I. (Vedi pagina precedente).]
PARTE I. — Religione.
PARTE II. — Umanità.
[76]
PARTE III. — Natura.
[77]
TABELLONE III.
Esposizione de' Nessi.
Nesso poètico e mitòlogico.
Una stella, la notte, altra stella foriera d'un nuovo giorno, l'alba, il sole, le tenebre, Iliade, Enèide, Divina Comedia, Giudizio universale.
Nesso artistico.
Il gruppo dell'Italia — inquantochè, accennando alla maggiore delle òpere clàssiche, il Laocoonte, che narra la distruzione di Troja, da cui ebbe vita, grandezza e Dei la nostra Italia, fa ravvisare non più il più profondo dei dolori per la distruzione della cara patria, ma la più grande delle gioje nello scòrgere la madre Roma e sue figlie disciolte finalmente dai fieri draghi del loro fatale destino. Per conseguenza l'Iliade in alto, l'Enèide alla destra del Tempio, la Divina Comedia alla sinistra, il Giudizio universale in basso.
Nesso stòrico.
Origine della Storia coll'Iliade — Epoca romana coll'Enèide — MedioEvo colla Divina Commedia — Era nuova con V.E. — Cùmolo di ruine — Roma quadrata — Pomerio — La Vittoria che poggia sul Globo — La Libertà — Il Tempo — Vestali — Màrtiri — Catacomba.
Nesso filosòfico e politico.
Religione, Umanità, Natura, le tre parti monumentali della Piràmide — Il Pàntheon, tempio pagano — Il Pensiero come l'Azione.
[78]
Nesso dei Nessi.
Tanto la forma dell'antica òpera scultorea, quanto i ricordi del maggiore poema pittòrico, così il gruppo dei poemi eròici dei sommi cantori, come le vestigia delle monumentali òpere architettòniche, compòngono quel tessuto intricatissimo di linee, quell'intreccio di fuochi celesti, che permette all'osservatore sia poeta, sia artista, stòrico, polìtico, o filòsofo, ad intèndere anagogicamente, cioè elevando il pensiero alle cose superne, l'italiana Epopèa coll'incominciamento della terza Era cioè quella del nostro risorgimento, dimostrando così l'opera che si propone, che il liberatore della patria e il fondatore della sua unità fu ed è V. E.
Ma il concorrente che a tutti sovrasta per la misteriosa profondità del pensiero è il signor Giovanni Cànfora da Barletta (n. 294) cabalista infallìbile di metafisica e rompitore degli ovi della Divina Sapienza. Ei non ci ha dato che un manoscritto, ma, in esso, giace tutto un sistema di filosofìa, di profezìa, e di vìncite al lotto. Nè la poteva andare diversamente da che il signor Cànfora — com'egli medèsimo ci dichiara — non essendo nè uno scenziato, nè un architetto, ma un sèmplice meccànico, solo per intùito di un Ente Supremo potè venire che trattasse una idèa e concretasse un tanto edificio.
Il monumento s'intitola: Manus Dòmini. Invano — osserva l'autore — si cercheranno in esso règole [79] architettòniche e proporzioni e règole di meccànica, imperocchè desso non fu costruito per modello da fabbricarsi, sì bene al fine di rimanerlo nella capitale dello Stato e presso la Casa Savoja... Però le règole di equilibrio sònosi osservate.
Il monumento non si divide che in sei òrdini.
Il primo òrdine rappresenta il trionfo delle cento città d'Italia, con quattro distinte fortezze agli àngoli, che spiègano non solo il quadrilàtero lògico, ma anche il fìsico che il Regno possiede. La prima entrata è di stile gòtico, per dimostrare che fino dagli antichi tempi si desiderava un monumento italiano posto nella capitale del Regno.... Nel cerchio del secondo lato si vede un arco e su di esso un cappello cinese, per significare, come dice poi, che quella certa aqua, prodotta da otto leoni (gli otto Stati d'Italia) che scende per due altri archi laterali (Culto e Civiltà) correrà veloce per tutte le direzioni del globo per sventolare il gran vessillo anche in Cina.
Il secondo òrdine costa (sic) di un cubo ottagonale, ed è chiamato: Comunità perfetta. Ha quattro ingressi, nel primo de' quali si scorge Vittorio Emanuele, nel secondo Carlo Alberto, nel terzo Pio IX [80] e nel quarto un naviglio con Re Umberto al timone, la Regina Margherita all'àncora ed il prìncipe ereditario all'àlbero, per dimostrare che la Reale Famiglia, imbarcàtasi su questo fiume, viene a visitare il monumento del compianto padre Vittorio Emanuele nel giorno della sua grande inaugurazione.
In giro al medèsimo òrdine, sono otto leggende dalle quali si legge chiaro il dèbole pensiero dell'autore. Scegliamone alcune.
*
Adamo e Noè — Aronne e Mosé
Cristo e Cristòforo — Ferretti e Vittorio
Formàron del Dio il naviglio
E l'ultimo affondò l'àncora nel seno di suo figlio.
*
Di Vittorio Emanuele eterna è la memoria
Per questo monumento si mostra la sua storia.
*
Dall'Alpi all'Appennino, incerto, duro il passo,
Per dire all'Io supremo: ecco di due monti un sasso.
e così, appressapoco, le altre cinque.
Passando poi a commentare l'epìgrafe del suo lavoro Manus Dòmini, l'autore ci rivela che le dita di questa allegòrica mano sono così formate:
Pio IX il pòllice, Carlo Alberto l'indice, medio [81] Vittorio Emanuele II, anulare Umberto e mìgnolo il principe reale Vittorino coronati tutti dalle somme virtù delle due regine Marìa Cristina e Margherita. In tali dita concezionali l'autore osserva di aver messo anche Pio IX, comechè contribuisse alla unificazione italiana, perchè solo colla fòrmula «nè elettori nè eletti» fu possìbile di riunire un parlamento ed un corpo elettorale liberale. Osservazione questa, che è forse la meno profonda, ma la più sensata di tutto il manoscritto.
Dunque — prosegue il signor Cànfora — Pio IX nacque nel 92 del sècolo passato, Carlo Alberto nel 98 dello stesso sècolo, Leone XIII è nato nel 10 del sècolo in corso, Vittorio Emanuele II nel 20, Umberto I nel 44 ed il prìncipe Vittorino nel 69.
Sicchè, sommando le citate èpoche, si ha la somma di 333. Questa somma è il gran soggetto appartenente alla natura divina ed umana, per il che forma il vero triàngolo della divina sapienza, donata dal Creatore alle sue creature nella ragione di tutti i sècoli.
E questo soggetto è di proprietà di quel libro chiamato «Perchè...», che difficilmente può studiarsi da tutte le creature, perchè vèngono disperse e confuse [82] nelle tènebre della Eternità. Ma l'uomo che si rassegna alla sua orìgine e quindi poggia il suo corpo sulla materia, ne forma delle immàgini da cui si scorge l'ideale del Sommo Fattore concretato presso la sua creatura; e questa di effetto si concretizza nell'unità dell'increata natura. Sicchè, da questa unione e dissunione, ne sorge appunto quella coll'uttazione (sic) misteriosa che vizio e virtù si appèllano, da cui ne galleggia la gloria del Iº. — Per questi motivi appunto ho dato fuori due òpere per lo corso di anni 32. La 1ª si appartiene al Culto Cattòlico Apostòlico Romano, la quale mette al posto il Sacrosanto mistero, che oggi è nell'ideale! per effetto della sua nullità — come verrà dimostrato. La 2ª òpera lo è un monumento, che ho inalzato per dimostrare alla 1ª: che essa non può avere il suo movimento senza rapportarsi all'altra. Come la 2ª, non può avere il suo progresso Civile senza rapportarsi alla 1ª. Le due dottrine verranno sviluppate.....
Dunque dal Triangolo 333 passiamo a prèndere la distanza in òrdine alle sopracitate nàscite, che è 6-12-10-24 e 25 che sommate si ha 77. Fine dei due troni! — ed aggiunto al 77 il 3 Divino si [83] ha 80. Il futuro non si vede dall'uomo sibbene si càlcola.
È qui il profondo sig. Cànfora, fatta l'osservazione che tra un dito e l'altro di quella sua Manus-Dòmini, vi è certamente affinità di natura con gli oggetti esterni e col proprio èssere, prega il lettore di vòlgere la sua mente a quell'uovo di Cristòforo Colombo che tutti i dotti ci pòsero a quell'atto la sòlita carta senapata. Ma quello che segue, o signori, non è l'uovo di quel tempo, sibene l'ovaja dell'inconprensìbile dalla quale sorge la natura del tutto e l'òrdine dello stesso.
Continua quindi per una mezza dozzina di pàgine i suoi còmputi (egli li chiama còmpiti) cogli anni e colle date che si riferiscono ai cinque personaggi della Manus Dòmini, cui unisce per maggior còmodo la leggendaria età della morte di Cristo e gli anni di Leone XIII e ne trae inaspettati raffronti e profezìe miracolose... per il passato. Felice poi delle sue scoperte, ad ogni tratto esclama: Sicchè dall'uovo di gallina non sorge il gallo!... Ecco un altro uovo di Cristo e non di Cristòforo!.. Ecco come questo uovo ha generato l'ancùdine e il martello dell'archetipo — mente del Redentore — Iddìo...... La parola [84] di Dio è nei suòi càlcoli i quali non si ammàssano negli Empìrici, Tereostàtici e curiosi fanàtici di punti e vìrgole. Da questo càlcolo si osserva chiaro il gran mistero per i pòpoli avvenire: se il lettore non crede, ne faccia una girata ai pòsteri... e fà notare come un certo suo càlcolo cabalìstico sia stato originato fino dall'anno 1868 e pubblicato in parte sul giornale «Il progresso Livornese». Sicchè quel 28 era l'uovo della divina sapienza che si doveva rompere nel 1878. Infatti si ruppe, e l'autore di questo càlcolo restò sempre più sorpreso, unito ai suòi amici, i quali conoscèvano una tale misura.
La sublimità dei concepimenti non impedisce però al sig. Cànfora di trastullarsi con qualche bisticcio gramaticale: si direbbe anzi che nella essenza della parola egli cerchi nuovi argomenti alle sue enigmàtiche affermazioni. L'agricoltore — così egli scrive — pianta, spianta, taglia ed innesta non a capriccio; come l'astrònomo, non può servirsi della fatalità per annunciare un uragano o della Cumana per dire «domani piov-era». Ed infine un filòsofo Trippucco non può dimostrare l'òrdine sociale... Ed altrove: signor lettore, se ha sano cervello e fegato ben formato saprà, da una parte, compatirmi o [85] pur saprà scovare l'incògnito del mio debolìssimo ver-detto e del mio mitìssimo ben-fatto non solo; sibbene saprà vedere che tra tanti gabalisti imbecilli che ammòrbono il nostro meridionale, vi sono ancora una infinità di preti, i quali si danno molta importanza, dirèi quasi tutti, di andare contro il progresso della ragione divina.
Nè il signor Cànfora, ha torto, pare, di aver rancore coi preti, poichè nessuno di essi si è mai benignato di visitare la sua òpera, temendo di andare all'inferno — anzi, sol leggendo i suoi còmpiti spediti pel canale dell'arcivescovo de Bianchi Dòttola di Trani al Santo Padre Leone XIII, gli ha preso il male epilèttico; mentre invece essi (i preti) dovrebbero sapere che il 33 è il pesatore del vero e come tale saprà con la sua frusta umanata mèttere all'ìndice delle anime dannate la càusa di tanto scisma.
Tornando quindi ai suòi terni e quaderni, alle sue quintine e tòmbole metafìsiche, il sig. Cànfora, che probabilmente è una vìttima del giuoco del lotto, Leone XIII — scrive — è nato nel 1810, esaltato al trono del culto il giorno 20 febbrajo 1878, incoronato il giorno 3 marzo. Sicchè, unendosi i detti tre [86] tempi 10, 20 e 3 si ha 33 — secco secco. E questo lo sapeva Leone XIII? Ecco dunque un altro uovo della divina sapienza che viene rotto da Giovanni Cànfora da Barletta!
Ed è in base ai suddetti càlcoli e ad altri moltissimi che non abbiamo creduto indispensàbile di trascrivere, che il sig. Cànfora s'è posto all'òpera fin dal 15 gennajo 1878 onde concretare il suo concetto, che, per la verità, gli è testimone l'intero paese nonchè il rispettivo Comando militare dove ha lavorato per lo scorso di tre anni circa...
E il gran segreto, lo scopo, il risultato di tutta quanta la miràbile òpera, è, salvo errore, il seguente
PROBLEMA
E più V eguale a quattro G meno G.
Questo nuovo problema — così spiega l'autore, il quale, come notammo, sembra voler rubare il mestiere alle chioccie — racchiude cinque uovi i quali daranno alla luce cinque pulcini. Questi pulcini poi sapranno risòlverci il citato problema a gloria del [87] Signore per il bene di tutti i popoli della terra. Conclusione, dunque:
Manus Dòmini. — Nè si chieda di più. — Tutte le iscrizioni parlan da sè per il loro significato riguardo alla Comunità Perfetta, cui si riferìscono e non hanno bisogno di maggiore dilucidazione, se non per qualche cosa che è serbata al solo Re.
Ma il signor Cànfora non ha ancora finito. Gli rimàngono a descrìvere del suo monumento altri quattro òrdini ed ecco come ci si mette:
L'ordine terzo rappresenta l'Italia oppressa e divisa. È circondato da rinchiere di ferro su cui vèdonsi le insegne dell'antico telègrafo per dinotare lo stato della civiltà di quèi tempi... tutto l'ordine appoggia sovra una ruota ad ingranaggio ottagonale, su ciascun dente della quale vèggonsi otto statue egiziane coronate coll'insegna del regno che rappresenta, il che significa che quèi tirannelli [88] monarchi si èrano ingranati fra loro e in quello statu-quo in cui vivèvano essi medèsima.
Anche in quest'ordine si ammirano otto leoni, per dimostrare la fierezza de' governanti ed otto colonne decorate tutte identicamente per dinotare che eguale era l'ambiezione civile in tutti gli Stati d'allora. Tale idèntica decorazione è, pure, semplicissima. Sul capitello un braccialetto con sotto un anello: in quell'anello otto stelle, ciascuna ad otto punte per la medesima ragione. (?) Tra gli otto anelli, pende una catena ben tesa, legata allo Stato Romano dove sorge il vessillo dei Crociati, la mercè di 15 croci di diverso colore per denotare lo scisma esistente nella chiesa e nei suoi ministri. In giro alla base ossèrvansi poi i Ministeri di ciascuno Stato e tutti della medèsima forma e colore, cosicchè la figura di un Sàtiro rappresenta il Ministro della Pùbblica Istruzione, una Sirena quello della Marina, uno Scorpione quello delle Finanze, ed un Ragno di mare quello dei Culti.
Nè ciò sembra bastare all'abbondante fantasia del signor Cànfora, poichè, nel piano superiore di questo òrdine terzo egli vuol collocate anche otto àquile con in testa la corona di ferro, àquile le [89] quali raffigurano i comitati promotori della unificazione italiana, e tengono, coi varii Stati, rappresentati dalle 8 colonne, una fila di discorsetti che lèggonsi incisi su alcuni scudi.
Or ecco qualche campione di tali discorsi: L'aquila dice allo Stato Romano: dal cielo sul tuo capo questa corona pende. Ed il papa: non pòssumus. L'aquila va, allora a Modena e dice: ti voglio regalare questa corona. E Modena: la mia è più dura della tua. Va a Parma e: darài — gli dice — l'occhio diritto per questo emblema — e Parma risponde: anche il secondo, ecc.
Detto ciò, l'aquila vien trasformata in Àngiolo fulminatore portante ciascuno (sic) un vessillo di guerra, il quale in modi imperiativi conferisce così col Ragno di mare: a Roma terrìbilis est locus istae; e l'Àngiolo risponde: e la morale? A Milano: non cederò un memetro (sic) e l'Àngiolo risponde: cederài lo Stato... A Torino in ùltimo: io chi sono? e l'Angiolo: molto bene!... ecc.
Per completar l'òrdine, o per meglio dire, il disòrdine, vèggonsi infine attaccate alle colonne otto farfalle che rappresèntano le diramazioni dei comitati segreti.
[90] Ascendiamo all'ordine quarto. Quest'ordine simboleggia l'unione italiana. Sicchè è foggiato come il terzo (che rappresenta la disunione) salvochè le catene che legàvano le colonne sono spezzate. Anche quì vediamo le statue egiziane del piano inferiore, decorata però della Corona d'Italia, e le àquile, gli àngioli e le farfalle, cui si aggiùngono viti ed ananassi per significare l'abbondanza e la squisitezza del giòvine Regno.
E così, arrivati al quinto òrdine, troviamo l'espressione della civiltà italiana, dinotata dalle sòlite otto colonne, le quali però, questa volta, pòrtano ciascuna una frasca d'alloro e la stella d'Italia coll'Àngiolo fulminatore che prenta (forse presenta) alla stella un trofèo di guerra e lo scudo di Savoja. Tutto il quale apparato di gloria sostiene il sesto òrdine (che, grazie a Dio, è l'ultimo) e dimostra il supremo Potere.
Ed ecco come questo Potere è filosoficamente inteso dal sig. Cànfora. Innalzata una colonna a quattro faccie, su ciascuna delle quali un orologio segna le ore fisse dell'entrata di Vittorio Emanuele nei quattro stati principali[12], egli impone su di essa un tamburo di guerra che sostiene, a sua [91] volta, il globo da cui si eleva la figura geometrica (?) e la stella d'Italia.
E che cosa vuol dire questo specioso apparato? — si domanda il sig. Cànfora. — Vuol dire — risponde trionfalmente a sè stesso — che, col globo sostenuto dal tamburo, la società tutta per rispettare la legge, ha bisogno della forza, ma non già della forza brutale del fucile, sì bene di quella di apparato del tamburo. — Dopo il qual sforzo d'immaginativa, l'autore, a buon diritto, può dire di èssere soddisfatto di aver dato alla luce un'òpera che non sarà l'ùltima tra i tanti segnàcoli di gloria della casa Savoja.
A noi che poco c'intendiamo di architettura e meno di stregoneria, parrebbe che tutta questa montagna di fortezze, di archi, di òrdini, di colonne, di allegorìe, sopracavallate una sull'altra, dovesse, una volta costrutta, raggiùngere una altezza vertiginosa. Pure, non è così. Il sig. Cànfora ci assicura che la cennata òpera porta l'altezza di metri quattro circa, compresa la base di sostegno, e questa di metri circa tre quadrati.
Il Governo tutto può fare — soggiunge con fiducia l'ardito progettista — e, precisamente in forza di [92] un nòbile consorzio nazionale, si potrebbe nella capitale del Regno inalzare il sopracitato progetto nel centro di uno spazio edilizio di circa mezzo chilòmetro. Due ponti immetterèbbero al terzo piano terreno, il quale per conseguenza dovrà esser più alto del secondo, ed entrambi si renderanno affacciàbili per godere il fiume, le fontane, i pesci, le anitre e le gòndole e quant'altro si crederà di bello a norma del formato. Nel giorno poi della festa nazionale si potranno situare le bande musicali comodamente nei diversi ordini superiori, e quindi il tutto bandierato ed illuminato da un appòsito gazòmetro, i già fissati candelabri, i fanali[13], si leggerebbe nel corpo d'Italia, Manus Dòmini, e quella stella che ossèrvasi all'estremo dell'ìndice di Dio sarebbe di guida, non ai tre Re di Betlemme, ma a tutti i Re del Mondo e di tutti i secoli, non per visitare un meschino bambinello in quella grotta, ma per visitare le sue esterminate grandezze, sin dove giunsero, e sin dove giungeranno nella ragione dei secoli, a scorno dei vili ed a scorno dell'ambizione del Farisèo.
Ora, se realmente le cento città d'Italia sono vere italiane, sentono l'òbbligo di formare nella capitale [93] del Regno il loro trionfo, e questo non può risultare da altri concetti esposti, perchè signoreggia l'idea materiale e precisamente presso d'un qualche Amerigo esploratore che da mè si sospetta! E questo mi farebbe grande onore! E questo trionfo adunque che le cento città italiane inalzerèbbero senza curarsi dei milioni, altro non sarebbe che lo specchio del sommo Fattore esposto per la riforma di tutti i pòpoli del mondo. Amen.
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I ràpidi ma fedelìssimi cenni che abbiamo fatto precèdere, basteranno a mostrare quanta e quale parte di follìa si presentasse al concorso pel monumento al Re Galantuomo.
Dicendo questo, non intendiamo affatto di dire che gli autori dei progetti da noi esaminati sieno interamente pazzi. Quì non si parla che di mattòidi. Nessuno tra essi noi conosciamo neppure di vista, e ben volentieri ammettiamo, siamo anzi di ciò convintìssimi, che la più parte (salvo in questo «tic» [98] dei progetti sconclusionati) possegga, in tutto il restante, il migliore suo senno, di cui può dar prove quotidiane e nel maneggio delle cose domèstiche e nei consigli agli amici e nelle consulte perfino del proprio paese. La intelligenza dell'uomo è infatti da paragonarsi — generalmente parlando — ad un appartamento composto di molte stanze, non ad un ùnico camerone. Pare anzi che più aumenti il patrimonio delle idèe, più si moltìplichino le diverse cellette destinate ad accòglierle: nulla quindi di strano se la mobiglia di qualche nostro locale si trovi tutta sossopra, pur mantenendosi il resto dell'appartamento in perfetto òrdine.
Aprile, 1882.
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1. È notèvole infatti come la più parte de' concorrenti abbia saccheggiato senza pietà i monumenti più cèlebri del mondo, traducèndone, deturpate, ne' suòi bozzetti le idèe e le forme. Incontriamo quindi ad ogni passo la Mole Adriana e il sepolcro di Cecilia Metella ridotti a stufa, il Pàntheon schiacciato a panettone, il tempio tiburtino della Sibilla con su una calotta cattòlica, ed archi di Tito, di Costantino, e dell'Étoile, e colonne trajane ed antonine senza nùmero. Nè manca il Pandrosio nè il tempio di Arminio nella Selva Nera nè il monumento di Pietro il Grande a Pietroburgo. Alcuni poi, che, dall'accoppiare due furti, crèdono forse di non passare per ladri, han sovrapposto all'arco di Settimio Severo la colonna Trajana, che viene quindi col pieno della sua mole a poggiare sul vuoto della porta di mezzo, con quale spàsimo del buon senso è fàcile di capire (V. bozz. n. 51, Iddio lo volle e la stella d'Italia si fermò su Roma, — n. 218. L'Aurora, — n. 271 Estremo Oriente e n. 28 Rega Gherardo); oppure, capovolgendo quel pensiero rettòrico assài ma non illògico dal punto di vista della allegorìa, della statuaria antica, che pone in mano alle immàgini dei suòi gloriosi guerrieri la figuretta della Vittoria, fanno Vittorie di bronzo che règgono in palma statue del defunto sovrano grandi e grosse appressapoco come la sostenitrice. (V. ad. es. il bozz. n. 29 Vincenzo Falcioni).
Notèvole è pure come talune pensate — nuove se vuolsi, ma che non sèmbrano le più sensate — sieno, se non furate da concorrente a concorrente, sorte contemporaneamente in diversi cervelli. Di archi trionfali sorreggenti colonne, ne abbiamo, salvo errore, contati quattro: così, l'idèa di adoprare il mappamondo a foggia di cùpola con tracciata nel mezzo la penisola itàlica e nella penìsola Roma e sovra Roma, a guisa di perno, l'effige del Re, la troviamo nei bozzetti 153 (Giordano Edoardo) 218 (L'Italia è pace e civiltà) 219 (Vis unita fortior 1º) e 254 (Tutto è poco per tanta memoria); così, i gironi del purgatorio dantesco si riscòntrano in Amèndola (n. 130) e in Ximènes-Gallori (n. 209) due bozzetti però che appartèngono all'arte; mentre la piràmide a scalinate colle statuette che vi si arràmpicano — imitazione, pare, di un grosso pangiallo coperto di mosche bianche — si ripete al n. 188 (Macdonald Alessandro) e 229 (Landi Guido) e la colonna di mandorlato da cui spùntano, a guisa di furòncoli, innùmeri testoline, appare ai bozzetti 119 (Ignazio Perricci) e 221 (Di Pinto Domenico).
2. Questo telegrafista di Avigliana Basilicata ha progettato una colonna di stile, dirèbbesi, burocràtico, da illuminarsi elettricamente. L'ingrediente della luce elèttrica fà parte anche di altri progetti, come ad esempio di quello del dottore Depraz (n. 24) che cangerebbe la mole Adriana in un gran faro, di quello del S.r Falcioni (n. 30), e di quello del S.r Auteri Pomar (n. 195) consistente in un mucchio di cùpole e pòrtici con un reggimento di bronzea cavalleria sul tetto ed un angelone. «Cento saranno le colonne — dice l'autore con drammàtica foga — e ogni città scolpirà la sua. Al sòrgere della notte, sulla fronte dell'Angelo splenderà la stella d'Italia...»
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3. Il Sig. Camillo Ferrara, ex-ufficiale in ritiro (bozz. n. 22) vorrebbe, non un monumento di bronzo o di marmo, ma un opificio dove poter impiegare moltissimi lavoranti. Nell'opificio sarebbe poi collocata una fontana coll'erma del Re. L'autore chiama sè stesso (a torto) un matto che non sragiona.
4. Dal canto suo, il francese dott. Depraz si propone principalmente di lavare gli italiani, e i romani in ispecie. Suggerisce quindi di fabbricare le Terme Vittorio Emanuele intorno alla mole Adriana, cangiando questa in un gran faro elèttrico. Il Depraz osserva, con francese modestia, che tale idèa è superiore a tutti i progetti di marmo che pittori, scultori ed architetti potrebbero presentare. Egli desidera anzitutto «la rigenerazione igiènica del pòpolo.»
Al signor Depraz e all'altro citato nella precedente nota nùmero 3, sarebbe anche da aggiùngersi il signor Elia Rapetti (bozz. 34) che, in una relazione non scritta male, osserva che il Mausolèo di Adriano o altro consìmile dell'antichità non potrebbe servir di modello pel monumento a Vittorio Emanuele, rappresentando esso la morte scèttica. Il primo Re d'Italia avendo invece fatto una fine cristiana, è necessario, secondo il Rapetti, che il monumento raffiguri una morte munita dai conforti religiosi. Propone quindi l'erezione d'una chiesa, una specie di chiuso cassone lombardesco.
5. Questi bozzetti rècano rispettivamente i seguenti motti e si presèntano come qui appresso: — (Quella parte di noi che intende e vuole) Arco di trionfo — (Una casa bianca) Tempietto bianco con cùpola di stile àrabo-burlesco — (Artibus ingenuis quaesita est gloria multis). Chiosco da giardino con una stella a vari colori pendente nel mezzo — (Virtus) Pàntheon con tre sediette fuori di prospettiva sul dinanzi — (Rijssens de Lauw) Torre monumentale barocca in mezzo ad un parco aquàtico — (Wheeller Richard) Tempietto gòtico-còmico — (Savoja) Tela cerata con su dipinto un monumento a gruppi e statue equestri, e molti visitatori — (Baldassare Peruzzi) Monumento con statue equestri e pòrtici. Vi dòmina il colore spinaci — (B) Ricalco del tempio d'Arminio — (L'attuàbile) Sovrapposizione di monumenti. La relazione comincia: Vittorio Emanuele superati vari ostàcoli polìtici e militari... — (Italiae cassis) Lùcido del monumento a Pietro il Grande in Pietroburgo — (Asch Harry) Tempietto indiano — (Vis) Fontana con figurine di terra cotta e cascate di striscie di vesciche — (Persevere) Tempietto — (ALMENO un omaggio alla dinastia di Savoja) Tempio greco con su un castello medioevale e sopra un palazzo del rinascimento che termina con un pinàcolo barocco.
6. Come delle condizioni e professioni dei singoli esponenti, così riesce difficilissimo di accertarsi della patria dei medèsimi a chi, come noi, non fu presente al ricevimento dei loro bozzetti e deve accontentarsi di prènder norma dai motti genèrici e dai nùmeri progressivi, che, in generale, ne sono l'ùnico contrassegno.
Limitando però le nostre osservazioni ai soli mattòidi e cretini, e tentando d'indovinarne l'origine, sia dalla desinenza dei nomi, nei pochi casi in cui lèggesi nome, sia dalla lingua nella quale il manoscritto è redatto o dal luogo donde è datato, troviamo che, fra totalmente e parzialmente alienati:
l'Inghilterra e l'Amèrica settentrionale avrebbero mandato al concorso | n. 11 | individui |
la Germania | 8 | id. |
la Francia | 4 | id. |
la Russia | 1 | id. |
il Belgio | 1 | id. |
7. Se si volessero riportare tutte le incongruenze, le divagazioni, gli spropòsiti di ogni dimensione che invàdono i disegni e i manoscritti di tre quarti buoni dei concorrenti, non finirèbbesi più. Per esempio, il n. 47 (Benincasa) — fabbricato a ricetta un monumento di stile opprimente — lo chiama di stile di buon effetto; mentre il n. 116 (Artibus ingenuis quaesita est gloria multis, 2º) messo insieme una contraffazione di tempio e piràmide, ci avverte che ha creduto di riuscir molto piacèvole nell'imitare la bellezza dello stile greco, la grandiosità del romano e il gòtico nella sveltezza. Nè manca chi ci disegna un Vittorio Emanuele in àbito borghese e cappello basso (n. 91, S.P.Q.R.) o, peggio ancora, un Re vestito da guerriero romano con elmo e pennacchio (n. 139, In hoc signo vinces) nè manca chi ad un tempio sovrappone un pàntheon e per aggiuntino una colonna (n. 68, L'unione fà la forza) o ricama una cùpola come un pangiallo di lusso (n. 67. Labor improbus omnia vincit). Così, benchè sia contrario all'òrdine composito, il n. 289 (Buonini) assicura di aver preso a modello l'Arco di Tito e la Colonna Trajana, e il bello si è che non ha imitato nè l'uno nè l'altra; così il n. 259 (Alleanza) che fu premiato con 20,000 lire (bene spese davvero!) raddoppia il Palazzo di Venezia per farne una specie di tetro cassone intorno ad un cadàvere di monumento, ecc. ecc.
Tutti questi, però — mediocrissimi — nonchè altrettali, quantunque àbbiano scivolato nella stoltezza, non prèsentano segni abbastanza certi per poter dire che vi stanno di casa.
8. Sarebbe interessantissimo di poter anche dare una descrizione psichica di questo battaglione di mattòidi, ma a far ciò occorrerebbe anzitutto di conòscerli personalmente. Quanto alle loro fisionomìe, si può essere certi che nulla li distingue dall'uomo medio. La signora Tarnowsky, dottrice di grido che voltò in lingua russa il «Genio e follìa» di Cèsare Lombroso, opinerebbe che i mattòidi debbono avere una faccia diversa delle sòlite: gli studi, però, fatti dallo stesso Lombroso e da altri, pròvano invece che le fisionomìe pazzesche s'incòntrano più per eccezione che per regola, il che si comprende per due ragioni: la prima, perchè i mattòidi non sono mai pazzi negli atti e sono tutti compresi della propria importanza, la qual cosa, se mai influisce sulle loro fisionomìe, dà loro un'aria grave, serena, come di chi è pieno e persuaso di sè; l'altra, che, nella più parte, non sono tali per eredità, per malattie cerebrali ecc. ma solo perchè sulla piazza del mondo, con una forza come di 3 vògliono figurare per 300, quindi deviano dal sentiero battuto ed anche dal giusto, non avendo, in ogni caso, di morboso che una vanità sconfinata, unita ad un ìnfimo ingegno.
9. Notiamo con soddisfazione come questo concetto ragionevolissimo di quanto il monumento sarebbe tenuto ad esprìmere, dòmini nella quasi totalità dei bozzetti presentati al concorso. Alla grandissima parte dei concorrenti la formazione dell'Italia parve òpera, non di un uomo solo, ma di una schiera d'incliti patrioti, appartenenti a tutte le classi ed a più generazioni. Tre o quattro progettisti soltanto non videro che l'isolata personalità di Vittorio; come, ad esempio, il n. 207 (Raffaele d'Alpino) che, erigendo graficamente una brutta torre sul Monte Pincio con un colossale stemma nel mezzo sullo stile di quello de' tabaccài, la intitola Torre Sabàuda, e scrive: ai precursori, ai collaboratori di Vittorio Emanuele le colonne, gli stilòbati, le statue equestri; ma il monumento a lui solo!
10. Questa idèa di ricordare l'unità italiana con qualche segno materiale è comunissima nei concorrenti. I più si vàlgono della colonna, fregiata degli stemmi delle provincie d'Italia o delle principali città. Distìnguesi però fra tutti il n. 62 (Infin che il veltro verrà che la farà morir di doglia) il quale, erigendo un arco greco-romano in mezzo ad una pozzànghera d'aqua, le fontane — egli dice — alimenteranno l'allegòrica unità del laghetto.
11. Tra i mattòidi stranieri sarebbe pure da annoverarsi il francese autore dei progetti n. 37 A e B (L'art gothique). È un concorrente la cui fantasia è tutta occupata da un intrico di ogive ed aguglie, le più esagerate. Ci rincresce di non poterne qui riprodurre uno schizzo. La sola proposta di erìgere — oggi ed in Roma — un monumento di stile gòtico, dà già indizio di mente non completamente ordinata. Come poi sia possibile di fare, in questo stile, òpera originale, lo domanderemo anche a quel n. 108 (J'attends mon astre) che sceglie appunto lo stile gòtico dopo di aver dichiarato che il monumento non deve èssere copia di altro. Questo n. 108 è inoltre quel desso che fà riposare il suo edificio su parecchi scaglioni, i più elevati de' quali sono lisci e gli inferiori rozzi, a dinotare — così egli scrive — le prime difficoltà che incontrò la formazione dell'unità nazionale.
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Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (in particolare l'uso degli accenti è molto variabile), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.