Title: Libro segreto
Author: Antonio Ghislanzoni
Release date: October 17, 2014 [eBook #47138]
Language: Italian
Credits: Produced by Giovanni Fini, Claudio Paganelli, Carlo Traverso
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- Milano)
NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.
—Il libro originale risulta mancante dell’indice. Prodotto ed inserito a cura del trascrittore.
—La copertina è stata creata dal trascrittore utilizzando il frontespizio dell’opera originale. L’immagine è posta in pubblico dominio.
LIBRO SEGRETO
A. Ghislanzoni
MILANO
A. Brigola e C., Editori
Via Manzoni, 5
Proprietà letteraria
Milano, 1882. Tipografia Pagnoni.
Didone Abbandonata | Pag. | 5 |
Atto Primo | ” | 9 |
Atto Secondo | ” | 46 |
Atto Terzo | ” | 72 |
Un uomo colla coda | ” | 116 |
Il lusso della donna | ” | 172 |
OSSIA
LA FONDAZIONE D’ITALIA
Commedia–Opera–Ballo
PERSONAGGI.
Didone. | ||||
Anna, sorella di Didone. | ||||
Berta Clivia Rubinia |
} | ancelle. | ||
Enea, principe troiano. | ||||
Acate, amico di Enea. | ||||
Ascanio, fanciullo di cinque anni. | ||||
Meronte Ippanto Clissandro |
} | compagni di Enea. | ||
Jarba, re. | ||||
Orbech, eunuco. | ||||
Il Ministro degli esteri Il Ministro delle finanze Il Questore Il Prefetto |
} | alla Corte di Didone. |
Troiani—Dame—Damigelle—Seguaci di Jarba—Pompieri—Sacerdoti—Ancelle—Eunuchi—Cantanti—Ballerine—Corifei—Suonatori, ecc., ecc., ecc.
PERSONAGGI MITOLOGICI.
Giove.
Giunone.
Cupido.
Venere.
Euro.
Eolo.
Dei—Semidei—Inservienti dell’Olimpo—Cuochi—Paraninfi, ecc.
Sala nella reggia di Didone.—A sinistra una porta, a destra una apertura che mette ad un balcone.
All’alzarsi della tela, una schiera di donne vestite a bruno e inginocchiate occuperanno il lato destro della scena. Si ode nella via il suono di una marcia funebre.
Voci (di fuori).
È morto, è morto... il misero Sichéo..
Donne. Orato pro eo!
Una Donna (sotto voce alle sue vicine). Questa marcia mi sembra averla udita altre volte...
Altra Donna. È la marcia della Jone... L’abbiamo udita in teatro per quattro stagioni di seguito.
Voci. È morto... è morto il misero Sichéo!...
Donne. Orate... (come stonano!) pro eo!
Il Ministro degli esteri.—Il Ministro delle finanze con seguito di Deputati e Senatori, che attraversano la scena a passo misurato.
Donne. Il corpo diplomatico vestito di gramaglia Si avanza...
Min. Est. (al Ministro delle finanze). Qualche soldo gettate alla canaglia, A patto che non cessino di piangere...
Min. Fin. Credete
Ch’essi piangan davvero?... Poco li conoscete.
L’esequie di un sovrano son sempre una risorsa.
Per i preti, pel popolo...
Min. Est. (sottovoce).
Date a me quella borsa...
Fra noi, che portiam gli oneri
Più gravi della Stato;
Fra noi, che il morto principe
Abbiam cotanto amato,
Divideremo il peltro... E gli altri...
Min. Fin.
A dente asciutto!
L’unico modo è questo di propagare il lutto.
Coro. La regina si avanza.
I Min. (fingendo la più viva com.) Ohimè!...
Tutti. Quale sventura!
I Min. Vorrei l’estinto prence seguire in sepoltura!
(Tutti portano il fazz. agli occhi).
Tutti. Oh giorno di squallor!
Oh notte di dolor!
Dei barbari il terror,[12]
Dei popoli l’amor,
Qual mattutino fior
Spento cadéo.
Morto di raffreddor
È il re Sichéo.
Didone—Berta—Clivia—Rubinia—Anna—altre ancelle—e detti.
Didone (irrompendo sulla scena colle chiome sparse). Lasciatemi!... sgombratemi il passo... Aprite quella finestra... Dei immortali! Non sarà dunque permesso ad una regina... di seguire nella tomba l’augusto consorte? (fa per gettarsi dalla finestra—– i ministri accorrono a trattenerla).
I Min. Ferma... regina!
Did. Chi ardisce opporsi alla mia volontà?... Ah... siete voi... voi mio primo ministro! E avete osato portare la mano sulla mia sacra, inviolabile persona?...
I Min. Perdono, o regal donna. Mi spiace dovervi ricordare che sotto il regime costituzionale...
Did. Basta! vi comprendo. L’augusto mio sposo e signore non ebbe che un solo torto al mondo, quello di aver emanato uno Statuto che ci fa schiavi della nazione, che ci impedisce di muovere un passo senza il consenso delle due Camere. Dire che non mi è permesso di raggiungere il mio Sichéo... Signori Ministri, Deputati e Senatori, fatemi almeno questa grazia; lasciatemi sola col mio immenso cordoglio. Voi altri non potete comprendere il dolore di una giovane sposa vedovata innanzi tempo...
I Min. Noi comprendiamo dal nostro...
Did. Lasciatemi, vi dico. Uscite tutti!
Non un sol detto... o ch’io, pel sommo Giove!
I Min. Ella in versi parlò: si corra altrove.
(Ad un cenno del ministro[14] degli esteri, tutti si allontanano, meno le donne).
Didone—Anna—Berta—Clivia—Rubinia—e poche ancelle—indi il Questore.
Did. Anna... mia dolce sorella... Lascia che io sfoghi sul tuo seno il mio dolore immenso. Ah! tu non fosti mai maritata... nè puoi immaginare...
Anna. Ho sempre desiderato di trovar marito—epperò comprendo quanto tu debba soffrire nell’aver perduto il tuo.
Did. Perdere!... ma ciò è ben più grave che non trovare... Vedi, sorella, voglio spiegarmi con un paragone: tu sei abituata a prendere il thè ogni sera...
Berta. Sicuro! quando si è abituati[15] a prendere il thè ogni sera, non si può dormire se prima...
Did. Chi osa interrompere la regina?...
Berta. Perdonate, augusta sovrana... Ma noi si fa di tutto... per distrarvi dalla vostra grave melanconia... La principessina Anna non ha pratica di queste faccende... e bisogna esprimersi sotto metafora... Io voleva dire che quando si è abituati a prendere il thè, non è più possibile farne senza—e siccome... una giovane... e bella... e possente regina quale voi siete, o augusta Dido, tiene a sua disposizione tutti i magazzeni dello Stato...
Did. (colla massima collera). E tu osi supporre!... Animo! via!... sentiamo un poco cosa tu intendi per questi magazzeni dello Stato!... Fuori la frase tutta intera! Vediamo fin dove può giungere la impertinenza delle mie cameriere... dopo che il mio Sichéo ebbe la debolezza di accordare una costituzione.
Cliv. Regina: non vi adirate... Io pure sono di avviso...
Did. Tu pure, civettuola!...
Rub. Eccelsa regina... piuttosto che vedervi morire di dolore...
Did. Sentiamo un poco: piuttosto che vedermi morire...?
Berta. Sentite regina... Anch’io ho avuto i miei giorni di immenso lutto, allorquando venni a perdere il mio primo marito, che era, come sapete, il gran cuoco delle vostre reali cucine... La prima notte, ho sentito il sangue montarmi alla testa... e fui sul punto di commettere uno sproposito... Ma poi, riflettendo bene, ho veduto che la sventura non era irreparabile, ed ho finito collo sposare Medonte, il maniscalco dei vostri augusti cavalli.
Did. Sciagurata!... E non hai sentito, nella prima notte dello spergiuro imene, spalancarsi gli abissi?—non hai veduto giganteggiare presso il talamo l’ombra fiera e sdegnosa dello spento consorte?
Berta. Non ho sentito... non ho veduto nulla... Ero troppo distratta. Vi assicuro, regina, che il vostro augusto maniscalco non mi dava tempo di pensare ai quondam.
Did. (Queste donne di bassa estrazione non hanno cuore!...)
Berta. Regina!...
Rub. Berta ha ragione... Tergete le lacrime... e pensate...
Did. Non più!...
Anna. A me pare...
Did. Basta, vi dico!... (levando la mano in atto minaccioso). Già troppo ho offesa la sacra e imperitura memoria del fu augusto mio consorte, prestando orecchio ai vostri scandalosi propositi... Io dovrei punirvi severamente... Ma pure mi sento inclinata a usarvi clemenza riflettendo alla vostra grossolana costituzione... ai vostri bassi natali... Parlo a voi, o pettegole... Quanto a te, mia ottima sorella; a te, inesperta della vita e non[18] colpevole che di puerili desiderii e di illusioni fallaci, odi bene quanto io sto per dirti.—Io giuro per ciò che vi ha di più sacro nell’Olimpo e sulla terra, per la venerabile barba di Saturno, per tutti gli Dei e le Dee immortali, per lo Statuto proclamato dal mio fu augusto consorte, per la mia lista civile... giuro di serbare eterna fede al cenere di Sichéo—giuro che questa mia mano non verrà mai profanata dal contatto di un uomo, foss’egli per beltà ed eleganza di forme rivale di Apollo, e per energica costituzione di muscoli pari a Marte l’invitto. Io porterò eternamente la gramaglia... e i miei capelli disadorni e sparsi di immonda cenere... faranno testimonianza perpetua del mio dolore. (Levando le braccia verso il lampadario). Numi e semi–numi dell’Olimpo! a voi, vindici d’ogni spergiuro, salga questo mio voto solenne... E se mai di un solo desiderio, di un solo pensiero[19] io offendessi la cara e venerata memoria del mio augusto consorte; scendano pure i vostri fulmini sulla mia testa regale,
Arda la reggia, e sia
Il cener di lei, la tomba mia!
Coro. Così sia!
(Breve silenzio.—Didone rimane immobile alcun tempo colle braccia levate—poi, riscuotendosi, riprende:)
Did. Anna: dilette ancelle... Ritiratevi fino a nuovo ordine... Nell’eccesso del mio cordoglio, io dimenticava di propiziare gli Dei... Recitiamo una dozzina di Deprofundis in suffragio dell’augusto defunto.
(Didone va ad inginocchiarsi in un lato della sala, e raccoglie il capo nelle mani nell’attitudine di chi prega fervorosamente).
Il Questore e dette.
(Mentre Anna e le ancelle muovono per uscire, il Questore si presenta sulla porta).
Questore. È permesso?
Coro. Zitto!... Sottovoce!...
Berta. Piano, per carità!...
Cliv. Benvenuto, Questore!
Anna. Quali notizie?
Rub. Fuori il vostro gazzettino!
Quest. (accennando alla regina). Sua Maestà mi sembra distratta...
Anna. Al contrario. Bisognerebbe trovar modo di distrarla... Ella è sempre assorta nei suoi cupi pensieri...
Quest. (sotto voce alle ancelle). Mi spiace di esser giunto in mal punto... Eppure io dovrei parlare alla regina[21] di un affare di somma premura... È arrivato un bastimento carico di...
Berta. Di... di... aspettate...
Rub. Proviamoci a indovinare...
Anna. Sicuro! facciamo il nostro giuoco favorito... Dateci la prima lettera, e noi indovineremo.
Quest. (sottovoce). Ma... non vorrei... Se Sua Maestà ci avesse ad udire...
Anna. Ella non vede... non ode più nulla.
Tutte le anc. Presto! la prima lettera!...
Quest. La parola comincia con T. Animo dunque! A voi, principessa Anna... È arrivato un bastimento carico di?...
Anna. Tortelli...
Quest. Non ci siamo per ora... A voi altre, signorine: È arrivato un bastimento carico di?...
Berta. Triffole...
Cliv. Torrone...
Rub. Tabacco...
Coro. Trote... tamburi... tonno marinato...
Quest. Nessuna ha colto nel segno...
Anna. Aspettate...
Quest. La regina ha fatto un movimento...
Coro. Thut!
Berta. Ebbene: dite... levateci di pena...
Quest. A stretto dovere io non dovrei confidare ad altri che alla regina...
Tutte (gridando). Un bastimento carico di?... di?... di?...
Quest. Non l’avreste indovinato a pensarci mille anni... Il bastimento che ora giunse nel porto è carico di... Troiani.
Tutte. Troiani!!!
Cliv. Non ho mai udito parlare di questo genere di commestibili.
Quest. Si tratta ben d’altro che di commestibili!... Si tratta...
Tutte. Sottovoce!... (facendosi intorno al Questore).
Quest. (a voce appena intelligibile). Si tratta d’individui maschi... Si tratta di trecento o quattrocento giovinetti di bellissimo aspetto...
Did. (balzando in piedi con entusiasmo). Chi ha parlato di bei giovanotti?... Dove sono? Vediamoli!... (reprimendosi). Cioè... voleva... dire... chi è stato il temerario che ebbe l’audacia... in un giorno di tanto lutto?... Ah! voi... Questore!...
Quest. Che la Vostra Maestà mi perdoni... Queste signorine mi avevano fatto credere che voi non eravate in grado di vedere e di udire...
Did. (nel massimo imbarazzo). Imbecille! Forse che io ho veduto?... che io ho udito qualche cosa?... E ti pare che, anche avendo udito o veduto, io potrei prender parte a gioia veruna di questo mondo?... (volgendosi alle donne). E voi altre, voi altre pettegole... gli è dunque in tal maniera che obbedite ai miei ordini?...
Anna. Il Questore ci ha trattenute nostro malgrado... per parlarci di un bastimento carico di... di...
Did. (vivamente al Questore). Carico di?...
Quest. Carico di trecento o quattrocento Troiani, agli ordini della Maestà Vostra...
Did. Troiani!...
Anna. Bei giovani... dice il Questore...
Quest. Un esercito di capitamburi... Certe gambe, certe spalle, certi mustacchi... Se vedeste, regina! Il più alto dei vostri granatieri divien un pigmeo a petto del più piccolo di questi Troiani. Vostra Maestà mi perdoni se io ne parlo con tanto calore... Mia moglie, vedendoli sfilare dinanzi al palazzo, voleva gettarsi dalla finestra... Avremo un bel da fare a custodire le nostre mogli!... Ed è appunto... a questo solo riguardo... che io mi sono affrettato a prevenire la Maestà Vostra...[25] acciò... nell’interesse della pubblica moralità... e sopratutto della tranquillità coniugale... si degni di spiccare un decreto perchè la città sia prontamente sgombrata da quei pericolosi individui...
(Durante il discorso del Questore, Anna, Clivia, Rubinia, Berta e le ancelle si saranno allontanate in punta di piedi).
Did. Ciò che voi mi riferite, onorevole Questore, non può a meno di impressionarmi vivamente... Voi sapete quanto mi stia a cuore la moralità de’ miei sudditi e la pace delle famiglie... Ma l’argomento è tanto grave... tanto delicato... che conviene ragionarne fra noi... senza testimoni... Anna... dilette ancelle! (Didone si volge per parlare alle donne, ma con sua grande sorpresa si accorge che tutte quante sono partite). Dove sono andate quelle baldracche?... Scommetto... Per le corna di Giove! Sta a vedere[26] che sono corso incontro ai... come li chiamate, Questore?...
Quest. Troiani, agli ordini vostri.
Did. Ma si può dare uno scandalo uguale?... Questore!... Sul serio... Bisogna provvedere... e subito! bisogna...
Quest. Se Vostra Maestà vuol compiacersi di firmare un decreto che li sfratti immediatamente...
Did. (riflettendo). Credete voi, onorevole Questore, che un tal decreto sarebbe costituzionale?
Quest. Vostra Maestà sa troppo bene che all’ufficio di Questura non si è molto scrupolosi nell’interpretare i paragrafi dello Statuto.
Did. No! Io non voglio iniziare la mia reggenza con un atto illegale... Direi piuttosto... Probabilmente questi Troiani avranno un capo, qualcuno che li rappresenti...
Quest. Sicuro! essi hanno un capo, niente meno che un principe di sangue reale...
Did. Avete detto?...
Quest. Un giovane principe di bellissimo aspetto, biondo di capelli...
Did. (Biondo!... Ho sempre amato i biondi...) Voi dicevate che questo principe è molto giovane...
Quest. Il di lui passaporto segnerebbe trentadue anni, ma a vederlo non gliene dareste ventidue.
Did. (Trentadue anni!... Venti anni meno del mio adorato... e troppo augusto consorte!) Non si perda un minuto... Che quei signori sieno condotti immediatamente al mio regale cospetto. (Il Questore fa per andarsene)... Aspettate... Perchè ve ne andate con tanta furia?...
Quest. Io vado... Perdonate, regina! Vi confesso, che dopo l’arrivo di quei Troiani, ho perduto la testa. Ho lasciato mia moglie in tale stato di esaltazione...
Did. (col più vivo interesse). Sono dunque ben terribili questi Troiani.[28] Ma non bisogna dimenticare che una regina rappresenta la nazione... Io non posso ricevere quei signori con questo abito dimesso e coi capelli coperti di cenere... Voi li introdurrete, e direte loro che abbiano la pazienza di aspettare sino a quando io non abbia fatto un poco di toelette. Voglio riceverli pomposamente, nella gran sala delle cariatidi.—Mi avete inteso?
Quest. Ho inteso... ma temo che la frittata...
Did. La frittata?! Che parole son queste?
Quest. Nulla! Ho sempre in mente quel troiano che guardava mia moglie... Perdonate regina... Volo ad eseguire gli ordini vostri. (Si inchina e parte.)
Didone avviandosi lentamente alle sue stanze.
Did. Un principe di sangue reale!... Giovane!.. di trent’anni circa!... Biondo!... Il mio Sichéo non era biondo... Egli era castano... color castano misto... tendente al chiaro... Un eccellente uomo quel mio Sichéo!... Un po’ floscio... un po’ secco... (tremolo di violini) Malaticcio... Ah! ci voleva della indulgenza... a soffrirlo... in questi ultimi tempi! Mangiava fuori di misura... fumava come un caporale... era dedito ai liquori... si istupidiva coll’absinzio... Senza fargli torto... da cinque anni egli era completamente imbecillito... Egli si è suicidato... Oh! il[30] mio povero Sichéo!... De profundis clamavi ad te, domine... (Entra nelle sue stanze).
Enea—Acate—Meronte—Ippanto—Clissandro e circa quattrocento Troiani entrano in punta di piedi dalla porta sinistra.—Si avanzano cautamente.—L’orchestra esprime la loro esitazione e più che altro il loro immenso appetito.—Enea, Acate, Meronte, Ippanto e Clissandro si terranno per qualche tempo in disparte.
Coro. Entriam! vediam... sentiamo!
L’odore è prelibato...
È odore di stufato,
[31]Odor di bacalà...
I. Si assaltin le cucine...
II. S’invadan le cantine...
Tutti. Enea ci guiderà...
Che tarda Enea? che fa?
All’inferno
Vada Enea!
Di governo
Non ha idea...
Chi al suo popol—non sa dar
Da mangiar,
Non è degno di regnar!
Lo vogliamo lapidar,
Appiccar
Scorticar...
Poi gettarlo in fondo al mar.
Enea (avanzandosi). Questa è la reggia... sì!
Coro.Viva Enea!
Viva il forte!
Altri. All’inferno!
Morte! morte!
Chi al suo popol—non sa dar
Da mangiar,
Non è degno di regnar!
I. S’egli al popol saprà dar
Da mangiar,
Sarà degno di regnar!
En. (con sdegno represso). Da bravi! cominciamo a gridare!... a far dello strepito!... E così ci piglieranno per altrettanti scalzacani, e ci metteranno alla porta senza offrirci un gocciolo. Voi non avete ombra di criterio, e meritereste che io... Ma no, non voglio andar in collera. Via! Siate buoni figliuoli.... Dal vostro modo di contenervi dipende la vostra fortuna. Noi siamo giunti in una delle più floride città dell’Africa, dove abbonda ogni ben di Dio. Noi abbiamo già avuto, al nostro arrivo, le più simpatiche accoglienze dalle popolazioni e sopratutto dalle signore. Dobbiamo ora presentarci alla più bella, alla più illustre, alla più generosa regina del mondo.... Profittiamo dunque del buon vento.... Eleviamoci all’altezza della situazione.... e cerchiamo, coi nostri modi tili,[33] col nostro linguaggio insinuante, di tirarne il miglior partito. Siamo emigrati, raminghi, senza patria, senza tetto, senza quattrini. Dunque, bando all’orgoglio. Colla modestia, colle belle maniere noi riusciremo a conciliarci la benevolenza dell’augusta sovrana, e degli alti dignitari che la circondano... Se saprete fare, se avrete solamente il talento di secondarmi, vi prometto dei lauti pranzi e delle cene migliori. La regina vorrà sapere dei nostri casi, delle nostre vicende... Lasciate a me la cura di parlare per tutti... Voi altri fate bene attenzione a quanto andrò dicendo; scolpitevi bene in mente le mie parole, acciò non vi sia pericolo di contraddirci a vicenda, Si sa bene—trattandosi di dover commuovere, di dover suscitare dell’interesse, non sarà male ch’io esageri un poco il colorito...
Acate (ai compagni). Avete ben inteso[34] ciò che ha detto il pio Enea?—Per fare della impressione... bisogna spararle grosse... e voi altri... dovete...
En. Dice benissimo il fido Acate—spararle grosse... Concordia e prudendenza: ecco il nostro programma... Non dimentichiamo giammai l’alta missione che ci imposero gli Dei immortali. Non siamo emigrati per nostro spasso, per condurre una vita da scioperati. I fati hanno prescritto un altissimo scopo alle nostre peregrinazioni... Noi dobbiamo fondare l’Italia...
Coro. Viva l’Italia unita,
Con Roma capitale!
Vogliam la stampa libera...
La guardia nazionale...
Vogliamo la Repubblica...
Vogliam la Monarchia...
Evviva l’anarchia...!
Viva Meronte Re!
(Meronte ringrazia e sale sopra una sedia per parlare).
Coro. Morte a Meronte!
Abbasso! via!
Morte al Ministro
Di polizia!
(Meronte abbandona il posto, e Clissandro sale).
Coro. Morte a Clissandro,
Che ha decretato
La tassa orribile
Sul macinato!
(Clissandro abbandona il posto).
Coro. Acate muoia
Per man del boia!
Acate è un asino
S’ha da impiccar!
Abbasso tutti!
A tutti morte!
Vogliam l’Italia
Unita e forte,
L’Italia libera
Dall’Alpi al mar.
(Enea monta sopra uno sgabello per imporre silenzio).
En. Queste grida di entusiasmo, per le quali si manifesta così eloquentemente[36] la concordia dei vostri principii, mi commuovono ad un tempo e mi rassicurano. Quando un popolo... Che dico?... quando una grande e forte nazione dimostra, come voi avete dimostrato in questo momento, di avere una volontà sola, di mirare ad un solo scopo; questo popolo, questa nazione non hanno più nulla a temere da nemici esteri ed interni.
Voci. Viva la Repubblica!
Altri. Viva la democrazia!
Altri. Abbasso i tiranni del popolo!
En. (discende dallo sgabello e parla ad Acate sotto voce). Tangheri! discutono la forma di governo, e l’Italia finora non esiste che nella loro immaginazione! Il mio buon popolo ha fame... Queste grida sovversive non possono provenire da altra cagione... Lo crederesti, fedelissimo Acate? In questo momento anch’io sarei disposto a cedere la mia corona per un buon[37] pollo arrostito... (a voce più alta). Prendi questa chiave, fedelissimo Acate. Là fuori, nella mia valigia, troverai una scatola di legno intarsiato che racchiude del cioccolatte di prima qualità.... Distribuirai una tavoletta a ciascuno...
Ac. Ma!...
En. Che?... (rinforzando la voce) Vorresti forse vietarmi?...
Ac. Io non dico...
En. (ancora più forte). Respingo ogni consiglio di economia quando si tratta di soddisfare ai legittimi voti del mio buon popolo...
Voci. Abbasso il ministro delle finanze! Viva Enea... e la monarchia assoluta!
Ac. Io mi affretto ad obbedirvi, piissimo Enea. (Il birbone mi giuocò un brutto tiro, ma a suo tempo prenderò la rivincita).
En. (volgendosi a Meronte, e parlando a voce alta in modo che tutti[38] abbiano ad udirlo). Credete voi che esistano nel nostro regno dei cittadini illustri e benemeriti, i quali non siano per anco insigniti dell’ordine mauriziano?
Mer. Io credo che, ad eccezione di due o tre ciabattini, di due o tre brumisti ed altri pochi di condizione meno elevata, tutti gli altri furono già decorati.
En. (da sè). (Non mi fa stupore che qualcuno abbia gridato: viva le Repubblica!) Onorevole Meronte! Prima di sera mi darete i nomi di questi pochi illustri, troppo ingiustamente obliati dal nostro governo. Tutti quanti siamo figli di una istessa patria—esuli tutti sovra terra straniera, abbiamo patito comuni sventure, abbiamo diviso tutti i pericoli e tutte le vittorie. È tempo che i privilegi sieno aboliti, che cessino le distinzioni di casta... Per ottenere la perfetta uguaglianza, oggimai io non vedo altro mezzo fuor[39] quello di generalizzare il cavalierato, accordando la croce di San Maurizio a quanti la desiderano. (Enea sospende il suo discorso, oltremodo sorpreso che nessuna voce si levi ad applaudirlo; ma la sua meraviglia si accresce in vedere che tutti i suoi Troiani, compresi i due ministri Ippanto e Clissandro, sono usciti dalla sala). Che vuol dire questa novità?...Meronte... Presto! correte!... (Meronte esce). Ah! mi sembra di indovinare... Qualche disordine a proposito del cioccolatte... Decisamente il mio buon popolo ha fame...
(Meronte, Ippanto, Clissandro, Acate rientrano in scena sgomentati).
Ac. (ad Enea). Se Vostra Maestà non provvede tosto...
Mer. Se si tarda un quarto d’ora...
Ipp. So non vi affrettate a soddisfare i legittimi desiderii del popolo...
Clis. Insomma... se non si pensa a procacciare delle vettovaglie...
En. Ma dunque... il cioccolatte?...
Ac. Vi si gettarono come tanti canonici affamati... e pare che la fame generale, invece di spegnersi...
Clis. Sentite quali grida!
En. Io non sento nulla!...
Voci. Al saccheggio! al saccheggio!
Clis. Li avete intesi adesso?...
En. Sì... qualche cosa mi sembra di aver inteso... Basta!... cerchiamo se è ancora possibile... (squillo di trombe interne). Che vorrà dire questo suono?... Forse la regina col suo corteggio.... Presto! adunate la mia gente... Promettete che fra due minuti verrà loro servita una splendida colazione. (Meronte, Clissandro, Ippanto conducono i Troiani.—La porta laterale, che mette agli appartamenti della regina, si apre).
Due trombettieri—il Prefetto corte, i Ministri di Didone, Deputati e Senatori, ufficiali—e detti.
I trombettieri si fermano sulla porta ad intuonare una marcia; Enea, dopo aver richiamato intorno a sè i suoi ministri Acate, CLISSANDRO, IPPANTO e Meronte, si inchina fino a terra. I seguaci di Enea non cessano di far rumore, si danno degli spintoni per farsi innanzi, mentre il loro condottiero, colle mani dietro la schiena, fa dei gesti per imporre la calma.
Pref. In nome della regina Dido, salvete, o illustri Troiani!
Enea (inchinandosi fino a terra).[42] Eneas troianus prenceps gratias agit vobis quamplurimas!
Pref. Mi spiace di non poter comprendere la vostra bellissima lingua, e più ancora mi duole di non poter esprimere nel vostro gentile idioma il graziosissimo invito di Sua Maestà la regina... la quale vi fa offrire, pel mio labbro, una piccola refezione di pane e salame in altra delle sue cucine. (Gran movimento nelle file dei Troiani. Enea, colle mani dietro la schiena, non cessa di far dei gesti per tenerli in freno).
En. Vi sono delle offerte che sempre suonano accette e graditissime in qualunque idioma esse vengano espresse... Tanto io, come questi miei prodi colleghi siamo oltremodo commossi e riconoscenti alla magnanima regina di Cartagine delle sue splendide esibizioni... Ma pure... Ahi, lassi!... Noi siamo esuli, siamo emigrati, non rivedremo più mai la patria diletta,[43] condannati ad errare di terra in terra in cerca di un punto solido per fondarvi il nuovo regno d’Italia. Emigrati!... Il dolore è il nostro pane, le lacrime sono la nostra bevanda.... e nessuno di noi oserebbe portare al labbro alcun cibo... (volgendosi ai Troiani che battono i piedi e ringhiano sinistramente). Comprendo la vostra opposizione, illustri colleglli!... Voi mi ammonite che sarebbe un far torto alla generosa, alla disinteressata cortesia della nostra ospite regale, rifiutando le sue grazie... Accettiamo dunque ciò che liberalmente ci viene offerto... (volgendosi di nuovo al Prefetto) Eccellentissimo signor Prefetto di palazzo, noi siamo agli ordini vostri. Favorite indicarci la strada più breve... (si accorge che tutti i suoi uomini si urtano per uscire dalla porta di mezzo) Quei bricconi hanno indovinato la porta della cucina!... L’appetito aguzza l’odorato... (inchinandosi al Prefetto)[44] Bisogna che io mi affretti a seguirli (e facciano gl’immortali che io giunga in tempo!)
(Enea si apre il passaggio a spintoni, ed esce per la porta di mezzo. Il Prefetto si ritira).
Ministri—Senatori—Deputati.
Min. fin. (offrendo tabacco ai suoi colleghi). Una refezione così lauta a circa quattrocento individui!... Questa nuova spesa dello Stato mi autorizza... anzi mi obbliga ad aprire un nuovo prestito—ed io lo farò votare non più tardi di domani.—Siete voi disposti ad appoggiarmi, onorevoli amici? (Si formano vari crocchi. I Deputati si tirano l’un l’altro per le code dei frak—si parlano all’orecchio—ed[45] escono dalla sala. Il Ministro delle finanze sogghigna sotto i baffi, e tirando una gran presa di tabacco, soggiunge a bassa voce:) Voteranno... Li faremo votare.... Nei prestiti, c’è da far bene per tutti... Come vivrebbero i deputati se non ci fossero i prestiti? (escono).
CALA IL SIPARIO.
GRAN SALA DELLE CARIATIDI
Tre porte. Due troni, l’uno a destra, l’altro a sinistra. Vari sgabelli in giro. Nel mezzo della scena, fra i due troni, un tabouret con cuscini.—In fondo della sala un buffet lautamente imbandito di pasticcini, gelati, pezzi duri, ecc., ecc.
Cupido entra in scena armato di varii dardi, e si pone a sedere sovra una tavola cantarellando.
I.
Io sono il bel Cupido,
Il nume dell’amor;
Figlio son io di Venere,
M’è ignoto il genitor.
V’è alcun che può conoscere
Il vero suo papà?...
Mia madre era sensibile...
Di tutti avea pietà.
Lalarà—lalarà.
II.
Di scendere a Cartagine
Giunone mi ha ordinato;
Enea co’ suoi famelici
Troiani è qui arrivato;
Vuole l’amabil Dea
Che quel briccon di Enea
E la regina vedova
[48]Delirino d’amor.
Quand’ella passerà,
La freccia scoccherò;
Se una non basterà,
Venti ne scaglierò,
Così quel sen grassissimo.
Forse trapasserò.
Mettiamci in breccia
Coll’arco in mano...
Ecco una freccia
Che andrà lontano...
(guarda verso la galleria)
Ella si appressa...
È proprio dessa...
Larà—Larà!
Questa per certo
La colpirà.
(tira il colpo e fugge).
Didone, Anna, Clivia, Berta, il Prefetto, il Questore, i Ministri, Dame, Damigelle, Paggi e Guardie.
Didone (avanzandosi e salendo i gradini del trono). I nobili Troiani vengano tosto introdotti! (da sè) Che vorrà dire, sommi Dei, questo tremito che mi invade le membra? (siede sul trono).
Anna. Mia sorella ha cambiato di colore... Non vorrei ch’ella fosse innamorata del mio biondo... (siede a lato di Didone).
Did. (alle Dame). Ciascuna prenda il suo posto... il momento è decisivo... Mostriamo a questi illustri e sventurati eroi...
Enea, Acate, Meronte, Ippanto, Clissandro ed altri Troiani. Ascanio condotto dalla nutrice si ferma presso al buffet nel fondo della sala. I suddetti.
Enea. Eccoci, illustre Dido, ai piedi tuoi (si inchina davanti a Didone).
Didone. Alzatevi, illustre troiano... Non vi prenda soggezione... non facciamo complimenti fra noi... (da sè) Per Giove! non so più quello che io mi dica...
Enea. Proseguite, o regina...
Did. Se i giornali della sera non hanno mentito, voi dovete essere quel nobile rampollo della regale famiglia di Anchise...
Enea (con voce acutissima). E qual è dunque la diva che può leggere nel libro del mio cuore e penetrare di un solo sguardo nei reconditi abissi della mia genealogia?... Voi l’avete detto: io sono pur troppo uno dei cinquanta sventurati che si chiamarono figliuoli del non mai giovane Anchise.
Anna. Cinquanta figliuoli!... Dunque... l’illustre vostro padre?...
Enea. Sì, gentildonna... Il mio inclito padre (o chi per lui) si è compiaciuto di metter al mondo una cinquantina di rampolli...
Did. Perdonate alla mia curiosità di donna: nascevano tutti da una sola madre quei vostri quarantanove fratelli?
Enea. Tutti, o regina.
Did. Il caso è abbastanza singolare, Nei vostri paesi, le donne debbono avere una costituzione di ferro.
Enea. E gli uomini dei muscoli di acciaio...
Did. (sottovoce). Muscoli di acciaio!... Qual differenza col mio Sichéo!... (a voce alta) Non potete immaginare quanto mi interessino questi gloriosi particolari della vostra origine... Ma, dove sono i vostri quarantanove fratelli? Voglio ben sperare che essi facciano parte del vostro numeroso seguito.
Enea. I miei fratelli!... i miei sessanta fratelli... Orrendo sovvenire!... Essi perirono tutti quanti nell’incendio che consumò la mia misera patria... Di questi settanta fratelli non[52] me ne resta che un solo.... il minore di tutti... (volgendosi ad Ascanio) Dove sei, Ascaniuccio?.... Avvicinati.... Ah! Lo vedete... egli non può staccarsi dal buffet (avvicinandosi ad Ascanio e traendolo per un orecchio presso i gradini del trono) Vergogna! Leccare il piattello delle confetture!... Fa il tuo dovere colla regina... (sottovoce) non dimenticare di consegnarle il bigliettino...
Ascanio (saltando sulle ginocchia di Didone). Oh la cara, la bella signora!...
Did. (accarezzando Ascanio). S’è mai veduto il più leggiadro fanciullo?.... Che bella capigliatura!... che tinta rosea!... sembra un amore..... Ah!... (la regina mette un grido e porta la mano al seno).
Asc. (staccandosi da Didone e correndo verso Enea). Ti pare, papà, che io abbia fatto il mio colpo per benino?...
Anna (alle vicine). Quel bricconcello ha introdotto un bigliettino nel corsetto di mia sorella. Senza dubbio una dichiarazione...
Enea (sottovoce ad Ascanio). Bravissimo! A suo tempo ti comprerò le caramelle... (Ascanio percorre i vari gruppi. Anna, Clivia, Rubinia e le altre donne se lo prendono fra le braccia, ed egli porta in giro e distribuisce biglietti d’amore).
Did. (da sè). Quel fanciullo mi ha messo l’incendio nel petto... (ad Enea) Ma... a proposito di incendio... sareste voi tanto cortese... sareste voi tanto amabile... o re dei Troiani... da voler raccontare per filo e per segno... o se meglio vi pare, per segno e per filo...
Enea (da sè). Questa donna non ha più testa... (a voce alta) Ah! voi sareste tanto buona....—che dico?—tanto paziente, da porgere orecchio alla istoria luttuosa della mia misera patria?...
Did. Credo che questo mio desiderio sia vivamente condiviso dalle mie dame, dai miei onorevoli ministri, da quanti si trovano qui presenti—non è vero?... (rumori diversi) Compiacetevi di sedere, o illustre Enea (additandogli il tabouret che sta nel mezzo della sala); quello sgabello è destinato a voi... I vostri non meno illustri compagni scelgano il posto che loro torna più comodo...
Troiani. Avviciniamoci al buffet.
(Si formano varii gruppi. Enea siede nel messo della scena, volgendo la fronte alla Regina. I Troiani vanno nel fondo della sala, presso il buffet. Ascanio continua a girare fra le dame che a loro volta gli consegnano dei bigliettini da trasmettersi a questi o a quelli).
Enea (solleva colla mano i capelli, si percuote la fronte per adunare le proprie reminiscenze, indi prorompe con enfasi). Infandum, regina, jubes renovare dolorem.
Did. Illustre Enea.... perdonatemi... ma questo linguaggio mi riesce un po’ duro.
Enea. Compatite... Senza avvedermene... io adoperava una lingua a voi affatto straniera... la lingua dell’avvenire...
Did. Preferisco il vostro facile e melodioso dialetto.
Enea. Voi già avrete letto nei giornali, o illustre regina, come dopo dieci anni di assedio, i perfidi greci, sotto pretesto di offrire a’ miei concittadini un pegno di conciliazione, per una breccia praticata nelle mura, introducessero in Troia un cavallo di legno, nel cui ventre smisurato stavano rinchiusi non meno di mille individui armati ed equigaggiati di tutto punto.
Voci diverse. Bam! boum! piff! puff!
Enea (da sè, trasalendo). L’avrei forse sparata troppo grossa?
Did., le donne. In un ventre mille armati!
Uomini (l’uno all’altro sottovoce).
Ti te credet?—Hin tutt ball!(a Enea)
Va pur là—cúntela ai frati,
La tua storia del cavall!
Enea (alzandosi). Se continua il mormorio,
Troncherò la narrazione...
Did. (colla massima vivacità)
Fermi... olà... silenzio... o ch’io...
Pref. —————Non avete educazione...
Quest. ———— L’orator non disturbate...
Donne. ————Proseguite... terminate!...
Uomini (ad Enea ironicamente)
Séttet giò—fa minga el ciall!...
Tira innanz con i tò ball!
Enea (torna a sedere e ripiglia la narrazione). A quale scopo venisse dai nostri nemici introdotto nella città un cavallo così smisurato... e capace di contenere nel suo grembo non meno di... quattrocento guerrieri armati dal capo alle piante, è cosa assai facile a indovinarsi...
Uomini. Quattrocento!... e non erano mille?
Enea. Ciò che a voi tutti recherà maggiore meraviglia gli è che nessuno de’ miei intelligenti e astuti concittadini si avvide del pericolo, nessuno ebbe sospetto della trama, e un povero diavolo di giornalista, il quale si era permesso spargere sul conto dei nostri nemici qualche insinuazione maligna, venne accolto a fischiate e più tardi fatto in pezzi dalla moltitudine. Dietro un tale esempio, la stampa indipendente ed onesta di Troia non ebbe che una voce per approvare ed encomiare l’operato dei Greci.
Pref. (da sè a mezza voce). Conosco il sistema della stampa onesta e indipendente...
Enea (volgendosi al Prefetto). In tutti i paesi si assomiglia. Stampa indipendente e onesta è quella che non si vende, ma viceversa poi, si lascia comperare da chi le offre il miglior partito.
Did. Proseguite senza interruzioni, nobile troiano. La vostra facondia mi commuove...
Enea. I duecento traditori, rinchiusi nell’enorme ventraja...
Coro. —– Dapprima erano mille...
Poi, furon quattrocento...
Ed or—nuovo miracolo!
Divennero duecento...
Did. ——–Zitti! silenzio... o ch’io...
Pref. ——Dov’è l’educazione?...
Enea (alzandosi)
Con questo mormorìo
Non posso proseguir.
Questore (minaccioso)
Se più lo disturbate...
Did. (a Enea)
Da bravo, terminate...
Coro. —– Enea; fa minga el ciall!
Va innanz con i tò ball!
Enea (sedendo). Come dunque vi dicevo, i cento cinquanta Danai rinchiusi nel cavallo attendevano le tenebre per dare effetto al loro scellerato[59] stratagemma. Al sorgere della notte...
(squillo di trombe)
Tutti. Qual fragore! che sarà?...
Minacciata è la città...
Voci lontane.
Viva Jarba imperator...
La sua barba fa terror...
Did. (alzandosi vivamente) Accorrete... accorrete... Questi lugubri suoni anunziano l’arrivo del feroce imperatore, che, superbo della sua lunga barba e del suo immenso potere, osò concepire l’assurdo pensiero di rendermi spergiura alle ceneri del mio defunto Sichéo... Muovetegli incontro; arrestate, se è possibile, la sua marcia impetuosa... Ditegli che due lunghi giorni di vedovanza non hanno ancora cancellata dal mio cuore la imagine cara di un uomo, il quale, se non era il più giovane e il più ardente dei mariti, era pur sempre il più mite e il più condiscendente dei re costituzionali.
(Tutti escono dalla sala, ad eccezione dei Troiani, i quali sembrano esitare ad allontanarsi dal buffet).
Enea. Acate... miei fidi Troiani.... non avete udito gli ordini della regina?.... Uscite.... Accorrete incontro allo sconsigliato filibustiere che ardisce disturbare la pace della vostra e mia regina... Ordinategli di prender tosto il cammino di viceversa, e in caso che egli resista... fate uso moderato e prudente delle vostre armi di precisione.
(Enea spinge i Troiani ad uscire e quindi si arresta in disparte).
Did. Tutti sono partiti... Profittiamo della solitudine per leggere questo biglietto incendiario che il bel troiano mi ha insinuato tra il corsetto e la ciccia a mezzo del suo intelligente fratellino.
(Cava dal corsetto un biglietto e legge).
«Io vi amo, regina.... fissatemi un[61] luogo... un’ora... dove io possa trovarmi da solo a sola con voi... (è spiccio questo troiano!) Gli Dei hanno stabilito che io debba andare pellegrinando sulla terra e sui mari, finchè non abbia trovato un punto geografico qualunque per piantarvi l’Italia.—Voi non avete che a proferire una parola, ed io, coll’aiuto vostro, pianterò l’Italia in questa medesima reggia, sui gradini del vostro trono. Spero di essermi spiegato abbastanza, od almeno mi lusingo che voi mi abbiate compreso. Attendo un cenno della M. V., della quale mi dichiaro fin d’ora: devotissimo suddito e impazientissimo amante
Enea degli Anchisi
Emigrato troiano
e Re d’Italia in aspettativa.»
(baciando il biglietto) Se questo non è il linguaggio della passione... Ah! nessuno... nemmeno il mio primo innamorato.... il parrucchiere della regina[62] madre.... seppe mai indirizzarmi parole così acute e penetranti... Tutto ben considerato, sarebbe una follia perdere il tempo... Enea... mio caro... mio amatissimo Enea.... abbiti questi baci in anticipazione... (baciando più volte il biglietto) e il rimanente... al più presto possibile.
Enea (accorrendo e gettandosi ai piedi della regina) E debbo... e posso credere?...
Did. (vivamente). Alzatevi, sciagurato! Voi meritereste...
Enea. Didone... bella Didone... Se i miei occhi non mi hanno ingannato... io vi ho veduta baciare con trasporto quel biglietto...
Did. (severamente) E oseresti... supporre!... (da sè) Venere santa... gli ho dato del tu senza avvedermene.... Ed ora come si rimedia?
Enea (stringendo i piedi di Didone che vorrebbe alzarsi e obbligandola a trattenersi sul trono) Oramai la parola[63] ti è sfuggita. Io ho sentito dalle tue belle labbra scoccare quel tu, che simile al turacciolo progettato da una bottiglia di birra, rappresenta la fermentazione irrepressibile di un cuore innamorato...
Voci (più vicine) Viva Jarba imperator!
Did. Enea: vuoi tu lasciar in pace i miei stivaletti?... Non odi quelle vOci... il fragor di quelle trombe?...
Enea. No, non ti lascio... Esalerò la mia anima su questi odorosi sandalettì di bulgaro, a meno che io non ti oda proferire quella desiderata parola...
Voci (più vicine). La sua barba fa terror!
Did. (colla più viva agitazione) Alzati... Ebbene: sì, scellerato—sì, troiano birbone—io ti amo... io ti adoro... Ma ora, come faremo noi a disfarci di questo stupido e prepotente signore dei Mori che ha giurato, o viva o morta, di possedermi?
Enea. Amore ci darà le armi per combatterlo... Noi... lo ammazzeremo...
Did. Ammazzarlo! quale imprudenza!... No... Enea.... io non permetterò giammai che dentro la mia reggia venga sparso del sangue.
Enea. E credi tu, regina, che per ammazzare un uomo, sia proprio necessario di ricorrere al salasso? Lasciami fare, Didone.... Avvi un’ arma invisibile ad occhio nudo ma più potente delle catapulte e delle freccie avvelenate.... Un’arma.... che serve? Quando io l’avrò nominata, non tarderai un istante a comprendere ciò che essa possa operare di micidiale, senza lasciare veruna traccia. Tu hai già capito, o regina, che l’arma cui voglio alludere, è quella del ridicolo. Sei tu disposta ad assecondarmi?
Did. Il ridicolo!... ma io...
Enea. Innanzi tutto tu devi accogliere quello stupido imperatore coi segni della più glaciale indifferenza...
Did. Nulla di più facile: e poi?...
Enea. Non rivolgergli mai una parola... non degnarlo di uno sguardo...
Did. Anche questo è facilissimo. E poi?
Enea. E poi.... Al resto penserò io, mia gatta... (baciandole con passione l’avambraccio).
Did. Mia gatta!... non ti capisco.... Che vuoi tu dire con questa bizzarra espressione?
Enea. Gli è un vezzeggiativo d’amore che si usa fra noi troiani... Ma silenzio!... riprendiamo la nostra posa solenne. L’imperatore si avanza—fingiamo di non vederlo.
(Enea si pone a sedere, come poco dianzi, nel mezzo della scena).
Tutti i personaggi che erano nella sala al principio della scena precedente,[66] rientrano e introducono Jarba re dei Mori, accompagnato da numeroso seguito. Il Prefetto indica a Jarba il trono che sorge dirimpetto a quello della Regina.—Orbech distribuisce delle svanziche ai Cartaginesi ed ai Troiani. Jarba, nel salire i gradini del trono, si trova impacciato dalla sua lunga barba, che gli viene più volte sotto i piedi.
Coro. Al sommo Jarba—gloria ed onore...
Quanta ricchezza! quanto splendore!
Miglior marito—bella Didone,
Prence più nobile—di lui non v’ha.
Ah! se tu perdi quest’occasione...
La truppa e il popolo—insorgerà.
Did. (ad Enea, dopo aver rivolto a Jarba un freddo saluto) Tu dicevi dunque... voi dicevate... mio nobile degli Anchisi... Voi dicevate che i perfidi Greci, dopo aver introdotto nella città un colossale cavallo...
Enea. Attendevano, rinchiusi nella enorme ventraia, di dar esecuzione col favor delle tenebre al loro iniquo disegno. Infatti, non appena i Troiani si furono ritirati nelle loro case per riposarsi dalle fatiche del giorno; quando la notte ebbe steso sui palazzi superbi e sugli umili tugurii il suo nero mantello, quegli infami sbucarono tacitamente dal nascondiglio, e spargendosi nelle vie, appiccarono il fuoco, senza che alcuno s’avvedesse, ai principali stabilimenti della città...
Jarba (ridendo forte). Ah! Ah!... Mi affér letto questa istoria... Ah! Ah!...
Enea (volgendosi bruscamente a Jarba). Chi ardisce ridere quando io favello?... ah... siete voi... Maestà!... Perdonate alla mia franchezza; ma mi pare che, malgrado l’origine principesca dei vostri natali, malgrado il titolo di Imperatore che portate, non so quanto legittimamente, dovreste[68] aver letto nel Galateo che l’interrompere chi parla, e ciò ch’è peggio, ridere sguaiatamente per un serio racconto, è atto villano, scortese e temerario.
Jarba (ridendo a crepapelle). Ah! ah! Ti foler mi star serio!... E ti mi foler far cretere che ti notte troiana non fedér fuoco?...
Did. Avanti, illustre Enea!...
Tutti (gridando confusamente).
No! no! ci spieghi un poco...
Come fra quelle tenebre
Nessuno ha visto il fuoco?
Il caso è inverosimile...
Qui c’è contraddizione...
Enea è un imbroglione...
Enea (alzandosi impetuosamente).
Tutto vi spiegherò...
Did. La vostra narrazione
Compite...
Tutti. ———Basta! no!...
(Tumulto, grida generali; Didone, Enea e Jarba, ciascuno a loro volta,[69] fanno dei gesti per imporre silenzio all’adunanza. Alla fine, calmato il baccano, Enea si asside e ripiglia il discorso).
Enea. Oggimai, poichè le cose sono giunte a tale che l’autorità della mia parola non basta a rassicurare pienamente gli animi irritati dalle gare e dalle passioni di partito; e vedendo altresì che i dubbi suscitati (additando Jarba che non cessa di ridere) dall’augusto monarca qui presente, non derivano che dall’ignoranza completa dei meccanismi stupendi, pei quali ai dì nostri si può creare la luce; non mi resta, per convincervi d’un solo tratto, che a mostrarvi questo involto (cava dalla giberna una scatoletta di zolfanelli), dove stanno rinchiusi non meno di duecento fiammiferi fulminanti. (Levando uno zolfanello dalla scatola). Vedete voi questo fuscellino di legno, quasi impercettibile all’occhio, e leggiero come una pagliuzza?...[70] Ebbene: non avete che a confricarlo leggermente sulla scatoletta, sulle vostre vesti, sulla muraglia, perchè ne divampi con subito scoppiettio una fiammella vivacissima, atta a suscitare inestinguibili incendii. Se volete, o signori, che io ne faccia subito l’esperimento...
Alcuni. –Sì... sì... vediamo!
Altri. —Non ci fidiamo...
Did. ——Lasciamo fare...
Jarba. —Mi... mi... poffare! (si alza, e strappa di mano ad Enea la scatola dei fiammiferi).
Enea (sottovoce a Didone).
Stiamo a vedere...
Si riderà...
Jarba (ad Enea con un zolfanello alla mano).
Ti far fedére
Come si fa...
Tutti. –Attenti! attenti!
Che mai sarà?
(Jarba, seguendo le indicazioni di[71] Enea, si pone con incredibile pacatezza a confricare lo zolfanello sulla scatoletta. Tutti gli sguardi sono rivolti a lui. Breve silenzio. Dopo due o tre prove, lo zolfanello divampa e mette fuoco alla folta barba dell’imperatore).
Tutti (allontanandosi da Jarba con un grido di spavento).
Per Giove massimo!
Al fuoco! al fuoco!
Presto... le macchine!
Pompieri... olà!
Jarba (rovesciandosi sui gradini del trono colla barba in fiamme).
Maletettissimo!...
Al fuoco! al fuoco!
Presto... le macchine!
Pompieri... olà!
Enea (a Didone prendendola pel braccio).
Dimmi in qual’ora...
Dimmi in qual loco...
Ti saría comodo?
Did. –—Fuggiam di qua,..
Pompieri (accorrendo colle macchine e dirigendo le pompe verso Jarba).
In men d’un’ora,
O illustre Jarba,
La vostra barba
Si spegnerà.
(Le pompe schizzano acqua contro il viso di Jarba. Didone ed Enea si allontanano abbracciati. Anna dà il braccio ad Acate. Clivia e le altre damigelle si afferrano al braccio di Meronte, d’Ippanto e d’altri. Frattanto alcuni Troiani, profittando dello scompiglio, intascano destramente le posate e i candellieri che stanno sul buffet.
Il Prefetto ed il Questore si fermano sulla porta per animare i pompieri. Orbech sarà scomparso al primo grido dell’imperatore).
CALA IL SIPARIO.
Atrio nella Reggia di Didone.
Didone in abito da caccia, il Ministro delle finanze, il Prefetto.
Did. Insomma, pensateci voi... Vi hanno dei doveri internazionali che debbono essere rispettati da qualunque governo civile; fra questi io pongo in prima linea il dovere dell’ospitalità. Non sia detto che dai nostri[74] liberi Stati venisse respinta questa illustre falange di emigrati politici, i quali non sono rei d’altro delitto, fuorchè di aver veduto la loro patria consumarsi in un incendio. È dunque necessario che il Parlamento decreti una somma speciale pel mantenimento dell’emigrazione troiana. Voglio che a ciascun emigrato si assegni un sussidio mensile in ragione della nascita, dei titoli, dei gradi, delle cariche civili e militari. Io sono d’avviso che un buon prestito di cinquecento milioni provvederà sufficientemente alla bisogna. Che ne dite, onorevole ministro delle finanze?
Min. La Maestà Vostra non deve ignorare che ogni qualvolta un’operazione finanziaria di tal genere incontrò nel paese delle serie difficoltà, queste non partirono mai dal suo gabinetto. Non oserò però dissimulare all’Altezza Vostra che da alcun tempo l’opposizione si è molto rinvigorita[75] alla Camera, e vi è a temere che la misura di stanziare una somma per sussidio dell’emigrazione troiana abbia ad essere respinta non solamente dalla sinistra, ma anche dal terzo partito.
Pref. Sicuramente. Il terzo partito è forte...
Did. Voi pure, onorevole Prefetto, siete d’avviso che la proposta non incontrerebbe l’approvazione della maggioranza?
Pref. Ho detto che il terzo partito è forte...
Min. La sinistra è compatta...
Did. La sinistra!... Il terzo partito! Mi fate ridere, onorevoli amici. Sarà dunque vero che io... io donna inesperta e quasi esordiente alla vita politica, debba spiegare a voi i meccanismi segreti del sistema costituzionale, e insegnarvi in qual modo si formino alla Camera le maggioranze? I deputati della sinistra vi fanno paura...[76] Ma non avete ancora capito che la più parte di questi signori non attendono, non vagheggiano che una occasione favorevole per passare alla destra con armi e bagaglio? Gli uomini del partito governativo per essi sono gente venduta; ogni qualvolta la maggioranza vota in nostro favore, i sinistri esclamano alla corruzione... Non vi pare che con questa maniera di linguaggio essi vi dicano apertamente: signori ministri, lasciate correre qualche spicciolo e saremo con voi?... Ho assistito qualche volta dalla tribuna reale alle sedute della Camera; e sempre, quando intesi un deputato dell’opposizione apostrofare un onorevole della destra col titolo di venduto e di corrotto, negli sguardi dell’oratore, nella concitazione dei gesti, nell’enfasi delle declamazioni mi parve leggere questo segreto concetto: non vi ha dunque nessuno, proprio nessuno che finalmente[77] mi usi la buona grazia di comperarmi!
Min. Ah! Regina! non credo adularvi asserendo che in questo momento voi siete all’altezza della situazione...
Pref. Che l’ombra del vostro augusto consorte mi perdoni, se io non esito a proclamare che mentre a quell’ottimo Re noi dobbiamo saper grado dello Statuto accordatoci, voi prima, voi sola ci avete insegnato ad interpretarlo e ad applicarlo in maniera che desso riesca a vero vantaggio del paese.
Did. Dunque?...
Min. S’è capito...
Pref. Lasciate fare, regina...
Did. Quanti sono i deputati della destra?
Min. Centoventuno.
DId. Quelli di sinistra... e del terzo partito?
Min. Centoventisette...
Did. Bisogna, perchè passi la legge, assicurarsi un’altra trentina di voti... Mi avete inteso? Convien comperare... e corrompere; e gli uomini da comperare e da corrompere, voi sapete oramai dove si trovano. Solamente vi raccomando di dare la preferenza ai più spiantati, i quali costano meno, ed hanno anche (bisogna esser giusti) un certo diritto di precedere i colleghi.
(squillo di corni)
Pref. Regina... i corni hanno dato il segnale della caccia...
Did. Addio, ministro... A rivederci, onorevole Prefetto... Voi mi raggiungerete più tardi... Se Jarba domanda di me, ditegli che per tutta la giornata sarò invisibile. La festa d’oggi vuoi esser tutta dedicata all’illustre degli Anchisi ed ai nobili suoi seguaci. Se quel superbo e brutale imperatore se ne immischiasse, potrebbero nascere tali agitazioni e tumulti da mettere[79] in fuga la selvaggina e compromettere l’ordine materiale del paese.
Min. Vi auguro buona caccia... Ma ho paura che con questo maledetto scirocco gli uccelli non si levino...
Pref. La regina non ha che a presentarsi... a muovere uno sguardo...
Did. (che si sarà affacciata alla finestra). Enea monta a cavallo... Aspettatemi... Aspetta, tesoro... (esce rapidamente).
Pref. (da sè allontanandosi) Pazza... per quel troiano... maledetto...
Min. (da sè) Bisogna spacciare quel troiano, o il paese è perduto (esce).
Fitta boscaglia.—A destra una grotta.—Giove trasformato in pavone si avanza cantarellando.
Io sono il padre Giove
Del gran Saturno figlio,
Che l’universo muove
[80]Coll’aggrottar del ciglio;
Dei Numi io sono il principe,
Padron delle saette,
Coll’occhio mio fulmineo
Friggo le cotolette,
Mando quaggiù il diluvio
Quando dal cielo io sputo,
Fo con un mio starnuto
L’Olimpo traballar.
E ardisce una pettegola
Opporsi alle mie voglie?
Dovrò subir l’imperio
D’una aggrinzita moglie,
E del gran regno italico
I fati ritardar?...
Vien gente—su quel frassino
Poniamci ad esplorar.
(vola in cima a un frassino)
Giunone in abito da puff con un berretto frigio sulla testa. Euro, Eolo in abito da gesuiti.—Giove sulla pianta.
Giun. —Qui nessuno ci ascolta...
Tutti.—————Cospiriamo!
Per chi nel mondo
Nulla sa far,
Non v’è mestier più comodo e giocondo
Che il cospirar.
Sì: cospiriamo:
Noi siamo nati,
Siamo pagati
Per cospirar!
Giunone.
Di che si tratta—voi ben sapete,
Qual è il mio scopo—già conoscete...
I Venti.
Nulla sappiamo—non comprendiamo...
Ma nati siamo—per cospirar.
Giunone (distribuendo dei soffietti).
Doman con questi mantici
Sul mondo soffierete,
Pioggia, saette, grandine,
Dal ciel provocherete:
Sicchè qual salce pieghisi
Il tronco più gagliardo,
E in cima al San Bernardo
Levi suoi flutti il mar.
I Venti (provano i soffietti, e quindi li depongono ai piedi dell’albero).
Da questi mantici
Noi soffieremo,
Sconvolgeremo
La terra e il mar;
Noi siamo nati,
Siamo pagati
Sol per sconvolgere,
Per disturbar.
Giun. Questi soffietti vanno a meraviglia... Vedete: solamente col farne[83] la prova avete già suscitato un temporale che, a dir vero, non combina gran fatto colle mie vedute politiche... Riprendete quegli strumenti, e procacciate, con due o tre soffi, di mandar via quelle nuvole opache che ci stanno sulla testa...
(Durante le parole di Giunone, Giove sarà disceso rapidamente dal frassino, e avrà, con due colpi di becco, strappate le linguette ai due soffietti).
Eolo (soffiando). Cribbio! la macchina è guasta...
Euro (c. s.). Chi mai ha portato via la linguetta di corame...?
(scroscio di tuono)
Giun. Imbecilli! non vi resta dunque più fiato nei polmoni? Soffiate.... soffiate dalla bocca... finchè siamo ancora in tempo... Per nonno Saturno, già la pioggia incomincia... Fate presto, vi dico! (si volge per cercare Eolo ed Euro, ma questi sono fuggiti) Ah! mascalzoni!... sempre così!... Fin quando[84] non vi è pericolo, sfidano terra e cielo; al primo scroscio di temporale, chi si è visto, si è visto... (correndo sotto la pioggia e chiamando a gran voce:) Euro! Eolo! feccia di bricconi... che Giove vi fulmini per via! (esce).
Giove (sulla pianta). Ah! Ah! Vedete se quella Giunone mi vuoi bene! Io debbo a lei, a lei sola, se questo improvviso temporale viene ad affrettare il compimento dei miei disegni. Didone ed Enea verranno a ricoverarsi in quella grotta... e siccome da cosa nasce cosa, vale a dire:—dalla possessione nasce il disgusto... ergo... ergo... quapropter... sono un Dio... «Intendami chi può che m’intend’io.»
(si nasconde fra i rami).
Enea e Didone che si avanzano sotto un ombrello di tela cerata.—Il temporale imperversa.
Enea. Affrettiamoci verso la reggia... La pioggia è così dannata, che non vi è ombrello il quale possa difenderci...
Did. Tornare dalla caccia senza aver preso un uccello... Ciò non mi è mai accaduto. Ti confesso, diletto Enea, che il mio amor proprio di donna e di regina ne soffre maledettamente...
Enea. Credete... regina... Con questa acqua, con questo vento...
Did. Oh! che vedo? Una grotta! Se entrassimo là dentro... Che te ne pare?...
Enea. Non posso astenermi dal farvi riflettere che le grotte sono ordinariamente[86] ricettacolo di belve e di serpenti...
Cid. (con voce carezzante) In quella grotta non ci sono belve... Io l’ho visitata più volte in ottima compagnia, e ti assicuro che se vi ho trovato dei serpenti a sonaglio, questi non mi hanno procurato che delle distrazioni gradevolissime...
Enea. (Questa donna è sopracarica di elettricità...)
Did. Vieni dunque!...
Enea. Entriamo!... (facendo dei complimenti sull’ingresso della grotta). Maestà... precedetemi...
Did. (saltandogli al collo e traendolo seco) Lasciamo i complimenti.—In presenza di un temporale, ogni disuguaglianza sparisce...
(Giove, annoiato di attendere, soffia dal naso uno starnuto, che produce il rombo del tuono. Enea e Didone si precipitano nella grotta).
Acate indi Enea.
Acate (venendo da sinistra). Queste cartaginesi sono insaziabili. Lode a Giove, son riuscito a liberarmi dalla principessa Anna e a rinviarla alla reggia. Buon per me che la grandine è venuta in mio soccorso, traforandomi l’ombrello. Numi immortali, che proteggete l’Italia futura, operate qualche prodigio in favore dell’augusto mio principe, ond’egli riesca a svincolarsi dalle panie amorose, in cui lo tien stretto e avviluppato la regina. Frattanto, nella mia qualità di fido, ho compartito gli ordini perchè tutti si tengano pronti alla partenza. Il ministro della marina, al quale abilmente ho promesso la croce di commendatore, ha messo a nostra[88] disposizione uno dei più bei navigli dello Stato.
Enea (uscendo dalla grotta). La pioggia è cessata... La regina assopita in profondo letargo... Oh! chi vedo? Acate... il mio fido...
Acate. Augusto sire, io andava in traccia di voi...
Enea. A bassa voce, per carità!... La regina di Cartagine giace svenuta in quella grotta... Converrà profittare del fausto accidente per correre alle navi coi nostri, e sciogliere immediatamente le vele alla volta d’Italia. Se debbo credere ad un sogno che ho fatto la scorsa notte, i venti ci saranno propizii.
Eolo, Euro, Enea, Agate.
Eolo. Sì, noi siamo teco...
Euro. E per voler di Giove, disposti ad ogni tuo cenno.
Enea. Qual è il vostro nome, o nobili amici?
Euro. Euro, a’ tuoi ordini.
Eolo. Eolo, per servirti, se al fratello non basterà il fiato...
Enea. Venite, dunque!... E tu, fido Acate, rimani qui un breve istante per tenere a bada la regina, nel caso ch’ella si destasse e chiedesse di me... Se poi la tua fervida fantasia ti suggerisse qualche abile strattagemma per liberarti più presto da questa seccatura, opra di tuo senno. Ma... qual rumore! chi vedo!!! Jarba, il re moro, che si avanza a gran passi, colla sciabola sguainata, e seguito da un drappello de’ suoi cosacchi... Per Giove! la nostra posizione si fa difficile... Qui ci vuol del coraggio...
Acate. Sì: ci vuol del coraggio! fuggite!...
Enea. Ma se egli mi insegue...
Acate. Fuggite, vi replico!
Eolo—Euro (spiegando le ali). Sulle ali dei venti!
Enea. Grazie, nobili amici, mi ero scordato...
(Enea sale in groppa ai venti, che subito prendono il volo verso la spiaggia).
Jarba, Acate.—Seguaci di Jarba.
Jarba (ad Acate). Affere visto brincipe troiano?
Acate. Illustre re dei Mori, se voi intendete parlare dell’augusto Enea, levate gli sguardi, miratelo, egli parte in questo istante sulle ali dei venti.
Jarba. Toffe diretto?...
Acate. Alle navi, dove fra poco io dovrei raggiungerlo. Stretto da imperiose necessità, non ultima delle quali il desiderio vivissimo di affrettare[91] i fati d’Italia, egli mi esprimeva poco dianzi il più vivo rammarico nel dover partire senza porgervi di persona gli attestati della sua stima e della sua inalterabile benevolenza. L’Italia ha bisogno di alleati, mi diceva, ed io contava assai su questo generoso e illuminato monarca... Ma il tempo stringe; come vi ho detto, è d’uopo ch’io non indugi un istante a raggiungere il mio principe. Degnatevi dunque accogliere, o illustre Jarba, questa testimonianza palpabile dell’alto concetto in che noi vi teniamo, il mio principe, il mio popolo ed io, e sia questo un primo, indissolubile legame, che stringa due sovrani creati per intendersi, e due nazioni sorelle (sottovoce) create per... esecrarsi (leva di tasca un astuccio e lo porge a Jarba).
Jarba. Cossa star questo?
Acate. Il gran collare della Denunziata...
Jarba (al colmo dell’ira). Non statte cane io... Non metter collare...
Acate (da sè). Giove mi aiuti ad uscir dalle grinfe di questo barbaro, che non intende ragione... (forte ad Jarba) Ma non sapete, augustissimo Jarba, che questa è una delle onorificenze più insigni che un monarca possa conferire ad altro monarca? Non sapete che, mettendovi al collo questo cordone dorato, voi diventate cugino del nostro re?
Jarba (ruggendo colla schiuma alla bocca). State palle, palle, palle, sempre palle troiane! (volgendosi ai suoi) Impatronittevi ti questo imbosture, che mi foler metter collare come cane intanto che l’altro porta via pella Titone!
Acate (da sè). Quale idea luminosa! (a Jarba) Ah! voi temete un inganno! Voi diffidate del mio principe! Voi credete che un troiano di sangue sia capace di un tradimento![93] Voi imaginate che il nomignolo di fido me le abbiano dato per burla! Volete saperlo, dove si trova in questo momento la vostra Didone? Volete che io ve la metta in braccio? Degnatevi, Maestà, di chinare l’augusto orecchio alla portata delle mie umili labbra, ed io vi mostrerò di quali sacrifizii sia capace un troiano per procacciare al futuro regno d’Italia delle alleanze solide e durature.
Jarba (avvicinandosi ad Acate). Foi dite che bella Tittone?... (Acate parla sommessamente all’orecchio di Jarba, che fa gli occhiacci guardando verso la grotta).
Voci lontane.
Addio, mia bella, addio!
La flotta se ne va...
Se non partissi anch’io
Sarebbe una viltà...
Acate (a Jarba). Entrate in punta di piedi.... La grotta è oscura.... non perdete un istante...
Jarba (volgendosi ai suoi seguaci). Accompagnate troiano fino al porto... Salutate tanto mio illustre cugino Enea... Tittegli che, fra poco, se i Numi mi assistono, diferrò anche cognato (Jarba entra nella grotta).
Acate (ai soldati di Jarba). Mamalucchi, seguitemi!... Ah! voi potete ben vantarvi di avere un monarca che si occupa seriamente della felicità del suo popolo.
La sala delle Cariatidi nel Palazzo Reale.
La principessa Anna, Berta, Clivia, Rubinia, suonatori che salgono sovra una impalcatura, Comici, Corifei e Ballerine nel fondo della scena. Il maggiordomo ed altri servi affaccendati.
Anna (alle damigelle che formano[95] cerchio sul davanti della scena). Comincio ad essere inquieta. Come avviene che la mia augusta sorella non torna ancora dalla caccia, con un tempo così indiavolato? Spero bene che qualcuno, o qualcuna, avrà pensato a mandarle un paracqua!
Berta. Mah!
Clivia. Spero anch’io...
Rubinia. Sicuramente.... si doveva pensare...
Anna (volgendosi al Maggiordomo). Dite un po’, maggiordomo: avete pensato a mandare una dozzina di ombrelli nella foresta dove la regina sta cacciando col nobile troiano?
Magg. Si è pensato di fatto, ma nelle guardarobe reali non s’è trovato più nè un paracqua, nè un parasole, nè un paravento... Pare che questi illustri troiani...
Anna (con sdegno). Zitto là, imbecillone! Oseresti supporre?... (con qualche inquietudine) Ma quanto tardano[96] a tornare?... Il biondo aveva promesso di raggiungermi alla reggia entro dieci minuti (consultando l’orologio). Per bacco! in ritardo di mezz’ora!... Se i treni della ferrovia non mi avessero abituata a tali inconvenienti, per Giove comincerei ad inquietarmi... Si può ben perdonare al più tenero degli amanti ciò che si tollera da una locomotiva a vapore (va a passeggiare nel fondo della scena).
Berta (sottovoce alle ancelle). Il mio morettino è andato ad appiattarsi in cantina, dove io ho promesso di raggiungerlo appena saranno cominciate le danze.
Clivia. Sono inquieta pel mio piccolo Ascanio...
Rubinia. Saresti innamorata di quel monelluccio?
Clivia. Ciascuno ha i suoi gusti... Non darei il dito mignolo di quell’amore per tutto ii vecchio carcame del tuo Mironte...
Rubinia. Va pur là, che ti leccheresti le dita!... Mironte ha promesso di sposarmi e di condurmi con lui in Italia... alla prossima primavera... (Rumori diversi nel fondo della scena.)
Berta. Cos’è accaduto?... Quale scompiglio! Qualche disgrazia... senza dubbio...
Clivia. Il prefetto!
Rubinia. I ministri!
Berta. Il questore! (Tutte si avviano verso il fondo della scena, dove cresce l’agitazione).
Il Prefetto, i Ministri, il Questore, i suddetti, quindi Jarba, Orbech, Didone.—Guardie.—Soldati.—Giove ed altri Numi.
Prefetto (parlando sottovoce ai Ministri). Fra mezz’ora saranno usciti[98] dal porto. La trireme che loro avete fornita, era in buon stato?
Min. della Marina. Non abbiamo nella nostra marina che una sola nave la quale possa starle al paro, l’Affondatore.
Pref. Tanto meglio—il nostro piano riuscirà. Era tempo che ci liberassimo da quei trojani. Frattanto vediamo di tener a bada queste pettegole... Ma, a proposito, dov’è la regina?
I Min. (volgendosi ad Anna ed alle ancelle, che in punta di piedi si sono avvicinate al crocchio per ascoltare). Dov’è la regina?... Dov’è la regina?
Anna. Secondo ogni probabilità, la mia augusta sorella si intrattiene ancora alla caccia col principe trojano...
Quest. Ma se il principe trojano...
Pref. (al Questore mettendogli un piede su un callo). Vuoi star zitto, testa d’oca! (alle donne). Io divido pienamente l’argutissima ipotesi della principessa preopinante. La regina dev’essere alla caccia.
(Rullo di tamburri.—Tutti accorrono verso il fondo delta scena.—In questo mentre, Giove e Giunone appariscono seguiti da altri Numi, e si intrattengono a cavalcioni di una nube all’altezza dei lampadari).
Giunone (a, Giove, irritatissima). Cedo le armi—tu hai vinto. Ma bada che questa vittoria ha segnato il principio della tua e della nostra decadenza. Fra due o tre secoli me ne darai delle nuove... Ma tu da qualche tempo non hai più occhi per vedere, nè orecchi per udire. Tu invecchi orribilmente, tesoro mio.
Giove. Me ne consolo. Invecchiando si diventa venerabili.
Giun. Dal venerabile all’imbecille non vi è che un passo.
Orb. (che si porta sul davanti della scena circondato dai ministri, dalle donne, ecc., ecc.) Sicuramente... Io ho avuto l’onore di scortare alla nave il fido Acate, quello che dopo Enea, rappresenta[100] il pesce più grosso della nobile emigrazione trojana. Sono anche salito a bordo per stringere la mano al principe. Egli mi ha stretto la mano, e in benemerenza dell’alto servizio che io resi al suo fido, mi ha fatto cavaliere. Poi mi ha detto di attendere un istante—entrò nella cabina—e poco dopo ricomparve consegnandomi due lettere e questo grosso rotolo che ho l’onore di presentare colle mie riverite mani all’illustrissimo signor prefetto.
Pref. Consegnate (osservando la soprascritta della lettera). Questa per me, quest’altra per la regina... Leggiamo... quella della regina (si ritira in disparte, leggendo).
Anna (ad Orbech). Ho io ben inteso! Tu dici che il fido Acate...?
Orb. Imbarcato.
Clivia (ad Orbech). Gli altri trojani...?
Orb. Imbarcati.
Clivia. Il mio biondino...?
Orb. Imbarcato...
(Tutte le donne si affollano intorno ad Orbech, e dopo averlo interrogato, escono dalla sala, strappandosi i capelli).
Pref. In verità... la prolungata assenza della regina comincia ad inquietarmi.. Non vorrei che la troppo debole, o dirò meglio, troppo fosforica sovrana fosse partita con quell’audace filibustiere per collaborare con esso alla fondazione dell’Italia... (colpo di cannone).
Quest. Ora che il cannone ha parlato, finalmente si può sciogliere la lingua anche noi, I trojani sono usciti dal porto...
Did. Dov’è, dov’è il mio nobile trojano?
Pref. (sottovoce ai ministri). Come ardiremo palesarle...?
I Min. Col silenzio. (Tutti assentiscono e rimangono mutoli).
Did. Ma... che vedo? Non una delle mie donne... Qual lugubre silenzio!... Enea deve avermi preceduto di pochi passi... Egli era meco poc’anzi nella grotta...
Jarba (che sarà entrato e si terrà in disparte, dà in uno scroscio di risa). Ah! Ah!
Did. (volgendosi irritata). Chi ardisce ridere a me dinanzi?
Jarba (sempre ridendo, senza avanzarsi). Non state dinanzi, regina, non state dinanzi!
Did. (dopo aver osservato). Ah! quell’imbecille di Jarba!...
Pref. (ai Ministri che gli stanno intorno). Avete ragione. Pel nostro e pel decoro della nazione è necessario che la regina esca subito da questo equivoco. (volgendosi a Didone) Regina: in nome dello Statuto, degnate di assidervi per un istante sul vostro augusto trono, e di porgere orecchio all’importante documento che io avrò l’onore di leggervi.
Did. (salendo i gradini del trono). In verità dopo tante scosse morali non è sgradevole riposarsi alquanto sui velluti. Prefetto, leggete; e qualora il documento fosse lungo, procurate di tagliar corto. (sottovoce) Sarà andato a cangiar d’abiti.
Pref. (leggendo). L’Italia è una necessità geografica... Perchè il mondo, necessariamente condotto dalla sua conformazione sferica e direi quasi rotabile ad aggirarsi incessantemente sul suo perno, abbia un giorno o l’altro a bilanciarsi in un solido equilibrio, è necessario... (colpo di cannone).
Did. (balzando dal trono). Fulmine di Giove! Che è stato?... Ministri! Questore! Carabinieri! Prefetti...! Accorrete! osservate! riferite!—(sottovoce, più inquieta che mai) Per essere un principe trojano, mi pare che ei manchi un poco di civiltà. (Gran tumulto nella sala.)
Quest. (che avrà guardato da un[104] canocchiale, nella direzione del porto). Per mille bombe! L’Affondatore che parte!...
Tutti. L’Affondatore...
Min Mar. Ma voi vi ingannate... osservate ancora... Nessuno ha dato ordine...
Quest. (guardando dal canocchiale). Ma sì... l’Affondatore... carico di... donne... Ah! Scommetto che anche mia moglie... Bisogna far partire un’altra nave... bisogna inseguire la sciagurata...
Min. Mar. Siete matto, Questore? Qual è la nave che possa tener dietro all’Affondatore? Qual vi è piroscafo tanto celere che possa raggiungerlo?
Varie voci. Sicuro! I tecnici ne sanno qualche cosa...
Quest. (guardando ancora dal canocchiale). Ah!
Tutti. Che c’è di nuovo?
Quest. L’Affondatore...?
Tutti. Ebbene!!!
Quest. Si è fermato...
Min. Naturale. Dal momento che non si può raggiungerlo, bisogna che ei si fermi. È ben educato! (Ilarità generale).
Did. Ma, infine! Si può sapere...?
Pref. (avanzandosi). Regina, voi avreste mille torti, se non militassero in vostro favore mille ragioni... Non è più tempo di diplomatizzare... I troiani sono partiti...
Did. (colpita). Avete detto... par...?
Pref. (simulando il massimo dolore)... titi!
Did. (quasi delirante). Ma il mio Neuccio... cioè... volevo dire... il mio nano... il principe degli Anchisi... sarebbe anche egli... par...?
Pref. Tito! Egli ve lo annunzia, o regina, in questo foglio profumato di tabacco: (leggendo) «Io parto, o regina, per adempiere al sovrano volere di Giove che desidera affrettare per[106] mio mezzo i fati della futura Italia. Parto sulle ali dei venti, ma giuro che il mio pensiero tornerà incessantemente a voi sulle ali dell’amore...»
Did. (cascando nelle braccia del Prefetto) Io mi sento venir meno...
Pref. (traendola seco) Venite al buffet—un’ala di cappone vi rimetterà in forza...
Didone (passando dinanzi a Jarba, e volgendogli una occhiata assassina). Anche questo moro non mi dispiace... Gli farò credere che moro per lui.
(Rientrano nella sala il Questore, i Ministri, i Senatori e i grandi Dignitari della Corte).
Quest. È proprio il caso di gridare al miracolo... Se l’Affondatore non si fosse affondato, tutte le nostre signore avrebbero raggiunta la flotta di quei malcreati troiani...
Min. dell’Interno. Sapete voi, oculato funzionario, se in sull’Affondatore ci fosse per caso mia moglie?
Quest. C’era, ma quel per caso è di troppo.
Min. (con visibile gioia). E l’Affondatore sì è proprio sommerso?
Quest. Sommerso per metà...
Min. (sottovoce). Pur che ci fosse mia moglie...
Quest. Ne dubito... Le donne stanno sempre a galla degli avvenimenti... e noi le vedremo bentosto ricomparire in questa sala, gaje, petulanti, sfrontate, come se nulla fosse avvenuto.
Did. (tornando sul proscenio a braccio del Prefetto). Ma è proprio scandaloso. Avete osservato? Mia sorella Anna, Clivia, Rubinia e l’altre damigelle, che si intrattengono nel cortile colla soldatesca e coi famigli di questo Re Moro... (sottovoce) che in verità, a vederlo così sbarbato, non ha una fisonomia spiacente...
Pref. Le poverette cercano consolarsi come possono delle loro pene di cuore,—Ciò che fa meraviglia è che[108] quella risciacquata a bordo dell’Affondatore non abbia ammorzato alquanto i loro fuochi latenti.
Did. Misteri del cuore di donna!
(Si avanzano, la principessa Anna al braccio di Orbech, Clivia, Rubinia e le altre donne accompagnate dagli ufficiali Mori).
Anna. (con vivacità). Olà! che fanno i suonatori? Presto! Un valtzer! Una polka! Viva l’allegria!
Voci deverse.
Viva la danza!
Viva la guardia mobile!
Viva gli uffiziali del settimo!
(Squilli di istrumenti metallici. Le coppie dei ballerini si avanzano).
Did. (furiosa). Alto là! Chi ardisce suonare in queste regali soglie senza un cenno della sovrana? Questore... arrestate immediatamente gli istromenti colpevoli...
(Terrore generale.—Le guardie di questura si avanzano).
Jarba (venendo dal buffet). Reccina...[109] niente temere mie soltati... Io tare subito ortine partire immediatamente per mio accompagnamento a regno te miei padri...
Did. (volgendo a Jarba un’occhiata pregna di fluidi elettrici). Re Jarba, illustre e nerboruto principe della Mauritana calidissima terra; confesso di aver avuto dei torti con voi...
Jarba (ridendo). Ah! ah! niente torti, reccina.
Did. Ma sono pronta a ripararli... La solenne dimostrazione di simpatia che le mie donne, senza distinzione di età, porgono in questo momento ai vostri altrettanto valorosi che profumati uffiziali, mi imporrebbero quasi a dovere ciò che nel mio cuore di donna, di regina e di vedova, era già stabilito per forza di simpatia. Re Jarba, dimenticate i miei torti, io vi offro la mia mano, la metà del mio talamo e del mio trono, e tutto quanto il mio scettro in ricambio del vostro. Re Jarba, io sono a voi—consentite?
Tutti. Viva Jarba! viva Jarba!
Il possente imperator...
Or che rasa si è la barba
È gentil come un amor!
Jarba. Mi spiace molto, reccina, ma questo matrimonio impossibile... ed io partir subito con mie soltati...
Did. (sorpresa). Impossibile!... Ho io ben inteso, re Moro?... Ma quale impedimento?...
Jarba. Impetimento... canonico... Io statte vostro cugino (toccandosi il collare che gli ha donato Enea) per questo collare...
Did. (ridendo). Via, buon re Moro! questo non è che un simbolo di parentela... E poi... non vi ha chi lo ignora—i matrimoni fra cugini sono tollerati dalla Chiesa...
Jarba (ridendo). Non statte soltanto cugina... statte anche cognata...
Did. (turbandosi) Non vi comprendo...
Jarba (sottovoce alla regina). Stato[111] anche io in crotta... stato in crotta scura, dopo Enea... Aver capito? E mille crazie!
Did. (delirante). Ah!... Che!... Tu!... Lui!... (cade tramortita).
Jarba (ai soldati). Partitt! In marcia chi vuol!
(Jarba si allontana seguito dai soldati, dalle donne, ecc.—I Ministri seguono il corteggio del re Jarba. Il Questore e alcuni dignitari di corte si fanno intorno a Didone svenuta, e le porgono i soccorsi richiesti dal caso).
Giove e gli altri Numi (dall’alto di una nuvola).
Hai già toccata la quarantina,
Pentiti, pentiti, vecchia regina...
Coi militari non darti impaccio,
Ai preti, ai frati gettati in braccio...
Did. (svegliandosi). Dove sono?.... Che è stato? Voi... Prefetto! Voi.... Questore! Lasciatemi! Ho bisogno di rimaner sola. (al Prefetto, consegnandogli alcuni biglietti da cento) Vi prego[112] di mandare questo mio piccolo tributo alla Società della Propaganda per l’obolo. (al Questore) Incaricatevi voi di far celebrare domani un uffizio funebre a suffragio dell’augusto defunto che divise per tanti anni il suo scettro con me. Ed ora, allontanatevi!...
(Tutti se ne vanno).
Didone.
Sono io ben sola?... Sì! che altro mi resta?
Morir! L’ultima è questa
Gioia feral dai Numi inesorati
Concessa a noi.
(levando dalla borsa una scatoletta di fiammiferi)
Pegni di infausto amore,
Mostrüosi sterpi in cui si cela
L’ignea favilla che di tanti incendii
Fu prodiga alla terra, oh! siate voi
Di mia morte ministri!...
Esci dal legno
Fiamma letal. «Ardi la reggia e sia
Il cenere di lei la tomba mia.»
(Va strofinando gli zolfanelli, i quali[113] producono un lieve schioppettio senza prender fuoco).
Oh, l’impostor!
Oh, il traditor!
Perfin coi fosfori
Mi corbellò...
Pur, qui nell’anima
M’arde un braciere,
Che alcun pompiere
Spegner non può.
(Una densa nube, in cui si avvoltolano Giove, Giunone, Venere ed altri Numi, discende sul palcoscenico, e sottrae Didone allo sguardo degli spettatori).
Giunone (a Giove). Non avrai tu pietà di questa infelice regina?...
Giove. Il suo fato è irrevocabile; ma ella vivrà immortale nella memoria dei posteri. Gli Italiani non sono ingrati, e laggiù, nel bel paese[114] dove suonerà il sì, i poeti e i maestri di musica eterneranno la fama di lei con splendidi versi e con divine armonie. Le catastrofi luttuose precedono mai sempre le grandi innovazioni; perchè sorga un nuovo impero è necessario che altri imperi volgano a rovina.
Giun. Non hai tu veduto, spingendo il tuo sguardo fulmineo dentro la nube del secolo avvenire, che in questa Italia da te vagheggiata e favorita con tanto accanimento, verrà un giorno a stabilirsi un nuovo culto, pel quale noi saremo detronizzati?
Giove. Tanto meglio! Io sono maledettamente annoiato di fare il Nume. Desidero che qualcun altro ci si provi, e sarò lietissimo il giorno in cui mi verrà dato di rientrare nella vita privata. Oh! voglio un po’ godermela, allora!... Ma prima che l’Italia possa davvero chiamarsi nazione, dovran correre dei secoli, e molti.[115] Tienti ben a mente ciò che ti dico, vecchia mia: l’Italia non potrà chiamarsi nazione fino al giorno in cui saranno abbattuti gli idoli che i nostri successori avranno sostituiti al mio bel muso ed al tuo...
Giun. Non ho l’onore di comprenderti.
Giove. Tanto meglio. Accendiamo la pipa, vecchia mia—e tu, Veneruccia, tu, la sola Dea veramente immortale, fatti innanzi e divertimi con quattro passi di cancan.
Venere (slanciandosi verso il proscenio). Ai tuoi ordini, babbo.
(cominciano le danze)
Giove (a Giunone). Non serve fare il broncio, vecchia mia. Fra quattro o cinque secoli noi saremo spodestati; ma questa nostra figliuola non cesserà mai di aver un culto in ogni parte del mondo. Tutti i grandi sconvolgimenti politici e sociali ebbero, hanno, ed avranno sempre origine da[116] lei. E il mondo babbèo non cesserà mai di inneggiare al trionfo dei grandi principii.
(Il cancan prosegue animatissimo e cala il sipario).
Fine.
Due dita di coda.
Il contino crollò leggermente la testa, e proseguì di tal guisa:
—Non c’è che dire: Lodovico Albani è un perfetto gentiluomo. Peccato ch’egli abbia quel difettuccio! Ma poichè infino ad ora qui nella borgata nessuno se n’e accorto!...
—Chè! il signor Lodovico Albani avrebbe dunque... com’ella dice, un difetto...?
—Mi sono espresso con poca esattezza... Non si tratta in questo caso di un difetto... sibbene di un accessorio, di un ornamento, di un vezzo... che so io...?
—Via! signor contino... Via..! parli liberamente... Ella sa bene che noi...!
Il parroco e il coadiutore ingrossavano gli occhi e allungavano il collo come avrebbero fatto dinanzi ad un cappone arrostito con ripieno di salsiccia.
È d’uopo sapere che don Cecilio Speranza e don Domenico Crescenzio, parroco l’uno, l’altro coadiutore nella borgata di L..., detestavano con fervore cattolico il cavaliere Lodovico Albani.
Quali erano i torti del cavaliere Lodovico Albani rispetto ai due uomini di Dio?—Molti e gravi.
Lodovico Albani era cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, e si era meritato il titolo onorifico coi suoi[121] talenti, colle sue opere letterarie e scientifiche, con generosi sacrifizi di patriottismo.—I preti hanno poca simpatia pei cavalieri dei SS. Maurizio e Lazzaro, per gli uomini di spirito e pei patrioti.
Dippiù, il signor Lodovico, venuto di recente ad abitare la borgata, si era introdotto nella casa di donna Fabia Santacroce, ed era riuscito ad istillare nella antica bigotta qualche idea libertina. A dispetto dei due reverendi, la marchesa aveva accordata al signor Lodovico la mano dell’unica sua figliuola. Già s’erano fatte due pubblicazioni; il fidanzato era ito a Milano per comperare i regali da nozze—al di lui ritorno la cerimonia dovea compiersi senza indugio.
Tutte le pratiche del parroco e del coadiutore per impedire questo pericoloso connubio, erano riuscite vane.
Lodovico Albani, colla sua condotta[122] incensurabile, avea completamente trionfato delle cabale e dei raggiri... In paese egli era citato a modello di onestà. Generoso coi poveri, affabile, modesto, anche in casa della marchesa, egli sapeva uniformarsi alle pratiche devote, alle abitudini alquanto rigide della vecchia bigotta, adoperandosi però lentamente a combatterne i pregiudizi. Dietro consiglio del futuro genero, la marchesa aveva già introdotte nella famiglia non poche riforme. I due reverendi non eran più invitati a prendere la cioccolata ogni mattina... I pranzi divenivano meno frequenti... Don Cecilio e don Domenico in casa della marchesa perdevano ogni giorno qualche residuo del loro potere temporale.
Guardati, o lettore dall’odio di un prete: dall’odio di due preti non può guardarti che Dio!
Dopo tali premesse, è facile comprendere[123] con quale ansia, con quale impazienza febbrile, il parroco ed il coadiutore attendessero le rivelazioni del contino Tiburzio.
Ma, chi è il contino Tiburzio?
In poche parole ve lo presento.
Il contino Tiburzio è un nobile della massa, mediocremente brutto, mediocremente ignorante, mediocremente maligno. Un bel giorno, credendo amare la marchesina Virginia egli la chiese in moglie a donna Fabia, ma in grazia del signor Lodovico, egli ebbe una chiara e formale ripulsa.
La marchesina, consultata del suo voto, avea recisamente respinto il pretendente, colla sentenza inappellabile: è troppo brutto.
Il contino Tiburzio si sentì trafitto nel profondo del cuore... e giurò vendicarsi.
Bisognava perseguitare il rivale... combatterlo... schiacciarlo... perderlo nella opinione del mondo.
Pensa, medita, studia. Che si fa? L’arte cattolica dei due reverendi aveva abortito... Che poteva ripromettersi un uomo del secolo?
Ma l’amore è più scaltro, più maligno dell’odio. Questa volta la fantasia del contino ebbe un lampo di ispirazione. Scoperta la brecccia e concepito il piano di attacco, egli scelse i due preti per alleati.
Io credo che il lettore non abbia d’uopo d’altre spiegazioni... Ripigliamo il dialogo interrotto.
—Dunque, signor contino; questo difetto?...
—Per carità, don Domenico, non mi fate parlare...! Temo aver già detto di troppo... Non dimentichiamo che Lodovico è alla vigilia delle nozze... Poichè finora il difetto è rimasto occulto... lasciamo correre l’acqua pel suo letto... I maligni credono che io mi abbia in uggia quel bravo giovine, perchè madamigella Virginia ebbe il[125] capriccio di accordargli una preferenza che io non ho mai vivamente ambita... nè sollecitata... Egli mi ha salvato da un abisso, ed io gliene son grato di cuore. Che altro infatti è il matrimonio se non un abisso coperto di fiori, ove l’uomo precipita inavvedutamente... e per sempre?
—Signor contino... Ella sa con chi ha da fare... Noi siamo avvezzi a serbare il segreto in casi ben più gravi che non quello di cui ora si tratti... Questo difetto del signor cavaliere Lodovico non sarà di tal natura da portargli pregiudizio, ove fosse divulgato. A quanto pare, si tratta di una imperfezione fisica, poco rilevante...
—Ah! gli abiti ne celano molte delle magagne!... Se le fanciulle, prima di scegliersi un marito, potessero penetrare collo sguardo il fitto velame degli abiti, sono d’avviso che più tardi non avrebbero luogo tante delusioni, tanti scandali coniugali e tante[126] separazioni. C’è a scommettere, signor don Domenico, che se alcuno susurrasse all’orecchio della marchesina il segreto che io solo conosco, queste nozze andrebbero in fumo, e il mio povero amico dovrebbe allontanarsi da L... come ebbe, anni sono, ad andarsene da Pavia.
—Il caso è molto più grave che io non avrei immaginato, disse don Domenico, torcendo le pupille al firmamento.
—Gli è un caso di coscienza! soggiunge gravemente don Cecilio Speranza. La perdoni s’io mi permetto di farle un po’ di morale, signor contino; ma io credo che nella sua qualità di uomo d’onore, nella sua qualità di amico della marchesa, ella sia in obbligo di prevenire lo scandalo, di salvare una povera innocente creatura dall’abisso in cui sta per cadere, di impedire una unione fatale...
—Vi confesso che qualche volta mi[127] è passato per la mente un tal scrupolo... disse il contino Tiburzio, coll’accento della più viva compunzione... Povera marchesina! Sì ingenua! Sì bella..! Sì buona! Vi giuro che ne sento pietà.
—Signor conte!.. disse don Domenico, levandosi in piedi...
—Don Tiburzio! soggiunse don Cecilio, andando a chiudere la porta...
—Bisogna salvare quella brava fanciulla.
—Ella lo deve.
—Ella non può esimersi...
—La chiesa parla chiaro: Chi sapesse esservi fra’ contraenti, impedimenti, ecc., ecc., è tenuto a notificarlo a noi... quanto prima...
—In caso diverso, incorrerebbe la pena della scomunica.
—Si affidi a noi, signor conte...
—Ci lasci fare...
Il contino esitava:
—Se, come dicon loro, signori reverendi,[128] io sono tenuto per dovere di coscienza...
—E per dovere di religione...
—E per ingiunzione dei sacri canoni...
I due preti si fecero a brontolare vari testi latini. Ad ogni parola, ad ogni frase, don Tiburzio inarcava le ciglia, ed annuiva col capo simulando la maggior compunzione.
Le argomentazioni e le citazioni sacre e profane dei due reverendi erano troppo incalzanti... E il contino Tiburzio si lasciò strappare dalle labbra il terribile segreto...
—Ebbene! la responsabilità della mia indiscrezione ricada su loro, sclamò il contino, atteggiandosi da vittima... Il nostro ottimo amico cavaliere Lodovico Albani, ha... nel... fondo... della schiena...
—Nel fondo della schiena? ripetono i due preti spalancando le bocche...
—Nel fondo della schiena il nostro amico ha una escrescenza anormale...
—Una escrescenza anormale!... ripete don Cecilio, enfiando le gote...
—Un’appendice osseo–muscolosa, ricoperta di pelo e lunga circa due dita...
—Una coda!!! sclamano ad una voce i due reverendi, rizzandosi sulla punta dei piedi...
—Voi l’avete detto! conclude il contino ripiegando la testa all’indietro. Il cavaliere Lodovico Albani... il fidanzato della marchesina Virginia Santacroce... ha una coda lunga circa due dita!
La coda si prolunga.
Sono le dieci del mattino.
La marchesa donna Fabia Santacroce è seduta nella gran sala di ricevimento.
—C’è là fuori una visita, dice Clementina, posando sulla tavola una guantiera d’argento...
—Una visita a quest’ora?
—È don Cecilio Speranza.
—Un’altra chicchera di cioccolatta... e il reverendo venga introdotto!... Questi reverendi sanno cogliere[131] il momento! Essi non possono rinunziare alle buone abitudini!
Il reverendo parroco di L..., appena entrato nella sala, fece un profondo inchino, e baciando la mano alla marchesa, lanciò una occhiata furtiva al cioccolatte.
—Qual buon vento, signor don Cecilio?... Presto, Clementina! Una chicchera per il nostro degno curato!... Spero che la reverenza vostra vorrà accettare....
—Tutto che viene dalla gentilissima... ed onorandissima signora marchesa...
—Sempre disposta... ai vostri servigi...
—Obbligatissimo alle vostre grazie, colendissima signora marchesa...
Don Cecilio Speranza avea già fatto mezza dozzina di profondissimi inchini. Appena la fanticella rientrò nella sala per versargli la cioccolata, il reverendo si assise, tolse dalla[132] guantiera un biscottino, e immergendolo devotamente nella bevanda profumata, prese a parlare di tal guisa:
—Non è il caso, o il solo piacere di farvi una visita, che oggi mi ha condotto da voi, colendissima signora marchesa... Io debbo parlarvi di un’ affare assai grave, debbo svelarvi un segreto, dal quale dipende il decoro della vostra casa, l’avvenire della vostra famiglia, l’onore, la pace, la tranquillità della vostra amabilissima figliuola in questo mondo, e la sua salute eterna nell’altro... Siete voi ben sicura che nessuno possa spiare le nostre parole?..
La marchesa suonò il campanello.
Clementina ricomparve.
—Bada che nessuno deve entrare in questa sala, nè tampoco avvicinarsi alle porte, disse la marchesa alla cameriera in tono solenne. Io debbo conferire col signor don Cecilio di affari molto importanti...
La cameriera fece un inchino, girò intorno uno sguardo scrutatore, uscì dalla sala, fece traballare l’anticamera con quattro salti rumorosi, poi leggiera, leggiera, sulla punta de’ piedi, tornò presso la porta, e pose l’orecchio al buco della serratura.
Don Cecilio Speranza, con voce pecorina riprese a parlare:
—Voi non ignorate, signora marchesa, quanto amore io porti alla vostra nobile e generosa famiglia, quanto mi stia a cuore il vostro decoro, e qual sentimento di predilezione paterna mi leghi a quella cara e buona fanciulla che è la marchesina Virginia. Io l’ho battezzata, io l’ho iniziata alla prima comunione, l’ho diretta fino dai primi anni co’ miei consigli, colle mie esortazioni, sia in casa, sia nel sacro tribunale di penitenza... La vostra Virginia mi ha sempre ascoltato... mi ha sempre obbedito... Grazie agli aiuti della divina provvidenza,[134] ella è cresciuta nel santo timor di Dio... In una parola, ella è degna figlia di una madre, che noi abbiamo sempre citata come modello di tutte le virtù.
La marchesa crollò leggermente la testa, facendo un sorrisetto di compiacenza.
—Era a desiderarsi, che a complemento di tante belle doti, quella santa fanciulla prediletta da Dio vivesse mai sempre fra le dolcezze della verginale innocenza... Ma questa vocazione delle anime elette non è oggidì molto comune alle fanciulle... All’età di sedici anni quasi tutte propendono verso il sesso più forte... La vostra buona ed amabile Virginia in ciò seguì l’esempio delle altre...
—E di sua madre, interruppe la marchesa sorridendo.
—Il che prova, soggiunse don Cecilio inchinandosi, che anche nello stato coniugale si può vivere santamente...[135] purchè la donna sia tanto avventurata da trovare un degno marito...
—Io vedo a che tendono questi vostri preliminari, disse la marchesa con qualche impazienza... Trovereste forse a che dire sulla scelta da noi approvata? Avreste mai qualche dubbio sul carattere e sulla onestà del signor cavaliere Lodovico, il fidanzato di nostra figlia?...
—Iddio mi guardi dal nutrire il menono sospetto sulle doti morali di quell’ottimo giovine! rispose don Cecilio premendo la mano al petto; ed è appunto perchè io l’amo assai, e lo stimo, e vorrei dissipare ogni ombra di dubbio...
—Vedete dunque ch’io ho colto nel segno, disse la marchesa alquanto turbata. Qualcuno ha cercato insinuare nel vostro animo...
—Non nego... Il caso ha voluto che giungessero al mio orecchio certe voci...
—Ebbene, che hanno trovato a dire i maligni sul conto di questo amabile cavaliere? chiese la marchesa con vivacità. Badate, don Cecilio, che io sono una ammiratrice entusiasta del signor Lodovico. Se alcuno osasse dubitare della sua onoratezza...
—E chi mai l’oserebbe, signora marchesa? Io vi assicuro che, quanto al morale, io vi starei garante pel vostro futuro genero. Ma vi hanno, o signora marchesa (e don Cecilio immerse un altro biscottino nella cioccolatta), vi hanno certi difetti organici.. leggeri... di nessun conto, che facilmente si possono dissimulare...
—Oh! sta a vedere che qualcuno è venuto a dirvi che il signor Lodovico Albani ha il gozzo o la gobba?... Egli! il più avvenente, il più perfetto gentiluomo, che abbia mai posto piede nelle mie sale!
—Di tale avviso pochi mesi or sono erano tutti gii abitanti di Pavia, dove[137] quell’eccellente amico era stato inviato dal Governo come segretario di Intendenza. Colà pure il signor Lodovico in breve tempo era divenuto l’idolo delle società eleganti e sopratutto delle donne...
—Lo sappiamo...
—Colà pure... egli aveva amato una giovinetta di casato nobile e ricco, alla quale stava per unirsi in matrimonio...
—Lo sappiamo...
—Ebbene, lo credereste, signora marchesa? Quando si venne a sapere che il signor Lodovico Albani aveva una certa imperfezione fisica... un certo prolungamento...
—Un prolungamento! ripetè la marchesa credendo comprendere. Ma siete voi certo, che il signor Lodovico Albani abbia un prolungamento?
—Perdonate, signora marchesa, se io debbo scendere a certi particolari che per avventura devono offendere il[138] vostro orecchio delicato. La coscienza e il dovere soltanto mi spingono a parlare... Quanto vi narro mi fu riferito da persone degne di fede... da uomini onesti e prudenti... Il signor Lodovico Albani, come poco dianzi io vi diceva, avrebbe dunque un muscolo superfluo...
—Che orrore! Ma chi dunque ha potuto sapere?...
—Relata refero... Non appena in Pavia si ebbe sentore che il signor Lodovico era in trattative di matrimonio colla figlia di un ricco negoziante di formaggi, una rivale gelosa, la quale probabilmente era stata in intimi rapporti col nostro gentiluomo, divulgò il fatale segreto... In meno di una giornata tutta la città seppe che il segretario del regio Intendente... aveva la coda!
—La coda!!!
—Sì, una coda lunga quattro dita; disse il reverendo; facendo il segno della croce.
—Quattro dita di coda! ripetè la marchesa giungendo le mani.
La cameriera, che stava alla porta origliando, si alzò lestamente, scese le scale, venne in cucina, adunò il cuoco, i camerieri ed i guatteri... e fattasi in mezzo al circolo:
—Sapete che c’ è di nuovo?...
—Che c’è, Clementina?...
—Lo sposo della signora Virginia...
—Il signor Lodovico Albani!...
—Il signor Lodovico... Albani... Ma, silenzio... che nessuno lo sappia, per carità!... Io l’ho udito poco dianzi per caso da don Cecilio Speranza...
—Ebbene!
—Il signor Lodovico... Albani... ha la coda...
—La coda!!! gridarono il cuoco, i camerieri ed i guatteri...
—L’ha detto don Cecilio Speranza alla marchesa: Il signor Lodovico Albani, lo sposo di madamigella Virnia... ha una coda lunga un braccio!
Due braccia di coda.
La marchesa donna Fabia e il molto reverendo parroco don Cecilio Speranza si intrattennero un buon paio d’ore a discutere sulle code in generale, e in particolare sulla coda del cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro.
Esaurita la questione, la marchesa fece un solenne giuramento che essa non avrebbe consentito mai che un animale codato sposasse l’unica sua figliuola. Potete imaginare come il reverendo[141] parroco si partisse edificato dalla sala della marchesa.
—Ma come trovare un pretesto per sciogliere questo matrimonio?... Come avrò io il coraggio di dire al signor Lodovico Albani: voi non potete divenire mio genero, voi non potete sposare la mia bella Virginia... perchè in fondo della schiena...? Quale orrore!!! E come si fa a persuadere Virginia? Che dirle?... Ella ama tanto il suo Lodovico! Ella è sì contenta di queste nozze!...
Mentre donna Fabia passeggia per la sala in preda alla più viva agitazione, Clementina viene ad annunziarle due visite.
Sono due amiche del cuore, donna Letizia Novena, ed una vedova bigotta di circa sessant’anni, la contessa Marta Passeroni, donna attempata e carnosa, ma fresca, gioviale, burlona, che non ha rinunziato alle galanti avventure.
Le due visitatrici non hanno che a[142] scambiare colla marchesa i primi complimenti, per accorgersi ch’ella è preoccupata da un grave turbamento.
—Che hai tu, mia buona amica? Che vuol dire quell’insolito pallore?...
Donna Fabia risponde con un sospiro.
—Quali novità?... Non tenerci in pena più a lungo; dice la contessa. Saresti forse ammalata?
—No!... grazie al cielo... io sto bene di salute...
—Forse la tua cara Virginia...
—Povera Virginia! sospira la marchesa, crollando la testa coll’espressione del più vivo dolore.
—Malata?...
—Peggio!
—Qualche ostacolo... qualche impedimento alle nozze?...
—Hai proprio indovinato, mia buona amica. Queste nozze sono divenute impossibili!...
Donna Letizia Novena torce gli occhi[143] verso la soffitta, mormorando una giaculatoria in latino.
—L’ho sempre detto io, prorompe la contessa; l’ho sempre detto che quando nel mondo si incontrano due esseri come il cavaliere Albani e la tua Virginia, fatti l’uno per l’altra, creati per intendersi, per amarsi, per adorarsi, per esser felici... sul più bello il diavolo ci mette la coda!...
—Pur troppo, mia buona amica!... Il diavolo questa volta ci ha messo proprio la coda... ma una coda vera... reale... una coda mostruosa... spaventevole!
E qui donna Fabia si fa a ripetere parola per parola quanto le venne rivelato dal reverendo parroco, non mancando, per amore dell’effetto, di allungare altre due dita alla coda dell’infelice fidanzato.
Chi potrebbe indovinare quali diaboliche fantasie si destassero nella mente di donna Letizia Novena in udir[144] proferire la parola: coda! Ella fu sul punto di svenire...
—Oh! ma s’ha da sentirne ancora! sclama la vecchia bigotta coprendosi il volto colle palme. I preti hanno ragione di predire che il finimondo è vicino! Un uomo colla coda dev’essere indubitatamente l’ anticristo.
—Io non credo alle baje del finimondo e dell’anticristo, soggiunse la contessa, ma credo che un uomo colla coda non abbia diritto di chiamarsi uomo...
—E voi comprenderete, mie buone amiche, prosegue la marchesa coll’accento della disperazione, che io non potrò mai permettere a mia figlia... di avere commercio con un animale privilegiato di un organo, che suol essere il distintivo dei bruti...
—Capperi! hai ragione! La povera Virginia morrebbe di spavento!...
E le tre donne stettero parecchi minuti a guardarsi l’una l’altra in silenzio...
La mente umana, e più spesso la mente femminina, si lascia talmente soverchiare dalle inattese impressioni, che in luogo di esaminare i fatti ed i principii, trascorre immediatamente alle conseguenze, balzando così dall’abisso all’abisso. La contessa Passeroni, dopo breve silenzio, riportò la questione sul vero terreno.—È egli possibile che un uomo abbia la coda? E quando ciò fosse possibile, avete voi qualche prova che il signor Lodovico Albani goda veramente di questo privilegio?
Donna Letizia Novena avrebbe creduto peccare investigando tali misteri. Ella si tacque, e cercò distrarre il pensiero dallo scandaloso argomento, meditando una parabola del vangelo.
La marchesa cominciò a riflettere seriamente...
—Mia buona amica, prese a dire donna Marta... A me pare che prima di rompere le trattative di matrimonio,[146] innanzi di contristare la buona Virginia e di suscitare uno scandalo in paese, convenga accertarsi del fatto, e averne qualche prova. Forse don Cecilio Speranza fu tratto in inganno da qualche malevolo... Questa coda nessuno l’ha veduta... nessuno l’ha toccata... Hai detto che il signor Lodovico Albani ha dovuto fuggire da Pavia in grazia della coda... Ebbene! si scriva per telegrafo a Pavia! Io conosco il signor Frigerio, socio del club repubblicano, un novelliere, un chiaccherone che non ha il suo pari... Egli potrà informarci d’ ogni cosa... Fra pochi minuti avremo una risposta... Se coda esiste, a monte il matrimonio!
—Questa è proprio una buona ispirazione, dice la marchesa.—Presto!... Si spedisca il dispaccio... Il cavaliere Albani deve tornare domattina... Prima ch’egli rimetta il piede nella mia casa, avremo nelle mani le prove di fatto...
La marchesa suonò il campanello, ed ordinò a Clementina di chiamare il maggiordomo.
Questi, che già sapeva l’istoria della coda, entrò nella sala con quell’aria di falsa compunzione, che i domestici sanno fingere tanto bene quando ai padroni tocca una sciagura.
—Canella: va all’ufficio del telegrafo, disse la marchesa, e spedisci questo dispaccio... Trattasi d’ uno scherzo, d’ una burla che si vuoi fare al signor Albani... Sopratutto il massimo silenzio...
Il maggiordomo, appena uscito dalla sala, si arrestò nella camera per leggere lo scritto.
—Dunque Clementina non si è ingannata... Dunque c’è proprio di mezzo una coda! il dispaccio parla chiaro:
Signor Frigerio—Persone interessate chiedono se cavaliere Lodovico Albani abbia sei dita coda. Risposta subito.
Contessa Marta Passeroni.
E il maggiordomo corse all’ufficio del telegrafo come avesse le ali...
La risposta si fece attendere tre quarti d’ora... Donna Letizia Novena, malgrado i suoi scrupoli, malgrado il profondo orrore ch’ella avea manifestato per lo scandaloso avvenimento, offrendo al signore un sacrificio di insolita pazienza, rimase immobile sul suo seggiolone...
La marchesa guardava ad ogni tratto il pendolo dorato che stava sul camino... Contava i minuti... imprecava alle lentezze del telegrafo.
La Passeroni, meditando in segreto sulla natura del nuovo fenomeno, avea concepito una specie di simpatia per la coda del signor Albani. Ella avrebbe speso mille franchi per vedere co’ propri occhi qual sia l’effetto d’una coda applicata ad un essere ragionevole...
Finalmente i tre quarti d’ora trascorsero... Il maggiordomo rientrò nella sala col dispaccio suggellato...
Donna Fabia lo aperse tremando...
Attratte al medesimo centro per impulso di curiosità magnetica, le teste delle tre donne si urtarono...
Lorenzo Frigerio, il fiero repubblicano di Pavia, interpretando a suo modo il dispaccio della contessa, avea succintamente risposto:
Albani Lodovico due braccia coda —perciò segretario Intendenza, presto deputato.
—Due braccia di coda! sclamò il maggiordomo.
La marchesa balzando impetuosamente dal seggiolone, sfogò i primi impeti della sua collera contro il curioso subalterno, apostrofandolo delle più violenti invettive.
—Povera marchesa! esclamò donna Marta, giungendo le mani.—Oramai non vi è più dubbio... Conviene rassegnarsi, ed agire...
Donna Letizia Novena uscì dalla sala inorridita.
—Due braccia di coda!!! Ma costui non può essere che il diavolo!
L’arrivo di una coda.
I mercanti chiudono le botteghe, gli impiegati desertano dagli uffizi, gli operai cessano dal lavoro.
Già da un’ora la piazza è gremita di curiosi...
Suona il mezzogiorno... Fra pochi minuti la vettura del Ciccino deve tornare da Milano; con quella vettura giungerà il cavaliere Lodovico Albani e la sua... coda.
—È dunque vero? chiede il calzolaio al suo compare falegname.
—Caspita, se è vero!... Il matrimonio è andato in fumo, e la marchesa ha dato ordine al portinaio che il signor Lodovico non debba metter piede in palazzo.
—Ma questa coda, chi l’ha veduta? chi l’ha toccata? domanda la moglie del parrucchiere.
—C’è chi l’ha veduta, c’è chi l’ha toccata, c’è chi l’ha misurata, risponde una vecchia. E una coda lunga tre braccia... Bisogna giuocare il tre di primo estratto... ovvero il settantaquattro (coda) e il ventisette (età del signor Lodovico).
Il medico del paese passeggia gravemente tra la folla in compagnia del sindaco, arrestandosi di tratto in tratto per rispondere alle interpellanze.
—Che ne dice lei di questa coda, signor dottore? S’è mai dato un fenomeno più strano, più sorprendente?
—Io non trovo nulla di strano, nulla di sorprendente a che un uomo abbia la coda. La natura è varia ed infinita nelle sue produzioni. Chi conosce le cause, non può meravigliarsi degli effetti. Io respingo l’opinione di quei dotti naturalisti, i quali pretenderebbero che l’uomo ab origine fosse animale codato, e che, degenerando le razze, egli abbia insensibilmente perduto questo accessorio parassita. Ma come in cielo fra milioni e milioni di astri scodati, vediamo a certe epoche apparire delle comete con una coda incommensurabile, così non trovo ragione a sorprendermi che il signor Lodovico Albani riproduca nella specie umana questo grande fenomeno, che più volte vedemmo ripetersi nelle regioni celesti.
Mentre il vecchio Galeno della borgata spaccia, a chi degnasi interrogarlo, siffatte teorie, e spiega le misteriose influenze degli appetiti o voglie[153] femminine, le cause degli aborti e delle mostruosità; il contino Tiburzio trapassa rapidamente dall’uno all’altro gruppo, tutto lieto del proprio trionfo. Per istornare ogni sospetto, egli interroga, sorride, crolla la testa, da la baia a questi e a quello, perfino a donna Marta Passeroni, che in tutta confidenza gli ha mostrato il dispaccio del signor Frigerio.
Don Cecilio Speranza e Don Domenico Crescenzi hanno anch’essi le loro buone ragioni per mostrarsi increduli. Il secondo è venuto sulla piazza, ma si tiene in disparte, evitando d’immischiarsi alle conversazioni. Il parroco è trattenuto in chiesa da donna Letizia Novena, la quale ha voluto consultare il suo direttore spirituale per un brutto sogno che ha fatto la notte a proposito della coda.
Ma un grido sorge dalla massa... poi silenzio solenne... Tutti gli occhi si convertono verso il fondo della contrada,[154] ove la vettura del Ciccino entra rumorosamente. Perchè mai questa folla? chiede a sè stesso Lodovico Albani, mettendo il capo agli sportelli della carrozza.—Questa buona gente vuoi forse darmi una prova di simpatia... Eh! non vi è dubbio!... Si grida: viva lo sposo!... Grazie... bravi e buoni popolani... Io non credeva meritare sì cortese dimostrazione...
La vettura entra nell’albergo del Pavone... Tutti i viaggiatori discendono... Lodovico Albani, leggiero come un daino, balza di serpa in un salto...
Sbalordito dalla stanchezza, dal sonno, dall’appetito, il giovine fidanzato non si accorge della ironica espressione dei volti.
Egli non può udire gli epigrammi sommessi dei circostanti... Se qualche strana parola gli ferisce l’orecchio, è ben lungi dall’immaginare che a lui sia diretta.
Nello scendere dalla vettura, la[155] mente del giovane sposo fu però contristata da una grave sorpresa. Perchè mai donna Fabia non è venuta ad incontrarlo? Dov’è l’amabile Virginia? Ella sapeva del mio ritorno. Come avviene che ella non si trovi qui a farmi festa, mentre tutto il paese si è mosso? Ma ecco l’amico Tiburzio... Egli forse potrà darmi novelle... Ben trovato, mio caro contino...
—Ben trovato, cavaliere!
I due titolati si danno di braccio, e insieme attraversano la folla, mentre da ogni parte crescono le risate e i motteggi.
—Vedete come egli cammina! dice il calzolajo... Eh! non deve essere molto comodo il portarsi attorno tre braccia di quella mercanzia!
—Ei deve trovarsi meglio di presente che non poco dianzi nella vettura...! dice un altro.
—Io non so comprendere—osserva il barbiere—io non so comprendere[156] dov’egli possa collocare tutta quella roba... Probabilmente è una coda a criniera come l’hanno i cavalli.
—Scommetto che ei la striglia ogni mattina e la riduce a gomitolo...
—Eh! non v’ha dubbio, dice il sartore. Se ben gli guardate, vedrete, che il paletot gli fa una piega molto pronunziata presso la spaccatura.
—Povero Lodovico! sospira la Passeroni. Quel giovine ora mi interessa più che mai... Sì elegante! sì bello!... Io poi... non avrei tanta paura di una coda... io!
Lodovico saluta colla mano e col sorriso quanti gli occorrono per via, ma egli è troppo interessato a chiedere notizie della sua Virginia, per comprendere il senso di quelle strane conversazioni.
—Tu dunque non sei più tornato in casa della marchesa? chiede Lodovico al contino.
—Durante la tua assenza, ho creduto mio dovere l’astenermi...
—– Ma in paese non sarebbe corsa qualche sinistra notizia?
—No... ch’io mi sappia... Ma ieri e ier l’altro io sono stato a cacciare nelle paludi di Ticino in compagnia di alcuni amici... A dir vero, anch’io mi sono meravigliato di non vedere la tua Virginia presso la vettura...
Usciti dalla folla, al primo svolto di contrada, il conte trovò un pretesto per allontanarsi da Lodovico. Questi raddoppiò il passo, e pieno il cuore di tristi presentimenti, si diresse alla propria abitazione.
Sulla porta stava ad attenderlo una donna, Clementina, la cameriera di donna Fabia, la confidente di Virginia, altre volte messaggiera d’amore, ed ora di sventura.
Il volto di Clementina annunziava disastri.
—Mio Dio!... che sarà mai?
—Entriamo! che niuno ci vegga parlare insieme, disse la fida ancella.—Io sarei perduta.
—Vieni nella mia camera, Clementina...
—Non posso... Non ho tempo... Povera signora Virginia!
—Che è dunque avvenuto?...
—È avvenuto, signore... che qualche birbone... qualche vostro nemico ha scoperto ogni cosa... Voi mi intendete... signor Lodovico!... La marchesa sa tutto! La signora Virginia sa tutto! Il signor curato sa tutto! In tutto il paese non si parla che di questo brutto affare...
—Ma... spiegati, mio Dio!... Cosa si è saputo?...
—Eh! via! non stiamo a fare delle scene... Io non ho tempo da perdere... La mia povera padroncina è là che piange, che si dispera, che si strappa i capelli...
—Oh! presto! corriamo da lei...![159] esclama Lodovico, muovendo per uscire.
—Ci mancherebbe altro, signor cavaliere, per accrescere lo scandalo!... Io sono espressamente qui per avvertirvi di non provocare altri guai... Il portinaio ha avuto ordine di non lasciarvi più entrare in casa della marchesa... Se voi vi presentaste, nascerebbe una scena... e al punto in cui siamo bisogna evitare nuove pubblicità!...
—Ma vorrai tu spiegarmi una volta, che vogliano dire tutte queste novità, tutti questi misteri?...
—Voi lo saprete questa notte... signor Lodovico. Virginia avrà forse il coraggio di parlare... Io non ho potuto resistere alle lagrime, alla disperazione di quella poverina. Ella dice che non è possibile... Ella sostiene che qualche vostro, o suo nemico vi ha calunniato... per mandar a monte il matrimonio...
—– Ah! trattasi dunque di una calunnia! sclama Lodovico... Ma che possono aver detto sul mio conto di tanto grave, che la marchesa mi chiuda l’accesso alla sua casa e mi tolga il mezzo di giustificarmi? In questo paese io non ho nemici... Io non ho mai fatto male ad alcuno...
—Eh!... lo sappiamo che finora non avete fatto male ad alcuno... Ma potreste farne... e molto... del male... alla signora Virginia!... signor Lodovico... Le ho detto che non ho tempo da perdere... Dunque, sbrighiamoci... Punto primo: non uscire di casa durante la giornata, e sopratutto guardarsi bene dal metter piede nel palazzo della signora marchesa. Punto secondo: questa notte, alle ore undici precise, trovarvi presso la porticiuola del giardino che mette al sagrato... Virginia verrà ad aprirvi... Io sorveglierò perchè nessuno interrompa il vostro colloquio... Voi vedete ch’io rischio di compromettermi[161] per voi... Non domando altro compenso che un po’ di sincerità da parte vostra... Guardatevi dall’ ingannarla, quella povera figliuola!... Franchezza! Schiettezza!...Coraggio!... Se non l’avete, tanto meglio... se l’avete, tanto vale una confessione sincera... Badate di non alterare la misura; poichè, braccio più, braccio meno, il matrimonio non avrebbe effetto...
Quella inesplicabile conclusione pose il colmo allo stupore di Lodovico...
Clementina non attese risposta, e disparve.
Non v’è più dubbio.
Virginia Santacroce, la fidanzata di Lodovico Albani, ha di poco oltrepassato il terzo lustro, ed è bella come un angioletto.
Non è sorprendente—a sedici anni poche ragazze son brutte. Ciò che forse recherà meraviglia è il sapere che Virginia Santacroce ha oltrepassato il terzo lustro nella ignoranza completa di certi misteri naturali, che oggidì la più parte delle fanciulle all’età di dodici anni hanno già indovinato per istinto.
È ben vero che Virginia non fu educata in collegio; che nei primi anni ella non venne affidata alla tutela di una badessa pinzocchera; che vivendo in una borgata, ove per caso non erano altre fanciulle di nobile casato, potè scansare le pericolose amicizie e la comunanza non meno pericolosa de’ primi sollazzi infantili.
Non di meno il fatto è meraviglioso, tanto più che alla tavola della marchesa pranzavano sovente il reverendo parroco don Cecilio Speranza e il di lui degno coadiutore don Domenico Crescenzi, morigerati entrambi e prudentissimi a tutte l’ore del giorno, fuor che nell’ora della digestione.
La semplicità, l’innocenza della giovinetta avevano più che la bellezza affascinato il cavaliere Albani. Nè più intimi colloqui colla fanciulla, Lodovico non si era permesso mai una di quelle parole, uno di quei motti ambigui, di che sembrano compiacersi i[164] giovani fidanzati alla vigiglia delle nozze. Quand’anche gli fosse sfuggita inavvedutamente una allusione meno sentimentale, Virginia non l’avrebbe compresa.
Senza tali premesse, il lettore si troverebbe molto imbarazzato a indovinare per quale accidente il notturno colloquio di Virginia e Lodovico riuscisse fatale ad entrambi.
Oh! perchè non ci è dato assistere a quella scena di sublime tenerezza, a quell’ingenuo abbandono di due anime santamente innamorate! Perchè non ci è dato riprodurre il dialogo vivo, animato, interrotto da lagrime, da sorrisi e baci più eloquenti d’ ogni parola?
Ma i due amanti erano celati dietro un cespuglio, e parlavano a voce sì bassa, che la fedele Clementina, stando di sentinella a poca distanza, non riusciva a comprendere un motto.
Il colloquio dei due amanti durò tre[165] quarti d’ ora... E verosimile che l’ingenua e timida fanciulla provasse una istintiva ripugnanza a profferire la parola in cui si racchiudeva la spiegazione del grande mistero...
La situazione era molto difficile... Una marchesa di sedici anni, una creatura poetica, innamorata, inebbriata di sublimi e caste illusioni, dover chiedere all’amante, all’essere adorato: è vero o non è vero che tu abbia la coda?!
Io mi appello a voi, o giovinette dall’anima pura ed ingenua—ditemi —non vi trovereste molto imbarazzate nel formulare una domanda di tal genere?...
La sventurata Virginia, dopo aver lottato per tre quarti d’ora contro sè stessa, finalmente ebbe il fatale coraggio...
Immaginate la sorpresa, lo stupore di Lodovico.
—Ella osa... chiedermi... se io abbia la coda?...
Tutta la poesia, tutte le illusioni, che da parecchi mesi alimentavano nel giovane la fiamma dell’amore, svanirono al suono di quella orribile parola.
Poco dianzi mi sono appellato alle fanciulle dall’anima pura ed ingenua;—ora mi appello a voi, o giovani dall’anima ardente.—Che avreste fatto, come avreste agito nel caso di Lodovico?
Una tale domanda mi dispensa da ogni spiegazione. Come si comportasse il giovine fidanzato, nessuno potè mai indovinarlo. Fatto è che Virginia, balzando poco dopo dal frondoso ricovero, qual se avesse toccata una serpe, gettossi fra le braccia di Clementina mandando un grido di dolore, mentre Lodovico si involava per la porticella segreta.
Il grido di Virginia fu udito.
La marchesa donna Fabia, che stava in quel punto alla finestra cogli occhi[167] fissi alla luna e la mente assorta nella coda, si riscosse, abbassò lo sguardo, e vide fra i platani del giardino correre una figura bianca... Il cuore materno indovinò che quella bianca figura non poteva essere che Virginia.
Sciagurata ragazza...! Ella avrà voluto abboccarsi col signor Lodovico... sapere da lui se... Ma quale imprudenza!... Quel grido mi ha commosso le viscere... Oh! bisogna ch’io sappia sul momento...
E la marchesa uscì da’ suoi appartamenti per correre alla stanza di Virginia...
La povera fanciulla si era gettata sul letto come persona affranta... E nondimeno, vedendo entrare la madre, ella ebbe la forza di levarsi, di correrle incontro e di gettarsele ai piedi per disarmarne la collera...
—Oh! che hai tu fatto... figliuola mia?... A quest’ora!... in giardino!... con un uomo... che forse non è uomo...!
—Per pietà... non rimproverarmi, non affliggermi d’avvantaggio, mia buona madre!... Confesso che io mi ebbi torto... e te ne chieggo perdono. Quando tu lo dicevi... avrei dovuto credere... senza bisogno di altre conferme... Mi era venuto un dubbio... Mi pareva tanto inverosimile che il mio Lodovico...
—Ed ora?...
—Ora non v’è più dubbio!
—Dunque egli stesso ha confermato?...
—Ma se ti dico, mamma... che non v’è più dubbio!
E all’indomani, per mezzo della solita messaggiera, Virginia inviò a Lodovico una lettera di formale congedo. Quella lettera non ammetteva repliche.
Due giorni dopo, il cavaliere Lodovico Albani lasciava la borgata di L.
La calunnia.
Scorsa una settimana, in sul sagrato della chiesa, il contino Tiburzio, incontrando il molto reverendo sacerdote don Cecilio Speranza, ebbe con lui il seguente dialogo:
—Sapete voi, don Cecilio, che è proprio un caso da rimanerne trasecolati?
—Io non ho la fortuna di comprendervi, signor conte!...
—Voglio alludere alla storia del povero Lodovico... all’affare della coda...
—Ebbene? vi par strano che la signora Virginia abbia ricusato di di sposare un mostro, un animale di genere neutro... un essere intermedio fra l’ uomo e la bestia?
—Non è il rifiuto di Virginia che mi sorprende, colendissimo e reverendissimo signor curato... Ciò che mi reca meraviglia è il sapere che Lodovico abbia realmente una coda...
—Che? non eravate voi sicuro prima d’ora?
—Io vi giuro, signor don Cecilio, che quando vi ho narrato quella sciagurata istoria della coda, io aveva intenzione di celiare... di fare una burla innocente... Non ho dunque ragione di sorprendermi in veder realizzato un fenomeno, che io non credeva esistesse fuorchè nella mia imaginazione?
Il reverendo cavò di tasca la tabacchiera—fiutò una presa di rapè, levando gli occhi al firmamento—poi,[171] traendo il contino presso il vestibolo della casa parrocchiale:
—Mio buon signore—gli disse con voce melata—se è vero quanto asserite, che la coda del signor Lodovico fu da voi inventata per celia innocente, conviene ammirare in questo fatto la mano sagace della provvidenza, la quale talvolta si serve di un errore per condurre i miseri mortali alla scoperta del vero... Il signor Lodovico era un uomo pericoloso... Le sue massime, i suoi principii potevano scandolezzare gli onesti abitanti della borgata... È bene ch’egli abbia dovuto ritirarsi... Sarà prudente non riparlare dell’accaduto, e lasciar correr l’acqua pel suo letto. Ciò che è fatto è fatto... Ricordatevi bene, signor contino—e don Cecilio fiutò una seconda presa di tabacco—ricordatevi bene, che quando noi preti ci mettiamo la coda, nè anche il diavolo può impedire che essa produca il suo effetto.
Il contino si inchinò profondamente, e, tornando alla propria abitazione, gli ricorse alla mente un testo latino ch’ gli aveva appreso in collegio dai reverendi padri gesuiti: calumniare! aliquid semper manet.—Il qual testo parafrasato verrebbe a dire: quando volete rovinare un galantuomo, inventate pure le più incredibili calunnie—e il mondo crederà sempre!
Una questione sociale della massima importanza sta dibattendosi in Europa e in altre parti del mondo incivilito.
Già da tempo i fogli francesi annunziarono istituita a Marsiglia una società di giovani scapoli, la quale si proporrebbe di correggere il soverchio lusso delle donne colla minaccia di chiudere ad esse ogni probabilità di[174] matrimonio. Questa Società, da quanto riferiscono i giornali, avrebbe trovato numerosi proseliti in Francia e in Inghilterra, ma in nessun luogo essa ha preso a svilupparsi più rapidamente e in proporzioni così vaste come in America.—Se dobbiamo credere ad una corrispondenza da Nuova York pubblicata dal Times, in quella città l’attitudine dei Celibi–massoni sarebbe tale da produrre un vero allarme nella gentile falange delle fanciulle da marito.
Questi Celibi–massoni, così tenacemente risoluti ad astenersi dalle dolcezze matrimoniali fino a quando le donne non abbiano dato prova di rinunziare al loro lusso smodato, nella sola città di Nuova York già sommano a trentacinquemila. E pare che facciano davvero; poichè nello scorso mese questa vasta e popolosa città non ha veduto celebrarsi che sessantaquattro matrimoni.
Che il lusso della donna sia fomite di corruzione, causa efficientissima di squilibri economici nelle famiglie e incentivo al delitto, questa è tale verità su cui non può cadere alcun dubbio. Tutte le statistiche criminali danno ragione all’arguzia strategica di quel celebre poliziotto francese, che ad ogni annunzio di crimine, soleva esclamare: cherchêz la femme!—Dietro un furto, dietro un falso di cambiali, dietro un assassinio, dietro un suicidio, è ben raro che non si celi una donna, una giovine e capricciosa donna, avida di moire, di gioielli, di equipaggi e fors’anche di bordeaux, di champagne e pasticci di Strasburgo.
La statistica accusa la donna inesorabilmente, e a ciò vuolsi attribuire questa singolare cospirazione del sesso forte contro il sesso debole, che ha dato origine alla setta dei Celibi–massoni.
Riconoscendo, come non si può a meno di riconoscere, il grave danno che deriva alla società dal lusso sfrenato della donna, è da approvarsi nei Celibe–massoni la moralità dello scopo, sebbene rimanga ancora discutibile la idoneità dei mezzi ch’essi prescelgono a conseguirlo.
V’è una quistione che innanzi tutto vuol essere risolta—sapere se la donna sia sola colpevole del suo lusso, ovvero se l’uomo, se il marito in ispecie, non sia la causa prima di quegli eccessi cui si vorrebbe por freno.
Prima di entrare per nostro conto in un dibattimento di tale natura, vediamo come altri lo abbia iniziato e con quale effetto. Trasportiamoci a Nuova York, e prendiamo parte all’ultimo meeting dei Celibi–massoni, dove un individuo del sesso accusatore (il signor Gozléz di Salamba, presidente della nuova società), e un individuo del sesso accusato (miss Conninghs[177] Hevers) gettano i preliminari di questa polemica che interessa tutto il mondo.
Il discorso del signor Gozléz di Salamba di tal modo viene riassunto dai giornali americani:
«Signori (volgendosi alle tribune esclusivamente occupate dai membri della società):
«Tutti i documenti che ci eravamo prefissi di raccogliere, per dimostrare le calamità provenienti dal lusso smodato delle donne, sono raccolti e fra poco verranno pubblicati. La infernale civetteria delle donne è divenuta il flagello della umanità.
«Oggimai non è più possibile ammogliarsi ad un giovane onesto e regolato nel vivere (sensasione).
«A vent’anni le giovinette esigono tal lusso, quali le madri non avrebbero mai sognato (verissimo!) Il cervello vuoto delle giovani non si nutre che di futilità dispendiose. Esse vogliono[178] ad ogni costo brillare, ignorano che la modestia è il più bel ornamento di una giovane (bravo!) e la sfacciataggiene sovviene in esse al difetto d’istruzione, che più non si curano di acquistare (approvazione). In tali condizioni, signori, qual giovine, che non possegga se non che mediocri mezzi per vivere, può avventurarsi in buona fede a prender moglie? S’egli si imbatte in una giovane fedele ai suo doveri (rara avis!) è ben certo di renderla infelice non soddisfacendo ai suoi dispendiosi gusti.
»Se s’imbatte in una donna meno scrupolosa—ed è il caso più probabile—che addiviene del suo onore? A qual prezzo viene acquistato il lusso con cui si abbiglia la sua consorte?... Il marito deve intraprendere delle speculazioni superiori alle sue forze per accontentare la civetteria sempre insaziabile della sua sposa, e la sua probità finisce per naufragare. Quanti[179] esempi non ne vediamo ogni giorno! In altri tempi vi erano delle donne che si occupavano delle cose domestiche; ve n’erano anche di quelle, che, in caso di bisogno, avrebbero prestato mano al capo di famiglia in ciò che il loro sesso comportava. Oggi avviene forse lo stesso? (no!) Le nostre donne non vogliono prendersi cura dell’andamento domestico, e preferiscono di vivere in locande o in pensioni ove la loro civetteria e la loro infingardaggine si sviluppano a tutto bell’agio e dove coll’ozio ad esse sopraggiungono i cattivi pensieri.
»Il povero marito è occupato de’ suoi affari; la moglie va girovagando pei negozi, sen va a passeggiare nel Parco o nel Broadway, e non avendo nulla a fare in casa, ha mille volte il tempo e la facilità di aumentare il suo lusso quocumque modo. Quanto a lavorare a punta di dita in caso di sventura, era una cosa buona per le[180] matrone del tempo passato. Una donna che lavora, foss’anche per nutrire i figli, non è più una lady; essa crederebbesi abbassata al livello de’ suoi domestici.
»I nostri antenati si ammogliavano per avere un focolare, una famiglia, dei figli. Chi si ammoglia ai giorni nostri rischia di non avere nè l’una cosa nè l’altra. Non un focolare, perchè le nostre signorine preferiscono la vita dei corsi alla vita domestica; non una famiglia, perchè le nostre mogli non hanno nè lo spirito, nè lo istinto dell’ordine, e ve ne sono di quelle che sacrificherebbero padre e madre ad un gioiello, ad un merletto, ad un cappello, ad un cachemire; e a più forte ragione sacrificherebbero un povero diavolo di marito (risa).
»Non figli, o almeno un numero limitato, perchè l’allevarli è dispendioso, perchè una signora coperta di raso e di merletti non vuol esporsi a[181] tenere un bambino sulle ginocchia, nè a lei parrebbe decente il trattare le fasce e i pannolini sudici colla mano infiorata di polvere di riso (benissimo).
»Innanzi a tali fatti, di cui niuno potrebbe negare la triste realtà, non è egli conveniente, o signori, per salvare la morale e sopratutto noi stessi, di fondare un’associazione che, pel suo numero, per la solidità de’ suoi principi, dia una lezione alle nostre giovani donne di Nuova York? (sì, bravo!) Questa associazione già esiste, noi ne formiamo l’anima, ma bisogna propagarla ed estenderla. È duopo mettere le signorine stravaganti in quarantena (sì! sì!) È mestieri pertanto proclamare che noi amiamo se non altro la semplicità; che non c’è bisogno, per piacerci, di spendere per un vestito la rendita di un mese ed anche di un anno! (bravo!) Rimanendo celibi, signori, noi ci guarentiamo da un flagello cento volte più a temersi del[182] colera e della peste. E voi vedrete che colla nostra risoluzione costringeremo le giovani a ravvedersi. Noi possiamo fare a meno di esse, elleno non potrebbero fare a meno di noi.
»Il giorno in cui il loro cuore si aprirà ai sentimenti del vero affetto, in cui il dollaro non sarà più il loro Dio; quando il buon senso sarà rientrato nel loro cervello, allora soltanto noi consentiremo a infrangere i nostri voti per immolarci nuovamente sull’altare dell’imene. Per ora, il nostro giuramento sia quello del perpetuo celibato. Morte al lusso! Viva le semplicità e l’economia! Non più matrimonio! Ecco la nostra parola d’ordine. (Applausi prolungati; tutti si precipitano in folla per congratularsi coll’oratore).
A questo discorso dell’onorevole presidente del meeting, altri ne seguirono più concitati e più violenti. Tutti i membri della società vollero prendere[183] la parola per lanciare una rampogna, un crudele sarcasmo contro il sesso incriminato.
Noi non riporteremo quelle invettive, le quali, per essere più spietate, danno una maggior evidenza ai fatti ed alle argomentazioni dell’onorevole Gozléz di Salamba.
Ma perchè la questione sia posata dinanzi ai nostri lettori in guisa da escludere per parte nostra qualsivoglia sospetto di parzialità, non indugieremo a riprodurre le vivaci proteste del sesso accusato, quali pel labbro di una avvenente donna vennero formulate in una breve arringa.
Miss Conninghs Hewers fu l’ultima a prendere la parola nel famoso meeting di Nuova York e—affrettiamoci a dirlo—i maggiori applausi furono per lei. Tutta l’indignazione di un sesso calunniato trabordava dal suo volto, dai suoi sguardi, dalla sua eloquenza fulminea. La leonessa ferita[184] ruggì terribilmente, e tutta l’assemblea mascolina n’ebbe terrore.
Alla fine del suo discorso, miss Conninghs Hewers fu portata in trionfo dalle fanciulle intervenute all’adunanza—e i molti giovani appartenenti alla setta dei Celibi–massoni si ritrassero col pentimento nel cuore.
Per parte nostra non ci lasceremo influenzare da questo trionfo dell’eloquenza femminile. Riconoscendo una parte di vero nelle parole proferite dalla giovane americana in difesa del proprio sesso e in accusa del nostro, attenderemo che i nostri spiriti si ricompongano a perfetta calma per proferire un giudizio definitivo.
Frattanto eccovi il discorso di miss Hewers:
»Di chi è la colpa, o signori?—ecco la questione—di chi è la colpa, domanderò io colla mia debole voce di donna—poichè voi, nell’impeto cieco dei vostri risentimenti, avete[185] obliato che questa dovrebbe essere la prima questione!—Avete raccolto dei documenti per dimostrare le calamità provenienti dal nostro lusso—e fu inutile fatica, o signori, perchè noi siamo le prime a convenire di questa deplorabile verità.
»Chi ha creato a noi donne la necessità del lusso, chi ha fomentato nei nostri cuori le ambizioni smodate? chi ci ha sospinte in questo vortice fatale che inghiotte tante vittime umane?—Voi... (tumulti e segni negativi dalle tribune massoniche). Voi... lo ripeto con tutta la mia voce, rinvigorita in questo momento dalla più ferma convinzione!.... Sì! il nostro lusso non è che una conseguenza inesorabile dei vostri disordini, delle vostre follìe—e poichè tutto si ha da dire—della vostra brutalità (sensazione).
»Voi avete torto di accusare le nostre esigenze giovanili. A sedici[186] anni non vi è fanciulla che domandi di soffocare sotto gli ornamenti artificiali le rose seducenti della sua primavera. Le fanciulle amano la semplicità—si sentono troppo forti delle loro attrattive naturali per invocare il soccorso delle stoffe e dei metalli. Una mussola di venti lire, un nastro di pochi soldi, un cappellino di paglia, due fiori—ecco ciò che domandano le fanciulle!—Tale è l’istinto di di questi giovani cuori pieni di poesia, che vi fanno l’onore—o bruti della specie mascolina—di credervi animali ragionevoli, dotati di qualche istinto gentile!
»Orbene: ditemi un poco, o grossi orangotani col cappello a cilindro—qual è di voi che riveli tanto buon gusto da apprezzare il semplice e modesto abbigliamento di una giovinetta?
»Le rose naturali di un freschissimo volto non hanno attrattive per[187] voi. Voi disdegnate i puri contorni, le forme palpitanti che si esprimono attraverso una gonnella di mussola e di lino.
»Voi correte all’artificiale ed al falso. Un volto di quarant’anni ingrommato di polvere di riso e di belletto, due sopracciglia affumicate, un cumulo di capelli che non osate chiamare parrucca, una crinolina vaporosa... ecco ciò che vi attrae, ciò che voi preferite.—Voi volgete le spalle alle vergini figlie della natura, e cadete in ginocchio davanti ad una guardaroba che vuol essere una donna!—Ci rimproverate il nostro lusso, e poi andate in estasi per una stoffa di broccato, e correte a baciare dei volti che ogni mattina si fabbricano una epidermide al prezzo di venti franchi (applausi).
»E quando noi diventiamo vostre mogli? È triste cosa per una donna quale io mi sono, dover rivelare certi[188] misteri dinanzi ad un’assemblea così numerosa. Ma io lo farò, perchè l’onore del mio sesso lo esige.
»Dopo aver consumato la vostra prima giovinezza nel libertinaggio e nelle crapule, corrosi dalle malattie, estenuati, qualche volta ributtanti per cicatrici ingloriose, voi ci elevate agli onori del vostro talamo glaciale, promettendoci delle dolcezze, che dopo un mese non sarete in grado di mantenerci (sensazione).
»L’onorevole presidente di questa assemblea ha osato accusare la nostra sterilità. Io lo pregherei di cercare nel suo sesso le origini di questo fenomeno, d’altronde naturalissimo! (Alcuni membri dell’assemblea abbassano la testa). Quei nostri antenati che si ammogliavano per avere dei figli, recavano alle loro donne dei mezzi abbastanza idonei allo scopo, non erano tanto stolti da esigere che tutto si facesse da noi. (Applausi prolungati dai banchi delle signore).
»Un focolare... una famiglia!—Siamo noi che vi ricusiamo le intime gioie del focolare domestico? Noi che passiamo nelle case la massima parte delle giornate—noi che nei primi mesi di matrimonio vi attendiamo alla notte colla trepidazione nel cuore, che corriamo all’uscio per ogni menomo rumore nella speranza di vedervi sopraggiungere—che vegliamo spesse volte infino all’alba colle pupille lacrimose, mentre voi gozzovigliate alla bettola per rientrare briachi a infastidirci di un amplesso impotente! (Il presidente dell’assemblea nasconde la faccia sotto il banco).
»E cosa venite a dirci? Qual è il conforto che voi recate al nostro amore? «Com’era bella questa sera la moglie dell’ambasciatore brasiliano col suo fulgido diadema di brillanti!... Com’era seducente la prima donna dell’opera italiana con quella sua bernouse tempestata di fiori d’oro!» E[190] osate perfino... osate rammentarci le mantenute, le cortigiane, tutta la mandra che si prostituisce... E vantando la loro civetteria, quasi ci animate a prenderne esempio!
«Vi rovinate per noi! Ciò può avvenire qualche volta, ma noi vi roviniamo per compiacervi. L’istigazione è partita da voi. La nostra semplicità, il nostro amore vi trova indifferenti—noi procuriamo di sedurvi, di tenervi legati a noi colle attrattive degli adornamenti, con quell’orpello che il vostro gusto pervertito apprezza più dell’oro.
»Che dirò poi dei fatui mariti, dei mariti capponi, dei mariti nati cervi, i quali non d’altro si compiacciono che di esporre le loro mogli all’ammirazione del pubblico, e vogliono dire ad ogni costo: mia moglie era la meglio abbigliata alla festa—la mia signora attirava tutti gli sguardi col prestigio della sua toilette—la[191] mia signora era l’idolo di tutti!—E poi si lagnano del lusso! E poi dicono che noi... siamo causa della loro rovina!...
»Poveri cervelli vuoti che non potete riconoscere la vostra insensatezza! Noi vi rechiamo una moglie, e i vostri pensieri, le vostre sollecitudini son tutti rivolti a farne una meretrice! (Sensazione profonda).
»Orbene, poichè siamo giunti a discutere le nostre ragioni ed i nostri torti, si sospendano pure le nostre relazioni.
»Le fanciulle di Nuova York si associno al vostro grido: non più matrimonio! E quanti sono in America e nelle altre parti del mondo cuori di donna che sentono la propria dignità, faranno eco al nostro voto!
»Rimaniamo pulzelle!—Se infino ad oggi abbiamo potuto transigere colla brutalità dei mariti nella illusione di poter incivilire questa razza—ora,[192] dacchè essi ingratamente e stolidamente ci accusano dei loro torti, non è più lecito verun accomodamento fra i due sessi.
»Vergini di Nuova York: la vostra linea è tracciata—abbominio a questi mostri che ci pervertono e ci accusano! abbominio ai mariti!»
Come abbiamo detto, alla fine della arringa, miss Conninghs Hewers fu portata in trionfo per le strade principali di Nuova York.
FINE DEL LIBRO SEGRETO.