The Project Gutenberg eBook of La legge del popolo Ebreo

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Title: La legge del popolo Ebreo

Author: David Castelli

Release date: October 4, 2014 [eBook #47046]
Most recently updated: October 24, 2024

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA LEGGE DEL POPOLO EBREO ***

[i]

LA LEGGE
DEL POPOLO EBREO

NEL

SUO SVOLGIMENTO STORICO

ESPOSTA

DA

David Castelli

IN FIRENZE

G. C. SANSONI, EDITORE


1884

[ii]
[iii]

LA LEGGE

DEL POPOLO EBREO

[iv]

LA LEGGE

DEL POPOLO EBREO

NEL

SUO SVOLGIMENTO STORICO

ESPOSTA

DA

David Castelli

IN FIRENZE

G. C. SANSONI, EDITORE


1884

[v]

PROPRIETÀ LETTERARIA

Tip. Carnesecchi—Firenze—Piana dʼArno

[vi]


ALLA
CARA E VENERATA MEMORIA
DI MIO PADRE


[vii]

INDICE

Prefazione Pag. ix
Capitolo I. Concetto tradizionale della legge ebraica » 1
Capitolo II. La legge contenuta nel Pentateuco non è opera di un solo autore » 25
Capitolo III. Cenno sulle conclusioni della critica intorno alla composizione del Pentateuco » 53
Capitolo IV. Il Decalogo » 61
Capitolo V. Il primo codice e alcune Novelle » 87
Capitolo VI. Della relazione cronologica fra le leggi del Pentateuco. Altre Novelle al primo codice. Riti di purità per i cibi. Riti per le malattie corporali. Nazireato » 149
Capitolo VII. Altre Novelle al primo codice » 175
Capitolo VIII. Il secondo codice, o la compilazione legislativa del Deuteronomio » 207
Capitolo IX. Il codice di Ezechiele. Il codice sacerdotale » 321
Indice alfabetico » 415

[viii]
[ix]

PREFAZIONE

Quegli scrittori che hanno trattato della legge ebraica, o lʼhanno considerata come un sol tutto, esponendola per logico ordine, e facendone la divisione per materie, come un codice, o ne hanno fatto una discussione critica, esaminando i varii gradi della sua successiva formazione.

In questo scritto ci siamo proposti di fare nello stesso tempo lʼesposizione della legge ebraica e la sua storia critica. Ma di necessità ne conseguiva che nella esposizione non si potesse tenere un ordine logico, ed invece si seguisse quello cronologico. Oltrechè il metodo di esporre per ordine di materie la legge ebraica, come fecero a cagione di esempio il Michaelis, il Salvador, il Saalschütz, anche se lʼautore avverta quali parti di ogni legge siano antiche e quali più recenti,[x] ha lʼinevitabile inconveniente che al lettore apparisca come composta tutta in un medesimo tempo, e come un codice che abbia in ogni tempo regolato la vita del popolo ebreo. Mentre la storica verità è ben differente.

La legge ebraica è passata a traverso parecchi gradi di formazione, e quella che reggeva lo Stato giudaico nei tempi posteriori allʼesilio babilonese è tuttʼaltra da quella che governava gli Ebrei nel primo loro stabilirsi sulla terra di Canaan. Una esposizione della legge ebraica, che non tenga conto di questa successiva evoluzione, imprime di necessità un errore di fatto nella mente dei lettori, non molto diverso da quello che volesse far credere i Romani di Servio Tullio retti dalle leggi del Corpus juris. Quindi nella parte espositiva abbiamo seguito passo per passo le successive raccolte legislative, che abbiamo o tradotto, o analizzato, senza per lo più alterare, tranne che nel codice sacerdotale, lʼoriginale distribuzione,[1] per presentare così un concetto fedele del modo come presso gli antichi popoli semiti si componevano i codici.

Si pensi poi che è molto facile una distribuzione per materie secondo il nostro modo di concepire;[xi] ma altro non si fa, se non sostituire una disposizione artificiale a quella naturale, un sistema inorganico a un organico svolgimento. Le varie raccolte della legge ebraica sono nate in un certo modo e con un certo ordine, e questo stesso fa dʼuopo rappresentare e far rivivere nella mente del lettore, non disporle in racconciamento artificiale, che a noi può sembrare più logico, ma che toglie loro la vita.

Non ci dissimuliamo glʼinconvenienti, che dal modo da noi preferito possono derivare; e in prima quello di cadere in alcune ripetizioni, trovandosi gli stessi argomenti più volte trattati nelle successive raccolte di leggi. Ma, se queste ripetizioni sono nellʼoriginale, non è inopportuno che si vedano, almeno in parte, anche nello scritto di chi ne vuol fare fedele esposizione. Diremo poi che ci siamo studiati nel modo della trattazione che queste ripetizioni fossero e per numero quanto mai poche, e per estensione quanto mai brevi.

Il secondo inconveniente sarebbe la difficoltà di poter ritrovare le varie leggi, non essendo logicamente distribuite; dimodochè lo studioso non saprebbe come cercare quella che potrebbe desiderare di conoscere, senza dovere scorrere tutto il libro. A questo crediamo di aver riparato con un indice alfabetico.

[xii]

Ma nellʼesporre il codice sacerdotale abbiamo invece seguito un metodo logico distribuito in materie, e ciò per due ragioni. In prima, perchè lʼargomento, quasi tutto rituale, già tedioso e affaticante per sè stesso, sarebbe divenuto insopportabile, se si fosse seguito il diffuso modo del testo, non solo pieno, ma riboccante di oziosissime ripetizioni. In secondo luogo, perchè fra le tre principali raccolte di leggi tramandateci nel Pentateuco, certo il codice sacerdotale ha meno conservato la sua forma primitiva, e quindi meno si richiedeva seguirlo nella sua presente distribuzione.

Oltre le leggi del Pentateuco si contengono importanti disposizioni nellʼultima parte del libro profetico di Ezechiele, e anche queste abbiamo prese in esame; perchè altrimenti sarebbe rimasto un vuoto nella cronologica esposizione, che ci siamo proposti come nostro subbietto.

Le leggi poi e i riti della Scrittura sono stati grandemente ampliati e modificati nel Talmud, vera enciclopedia religiosa e civile del Giudaismo. Ci è sembrato quindi necessario tener conto di queste modificazioni, e a mano a mano insieme con ogni legge e con ogni rito scritturale far conoscere lʼinterpretazione talmudica, che spesso è un totale cangiamento o una importante aggiunta. Imperocchè se questo non si fosse fatto, il[xiii] lettore avrebbe potuto credere che anche nelle ultime età il Giudaismo si fosse retto secondo le prescrizioni della Bibbia intese nel loro significato letterale; cosa anche questa molto lontana dal vero.

Ma era necessario dallʼaltro lato usare in questa parte una grande temperanza; perchè seguire il Talmud nel suo molteplice e minuzioso rituale sarebbe stata impresa da un lato troppo vasta, e dallʼaltro tediosa e di poco profitto.

Perciò abbiamo esposto le principali modificazioni introdotte dal Talmud nelle leggi civili, e in quanto al rito accennato soltanto i punti di più capitale importanza; sopra gli altri abbiamo prestamente sorvolato, certi che questo fosse il mezzo per non indurre soverchia sazietà nei lettori.

Abbiamo sempre indicato le precise fonti originarie talmudiche, citando i singoli trattati del Talmud babilonese, e quando ci è accaduto di dover ricorrere a quello gerosolimitano, o lo abbiamo esplicitamente nominato, o indicato con la sigla T. G. Oltre il Talmud propriamente detto abbiamo tenuto come fonti di diritto talmudico gli antichi rabbinici commenti al Pentateuco sotto il titolo di Mechiltà sullʼEsodo, di Sifrà sul Levitico, e di Sifré sul Numeri e sul Deuteronomio. Talvolta è stato necessario citare anche la[xiv] Tosaftà, che è una aggiunta alla Mishnah prima compilazione rabbinica sulla quale il Talmud fu formato. Se poi oltre queste fonti originali abbiamo dovuto ricorrere ai posteriori trattatisti, abbiamo in generale preferito ad ogni altro il Maimonide, perchè la sua opera è certo il compendio del Talmud più ordinato e più compiuto; ma non abbiamo trascurato nemmeno gli altri, ove è sembrato opportuno, e specialmente abbiamo citato il Caro, perchè la sua compilazione fu accettata generalmente dagli Ebrei come un vero codice religioso e civile. Questo intorno alla parte espositiva.

Nella parte critica abbiamo procurato di essere sobrii, compendiando i principali argomenti che cʼinducono a credere la successiva formazione della legge ebraica essere avvenuta nel modo da noi tenuto più probabile, se non apoditticamente dimostrato più vero; e nelle note sono sempre accennati gli scrittori che più ampiamente ne hanno discusso.

Scrivendo in Italia, dove generalmente si vive, anche tra le persone colte, nella più incurante ignoranza, non solo dei moderni studi biblici, ma di ciò che sia la Bibbia in sè stessa, abbiamo creduto necessario dover dare maggiore estensione alla parte espositiva, perchè niun lettore potrebbe intendere la critica di ciò che non conosce.[xv] E dallʼaltra parte, a chi legga con attenzione, anche il vedere quali siano state le leggi del popolo ebreo è validissimo argomento a persuaderlo del modo generale come siansi successivamente formate.

Sul quale punto però dobbiamo avvertire che un più accurato studio delle recenti critiche ricerche ci ha fatti persuasi di ciò che da prima non tenevamo vero, e di che poi lungamente abbiamo dubitato, cioè che il Deuteronomio sia anteriore a gran parte delle leggi contenute nellʼEsodo, nel Levitico e nel Numeri. Questʼopinione sostenuta da valentissimi critici è oggi anche da noi seguita come quella che meglio di ogni altra può spiegare la formazione della legge ebraica.

Sappiamo benissimo che questi studii presso di noi Italiani non destano verun interesse, che a molti sembrano inutili, e a qualcheduno perfino ridicoli. Ma se penseremo che vi è qualche cosa di serio a studiare nella storia delle religioni, ci persuaderemo ancora che è di massima importanza la cognizione scientifica del Vecchio e del Nuovo Testamento. Cognizione della quale tanto più si dovrebbe sentire il desiderio, quanto più si è scettico. Imperocchè lo scetticismo vero e serio non consiste nel deridere le religioni e nel dispregiare i documenti che ce le hanno[xvi] tramandate, ma nello studiarle con animo pacato e nel giudicarle con criterio sereno.

Quale ingegno più scettico dellʼHeine? Eppure quando un giorno per caso prese a rileggere la Bibbia, esclamò: «Che libro! grande e vasto come il mondo, colle radici negli abissi della creazione, colla chioma negli azzurri segreti del cielo..... Aurora e tramonto, promessa e adempimento, nascita e morte, tutto intero il dramma dellʼumanità è in questo libro».[2]

Firenze, Settembre 1884.


[1]

Capitolo I

CONCETTO TRADIZIONALE DELLA LEGGE EBRAICA

Quando si tratta della legge degli Ebrei, si deve intendere non solo quella civile e criminale, ma anche quella religiosa, cioè i dogmi e i riti che riguardano alle credenze e al culto. Imperocchè sotto il nome generico di legge gli Ebrei hanno sempre compreso tutte le varie disposizioni che regolano la vita, non solo nelle relazioni degli uomini fra loro, ma anche in quelle verso Dio, sia come individui, sia come nazione.—Questa legge ebraica è esposta, per ciò che concerne le sue basi fondamentali, nei primi cinque libri del Vecchio Testamento, detti perciò Pentateuco, e comunemente dalla tradizione religiosa attribuiti a Mosè. I quali, sebbene contengano non piccola parte di argomento narrativo, pure sono chiamati per eccellenza la Legge, in ebraico Torah, parola che primitivamente aveva il significato dʼinsegnamento, dottrina; ma quindi ha acquistato quello di legge, quasi volesse dirsi insegnamento divino, dottrina per eccellenza. Nè questo nome di legge dato ai primi cinque libri del Vecchio Testamento può dirsi improprio per il[2] fatto che essi contengono una gran parte anche di narrazione. Imperocchè, a chi bene osservi, chiaro apparisce che la parte narrativa, ancorchè non forse per estensione, certo per importanza, nella mente di colui che a questi cinque libri dette la presente forma, sta come qualche cosa di accessorio, che serve alla legge come di occasione, e direi quasi come cornice del quadro. Però si può benissimo nello studio critico dei cinque libri detti mosaici separare la parte legislativa da quella narrativa, e studiarla come un tutto in sè compiuto e indipendente; sebbene sarà necessario far cenno anche di questa, se non per il suo interno contenuto, certo per ciò che riguarda il modo della sua formazione e compilazione, in quanto colle leggi la troviamo oggi intrecciata e connessa.

Incominciamo dal vedere quale sia il concetto religioso tradizionale sulla formazione e sullʼindole di questa legge, e perciò prescindiamo per ora da ogni quistione critica sulla età, sullʼautore, e sulla unità di composizione del Pentateuco. Siffatte quistioni saranno esposte e discusse a suo luogo: prendiamo per ora la legge quale nel Pentateuco stesso ci viene presentata.

Se la legge veramente detta non può trovarsi nel Pentateuco, prima che il popolo ebreo cominciasse ad avere almeno glʼinizii di una vita nazionale, che è quanto dire dopo lʼescita dallʼEgitto, non è però che nel disegno generale del Pentateuco, questa legge data al popolo sia senza precedenti e nella vita dei patriarchi del popolo stesso, e anche, risalendo più alto, nei patriarchi ancora di tutto il genere umano. La rivelazione nella mente dello scrittore, o per meglio dire, degli scrittori del Pentateuco, non è un fatto che[3] incominci con Mosè, ma si fa risalire invece fino alle prime origini dellʼuomo. Soltanto una decadenza morale, in prima dei protoplasti, poi dei loro discendenti, avrebbe cagionato una limitazione sempre più ristretta della comunanza del Creatore con le creature. La quale comunanza ci viene rappresentata come un vero e proprio patto fra Dio e lʼuomo. Non è un contratto sociale come quello immaginato da Rousseau e dai politici teorici e metafisici del secolo passato; ma un contratto teocratico, nel quale Dio promette allʼuomo certi beni, purchè egli obbedisca a certi suoi comandi.

Vediamo i protoplasti, quali nel Vecchio Testamento ci sono rappresentati nel Paradiso terrestre, appena esciti dalle mani del Creatore.

Qui nel testo la parola patto non è scritta, ma vi è la sostanza e la forma di un vero contratto. Dio promette al primo uomo e alla sua compagna una perpetua felicità, a patto però che obbediscano a un suo comando. Non è qui luogo a ricercare quale significato questo comando possa avere; tale quistione è dʼindole del tutto mitica e teologica, e però qui ce ne passiamo; ma fatto sta che un patto fra il Creatore e i protoplasti sarebbe avvenuto. Adamo ed Eva mancano al patto, infrangono il comando divino, e quindi la promessa felicità viene ad essi a mancare.

Questo è un mito che non può dirsi particolare del popolo ebreo, nè delle genti semite: ormai da altri è stato dimostrato con ricca ed accurata erudizione, come sotto forma più o meno diversa questo mito si trovi nelle credenze di quasi tutti i popoli.[3] Ma gli scrittori ebrei, postolo a capo delle loro tradizioni religiose,[4] hanno saputo riconnetterlo con la loro storia, sebbene, cosa molto notevole, in tutto il Vecchio Testamento non si trovi mai menzione del peccato originale, se non forse in due brevi allusioni, una presso un profeta dellʼetà assira[4] e lʼaltra presso un altro profeta dellʼetà dellʼesilio babilonese,[5] se pure quelle frasi non debbano ancora intendersi in altro significato.

Rotto in prima il patto dai protoplasti, e caduto poi il genere umano in più profonda corruzione, e distrutto per ciò dal diluvio, mito anche questo comune a quasi tutte le genti,[6] Dio rinnuova il patto con la sola famiglia superstite alla totale distruzione. Noè e i suoi figliuoli, dopo esciti dallʼarca, offrono a Dio un sacrifizio, ed Egli promette che non più avrebbe maledetto la terra per cagione dellʼuomo, non più avrebbe distrutto ogni vivente, e le stagioni non avrebbero più cessato di avere il loro corso (Genesi, viii, 20–22). Ma in unʼaltra narrazione troviamo la sanzione di questo patto in diverso modo esposta, e qui per la prima volta non solo troviamo la cosa, ma anche la parola. Fra Dio e i Noachidi si fa un vero patto; berith, dice il testo ebraico, e patto è il significato di questo vocabolo.

Il patto è che Dio non distruggerà più col diluvio il genere umano nè il rimanente del creato, e impone di ricambio ai Noachidi non più un mitico comando, di cui non bene si coglie il significato, ma la legge, che è base prima di ogni civile consorzio, cioè il rispetto della vita altrui, la proibizione dellʼomicidio,[5] sotto pena al trasgressore di essere anchʼegli ucciso. «Chi versa il sangue dellʼuomo, per mezzo dʼuomo il suo sangue sarà versato» (Genesi, ix, 6). Ma quasi ciò non bastasse a mitigare la ferocia di quegli uomini primitivi e rozzi, sarebbe stato proibito, secondo lo scrittore di questa parte del Pentateuco, anche il nutrirsi del sangue degli animali. Si dava il permesso agli uomini di mangiare degli altri animali la carne, ma non insieme col sangue. «Però la carne con la sua anima, col suo sangue non mangerete» (Genesi, ix, 4).

In queste due sole disposizioni sarebbe consistita, secondo il Pentateuco, tutta la legge imposta da Dio alʼ genere umano salvato dal diluvio.

È prezzo dellʼopera per altro accennare qui brevemente come nella molto più recente tradizione giudaica questa legge primitiva si sia più estesa, e come i talmudisti abbiano insegnato che non solo dopo il diluvio, ma anche ai protoplasti fosse stata imposta lʼosservanza di sette precetti, detti dei Noachidi, dando a questa parola non il ristretto significato di discendenti di Noè, ma di tutto il genere umano, prima e al di fuori del popolo ebreo.

Questi sette precetti sarebbero stati, secondo il Talmud: 1o lʼobbligo di osservare le leggi civili; 2o di non bestemmiare Iddio; 3o di adorare un solo Dio e non con culto idolatrico; 4o di astenersi da unioni incestuose; 5o di non uccidere; 6o di non rubare; 7o di non mutilare un animale per cibarsene.[7] E col metodo dʼinterpretazione tutto proprio dei talmudisti[6] si pretende desumere lʼimposizione di questi sette precetti dal verso 16 del capitolo ii del Genesi, il quale però nel suo significato letterale e vero contiene soltanto il permesso di mangiare di ogni albero dellʼEden, tranne quello della scienza del bene e del male. Ma è cosa cognita ormai che i dottori del Talmud hanno dimostrato un ingegno tutto speciale per dare alle parole della Scrittura un significato molto diverso da quello proprio e genuino. E ciò sia detto una volta per sempre, imperocchè nel corso di questo nostro scritto, ponendo a confronto le disposizioni della legge scritturale con quelle sancite poi dal Talmud, ci troveremo troppo spesso a dover notare, che secondo questo si contengono nella Scrittura riti e leggi che in nessun modo furono nella niente di chi scriveva il Pentateuco.[8] Ma, introdottesi nel successivo svolgimento della vita religiosa e civile dellʼebraismo, e del giudaismo, i dottori del Talmud vollero anche a queste trovare un fondamento nella Scrittura, sebbene chiaro apparisca che in nessun modo vi sia. È questo il falso metodo di esegesi biblica formatosi nelle scuole talmudiche, il quale richiederebbe a sè solo uno studio speciale; ma basti qui lʼaverlo brevemente accennato.[9]

[7]

Dopo il patto della Divinità coi Noachidi avvenne, secondo la tradizione biblica, la dispersione delle genti, e quindi la vocazione di Abramo. Con questo primo patriarca del popolo ebreo Dio avrebbe stabilito un nuovo patto esposto in modo differente in due luoghi del Genesi. Secondo il primo (xv) questo patto sarebbe stato sancito mediante il sacrifizio di diversi ammali, e Dio avrebbe promesso ad Abramo che la sua discendenza, dopo una schiavitù di quattro generazioni, sarebbe sorta a libertà, e avrebbe conquistato la Palestina. Seguendo poi altra narrazione (xvii), il patto fra Dio e Abramo sarebbe stato sancito collʼimporre a questo e a tutti i suoi discendenti per la perpetuità dei secoli il precetto della circoncisione. Segno materiale della elezione fatta da Dio di questa stirpe, perchè gli fosse popolo fedele, a cui in ricambio avrebbe dato il possesso della terra di Canaan.

Notiamo intanto che nelle varie narrazioni del patto divino, tanto coi Noachidi, quanto con Abramo, secondo una di esse, la sanzione consisterebbe nellʼofferta del sacrifizio fatto dagli uomini alla Divinità, secondo lʼaltra, nella osservanza di certe leggi o di certi riti da Dio agli uomini imposti. Ma inoltre nel patto fra Dio e Abramo, se lʼuna narrazione pone il sacrifizio degli animali, lʼaltra pone la circoncisione, che è in qualche modo anchʼessa un sacrifizio cruento: anzi, secondo lʼopinione più accettabile, nullʼaltro che avanzo, mitigamento e simbolo dei sacrifizi umani e dei culti fallici, quando i costumi presso certe genti, come accadde presso gli Egiziani e presso gli Ebrei, sʼingentilirono, e si elevarono a più alta moralità.

Oltre il rito della circoncisione, il narratore di alcuni luoghi del Genesi vuol far risalire fino ai[8] tempi patriarcali lʼabborrimento per le unioni matrimoniali con le genti palestinesi, cosa che resulta da quanto vien detto rispetto al matrimonio dʼIsacco (xxiv), e poi anche a quelli di Esaù (xxvi, 34 e seg.) e di Giacobbe (xxvii, 46; xxviii, 1–9). Dimodochè questa, che in origine sarebbe stata soltanto una raccomandazione paterna, divenne in appresso una legge.

Il patto stabilito da Dio con Abramo sarebbe stato da prima rinnovato con Isacco (xxvi, 2–5) e poi con Giacobbe (xxviii, 10–22; xxxv, 9–15), ma senza lʼimposizione di nuovi precetti. Per altro, nel rinnovare la promessa col patriarca Isacco, Dio gli avrebbe detto che sarebbe mantenuta, in premio che Abramo aveva ubbidito alla sua voce, e osservato ciò che gli aveva imposto, i comandamenti, gli statuti e le leggi (xxvi, 5). Il senso letterale di questo verso è chiaro per chi non voglia portarvi lo spirito del sofisma. Lo scrittore biblico vuole con lʼesempio di Abramo esortare allʼobbedienza della legge divina; ma non ha certo inteso di dire che ad Abramo fosse stato imposto da Dio un numero di precetti, di statuti e di leggi. Anche qui però la fantasia dei dottori del Talmud non si è acquietata alla verità, e ha voluto sognare che tutta la legge, perfino i più minuti precetti rituali, erano stati da Abramo conosciuti ed osservati.[10]

Nel rinnovamento poi del patto col patriarca Giacobbe, questi avrebbe promesso, secondo una delle due narrazioni (xxviii, 22), di consacrare a Dio la decima dei suoi averi, ciò che prova che nella mente dello scrittore di questa parte del Genesi la consacrazione[9] delle decime si voleva far risalire fino ai tempi patriarcali, se non come un rito precisamente imposto, almeno come una pratica consuetudinaria.

Ciò che è narrato di Esaù e di Giacobbe starebbe a provare che si voleva altresì riportare fino alla stessa età il diritto di primogenitura (xxv, 31–34; xxvii, 36). Da un fatto poi avvenuto allo stesso patriarca Giacobbe, cioè da una lotta da esso sostenuta contro un essere, che non si sa bene dalla lettera del testo se debba tenersi come un uomo o come qualche ente soprannaturale, lo scrittore di questo luogo del Genesi dice a modo dʼincidente, che erasi stabilito nella gente dʼIsraele il rito di non mangiare il nervo ischiatico di qualunque animale, perchè in quella lotta al patriarca questo nervo era rimasto slogato, in modo da doverne andare zoppo (xxxii, 25–33).

La licenziosa narrazione del matrimonio dei due figli di Giuda, Er e Onan, con una donna di nome Tamar, e lʼincontro di questa con suo suocero, proverebbero lʼuso antichissimo del levirato, cioè dellʼobbligo di unirsi alla vedova del fratello morto senza prole. E così, secondo lʼesposizione che ora ne troviamo nella Scrittura, la legge nella età patriarcale si sarebbe ristretta a quanto fin a qui ne abbiamo accennato, che è ancora tutto quel poco che di argomento legislativo ritrovasi nel Genesi.

Lʼesistenza nazionale degli Israeliti incomincia, almeno in parte, colla liberazione dalla servitù dellʼEgitto; e da questo tempo troviamo, secondo la tradizione religiosa trasmessaci nella Scrittura, il principio della formazione della legge. Seguiamola per ora secondo il concetto tradizionale.

[10]

Mosè è lʼuomo prescelto da Dio a liberare il suo popolo, perchè rammenta il patto stabilito con i patriarchi di concedere alla loro discendenza il possesso della terra di Canaan (Esodo, iii, 15–17; vi, 3–8); e dopo le lotte da lui sostenute contro il Faraone, quando il popolo ebreo è sul punto di ottenere la sua libertà, le prime leggi imposte sono queste: 1o della fissazione del Calendario; 2o della offerta del sacrifizio della Pasqua; 3o di festeggiare questa per sette giorni, astenendosi da ogni pane lievitato; 4o della consacrazione a Dio dei primogeniti per rammentare che quelli degli Ebrei erano stati salvi nel totale eccidio dei primogeniti degli Egiziani (xii, 1–28, 43–50; xiii, 1–16).

Dopo il passaggio del Mar Rosso, nella prima stazione nei deserti dellʼArabia si parla di uno statuto e di una legge posta da Dio o da Mosè al popolo, ma non si spiega in che cosa questo statuto e questa legge consistessero (xv, 25), anzi dalla totalità del contesto pare che si parli soltanto di un generale avvertimento di prestare obbedienza agli avvertimenti del Signore. Però lʼinterpretazione talmudica anche qui vuoi trovare lʼinstituzione di alcune leggi determinate. Secondo alcuni sarebbero stati ripetuti i sette precetti dei Noachidi, più quelli dellʼosservanza delle leggi civili, del riposo del sabato e del rispetto verso i genitori; altri a questʼultima legge morale sostituiscono il rito della purificazione per mezzo della cenere della vacca fulva (Numeri, xix), e altri le leggi sulle unioni incestuose.[11] Ma siccome ognuna di queste leggi si trova poi a suo luogo singolarmente[11] istituita, questa interpretazione talmudica è da tenersi erronea, e da riporsi fra quelle tante che falsano la vera intelligenza del testo.

Difatti in quanto al riposo nel giorno del sabato, sarebbe stato per la prima volta ordinato nella occasione di raccogliere la manna, narrandosi che il giorno sesto della settimana ne avrebbero trovata doppia porzione, e nel settimo non ne avrebbero trovata punta, dovendo in quello riposare (xvi, 22–30).

Lʼassalto improvviso fatto dalla gente amalechita, e dal quale gli Ebrei a stento avrebbero potuto salvarsi, sarebbe stato occasione per comandare come legge che quando fossero stabiliti nella Palestina, pensassero a distruggere intieramente questo popolo, che aveva mostrato così fiera inimicizia (xvii, 8–16).

La venuta di Jetro suocero di Moisè fa che egli consigli al genero dʼistituire dei giudici nel popolo, per non troppo affaticarsi lui stesso a giudicare tutte le liti possibili ad insorgere. E sarebbero stati distribuiti questi giudici, come capi di diversa autorità, di mille, di cento, di cinquanta e di dieci uomini (xviii, 13–27).

Queste adunque sarebbero state le sole leggi dettate da prima per occasione al popolo ebreo innanzi la promulgazione di un vero corpo di leggi, come sarebbe stato quello del Sinai. Il quale, secondo la compilazione che adesso ne abbiamo, consterebbe 1o del Decalogo (xx, 1–17); 2o del rito intorno al modo di edificare lʼaltare (ivi, 23–26), ripetendosi ancora la proibizione di adorare idoli dʼargento o dʼoro; 3o di una serie di numerose leggi per la massima parte risguardanti la vita civile (xxixxiii), alle quali però si uniscono i precetti dellʼosservanza del sabato, quantunque[12] già imposta nel Decalogo, e quello delle tre solenni feste annue, cioè della pasqua dʼazzime, della festa della mèsse, e di quella della raccolta nellʼautunno, oltre pochi riti sui sacrifizi, sulle primizie e sulla proibizione di cucinare gli animali col latte della loro madre (xxiii, 12–19).

Alla esposizione di queste leggi fa seguito la solenne stipulazione del patto fra Jahveh e il suo popolo, sancito col sangue di un sacrifizio (xxiv, 4–8).

Questo doppio metodo di esporre ora leggi isolate, come fossero insegnate e stabilite per qualche occasione di fatto, e ora una serie di leggi, come formanti un più o meno esteso codice, si trova ripetuto nei tre libri di mezzo del Pentateuco. E in questo doppio metodo dovremo seguire anche noi il compilatore del Pentateuco fino che esponiamo il concetto tradizionale della formazione della legge.

Dopo la stipulazione del patto, Mosè sarebbe salito sul Sinai per ricevere da Dio le tavole di pietra, che pare debba credersi contenessero il Decalogo, e anche sentire le altre leggi. Per ciò è detto che vi si trattenne quaranta giorni. Ma nella presente compilazione del Pentateuco si trovano in questo luogo le prescrizioni risguardanti la costruzione del tabernacolo, i suoi arredi, lʼobbligo di accendere il sacro candelabro, gli abiti sacerdotali, la ceremonia della consacrazione dei sacerdoti, il precetto del doppio sacrifizio quotidiano a mattino e a vespro, il modo come comporre lʼolio sacro e le droghe per il profumo, il tributo per supplire alle spese del culto, la designazione degli artefici più abili alla esecuzione di tali opere, e finalmente una nuova ingiunzione di riposare nel giorno del sabato (XXVXXXI).

[13]

Il fatto che il popolo avesse adorato il vitello dʼoro, mentre Mosè era sul Sinai, avrebbe, secondo la narrazione della Scrittura, cagionato la rottura delle tavole, dove sarebbe stato scritto il Decalogo (xxxii, 19). Quindi, dopo il pentimento del popolo e il perdono concesso da Dio, nasce la necessità di scolpire altre due tavole, che, secondo la presente compilazione del Pentateuco, sarebbero state solamente copia delle prime (xxxiv, 1). Ma poi in questo stesso luogo dellʼEsodo (ivi, 14–26) troviamo comandarsi da Jahveh a Mosè una sequela di precetti religiosi, che già troviamo sparsi nellʼantecedente raccolta di leggi (xxixxiii), e non si saprebbe vedere perchè precisamente questi avrebbero dovuto ripetersi a preferenza di tutti gli altri.

La composizione delle nuove tavole richiede un secondo soggiorno di Mosè sul Sinai di altri quaranta giorni. Scorsi i quali, Mosè convoca il popolo, gli comanda di nuovo, quasi tutte le raccomandazioni passate non fossero sufficienti, il riposo del sabato, ingiungendo di più in questo luogo di non accendere nel settimo giorno fuoco in nessuna delle loro abitazioni; e quindi glʼinvita a fare offerta volontaria di quanto era necessario per edificare il tabernacolo, per i suoi mobili ed arredi, e per gli abiti sacerdotali (xxxv). Segue una minuta descrizione della esecuzione di tutte queste opere (xxxvixl), la quale, tranne lʼuso del verbo al passato, come si richiede in una narrazione, invece che allʼimperativo o al futuro, come doveva essere in un comando, è una pedantesca ripetizione di tutto quanto già precede nei capitoli xxvxxxi, sebbene in ordine alquanto differente. E con questa descrizione ha termine il libro dellʼEsodo.

[14]

Allʼedificazione del tabernacolo si dovevano connettere le disposizioni rituali del culto per ciò che risguarda la celebrazione dei sacrifizi, perchè, eretto il santuario, era necessario sapere qual culto era da praticarsi. E infatti il libro detto Levitico, che segue allʼEsodo, incomincia dalla esposizione minuta e particolareggiata dei riti di ogni specie di sacrifizii e di offerte, argomento che occupa i primi sette capitoli. Segue la consacrazione di Aron e dei suoi figli allʼufficio di sacerdoti (viii, ix), consacrazione che dura otto giorni. Viene quindi narrato il sacrilegio dei due figli dello stesso Aron, Nadab e Abihu, che ne sarebbero stati puniti da Dio con una morte non meno repentina che miracolosa; e in questa occasione viene imposto qualche altro rito risguardante la disciplina della vita sacerdotale e la pratica da seguirsi nel mangiare la carne degli animali sacrificati (x).

Alla consacrazione dei sacerdoti fanno seguito i precetti che concernono la santità di tutto il popolo. Perchè il concetto che predomina principalmente in questa parte del terzo libro del Pentateuco è quello di dovere il popolo ebreo formare una gente eletta consacrata a Jahveh. Lʼespressione fondamentale di questo concetto la troviamo già nella preparazione che precede la promulgazione del Decalogo sul Sinai (Esodo, xix, 5 e seg.) e anche nella prima compilazione di leggi (ivi, xxii, 30), ma i precetti necessarii ad osservarsi per conseguire questa santità di vita e mantenervisi, sono spiegati principalmente nel Levitico, Questa santità però è di diversi gradi, più alta, e quindi sottoposta a maggior rigore, per i sacerdoti; di grado inferiore per il resto del popolo, ma pure disciplinata anchʼessa da norme e da riti. Sʼincontrano per primi[15] quelli che trattano della purità dei cibi. Gli animali, secondo un concetto tutto orientale, sono distinti in puri e impuri. È permesso di cibarsi soltanto dei puri, purchè ammazzati dallʼuomo in determinato modo, altrimenti il solo contatto del loro cadavere e molto più il cibarsene rende lʼuomo impuro. Gli animali impuri poi sono proibiti come cibo, e rendono immondi col contatto del loro cadavere le persone e le cose (xi). Si passa quindi ai riti che risguardano le impurità occasionate dal corpo stesso umano, come dallo stato della donna nel puerperio (xii), da alcune malattie cutanee, fra le quali principalmente è considerata la lebbra, dalla gonorrea e dai mestrui (xiiixv).

Siccome poi alla fragilità umana è impossibile tenersi immune da ogni peccato involontario, e si può cadere nella trasgressione inconsciente di alcuno di tanti riti, una volta allʼanno nel decimo giorno del settimo mese che è quanto dire secondo il calendario ebraico, circa il principio dellʼautunno, viene imposta una cerimonia di generale espiazione mediante la contrizione di ogni persona e la celebrazione di certi speciali sacrifizii da farsi dal sommo sacerdote (xvi).

Si può dire che questi xvi capitoli del Levitico formano un tutto abbastanza omogeneo ed ordinato come un corpo di disposizioni rituali, lo che non potrebbe egualmente affermarsi per gli altri capitoli che fanno seguito.

Sono poste qui per prime le disposizioni che proibiscono dʼimmolare fuori del tabernacolo qualunque animale ovino o bovino, senza portarlo allʼingresso del tabernacolo per versarne il sangue sullʼaltare e considerarlo un sacrifizio, e molto più è proibito lʼoffrire fuori del tabernacolo qualunque olocausto (xvii,[16] 1–9). È ripetuta la proibizione fatta già ai Noachidi di cibarsi di sangue (10–14), e si dice nuovamente che chi mangia delle carogne di animali trovati morti o lacerati è considerato impuro, e quindi deve sottoporsi ai riti della purificazione (15, 16).

Seguono le leggi che proibiscono i matrimoni incestuosi (xviii, 1–18), lʼaccoppiamento nel tempo del mestruo (19), lʼadulterio (20), il sacrificare i figliuoli al Dio Moloch (21), e gli accoppiamenti o contro natura, o bestiali (22, 23).

I capitoli xix e xx sono un accozzo di molti precetti diversi di morale, di legge civile, di rito religioso, e perciò non ne facciamo qui lʼanalisi: più innanzi a suo luogo ne daremo, come di altri, la spiegazione.

Col capitolo xxi si riprendono le leggi sacerdotali che risguardano più propriamente la santità delle persone (Lxxii, 16). Si soggiungono quindi alcuni riti sulle qualità degli animali atti ad essere offerti in sacrificio (17–33). Il capitolo xxiii è tutto dedicato ai precetti di osservare le feste, incominciando da quella settimanale del sabato (1–3), poi della Pasqua delle azzime (4–8), e con maggiore diffusione che altrove si parla della Pentecoste (9–22), e della festa autunnale delle Capanne (33–44); ma a queste tre feste, già accennate nella legislazione dellʼEsodo, si aggiungono le altre due del primo e del decimo giorno del settimo mese (23–32), della seconda delle quali diffusamente era trattato già nel capitolo xvi.

Altri due brevi precetti del culto sono quelli di accendere nel tabernacolo il candelabro, e di porre sulla tavola sacra nello stesso tabernacolo da sabato in sabato dodici focaccie consacrate (xxiv, 1–9).

[17]

La legge che condanna a morte il bestemmiatore del nome divino è dettata per una occasione di fatto, che, interrompendo la sequela della esposizione legislativa, è in questo luogo narrata.

Un innominato figlio di una ebrea e di un egiziano avrebbe bestemmiato il nome di Jahveh. Denunziato e deferito a Moisè, questi ne consulta il detto di Dio, che stabilisce per tale peccato la condanna capitale (10–16); ma non si sa bene vedere perchè si ripeta qui (17–23) quella stessa legge del taglione già esposta nellʼEsodo (xxi, 23–25).

Seguono le leggi sul riposo da darsi ai campi ogni sette anni, sul giubileo da celebrarsi ogni cinquanta, sulla vendita e sul riscatto dei beni immobili e degli schiavi (xxv), conchiuse con una nuova raccomandazione di non adorare glʼidoli, di osservare il sabato, e di rispettare il Santuario (xxvi–1–2). Il rimanente di questo capitolo è di contenuto profetico e non legislativo.

Lʼultimo capitolo del Levitico contiene i riti intorno alla consacrazione delle persone e al modo di riscattarle (xxvii, 1–8), e quindi intorno alla consacrazione degli animali e dei beni immobili.

Il quarto libro detto Numeri, perchè tratta in gran parte del censimento del popolo, è, a nostra opinione, il meno ordinatamente compilato fra quelli del Pentateuco, tanto per la parte narrativa, quanto per la legislativa, e per ciò più difficilmente si sottopone ad una regolare analisi. Noi qui ci restringeremo, come porta il nostro assunto, alla sola parte legislativa».

Nel censimento del popolo è eccettuata la tribù dei leviti, della quale si fa un censimento a parte,[18] (Numeri, i, 47 e seg.), per il servizio del culto. Viene perciò nel medesimo tempo stabilito che i leviti siano consacrati a questʼufficio in sostituzione dei primogeniti di tutte le altre tribù, i quali dovrebbero essere consacrati a Dio, perchè furono salvi in Egitto, quando fu fatta strage di tutti i primogeniti degli Egiziani. La ragione di questa sostituzione è taciuta nel testo biblico, ma i commenti rabbinici[12] la spiegano col fatto di essersi la tribù di Levi serbata immune dal peccato dʼidolatria nella adorazione del vitello dʼoro (cfr. Esodo, xxxii, 26). Nel fare poi il censimento dei leviti, si stabilisce ogni particolare sui loro diversi officii e sulla durata del tempo di servizio (iiiiv).

Seguono quattro leggi che sono invero poco connesse. La prima è di tenere fuori dellʼaccampamento chiunque fosse per qualsivoglia ragione in istato dʼimpurità (v, 1–4). La seconda sul sacrificio espiatorio che doveva offrire chi fosse caduto in certe colpe involontarie (5–10). La terza sul modo miracoloso di verificare, mediante lʼacqua mista alla polvere del suolo del tabernacolo, se fosse vero o no il sospetto dʼinfedeltà da alcuno concepito contro la propria moglie (11–31). La quarta sul voto del nazireato, ossia di astenersi per un certo tempo dal bere vino e altri liquori inebrianti, durante il qual tempo chi aveva fatto tal voto non poteva nemmeno radersi (vi, 1–21).

Segue lʼordine dato ai sacerdoti di benedire il popolo, indicando altresì la forma di questa benedizione (22–27), quindi la narrazione della consacrazione del tabernacolo, e dei sacrifizii e delle offerte portate dai[19] capi di ognuna delle dodici tribù (vii). E a questa narrazione si connettono i precetti sul modo come accendere il candelabro nel tabernacolo (viii, 1–4), la consacrazione dei leviti (5–22), e una nuova determinazione del tempo che doveva durare il loro servizio (23–26), la quale non si accorda con quello già prima accennato, perchè qui si fissa questo tempo dallʼetà di 25 a 50 anni, mentre ivi (iv, 3) si dice dover cominciare solo da 30.

Lʼessere giunti allʼanno secondo dopo lʼescita dallʼEgitto è occasione per istabilire come rito che chi si trovasse impuro per qualsivoglia ragione, o lontano dalla patria, doveva celebrare la Pasqua nel mese successivo (ix, 1–14).

Narrato quindi il modo come si regolavano nel deserto le diverse stazioni e le diverse partenze (15–23), sʼimpone come rito di dover sonare due trombe per convocare il popolo, sia per ordinare la partenza da una stazione, come per muoversi alla guerra, come ancora nei giorni di festa (x, 1–10).

Tutte le leggi e tutti i riti fino a qui accennati sarebbero stati, secondo la narrazione scritturale, esposti da Mosè ora al popolo, e ora ai sacerdoti, secondo la varia loro indole, nel deserto del Sinai, e nel primo anno dopo la partenza dallʼEgitto (ivi, 11 e seg.).

Dopo aver narrato poi come il popolo in mezzo ad alcune vicende si avanzasse verso la terra promessa, e come la mancanza di fede nella possibilità della conquista, facesse condannare tutta quella generazione a perire nel deserto nel tempo di quarantʼanni, il compilatore del libro dei Numeri continua a frammettere alla narrazione altre leggi e altri riti.

[20]

Nel capitolo XV si stabiliscono in prima i riti sulle offerte di farina, di olio e di vino che dovevano accompagnare i diversi sacrifizi secondo le varie specie di ammali (1–16). Sʼimpone quindi lʼobbligo di prelevare una parte della pasta della farina come offerta a Dio (17–21). Seguono i riti sui sacrifizi espiatorii dei peccati tanto del pubblico, quanto dei privati (22–31).

Dal fatto di un individuo sorpreso, mentre raccoglieva legna nel giorno di sabato, si stabilisce la legge che chi non rispetta il riposo di questo giorno deve morire per mezzo della lapidazione (32–36).

Non si vede il perchè qui piuttosto che altrove si esponga il precetto di portare ai quattro lembi della veste una certa forma di frangia (zizit) con un filo di colore azzurro, che avrebbe dovuto servire come ricordo perenne dei precetti divini per non allontanarsi da essi (37–41).

Dopo la narrazione dellʼattentato di Coreh e dei suoi compagni, contro la supremazia di Mosè e dʼAron, si stabilisce di nuovo che solo questi e i suoi discendenti, serviti dal rimanente della tribù di Levi, dovevano essere consacrati alla celebrazione del culto (xviii, 1–3). Quindi si stabiliscono le offerte, le decime, le primizie che ai sacerdoti e ai leviti erano dovute, come loro reddito, non avendo essi parte nella divisione delle terre (8–32).

Il capitolo xix parla di un rito intorno alla purità, cioè di dover immolare una giovenca di colore fulvo, e quindi bruciarla, acciocchè lʼaspersione della cenere servisse come mezzo di purificazione a chi si fosse reso immondo mediante il contatto di un morto, o anche solo collʼessersi trovato ad abitare sotto la medesima tenda, o sotto il medesimo tetto.

[21]

Narrati alcuni altri fatti, tra i quali storicamente importantissimo quello della conquista di alcuni paesi sulla sinistra riva del Giordano (xxi, 21–35), pare che si sia giunti al termine dei quarantanni, e alla morte di tutta la generazione che adulta era escita dallʼEgitto, e si fa allora da Mosè e da Eleazar, succeduto nel sommo sacerdozio a suo padre Aron, un altro censimento del popolo (xxvi), accampato ormai nelle pianure di Moab ai confini della terra promessa (xxii, 1). Ma trovandosi nel censimento una famiglia di cui sole superstiti erano cinque femmine, queste pretendono il loro diritto ereditario. E da ciò si prende occasione di stabilire la legge successoria (xxvii, 1–11). Moisè designa quindi come suo successore Giosuè figlio di Nun della tribù di Efraim (12–23). Segue lʼesposizione dei riti sui sacrificii, che dovevano offrirsi dal pubblico quotidianamente mattina e sera, e poi quelli del sabato, delle calende, e di tutte le altre feste (xxviii, xxix).

Il capitolo xxx parla dellʼobbligo dei voti, e delle cagioni speciali per cui le donne, vivendo sotto la potestà, o paterna, o coniugale, potrebbero da questʼobbligo essere esenti. Mosè avrebbe di nuovo raccomandato la distruzione dei popoli da conquistarsi nella terra promessa (xxxiii, 50–56), e avrebbe dato ancora a Giosuè le norme principali per la divisione della terra (xxxiv), dal che sarebbe stato condotto a stabilire due leggi, una sul!1 obbligo di dare ai leviti un certo numero di città per loro abitazione (xxxvi,8), non avendo essi una parte come le altre tribù, e lʼaltra di fissare sei città di asilo ove potesse sicuramente rifugiarsi lʼomicida involontario (9–34).

Si espone da ultimo che la legge successoria stabilita innanzi a favore delle sole figlie superstiti senza[22] prole maschile dava luogo a un inconveniente, cioè che i possessi territoriali potessero in questo modo passare da una tribù allʼaltra. Viene quindi stabilito per legge che la figlia erede debba maritarsi con uomo della stessa tribù (xxxvi). E queste poche disposizioni dopo il secondo censimento del popolo vengono dette precetti e leggi comandate nelle pianure di Moab (ivi, 13).

Giunto, come abbiamo visto, il legislatore Mosè alla vigilia della sua morte, e istituite da lui tutte queste disposizioni legislative ora aggruppate in piccoli codici, e ora alla spicciolata secondo portava lʼoccasione, parrebbe che lʼopera della legge fosse compiuta, e difatti qui ha termine il quarto libro.

Ma succede il quinto, detto Deuteronomio, ossia seconda legge. Dopo un esteso discorso esortativo che sta come introduzione (iiv, 43), e che contiene parecchi richiami alla storia del passato, la legge incomincia col Decalogo (v, 6–21) eguale nella parte precettiva a quella dellʼEsodo (xx, 1–17), sebbene con alcune differenze nella forma; e con una differenza nella ragione della festa settimanale del sabato, sulla quale ci fermeremo più innanzi.

Altri discorsi parenetici succedono al Decalogo fino al capitolo xii, col quale incomincia veramente la esposizione della legge, che finisce nel capitolo XXVIII con un altro discorso profetico sulle conseguenze perniciose, che sarebbero succedute alla, infedeltà del popolo verso Jahveh. Tutta questa seconda esposizione della legge è chiamata il patto stabilito fra Dio e il popolo ebreo, oltre il primo patto già stipulato in Horeb, che è quanto dire presso il Sinai (ivi, 69). Le altre parti del Deuteronomio (xxixxxxiv) non sono più di argomento legislativo, ma soltanto storico o profetico.

[23]

Nè qui ci fermeremo nemmeno a una rapida analisi della legge deuteronomica, come abbiamo fatto di quella degli antecedenti libri, ma porremo soltanto la domanda: perchè questa nuova esposizione. E accenneremo che la risposta secondo il concetto ortodosso tradizionale è che Mosè giunto al termine della sua vita ha voluto unʼaltra volta ripetere la legge al popolo ed esortarlo ad osservarla, lo che avrebbe incominciato a fare nellʼundecimo mese del 40mo anno dopo lʼescita dallʼEgitto. Dal quale concetto è derivato appunto il nome di Deuteronomio, seconda legge, legge ripetuta, in ebraico, Mishneh Torah.

Riassumendo adunque il concetto ortodosso tradizionale intorno alla formazione della legge biblica, resulta essere il seguente.

Alcune leggi sarebbero esistite come precetto, o come consuetudine, fino dai tempi dei patriarchi. Alcune poche sarebbero state dettate in Egitto immediatamente prima della liberazione. Varii corpi di leggi sarebbero stati composti nel deserto di Sinai nel primo anno dopo lʼescita dallʼEgitto. Altre leggi in assai minor numero sarebbero state dettate nei rimanenti trentanove anni di peregrinazione nel deserto, o perchè occasionate da alcuni fatti, o come disposizioni complementarie alle leggi dianzi stabilite. Finalmente una generale, ma non compiuta ripetizione, della legge sarebbe stata fatta da Mosè poco prima della sua morte.

Ora si domanda, è possibile ammettere la storica verità di questo concetto? Lʼesame spassionato dei fatti lo conferma, o lo dimostra assurdo? Questo è ciò che ora esporremo.


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Capitolo II

LA LEGGE CONTENUTA NEL PENTATEUCO
NON È OPERA DI UN SOLO AUTORE

La quistione dellʼautenticità della legge così detta mosaica è di necessità connessa con quella più generale della autenticità del Pentateuco. Imperocchè, se fosse dimostrato, o potesse dimostrarsi, che tutto il Pentateuco è opera di Mosè, di conseguenza ne scenderebbe che anche la parte legislativa dovrebbe come tale tenersi. È anzi per altro dimostrato ormai dalla critica spassionata, e che si è lasciata guidare da soli criterii scientifici, che il Pentateuco non è opera nè di un solo uomo nè di una sola età, ma compilazione di più documenti scritti da più autori in età diverse. Potrà differirsi fra i critici intorno al numero di questi documenti originali, intorno alla relazione nella quale stanno fra loro, e intorno al tempo nel quale furono scritti, ma che lʼautore del Pentateuco non possa essere uno solo, e molto meno Mosè, è riconosciuto da tutti quelli che in tale quistione non hanno voluto lasciarsi dominare da un preconcetto dogmatico. Non torneremo qui ad esporre tutte le ragioni che danno causa vinta alle conclusioni della[26] critica, tanto più che già da molto tempo avemmo occasione di farlo,[13] ma ci restringeremo a ciò che concerne soltanto la parte legislativa.

Imperocchè potrebbe pure il Pentateuco, quale oggi lo abbiamo, essere una compilazione di più documenti, fra i quali valutarsi come una sola la legislazione, e questa tenersi come opera autentica di Mosè. In altre parole, potrebbero le parti narrative del Pentateuco staccarsi del tutto da quelle legislative, e quando fosse, come è difatti, dimostrato, che la storia delle origini del genere umano e del popolo ebreo, quale è contenuta nel Pentateuco, non è opera nè di un uomo nè di una età, difendersi pur sempre lʼunità e lʼautenticità della parte legislativa. E però, siccome in questo scritto restringiamo le nostre ricerche soltanto alla legge, di questa sola dimostreremo che non può nemmeno intorno ad essa sostenersi la verità del concetto tradizionale dogmatico.

In prima, alcune delle disposizioni legislative, come resulta dalla sommaria esposizione che sopra ne abbiamo fatta, si connettono talmente con certe narrazioni storiche, che, quando sia dimostrato queste non potere avere per loro autore Mosè, ne scende per necessaria conseguenza che non possono appartenergli nè anche quelle. Così, a cagione di esempio, quando sia dimostrato che storicamente è impossibile che gli Ebrei durante le loro peregrinazioni nei deserti dellʼArabia abbiano posseduto il materiale necessario per edificare il tabernacolo, e fornirlo di tutti i suoi arredi, e di tutti gli abiti sacerdotali, quali ci vengono descritti nellʼEsodo (xxxv, 4–xl), ne resulta di necessità[27] che nemmeno tutta la parte dispositiva (XXV–XXXI, 17) può attribuirsi a Mosè; perchè questi non avrebbe potuto comandare cosa che egli meglio di ogni altro sapeva non potersi eseguire. Come è possibile che nel deserto, mentre spesso mancavano di che sfamarsi, si comandasse agli Israeliti di far ogni settimana dodici focaccie di fior di farina, e porle nella tavola sacra nellʼinterno del tabernacolo, perchè Aron e i suoi figli le mangiassero come un cibo consacrato? (Levitico, xxiv, 5–9). Come è possibile che egualmente nel deserto potessero gli Ebrei avere olive sufficienti per fornire lʼolio necessario ad accendere quotidianamente un candelabro a sette lumi nellʼinterno del tabernacolo? Eppure per due volte nella legislazione ELN[14] sarebbe stato dato da Mosè un tale precetto (Esodo, xxvii, 20, e seg.; Lev., xxiv, 1–4).

Ma oltre questa grave obbiezione, che qui possiamo accennare in termini generali e confortare di pochi esempi, ve ne sono ben altre e non di minor peso.

Uno studio spassionato della legge contenuta nel Pentateuco fa chiaramente vedere che essa ha seguito lo svolgimento successivo dei diversi gradi della condizione del popolo, cosa impossibile a conciliarsi con la condizione pressochè immutata, quale avrebbe dovuto essere quella dei primi quarantʼanni dopo lʼescita dallʼEgitto, e quale del resto ci viene descritta nelle parti narrative del Pentateuco stesso. La condizione di orde nomadi in regioni pressochè deserte, come[28] quelle dellʼArabia, e il tempo relativamente breve di quarantanni, non potevano essere tali da favorire un grande e pronto svolgimento di civiltà; dimodochè gli Ebrei, che si accingevano alla conquista della terra promessa, non dovevano nè potevano esser troppo diversi da ciò che erano, quando escivano dallʼEgitto. E se noi leggiamo le narrazioni bibliche, vediamo che stanno piuttosto a confermare che a confutare quanto qui asseriamo.

Ci si potrebbe per altro opporre che, secondo la narrazione biblica, la prima generazione degli Ebrei esciti dallʼEgitto sarebbe perita tutta nel deserto, e che Mosè avrebbe voluto aspettare ad avere tutta una nuova generazione, prima di fare accingere il popolo ebreo alla conquista della terra promessa (Num., xiv, 22, 23; xxvi, 64, 65), e che quindi un certo svolgimento dʼidee e di civiltà potrebbe essere avvenuto.

Potrebbe anche opporcisi che gli Ebrei, sempre secondo la narrazione biblica, avrebbero, prima della morte di Mosè, conquistato alcune terre alla sinistra del Giordano (ivi, xxi, 21–35), e quindi avrebbero potuto mutare in parte le loro abitudini nomadi con quelle di gente a sedi più stabili; e perciò essersi avanzati nella via della civiltà. Ma queste obbiezioni si fondano più sullʼapparenza che sulla realtà.

Imperocchè in quanto alla prima è facile intendere che non accade nel succedersi di due sole generazioni che possano profondamente modificarsi le condizioni di un popolo, quale era lʼebreo nellʼescire dallʼEgitto. Prendiamo in esame il libro dei Giudici, che è certo in tutto il Vecchio Testamento quello che con più verità ci dimostra le condizioni di quel popolo,[29][15] e vedremo che gli Ebrei nei primi tempi dopo lʼinvasione della Palestina erano gli stessi di quelli esciti dallʼEgitto. Seguaci di culti politeistici, come tutte le genti a loro affini, privi di stabile costituzione politica, incapaci di resistere contro i popoli vicini, o primi possessori della terra da essi invasa, e atti solo a risorgere momentaneamente, quando trovavano alcuni capi di ventura audaci e valorosi, quali in sostanza erano quelli che la tradizione ha chiamato col nome di Giudici (Shofetim, Suffeti).

Inoltre poi fa dʼuopo esaminare, seguendo anche qui la narrazione biblica, per porci in una ipotesi più favorevole ai dogmatisti, che se Mosè vuole aspettare che sia estinta una generazione, e ne sorga unʼaltra, è solo per la conquista della terra promessa, non per trovare gente che fosse capace di ricevere ed eseguire le sue leggi. Imperocchè prima dellʼinvio dei dodici esploratori, il cui ritorno sarebbe stato occasione di scoraggiamento nel popolo, e quindi della risoluzione di lasciar perire tutti gli adulti nel deserto, per avere una nuova generazione meglio agguerrita, sarebbe già stata promulgata quasi tutta la legislazione ELN, e pochissime sarebbero state le leggi quindi aggiunte. Dimodochè, se questa osservazione di uno svolgimento di civiltà, che avrebbe condotto con sè anche uno svolgimento di legislazione, potesse avere qualche valore, potrebbe averlo soltanto per il Deuteronomio, sul quale però sarebbe qui anticipata ogni conclusione.

Intorno poi alla seconda obbiezione tratta dalla conquista di alcuni paesi, valgono le stesse cose dette fin qui, perchè quella conquista, anche secondo ciò[30] che ne narra la Scrittura, sarebbe avvenuta soltanto alla fine dei quarantʼanni (Deut., ii, 14–24); e quando pure avesse mutato le abitudini nomadi del popolo, non avrebbe potuto avere nessuna influenza sullo svolgimento di una legislazione che lʼavrebbe preceduta.

La seconda ragione, per la quale non si può ammettere un solo autore della legislazione del Pentateuco, consiste nellʼesservi alcune leggi ripetute più volte, in modo che della ripetizione non potrebbe darsi spiegazione che appagasse. Prescindiamo per ora dal Deuteronomio, che non può qui valutarsi, perchè, secondo il concetto dogmatico, esso sarebbe appunto la ripetizione della legge; e non teniamo conto nemmeno dellʼessere ripetuti i comandi che sarebbero stati già imposti ai Patriarchi, perchè potrebbe tenersi ragionevole che Mosè avesse voluto dettare al popolo una legge compiuta; ma vediamo per ora solo le ripetizioni nella legge ELN.

La festa delle azzime in memoria dellʼescita dallʼEgitto sarebbe stata comandata una prima volta, avanti che la liberazione avvenisse (Esodo, xii, 14–20), una seconda volta, appena lʼescita dallʼEgitto era compiuta (ivi, xiii, 3–7), una terza, nel corpo generale di leggi, quando fu stabilito il patto fra Jahveh e il popolo (ivi, xxiii, 15), una quarta, nella consegna delle seconde tavole del Decalogo (ivi, xxxiv, 18), una quinta, nella legge generale intorno alle feste solenni (Levitico, xxiii, 6). Le altre feste sono anchʼesse ripetutamente imposte (Esodo, xxiii, 16, 17; xxxiv, 22, 23; Levitico, xxiii, 15–22, 33–44) e due volte imposto anche il giorno della penitenza annuale (Lev., xvi, 29–31; xxiii, 27–32), senza tener conto chetante della festa delle azzime, quanto delle altre, si parla[31] ancora in altro luogo (Num., xxviii, xxix); perchè qui la ripetizione potrebbe avere un motivo plausibile, trattandovisi più specialmente dei sacrificii da doversi offrire in tali solennità.

Due volte, e quasi colle stesse parole, è ripetuto il comando di dovere nelle tre maggiori solennità dellʼanno, cioè nella Pasqua, nella Pentecoste e nella festa di Capanne, tutti i maschi presentarsi dinanzi a Jahveh, cioè nel luogo consacrato al suo culto (Esodo, xxiii, 17; xxxiv, 23).

Almeno dieci volte è comandata lʼosservanza del sabato (Esodo, xvi, 23–30; xx, 8–11; xxiii, 12; xxxi, 12–17; xxxiv, 21; xxxv, 2; Levit., xix, 3, 30; xxiii, 3; xxvi, 2). Cinque volte è imposta la consacrazione dei primogeniti (Esodo, xiii, 2; 12 e seg.; xxii, 28 e seg.; xxxiv, 19 e seg.; Num., xviii, 14–17). Lʼobbligo di adorare un sol Dio, e di non prestare culto a nessuna immagine lo vediamo più volte ripetuto (Esodo, xx, 2–5; xxii, 19; xxiii, 13, 24, 32; xxxiv, 14–17; Levit., xix, 4; xxvi, 1).

Due volte è comandato di non sacrificare i figli al Dio Moloch (Levit., xviii, 21; xx, 2–5), quattro di non darsi alle pratiche superstiziose della magia e della divinazione (Esodo, xxii, 17; Levit., xix, 31; xx, 6, 27), tre volte è proibito lʼadulterio (Esodo, xx, 14; Levit., xviii, 20; xx, 10), due il furto (Esodo, XX, 15; Levit., xix, 11), lʼincesto (Levit., xviii, 6–18; xx, 11–14), la sodomia (ivi, xviii, 22; xx, 13), la bestialità (ivi, xviii, 23; xx, 15), il giurare in falso (Esodo, xx, 7; Levit., xix, 12), il maledire i genitori (Esodo, xxi, 17; Levit., xx, 9); due volte pure è imposto di onorarli (Esodo, xx, 12; Levit., xix, 3), e due volte è ripetuta la legge del taglione (Esodo, xxi, 23–24; Levit., xxiv, 18–20),[32] tre volte è comandato di amare i forestieri e di trattarli con riguardo (Esodo, xxii, 20; xxiii, 9; Levit., xix, 33 e seg.), e due volte al contrario di non venire a patti con i popoli che abitavano la terra promessa (Esodo, xxiii, 32, 33; xxxiii, 12–15), tre volte è imposto di amministrare rettamente la giustizia, senza timore verso il ricco e potente, e senza riguardo verso il povero (Esodo, xxiii, 3, 6; Levit., xix, 15, 35), due volte è comandato di lasciare in favore dei poveri una parte del campo senza mietere, e la spigolatura della mèsse (Levit., xix, 9; xxiii, 22), due volte è imposto di non prestare ad usura (Esodo, xxii, 24; Levit., xxv, 36). E se per alcune di queste ripetizioni può in parte trovarsi una scusa, trattandosi di leggi o precetti che formavano la base dellʼIsraelitismo, e si può dire che il legislatore non si sentiva mai appagato di averli abbastanza raccomandati e inculcati nel cuore e nella mente, questa scusa però non può valere per tutte, e molto meno per certi minuti precetti, che imposti una volta in una forma precisa ed esatta, non si guadagnava nulla a ripeterli.

Quattro volte, senza contare nè il Genesi nè il Deuteronomio, è ripetuta la proibizione di cibarsi del sangue degli animali (Levit., iii, 17, vii, 26, xvii, 10, xix, 26), tre volte quella di mangiare gli animali morti di morte naturale, o lacerati dalle fiere (Esodo, xxii, 30; Levit., xi, 40; xvii, 15).

Due volte sono ripetuti o con identiche parole, o con molto simili, i precetti di non cuocere un capretto col latte della madre, di non accompagnare col pane lievitato il sangue del sacrifizio, di non lasciare fino alla mattina il sevo del sacrifizio pasquale, e di portare al tempio le primizie dei raccolti (Esodo, xxiii,[33] 18 e seg.; xxxiv, 25 e seg.), il quale ultimo comando è ancora ripetuto una terza volta dove trattasi in generale delle rendite sacerdotali (Num., xviii, 11, 13). Due volte è imposto il sacrifizio quotidiano (Esodo, xxix, 38–42; Numeri, xxviii, 1–8). Due volte è proibito di mangiare dopo il secondo giorno, nel quale fossero offerte, le carni di certi sacrifizi votivi detti Shelamim (Levit., vii, 16–18; xix, 5–8). Due volte è comandato di lasciare ai poveri i prodotti rurali dellʼanno settimo, chiamato anno di rilascio (Shemità) e ancora anno sabatico (Esodo, xxiii, 11; Lev., xxv, 3–6). Due volte è ripetuto il precetto di offrire un sacrifizio espiatorio per i peccati involontarii, fossero questi commessi o dal pubblico, o da privati individui (Levit., iv, 13 e seg., 27 e seg.; Num., xv, 22–31). Finalmente due volte con parole quasi identiche è ripetuto il precetto di fornire lʼolio necessario per accendere il candelabro nel tabernacolo (Esodo, xxvii, 20 e seg.; Levit., xxiv, 1 e seg.). E forse questa enumerazione di precetti più volte ripetuti potrebbe anche accrescersi di qualche altro esempio; ma bastano al nostro assunto quelli citati.

Nè è soltanto la ripetizione che osta ad ammettere un solo compositore di questa legislazione ELN, ma anche la forma nella quale siffatta ripetizione ci apparisce. Può ammettersi fino ad un certo punto che un legislatore di un popolo primitivo e rozzo, oltre lʼavere imposto una o più leggi fondamentali nella precisa forma giuridica, torni poi a raccomandarne lʼosservanza in un discorso esortativo, ma la ripetizione, come vera e propria legge non è ammissibile. Anche poi indipendentemente da questa osservazione, vi sono nella parte precettiva del Pentateuco tali ripetizioni,[34] delle quali non si può proprio trovare un perchè lo stesso scrittore vi sarebbe caduto. Tale è il comando di consacrare i primogeniti umani e degli animali esposto prima nel v. 2 del capitolo xiii dellʼEsodo, e poi ripetuto nei vv. 12–13 dello stesso capitolo. Perchè il legislatore non avrebbe addirittura, dopo aver accennato quel dovere, indicato ancora il modo come si doveva praticare?

Altro esempio più concludente dello stesso genere può trarsi dal capitolo xxxiv dellʼEsodo. Se vogliamo pure tenere per vera la ragione dataci della fattura di due nuove tavole del Decalogo, perchè le prime erano state spezzate da Mosè, quando allo scendere dal Sinai vide il vitello dʼoro eretto come idolo dal popolo (Esodo, xxxii, 19); non sappiamo davvero trovare una ragione sufficiente per ispiegare la ripetizione dei precetti contenuti nel XXXIV, 11–26, mentre erano stati già esposti o nel Decalogo o nel successivo corpo di leggi (cfr. xxiii, 15–19) o nel cap. xiii.

Un terzo esempio si può allegare dal capitolo xxxv, che incomincia con le seguenti parole: «Mosè adunò tutta lʼadunanza dei figli dʼIsraele, e disse loro: queste sono le cose che comandò Jahveh di eseguire». Ogni lettore si aspetterebbe qui una sequela di ordini e di precetti. Tutto invece si restringe al coniando di osservare il riposo del sabato, perchè col verso 4 incomincia un altro discorso con una nuova introduzione riguardo al dovere di raccogliere offerte dʼogni genere per lʼedificazione del tabernacolo.

Il riposo poi del giorno del sabato, è, come già abbiamo veduto, più volte imposto, e qui si aggiunge soltanto di non accendere in quel giorno il fuoco. Ma da un lato questa ripetizione, dallʼaltro il trovarsi[35] esposto un solo precetto, mentre nel primo verso si enunciano più cose, induce a concludere che non si possa dare altra spiegazione ragionevole dei tre primi versi del capitolo XXXV, se non riconoscendo in essi un breve frammento di una raccolta più estesa di leggi e riti, inserito qui dal compilatore, perchè pare vagli questo, a torto o a ragione, il luogo più opportuno.

I capitoli xix e xx del Levitico, i quali contengono più leggi e precetti in parte già imposti al popolo in raccolte di leggi che ad essi precedono, e che nel medesimo tempo formano per il contenuto e per lo stile qualche cosa di compiuto in loro stessi, non si sa vedere perchè si trovino nel luogo ove oggi sono, se non vogliamo anche qui riconoscere alcune piccole raccolte di leggi, messe insieme da un più recente compilatore. La qual cosa si farà innanzi più chiara, quando più minutamente nei suoi particolari esporremo questa parte della legge ELN. Ed è certo che solo questa ipotesi di una compilazione di più documenti originarii può spiegare la composizione della legge del Pentateuco, quale oggi lʼabbiamo, con le sue illogiche e inutili ripetizioni, che si trovano espresse le più volte senza allusione al già detto; e proprio come se si trattasse di comandare cosa non mai prima enunciata.

Lʼesegesi delle scuole talmudiche ha bene avvertito questa difficoltà, e avendo dallʼaltro lato stabilito a priori il principio che nella Scrittura, come divina rivelazione, non può e non deve contenersi nemmeno una lettera dʼinutile o di soverchio, ha voluto trovare ragione, se non di tutte, almeno di molte di queste ripetizioni. Ma fa dʼuopo ben riconoscere che qui le scuole talmudiche hanno dato soltanto prova di una[36] sottigliezza sofistica e falsa. Basterà citare qualche esempio. Tre volte, computando anche il Deuteronomio, è ripetuto nel Pentateuco il precetto di non cuocere il capretto col latte della madre, e precisamente con le identiche parole. Ebbene, il Talmud insegna che una di queste proibizioni vale per inibire di cibarsi di tale cucinato, lʼaltra di usarne in qualsivoglia altro modo, e la terza di semplicemente cucinarlo.[16]

Dallʼessere quattro volte ripetuto, computando anche qui il Deuteronomio, il precetto di portare gli avvertimenti di Jahveh sulla mano e fra gli occhi, il Talmud vuole dedurne che quattro dovevano essere i paragrafi biblici scritti nelle filatterie.[17]

Se nel Decalogo è comandato di non rubare, e nel Levitico (XIX, 12) il precetto è ripetuto, il Talmud con la maggiore serietà vuole insegnarci che nel Decalogo si proibisce di rubare persone per farle schiave, e nel Levitico di rubare denaro o qualunque oggetto.[18] Eppure è adoperato nei due luoghi lʼidentico verbo ghanaz, e del rubare persone è esplicita la proibizione in altro luogo (Esodo, xxi, 16). Ma, senza citare[37] altri esempi di tal genere, che anche tre soli bastano per condannare tutto un sistema di esegesi di simil fatta, esporremo solo un modo generale dʼinterpetrazione, col quale spessissimo nel Talmud si vuole giustificare le ripetizioni delle leggi nel Pentateuco.

Se in un luogo si legge essere una data azione delittuosa sottoposta a una data pena, e in altro luogo si torna a proibire quella stessa azione, il Talmud spiega la ripetizione, dicendo che non basta istituire una pena per una azione che non è dalla legge stessa proibita, quasi il sancire la pena non valesse quanto dichiararla delittuosa. Così se nel capitolo xxii dellʼEsodo sono sancite le pene per le diverse specie di furto, ciò non sarebbe bastato, se nel Levitico non si fosse detto in termini generali non rubate. E ciò si enuncia nel Talmud in questi termini: «Qui impariamo la pena, ma lʼavvertimento proibitivo donde si deduce?»[19]

Le spiegazioni che le scuole teologiche hanno voluto dare delle ripetizioni legislative del Pentateuco sono presso a poco tutte dello stesso valore, e qui abbiamo voluto dare solo qualche esempio di quelle talmudiche, perchè forse meno generalmente conosciute, ma lʼinsistervi più oltre sarebbe inutile. Passiamo piuttosto alla più grave obbiezione che impedisce di ammettere nella legislazione del Pentateuco un solo autore, vogliamo dire il fatto di esservi non poche contraddizioni; e qui è necessario prendere in esame anche il Deuteronomio. Imperocchè se le ripetizioni di questo libro non ostano al concetto tradizionale della legge[38] mosaica, vi ostano, e insuperabilmente, le contraddizioni di esso verso gli altri libri del Pentateuco.

La parte più importante di tutta la legge, e come il centro intorno al quale si aggira, è certo per comune consenso il Decalogo. Se il Deuteronomio non fosse altro che ripetizione della legge antecedentemente esposta, il Decalogo in esso contenuto (v, 6–21) dovrebbe essere identico a quello dellʼEsodo (xx, 2–17). Ma passando sopra piccole differenze di forma, la diversità della ragione data al precetto di riposare nel sabato difficilmente può conciliarsi. NellʼEsodo (ii, 11) la ragione è espressa in questi termini; «Perchè in sei giorni Jahveh fece il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e riposò nel giorno settimo, perciò benedisse Jahveh il giorno del sabato e lo santificò». Nel Deuteronomio invece si legge (v, 15). «E rammenterai che servo fosti nella terra dʼEgitto, e ti fece escire Jahveh tuo Dio di colà con mano forte e con braccio teso, perciò ti comandò Jahveh tuo Dio di fare il giorno del sabato». La differenza su questo punto è troppo profonda e troppo spiccata. Secondo una composizione del Decalogo la ragione del riposo del sabato si connette col primo capitolo del Genesi, col fatto cosmico della creazione, e lʼuomo deve riposare, perchè nel settimo giorno la creazione fu compiuta: questa ragione è del tutto teologica. Secondo lʼaltra composizione la ragione è del tutto nazionale, risguarda solo il popolo dʼIsraele, che deve riposare, in memoria di essere stato liberato dalla condizione di schiavitù, giacchè lo schiavo è condannato a incessante lavoro, e non può prendersi un giorno di riposo.

Ma se intorno al sabato si nota dolo questa differenza nella ragione del precetto, molto più grave è[39] la diversità intorno alle altre feste annuali. Secondo le leggi dellʼEsodo (xxiii, 15–17, xxxiv, 17–24) e del Deuteronomio (xvi) le feste nel corso dellʼanno sarebbero soltanto tre, la Pasqua delle azzime nella primavera, la Pentecoste, e la festa delle Capanne nellʼautunno; mentre secondo le leggi del Levitico (xxiii) e del Numeri (xxviii, 16–xxix) sarebbero almeno cinque, cioè oltre le tre enumerate, due altre al primo e al dieci del settimo mese. Se il Deuteronomio è una ripetizione della legge antecedente, come spiegare il silenzio delle due feste solenni, e principalmente quella del dieci del settimo mese, giorno per gli Ebrei solennissimo fra tutti, perchè destinato alla penitenza generale dei peccati? E nella legge stessa ELN, perchè questa diversità? Non si può supporre che i luoghi del Levitico e del Numeri siano un compimento di una legge imperfetta, quale dovrebbe essere di necessità quella dellʼEsodo se realmente, fino dallʼorigine le solennità annue fossero state cinque e non tre. Nè si può dire che nellʼEsodo si parli soltanto di feste che sarebbero veramente tre, mentre le altre due sarebbero solennità di altro genere; perchè vediamo nel Levitico xxiii che anche il primo giorno del settimo mese è chiamato, al pari della Pasqua, convocazione santa; e il riposo, la cessazione dal lavoro è del pari imposta per questo e per il giorno dieci dello stesso mese. Nè meglio varrebbe ricorrere allʼipotesi di uno svolgimento dʼidee religiose, per cui si fosse veduto lʼopportunità di stabilire altre due feste. Questo svolgimento può essere avvenuto in un lungo periodo di tempo, non durante il soggiorno nel deserto; e molto meno i sostenitori dellʼopinione dogmatica potrebbero proporre un cambiamento di concetto nella[40] mente di Mosè. Altre contraddizioni esistono poi in molte parti del culto è del rituale.

Lʼaltare per i sacrifizi avrebbe potuto costruirsi o di terra, o di pietre, purchè non tagliate, e in qualunque luogo (Esodo, xx, 24 e seg.);[20] ma poi troviamo che lʼaltare del tabernacolo è costruito di legno e ricoperto di rame (ivi, xxvii, 1 e seg.) ed è proibito di offrire altrove ogni specie di sacrificio (Levit., xvii, 8, 9). La conciliazione proposta dai teologi che nel primo luogo dellʼEsodo si parli per il tempo anteriore alla costruzione del tabernacolo non può ammettersi, quando si rifletta che questo, secondo la narrazione biblica, fu ben presto costruito, e non sarebbe stato necessario dettare una legge apposita per lʼaltare, poichè pochissimi sacrifizi, o più probabilmente nessuno, oltre quello pubblico, di cui si fa menzione nel cap. xxiv, 4, saranno stati offerti dagli Ebrei in così breve tempo.[41] Ma vi è da osservare di più che la disposizione del cap. XX, 24, 25 dellʼEsodo non ha per nulla lʼindole di transitoria e temporanea, ma di una legge perpetua regolatrice del culto. Il ricorrere poi allʼaltra ipotesi che si siano alternate nella vita religiosa del popolo ebreo diverse epoche, in alcune delle quali sia stato permesso, e in altre proibito, lʼoffrire sacrifizi in qualunque luogo al di fuori di quello consacrato al culto centrale, e che questa alternativa sia stata anticipatamente riconosciuta e sanzionata dalla legge mosaica, è cosa da relegarsi fra i sogni teologici.[21] Che infatto gli Ebrei abbiano continuato a offrire sacrifizi fuori del tabernacolo o del tempio centrale è vero, e che per un certo tempo non si sia opposta a tale uso nemmeno la legge è vero anche questo; ma la realtà del fatto è cosa ben diversa dalla esistenza di una legge che in anticipazione avrebbe preveduto e sanzionato non solo il succedersi di due costumanze diverse, ma anche il loro ripetuto alternarsi.

Per ultimo, se ciò mai potesse esser vero, sarebbe dʼuopo, per poterlo ammettere, che nella legge se ne facesse esplicita menzione, e si dicesse quando, e in quali circostanze si sarebbero potuti costruire altari e offrire i sacrifizi dovunque, e quando lʼesercizio del culto non era permesso, se non nel luogo centrale a ciò destinato. Potrebbe a prima vista credersi che di[42] ciò si parlasse nel Deuteronomio (xii, 8 e seg.), perchè in questo luogo si dice che nel deserto ognuno faceva ciò che meglio gli talentava, mentre ciò non avrebbe potuto permettersi dopo compiuta la conquista della terra promessa. Ma questo passo non fa invece se non aggiungere la contraddizione di fatto a quella di diritto; perchè il Levitico (xvii, 8) proibisce di offrire sacrifizi fuori del tabernacolo incondizionatamente, anzi parla di accampamento, espressione che non è applicabile se non al tempo delle peregrinazioni nel deserto.

Che dire poi della conciliazione proposta dallʼIsaacita, secondo lʼinsegnamento talmudico, che le parole del Deuteronomio (xii, 8) si riferiscano non al tempo delle peregrinazioni nel deserto, ma a quello che immediatamente successe al passaggio del Giordano, vale a dire nei quattordici anni impiegati, secondo la tradizione, per la conquista e la divisione della terra promessa, nel qual tempo sarebbe stato permesso lʼoffrire sacrifizi in qualunque luogo? Ma il testo del Deuteronomio dice chiaramente «come noi facciamo qui oggi», e queste parole non possono riferirsi ad un tempo futuro, ma di necessità si riferiscono a una condizione presente a chi in quel momento parlava.

Dimodochè due sono qui le contraddizioni di diritto; in prima sul modo di costruire lʼaltare, in secondo luogo sulla proibizione o no di offrire sacrifizi in qualunque luogo si fosse; contraddizioni che si trovano nelle stesse leggi ELN. Ed una terza contraddizione poi nel fatto è quella che sorge dal Deuteronomio (xii, 8 e seg.), dove si menziona senza disapprovarlo un uso in opposizione con la legge anticipatamente promulgata.

[43]

Intorno al sacrifizio pasquale che gli Ebrei dovevano celebrare in Egitto, abbiamo nello stesso capitolo xii dellʼEsodo due leggi che fra loro punto non convengono. Secondo lʼuna (3–10), il rito del sacrifizio pasquale sarebbe stato di scannare un agnello o un capretto nel giorno quattordicesimo del mese primo, dopo averlo destinato fino dal giorno decimo, e mangiarne nella sera la carne arrostita con azzime ed erbe amare, e non farne avanzare per la mattina successiva, o bruciarla, caso ne avanzasse. Nellʼaltra (v. 21–27), di mangiare le azzime insieme col sacrifizio non si fa alcuna menzione, anzi non si parla del tutto della proibizione del pane lievitato. E ciò non sarebbe possibile, se fosse, come intende lʼinterpretazione tradizionale, che in questa seconda parte Mosè ripetesse agli anziani del popolo il comando ricevuto da Dio. Perchè la ripetizione, omettendo una parte importante, non sarebbe fedele. In due altri luoghi si aggiunge che non solo non poteva mangiarsi, ma nemmeno immolarsi questo sacrifizio insieme col pane lievitato (xxiii, 18, xxxiv, 25). Più discordante ancora da queste disposizioni è quella del Deuteronomio (xvi, 2), secondo la quale si sarebbe potuto fare il sacrifizio pasquale indifferentemente di animali ovini o bovini, mentre abbiamo veduto essere prescritto altrove un agnello o un capretto.[22]

Evidentemente queste leggi rituali non convengono punto fra loro, e troviamo in alcune ciò che nelle altre è del tutto ignorato.

[44]

Il sacrificio della festa di Pentecoste doveva constare, secondo una legge (Levit., xxiii, 18, 19), di un olocausto di sette agnelli, di un toro e di due montoni, di un sacrificio espiatorio di un capro, e di uno votivo (Shelamim) di due agnelli. Mentre in unʼaltra legge (Num., xxviii, 26–31) non si parla di sacrificio votivo, e lʼolocausto sarebbe constato di due tori, di un montone e di sette agnelli. Anche qui i talmudisti hanno cercato una conciliazione, interpretando che nei due passi citati si parli di due sacrifizi diversi, sebbene da doversi offrire nella medesima festa, e uno sarebbe stato per le primizie della mèsse, lʼaltro per la festa in sè stessa.[23] Ma ognuno vede quanto sia arbitraria questa conciliazione, che non ha nel testo nemmeno una parola che la giustifichi, e che sarebbe contraria ad ogni consuetudine delle altre feste.

In quanto alla consacrazione dei primogeniti, un passo dellʼEsodo (xiii, 13) stabilisce che fra gli animali impuri solo quelli degli asini erano sottoposti al riscatto, o altrimenti a dover essere uccisi, mentre in altro luogo (Num., xviii, 15) si parla in generale del riscatto dei primogeniti di tutti gli animali impuri senza nessuna distinzione. Rispetto poi al modo come doveva intendersi questa consacrazione dei primogeniti è patente la contraddizione fra il Numeri (xviii, 14–18) e il Deuteronomio (xii, 17, 18; xv, 19–23). Imperocchè nel primo luogo si dice che i primogeniti degli animali appartenevano ai sacerdoti, nel secondo è chiaro che la consacrazione consisteva soltanto nel fare dei[45] primogeniti un convito sacro nel luogo del culto centrale, ma convito sacro che facevano i proprietarii, cui poteva prender parte ogni persona in istato di purità. I talmudisti hanno voluto togliere queste due contraddizioni con un principio del loro metodo esegetico, che le espressioni generali di un luogo sono limitate da quelle particolari di un altro. Ma se questo principio è giusto, quando sia rettamente inteso e applicato, non si può ragionevolmente invocare, se le espressioni del testo esplicitamente vi si oppongono. Il testo del Numeri dice chiaramente «il primogenito dellʼanimale impuro riscatterai»; non può adunque intendersi, come vorrebbero i talmudisti, che si riferisca solamente alla specie asino[24] ciò che è detto di tutte le specie di animali impuri. Molto meno poi si prestano alla interpretazione talmudica i passi del Deuteronomio. Nei quali evidentemente il legislatore si dirige a tutto il popolo: «Non potrai mangiare nelle tue città la decima del tuo grano, del tuo mosto, del tuo olio, e i primogeniti dei tuoi buoi e delle tue greggie, e tutti i voti che prometterai, e le tue offerte, e lʼoblazione della tua mano. Ma soltanto dinanzi Jahveh tuo Dio li mangerai nel luogo che eleggerà Jahveh tuo Dio, tu e tuo figlio, e tua figlia, e il tuo servo e la tua serva, e il levita che è nelle tue città, e ti rallegrerai dinanzi Jahveh tuo Dio in tutto il prodotto delle tue mani». (Deut., xii, 17, 18). E altrove: «Ogni primogenito che nascerà nei tuoi buoi e nelle tue greggie maschio consacrerai a Jahveh tuo Dio, non lavorerai col primogenito del tuo bue, nè toserai il primogenito della tua greggie; dinanzi Jahveh tuo[46] Dio lo mangerai anno per anno nel luogo, che sceglierà Jahveh, tu e la tua famiglia». (XV, 19, 20). Come è possibile che le parole «lo mangerai» si dirigano soltanto ai sacerdoti, come interpetra lʼIsaacita, anche in ciò pedissequo del Talmud, mentre tutto il discorso di necessità si deve intendere rivolto a tutto il popolo?

Non si può adunque in alcun modo negare che riguardo ai primogeniti prevalsero successivamente nel popolo costumanze, e quindi leggi diverse.

Il servizio dei leviti per il culto, secondo alcuni testi (_Numeri_, IV, 3, 23, 30, 39, 47), avrebbe dovuto durare dallʼetà di trentanni fino a cinquanta, ma poi, secondo un altro passo (ivi, VIII, 24), avrebbe dovuto incominciare da venticinque anni. E stata proposta la conciliazione che i cinque primi anni dovessero intendersi come di un tirocinio, e non di un vero e proprio servizio;[25] ma ciò non resulta in nessun modo dai testi messi a fronte tra loro, perchè non solo non fanno questa distinzione, ma usano le stesse frasi, lo che sta a provare che dalla lettera del testo viene anzi esclusa.

In quanto alle altre rendite sacerdotali è pure patente la contraddizione fra le leggi ELN e quella del Deuteronomio. Secondo la prima, i sacerdoti avrebbero avuto dei sacrifizi votivi il petto e la coscia destra di ogni animale immolato (Levit., vii, 34), più tutti i sacrificii espiatorii, e oltre i primogeniti, come testè abbiamo accennato, le primizie dei prodotti agrarii (Num., xviii, 8–20).[26] I leviti poi, ministri dei sacerdoti[47] nel servizio del culto, avrebbero avuto la decima di tutti i prodotti, da cui dovevano a lor volta prelevare il decimo a vantaggio dei sacerdoti (ivi, 21–30). Mentre, secondo ciò che è scritto nel Deuteronomio (XVIII, 3), la parte dei sacerdoti nei sacrifizi sarebbe stata la coscia, le ganasce e il ventricolo, e i leviti non avrebbero avuto se non una parte, rimessa alla generosità dei proprietarii della decima, che come cosa consacrata avrebbero essi stessi dovuto godersi con la propria famiglia, andando in occasione delle feste nella città del culto centrale (ivi, XIV, 22–27). Di più, distribuivasi ogni tre anni la decima ai bisognosi di ogni luogo, fra cui vengono specialmente annoverati i leviti, i forestieri, gli orfani e le vedove (ivi, 28, 29; XXVI, 12). Queste due disposizioni non possono in niun modo insieme accordarsi; perchè se i leviti, che erano circa la cinquantesima parte di tuttala popolazione,[27] avessero avuto la decima di tutti i prodotti, sarebbero stati ricchi cinque volte più della media dei loro concittadini, e non avrebbero potuto annoverarsi in niun modo tra i bisognosi. Ma i talmudisti passarono sopra questa difficoltà, vollero vedere nella decima imposta nel Deuteronomio una cosa diversa da quella del libro dei Numeri, e la chiamarono decima seconda, come decima, del povero dissero quella da prelevarsi ogni tre anni.

[48]

In quanto alla proibizione di mangiare gli animali morti di morte naturale, o lacerati dalle fiere, mentre lʼEsodo parla soltanto di questi, e dice assolutamente di non mangiarne, ma di gettarne la carne ai cani, nel Levitico (xi, 40; xvii, 15) si legge che chi avesse mangiato indifferentemente o degli uni o degli altri, o fosse cittadino, o forestiero, sarebbe stato impuro e sottoposto al rito della purificazione. E fin qui noi non sappiamo vedere quella contraddizione che altri critici vi notano,[28] perchè la proibizione è posta nellʼEsodo come norma; se poi alcuno o volontariamente o involontariamente lʼavesse trasgredita, si trovava impuro. La contraddizione però è nel Deuteronomio (xiv, 21), dove si parla solo di animali morti naturalmente, e si permette di dare di queste carni ai forestieri che si trovassero nel territorio israelitico. I rabbini hanno distinto fra il forestiero che si fosse fatto proselita, e quello che non si fosse sottomesso se non che ai precetti dei Noachidi, ma oltre che questa distinzione dal testo non resulta, sʼintendeva da sè che il proselita era sottoposto al rito del pari che lʼisraelita di nascita.

Se passiamo ora alle leggi civili e di ordine morale, incontriamo anche in queste due gravi contraddizioni. La prima intorno al riscatto degli schiavi ebrei. Nella legge dellʼEsodo (xxi, 2, 6) si stabilisce che lo schiavo ebreo avrebbe dovuto tornare in libertà dopo sei anni, tranne il caso in cui egli stesso avesse dichiarato di preferire lo stato di servitù, che allora rimaneva servo a perpetuità. A questa legge si conforma quella del Deuteronomio (xv, 12–18), eccettochè[49] non contiene alcune disposizioni più miti riguardo alla donna schiava. Ma la legge del Levitico (XXV, 39, 40) è da un lato più dura assai, perchè fissa il tempo della liberazione soltanto allʼanno del Giubileo, che cadeva ogni 50 anni, e così vi doveva essere spesso il caso che uno schiavo invecchiasse o anche morisse nello stato di servitù. Ma certo è che il tempo di sei anni non può combinare con questo del Giubileo.—I talmudisti hanno conciliato la difficoltà, interpretando la frase dellʼEsodo che suona: e servirà per sempre, come dicesse: e servirà fino al Giubileo; i sei anni poi dovevano computarsi intieri, quando nel corso di essi lʼanno del Giubileo non cadesse, ma se ciò avveniva, la liberazione si effettuava anche –prima che i sei anni fossero compiuti.[29] Hanno voluto inoltre fare anche una distinzione fra i due testi, interpretando, come meglio si vedrà più innanzi, quello dellʼEsodo per il servo venduto giudiziariamente, e quello del Levitico per chi si fosse venduto schiavo volontariamente. Distinzione del resto che non ha nessun ragionevole fondamento.

La seconda contraddizione è intorno al matrimonio con la vedova del fratello. La legge del Levitico lo proibisce esplicitamente in due luoghi (xviii, 16; xx, 21), mentre il Deuteronomio impone quasi come obbligò al fratello del defunto di sposarne la vedova, quando non avesse lasciato prole, e se si fosse ricusato, era poco meno che ricoperto di vergogna (xxv, 5–10). Sʼintende che la conciliazione qui proposta è di distinguere il caso della cognata con prole da quella che ne è priva;[30] ma il testo del Levitico proibisce[50] il matrimonio fra cognati senzʼalcuna distinzione. per concludere intorno a queste contraddizioni, termineremo collʼosservare che quando si parte dal preconcetto dogmatico che il Pentateuco sia parola divina, ne discende di conseguenza che contraddizioni non possono esservi; deve anzi tutto insieme concordare, anche se la mente umana non può trovare la conciliazione. Ma a chi esamina i fatti senza alcun preconcetto nè dogmatico nè miscredente, le contraddizioni si appalesano da sè, e la conciliazione non è possibile. Testimone eloquentissimo di tale verità è ciò che avvenne al celebre Colenso. Dunque concludiamo che una legge che si contraddice nelle sue diverse disposizioni non può essere opera di un solo uomo, eccetto che questi non abbia espressamente avvertito di voler abrogare o correggere con la disposizione successiva quella antecedente. Ma questo non è il caso per la legislazione del Pentateuco.

Vi è da ultimo a notare quale sia veramente la relazione della legge del Deuteronomio con quella dei precedenti libri; perchè, oltre le sopra esposte contraddizioni, esso è tale che non può in verun modo tenersi nè ripetizione nè compimento di quella. Non ripetizione, perchè in parte contraddice la legge antecedente, e in parte contiene moltissime disposizioni, di cui in quella non si fa alcuna menzione; non complemento, perchè in tal caso avrebbe dovuto sola esporre le leggi aggiunte alle prime, e non ripetere ancora, come infatti si vede, molte delle antecedenti. Di più, la legge deuteronomica è in sè qualche cosa di compiuto, che per intima indole e per differenza di forma si distingue troppo da quella ELN. Ma qui possiamo di volo accennare questi tre punti che saranno[51] svolti, quando più innanzi faremo del Deuteronomio una compiuta analisi. Qui ci basti avere dimostrato che il concetto dogmatico di una legge mosaica non si accorda con lʼesame critico della legge stessa, quale ci è nel Pentateuco conservata. Questa dimostrazione, desunta qui dallʼesame interno della legge stessa, potrebbe venire avvalorata anche da quello dei libri storici, profetici e poetici del Vecchio Testamento, per iscoprire in quale relazione stiano con la legge; ma questo esame è necessario rimettere a quando dovrannosi trovare i criterii per istabilire lʼetà della composizione delle diverse parti della legge e della sua finale compilazione.


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Capitolo III

CENNO SULLE CONCLUSIONI DELLA CRITICA
INTORNO ALLA COMPOSIZIONE DEL PENTATEUCO

Se non può essere uno solo nè lo scrittore originale del Pentateuco, nè lʼautore di tutte le leggi in esso contenute, fa dʼuopo prendere partitamente in esame le varie raccolte di leggi e anche quelle isolate che vi si trovano sparse. La quale ricerca non può del tutto staccarsi dallʼaltra, intorno alla composizione del Pentateuco. E però, senza troppo in essa addentrarci, basterà accennare i più probabili resultati, ai quali oggi la critica è pervenuta.

Fondandosi anche per la parte narrativa sulle medesime ragioni sopra esposte per quella legislativa, cioè le allusioni a tempi, fatti e circostanze posteriori e di non poco alla età mosaica, le ripetizioni e le contraddizioni che nei racconti o leggendarii o storici sono anche maggiori che nelle leggi, i più dei critici si accordano a distinguere nel Pentateuco tre principali documenti originarii, cioè: 1o uno scritto chiamato da alcuni elohistico, perchè vi si usa principalmente nelle parti che precedono il capitolo vi dellʼEsodo il nome divino Elohim, piuttostochè quello di[54] Jahveh; 2o altro scritto detto Jehovistico, o Jahvistico, per la ragione che si usa a preferenza il nome di Jahveh; 3o il Deuteronomio.

Non tutti però sono concordi nel nome dei due primi, perchè lo scritto elohistico è detto ancora Libro delle origini,[31] Scritto fondamentale,[32] Libro detta legge e delle genealogie,[33] Scritto annalista,[34] Libro dei quattro patti, cioè di Adamo, di Noè, di Abramo e di Mosè, e indicato però con la lettera Q,[35] Codice sacerdotale,[36] e anche è indicato con la semplice lettera A.[37]

Il secondo è chiamato altresì Profetico,[38] o Supplementare,[39] perchè si tiene che non ci sia mai stato uno scritto jehovistico per sè, ma che solo con alcuni sparsi frammenti si sia compiuto lo scritto elohistico, o quarto narratore,[40] o indicato colla lettera B,[41] o con quella C,[42] secondo che gli si assegna il secondo o terzo posto nellʼordine cronologico.

A questi tre principali documenti originarii si crede dai più che si debbano aggiungere altri scritti o di minore importanza o di minore estensione, come alcuni[55] canti di origine antichissima, alcune leggi isolate, o anche brevi raccolte legislative; ma qui nel computare e nel valutare queste altre fonti troviamo nei critici una maggiore discordanza. È però oggi dai più concordato che fra i documenti originali ci sia stato uno scritto, detto da alcuni secondo elohista, perchè credono trovarvi analogie col primo di questo nome, di cui solo alcuni sparsi frammenti ci siano conservati nellʼattuale compilazione del Pentateuco, perchè o il Jehovista gli accolse nella sua opera, conservandone presso a poco la forma primitiva, oppure perchè questa combinazione di due fonti diverse sia fatta da un più recente compilatore; ma lo scritto nella sua integrità sarebbe perduto. E anche qui troviamo disaccordo nel nome, perchè altri lo chiamano il Terzo Narratore,[43] altri vogliono trovarci, almeno in parte, il Libro del Retto,[44] di cui si parla nella stessa Scrittura (Josuè, x, 13; 2o Sam., i, 18), altri lo dicono il Narratore Teocratico[45] altri lo indicano colla lettera B[46] o con quella C,[47] altri finalmente lo tengono come il vero e solo Elohista.[48]

Anche intorno al modo della compilazione sono discordi le opinioni. Per alcuni la compilazione dei primi quattro libri avrebbe preceduto la composizione del Deuteronomio, dimodochè vi sarebbe stato un[56] compilatore per quelli, e poi lʼautore del Deuteronomio avrebbe allʼopera già esistente unito la sua,[49] o questa unione sarebbe stata fatta da un altro compilatore. Ad opinione poi di altri, la fusione in una opera sola dei diversi scritti originarii sarebbe avvenuta soltanto dopo la parziale composizione di ognuno di questi, tanto più che per alcuni il Deuteronomio sarebbe anteriore a gran parte dei primi quattro libri.[50] Per ultimo lʼopinione oggi prevalente riconosce che anche il libro di Giosuè forma una cosa sola coi cinque libri detti mosaici, dimodochè avremmo piuttosto un Hexateuco che un Pentateuco. Ad ogni modo pera il compilatore si sarebbe valso delle fonti che aveva dinanzi a sè, cercando di fare unʼopera che avesse, per quanto era possibile col suo metodo di compilazione, unità di soggetto e di fine. E diciamo per quanta era possibile, imperocchè il suo metodo pare che fosse di conservare la forma primitiva degli scritti originarii, attaccando successivamente i diversi passi ora, dellʼuno ora dellʼaltro, e inserendo anche talvolta qualche frammento o rimasto fuori dei principali scritti; originarii, o di questi più recente. In questo solo modo possiamo spiegare come certi passi del Pentateuco disturbino troppo apparentemente lʼordine e il piana della composizione. Ne siano di esempio i capitoli xxiv e xxvii del Levitico, il v e il vi e alcuni altri del Numeri, sui quali a suo luogo ci tratterremo. Avrà inoltre il compilatore soppresso le ripetizioni che si sarebbero immediatamente succedute, o quelle fra le contraddizioni che più lo avranno colpito, e frapposto[57] qua e là alcune frasi necessario o a connettere ciò che altrimenti sarebbe rimasto troppo scucito, o ad armonizzare ciò che sarebbe apparso in troppo palese contraddizione, o finalmente anche a spiegare ciò che per i suoi contemporanei sarebbe riuscito oscuro. Ma non ostante siffatto studio di connessione e di armonizzamento, siccome questo compilatore non ha di nuovo composto unʼopera sua, ed invece ha solo combinato insieme quelle che già esistevano, tentando da diversi scritti formarne uno solo; se pure è difficile ristabilire in tutti i più minuti particolari la primitiva composizione delle fonti originarie, si può benissimo dallʼaltro lato riconoscerne la diversità, e trovare anche in molti casi il punto ove, per dir così, i diversi pezzi sono stati insieme cuciti. Adduciamo un solo esempio nel seguente passo tratto dalla vocazione di Mosè.

Si narra in prima che Mosè, profugo nei deserti dellʼArabia, fu chiamato da Jahveh, e ne ricevette la missione di liberare gli Ebrei dallʼEgitto. Dopo molte esitazioni ad accettare questʼincarico, fondate danna parte sulla poca fede che gli Ebrei avrebbero avuto in lui, dallʼaltra sopra il suo naturale difetto della balbuzie, si risolve a partire per lʼEgitto ed a compiere la ricevuta passione, perchè rassicurato da Dio che gli Ebrei, mediante i prodigi da lui operati, gli avrebbero creduto, e alla balbuzie avrebbe riparato col far parlare in vece sua il fratello Aron.

Si racconta quindi il viaggio in Egitto, lʼincontro col fratello, la fede ottenuta mediante i miracoli presso il popolo; ma il nessun buon esito presso il Faraone, che anzi impone agli Ebrei lavoro più gravoso. Questi non possono fare a meno di lamentarsene con Mosè[58] e Aron, e Mosè alla sua volta ripete questi lamenti a Jahveh, il quale gli risponde (vi, 1): «Ora vedrai quello che farò a Faraone, che con mano forte li manderà, e con mano forte li caccerà dalla sua terra». Evidentemente con queste parole la vocazione di Mosè e la sua prima allocuzione, da una parte ai suoi fratelli, dallʼaltra al re dʼEgitto, sono compiute; ogni lettore si aspetta che sʼincominci a narrare quello che Dio fece per costringere il Faraone a liberare gli Ebrei, narrazione che si prende a fare col v. 14 del capitolo vii. Tutto ciò che sta fra mezzo è altra versione della prima vocazione di Mosè e del primo discorso tenutogli da Jahveh, tratta certo da una fonte diversa. E per meglio persuaderne il lettore, è prezzo dellʼopera darne la traduzione:

vi. 2, 3.E parlò Elohim a Mosè e disse a lui: io sono Jahveh.[51] E apparvi ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe come El Shaddai, e nel mio nome Jahveh non fui conosciuto a loro. 4.E anche mantenni il mio patto con loro per dare ad essi la terra di Canaan, la terra delle loro peregrinazioni, nella quale peregrinarono. 5.Ed anche io ho sentito il gemito dei figli dʼIsraele, che gli Egiziani tengono in servitù, e rammenterò il mio patto. 6.Perciò dico ai figli dʼIsraele: io sono Jahveh, e vi farò escire di sotto le oppressioni degli Egiziani, e vi libererò dalla loro servitù, e vi redimerò con braccio teso, e con giudizii sommi. 7.E vi prenderò a me come popolo, e sarò a voi come Dio, e conoscerete che io sono Jahveh Dio vostro, che vi trae di sotto le oppressioni degli Egiziani. 8.E vi porterò alla terra che ho giurato di dare ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe, e darò quella a voi eredità: io Jahveh. 9.E parlò Mosè così ai figli dʼIsraele, e non gli prestarono ascolto per lʼangustia di spirito, e per la dura servitù. 10. 11.E parlò Jahveh a Mosè: Va parla a Faraone re dʼEgitto, e mandi i figli dʼIsraele dalla sua terra. 12.E parlò Mosè[59] dinanzi a Jahveh, dicendo: ecco i figli dʼIsraele non mi ascoltarono, e come mi ascolterà Faraone? ed io sono balbuziente.[52] vii. 1.E disse Jahveh a Mosè, vedi ti ho posto come Dio a Faraone, e Aron tuo fratello sarà come tuo profeta; tu parlerai tutto ciò che ti comanderò, 2.e Aron tuo fratello parlerà a Faraone, il quale manderà i figli dʼIsraele dalla sua terra.

Non è possibile che questo passo in una composizione primitiva e tutta di uno stesso autore seguisse il v. 1o del capitolo vi, poco sopra tradotto, e ciò per più ragioni. In prima in questo passo si riprende la narrazione da principio, ed Elohim apparisce a Mosè, e gli fa conoscere il proprio nome come nel cap. iii, v. 15. In secondo luogo gli parla dellʼoppressione sofferta dagli Ebrei, come se non mai glie ne avesse parlato, e lo incarica di assicurarli di una pronta liberazione, perchè si rammentava del patto coi patriarchi, cosa anche questa già sopra esposta (iii, 16–17). In terzo luogo gli Ebrei, secondo questa versione, non si mostrano disposti a prestare ascolto a Mosè, allʼopposto di ciò che sopra è narrato (iv, 31). Nè si dica che qui si parlerebbe di una seconda o di una terza allocuzione di Mosè al popolo, perchè da tutto il contesto chiaramente si appalesa come la prima. Finalmente Mosè presenta la difficoltà della balbuzie, già di sopra appianata, e là presenta, come se non mai avesse parlato a Faraone, mentre nel capitolo v si narra appunto che Mosè, coadiuvato dal fratello, ad esso si era presentato, cosa anche questa che sta a confermare, come qui si parli di una prima allocuzione. Ma tutte queste difficoltà insuperabili nella ipotesi[60] tradizionale della unica composizione di un solo autore spariscono nella ragionevole ipotesi della critica di una compilazione desunta da diverse fonti. E qui, come altrove, abbiamo nei capitoli iivi, 1, la narrazione della vocazione di Mosè e della prima sua missione agli Ebrei e a Faraone secondo lo scritto jehovistico, arricchito forse ancora in certi punti da documenti più antichi, e guasto altresì da più recenti interpolazioni; mentre nel passo da noi tradotto abbiamo la narrazione, secondo lo scritto elohistico, più breve, più arida, e spogliata, come è suo stile, da tutti gli episodii aneddotici, che rendono la narrazione del Jehovista tanto più viva e più dilettevole.

Questo fatto, di cui abbiamo dato un esempio, si ripete molte volte in tutta la parte narrativa dal principio del Genesi fino alla fine del libro di Giosuè. Dimodochè, senza entrare qui nei particolari che ci fuorvierebbero non poco dal nostro assunto, dichiariamo di accettare nelle sue linee generali, se non in tutti i particolari, la conclusione di quei critici, che vedono nella composizione dellʼHexateuco tre scritti principali, il Jehovista, lʼElohista e il Deuteronomio, combinati tutti e tre, ma in differente proporzione, con altri documenti più o meno estesi, in parte più Antichi e in parte più recenti. Sʼintenda bene però che per ora non vogliamo qui nulla concludere intorno alla età relativa di questi scritti originarii, cosa di cui tratteremo a suo luogo.

Prendiamo ora in esame ad una ad una le diverse parti legislative.


[61]

Capitolo IV

IL DECALOGO

Ad opinione di molti, prescindendo da alcune costumanze che nella gente ebrea saranno state antichissime, come la circoncisione, il diritto di primogenitura, il levirato e poche altre, si tiene che quella parte della legge detta Decalogo sia la più antica, e possa anche avere avuto per autore Mosè. Ma se questa nella sua generale enunciazione è una opinione che può accettarsi, non è però che sottoposta ad analitico esame non presenti nei suoi particolari alcune difficoltà. Il nome di Decalogo, che già si trova nella Scrittura (Esodo, xxxiv, 28; Deut., iv, 13; x, 4), è uno di quelli che hanno avuto più fortuna nella tradizione religiosa: Ebrei e Cristiani, tanto cattolici quanto protestanti di tutte le sètte, non hanno mai esitato a dare questo nome ai due passi dellʼantico Testamento (Esodo, xx, 2–17; Deut., v, 6–21), il contenuto dei quali sarebbe stato in origine, secondo la tradizione, scolpito sopra due tavole di pietra. Anzi, secondo alcuni dei moderni critici, il numero di dieci e talvolta quello di cinque sarebbe stato la base di molte altre parti della legislazione mosaica, che dividono perciò in tanti[62] gruppi, composti la maggior parte di dieci, e talora di cinque precetti, ed è cognito ormai che il Bertheau ha fondato su questo principio tutto il suo libro intorno alla legislazione ELN.[53] Ma però se tutti sono concordi a chiamare Decalogo il contenuto dei due citati luoghi del Vecchio Testamento, non poche divergenze si trovano nel modo di dividerlo in dieci comandamenti. E siccome volgarmente se ne ha cognizione più per il catechismo che per lettura diretta della Bibbia, non sarà del tutto soverchio metterne dinanzi agli occhi del lettore la traduzione. Seguiremo la lezione dellʼEsodo, notando le varianti del Deuteronomio:

xx. 2.Io sono Jahveh tuo Dio, che ti feci escire dalla terra dʼEgitto, dal luogo di schiavitù. 3.Non siano a te altri Dei oltre la mia presenza. 4.Non ti fare scoltura, e qualunque immagine, che sia nel cielo di sopra, e nella terra di sotto, e nellʼacqua di sotto la terra. 5.Non ti prostrare a quelle, e non le adorare, che io Jahveh tuo Dio, Dio geloso, esaminatore della colpa dei padri sui figli, sui terzi e sui quarti [discendenti] per i miei nemici. 6.E faccio pietà a mille [generazioni], ai miei amici e agli osservatori dei miei comandi.[54]

7.Non pronunziare il nome di Jahveh tuo Dio in vano, che non ascolterà Jahveh chi pronunzia il suo nome in vano.

8. 9.Rammenta[55] il giorno del sabato per santificarlo.[56] Sei giorni lavorerai, e farai ogni tua opera; 10.e il giorno settimo sabato a Jahveh tuo Dio, non farai alcunʼopera tu, nè tuo figlio, ne tua figlia, il tuo servo, ne la tua serva,[57] nè il tuo bestiame, nè il forestiero che nelle tue città.[58]11. Perchè in sei giorni fece Jahveh il cielo e la terra, il mare, e tutto ciò che[63] è in essi, e riposò nel giorno settimo, per ciò Jahveh benedì il giorno del sabato, e lo santificò.[59]

12.Onora tuo padre e tua madre,[60] acciocchè si prolunghino i tuoi giorni[61] sulla terra che Jahveh tuo Dio dà a te.

13.Non uccidere.

14.Non commettere adulterio.

15.Non rubare.

16.Non deporre contro il tuo prossimo testimonianza falsa.[62]

17.Non desiderare la casa[63] del tuo prossimo.

Non desiderare[64] la moglie[65] del tuo prossimo,[66] nè il suo servo, nè la sua serva, nè il suo bove, nè il suo asino, nè tutto ciò che è del tuo prossimo.

La divisione in dieci capoversi da noi qui seguita è quella dei Masoreti, che si uniforma al computo dei dieci comandamenti secondo S. Agostino, la Chiesa cattolica e la luterana. Il primo capoverso conterrebbe un solo comandamento intorno al monoteismo scevro dʼidolatria, i due ultimi capoversi conterrebbero due comandamenti, distinguendo il peccato di desiderio rispetto alla roba da quello rispetto alla donna altrui. Alla quale divisione si presta meglio la lezione del Deuteronomio che quella dellʼEsodo. Imperocchè la prima, ponendo in una proposizione distinta il desiderio della moglie altrui, distingue questo peccato da quello del[64] desiderio degli altrui averi; mentre, secondo la lezione dellʼEsodo, si avrebbe prima il desiderio dellʼaltrui casa, come quello di un tutto, di cui poi sarebbero specificate le parti, e fra queste sarebbe annoverata anche la moglie. Seguendo questa lezione, è chiaro che il comandamento diretto a proibire in genere tutto ciò che appartiene al prossimo, sia la donna, sia la roba, non si può distinguere in due, ma va computato come uno solo. Difatti così lo computano gli Ebrei, malgrado la divisione masoretica dei paragrafi, e così lo computano anche Origene e le Chiese protestanti, eccetto la luterana. A compire poi il numero tradizionale di dieci, sono costretti a distinguere il primo paragrafo in due comandamenti. Ma anche qui si manifesta un altro disaccordo, imperocchè gli Ebrei seguendo il Talmud[67] e il pseudo Jonathan, cui si uniforma il Nachmanide, valutano per primo comandamento il secondo verso, che contiene lʼaffermazione dellʼesistenza di un solo Dio, e per secondo comandamento i VV. 3–6 che proibiscono la credenza in altri Dei, e lʼadorazione delle immagini; mentre Origene e i luterani e anche alcuni commentatori ebrei tengono il secondo verso come introduzione, il terzo che proibisce la credenza in altri Dei come il primo comandamento, e i versi quarto e quinto come il secondo comandamento, che proibisce lʼadorazione delle immagini.

Fra i dottori ebrei è notevole poi lʼopinione del Maimonide, il quale conta per quattro comandamenti distinti i quattro versi 2–5,[68] e così si avrebbero tutti[65] insieme tredici comandamenti invece di dieci.[69] Ma siccome questo numero è antichissimo nella tradizione, ed è fondato anche sulla ragione naturale che ha fatto adottare la numerazione a base 10, crediamo che non vi sia alcuna ragione per non vedere in questi due passi della Scrittura nellʼEsodo e nel Deuteronomio un vero e proprio Decalogo, per la divisione del quale nella forma che ora abbiamo, ci pare più logico e razionale il computo di Origene, delle Chiese riformate e di alcuni commentatori ebrei.

Ma sorgono però altre domande. Fra le due lezioni dellʼEsodo e del Deuteronomio quale è lʼanteriore? Si è mantenuta la composizione originale nellʼuna o nellʼaltra, o tutte e due hanno subito delle modificazioni? E finalmente a quale età si deve riportare la prima composizione di questo Decalogo? Per procedere con maggiore ordine, e anche con più sicurezza, incominciamo dallo studiare siffatte quistioni nellʼordine inverso a quello in cui le abbiamo proposte.

Se noi esaminiamo il contenuto del luogo biblico testè tradotto, non vi troviamo nulla che oltrepassi il cerchio dʼidee di una gente ancora nomade, in mezzo alla quale era sorto un uomo di genio superiore, che voleva infondere in essa i principii di una vita religiosa morale e civile. Il concetto primo di allontanare gli Ebrei dalle credenze politeistiche di altre genti appare, secondo tutta la storia, che possa risalire fino a Mosè. E vero che i suoi conati non poterono trionfare se non dopo alcuni secoli; perchè[66] il popolo a lui immensamente inferiore ricadeva in quelle pratiche superstiziose, dalle quali egli voleva farlo risorgere; e alcuni degli stessi sacerdoti, alcuni degli stessi datori di leggi, che gli succedettero, facevano concessioni alle superstizioni popolari, anzichè combatterle. E però noi concediamo che il concetto di un puro monoteismo sia rimasto oscuro e soffocato, fino che lo richiamarono in luce e in vita i profeti dellʼottavo secolo a. C.; ma non vi è nessuna ragione per negare che il primo concetto di questo monoteismo sia stato insegnato da Mosè. Dunque il principale fondamento di tutto lʼEbraismo, cioè il culto di Jahveh ad esclusione di quello di ogni altro Dio, che troviamo espresso nei due primi comandamenti, può benissimo risalire fino ai tempi che immediatamente successero alla liberazione dallʼEgitto. Gli altri due precetti che concernono le relazioni dellʼuomo con Dio, cioè di non usare in vano del nome di Jahveh, e di consacrare ogni sette giorni uno di riposo, sono, il primo, lʼimmediata conseguenza della credenza in un Dio, il secondo, la forma di culto più semplice che possa immaginarsi, e non repugnante a una vita ancora nomade. Gli altri sei precetti, che riguardano le relazioni con la famiglia e con la società, sono espressi in forme così generali, che si riducono a quei più fondamentali principii, senza dei quali non è possibile esista verun comune consorzio fra gli uomini. Difatti impongono soltanto il rispetto agli autori dei nostri giorni, e lʼinviolabilità della vita, dellʼonore, della roba e della famiglia altrui. Nessuna più speciale determinazione che accenni a uno stato di società piuttosto che ad un altro. I principii contenuti nel Decalogo sono necessarii al buon ordine, tanto della vita nomade[67] di unʼorda di mongoli, quanto allʼincivilimento più avanzato di qualunque popolo europeo. Il solo tratto esclusivamente nazionale è quello di dover riconoscere Jahveh come solo Dio, perchè era stato il liberatore dalla servitù egiziana. Ma questo si confaceva appunto benissimo alle condizioni del popolo ebreo nellʼetà mosaica. Un Dio che allora era principalmente un Dio nazionale, doveva essere raccomandato allʼadorazione del popolo, giustʼappunto perchè a questo popolo aveva dato la base dellʼesistenza nazionale, cioè la libertà.

Potrebbe ancora da alcuno tenersi come troppo speciale al culto il comando di consacrare a Dio il settimo giorno della settimana. Ma si avrebbe torto di riportare a tempi di una civiltà appena appena incipiente la riflessione filosofica e razionalistica di altre età. Posto, come provano i fatti, che una religione, e una religione con forme, esteriori, sia stata, almeno fino adesso, una delle basi di quasi tutti i modi di vita civile, il consacrare un giorno al riposo del lavoro e a una festa in comune, poteva anche non poco influire a rendere più miti i costumi, ad educare a sentimenti di fratellanza, e a far pensare che tutti gli uomini in sostanza sono eguali, tutti, ed anche i servi, devono riposare nel giorno che è alla religione consacrato.

Nè questo concetto è da tenersi come tanto elevato da oltrepassare quellʼorizzonte dʼidee in cui erano chiusi gli Ebrei nella loro nomade vita. Sono appunto i popoli che ancora da essa non sono esciti, i quali nutrono più profondamente fra loro questo senso di eguaglianza, perchè nè guerre, nè conquiste, nè acquistate ricchezze hanno potuto creare una aristocrazia, e quindi nemmeno differenze sociali.

[68]

Se però in quanto allʼintimo contenuto del Decalogo nulla repugna ad attribuirlo a Mosè,[70] non è lo stesso per il modo di compilazione, nel quale ci è pervenuto. Osserviamo in prima la sproporzione dei diversi comandamenti. Estesissimi quelli intorno al monoteismo e allʼosservanza del sabato, constano invece di due sole parole nel testo ebraico quelli relativi allʼomicidio, allʼadulterio e al furto. Di più moderata estensione, ma pur sempre sproporzionata alla stringatissima brevità di questi tre, sono i comandamenti intorno al rispetto del nome divino, allʼautorità dei genitori e al desiderio della roba altrui. Questa sproporzione è difficile a conciliarsi nel concetto di dieci comandamenti tutti della medesima importanza, e che avrebbero dovuto tutti essere dettati in una forma breve per potere facilmente ritenersi a memoria.

Se poi i dieci comandamenti erano scolpiti in due tavole, è difficile immaginare come potessero, esservi proporzionalmente distribuiti secondo la loro presente composizione. Ad ovviare almeno in parte a questa difficoltà, la Chiesa cattolica forma dei tre primi componimenti la prima tavola, e degli altri sette la seconda. Ma secondo la tradizione ebraica, forse qui più vicina al vero, la quale distribuisce i comandamenti cinque per tavola, ciò non è in nessun modo ammissibile nella presente forma del Decalogo. O bisognerebbe supporre due tavole di troppo diversa grandezza, o, se erano eguali, doveva il contenuto soverchiare nella prima, e rimanere troppo scarso nella seconda.

[69]

Inoltre la Scrittura stessa chiama i dieci comandamenti col nome di dieci parole, ed è vero che il vocabolo ebraico Dabar (parola) può significare anche lungo discorso, ma questo nome speciale dato al Decalogo, mentre le altre parti della legislazione sono chiamate ora precetti (mizvoth), ora leggi (mishpatim), ora statuti (huqqoth o huqqim), fa credere che la ragione di chiamare questi, che erano il fondamento di tutta la legge, col nome di parole, sia stata quella di aver trovato che consistessero in brevi enunciazioni di altrettanti precetti.

Se quella poi che abbiamo fosse la primitiva composizione, più difficile sarebbe spiegare la diversità fra la lezione dellʼEsodo e quella del Deuteronomio. Qualunque delle due sia la più antica, è certo che quando il Decalogo originario si fosse gelosamente conservato in una forma consacrata dalla tradizione, lo scrittore più recente avrebbe avuto ogni ragione per seguirla con fedeltà, senza introdurvi nulla di nuovo. Ma se la forma originaria era molto più breve, nulla repugna ad ammettere che ognuno dei due scrittori, i quali hanno accolto il Decalogo nellʼopera loro, vi abbia fatto certe aggiunte, che in qualche parte differiscono, e si sia permesso anche certe piccole modificazioni; perchè la parte fondamentale, quella consacrata nella tradizione o sacerdotale o popolare, rimaneva intatta.

Per ultimo, una obbiezione assai grave, contro la possibilità che il Decalogo fosse nella sua origine quale oggi lo abbiamo, è la stessa sua estensione. Come ragionevolmente osserva il Reuss,[71] per iscolpire[70] sulla pietra e coi caratteri che si usavano negli antichi tempi uno scritto tanto esteso (620 lettere), non sarebbe bastata una superficie di un metro e mezzo quadrato, ciò che avrebbe costituito un peso troppo sproporzionato per tavole che avrebbero dovuto invece facilmente trasportarsi dallʼuno allʼaltro luogo. Mentre, riducendo i dieci comandamenti ai soli nudi precetti, sopprimendo le ragioni, le minaccie della pena, la promessa del premio, e anche ciò che è pura ampliazione del primo concetto, ogni difficoltà è tolta, e ristabilita in questo modo la proporzione fra ognuno dei dieci comandamenti, si capisce che facilmente si potessero ritenere a memoria; si spiega il nome scritturale di dieci parole; si spiegano, almeno in gran parte, le differenze delle due composizioni, specialmente per ciò che concerne le aggiunte posteriori; e sʼintende che potessero benissimo essere scolpite sopra due tavole di pietra di giusta estensione.

Non è tanto facile però ricostituire questa primitiva composizione del Decalogo per ciò che riguarda il fondamento primo della religione ebraica, cioè il precetto del monoteismo. Il primo paragrafo del Decalogo contiene: 1o una affermazione: lʼesistenza di Jahveh come Dio; 2o tre proibizioni: non avere altri Dei, non farsi nessuna immagine, non adorarla; 3o la pena e il premio che seguirebbero alla trascuranza od osservanza di questi precetti. Ora, secondo il criterio molto giusto di tenere estranea alla originale composizione questʼultima parte, e anche ciò che può valutarsi come semplice ampliazione; riducendo insomma alla più nuda espressione tanto lʼenunciazione della esistenza di Jahveh, quanto la parte precettiva, il primo paragrafo rimarrebbe nella seguente forma:

[71]

«Io sono Jahveh tuo Dio, che ti fece escire dalla terra dʼEgitto.

«Non siano a te altri Dei.

«Non fare a te scultura e qualunque imagine.

«Non ti prostrare a quelle, e non le adorare».

Ma, anche così ridotto, questo primo paragrafo apparirà troppo esteso, se si riflette che non può contenere al più se non due soli comandamenti. Ma quali erano questi in origine? il non avere altri Dei, e non farsi imagini, oppure il riconoscere Jahveh come Dio, e non averne veruno oltre lui? In altre parole, si comprendeva o no nella prima composizione del Decalogo la proibizione di adorare Jahveh sotto una forma sensibile? È questa una quistione di grande importanza, e che si riconnette collo svolgimento delle idee religiose presso il popolo ebreo. Coloro che opinano, e probabilmente a ragione,[72] che il monoteismo puro di ogni forma idolatrica si sia svolto successivamente e non formato dʼun sol tratto, credono per conseguenza che per lungo tempo nella religione del popolo ebreo si sia ammessa lʼadorazione di Jahveh «otto la forma sensibile di una immagine. E infatti lʼadorazione del vitello o bove dʼoro prima nel deserto (Esodo, xxxii) e poi nel regno di Samaria (1o Re, xii, 28, 33), starebbe in favore di tale ipotesi. È vero che nei documenti scritturali, quali oggi gli abbiamo, questʼadorazione ci è rappresentata come un deviamento dalla religione prescritta. Ma questo, molto probabilmente, è un modo di narrare i fatti accomodato[72] secondo i concetti di uno scrittore profetico, che viveva in età più recente, e che voleva allontanare i suoi contemporanei da ogni culto idolatrico. Tanto più che alcune traccie anche ora nella narrazione biblica, restano a dimostrare quale realmente sia stata la verità dei fatti. Nella narrazione dellʼEsodo (xxxii, 2–6) Aron ci apparisce troppo connivente esecutore delle volontà del popolo nellʼerigere il vitello dʼoro. E la mancanza per parte sua di qualunque tentativo di opposizione non sarebbe spiegabile, se già nel Decalogo fosse stata imposta la proibizione di adorare ogni immagine. Se poi nelle tradizioni e nelle abitudini del popolo non fosse rimasto sempre vivo il culto di Jahveh sotto lʼimmagine del bove, anzichè di accorto politico, sarebbe stata quanto mai impolitica la misura di Geroboamo di stabilire dei luoghi per questo culto, allo scopo di distogliere i suoi sudditi dal recarsi al tempio di Gerusalemme. È da credersi al contrario che anche i luoghi stessi fossero consacrati da antiche abitudini popolari.[73] Inoltre poi, per quanto i talmudisti vi abbiano intorno fantasticato, è impossibile negare traccia di un culto idolatrico nella narrazione del Numeri, ove si parla di una immagine di serpente, guardando verso la quale si credeva guarire dal morso dei serpenti velenosi;[74] immagine che si dice ancora rimanesse come oggetto di culto fino [73]ai tempi del re Ezechia (2o Re, xviii, 4), uno dei riformatori della religione ebraica secondo le idee dei profeti. Dimodochè da queste riflessioni, che qui si possono accennare soltanto di volo, siamo tratti a concludere che la proibizione di adorare Jahveh rappresentato da qualunque immagine, nella più antica composizione del Decalogo non fosse compresa; e però non con piena certezza, ma con molta probabilità, ne pare che lʼoriginaria sua forma si potrebbe nel seguente modo ricostituire:

1o Io Jahveh tuo Dio che ti feci escire dalla terra dʼEgitto.
2o Non siano a te altri Dei.
3o Non pronunziare il nome di Jahveh tuo Dio in vano.
4o Rammenta il giorno del sabato.
5o Onora tuo padre e tua madre.
6o Non uccidere.
7o Non commettere adulterio.
8o Non rubare.
9o Non deporre testimonianza falsa.
10o Non desiderare qualunque cosa del tuo compagno.[75]

Ridotta in tal modo la primitiva composizione del Decalogo, anche le differenze fra le due lezioni sono in gran parte diminuite. Rimane nel quarto comandamento la lezione del Deuteronomio: osserva il giorno del sabato, invece che rammenta. Ma qui la differenza è così piccola che non può presentare alcuna difficoltà, se pure non vogliamo spiegarla come alcuni critici, i quali credono più recente la versione del Deuteronomio. In questa ipotesi starebbe bene nella lezione più originale la parola rammenta, come una[74] esortazione ad aver ognora presente alla memoria un precetto che per la prima volta veniva imposto; mentre in una versione posteriore, quando già lʼosservanza del precetto era divenuta abituale, era più propria lʼespressione osserva, tanto più che vi si soggiunge: come ti comandò Jahveh tuo Dio; parole che chiaramente alludono a un comando antecedente.

Così questa osservazione ci conduce naturalmente a risolvere anche la prima delle tre quistioni proposte, cioè quale delle due lezioni del Decalogo sia anteriore. Originaria abbiamo detto che non sia nè lʼuna nè lʼaltra, ma anteriore è forse da tenersi quella dellʼEsodo.[76] Lo proverebbe in prima lʼespressione ora citata in quanto al precetto del sabato.

In secondo luogo lʼautore stesso del Deuteronomio nelle parti che precedono e seguono immediatamente al Decalogo (v, 2–5, 22–27) dice a chiare note di riferirsi alla promulgazione anteriore di esso, e di non fare altro che ripeterlo; nè i più arditi tra i critici negano che questi passi siano di uno stesso autore.[77]

In terzo luogo osserva con molta finezza il Reuss,[78] ma non perciò con minor ragione, la differenza nellʼultimo comandamento denoterebbe uno svolgimento dʼidee da dimostrare una età più recente nella versione del Deuteronomio. NellʼEsodo si proibisce di desiderare la casa del compagno, e poi si enumerano come varii contenuti della casa la moglie, i servi, il[75] bestiame. Nel Deuteronomio invece si pone in prima la moglie come un essere a sè, come quello che ha diritto di persona, e poi si parla della casa, del campo, dei servi e degli animali. Questo maggiore rispetto alla dignità della donna, è segno forse di civiltà più avanzata.

Da ultimo la differenza fra le due ragioni addotte per il riposo del sabato hanno fatto ai critici seguire diversa opinione sullʼetà delle nostre due versioni.

Imperocchè quelli che tengono relativamente recente il primo capitolo del Genesi, credono per conseguenza posteriore la versione dellʼEsodo, ove si connette il riposo del sabato coi sette giorni della creazione.

Al contrario coloro che tengono quel capitolo del Genesi come antichissimo, vedono anche in questo punto una ragione di più per riconoscere anteriore a quella del Deuteronomio la versione dellʼEsodo.

Ma senza voler qui decidere una quistione tanto complessa e dipendente dallʼesame di tante altre parti della Scrittura, quale è quella della età cui possa risalire il primo capitolo del Genesi, diremo che, conceduta pure la relativa modernità di questo passo, si può sempre tenere anteriore nel suo tutto la versione dellʼEsodo, e interpolazione più recente la ragione del riposo del sabato.[79]

Imperocchè, per mettere in accordo almeno questa versione del Decalogo col concetto generale che domina nella legislazione ELN, può essere stata aggiunta questa ragione; mentre nel Deuteronomio il finale compilatore lasciò quella che già dal Deuteronomista[76] era stata posta. Nè ciò parrà difficile ad ammettersi, se si riflette che le modificazioni e aggiunte tanto al Decalogo, quanto alle altre parti più. antiche della legge, sono state fatte probabilmente in parte, dai narratori jehovista ed elohista, che le hanno accolte nelle loro opere, e in parte dai successivi compilatori.

Risolute in questo modo le quistioni intorno al Decalogo in sè stesso considerato, non si può fare a meno però di esaminarlo anche in relazione col quadro narrativo, nel quale è posto secondo la Scrittura. Assumiamolo in poche parole. Nel terzo mese dopo lʼescita dallʼEgitto gli Ebrei giunti al deserto del Sinai si sarebbero accampati di faccia al monte di questo nome. Mosè salitovi in cima avrebbe avuto ordine da Jahveh dʼimporre al popolo di tenersi pronta per il terzo giorno, nel quale sarebbe avvenuta la rivelazione alla presenza di tutti. E in mezzo a lampi e a tuoni Jahveh stesso avrebbe proferito i dieci comandamenti uditi da tutto il popolo. Il quale però atterrito da questo genere di teofania avrebbe detto a Mosè che quindi innanzi parlasse egli solo con Jahveh, perchè avevano paura di essere sorpresi dalla morte a così tremenda apparizione. Difatti il popola si allontana, ma viene quindi fra esso e Jahveh sancito il patto, e Mosè salito sul monte vi resta quaranta giorni. A che questi fossero impiegati, se a ricevere le tavole dei dieci comandamenti, o le leggi successivamente esposte nei capitoli xxixxiii dellʼEsodo, o il disegno del tabernacolo e i riti di quanta atteneva al culto, o meglio per tutti e tre questi oggetti, non resulta molto chiaro dalla biblica narrazione quale oggi lʼabbiamo. Fatto sta che durante[77] questi quaranta giorni, impazientiti glʼIsraeliti di tanto indugio, avrebbero fatto il vitello o bove dʼoro come imagine di Jahveh, da doversi riconoscere per il Dio liberatore dalla schiavitù egiziana e da doversi adorare. Mosè, quantunque prevenuto da Jahveh di questa ribellione del popolo, avrebbe allo scendere dal Sinai sentito tanto orrore di vedere unʼimagine idolatrica, che avrebbe spezzato le due tavole della legge. Passiamo in silenzio le altre circostanze che non si connettono col Decalogo. Diciamo soltanto che rotte le due prime tavole, dopo che Jahveh alle intercessioni di Mosè avrebbe conceduto al popolo il perdono, avrebbe ancora comandato al profeta di scolpire altre due tavole che contenessero gli stessi comandamenti come le prime, e perciò Mosè sarebbe stato sul monte Sinai altri quaranta giorni.

Prescindiamo da tutto ciò che questa narrazione contiene di maraviglioso e soprannaturale, e pure restringendoci allʼesame del modo come la Scrittura espone il fatto, resteremo convinti che più non vi si trova se non la memoria confusa di una leggenda tradizionale conservata in più documenti scritti, combinati poi insieme dallʼultimo compilatore.

Imperocchè nel breve assunto che abbiamo fatto della teofania sul Sinai abbiamo seguito lʼopinione tradizionale, che ha tentato di ricondurre a concorde armonia elementi fra loro pugnanti; ma se leggiamo i capitoli xix, xx, xxiv dellʼEsodo vi troviamo tale confusione, che ci dobbiamo subito persuadere che non può un solo scrittore avere nè immaginato nè raccontato che i fatti siano accaduti in tal modo.

Nei primi 19 versi del capitolo xix, se togliamo i due emistichi 2a e 9b, tutto il rimanente è abbastanza[78] in sè stesso armonico ed uno. Lʼemistichio 2a non può essere dello stesso scrittore, perchè questi nel primo verso narra: «Nel mese terzo della escita dei figli dʼIsraele dalla terra dʼEgitto, in questo giorno vennero nel deserto di Sinai». Ora è impossibile che dopo aver ciò narrato, lo stesso autore soggiunga, come abbiamo nellʼemistichio 2a, «e si partirono da Refidim, e vennero nel deserto di Sinai, e si accamparono nel deserto»; perchè il partirsi da Refidim non può essere succeduto allʼesser giunti nel deserto del Sinai, e perchè sarebbe ripetuto due volte con immediata successione di parole il fatto di esser giunti nel deserto e di esservisi accampati. Mentre, sopprimendo lʼemistichio 2a, le parole si succedono in perfetto ordine logico.

È evidente poi ad ogni lettore che il 9b «e manifestò Mosè le parole del popolo a Jahveh» non fanno se non ripetere quello che già era stato detto nella ultima parte del v. 8, dimodochè questi due emistichi 2a e 9b sono da tenersi come provenienti da altre fonti, accolti, come di solito, dal compilatore nellʼultima composizione. Il quale avrà aggiunto di suo le prime quattro parole del v. 10, rese necessarie per riprendere il filo del discorso, interrotto mediante lʼinserzione dellʼemistichio 9b.

Abbiamo poi dal v. 20 al 25 una ripetizione dì fatti già narrati nei precedenti 19 versi. La discesa di Jahveh sul monte Sinai, la chiamata di Mosè, la sua ascensione, e lʼavvertimento al popolo di tenersi lontano. E per peggio, non vi è solo ripetizione nelle due parti di questo capitolo, ma anche contraddizione; perchè, mentre nei primi 19 versi appare chiaramente che solo Mosè doveva salire sul Sinai, nel[79] v. 24 si dice che con lui sarebbe asceso anche Aron. Il v. 22 contiene poi unʼavvertenza speciale per i sacerdoti ammoniti anchʼessi di santificarsi, quantunque consueti di appressarsi a Jahveh. Queste due circostanze mostrano che questo frammento appartiene a scrittore che voleva usare un riguardo alla casta sacerdotale, perciò crediamo che a ragione lo Schrader[80] lo attribuisca al narratore teocratico.[81]

Dopo lʼesposizione del Decalogo, nel v. 21 del capitolo xx troviamo che Mosè di nuovo ritorna presso la tenebre che avvolgeva la divinità.

Nel capitolo xxiv, 1 si narra che Mosè ascende ancora sul monte, e con lui Aron, i due figli di questo Nadab e Abihu, e i settanta anziani;[82] dal v. 12 al 15 si parla di unʼaltra ascensione di Mosè accompagnato almeno fino a un certo punto da Giosuè suo ministro; e finalmente nellʼultimo frammento, v. 16–18, abbiamo unʼaltra vocazione di Mosè, dopo che la gloria divina sarebbe stata per sei giorni avvolta nelle nubi, e unʼaltra ascensione sul Sinai, ove si sarebbe trattenuto quaranta giorni e quaranta notti. A che fine tutto questo salire e questo scendere ripetute volte non si può in alcun modo capire. Le difficoltà qui, come in moltissimi altri luoghi, non si spiegano, se non con lʼammettere più narrazioni originarie che non da un solo, ma da successivi compilatori sono[80] state in tal modo non combinate, ma confuse insieme, e perciò è ora impresa difficilissima quella di distinguerle nettamente e ristabilirle nella loro forma primitiva.[83] Per il nostro assunto basta ciò che abbiamo accennato; il tentativo di una ricostituzione delle fonti da cui lʼattuale narrazione è formata, se pur lo credessimo possibile a riuscire, qui non è necessario. E opportuno però fermarsi alquanto intorno allʼultima ascensione di Mosè sul Sinai, narrata nel cap. xxxiv, che sarebbe avvenuta dopo lʼadorazione del vitello dʼoro, per avere da Jahveh due altre tavole dei dieci comandamenti, avendo egli, per isdegno alla vista dellʼidolo, rotto le prime (xxxii, 19).

Ma dopo la teofania, nella quale sarebbe avvenuta la consegna di queste seconde tavole, che per lʼopinione tradizionale sarebbero state copia delle prime, segue tutto un passo, in parte parenetico, in parte precettivo, che per il modo come è stato inteso da alcuni critici, è dʼuopo vedere per intiero. Jahveh dunque così avrebbe parlato a Mosè:

XXXIV. 10.Ecco io stabilisco un patto: dinanzi tutto il tuo popolo farò prodigi, che non furono creati in tutta la terra e in tutte le genti; e vedrà tutto il popolo, in mezzo al quale tu sei, lʼopera di Jahveh, che è prodigiosa, quella che io opero con te. 11.Osserva ciò che io ti comando oggi: ecco io caccio dalla tua presenza lʼEmoreo, il Cananeo, lʼHittita, il Perizita, lʼHivveo,[81] e il Jebusita.[84] 12.Riguardati dallo stabilire patto con gli abitanti della terra, nella quale tu vai, acciocchè non siano dʼinciampo in mezzo a te. 13.Ma demolirete i loro altari, e spezzerete le loro statue, e le loro Asherot[85] distruggerete. 14.Anzi non tʼinchinerai ad altro Dio, perchè Jahveh, il cui nome è il Geloso, Dio geloso egli è. 15.Non istabilire patto con gli abitanti della terra, i quali errano dietro i loro Dei, e sacrificando ad essi, ti chiamerebbero, e tu mangeresti del sacrifizio. 16.E prenderesti delle loro figlio per i tuoi figli, ed errerebbero le loro figlie dietro i loro Dei, e farebbero errare i tuoi figli dietro i loro Dei. 17. 18.Dei di getto non ti farai. Osserverai la festa delle azzime, sette giorni mangerai azzime, come ti ho comandato, nel tempo del mese della primavera, perchè nel mese della primavera escisti dallʼEgitto. 19.Ogni apertura di matrice per me, e in tutto il tuo armento ciò che avrai maschio primo nato, o bove, o agnello. 20.E il primo nato dellʼasino riscatterai con un agnello, e se non vorrai riscattarlo, lʼaccopperai: ogni primogenito fra i tuoi figli riscatterai; e non si vedrà la mia presenza a mani vuote.[86]

21.Sei giorni lavorerai, e nel giorno settimo riposerai, dallʼarare e dal mietere riposerai. 22.E osserverai la festa delle settimane nelle primizie della mèsse del grano, e la festa della raccolta al volger dellʼanno. 23.Tre volte allʼanno si vedranno tutti i tuoi maschi alla presenza del Signore Jahveh Dio dʼIsraele. 24.Imperocchè caccerò le genti dinanzi a te, ed estenderò il tuo territorio, e niuno desidererà la tua terra, quando tu andrai a presentarti dinanzi Jahveh tuo Dio tre volte allʼanno. 25.Non verserai con il lievito il sangue del mio sagrifizio, e non rimarrà fino alla mattina la carne del sacrifizio pasquale. 26.Il principio delle primizie della tua terra porterai nella casa di Jahveh tuo Dio: non cucinare il capretto con il latte della madre.[87]

[82]

In questo passo si è voluto da alcuni critici trovare un altro Decalogo[88] e, spingendo le cose fino alle ultime conseguenze, si è preteso che questo fosse il più antico, mentre quello da noi sopra esposto si sarebbe formato in un tempo di più avanzata civiltà. Questo invece, più conveniente a un popolo rozzo, si sarebbe ristretto ai soli precetti della religione e del culto. Ma venendo a specificare i dieci precetti, quegli stessi che propongono e sostengono come vera tale interpretazione non sono dʼaccordo nel computare le dieci parti di questo preteso Decalogo; nè avrebbe utilità prenderle tutte in esame. Vediamo pure quella del Wellhausen,[89] il quale riduce i dieci comandamenti in questo modo: 1o Non adorare altri Dei; 2o non farsi Dei di getto; 3o festeggiare la pasqua delle azzime; 4o consacrare i primogeniti; 5o lavorare sei giorni, e riposare il settimo; 6o tre volte allʼanno comparire tutti i maschi alla presenza di Jahveh; [83]7o non mischiare con il lievito il sangue del sacrifizio; 8o non lasciare fino alla mattina il grasso del sacrifizio pasquale; 9o portare nella casa di Jahveh il meglio delle primizie; 10o non cuocere il capretto col latte della madre.

Per ottenere questo computo il Wellhausen è costretto a tenere come interpolato il verso 22, che impone lʼosservanza della festa delle settimane, e lʼaltra della finale raccolta dei frutti nellʼautunno. Con quanta ragionevolezza si voglia sopprimere questo verso, mentre è naturale, dopo aver comandato lʼosservanza della pasqua, parlare anche delle due feste annuali, ogni discreto lettore può facilmente intendere. Nè bastava accennare in termini generali che tre volte allʼanno ogni maschio doveva presentarsi al cospetto di Jahveh, perchè questa è pratica di culto diversa dalla semplice celebrazione della festa, che avrebbe potuto farsi in ogni luogo, senza recarsi alla presenza del Signore. Il Göthe che mantiene lʼautenticità di questo verso, conta come un solo precetto i due primi intorno al politeismo e allʼidolatria. Il Reuss invece cade in altra difficoltà. Mantenendo lʼautenticità del v. 22, computa come un solo comando quello relativo alle due feste; e per non trovarsi con un comando di più, computa ancora come uno solo i due diversissimi precetti di non mischiare il lievito col sangue del sacrifizio, e di non fare avanzare dellʼagnello pasquale fino alla mattina successiva.

Fatto sta però che, riducendo pure i comandamenti di questo luogo al minor numero possibile, meno di dodici non se ne possono trovare.

1o Proibizione del politeismo (v. 14).
2o Proibizione dellʼidolatria (v. 17).
[84]3o Festa delle azzime (v. 18).
4o Consacrazione dei primogeniti (v. 19, 20).
5o Riposo del sabato (v. 21).
6o Festa delle settimane (v. 22a).
7o Festa della raccolta (v. 22b).
8o Presentazione dei maschi dinanzi a Dio tre volte
allʼanno (v. 23).
9o Non mischiare il lievito col sangue del sacrifizio (v. 25a).

10o Non fare avanzare dellʼagnello pasquale fino
alla mattina successiva (v. 25b).
11o Consacrazione delle primizie (v. 26a).
12o Proibizione di cuocere il capretto col latte della madre (v. 26b).

Questo computo, fatto secondo una lettura spassionata e non preconcetta del testo, rilega nel campo delle ipotesi ingegnose ma non corrispondenti a realtà, quella di un altro Decalogo, quantunque sia sostenuta da valentissimi e dottissimi critici. Ma è innegabile che spesso il desiderio di proporre cose nuove, e lʼamore poi di sostenerle, fa non tanto di rado fuorviare dal retto sentiero; mentre una critica più modesta esce meno facilmente dal vero.

Resta per altro una difficoltà a risolvere. Le cose dette nel passo testè tradotto sono ripetizione di ciò che era stato già detto o nel Decalogo o nel capitolo xxiii (12–24). Di ripetizioni nel Pentateuco se ne trovano tante, come sopra già abbiamo dimostrato (pag. 30–37), che non fa bisogno ricorrere ad ipotesi poco sostenibili per darne ragione: si spiegano invece col principio generale dei diversi documenti originarii insieme combinati. In questo luogo poi si può anche meglio spiegare come un più recente narratore abbia ripetuto cose che altri già aveva dette.

[85]

Il patto stabilito da Dio col popolo era stato rotto per lʼadorazione dellʼidolo, secondo il concetto dei diversi narratori, siano essi profetici o sacerdotali, ed era stato rotto ancora per avere Mosè spezzato le prime tavole: qui si tratta di ristabilirlo.

È naturale che si ripeta la principale condizione richiesta, acciocchè il patto possa mantenersi; cioè quella di non adorare altri Dei, di mantenersi fedeli a Dio, e di non seguire il culto praticato dagli altri popoli della Palestina. Ma è naturale ancora che, proibiti i culti politeistici e idolatrici, si accennino altresì per sommi capi le pratiche del culto voluto da Jahveh, ciò che si fa precisamente nei vv. 17–26. Cosicchè tutto questo passo (xxxiv, 10–26) è da tenersi ripetizione che un narratore più recente ha tolto dal capitolo xxiii, 12–33, dando però diversa distribuzione ai suoi concetti, e maggiore estensione a ciò che riguarda la proibizione del politeismo e dellʼidolatria. Perchè egli non ne aveva nulla altrove accennato, mentre il capitolo xxiii era già combinato in modo col Decalogo, che intorno a quegli argomenti ne era stato detto quanto bastava.[90]

Il Wellhausen però, a sostegno della ipotesi da lui tenuta per vera, aggiunge ancora che nel v. 27 si legge: «e disse Jahveh a Mosè: scriviti queste parole, imperocchè secondo queste parole ho stabilito il patto con te e con Israele». Egli vuole intendere che queste parole siano quelle che immediatamente precedono,[86] e che lo scrivere debba riferirsi allʼincidere sulle tavole di pietra. Ma come vedremo nel capitola seguente, il patto fra Jahveh e il popolo era stabilito, oltrechè sul Decalogo, anche sopra molte altre leggi e prescrizioni (v. xxiv, 4–7); dimodochè anche in questo nostro passo lʼingiunzione di scrivere quelle parole non è da intendersi come se esse formassero il Decalogo, ma come quelle che in aggiunta al Decalogo, formavano base del patto fra Dio e il popolo.

In questo modo resta per noi fermo che solo vera e proprio Decalogo è quello che in doppia, ma poca diversa forma, leggesi nellʼEsodo XX e nel Deuteronomio v. Nucleo primo e fondamentale di una religione e di una legislazione di cui vedremo il successivo svolgimento.


[87]

Capitolo V

IL PRIMO CODICE (Esodo, xx, 22–xxiii, 19)
E ALCUNE NOVELLE (Esodo, xviii, 21–26, xii, 21–28, xiii, 3–16)

Al Decalogo fa seguito nella presente compilazione del Pentateuco una piccola raccolta di leggi per la massima parte concernenti la vita civile, con poche disposizioni intorno alla religione e al culto (Esodo, xx, 22–xxiii, 19). Si può dire che questa raccolta formi un piccolo codice sufficiente a regolale le relazioni della vita in un tempo di civiltà non ancora molto avanzata, ma nel quale si vede già un popolo passato dalla vita nomade a quella stabile in sedi fisse; si conosce che alla pastorizia è succeduta, se non sola, almeno preponderante, lʼagricoltura, e si osserva che si è sentito il bisogno di regolare, nei punti più importanti, ciò che concerne la libertà, la vita e la proprietà. È stato detto da alcuni che in questo piccolo codice manca ogni ordine, ogni sistematica divisione di parti,[91] mentre da altri si è voluta[88] trovare una studiata disposizione di tante leggi divise armonicamente in numero o di dieci o di cinque, rispondenti in qualche modo al concetto generale del Decalogo.[92] Noi crediamo che si esageri dallʼuna parte e dallʼaltra, e che non si possa trovare in queste nostre leggi nè il difetto di una totale mancanza di ogni ordine, nè una studiata divisione di parti corrispondenti fra loro per eguale o proporzionale numero di precetti; ma che invece vi sia un certo ordine generale e, per dir così, nelle linee principali dello scritto, mentre poi non è mantenuto nella composizione di alcuni particolari.

Lʼanalisi e la traduzione che ne faremo proveranno la verità di questa nostra opinione.

La proibizione delta idolatria e il precetto sul modo dì costruire lʼaltare sono contenuti nel capitolo XX, v. 23–26. E qui, prescindendo dal Decalogo, abbiamo una introduzione al codice, per accennare il più importante principio della religione, secondo era concepita dai profeti, cioè il monoteismo puro da idolatria e il precetto sul punto più generale del culto, cioè sul modo di edificare il luogo dove esso si sarebbe celebrato. Il codice poi veramente detto, ha un principio suo proprio colle parole:

xxi. 1.E queste sono le leggi che porrai dinanzi a loro.

Le due prime leggi (v. 2–12) trattano della condizione degli schiavi, stabilendo però, per ragione del costume, alcune differenze fra lʼuomo e la donna, che avevano perduto la personale libertà.—Questo nostro[89] testo parla soltanto degli schiavi ebrei, e lascia fuori della legge gli schiavi acquistati fra la gente di altre nazioni, o presi prigionieri in guerra, di cui altrove si fa cenno (Levit., xxvi, 44 e seg.; Deut., xxi, 10–14). Anche rispetto agli Ebrei la legge qui prescrive soltanto il modo col quale avrebbero dovuto trattarsi, dopo che si trovavano in ischiavitù; ma non espone per quali cagioni una persona libera poteva, o doveva, perdere la propria libertà. Ciò si vede però in primo luogo dal v. 2, xxii, ove si condanna ad essere venduto il ladro, che non avesse da pagare la multa per il furto.

Si desume poi dal Levitico (xxvi, 39) che per povertà la persona libera potesse o vendere sè stessa o essere venduta forse per pagare i creditori, o essere a questi sottoposta come schiava.[93] Dal v. 7 si deduce ancora che la patria potestà si estendesse sino al punto di vendere come schiavi i figliuoli. Dunque la perdita della libertà personale poteva avvenire, o per vendita coatta ordinata dalla magistratura, come condanna di furto, nel caso di non poter soddisfare alla restituzione; o in caso di povertà o per vendita volontaria o richiesta dai creditori, o per vendita che dei figliuoli facesse il padre.[94]

Questa schiavitù per altro della persona ebrea non poteva durare più di sei anni: nel settimo si riacquistava la libertà, eccetto che il servo stesso non preferisse[90] di rimanere nella condizione di servitù, nel qual caso il padrone pubblicamente glie ne imprimeva sul corpo il marchio, consistente in un foro nellʼorecchio.[95]

2.Quando avrai comprato un servo ebreo, sei anni servirà, e nel settimo escirà in libertà gratuitamente.[96] 3.Se con la [sola] sua persona sarà venuto, con la sua persona escirà; se è congiunto a donna, escirà anche sua moglie con lui. 4.Se il suo padrone gli avrà dato moglie, e questa gli avrà partorito figli o figlie, la donna con i suoi figli sarà del suo padrone, ed egli escirà con la sua persona. 5.Ma se il servo dicesse: amo il mio padrone, mia moglie, ed i miei figli, non escirò libero; 6.allora lo avvicinerà il padrone dinanzi a Dio,[97] e lo avvicinerà allʼuscio o allo stipite, e forerà il padrone lʼorecchio di lui con la lesina, sicchè lo serva in perpetuo.

Il testo qui parla di qualunque servo ebreo in qualsivoglia modo comprato. I talmudisti però hanno introdotto molte modificazioni nella interpretazione di questa legge, come del resto hanno fatto quasi sempre sui testi della Scrittura. Ma devesi riconoscere che se il Talmud, in molte parti, e specialmente per ciò che concerne i riti religiosi, è un regresso relativamente alla Bibbia, perchè ne ha soverchiamente moltiplicato il numero, e gli ha resi più gravosi e più gretti; è dallʼaltro lato un vero progresso nelle leggi civili e criminali, perchè ha mitigato molte disposizioni troppo dure, e improntate di una primitiva rozzezza. Il torto del Talmud è di non avere riconosciuto[91] che queste erano modificazioni, che esso introduceva nella legge, o adottate a poco a poco per forza dei tempi, e di aver voluto torcere per fas e per nefas il testo della Scrittura a tali significati, che in verun modo lettori di buon senso possono attribuirgli.

E questo hanno fatto i dottori ebrei per voler mantenere il loro principio dogmatico della immutabilità della legge rivelata; cosicchè ogni loro nuovo insegnamento, che non resultasse dalla lettera del testo, dicevano derivare da una dottrina tradizionale esistente fino dai tempi di Mosè; e poi, a ragione, o a torto, ne volevano trovare in qualche modo un cenno anche nel testo della Scrittura. Ma, se la pretensione di una dottrina tradizionale che rimontasse fino a tempi così rimoti è assurda, se il modo dʼinterpretazione è illogico e falso, restano però le leggi talmudiche, che in gran parte sono buone e savie, e ispirate in generale ad un sentimento di mitezza e di equità.

Venendo ora alle interpretazioni talmudiche del nostro testo, le prenderemo in esame ad una ad una.

I talmudisti hanno ristretto il significato del passo biblico sopra tradotto al solo servo venduto giudiziariamente, il quale però poteva vendersi soltanto ad Ebrei o a proseliti.[98] Non applicano in tutte le sue parti questo testo a chi aveva perduto la libertà per vendita volontaria, perchè questi avrebbe potuto vendersi per un tempo più lungo di sei anni,[99] ma la vendita giudiziaria non poteva mai oltrepassare questo termine. Anzi avrebbe potuto essere più breve, se il[92] servo trovava mezzo di riscattarsi, pagando al padrone la differenza del prezzo, o se cadeva dentro i sei anni il cinquantesimo del Giubileo.[100] Nel caso poi che il padrone morisse prima che si compissero i sei anni e non lasciasse prole maschile, il servo diveniva libero, nè sopra lui avevano alcun diritto nè le figlie nè gli altri eredi.[101] Altro diritto del servo ebreo, secondo i talmudisti, era quello di non potere essere venduto nè ceduto ad altri dal primo compratore.[102]

In quanto allo stato della famiglia dello schiavo, nel caso che fosse ammogliato, parrebbe dal v. 3 che la moglie dovesse seguire la condizione del marito, e fosse anchʼella ridotta schiava, per poi al termine dei sei anni riacquistare la libertà. La qual legge così dura per la donna non ha nulla di repugnante in uno stato sociale, dove per molti rispetti essa era posta in una condizione talmente inferiore, da non aver quasi giuridica personalità. Ma i talmudisti hanno inteso la cosa molto diversamente, e hanno introdotta una modificazione che è tutta a utilità della donna. La Scrittura, a loro opinione, non parlerebbe punto della schiavitù della moglie, ma anzi dellʼobbligo del padrone di passarle gli alimenti tutto il tempo che il marito fosse schiavo, obbligo che cesserebbe naturalmente col cessare della servitù. I dottori del Talmud non vogliono ammettere che la vendita, a loro opinione in questo caso coatta, del marito, portasse come conseguenza la perdita della libertà anche nella moglie; e per essi le parole del testo «escirà anche sua moglie con lui» non significano che doveva escire[93] da una schiavitù, nella quale non era mai entrata, ma che cessava nel padrone lʼobbligo di passarle gli alimenti.[103] Si noti quale mitigamento si era operato nelle idee e nei costumi.

Nel verso 4 si concede al padrone il diritto di dar moglie al servo e farne procreare degli schiavi; perchè la donna, che si univa allo schiavo non era considerata legittima moglie, e tanto essa, quanto i figli nati nella condizione di servitù, erano cosa del padrone, nè godevano della ricuperazione della libertà dopo i sei anni. Ciò resulterebbe dalla lettera del testo intesa nella sua crudezza, ma anche qui i talmudisti hanno dato una interpretazione diversa.

In primo luogo il padrone non avrebbe potuto costringere qualunque servo ebreo ad unirsi con una donna, ma soltanto quello acquistato per vendita giudiziaria,[104] e che avesse già altra moglie ebrea.[105]

La donna poi di cui si parla nel testo non avrebbe potuto mai essere una ebrea, ma una schiava di altra nazione,[106] perchè soltanto genti di altre nazioni potevano essere sottomèsse a una schiavitù perpetua. In questo punto ci sembra che la spiegazione dei talmudisti sia da accettarsi, perchè in armonia con tutto lo spirito della legge. Non è possibile infatti che, mentre la legge non vuole sottomettere a schiavitù perpetua lʼEbreo, eccetto che esso volontariamente vi si sottoponga, dia il diritto al padrone di far procreare[94] degli Ebrei, perchè poi gli fossero schiavi per tutta la vita.[107] Se lʼinterpretazione talmudica qui non apparisce dalla lettera, è certo conforme allo spirito della legge.

Altra importantissima interpretazione dei talmudisti è quella sul verso 6, il quale, secondo la lettera, sottoporrebbe a servitù perpetua chi dichiarasse di non volere abbandonare nè il padrone, nè la moglie, nè i figli; mentre la interpretazione talmudica ha ristretto la frase per sempre fino allo spirare del periodo di 50 anni del Giubileo.[108] Anzi, se questo cadesse dentro i sei anni, il servo avrebbe riacquistato subito la libertà.[109] A siffatta interpretazione i talmudisti erano costretti per trovare una conciliazione fra questa legge dellʼEsodo e quella del Levitico. Ma in questo punto la loro interpretazione, oltrechè repugnare troppo apertamente col significato palese del testo, contiene ancora una vera incompatibilità. Imperocchè come è supponibile che la legge volesse imprimere un marchio di schiavitù sul corpo di colui, il quale per la stessa legge in un tempo che qualche volta avrebbe potuto essere vicinissimo, sarebbe ritornato in libertà? E non contenti di ciò vollero ancora che, ricevuto il marchio della servitù, lo schiavo ebreo[95] divenisse libero alla morte del padrone, e non dovesse passare a nessuno degli eredi, nemmeno ai figli.[110]

Stabilirono inoltre che la dichiarazione spontanea di continuare nello stato di schiavitù, dopo spirati i sei anni, non potesse farsi se non dallo schiavo che aveva perduto la libertà per vendita giudiziaria, ma non da chi si era venduto volontariamente. Interpretazione questa che dobbiamo riconoscere giudiziosa, perchè colui che si vendeva di spontaneo volere, poteva fin da principio vendersi per un tempo più lungo dei sei anni, e rinnovare a piacere il contratto, col quale perdeva la libertà personale. Siccome poi era costretto a ciò dalla povertà, mite deve dirsi quella istituzione che gli risparmiava lʼavvilimento di portare sul suo corpo un marchio di schiavitù. Non così verso quello che venduto schiavo per pena di un delitto, e scontatala, sentiva tanto bassamente di sè da preferire alla libertà la condizione di servo. La legge non era troppo dura se gli diceva: Per tua colpa, e non per isventura divenisti schiavo, ora potresti tornare libero, se tu lo volessi; ma ami meglio la servitù, portane dunque la debita impronta.

Anche qui però i talmudisti, usando della loro soverchia sottigliezza nello spiegare i testi, vollero meglio tutelare la difesa della personale libertà, e stabilirono che per restare servo al di là dei sei anni col marchio della schiavitù, fosse necessario che tanto il padrone quanto lo schiavo avessero moglie e figliuoli, e ambedue fossero in condizione di trovarsi bene insieme. Essi ragionarono sui testi scritturali in questo modo. Non potrebbe dire il servo di amare la propria[96] moglie e i propri figli, se non gli avesse; non potrebbe dire, come leggesi nel Deuteronomio (xv, 16), di amare la famiglia del padrone, se questi famiglia non avesse, e per famiglia sʼintende la moglie e i figliuoli; non potrebbe dire finalmente, come leggesi nello stesso Deuteronomio, di star bene col padrone, se per la condizione di uno dei due questo star bene non potesse verificarsi; dunque in questi casi lo stato di servitù non poteva al di là dei sei anni essere prolungato.[111] Sottigliezza soverchia e sofistica, falsa ancora come interpretazione di testo, ma che recava in questo caso lodevoli conseguenze, perchè stabiliva istituzioni che difendevano la libertà personale molto meglio che la primitiva legge non avesse fatto.

Passiamo ora alle disposizioni che riguardano uno specialissimo caso di schiavitù, cioè della figliuola venduta dal proprio padre. E qui, per intendere le parole del testo, è necessario ricordare che nei costumi dellʼantichità, poichè la schiava non era più persona, ma cosa del padrone, questi aveva sopra di lei il diritto di concubinato. Ora la legge ebraica non contiene nulla di veramente esplicito su questo punto. Nei costumi pare che il concubinato fosse permesso, perchè lasciando da parte gli esempi dei patriarchi, si fa menzione della concubina di Gedeone (Giudici, viii, 31), di quella di un levita (ivi, xix), di quella di Saul (2o Sam., iii, 7), delle concubine di David (ivi, v, 13), e troppo famose sono quelle di Salomone (1o Re, xi, 3). La legge biblica però non ha intorno al concubinato nessuna speciale disposizione, se pur non volesse come tale tenersi quella del Deuteronomio (xxi, 14), che[97] impone una certa mitezza verso la donna presa prigioniera in guerra.

Rispetto poi alla fanciulla ebrea venduta dal proprio padre, ne ha voluto tutelare lʼonore e i diritti, imponendo che dovesse considerarsi come legittima moglie o del padrone o di uno dei suoi figli, quando o lʼuno o lʼaltro volessero avere con essa carnali relazioni,, e che non potesse nemmeno ad altri effetti trattarsi del tutto come gli altri schiavi.

7.Quando poi un uomo venda la sua figlia per ischiava, questa non escirà come escono i servi. 8.Se non piace al suo padrone, al quale[112] lʼaveva destinata, la farà riscattare. A gente straniera non potrà venderla, quando la tradisca. 9.E se la destina a suo figlio, come è il diritto delle fanciulle operi verso di lei. 10.Se ne prende unʼaltra, la sua carne,[113] il suo vestito, la sua coabitazione[114] non le diminuisca. 11.E se queste tre cose non farà a lei, esca gratuitamente senza denaro.

Questo testo, a dire il vero, offre alcune difficoltà, perchè suppone molto di sottinteso. In prima, ponendolo in relazione col paragrafo che immediatamente precede (v. 2–6), e che già abbiamo spiegato, resulterebbe che in quello si parla in generale dei servi senza differenza di sesso, quando la persona adulta,[98] o maschio, o femmina, divenisse schiava; perchè lʼespressione servo ebreo deve intendersi in modo generico, e non in significato grettamente letterale per il solo sesso maschile. La quale interpretazione è confermata indubitabilmente dal Deuteronomio (xv, 12), ove si stabilisce a chiare note la stessa legge per lʼebreo e per lʼebrea.[115] Dunque si deve intendere che il testo biblico, avendo prima disposto sul modo come in generale i servi ebrei dovevano o riacquistare la libertà, o rimanere, se loro piaceva, in istato di schiavi, passa in questo paragrafo ad altre disposizioni speciali per la fanciulla venduta dal padre. E dice in prima che non doveva escire come estivano i servi. Questa espressione non può intendersi a carico della schiava, cioè che essa non dovesse riacquistare la libertà al termine dei sei anni. Imperocchè, essendo tutta la legge in questo punto animata da un concetto di maggiore benignità verso le infelici così mal trattate dal proprio padre, non è possibile che non concedesse loro di riacquistare la libertà, spirato il tempo, nel quale lʼavrebbero riacquistata gli altri servi. Dimodochè deve intendersi che la fanciulla venduta dal proprio padre aveva anche altri mezzi per migliorare la propria condizione. E il primo mezzo era quello di essere tenuta come moglie del padrone. Ciò si capisce dalla frase negativa del testo: Se non piace al suo padrone, al quale lʼaveva destinata. Dunque, se gli piace, resta con lui in qualità di sua donna. Ma nel[99] caso che il padrone non volesse tenerla con sè come moglie, questa fanciulla doveva essere riscattata, e non poteva vendersi a gente straniera. E qui le espressioni del testo, la farà riscattare, e non potrà venderla, non è chiaro se si riferiscano al padre venditore, o al padrone. Noi opiniamo con molti altri interpreti che si riferiscano al secondo,[116] perchè ci sembra a lui meglio appropriata la frase che segue, quando la tradisce. Difatti era un mancare di fede per parte di chi aveva comprato una fanciulla, colla condizione implicita, se non esplicita, di tenerla come propria donna, il non volerla più trattare come tale. E la legge impone che non si possa vendere a gente straniera, la quale non era obbligata dalla legge ebraica a trattare gli schiavi come questa imponeva. Lʼobbligo poi di fare riscattare la fanciulla schiava poteva essere imposto al padrone in due diversi rispetti: nel primo, di non opporsi che i parenti la riscattassero anche prima dei sei anni; nel secondo, di usare qualche facilitazione sul prezzo del riscatto.[117]

Nel caso poi che il padrone, invece di tenere lui come propria donna la fanciulla comprata, volesse destinarla a un suo figliuolo, la legge lo permetteva, ma a condizione di trattarla come le altre donne della famiglia (v. 9). E siccome la poligamia era permessa, tanto il padrone quanto il figliuolo potevano, oltre questa fanciulla, prendere ancora altra moglie, ma purchè non le togliessero nulla dei suoi diritti matrimoniali (v. 10).

[100]

Se finalmente questi diritti non le fossero per parte dei suoi padroni mantenuti, ricuperava la libertà senza pagare altro riscatto (v. 11).

In modo molto più favorevole al sesso debole è stata intesa dai talmudisti tutta la legge della schiavitù.

In prima stabilirono che la donna, giunta alla pubertà, non potesse mai divenire schiava.[118] Il movente di questa istituzione talmudica è chiaro; era una salvaguardia che volevano porre al buon costume. Il padre, e non la madre,[119] e solo in caso di estrema indigenza,[120] poteva vendere le figlie impuberi, non mai dopo giunte alla pubertà, non mai i maschi.[121] Giunta alla pubertà la schiava ebrea diveniva libera, qualunque fosse il tempo trascorso dalla vendita;[122] come pure acquistava la libertà alla morte del compratore, anche se questa avvenisse prima del termine dei sei anni, e non era obbligata a compire il tempo della servitù sotto gli eredi.[123] Per ultimo il primo compratore non poteva venderla ad altri; e nemmeno il padre, quando il padrone lʼavesse repudiata; perchè le parole del testo, non potrà venderla a gente straniera, sono state intese dagli antichi dottori ebrei nel significato generale di persone estranee, non in quello che la proibizione di rivendere la schiava fosse ristretta per la gente di altro popolo.[124]

[101]

Cosicchè, se la legge biblica aveva dato facoltà al padre di vendere schiavi i propri figli, i talmudisti, stando servilmente alla lettera, hanno in prima ristretto questa facoltà alla prole femminile, nellʼintento di tutelare per quanto possibile la libertà della persona. Non hanno poi ammesso altro caso di servitù per il sesso debole, se non quello della vendita delle figlie impuberi fatta dal padre, e le hanno tutelate con tante istituzioni, che la legge era in sommo grado mitigata.

E finalmente, se la schiavitù era tenuta dagli antichi come una necessità sociale, le donne ebree si trovavano dalla legge talmudica poste in una condizione veramente privilegiata, perchè proprio si può dire che schiavitù per esse quasi non sarebbe esistita.

Dopo avere con queste disposizioni di diritto civile regolato quanto concerneva la persona dei servi ebrei, il legislatore passa a stabilire le disposizioni penali per gli attentati contro la vita, o la libertà, o la dignità delle persone. E prima si trova la legge sullʼomicidio, che era punito di morte, se intenzionale; se fortuito, si accordava allʼomicida il diritto di asilo per sottrarsi alla vendetta dei parenti dellʼucciso; ma nemmeno lʼaltare avrebbe potuto sottrarre alla pena il vero malfattore.

12.Chi percuote un uomo in modo che questi muoja, sarà fatto morire. 13.E per chi non abbia appostato, ma Dio glie lo faccia capitare nelle mani,[125] porrò a te un luogo dove egli fuggirà. 14.Quando poi alcuno temerariamente assalga il suo compagno per ucciderlo con inganno, dal mio altare lo prenderai per farlo morire.

[102]

Questa legge non ha qui il suo compimento, perchè non si specificano nè la distinzione fra lʼomicidio intenzionale e quello involontario, nè i luoghi destinati per asilo, nè il diritto alla vendetta, cose spiegate in altri luoghi del Pentateuco (Numeri, xxxv, 9–34; Deut., iv, 41–43, xix, 1–13). Soltanto si ammette che potesse valere come luogo di asilo anche lʼaltare. E certo questʼuso comune ai popoli antichi, e mantenutosi molto innanzi anche nel medio evo, che i templi e i luoghi sacri fossero di asilo agli imputati, sarà esistito anche presso gli Ebrei. Ne abbiamo poi la conferma in un fatto narrato nel libro 1o dei Re (ii, 28). Ma sʼintende anche da questo nostro testo che se la legge tollerava un tale costume, amava meglio che di asilo servissero altri luoghi, i quali a ciò sarebbero stati designati. Il Talmud poi non ammetteva che lʼaltare potesse servire di asilo, se non ai sacerdoti mentre officiavano.[126]

Rimettiamo le aggiunte e modificazioni recate su questo punto dal Talmud a quando esporremo il cap. xxxv del Numeri; solo qui vogliamo avvertire che per i talmudisti la pena di morte, così spesso inflitta dalla legge biblica, era ridotta di quasi impossibile applicazione. Imperocchè, per condannare un reo a morte, si richiedeva non solo la deposizione concorde almeno di due testimoni oculari del fatto; ma che il reo, nel momento in cui andava a commettere il delitto, fosse avvertito dai testimoni o da altra persona che sarebbe stato condannato a morte, e che egli rispondesse di saperlo bene e farlo a bella posta.[103][127] Non sappiamo che simile istituzione trovi riscontro nelle leggi di alcun popolo. E difatti, per poco che vi si rifletta, sʼintende che lʼaver circondato lʼapplicazione della pena di morte di siffatta cautela valeva quanto abolirla. Imperocchè nessuno vi si sarebbe esposto, se non un pazzo, o chi avesse voluto appigliarsi a tal modo indiretto di suicidio. Però lʼomicida, quando fosse convinto senza la prova testimoniale, non andava del tutto assolto nemmeno ad opinione dei talmudisti; ma era condannato a tale specie di ergastolo, che lungamente non avrebbe potuto vivere.[128] In quanto al modo di eseguire la pena di morte, il testo biblico non accenna nulla di speciale nè per lʼomicidio nè per molti altri delitti, mentre in altri casi, come vedremo più innanzi, specifica la lapidazione, o il bruciamento. In un luogo poi del Deuteronomio (xxi, 23) si parla dellʼimpiccamento, e vedremo a suo luogo come quel testo debba essere inteso. Secondo il Talmud lʼesecuzione dellʼomicida avveniva col taglio del capo.[129]

Due leggi che concernono il rispetto verso la patria potestà (v. 15, 17) sono interrotte da unʼaltra contro il ladro di persone (plagiario) allo scopo di servirsene come schiave o di venderle. La versione greca ristabilisce in questo punto lʼordine che manca nel testo masoretico. Ma siccome questʼordine così esatto non si trova sempre mantenuto in questa piccola raccolta di leggi, non si può con certezza affermare che i lxx ci diano la lezione genuina; perciò non crediamo di dovere alterare il testo ebraico.

[104]

15.Chi percuote suo padre o sua madre sia fatto morire.

16.Chi ruba un uomo e lo vende, o si trova in sua mano, sia fatto morire.

17.Chi maledice suo padre o sua madre sia fatto morire.

La patria potestà così estesa e assoluta presso altri popoli e specialmente, come a tutti è cognito, presso i Romani, era grande anche presso gli Ebrei. Ma aveva nella costoro legge un importantissimo limite: il padre non poteva farsi giudice; anche per le mancanze, anche per i delitti dei figli verso lui stesso non gli era concesso se non di farsi accusatore.[130] Lo vedremo meglio dal Deuteronomio (xxi, 18–21). Però dobbiamo riconoscere che la legge voleva con sommo rigore inviolata lʼautorità dei genitori, se il solo percuoterli, o il solo maledirli doveva essere punito con la morte.

I talmudisti mitigarono in parte tanto rigore, non tenendo colpevole di morte il figliuolo per le percosse contro i genitori, fino a che non fossero tali da cagionare un livido o una lesione interna,[131] nè per la maledizione, se questa non fosse pronunciata con uno dei nomi propri di Dio;[132] ma la colpa è eguale tanto vivi i genitori, quanto dopo la loro morte.[133] Rispetto poi al modo della esecuzione, il Talmud pose una differenza che dal testo per nulla resulta. Chi percuote i genitori sarebbe per esso giustiziato colla strangolazione;[134] chi li maledice, colla lapidazione.[135]

[105]

In quanto al plagiario, il testo biblico stabilisce la condanna di morte, tanto per chi vendesse la persona rubata, quanto per chi volesse farsene uno schiavo; e nulla di nuovo vi è stato aggiunto dai talmudisti.[136]

Le lesioni recate sulla persona con percosse di qualunque maniera, le quali non cagionassero morte, venivano punite con la multa di una indennità secondo la gravezza del danno recato.

18.Quando poi alcuni vengano a rissa, e lʼuno percuota lʼaltro con pietra, o col pugno; ma non muoja, e solo giaccia in letto; se risorge, e va fuori sul suo bastone, sia assolto il percussore; 19.solo gli paghi il tempo del suo ozio, e lo faccia curare per sanarlo.

Lʼindennità si restringerebbe, secondo il testo biblico, a pagare allʼoffeso, secondo la professione e secondo lo stato, la perdita cagionatagli dalla cessazione del lavoro, per tutto il tempo che la lesione glʼimpedisce di lavorare, e alle spese della cura fino[106] alla completa guarigione. I talmudisti poi hanno aggravato lʼindennità, condannando il reo alla multa per cinque titoli, cioè: per il danno, per il dolore, per la cura, per la cessazione dal lavoro, e per lʼoltraggio.[137] Per danno essi intendevano, che se la lesione fosse tale da recare una imperfezione fisica nella persona, come la perdita di un occhio, o la storpiatura di un membro, o simili, dovesse valutarsi quale sarebbe stato il prezzo dellʼoffeso, da sano, se si fosse venduto come schiavo, e quale deprezzazione avesse subìto per lʼimperfezione corporale patita, e il reo dovesse pagare la differenza.[138] Il dolore si valutava secondo la costituzione fisica della persona, secondo la qualità della percossa e del mezzo adoperato per inferirla, e anche secondo la condizione sociale e pecuniaria dellʼoffeso; perchè il miserabile si assoggetta talvolta per denaro anche ai patimenti fisici.[139] Finalmente lʼindennità per lʼoltraggio era esigibile, soltanto quando la percossa fosse fatta con intenzione di offendere, e anche questa, secondo la qualità, lʼetà e la condizione dellʼoffeso.[140] In quanto poi alla persona del reo i talmudisti stabilirono che dovesse tenersi prigione, fino a che non fosse provato che la lesione inflitta non aveva cagionato la morte, cioè fino a che lʼoffeso non guarisse.[141] Imperocchè la parola del testo che significa bastone, essi la interpretano nel senso di sanità e vigore, e intendono tutto il contesto nella seguente maniera. Quando risorgerà, e andrà per via nella sua salute,[107] allora sarà assolto il percussore, cioè assolto dalla condanna capitale, e multato dʼindennità.[142]

Era esclusa ancora la malleveria per essere liberi dal carcere preventivo, e si esigeva la custodia personale del reo.[143]

Fino a qui la legge aveva trattato dellʼomicidio e delle lesioni delle persone libere. In quanto agli schiavi il legislatore ebreo non è davvero verso di loro dei più crudeli, perchè non aveva loro tolto ogni diritto civile nè gli aveva ridotti allo stato di bruti, come lʼantico diritto romano. Ma dallʼaltro lato restavano sempre, anche quando si trattava della loro vita, in condizione in parte inferiore alle persone libere.

20.E quando alcuno batta il proprio servo o la propria serva con la verga, sicchè muoja sotto la sua mano, sia punito. 21.Ma se un giorno o due giorni continui a vivere, non sia punito, perchè è suo denaro.

Secondo il testo qui non si fa distinzione fra servi di qualunque origine. I talmudisti hanno inteso che si tratti solo di schiavi non ebrei, perchè di questi non si sarebbe potuto dire che erano denaro del padrone.[144] Consentanei anche in questo punto alla loro interpretazione sopra riferita (pag. 94), la quale restringeva la durata massima della servitù degli Ebrei fino al termine del Giubileo. Ma questo argomento non varrebbe, se sʼintendesse il testo biblico alla lettera, secondo la quale anche lʼebreo avrebbe potuto[108] essere servo in perpetuo. Ad ogni modo la legge talmudica arrecava un grande mitigamento per gli schiavi ebrei, giacchè questi per il diritto alla sicurezza della vita erano relativamente al padrone nella eguale condizione che qualunque cittadino rispetto allʼaltro.

La Scrittura inoltre non determina a quale punizione dovesse condannarsi lʼuccisore del proprio schiavo, quando questi morisse sotto i suoi colpi, ma dice soltanto sarà punito. E siccome per lʼomicidio in genere si infliggeva la pena di morte, ragion vuole che alla stessa condanna fosse sottoposto lʼuccisore dello schiavo, quando la legge non stabilisce chiaramente una pena diversa.[145]

Nè diversamente intesero i talmudisti,[146] i quali inoltre considerarono come omicidio di persona libera lʼuccisione dello schiavo altrui,[147] senza ammettere in questo caso lʼattenuante, se la morte fosse avvenuta qualche tempo dopo le percosse, perchè non si può invocare la ragione data dal testo, che lo schiavo era finalmente suo denaro, sua proprietà.

È preso poi in considerazione dal legislatore un caso specialissimo di lesione personale, cioè che in una[109] lotta alcuno dei contendenti percuotesse una donna gravida, e le producesse, a ciò che pare dal testo, un parto abortivo, e si distingue, nello stabilire la pena, se la percossa cagionasse o no la morte. Questo caso di lesione così esemplificato parrà troppo strano; ma forse vi è nel testo qualche circostanza taciuta, e si deve probabilmente intendere che nella rissa la moglie di uno dei contendenti, commossa per il marito, si frammetta tra essi, e sia dallʼaltro battuta (cfr. Deut., xxv, 11).

22.E quando rissino alcune persone e percuotano una donna gravida, sicchè ne esca il parto, ma non vi sia morte, sia condannato come imporrà su lui il marito della donna, e paghi per sentenza dei giudici. 23.Ma se vi sarà morte, metterai vita per vita.

Questa legge, a nostra opinione, nel caso che sia percossa una donna gravida, in modo da cagionarle soltanto un parto precoce, condanna lʼoffensore alla sola multa; se poi le cagioni ancora la morte, lo tiene reo di omicidio.[148] La multa non era fissata dalla legge,[110] ma a richiesta del marito della offesa veniva, secondo le circostanze, determinata dai giudici.

I talmudisti, in quanto alla multa, aggiunsero anche una indennità alla donna, come nelle altre lesioni per il danno e il dolore patito,[149] e disputarono poi se la pena di morte dovesse infliggersi nel caso che non si potesse provare esservi stata nel percussore lʼintenzione di uccidere la donna incinta,[150] e naturalmente prevalse lʼopinione più mite.[151]

Lʼultima frase con cui termina la legge precedente, cioè vita per vita, portava lo scrittore a parlare di tutti i casi della pena del taglione, e a stabilire che per i servi, invece dʼinfliggere nellʼoffensore questa pena, si restituisse loro la libertà.

24.Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, 25.ferita per ferita, lividore per lividore.

26.E quando alcuno percuota lʼocchio del suo servo o lʼocchio della sua serva, e lo offenda, libero lo rimandi per il suo occhio. 27.E quando faccia cadere un dente del suo servo o della sua serva, libero lo rimandi per il suo dente.

Non si può negare che il testo ammetta la pena del taglione, come era in uso presso altri popoli antichi. Ma si può ragionevolmente supporre che presto, facendosi più miti i costumi, sia nata la consuetudine che, consentendolo lʼoffeso, invece di recare eguale lesione nella persona dellʼoffensore, si sia più generalmente[111] imposta una compensazione con una multa da concordarsi fra le parti, o da stabilirsi dal potere giudiziario.[152] I talmudisti però vogliono che non mai la pena del taglione sia stata inflitta, nè che mai sia stato nella mente del legislatore di stabilirla o di ammetterla.[153] E per loro si trattava soltanto di una indennità per i cinque titoli sopra esposti (pag. 106).[154] Questa interpretazione però, se è da lodarsi in quanto voleva consacrare il mitigamento avvenuto nei costumi, trovandone lʼorigine per fino nelle fonti bibliche, non è da accettarsi come vera, principalmente per due ragioni. In prima, perchè quando il testo ha voluto stabilire la multa dʼindennità, ha saputo dirlo a chiare note e con termini esatti. In secondo luogo poi perchè, se si fosse trattato di multa, la legge avrebbe dovuto prevedere il caso, pur facile ad accadere, dʼinsolvibilità per parte del reo; e siccome questo caso è stato previsto per il furto, e condannato il reo insolvibile ad esser venduto schiavo, a maggior ragione avrebbe dovuto stabilire qualche cosa di simile per le lesioni, e talvolta gravi lesioni, personali. Dallʼaltra parte i rabbini stessi sono i primi a dirci che solo per furto poteva farsi la vendita giudiziaria della persona;[155] dunque[112] chi non avesse avuto mezzi per pagare la multa, avrebbe potuto a suo piacere percuotere il prossimo, sicuro di andarne assolto. Mentre se si riconosce, come è la verità di fatto, che la legge ammettesse in principio la pena del taglione, erano anzi i nulla tenenti quelli più colpiti dalla legge, perchè era impossibile per essi venire a una composizione pecuniaria. Ma i talmudisti che non volevano in niun modo riconoscere fosse avvenuta nella legge alcuna modificazione, quando trovavano che questa si fosse per forza dei tempi introdotta, o quando essi stessi la introducevano, interpretavano il testo scritturale in modo da piegarlo anche violentemente a significati che la lettera non comportava.

Così pure rispetto alla libertà che lo schiavo poteva rivendicare per certe lesioni personali, mentre appare dal testo che si tratti dei servi in generale senza distinzione, i talmudisti restrinsero questa legge ai soli schiavi non ebrei,[156] perchè gli ebrei non erano mai, secondo essi, schiavi a perpetuità. È ragionevole poi dallʼaltro lato lʼintendere che il testo non ha voluto tassativamente restringere le lesioni allʼocchio, e al dente, ma citare soltanto due esempi, come di casi più comuni per lesioni consimili.[157] E in tal modo hanno inteso anche i talmudisti,[158] con interpretazione in questo punto non meno logica che mite e favorevole ai servi.

Lʼultima delle leggi rispetto alla tutela della persona concerne il caso che lʼuccisione non sia commessa da altrʼuomo, ma da un animale di altrui proprietà,[113] e si stabilisce che cosa deve farsi dellʼanimale, quale sia la responsabilità del padrone, e come punibile, se in colpa, a seconda della qualità delle persone offese. Il caso esemplificato dalla legge è ristretto soltanto ai tori, come gli animali che nella vita agricola, specialmente degli antichi Ebrei, erano quasi i soli che potessero riescire pericolosi.

28.E quando un toro cozzi un uomo o una donna, sicchè muoja, sia lapidato il toro, e non se ne mangi la carne, e il padrone del toro sia assolto.

29.Ma se fosse un toro cozzatore da qualche tempo, e il padrone ne fosse avvertito, e non lo tenesse in guardia, e facesse morire un uomo o una donna, il toro sia lapidato, e anche il suo padrone sia fatto morire.

30.Se gli è imposta una multa, dia il riscatto della sua vita, secondo ciò che gli è imposto. 31.O figlio o figlia cozzi, si eseguisca questa legge. 32.Quando il toro cozzi un servo o una serva, dia al suo padrone il denaro, trenta sicli,[159] ed il toro sia lapidato.

La lapidazione del toro non deve intendersi come una pena inflitta a un essere irragionevole, che sarebbe contraria a ogni principio di diritto criminale; ma come obbligo di polizia di togliere di mezzo un animale pericoloso per la vita dei cittadini, e come punizione del padrone per non averlo debitamente guardato, giacchè in questo modo gli si faceva soffrire un danno nella proprietà.

Sotto il nome di figlio o figlia sʼintendono le persone libere di ambedue i sessi, glʼingenui, che hanno famiglia certa, i liberi dei latini, e si stabilisce la differenza fra essi e gli schiavi.[160] Fa dʼuopo però riconoscere[114] che questa legge è per una certa parte incompiuta. Ammesso, come abbiamo accennato, che si parli del toro, perchè il caso più frequente, e che la legge dovesse estendersi anche agli altri animali che in qualunque modo uccidessero, come saviamente hanno inteso i talmudisti,[161] si domanda, se la legge non disponeva nulla nel caso che il toro, o altro animale viziato non cagionasse la morte, ma soltanto lesione di certa gravezza. I talmudisti hanno supplito a questa deficienza della Scrittura, stabilendo che per un animale di cui prima al padrone non fosse stato contestato il vizio, dovesse pagare una multa equivalente a sola metà del danno arrecato, e per un animale conosciuto già come viziato la multa equivalente al danno intero.[162]

In questo complemento alla legge non si può dire che i talmudisti contraddicano allo spirito del testo, se anche non si mostrano fedelissimi alla lettera; ma in quanto alla pena capitale del proprietario dellʼanimale viziato essi introdussero a forza uno dei loro soliti mitigamenti. La morte qui minacciata è per essi lasciata al giudizio di Dio, il quale a loro opinione farebbe morire il colpevole prima del suo tempo; ma la condanna giudiziaria non avrebbe mai potuto essere se non una multa pecuniaria quale è spiegata nel v. 30, e imponibile per autorità del potere giudiziario, che valutava il valore della persona uccisa.[115][163] E si capisce che anche questa interpretazione talmudista ripete probabilmente la sua origine dallʼuso, che si era da molto tempo introdotto per i mitigati e più inciviliti costumi, di adottare sempre la inulta pecuniaria, senza ricorrere più alla crudeltà della pena capitale.

Incominciano ora fino al v. 14 del capitolo xxii le leggi relative ai danni e alle offese contro la proprietà, dove si entra a trattare di alcuni singolarissimi casi come è proprio delle legislazioni di popoli di rudimentale incivilimento, anzichè stabilire principii generali, che possano regolare più varietà di casi congeneri.

33.E quando alcuno scuopra una fossa, o alcuno scavi una fossa e non la cuopra, e vi cada un toro o un asino; 34.il padrone della fossa paghi, restituisca il denaro al proprietario dellʼanimale, e il morto sia di lui.

È certo, come hanno inteso il più degli interpetri,[164] che qui si tratta di fosse aperte o scavate nel terreno pubblico, e che servivano comunemente per attingere acqua o abbeverare greggi e armenti, e per padrone della fossa devesi intendere colui che lʼha aperta o scavata. Nel Talmud viene tenuto responsabile del danno anche colui che nel proprio terreno scava o lascia aperta una fossa, se vi è libera comunicazione col suolo pubblico o colla proprietà di[116] altri.[165] Viene poi esemplificata la caduta di un toro o di un asino come animali allora più comuni, ma la stessa disposizione valeva anche per gli altri.

Dalla lettera del testo apparirebbe che il cagionatore del danno dovesse pagare per intiero il valore del morto animale, e avesse diritto al corpo morto per quel qualunque valore che potesse ritrarne, come dal cuoio, dalle corna, dalle ossa ecc. I talmudisti però vollero interpetrare che il corpo morto appartenesse al primo proprietario, e il cagionatore del danno fosse obbligato a pagare soltanto la differenza del valore dallʼanimale vivo a morto, ciocchè costituisce un qualche vantaggio a favore del multato.[166]

Come sopra la legge ha preveduto il caso delle lesioni cagionate da un animale in una persona, ora qui, trattandosi della proprietà, dispone ciò che concerne lʼindennità o la multa per danni cagionati da animale ad animale.

35.E quando il toro di alcuno percuota il toro di un altro, sicchè muoia, si venda il toro vivo, e se ne divida il valore, e anche il morto si divida. 36.Ma se si conoscesse che è un toro cozzatore per il passato, e il padrone non lo avesse tenuto in guardia, paghi toro per toro, e il morto sia di lui.

Su questa legge non vi è nulla da osservare, perchè si spiega con quanto è stato detto precedentemente intorno al toro, o cozzatore per causalità, o già conosciuto come viziato.

Segue la legge intorno al furto, spezzata malamente nel testo ebraico quale oggi lo abbiamo, tra la fine del capitolo XXI e il principio del XXII, mentre[117] evidentemente deve formare un solo paragrafo, come hanno i LXX e la Vulgata.

37.Quando alcuno rubi un animale bovino o ovino, e lo macelli o lo venda, paghi il quintuplo per i bovini, e il quadruplo per gli ovini.

xxii. 1.Se nello scassare sarà trovato il ladro, e sarà percosso, e morto, non è omicidio; ma se è sorto il sole, è omicidio. 2.Egli dovrà pagare, e se non ha, sarà venduto per il suo furto. Se si trovi in sua mano il furto, o toro, o asino, o pecora vivi, paghi il doppio.

Il furto degli animali è condannato col pagamento del quintuplo per il grosso bestiame, e solamente del quadruplo per quello minuto, nel caso che lʼoggetto rubato più non esista in natura; mentre il furto di qualunque altra specie (v. 6) era condannato soltanto colla multa del doppio. La ragione di questa maggiore gravità di pena per il furto degli animali non è facile a trovarsi, come pure della differenza fra il grosso e il minuto bestiame. È stato congetturato da alcuno che il furto degli animali, come quello di più comune occasione nella vita agricola, sia stato punito con maggiore severità, per porre a delitto di occasione più facile un ritegno più forte.[167] Per la differenza poi fra il grosso e minuto bestiame è stato detto da alcuno dei talmudisti che è più grave il danno nel furto degli animali bovini, perchè adatti al lavoro delle terre,[168] e perciò condannato con più grave multa. Congetture ingegnose, e che possono fino a un certo punto accettarsi come ragioni assai probabili.

[118]

Dopo stabilita la multa, la legge passa a determinare in qual caso il proprietario possa per legittima difesa uccidere il ladro, e per conseguenza non essere tenuto colpevole dʼomicidio, e il testo qui distingue il caso di aver sorpreso il ladro mentre scassa, o di averlo trovato di giorno: due termini che non appariscono a prima vista opposti fra loro, perchè lo scasso può farsi dal ladro anche alla luce del sole. Ma può credersi che la legge abbia, come il solito, esemplificato il caso più comune, nel quale lo scasso si tenta allʼoscuro, per non essere scoperto; e però sembra doversi intendere che il proprietario, il quale sente scassare di notte la propria casa, o altro luogo di suo dominio, può per difendersi giungere fino ad uccidere il ladro. Nè ciò potrà giudicarsi contrario a ragione, perchè ognuno ha diritto di difendere il proprio; e trattandosi di ladri tanto audaci da venire di notte a scassare, o forzare in altro modo una casa, non si sa con chi ha da farsi, e si può sospettare che per compiere il furto tentato, assalgano anche la persona del proprietario, che tenti difendere il suo. Quando poi il furto sia tentato alla luce del sole, allorchè la difesa può essere più facile, e si può guardare in faccia e conoscere il ladro, e anche intimorirlo col solo gridare: accorrʼuomo, non è permesso spingere la legittima difesa della proprietà fino ad uccidere chi lʼassaliva.

Parrebbe che questa fosse lʼintelligenza letterale del testo.[169] I talmudisti però gli hanno dato diversa interpetrazione,[119] e hanno inteso le frasi della scrittura con maggiore libertà. Per essi la distinzione non è fra il giorno e la notte, ma nel giudizio che può farsi delle intenzioni del ladro. Se si sospetta a ragione che questi possa attentare anche alla vita del proprietario o della gente della casa, si può per legittima difesa ucciderlo. Se invece è chiaro come la luce del sole[170] che si tratta non di ladri sanguinarii, ma che attentano soltanto alla proprietà, non possono per legittima difesa uccidersi;[171] perchè vi è sempre troppa sproporzione fra la vita e gli averi.

La legge prevede inoltre il caso che il ladro sia insolvente a pagare la multa, e lo condanna a essere venduto schiavo per soddisfarvi. Già abbiamo veduto che si trattava di una schiavitù, i cui termini obbligatorii non potevano eccedere i sette anni. I talmudisti poi in più modi hanno mitigato questa condanna. Prendendo alla lettera la parola del testo che abbiamo tradotto furto, stabilirono che la vendita del ladro dovesse farsi soltanto per il valore della cosa rubata, e non per la multa del doppio, o del quadruplo o del quintuplo,[172] per la quale però il ladro insolvente restava debitore verso il derubato, ma debitore civile e non obbligato criminalmente.[173] Siccome inoltre il pronome nel testo è maschile (furto di lui), vollero che la condanna della vendita personale fosse da infliggersi soltanto agli uomini e non alle donne.[174] Nella quale interpretazione si vede bene che il movente di[120] tale mitezza a favore del sesso debole era un riguardo al buon costume e un rispetto che si voleva usare alla donna, ancorchè colpevole. Lʼintendere così puerilmente alla lettera il testo, per farne tale irragionevole deduzione, non era altro che un appiglio, per trovare un fondamento scritturale a ciò che in sostanza doveva essere soltanto una modificazione, introdotta poi mediante i mitigati costumi. Se i talmudisti fossero stati consentanei a loro stessi, siccome la maggior parte delle volte il testo, prevedendo i delitti gli esemplifica col sesso maschile, quello femminile avrebbe dovuto tenersi come escluso dal codice penale. Lo che è impossibile a supporsi in qualunque regime politico. Ma fortunatamente i talmudisti stessi si sono valsi del loro sottile e sofistico argomentare per salvarsi da tale perniciosa conseguenza.[175]

Quello però di cui a nostro avviso non può darsi alcuna ragione che appaghi è un altro temperamento che i talmudisti arrecarono in questa legge. In quanto al prezzo che potesse trarsi, vendendo per sette anni schiavo il ladro, è naturale che si verificassero tre casi: o equivaleva al prezzo dellʼoggetto rubato, o lo eccedeva, o era inferiore. Nei due casi che fosse eguale o inferiore, il ladro era venduto, e in questa seconda ipotesi restava debitore, ma a titolo civile e non più criminale, verso il derubato.[176] Nel caso poi che nel prezzo vi fosse un eccedente, ragione avrebbe voluto che si desse al derubato fino alla concorrenza del furto, e il di più si lasciasse al ladro stesso come suo peculio; oppure lʼautorità giudiziaria avrebbe potuto[121] stabilire che si vendesse il ladro per un tempo minore dei sette anni, e quanto bastava per equiparare il prezzo della cosa rubata. Invece la sottile dialettica talmudica stabilì che in questo caso il ladro non potesse essere condannato alla schiavitù, ragionando, o meglio sragionando, sul testo biblico in questa maniera: per il furto il ladro può vendersi, ma non per un prezzo che lo ecceda.[177]

Finalmente, prendendo alla lettera anche le altre espressioni del testo, che parlano in questo luogo soltanto degli animali bovini o ovini, fu stabilito nel Talmud che la multa del quintuplo o del quadruplo non potesse infliggersi se non per questi soli animali; ma per tutte le altre specie, ancorchè non si trovassero più vivi in mano del ladro, la multa, al pari che per ogni altro furto, fosse soltanto del doppio.[178]

I danni cagionati indirettamente allʼaltrui proprietà, anche per negligenza, dovevano essere pagati, e troviamo a questo proposito esemplificati i due seguenti casi:

4.Quando alcuno faccia pascolare un campo o una vigna, e lasci andare il suo bestiame a pascolare nel campo altrui, paghi col meglio del suo campo, e col meglio della sua vigna.

5.Quando un fuoco esca fuori e trovi spini, in modo che sia consumato grano in bica, o spighe, o campo, paghi chi avrà acceso quel fuoco.

Nel diritto talmudico il danno recato allʼaltrui campo, lasciandovi per incuria pascolare i propri animali, è esteso anche ai guasti che questi potrebbero arrecare, non solo col pascere, ma anche col calpestare[122] i seminati, o gli oggetti che per caso trovassero.[179] Tale compimento alla legge del testo deve dirsi ragionevole e giusto.

In quanto al dover pagare col meglio del campo, o della vigna, è stato inteso diversamente dagli interpetri, se il cagionatore del danno deve risarcirlo dando del meglio del proprio, o il meglio dei prodotti del danneggiato.[180] E diversa opinione manifestarono anche i dottori del Talmud,[181] nel quale poi si decise che il colpevole deve pagare in denaro o con beni mobili potendo, o altrimenti colla miglior parte degli immobili.[182] La versione samaritana e lʼalessandrina offrono qui una diversa lezione, per la quale si stabilirebbe che lʼindennità semplice si doveva dare, quando fosse danneggiata sola una parte del campo, in modo da potersene valutare il prezzo; ma se tutto un campo fosse danneggiato, dovevasene dare lʼindennità con la parte migliore.[183]

Seguono le leggi sui depositi e sulle prestazioni, quando gli oggetti dati in deposito o in presto vengano o derubati, o in qualche modo danneggiati.

6.Quando alcuno dia al suo compagno denaro od oggetti a guardare, e siano rubati dalla casa di quellʼuomo, se si troverà il ladro, paghi il doppio. 7.Ma se non si trova il ladro, si avvicini il padrone della casa[184] presso Dio[185] a giurare[186] che [123] non ha steso la sua mano sulla roba del suo compagno.—8.Per ogni causa di misfatto, per animali bovini, per asini, per animali ovini, per vesti, per ogni oggetto perduto, di cui uno dica: è questo, dinanzi a Dio venga la causa di ambedue, colui che Dio[187] condannerà paghi il doppio al suo compagno.

9.Quando alcuno dia al suo compagno un asino, o un animale bovino o ovino, o qualunque animale a guardare, e questo muoja, o soffra qualche rottura, o sia rapito, senza alcuno che lo veda, il giuramento di Jahveh sia fra ambedue, 10.che non ha steso la mano sulla roba del compagno, e il padrone lʼaccetti, e quegli non paghi. 11.Ma se è stato rubato da presso di lui, lo paghi al padrone. 12.Se poi lʼanimale sia stato sbranato dalle fiere, portilo come testimone, e quello che fu lacerato non paghi.

13.E quando alcuno domandi in presto al suo compagno un animale, e questo soffra qualche rottura, o muoja, se il suo padrone non è presso di quello, lo paghi. 14.Se il suo padrone gli è presso, non lo paghi. Se è dato a nolo, è venuto per il suo nolo.

In questa legge sui depositi e sui prestiti si fanno quattro distinzioni: 1o I depositi di denari o di mobili; 2o la consegna di animali per essere guardati; 3o la prestazione pure di animali; 4o la condotta di questi a nolo. In quanto al denaro o ai mobili, il depositario, in caso che gli siano stati rubati, è creduto sul suo giuramento per non essere tenuto a veruna indennità. E da ciò prende occasione il legislatore per istabilire che in ogni causa, nella quale si contenda per ingiusta appropriazione, quegli che è condannato dai giudici deve pagare il doppio.

Per gli animali dati in custodia si assolve il depositario dalla indennità nel caso di morte, di rottura[124] di membra, o di rapimento violento, o di sbranamento per opera di fiere. Non si assolve però in caso di rubamento non violento, perchè questo suppone una trascuratezza non giustificabile, trattandosi di animali che richiedono contro il furto maggior cura degli immobili. Quando si tratti di prestazione, quegli che ne ha goduto lʼutile è tenuto a pagare qualunque danno, ogni qualvolta il proprietario non si trovi presente, perchè, se è presente, si suppone che egli stesso ne abbia cura. Se finalmente si tratta di animali presi a nolo, questo si valuta come compenso del danno.

I talmudisti hanno introdotto nella interpretazione di questo luogo altre distinzioni che non appaiono nel testo.

Secondo loro nei vv. 6, 7 si tratterebbe di un deposito gratuito, per cui il depositario sarebbe assolto per ogni danno non doloso.

Nei versi 9–12 si tratterebbe di un deposito ricompensato mediante retribuzione,[188] nel quale il depositario assume una maggior responsabilità, e ogni danno che non fosse recato da una forza maggiore, dovrebbe da esso rifarsi al proprietario. Perciò non solo, come dice il testo, gli animali rubati senza violenza, ma anche quelli perduti,[189] anche un animale sbranato da piccole fiere, come gatti, faine e simili, avrebbe dovuto pagarsi dal depositario al depositante; perchè una maggior cura avrebbe potuto salvarlo. Intendono poi per animale sbranato soltanto quello che rimanesse vittima di animali propriamente feroci, come lupi, leoni, orsi, serpi e simili.[190]

[125]

Il v. 8 poi non lo intendono come un principio generale relativo ad ogni impropriazione indebita,[191] ma specifico al caso del deposito, e vogliono dedurne una disposizione veramente singolare. Se Ruben, puta il caso, citasse Simeone perchè gli restituisse un oggetto o una somma depositatagli, Simeone non sarebbe obbligato a giurare, se negasse intieramente di avere ricevuto il deposito, ma solo nel caso che confessasse di aver ricevuto in parte ciò che lʼattore pretende. Lʼobbligo del giuramento nel convenuto sarebbe per i talmudisti imposto dalla legge non quando questi negasse il fatto, o la specie, ma soltanto quando facesse opposizione per la quantità.[192] Come pure lo stesso obbligo del giuramento sʼimporrebbe al convenuto ogni qualvolta un solo testimonio deponesse a favore dellʼattore; perchè due testimoni almeno si richiedono per condannare, ma anche uno solo è tenuto sufficiente per deferire il giuramento al convenuto che neghi.[193]

In quanto finalmente ai danni sofferti dagli animali presi a nolo, quantunque appaia dalla lettera del testo che non se ne debba essere responsabili, pure i talmudisti considerarono chi prende a nolo al pari di chi tiene in custodia per prezzo, e lo tennero responsabile dei danni cagionati per mala guardia, come la perdita o il rubamento, e assolto dal risarcimento per tutti i danni cagionati da una forza superiore.[194]

[126]

Dal v. 15 del cap. xxii fino al 19 del xxiii seguono diversi precetti misti di morale e di religione, nei quali sarebbe vano il voler cercare una più regolare distribuzione di concetti secondo un ordine rigorosamente logico. Il primo di questi precetti concerne la seduzione delle giovani vergini che non sono nemmeno promesse.[195]

15.E quando alcuno seduca una vergine che non sia promessa, e giaccia con lei, deve dotarsela per moglie. 16.Se il padre di lei ricusi di dargliela, paghi danaro come la dote delle vergini.

Lʼobbligo imposto al seduttore di sposare la giovane sedotta è quanto mai morale. Di più la legge vuole che si costituisca alla moglie una dote. Nel caso poi che il padre della giovane abbia delle ragioni per opporsi al matrimonio, il seduttore deve pagare una dote che la legge qui non determina, ma che secondo la più recente legge deuteronomica (Deut., xxii, 29) è fissata in cinquanta sicli dʼargento; come ratificarono anche i talmudisti.[196] I quali inoltre stabilirono che anche la ragazza stessa sedotta potesse rifiutare[127] il suo seduttore come marito, e farsi invece pagare lʼindennità.[197]

Le fattucchiere erano condannate a morte, collʼintendimento di allontanare da ogni pratica superstiziosa. Si sa poi di quali deplorabili conseguenze sia stata cagione questa legge biblica, così male intesa, e tanto peggio applicata da tribunali inquisitorii in età dominate dalla superstizione.

17.La fattucchiera non lascierai in vita.

Sʼintende bene poi che la legge concerne tutti e due i sessi, ma ha parlato del sesso femminile, come del caso più comune.[198]

È condannato pure di morte lʼinfame vizio del coito bestiale.

18.Ognuno che si accoppia con animale sarà fatto morire.

E del pari è tenuto come delitto capitale il fare sacrifizi ad altri Dei, eccetto che a Jahveh.

19.Chi sacrifica agli Dei sarà distrutto, tranne a Jahveh, a lui solo.

Succede una legge morale intorno alla protezione dovuta ai forestieri, alle vedove, agli orfani, i quali come esseri più deboli degli altri hanno bisogno dʼuna più speciale raccomandazione alla umana carità. E lʼindole eminentemente morale di questo precetto si fa manifesta, perchè il legislatore non accompagna lʼavvertimento da alcuna sanzione umana, ma lascia la pena della prevaricazione alla Divina Provvidenza.

[128]

20.Il forestiero non trattare violentemente, e non opprimerlo, perchè forestieri foste[199] nella terra dʼEgitto. 21.Qualunque vedova, nè orfano non affliggete. 22.Se tu lʼaffliggerai, quando esclamerà a me, ascolterò il suo grido. 23.E la mia ira si accenderà, e vi farò perire di spada, e saranno le vostre donne vedove e i vostri figli orfani.

A questi precetti si unisce molto naturalmente quello della carità verso i poveri, per cui si raccomanda di non prestare ad usura, e di non tenere nemmeno come pegno gli oggetti necessarii alla vita.

24.Se denaro presterai al mio popolo, al povero che è presso di te, non gli sarai duro creditore, non glʼimponete usura. 25.Se prenderai in pegno la veste del tuo compagno, prima del calare del sole glie la restituirai. 26.Perchè quella è la sola sua coperta, essa è la sua veste per il suo corpo, in che giacerà? e se egli esclamasse a me, lʼascolterei, perchè pietoso io sono.

Per lʼintelligenza di questo precetto è necessario ricordare che gli antichi orientali, e anche oggi i Beduini e gli Arabi, non facendo uso di letti come i nostri, usano coricarsi avvolti in grandi coperte, che si suppone i poveri, non possedendo altro, dessero in pegno ai loro creditori. Si noti in questa come nella precedente legge il tono esortativo conveniente a quei precetti che debbono riguardarsi come morali, e più come doveri di benevolenza che di giustizia.

I talmudisti poi vollero vedere in questo passo della Scrittura non solo un precetto proibitivo dellʼusura, ma una esortazione, anzi un vero precetto positivo, che impone di sovvenire il bisognoso colla prestazione gratuita.[200]

[129]

In quanto al pegno, interpretando sottilmente, come è loro costume, le parole del testo, vollero trovarci la permissione di tenere come pegno durante il giorno le coperte e gli strati da coricarsi, di cui non fa bisogno se non la notte, e durante la notte gli oggetti di vestiario, che non abbisognano se non di giorno; con lʼobbligo però nel creditore di rendere alternativamente ora gli uni ora gli altri. Lasciamo ai talmudisti la cura di ricercare quanto in pratica fosse possibile lʼapplicare questa loro interpretazione. Avvertiremo soltanto che essi restrinsero il precetto biblico della restituzione del pegno al solo caso che il creditore lo esigesse giuridicamente alla scadenza del credito, ma non se fosse volontariamente offerto da chi prendeva la prestazione, quando questa veniva contratta.[201] Assoggettarono pure il creditore nel primo caso alla sanzione penale della fustigazione, se non rendesse il pegno.[202]

Si comanda il rispetto a Dio e al rappresentante del potere civile, vietando dʼinsultarli anche con semplici parole.

27.Dio non bestemmiare, e il principe del tuo popolo non maledire.

Seguono le raccomandazioni religiose di offrire a Dio le primizie e i primogeniti, e di astenersi dal cibarsi di carni trovate dilaniate dalle fiere, come costume alieno dalla purità di una gente santa.

28.Le primizie dei tuoi prodotti[203] non ritardare, il primogenito dei tuoi figli darai a me. 29.Così farai ai tuoi animali bovini [130] e ovini, sette giorni starà [il primo nato] con sua madre, nel giorno ottavo lo darai a me. 30.E gente santa sarete a me, nè carne nella campagna sbranata non mangerete, al cane potrete gettarla.

Non entreremo qui in maggiori particolari su questi precetti, perchè questa raccolta di leggi si restringe su questo punto a un generalissimo avvertimento. Tutto quanto concerne le offerte dei primogeniti e delle primizie dovrà avere il suo svolgimento in altro luogo. Ma qui non possiamo fare a meno di domandare: Come si consacravano i primogeniti umani? Se ne faceva un cruento sacrifizio come degli animali? Si consacravano a Dio come suoi ministri? (Num., iii 45; viii, 16–18). Si riscattavano per mezzo del denaro? Vedremo a suo luogo che le leggi più recenti (Esodo, xiii, 13) escludono del tutto il sacrifizio cruento, e ammettono lʼultimo modo di consacrazione per mezzo del riscatto. Ma il nostro testo, dopo aver detto «darai a me il primogenito dei tuoi figli», soggiunge: «così farai ai tuoi animali bovini e ovini»; e come di questi si può a buon diritto pensare che fossero immolati sullʼaltare, parrebbe, stando alla lettera, che non altrimenti dovesse farsi dei primogeniti umani. Ma per poco che si rifletta, questa interpretazione così letterale non è accettabile.

Che gli Ebrei al pari di altri popoli abbiano nei più antichi tempi praticato i sacrifizi umani, non vogliamo[131] negare, e la leggenda del sacrifizio dʼIsacco, quantunque non portato a compimento, e il voto di Jefte, stanno a dimostrare che dal costume del popolo erano consentiti. Lo stesso comando della legge che vieta di offrire i figli al Dio Moloch (Levit., xviii, 21, xx, 2, Deut., xviii, 10) prova che anche gli Ebrei al pari dei Fenici e di altri popoli circonvicini si abbandonavano a una pratica non meno feroce che superstiziosa. Ma lʼesistenza di un costume nel popolo è cosa ben diversa dal precetto legislativo. E dal tutto insieme della legge ebraica non se ne può dedurre che imponesse il sacrifizio dei primogeniti umani, anzi vi è qualche cosa che vieta assolutamente di ammetterlo. Lʼuso di dare al primogenito la doppia parte nella eredità, uso convalidato poi dalla legge, sembra antichissimo; come avrebbe potuto questo coesistere col precetto religioso di sacrificare i primogeniti a Dio? Che nei tempi più antichi talvolta il primogenito sia stato immolato sullʼaltare, o bruciato al Dio Moloch, potrà essere anche accaduto; ma che il testo della legge, di cui ora ci occupiamo, abbia voluto imporre e consacrare questa crudele costumanza, non ci sembra ammissibile.[204] Del resto, la frase del testo darai a me, non è quella più frequentemente usata per esprimere il sacrifizio, e si può intendere come una consacrazione a Dio, o per prestare servigio sacerdotale nelle ceremonie del culto, o per essere sottoposti a un riscatto da darsi ai sacerdoti. Vi è poi da osservare che nemmeno dei primogeniti degli animali[132] si faceva vero e proprio sacrificio, ma la loro consacrazione consisteva nel non sottoporli ad alcuna specie di lavoro (Deut., xv, 19), e nel farne un convito sacro, fosse questo celebrato dai proprietarii, come vuole il deuteronomista (ivi, 20), o dovessero i primogeniti donarsi ai sacerdoti, come si dispone in altro luogo del Pentateuco (Num., xviii, 15–18). Il termine di confronto adunque che si legge nel nostro testo non va inteso in senso ristretto al modo della consacrazione, ma in senso lato al dovere in genere di consacrare i primogeniti, tanto degli animali, quanto degli uomini, applicando poi ad ognuno di essi quel modo diverso di consacrazione che meglio si conveniva.

Nellʼultima parte di questa raccolta di leggi vi è minor ordine nella distribuzione delle materie, che nei due capitoli che siamo venuti sino a qui esponendo. Forse è avvenuta ancora qualche interpolazione come nel xxiii, 9, che ripete soltanto il precetto del xxii, 20, o è stata fatta dallʼultimo compilatore una fusione di elementi tratti da fonti diverse. Noi ci restringeremo per ora a tradurre, soggiungendo quello che di più importante vi hanno innovato i talmudisti.

xxiii. 1.Non proferire notizie false, non porre la tua mano con lʼempio per essere testimone dʼingiustizia. 2.Non seguire i più per far male. Non far da testimone in una causa, in modo da seguire i più per torcere la giustizia. 3.E nemmeno il povero devi rispettare nella sua causa.

Dal v. 2 i talmudisti hanno voluto dedurre che nei giudizii capitali non sarebbe bastata la maggiorità di un sol voto per condannare, ma se ne richiedevano almeno due.[205] Mitissima disposizione, e anche[133] altamente commendevole, se vuolsi; ma in verun modo desumibile da questo testo, che è un avvertimento generale per distogliere dal seguire i più, quando si diano al male, giacchè il numero non sarebbe ragione giustificante.

Lʼamore dei nemici è insegnato con i seguenti due pratici esempi:

4.Quando incontri il bove del tuo nemico, o il suo asino smarrito, glie lo restituirai.

5.Quando vedrai lʼasino del tuo avversario oppresso sotto il suo carico e tu ti asterresti dallʼajutarlo,[206] devi anzi insieme con lui ajutarlo.

Sʼimpone di amministrare rettamente la giustizia, accogliendo le ragioni dei deboli come dei potenti, e sopratutto di non pervertirla, lasciandosi corrompere da motivi di personale interesse.

6. 7.Non pervertire il giudizio del povero nella sua causa. Da cose false tienti lontano, nè innocente nè giusto non uccidere, perchè non assolverò lʼempio. 8.E dono non prendere, perchè il dono accieca i veggenti, e perverte le parole, dei giusti. 9.E non opprimere lo straniero, giacchè voi conoscete lʼanima dello straniero, essendo stati stranieri nella terra dʼEgitto.

Una disposizione caritatevole a favore dei poveri era quella di lasciare ogni sette anni a loro profitto tutto il prodotto dei campi.

10.Sei anni seminerai la tua terra, e raccoglierai il suo prodotto. 11.E il settimo lo lascerai e lo abbandonerai, e mangeranno i poveri del tuo popolo, e il loro avanzo lo mangerà lʼanimale della campagna; così farai alle tue vigne e ai tuoi oliveti.

[134]

Lʼanfibologia che può nascere nel testo ebraico, nel quale il pronome del v. 11 può riferirsi egualmente al nome terra come a quello prodotto, in lingua ebraica ambedue femminili, ha fatto sì che questo nostro luogo sia stato inteso, come se ogni sette anni si dovesse non solo rilasciare il prodotto ai poveri, ma anche tralasciare la coltivazione della terra e far riposare i campi. Donde la legge del Levitico (xxv, 2–7) sullʼanno sabbatico, e tutte le prescrizioni rabbiniche che ne derivano, di cui a suo luogo diremo lʼoccorrente. Ma qui non vʼha dubbio che la retta interpretazione è che si tratta soltanto di lasciare i prodotti a vantaggio dei poveri.[207]

Alcuni precetti sul sabato, sulle altre feste annuali, e altre ceremonie del culto o rituali pongono fine a questa raccolta di leggi.

12.Sei giorni farai i tuoi lavori, e nel giorno settimo riposerai, acciocchè riposi il tuo bove, il tuo asino, e respirino il figlio della tua serva[208] e il forestiere.

13.E in tutto ciò che vi ho detto ponete cura, e il nome di altri Dei non rammentate, non si senta sulla tua bocca.

14. 15.Tre volte festeggerai a me nellʼanno. La festa delle azzime osserverai, sette giorni mangerai azzime, come ti ho comandato, nel tempo del mese della primavera, chè in esso escisti dallʼEgitto, e non sarà veduta la mia presenza a vuoto.[209] 16.E la[135] festa della mèsse, delle primizie delle tue opere che avrai seminato nel campo; e la festa della raccolta al finire dellʼanno, quando raccoglierai i tuoi lavori dal campo. 17.Tre volte allʼanno si vedrà ogni tuo maschio dinanzi il Signore Jahveh. 18.Non verserai con il lievito il sangue del mio sacrifizio, e non pernotterà il grasso del mio sacrifizio pasquale fino alla mattina. Il principio delle primizie della tua terra porterai nella casa di Jahveh tuo Dio. Non cucinerai il capretto col latte di sua madre.

Al piccolo codice, che siamo venuti sino a qui traducendo ed esponendo, fa seguito la promessa della conquista della Palestina insieme col comando di non fare alcun patto di alleanza con gli antichi abitanti, i quali sarebbero stati da Jahveh a poco a poco distrutti, ma non di un sol tratto, perchè il paese non avesse a rimanerne deserto e inculto (xxiii, 20–33). Questa è unʼappendice che, secondo tutte le probabilità, non formava in origine parte integrale del codice, ma appartiene allo scrittore Jehovista, tanto per i concetti, quanto per la forma. Come pure è da riportarsi allo stesso autore altra disposizione di diritto pubblico internazionale cioè la guerra a morte indetta alla gente amalechita (Esodo, xvii, 14–16), alla quale, come agli altri popoli antichi abitatori della terra da conquistarsi, non doveva darsi quartiere veruno. Queste fiere disposizioni di diritto bellico avevano la loro spiegazione e anche giustificazione nel principio naturale della lotta per lʼesistenza. Vedremo a suo luogo per altri popoli nemici leggi più miti (Deut., XX, 10–15). Ed ecco ora come a nostra opinione si può spiegare la formazione attuale dei capitoli xixxxiv dellʼEsodo.

Posto che il Decalogo sia antichissimo, e possa risalire fino ai tempi mosaici, ne sembra ragionevole ammettere che tanto lo scrittore Jehovista quanto lʼElohista, lo abbiano accolto nei loro scritti, facendolo[136] ognuno precedere da quel preambolo e seguire da quella conclusione, che più erano consentanei al loro intendimento generale.

Il compilatore, che qui, come da per tutto, ha fuso insieme le diverse narrazioni, non poteva ammettere il Decalogo più di una volta, ma ha insieme combinato i preamboli e le conclusioni dei diversi autori, e ne è nata quindi quella confusissima miscela che già sopra abbiamo notato, rispetto ai capitoli xix e xxiv. Ma in tutti questi capitoli la fonte principale, a cui spetta la maggior parte, è a parer nostro quella del Jehovista. Questo scrittore aveva innanzi a sè il Decalogo, le due leggi xx, 23–26, e il piccolo codice xxi, 1–xxiii, 19, e gli ha accolti nellʼopera sua, non senza permettersi forse alcune interpolazioni, nel corpo dello stesso codice, alle quali appartengono principalmente: 1o La legge a favore dei forestieri ripetuta due volte (xxii, 20 e xxiii, 9) quasi con le stesse parole, dimodochè o nellʼuno o nellʼaltro luogo deve giudicarsi inserzione di altra mano. 2o Le parole del v. 15 «sette giorni mangerai azzime come ti ho comandato», perchè suppongono una legge anteriore, che, come diremo più innanzi, non esisteva ancora al tempo della composizione di questo codice.

Lo scritto Jehovistico poi per ciò che concerne la promulgazione del Decalogo e delle leggi che gli fanno seguito dopo il capitolo xxiii continua nel xxiv, incominciando dal v. 3 fino a tutto lʼ8, nel quale si conclude il patto fra Jahveh e il popolo. Le obbiezioni fatte dal Vellhausen[210] contro la possibilità che il Decalogo e le leggi dei capitoli XXIXXIII con la loro

[137]

conclusione nel capitolo xxiv, formino un sol tutto, hanno valore soltanto nella ipotesi di questo stesso critico, il quale suppone due libri originarii uno jahvistico (J) e lʼaltro elohistico (E) da cui un più tardo compositore da lui detto Jehovistico (JE) abbia formato la sua compilazione aggiungendovi ancora non poco di suo. Ma lʼesistenza di uno scritto jahvistico, o come altri dicono del primo Jehovista, da cui un secondo dello stesso genere abbia con altri elementi compilato il suo, a noi pare una ipotesi molto lontana dallʼessere dimostrata, non ostante lʼabilità e lʼacume spesovi intorno da valentissimi critici.

Che i primi quattro libri del Pentateuco siano composti da uno scrittore jehovista e da un altro elohista insieme combinati da un più recente compilatore, è un resultato, cui è giunta la critica, che non può mettersi in dubbio.

Che tanto il Jehovista quanto lʼElohista si siano in parte giovati di altri documenti più antichi non può neanche questo mettersi in dubbio.

Ma che questi documenti più antichi formassero uno o più scritti che avessero in loro stessi unità di concetto e di autore è molto lungi ancora dallʼessere dimostrato. Badando bene al modo come questi documenti si trovano e nello scritto jehovista e in quello elohista, è ipotesi più ragionevole credere che fossero piccoli scritti isolati formatisi successivamente in diverse età, e secondo vario concetto. Se concernono la parte narrativa, erano leggende formatesi secondo certe idee prevalenti o nelle scuole sacerdotali o in quelle profetiche; se concernono la parte legislativa, erano o raccolte di leggi o anche leggi isolate, concepite e scritte secondo le successive occorrenze e opportunità[138] sociali. Così per non escire per ora da quei passi che hanno fin qui formato oggetto del nostro studio, noi diciamo che esisteva il Decalogo fino dai tempi mosaici; che fu promulgata più tardi la legge intorno alla costruzione dellʼaltare, e circa negli stessi tempi, il codice dellʼEsodo, xxixxiii, 19; e tutte e tre furono accolte dallo scrittore Jehovista nella sua opera storica, come vi furono accolte ancora altre leggi, e di altre egli stesso fu lʼautore.

Fra quelle del primo genere noi crediamo di dover porre quella che fa seguito al Decalogo sulla proibizione delle immagini e sul modo di costruire lʼaltare, perchè il comando di edificarlo o di terra o di pietre non tagliate e di salirvi non per mezzo di gradini rivela uno stato di civiltà molto incipiente, anteriore alla età cui probabilmente può riportarsi lo scrittore Jehovista. Dimodochè è inutile ancora il supporre come lʼEwald[211] e altri lʼesistenza di un così detto Libro del Patto. Se nellʼEsodo xxiv, 7 si trova questo nome, la spiegazione che naturalmente ci si presenta è che lo scrittore Jehovista ha dato questo nome al Decalogo e alle leggi che gli fanno seguito, perchè sopra di loro si fondava il patto fra Jahveh e il popolo.

A dimostrare poi quanto sopra ragioni molto arbitrarie si fondano certe critiche dottrine, che vogliono fino alle più minute parti stabilire quali e quanti siano gli originarii scritti, di cui consta il Pentateuco, basti citare una opinione del Wellhausen. Egli dice che nelle leggi dellʼEsodo xxixxiii un filo conduttore per conoscere le interpolazioni del Jehovista (JE)[139] è il passaggio nel numero del verbo dal singolare al plurale.[212] Nella massima parte è usato il primo, nel v. 20 del cap. xxii si passa rapidamente al secondo, e così nel v. 23 e nel 30, e nei v. 9 e 13 del xxiii. Ma per quanto non si vogliano disconoscere i grandi pregi del Wellhausen come critico ed esegeta, non si può fare a meno di notare che fondarsi sul passaggio dal singolare al plurale per scuoprirci unʼaltra mano, e dire che questo è il filo conduttore, può farlo soltanto chi, non ostante la profonda cognizione della grammatica, non avverte che tale passaggio e in ispecie nei luoghi addotti, costituisce uno degli idiotismi più eleganti di cui lo stile ebraico possa adornarsi, e non per artifizio rettorico, ma per naturale qualità della elocuzione. Noi siamo i primi ad ammirare lʼacutezza, la dottrina e la pazienza delle ricerche critiche del Wellhausen; ma prima di stabilire come cosa certa che a tal punto comincia, e a tal punto è interrotto, e a tal altro riprende questo o quel documento originario del Pentateuco, bisognerebbe tener conto delle proprietà idiomatiche della letteratura ebraica. Per ciò è bene lasciare nel campo della pura probabilità tutto ciò che non può essere se non probabile.

Con maggiore arbitrio poi e senza fondarsi sopra più solide ragioni il Bruston[213] divide le leggi di cui abbiamo parlato nel seguente modo. Un dodecalogo composto dei v. 23–26 del capitolo xx, e dei v. 10–12, 14–19 del xxiii, poi il decalogo xx, 1–17 coi suoi ulteriori[140] svolgimenti, da ultimo il secondo Decalogo (xxxiv, 17–26).

In quanto a questʼultima parte rimandiamo a ciò che sopra ne abbiamo detto (pag. 82–86). Per ciò poi che concerne lʼipotesi di un dodecalogo così arbitrariamente composto, se noi conveniamo col Bruston sullʼimpossibilità di attribuire a un solo autore le contraddittorie narrazioni, che precedono e seguono il Decalogo e le altre leggi (xx, 23–xxiv), non vediamo che ne consegua la necessità di ricomporre a capriccio la compilazione delle leggi stesse, che possono considerarsi indipendentemente dalla parte narrativa. È vero che un pensatore moderno e ariaco, può trovar difficoltà, e anche giudicare impossibile che alla fine del cap. xxiii dellʼEsodo si venga dopo leggi civili e morali a parlare di precetti concernenti il culto, dei quali già si era preso a trattare negli ultimi versi del capitolo xx. È vero ancora che per rimettere lʼunità di concetto, dove a prima vista non appare, sarebbe comodo riunire ciò che è simile, e dividere ciò che è differente. Ma in queste ricostituzioni si può ammirare lʼingegno, non la verità del risultato. Se un compilatore avesse trovato il dodecalogo composto come suppone il Bruston, per quale ragione lo avrebbe dovuto dividere in due per inserire in mezzo la raccolta delle leggi xxi, 1–xxiii 9? In che cosa sarebbe stato guastato il suo disegno generale, ponendo in principio tutto il preteso dodecalogo unito, anzichè quei due soli precetti che ora vi si trovano, per relegare alla fine gli altri dieci? Il precetto di non cuocere i piccoli animali col latte della madre poteva forse alla mente del compilatore sembrare un più idoneo trapasso alla promessa della conquista della terra palestinese, che non lʼesortazione[141] a non trattar male i forestieri? Questo è quello che il Bruston si è dimenticato di dirci per giustificare la sua ipotesi. È molto facile mettere insieme quei versi sparsi nel Pentateuco che mostrano affinità di concetto, per poi concludere che formavano in origine un tutto omogeneo. Ma la critica cauta insegna che prima di far questo è necessario tentare se anche nella disposizione in cui ora si trovano si può darne spiegazione secondo il modo di concepire e comporre dei semiti, che è troppo diverso da quello degli scrittori ariaci. E solo quando ciò non sia possibile, è permesso tentare fra le ricostituzioni possibili quelle più razionali.

È impossibile per esempio che appartengano allo stesso autore dei tre capitoli precedenti i due primi versi del xxiv, perchè mentre in quelli Jahveh ci è rappresentato come parlante a Mosè dalla tenebra che lo avvolgeva sul Monte Sinai (xx–21), in questi si farebbe dire a Jahveh che Mosè salisse sul monte con Aron, Nadab e Abihu e settanta anziani per prostrarsi da lontano, e che egli solo quindi si avvicinasse. Ma ciò è inconcepibile, quando nei capitoli precedenti Mosè è rappresentato già vicino a Dio per udirne la rivelazione delle leggi. Invece col v. 3 xxiv continua naturalmente lʼesposizione del capitolo xxiii, dicendosi in quello che Mosè venne presso il popolo a manifestargli le leggi rivelategli da Jahveh. È impossibile altresì che i vv. 9–11 xxiv siano dello stesso scritto che i vv. 3–8, e facciano loro seguito, perchè concluso il patto fra Jahveh e il popolo, a che salirebbero di nuovo sul monte Mosè, Aron, Nadab e Abihù e i settanta anziani? Ma invece questi versi fanno naturale continuazione ai due primi dello stesso[142] capitolo, e sono tutti insieme altra narrazione di diverso autore intorno alla promulgazione del Decalogo e della sua accettazione per parte del popolo.

È impossibile, per ultimo, che appartengano tutti ad uno stesso autore i versi 12–18 dello stesso capitolo xxiv, perchè in essi si fa salire tre volte Mosè sul monte, senza dire mai che ne sia disceso; e perchè non si sa intendere a quale scopo salire tre volte, quando col salire altro non si voleva, se non ricevere le tavole della legge e altri insegnamenti.

Non è impossibile però spiegare come le leggi siano state accolte nella sua narrazione dallo scrittore Jehovista. Il quale pose per prima la promulgazione del Decalogo come base di tutta la legge. A questo fece seguito lʼaltra disposizione contro lʼidolatria e sul culto, (xx, 23–26), frapponendovi di suo come nesso il v. 22. Poi vʼinserì il piccolo codice xxixxiii, 19, cui prepose egualmente come nesso con ciò che precede il v. 1 del xxi.

Nè è difficile altresì spiegare come trovassero naturale luogo le ultime disposizioni del piccolo codice sebbene risguardino il culto. Come abbiamo veduto nel capitolo xxiii si contengono anche nei v. 1–9 piuttosto precetti morali che vere disposizioni legislative, dunque era facile per lʼassociazione dʼidee, che regola sempre il modo di comporre dei Semiti, passare al precetto di lasciare ogni sette anni i prodotti delle terre a vantaggio deʼ poveri.

Nella mente di un Semita lʼidea del settimo anno risveglia quella del settimo giorno, e quantunque lo scrittore del piccolo codice conoscesse il Decalogo, ripetè il comando di riposare ogni sette giorni. Ma essendosi trovato a ripensare al Decalogo ne ripeteva[143] ancora, riferendosi chiaramente a legge anteriore (v. 13), il comando più importante, quale è quello contro il politeismo. Quindi, riprendendo lʼidea per poco interrotta della festa settimanale, passa naturalmente alle altre tre feste annuali. E da queste al modo come offrire il sacrifizio, dal sacrifizio alle primizie; e siccome il sacrificio pasquale era di un agnello, o di un capretto, o tuttʼal più di altro giovane animale (cfr. Deut. xvi, 2), è facile il trapasso al precetto che proibisce di cuocere i piccoli animali col latte della loro madre. Tenendo conto di questo nesso fondato soltanto sullʼassociazione delle idee, si può spiegare come nel Vecchio Testamento non solo possano, ma talvolta debbano appartenere allo stesso autore anche quei passi che sembrano a prima vista sconnessi, e malamente insieme combinarsi.

Se a questo modo di figliazione di concetti avessero sempre posto mente i critici della Bibbia, si sarebbero contentati di trovare diversità di autori dove solo è necessario, non avrebbero fatto arbitrarie ricostituzioni fondate le più sopra opinioni personali e soggettive, e non avrebbero offerto facile modo di rispondere alla pregiudicata esegesi teologica.

Resta ora a fissare a quale tempo appartengano queste leggi. Forse i vv. 23–26 del xx sono dello stesso autore che il piccolo codice, ma nemmeno questo potrebbe con certezza affermarsi. Sembra però che in ogni caso non ne differiscano per lʼetà, che noi poniamo nel primo costituirsi a politica vita del popolo ebreo. E questo non può credersi che avvenisse molto prima di Samuele, anzi più probabilmente nei primi tempi della sua così detta giudicatura.

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A questa conclusione cʼinduce la nessuna menzione in queste leggi di un luogo fisso di culto, nè del potere reale, nè della dignità dei sacerdoti, nè dellʼufficio profetico, dimodochè è da tenersi che esse fossero composte prima che queste istituzioni vigessero; e alcune di esse non possono porsi più tardi che il tempo da noi indicato.

Ma nemmeno possono credersi anteriori, perchè fino allʼultimo tempo dellʼera dei Giudici non può parlarsi nel popolo ebreo di una vera e propria costituzione di vivere civile,[214] per cui si potesse comporre e promulgare un codice che regolasse la proprietà, e in ispecie la proprietà rurale, e desse altre disposizioni o rituali o civili, che soltanto presso un popolo agricolo possono concepirsi.

Si avverta però che accennando allʼetà di Samuele è solo una determinazione approssimativa che vogliamo dare sulla età probabile della composizione di queste leggi, chè volerla fissare con certo e precisissimo criterio non può pretendere una critica cauta, e che non voglia abbandonarsi ai capricci della fantasia.

Proponendosi lo scrittore Jehovista di fare opera più specialmente storica,[215] poche dovevano essere le leggi da lui accolte nel suo scritto, o da lui stesso composte, e queste per di più connesse in modo con la narrazione che apparissero discendere dalla natura stessa dei fatti. E però oltre le leggi sovra esposte[145] non pare che nello stato presente del Pentateuco se ne possano a questo scrittore attribuire altre, o come da lui composte, o come da più antiche fonti desunte, se non quella intorno alla costituzione di una primitiva magistratura (Esodo, xviii, 21–26) e lʼaltra sulla commemorazione della escita dallʼEgitto (ivi, xii, 21–28, xiii, 3–16).

È naturale che, fatte le leggi, si provvedesse a chi doveva amministrarle, e una forma molto primitiva di magistratura è quella di stabilire dei giudici di maggiore o minore autorità, secondo lʼestensione della loro giurisdizione misurata dal numero di persone ad esse sottoposte. Quindi troviamo nel citato luogo dellʼEsodo essere istituiti come giudici dei Chiliarchi, dei Centurioni, dei Pentacontarchi, e dei Decurioni. Questa istituzione da un antico narratore[216] è stata riportata a Mosè, il quale lʼavrebbe adottata per consiglio di suo suocero Jetro; ma la fondazione di tribunali regolari non è da tenersi anteriore allo stabilimento della legge.

Lʼaltra disposizione per la commemorazione della escita dallʼEgitto è distinta in tre disposizioni: 1a sacrifizio pasquale, 2a precetto di mangiare nella pasqua il pane azzimo, 3a consacrazione dei primogeniti.

Chi legga con attenzione il capitolo xii dellʼEsodo facilmente può accorgersi che appartiene a due distinti autori. Secondo uno di essi Jahveh comanderebbe a Mosè e Aron di avvertire i figli dʼIsraele dʼimmolare un agnello o un capretto, di tingerne col sangue le porte delle case, e di mangiare per sette[146] giorni il pane azzimo, astenendosi da ogni cibo fermentato (v. 1–10, 14–20).[217] Il punto più notevole in questo comando è lʼultimo, perchè avrebbe preceduto lʼescita frettolosa dallʼEgitto.

Invece nei versi che seguono (21–27), Mosè solo e non Aron comanda agli anziani ciò che risguarda il sacrifizio pasquale, ma nè di pane azzimo, nè della proibizione del lievito si fa veruna menzione. Anzi nel v. 39 si narra che gli Ebrei per la fretta avevano dovuto cuocere la loro pasta prima che fermentasse. Cosa inconciliabile col comando antecedente, perchè, o fretta, o agio che avessero, non avrebbero dovuto in alcun modo lasciarla fermentare. Dimodochè il rito contenuto nei versi 1–10, 14–20, così armonico e compiuto in tutte le sue parti si è formato dopo lo svolgimento storico, quando ormai si poteva considerare come fosse stato comandato anticipatamente di un sol tratto ciò che era stato prodotto da fatti diversi. Imperocchè, mentre ancora erano in Egitto, fu dato il comando del sacrifizio pasquale con la ingiunzione di tingere col sangue gli stipiti, acciocchè Jahveh, facendo morire i primogeniti egiziani, salvasse dallʼeccidio gli Ebrei. Dopo esciti dallʼEgitto, fu dato il comando di mangiare azzime e astenersi dal lievito (xiii, 3–10), occasionato dal fatto di non[147] aver avuto tempo di lasciar fermentare la pasta. E finalmente fu ordinata la consacrazione dei primogeniti, perchè salvati nella strage di quegli Egiziani.

Questʼultima legge presenta uno svolgimento rispetto a quella simile del piccolo codice (xxii, 28–29); perchè in questo si comanda di consacrare il primogenito, prescrivendo solo il tempo, donde la consacrazione doveva incominciare. Nella legge jehovistica invece, che può tenersi come una vera novella relativamente al detto codice, si prescrive di più che fra gli animali domestici oltre gli ovini ed i bovini anche degli asini dovevano consacrarsi i primogeniti; ma, come non offeribili sullʼaltare, dovevano o riscattarsi con un agnello, o pure accopparsi; e riscattarsi con denaro i primogeniti umani (xiii, 12–13). È poi nota comune di tutti e tre questi precetti quello di dover narrare ai figli che ciò si praticava come memoria della liberazione dallʼEgitto (xii, 26, xiii, 8, 14). Nulla di tutto ciò nellʼaltra legge, ma precetto indipendente dal fatto storico, comando teocratico, e del tutto dʼindole religiosa. Di più nellʼuno ci compariscono come chiamati alla rivelazione Mosè ed Aron, xii, 1, 43; nellʼaltro il solo Mosè è lʼintermediario fra Jahveh e il popolo.

Non vi può essere dubbio: la legge quale lʼabbiamo nel frammento xii, 11–13, e poi nei vv. 21–27, e xiii, 3–16, è la più antica e appartenente al Jehovista, o almeno da lui fu inserita nella sua narrazione; lʼaltra è dello scrittore elohista, e vi apparisce un concetto teocratico e sacerdotale.

Lo scrittore jehovista raccoglitore, e forse soltanto in minima parte autore di queste leggi non viveva secondo lʼopinione di autorevoli critici molto prima[148] dei grandi profeti del 9o e dellʼ8vo secolo,[218] anzi di pochissimo può averli preceduti, forse fioriva durante il regno del 2o Geroboamo, quando lo stato di Samaria raggiunse il massimo del suo splendore. Ma se nellʼopera sua altre leggi non raccolse oltre le mentovate, è da vedersi come avvenne la formazione di tutte le altre parti della legge contenuta nel Pentateuco, e questo è ciò che ora studieremo.


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Capitolo VI

della relazione cronologica fra le leggi del pentateuco. altre novelle al primo codice. riti di purità per i cibi (Levitico, xi). riti per le malattie corporali (Levitico, xiiixv). nazireato (Numeri, vi).

Per istabilire in quale relazione cronologica stiano fra loro le varie raccolte legislative del Pentateuco fa dʼuopo osservare come nella legge ebraica da una parte siasi operato lo svolgimento delle idee religiose, e dallʼaltra siasi fatto sentire il bisogno di determinare le relazioni civili di cittadino a cittadino, e dei cittadini con lo Stato.

Nellʼetà mosaica lo svolgimento dellʼidea religiosa era giunto fino al concetto del monoteismo personificato nel Dio nazionale Jahveh, quindi al dovere di rispettarne il nome, e di festeggiarlo col riposo di un giorno la settimana. Le relazioni civili erano determinate con la santificazione della famiglia, col rispetto alla vita, alla proprietà e allʼonore dei cittadini.

Questi sono i principii enunciati nel Decalogo. Una gente ancora nomade non poteva avere altro svolgimento dʼidee religiose, non poteva sentire il bisogno di determinare relazioni civili che ancora non[150] esistevano. Ma stabilitisi gli Ebrei nella Palestina, il bisogno di istituire leggi intorno al vivere civile doveva per primo farsi sentire, quindi la formazione del piccolo codice sopra esposto, il quale contiene molte disposizioni che concernono la libertà personale, la vita e la proprietà, circondate da sanzioni penali, e poche altre determinazioni intorno alla religione e al culto oltre quelle stabilite dal Decalogo. Giova qui però partitamente enumerarle: 1o Confermazione del principio monoteistico (xx, 23; xxii, 19; xxiii, 13). 2o Modo di edificare lʼaltare sul quale dovevano offrirsi i sacrifizii (xx, 24–26). 3o Proibizione di ogni superstizione divinatoria (xxii, 17). 4o Consacrazione delle primizie e dei primogeniti (xxii, 28, 29; xxiii, 19). 5o Proibizione di cibarsi di animali sbranati (xix, 30). 6o Confermazione di consacrare a Dio un giorno di riposo sopra sette (xxiii, 12). 7o Le tre feste annuali (ivi, 15–17). 8o Altri precetti intorno al modo di offrire i sacrificii (ivi, 18). 9o Proibizione di cuocere un animale col latte della madre (ivi, 19).

Questi pochi precetti religiosi lasciavano del resto piena libertà in ogni altro particolare del culto; ed è sopratutto notevole che non sono accompagnati, tranne il 1o e il 3o, da veruna sanzione penale. Le altre due leggi poi accolte dal Jehovista nellʼopera sua (Esodo, xii, 21–28, xii, 3–16) sono soltanto ampliazioni di quelle da noi qui annoverate sotto i numeri 4 e 7; ma senza imporre nessuna maggiore restrizione.

Però è da osservarsi che nel precetto intorno al modo di edificare lʼaltare si parla di offerire sopra quello due specie di sacrifizii, detti in ebraico ʼOloth e Shelamim, cioè olocausti e sacrifizii di pace, che a differenza dei primi non erano per intiero bruciati[151] sullʼaltare. Ma degli uni e degli altri si parla, come a ragione osserva il Böhl,[219] in modo da far supporre che già si conoscesse quali secondo il rito dovevano essere. Ora la legge nel Pentateuco non insegna nulla intorno a queste diverse maniere di sacrificii se non nel Levitico (i, iii). Ma sarebbe voler dedurre una conseguenza eccessiva, se si dicesse che la legge dellʼEsodo xx, 24 suppone di necessità come anteriore o contemporanea quella del Levitico, perchè di olocausti e di sacrifizii pacifici non avrebbe potuto parlare, se altra legge o anteriore o contemporanea non avesse stabilito quali gli uni e gli altri avrebbero dovuto essere. No, questa sarebbe una illazione non giusta. Imperocchè gli Ebrei, al pari degli altri popoli, offrivano sacrifizii anche prima che lor fosse data la legge. Gli offrivano i patriarchi (Gen., xii, 8; xiii, 18; xxvi, 25; xxxiii, 20; xxxv, 7); Mosè, quando chiedeva il permesso al Faraone di condurre gli Ebrei nel deserto, adduceva come ragione o come pretesto di dover sacrificare a Jahveh (Esodo, v, 3, viii, 23, x, 25); e secondo la narrazione biblica, olocausti e sacrifizii pacifici furono offerti dopo la teofania sul Sinai (xxiv, 5), prima che la legge sacerdotale del Levitico fosse promulgata. Dunque non solo lʼofferire in genere sacrificii, ma lʼofferirgli di diversa specie, era un costume prima che acquistasse forma e validità di rito. Perciò poteva benissimo il legislatore dellʼEsodo xx, 24 parlare di olocausti e di sacrifizii pacifici come di cosa cognita, non perchè la legge avesse insegnato che cosa dovevano essere, ma perchè mediante il costume si sapeva in fatto che cosa erano.

[152]

Ora, intorno allo svolgimento delle idee religiose nel popolo ebreo, sono da notarsi come principii fondamentali: 1o Il monoteismo che si va successivamente sempre più epurando fino a proibire il culto delle imagini. 2o La purità e santità che doveva informare la vita di tutti i cittadini. 3o La celebrazione di determinate feste e di alcuni sacrifizii e di offerte. 4o Lʼaccentramento del culto in un solo luogo consacrato come soggiorno della presenza divina. 5o La istituzione di una privilegiata casta sacerdotale.

Questi principii, tranne i due ultimi, sono contenuti come in germe nel piccolo codice. E del primo e del terzo non occorre dare ulteriore dimostrazione, appalesandosi troppo chiaramente da sè stessi. La santità poi della vita è enunciata come motivo nel precetto di dovere astenersi dalle carni degli animali sbranati (xxii, 30).

Ma lʼaccentramento del culto è escluso anzi dal v. 24 del cap. xx (vedi sopra, pag. 40), e così pure la istituzione di una privilegiata casta sacerdotale, poichè ministri del culto come offeritori dei sacrifizii ci sono presentati i giovani di tutto il popolo (xxiv, 5). E se abbiamo posto la compilazione del piccolo codice circa allʼetà di Samuele, possiamo dire di averne una conferma nella storia, la quale ci narra: 1o che i luoghi di culto erano ancora più e diversi, trovandoli ora in Shilò (Giosuè, xviii, 1; 1o Samuel, i), ora in Sichem (Giosuè, xxiv, 1), ora in Beth–El (Giudici, xx, 18–26), ora in Ghilgal, ora in Mizpà, ora in Rama (1o Samuel, vii, 16, 17; xi, 15), e che si offrivano sacrifizii anche fuori di questi luoghi; 2o che non erano ancora i Leviti, e molto meno gli Aronidi, riconosciuti come i soli ministri del culto; imperocchè offrì sacrifizii Gedeone[153] (Giudici, vi, 25 e seg.), gli offerì Manoah (ivi, xiii, 19), e quel che più monta gli offrì Samuele (1o Samuel, vii, 9 e seg.). Il quale mai nei libri da lui intitolati e che ci raccontano la sua vita, non ci è presentato come della tribù di Levi, ma anzi ci appare di quella di Efraim.

Nè è certo da attribuirsi molta fede alla genealogia delle Croniche (1o, vi, 13) che fa Samuele della tribù di Levi, perchè questo libro di età molto bassa, è scritto tutto con intendimenti sacerdotali. Ad ogni modo poi, secondo lʼordinamento teocratico, quale lo abbiamo nella legislazione ELN, non bastava essere Levita per potere offerire i sacrificii, ma faceva dʼuopo essere della discendenza di Aron. E siccome dalle cose accennate apparisce che più erano i luoghi di culto, e che offrivano i sacrifizi anche uomini di qualunque tribù, si conclude che nei tempi di Samuele gli Ebrei non erano ancora pervenuti a tale svolgimento religioso, che imponesse lʼaccentramento del culto e lʼunica casta sacerdotale.

Se noi ora prendiamo in esame le diverse raccolte di leggi che trovansi nel Pentateuco, oltre a quella già da noi esposta, troviamo che, seguendo lʼopinione più comune, senza voler dire con ciò che noi fin dʼora lʼadottiamo, si possono distinguere in tre. 1o Quella oggi da molti critici detta il codice sacerdotale (Esodo, xxvxxxi, 17, xxxvxl; Levitico, ixvi); 2o un gruppo di varie leggi (Levitico, xviixxvii); 3o il Deuteronomio; oltre alcune disposizioni di vario genere sparse fra le narrazioni del libro del Numeri.

Il grande problema nella legislazione del popolo ebreo sta appunto nel risolvere come questi diversi strati legislativi si siano formati e sovrapposti lʼuno[154] allʼaltro, perchè in quanto al riconoscere lʼanteriorità del piccolo codice (Esodo, xxxxiii), tutti sono concordi, tanto i tradizionalisti, quanto i razionalisti di tutte le scuole. Difatti, anche i primi, i quali vogliono tutta la legislazione del Pentateuco opera di Mosè, riconoscono che il Decalogo e le leggi che immediatamente gli succedono, furono la prima base di un insegnamento civile e religioso, di cui le altre che seguono formano lʼulteriore svolgimento. E i secondi possono differire nel determinare lʼetà cui sia da attribuirsi detto piccolo codice, facendolo alcuni della età dei Giudici,[220] altri volendolo anche più antico,[221] e altri ritardandolo fino al principio dei tempi monarchici,[222] ma nessuno lo pone posteriore, tranne che al Decalogo, ad alcuna altra parte legislativa del Pentateuco.[223] Mentre la maggiore discrepanza di opinioni trovasi nello stabilire la relazione in cui stanno fra loro le altre compilazioni legislative.

Ossia il codice sacerdotale ha preceduto o seguito il Deuteronomio? E lʼuno e lʼaltro in quale età sono stati formati? E il gruppo di leggi del Levitico, xviixxvii, quale posto occupa relativamente agli altri due? E finalmente ognuno di questi tre codici, se così vogliamo chiamarli, è per sè stato formato come concetto di una sola mente e di un solo autore, o sono anchʼessi compilazioni di tante diverse leggi e piccole[155] raccolte di leggi formatesi successivamente in varii tempi, secondo le diverse opportunità e le diverse esigenze?

A nostro avviso, il bandolo sgroppatore della matassa sta tutto nellʼultima questione; e per non averci abbastanza posto mente, i critici ancora non si sono intesi, nè sono giunti a una soluzione che appieno soddisfaccia; perchè qualunque opinione si adotti sʼincontrano gravi obbiezioni. È vero che lʼipotesi del Von Bohlen, del Vatke e del George, sostenuta più recentemente con molta dottrina e molto acume dal Graf, dal Reuss, dal Wellhausen, dal Kaiser, dal Kuenen, dal Maybaum e dal Vernes, che il Deuteronomio abbia preceduto gli altri due codici, sembra avere acquistato maggiore preponderanza; ma non sono nemmeno senza valore le obbiezioni in contrario del Riehm, del Nöldeke, dello Schrader, del Dillmann e dellʼHalevy.

Non può essere da un lato che il Deuteronomio sia posteriore al codice sacerdotale quale oggi lo abbiamo, perchè contiene un minore svolgimento dʼidee religiose, e da un più non si può essere discesi a un meno. Non può essere che le cinque feste annuali del codice sacerdotale (Levit., xxiii; Num., xxviii, xxix) siano divenute tre nel Deuteronomio (xvi). Non può essere che la casta sacerdotale distinta in sacerdoti e leviti nella legge ELN, si confonda poi nel Deuteronomio in una sola. Non può essere che questa stessa casta, a cui secondo la legge ELN si attribuiscono tali rendite in decime, primizie, primogeniti e offerte da farla ricca più delle altre classi del popolo, sia raccomandata poi nel Deuteronomio alla carità dei cittadini al pari dei poveri, degli orfani e delle vedove (xiv, 27–29; xxv, 11–12). Non può essere finalmente che dopo avere[156] fissato con ogni maniera di particolarissimi precetti tutto quanto concerne i sacrifizii e le offerte, si lasciasse poi nel Deuteronomio una certa libertà, quasi fossero rimessi alla spontanea liberalità degli individui.

Come dallʼaltro lato non può ammettersi che il Deuteronomio sia anteriore a tutte le parti delle altre raccolte legislative, perchè alcune leggi e alcuni riti di queste sono in quello supposti come conosciuti (x, 8; xxiv, 8). E perchè inoltre alcune leggi importantissime e necessarie, particolarmente civili, come molte di quelle che stabiliscono i gradi di parentela impedienti il matrimonio, invano nel Deuteronomio si desiderano; nè di questa omissione potrebbe assolversi, se non con lʼesistenza anteriore di altre leggi che vi avessero supplito.

Fa dʼuopo dunque vedere di quali leggi civili e di quali riti religiosi successivamente si sentisse il bisogno nel popolo ebreo, per istabilire in quali diverse età sono stati istituiti. Fa dʼuopo inoltre distinguere le istituzioni delle singole leggi, di cui nello stato presente constano i codici del Pentateuco, dalla compilazione finale dei codici stessi. Ed è, a nostra avviso, questa distinzione che può condurre a risolvere il problema della successiva formazione della legge ebraica.

Tutto ciò che concerne la costruzione del tabernacolo (Esodo, xxvxxxi, 17; xxxvxl) e la minuta prescrizione dei riti intorno alle diverse specie dei sacrifizi, e alla consacrazione degli Aronidi (Levit., ix), non può essere istituzione nè dei tempi mosaici nè di quelli che hanno succeduto fino a tutta lʼetà dei Giudici. Non dei tempi mosaici, perchè nelle peregrinazioni[157] nel deserto unʼorda nomade, come già sopra fu accennato, non poteva avere nè legnami, nè pelli, nè metalli, nè tele, nè stoffe, nè pietre preziose, quali per la costruzione del tabernacolo e per le vesti sacerdotali si richiedevano, e quali sono per ben due volte enumerate nel testo biblico (Esodo, xxv, 3–7; xxxv, 5–9). Non potevano nemmeno gli Ebrei usciti dallʼEgitto avere le cognizioni e la capacità artistica per ideare ed eseguire una costruzione quale ci è descritta quella del tabernacolo, dei suoi arredi e degli abiti sacerdotali, quando vediamo che ai tempi di Salomone, nei quali certo la coltura avrebbe dovuto essere maggiore, si doveva ricorrere per la costruzione del tempio ad artisti fenici, o che almeno avevano in Fenicia imparato lʼarte (1o Re, v, 20 e seg.; vii, 13 e seg.). Non potevano inoltre gli Ebrei possedere nel deserto gli animali, la farina, lʼolio, gli aromi per i sacrificii, le offerte, i profumi, che non solo sarebbero stati comandati di farsi nel tabernacolo, ma che si vorrebbe di più che fossero stati realmente fatti. Per ultimo è notevole che nella parte legislativa del Deuteronomio non si parla in alcun modo del tabernacolo; ma quando sʼimpongono i sacrificii e le offerte si dice che si sarebbe dovuto portare nel luogo che Dio avrebbe eletto. Mentre se un tabernacolo fino dai tempi mosaici fosse esistito, ragione avrebbe voluto che si fosse detto di portarle colà, ancorchè esso fosse tramutato da un luogo allʼaltro, secondo le esigenze del vivere politico. Non è solo poi questo argomento dal silenzio, in tal caso eloquente, che dimostra come lʼautore del Deuteronomio nulla sappia di un tabernacolo, ma lʼaperta contraddizione che colla esistenza di questo si appalesa nel contenuto del capitolo xii.[158] Quivi si comanda agli Ebrei che, quando fossero stabiliti alla terra promessa, dovessero portare tutti i loro sacrifizii e tutte le loro offerte nel luogo prescelto da Dio, e non fare, come facevano allora, ciò che ad ognuno piaceva; cosa in quelle condizioni permessa, perchè non erano ancora giunti alla sede tranquilla promessa da Jahveh (vv. 5–9). Ma questo non si sarebbe potuto dire, se il tabernacolo fosse stato eretto, e riconosciuto come unico luogo, dove potevasi legittimamente sacrificare e offerire. E molto meno avrebbe potuto dirsi, imperocchè già sarebbe esistita unʼaltra legge che avrebbe fuori del tabernacolo proibito ogni sacrifizio, senza porre per condizione a tale divieto lo stabilimento nella terra promessa (Levitico, xvii, 8–9).

Non potevano poi gli Ebrei durante tutta lʼetà dei Giudici pensare ad un ordinamento del culto così ricco e sontuoso, sia per il tabernacolo e le vesti sacerdotali, come per la quantità dei sacrificii e delle offerte, quale è prescritto nel codice sacerdotale.

La condizione degli Ebrei fu per lungo tempo di continua guerra con i popoli abitatori della Palestina e confinanti, e più spesso di vinti che di vincitori. Imperocchè ciò che leggesi nel libro di Giosuè (xi, 23) che il paese si quietò dalla guerra, è finzione di scrittore molto più recente, smentita da quanto poi si legge in quello stesso libro (xiii e seg.), ma proveniente da fonti più antiche e più veritiere,[224] che molta parte di paese restava ancora a conquistarsi, e smentita principalmente da tutte le guerre raccontate nel libro dei Giudici. Dunque non è supponibile che orde[159] di conquistatori, i quali solo successivamente e a poco a poco riescivano a stabilirsi in fisse sedi, e che vedevansi continuamente minacciati da vicini più potenti, meglio armati (cfr. 1o Samuel, xiii, 19–22) e più, agguerriti, pensassero a erigersi un sontuoso tabernacolo, a istituire una casta sacerdotale, a dotarla di ricche rendite, e a stabilire una quantità di riti minuziosi sui diversi animali da offrirsi secondo le diverse occasioni, e sul modo di scannare e abbruciare le vittime, e se le offerte dovevano offrirsi sulla tegghia o sulla padella (Levitico, iiii). Non è nè una nè più generazioni di conquistatori, che ha agio, nè spirito, nè mente da scendere a ciò. Le generazioni di conquistatori adorano il loro Dio, o i loro Dei, con sacrificii e con offerte, secondo portano le occasioni, e uniformandosi alle pratiche sanzionate dagli aviti costumi, ma sono troppo lontane ancora dal fissare un codice di riti. E così gli Ebrei avranno più volte sacrificato a Jahveh, durante le loro peregrinazioni nei deserti dellʼArabia, e nel tempo non breve che scorse dal loro primo ingresso nella Palestina fino ad averla definitivamente sommessa; ma avranno certo sacrificato con quella libertà che proviene dallo spontaneo sentimento religioso, e che ci viene appunto descritta nel xvii del Levitico, nel xii del Deuteronomio, e in più luoghi dei libri di Giudici e di Samuele. Avranno anche avuto come oggetto sensibile di culto lʼarca, della quale si parla tante volte, ed è possibile che questa contenesse le tavole del Decalogo. Sarà ancora stata posta talvolta sotto una sacra tenda, ora in un luogo, ora in un altro, e forse più lungamente che altrove nella città di Shilò. Ma che in Shilò fosse eretto quel tabernacolo, di cui si parla nellʼEsodo,[160] ciò non è possibile, perchè non è possibile che nel deserto quel tabernacolo sia esistito. Si trova poi tale contraddizione intorno al soggiorno di questʼarca, che non si può conciliare colla esistenza durante lʼetà dei Giudici di un sontuoso tabernacolo, che avrebbe fissamente dovuto accoglierla.

Secondo un passo del libro di Giosuè (xviii, 1), appena stabiliti nella terra promessa, gli Ebrei avrebbero eretto il tabernacolo, quello stesso di cui si parla nel Pentateuco, nella città di Shilò, e quivi lo troviamo di nuovo ai tempi della nascita di Samuele. Ma in un avvenimento intermedio ci viene raccontato che lʼarca di Jahveh si trovava invece a Beth–El (Giudici, xx, 27). Perchè e come sarebbe avvenuto questo doppio trasferimento da Shilò a Beth–El, e poi di nuovo da Beth–El a Shilò, è ciò che disgraziatamente i narratori biblici hanno omesso di dirci, ma di cui non può supporsi ragione che appaghi. Invece, quando si riconosca che lʼerezione del tabernacolo in Shilò, della quale si parla nel libro di Giosuè, è come tante altre parti di quel libro un adattamento a un concetto sacerdotale, a cui inspirava tutto il suo scritto un tardo autore, allora si capisce come lʼarca di Jahveh abbia per lungo tempo errato da un luogo allʼaltro, e si trovi prima in Beth–El poi in Shilò. Sebbene per altro ciò che si racconta dellʼarca venga talvolta accompagnato da tali circostanze, che tolgono di poter prestare piena fede a tutti i particolari del fatto. Così nel capitolo xx dei Giudici, quando, a proposito della guerra fra i Benjaminiti e le altre tribù, si narra che, alle prime sconfitte da queste patite, si recarono a pregare Jahveh e a digiunare in Beth–El per interrogare il responso divino sul partito da prendersi,[161] si aggiunge che in Beth–El era lʼarca, e che ivi ministrava come sacerdote Pineḣas nipote di Aron (ivi, v. 28). Ora che Beth–El fosse un luogo consacrato al culto, come indica il significato del nome (casa di Dio) è certo; che vi fosse lʼarca santa, è probabile; ma che in quel tempo vi ministrasse il sacerdote Pineḣas è impossibile. Perchè questi ci è presentato come un uomo che doveva avere almeno una ventina dʼanni verso la fine delle peregrinazioni nel deserto (Num., xxv, 7 e seg.); e da questa età sino al fatto narrato nel citato luogo dei Giudici, bisogna porre almeno 180 anni, dimodochè Pineḣas ne avrebbe avuti un duecento. La quale impossibilità dimostra che sì è voluto piegare le narrazioni a un concetto sacerdotale, inventando persone e circostanze, le quali esistevano solo nella mente degli autori. Se gli Ebrei si erano raccolti in Beth–El per pregare e interrogare il responso divino, era necessario, secondo il concetto sacerdotale, con cui poi è stata narrata la storia del popolo ebreo, che colà vi fosse non solo un luogo consacrato al culto, ma anche un sacerdote e un sacerdote aronida. Siccome questo sacerdote le antiche fonti non lo accennavano, perchè ancora una casta sacerdotale non era istituita, sʼinventa un Pineḣas nipote di Aron, che la cronologia dimostra essere impossibile abbia sì lungo tempo vissuto. Ma la ragione cronologica era cosa di cui gli scrittori ebrei non seppero tener conto, e lo dimostrano fino agli ultimi tempi della loro letteratura gli scritti apocalittici, e più di questi anche i talmudici.

Che quel qualunque edifizio poi il quale ci apparisce alla nascita di Samuele come esistente in Shilò non potesse essere il sontuoso tabernacolo descritto[162] nellʼEsodo lo dimostrano i susseguenti fatti narrati nella storia.

Quando il sacerdote Elì era, come giudice, capo del popolo, lʼarca santa fu presa dai Filistei in una guerra, nella quale gli Ebrei ebbero la peggio. I figliuoli di Elì furono uccisi in battaglia, ed egli morì di dolore al sentire lʼinfausta notizia. (1o Sam., iv). Che cosa accadesse del santuario di Shilò la storia tace intieramente. Ricuperata però lʼarca santa non fu riportata in Shilò, ma nella casa di un privato nella collina di Qirjat Jeʼarim (ivi, vii, 1), dove ci si fa credere che sia rimasta fino ai tempi del re David (2o Sam., vi). È probabile, si domanda, che se il tabernacolo fosse stato in Shilò non si fosse ivi ricondotta lʼarca? Inoltre non ci appare più Shilò come il luogo principale per lʼesercizio del culto,[225] ma durante la giudicatura di Samuele vengono citati come luoghi di sacro convegno ora Mizpà, (1o Sam., vii, 5–11) ora Beth–El (ivi, 16) ora Ghilgal, (ivi, xi, 15). E che quel luogo di culto andasse disperso, ce lo attesta un detto di Geremia (vii, 12–14) il quale vaticina al tempio di Gerusalemme lo stesso fato. Cosa che quel profeta non avrebbe potuto dire, se il tabernacolo di Shilò, anzichè andare disperso fosse solamente stato trasferito in altro luogo, come per adattare i fatti a un concetto sacerdotale, vuol far credere lo scrittore delle Croniche (2o, i, 3–6). Alla fine poi del regno di Saul la sede principale dei sacerdoti e [163]del culto sarebbe stata in Nob (1o Sam., xxi e seg.). Per ultimo ai tempi di Salomone troviamo indicata come sede principale del culto sotto il nome di Bamà massima la città di Ghibʼon (1o Re, iii, 3).[226] Dimodochè chi spassionatamente da tutti questi dati voglia concludere qualche cosa di certo deve dire che un solo luogo veramente consacrato al culto non esistè fino ai tempi di Salomone, e che un sontuoso tabernacolo quale è descritto nellʼEsodo non è mai esistito. Che il tempio o tabernacolo di Shilò, provvisorio come tutti gli altri, andò disperso dopo la morte di Elì e dei suoi figli, e che da questa età fino alla costruzione del tempio di Salomone esisterono contemporaneamente più luoghi per celebrare il culto, e lʼarca errò ora in un luogo ora nellʼaltro, e spesso perfino nel campo militare (1o Sam., iv, 5, xiv, 18).

Ma durante il regno di Salomone lo stato delle cose intorno al regolamento del culto certo cominciò a subire qualche modificazione.

Non si può negare ogni fondamento di storica verità alla edificazione del tempio di Salomone in Gerusalemme, e se un tempio fu ivi edificato, avvenne un primo tentativo di accentramento del culto. È vero[164] che questo, come attesta la storia successiva, non potè pienamente effettuarsi; perchè da un lato con lo scisma di Samaria furono riconosciuti altri luoghi di culto, (1o Re, xii, 29–33) e dallʼaltro anche nello stesso regno giudaico le inveterate abitudini popolari di sacrificare negli antichi luoghi sacri chiamati Bamoth non poterono per lungo tempo sradicarsi. Ma il fatto che in Gerusalemme esistesse un gran tempio consacrato a Jahveh non può revocarsi in dubbio, e presso il tempio si stabilì ancora una casta sacerdotale. Certo non sono da accettarsi come storica verità tutti gli ordinamenti sacerdotali, che i libri delle Croniche attribuiscono a David e a Salomone, della divisione della tribù di Levi in tante classi, e come in tante compagnie, che alternativamente avrebbero dovuto prestare servizio. Divisione di cui i più antichi libri di Samuele e dei Re non dicono verbo, mentre anzi riconoscono a chiare note che sacerdoti potessero essere anche quelli che non appartenevano alla tribù di Levi, giacchè danno questo titolo ai figli di David (2o Samuele, viii, 18). Ma pure stando a ciò che questi narrano, una casta sacerdotale diretta e presieduta da un capo non può negarsi che a poco a poco non si sia stabilita. E se non con un codice scritto, certo con regole e riti consuetudinarii avranno avuto alcune norme per lʼesercizio del culto, per la disciplina interna della loro stessa casta, e anche per ammaestrare il popolo in ciò che concerneva la religione.[227] Ma non si può porre nei tempi di Salomone, e nemmeno in quelli successivi in cui durò lʼesistenza del regno giudaico lʼistituzione[165] del codice sacerdotale quale lo abbiamo nellʼEsodo, nel levitico e nel Numeri, se non fosse altro per una ragione che a noi sembra perentoria. Il profeta Ezechiele nellʼesilio di Babilonia, profetando il ritorno degli esuli nella terra patria, annunzia lʼedificazione di un nuovo santuario, e compila proprio un nuovo codice sacerdotale per ciò che riguarda la persona dei sacerdoti e la celebrazione del culto (Ezechiele, xlxlvi). Ora se fosse esistito quello molto più ampio della legislazione ELN, lʼopera di Ezechiele non solo sarebbe stata superflua, ma inesplicabile, perchè in molte parti con lʼaltro codice è in contradizione. Dimodochè se alcune parti del codice sacerdotale non come compilazione scritta, ma come rito consuetudinario, possono essere esistite fino dai tempi in cui fu fondato il tempio salomonico, è per noi certo che il codice sacerdotale nella sua totalità, quale oggi lo abbiamo, è posteriore allʼetà di Ezechiele, e per conseguenza posteriore allʼesilio. Non sono dunque da porsi prima della legge deuteronomica nè le parti dellʼEsodo riguardanti il tabernacolo, nè i primi dieci capitoli del Levitico, nè ciò che concerne lʼassoluto accentramento del culto (Levit., xvii) nè la disciplina interna della casta sacerdotale (xxi, xxii). E lo stesso è a dirsi delle parti del Numeri che trattano gli stessi argomenti. È da porsi ancora posteriore al Deuteronomio lʼordinamento delle feste annuali quale è nel Levitico (xxiii) e nel Numeri (xxviii, xxix), perchè in questi libri si parla di cinque feste annuali, mentre in quello soltanto di tre. E ciò che è anche più significante, ai tempi di Ezra e Nehemia dopo il ritorno dallʼesilio si mostra di ignorare del tutto che il giorno decimo del settimo mese doveva essere consacrato alla contrizione e[166] alla penitenza, ma si fa invece digiuno il giorno 24o dello stesso mese, senza riferirsi per nulla allʼosservanza di rito già esistente, come si fa per la festa delle capanne, ma quasi fosse una istituzione del tutto nuova, (Nehemia, viii, 14–ix, 1). Escluso adunque che possano essere anteriori al Deuteronomio le accennate parti della legislazione ELN, è da vedersi però ciò che concerne alcune leggi civili, e certi riti di purità e santità rispetto alla universalità dei cittadini. Incominciamo da questi ultimi.

Abbiamo già veduto nel piccolo codice dellʼEsodo xxixxiii che sul principio di dover essere gente santa a Jahveh si proibisce di cibarsi di animali trovati sbranati nella campagna (xxii, 30). Questo principio ebbe poi un ulteriore svolgimento tanto nella legislazione ELN, quanto in quella deuteronomica, proibendosi per la stessa ragione di santità anche altre specie di cibi. Il capitolo xi del Levitico e xiv (v. 3–21) del Deuteronomio contengono intorno a questo punto, lo stesso rituale con poche differenze nei particolari. I principii fondamentali sono identici. Dei quadrupedi sono permessi soltanto quelli che ruminano e hanno lʼunghia fessa. Degli animali acquatici soltanto pesci che hanno squame e pinne. Degli uccelli è fatta una lunga lista di quelli tenuti come impuri, che sono per lo più di rapina. In quanto a molti altri animali che, parte propriamente, parte impropriamente, sono dagli autori biblici detti rettili, nel Deuteronomio si proibiscono tutti, nel Levitico si fa eccezione per poche specie. Nel Deuteronomio si proibisce ancora di mangiare qualunque carogna, senza ristringersi come nellʼEsodo ai soli animali sbranati, mentre nel Levitico si dice soltanto che chi la toccasse o ne mangiasse diveniva[167] impuro per tutto quel giorno, e quindi per ritornar puro doveva sottoporsi a certi riti lustrali, (xi, 39 e seg.).

In generale i riti del capitolo xi del Levitico sono più estesi che quelli del Deuteronomio. Ma dallʼaltro lato si trova in questo una lista dei quadrupedi permessi come cibo, che nel Levitico manca del tutto, restringendosi qui a stabilire le due caratteristiche del ruminare e delle unghie fesse. È certo che le norme stabilite dalla legge ebraica non si accordano con glʼinsegnamenti della storia naturale. Imperocchè si sa che gli animali ruminanti sono tutti bisulci, e non si trova una caratteristica disgiunta dallʼaltra. Per conseguenza è erroneo ciò che dicono i nostri due testi che il cammello rumini e non sia bisulco, perchè quantunque una membrana ne involga in parte i piedi pure ha lʼunghia biforcata. Come è erroneo che ruminino lʼirace (Shafan) e la lepre, posti non ostante fra gli animali proibiti, perchè non sono bisulci. Ma questi errori non sono da porsi a carico degli autori biblici, i quali in ciò seguivano le opinioni dei loro tempi, nè erano obbligati a sapere nelle scienze fisiche, ciò che soltanto poi si scoprì con più attente osservazioni. Nessuna differenza si nota fra i due testi in quanto agli animali acquatici.

La lista degli uccelli proibiti differisce di poco, e solo in quanto nel Deuteronomio ne è enumerato uno di più sotto il nome di Dajjah, e in quanto è un poco diversa la disposizione di alcuni nomi.[228]

[168]

Il Levitico poi distingue tra gli animali da esso detti rettili, quelli che hanno gambe con giuntura nel ginocchio, per tenerli come permessi e puri, quindi permette alcune specie di locuste. Distinzione che il Deuteronomio non conosce. Fa inoltre il Levitico anche una lista dei così detti rettili non permessi, e poi prescrive molti riti di purificazione nel caso che il cadavere di questi animali impuri si trovasse o sopra abiti, o dentro vasi o in arredi di qualunque sorta, o sopra dei cibi, o sopra delle semente. Riti di purità di cui il Deuteronomio non fa alcuna menzione. Questi però aggiunge come ultimo precetto intorno ai cibi proibiti quello già da noi trovato due volte nellʼEsodo (xxiii, 19, xxxiv, 26) di non cucinare un capretto col latte della madre. Confrontati questi due luoghi non vi può essere dubbio che stanno fra loro in qualche dipendenza, in quanto o lʼuno ha imitato lʼaltro, o tutti e due derivano da una legge più antica, da cui entrambi hanno attinto. A noi sembra più ragionevole questʼultima ipotesi, e teniamo la legge del Levitico più recente, perchè contiene tutte le nuove disposizioni intorno ai riti di purità, che sono più conformi al concetto che inspira il codice sacerdotale, di cui nella presente compilazione il capitolo xi del Levitico fa parte.

Ma ci sembra ancora molto probabile che questi riti intorno alla distinzione dei cibi puri permessi da quelli impuri e proibiti, fossero anteriori alla compilazione di tutto il codice deuteronomico, e incominciassero a prevalere nella età dei primi grandi profeti, uno dei cui principii era giustʼappunto il concetto di una maggiore santità e purità, nella quale doveva vivere tutto il popolo ebreo a confronto delle altre nazioni.[169] Lo provano, se non altro le espressioni stesse del Deuteronomio (xiv, 2, 21).

Questi riti poi furono accolti dal deuteronomista nella sua codificazione in quella forma breve, che bastava alla istruzione del popolo, cui tutta la legge deuteronomica è diretta. Furono anche accolti dal più recente legislatore sacerdotale, che trovava questi riti di purità e santità conformi al suo concetto religioso; ma vi aggiunse quelle modificazioni, che da un lato intorno ai cibi esigevano i costumi popolari, perchè troviamo anche in più recente età che il Battista si cibava di locuste (Matt., iii, 4); e dallʼaltro vi aggiunse quelle prescrizioni di purità, che il modo sacerdotale di concepire la legge teneva necessarie.

Sarebbe poi difficile stabilire con esattezza lʼetà, in cui questi riti ebbero origine, ma certo nel tempo che decorse fra i primi grandi profeti e la compilazione del codice deuteronomico, che è quanto dire fra il 9o e il 7o secolo. Sappiamo bene che questi confini sono troppo lati, e che una più precisa determinazione potrebbe a ragione desiderarsi. Ma amiamo meglio lasciare indeterminato ciò che tale ci si presenta, che non imitare certi critici che lavorano troppo di capricciosa fantasia.

Altra parte importantissima della vita pura e santa era quella che concerneva certe malattie contagiose. Si sa che la lebbra era negli antichi tempi un terribile morbo, e si sa ancora che la gente ebrea era fra quelle che più vi andavano sottoposte, tantochè alcuni storici vogliono, che questa fosse la cagione per la quale fu cacciata dallʼEgitto.[229] È naturale quindi[170] che per cagioni in parte igieniche e in parte di purità religiosa nascesse presto lʼabitudine di tenere i lebbrosi lontani dal consorzio con altre persone.

E diciamo di purità religiosa i perchè facilmente doveva nascere il pensiero che i colpiti da una malattia non meno terribile che schifosa fossero puniti e rejetti da Dio,[230] quindi indegni di convenire in ogni specie di adunanza religiosa, dove si celebrassero o sacrifizii o conviti o feste di qualunque altra maniera. E dal tenerli lontani da siffatti convegni allʼescluderli da qualunque consorzio con altri uomini il trapasso non doveva essere tanto difficile. Per lo che sembra molto probabile che sino da quando gli Ebrei cominciarono ad avere stabili sedi nella Palestina alcune norme si stabilissero per la condotta da tenersi rispetto ai lebbrosi. Una narrazione del 2o libro dei Re (vii, 3) fa capire che fossero tenuti fuori delle città, tantochè alcuni infetti da questo morbo ci sono presentati come dimoranti fuori delle mura di Samaria, anche durante un assedio fatto contro quella dai Siri. Abbiamo poi nel Deuteronomio (xxiv, 8) chiara allusione a regole già stabilite intorno alla lebbra, che dovevano essere insegnate dai sacerdoti, e si raccomanda di osservarle. Ma queste regole sono ampiamente esposte nel capitolo xiii del Levitico; perchè dunque non dovrebbero essere quelle stesse cui nel Deuteronomio si raccomanda di doversi riferire?

Certo che se si dimostra, come a ragione si dimostra, che il codice sacerdotale è di età molto più recente, e si vuole quindi sostenere che tutto appartenga[171] a una compilazione derivante da una sola fonte, non si possono i riti del Levitico concernenti la lebbra tenere come quelli stessi cui allude il Deuteronomio, e fa dʼuopo ricorrere allʼipotesi di altri riti consuetudinarii. Ma quando il Deuteronomio dice chiaramente che in quanto alla lebbra si deve osservare ciò che insegnano i sacerdoti, senza dare nessuna ulteriore spiegazione, è molto ragionevole il supporre che questi riti fossero già formati e scritti. Ora formati e scritti si trovano nel Levitico, e non vi è alcuna ragione perchè non possano essere questi stessi.[231] Non per concludere, chè sarebbe conclusione eccessiva, che tutto il codice sacerdotale sia anteriore al Deuteronomio; ma per desumere che riti intorno alla lebbra esistevano fino da tempi anteriori al Deuteronomio, e che lʼautore di questo si è contentato di accennarli, perchè scriveva per il popolo e non per i sacerdoti, mentre lʼautore del codice sacerdotale gli ha accolti nella sua codificazione. Accogliendoveli, gli avrà modificati e ampliati; particolarmente per tutto ciò che concerne i sacrifizii di purificazione (xiv, 1–32), dettati anche questi secondo un concetto puramente sacerdotale.

Come pure è forse da tenersi amplificazione sacerdotale, ciò che concerne lʼimpurità delle case (xiv, 33–34) della gonorrea, della polluzione, e del mestruo (xv), perchè accennano a più tardo e ascetico svolgimento nel concetto di purità e santità del costume. Oltrechè è da notarsi la stranezza di linguaggio in ciò[172] che viene insegnato sulla così detta lebbra degli abiti e degli edifizi. In quanto ai primi non pare sia dʼuopo ricorrere allʼipotesi del Michaelis,[232] che negli abiti di lana e di pelli volesse alludersi a un difetto di queste materie originato dallo stato morboso degli animali da cui erano state tolte, perchè che cosa si potrebbe dire per gli abiti di lino? Sembra invece molto più probabile che si tenessero come impuri gli abiti che potevano aver preso qualche macchia e quindi facilmente corrodersi e consumarsi, per essere stati usati da persone infette di lebbra,[233] tanto più che è cognito quanto sia facile il contagio per mezzo di ogni specie di vestimenti. Che cosa poi lʼautore biblico abbia inteso dire sotto la denominazione di lebbra delle case non si può con certezza determinare; ma sembra più da accettarsi lʼopinione di coloro che vogliono in tal modo essere designata la manifestazione di quelle macchie prodotte dallʼerosione dei muri per effetto di umidità, o di salmastro, o simili.[234] E non è difficile che si ordinasse di riparare a tali inconvenienti o con risarcimenti parziali con nuove pietre e nuovo intonaco, fino a che ciò era possibile; e si arrivasse fino a imporre la demolizione della casa, quando i segni del guasto si estendessero, e non fosse più possibile farvi riparo.

I principii più generali di questi riti intorno alla lebbra e alla purità della persona sono per le ragioni sovra accennate da tenersi di assai antica origine, mentre la loro ampliazione e la loro compilazione nella forma quale a noi è pervenuta è da tenersi molto più recente,[173] dovuta allʼautore o al compilatore ultimo del codice sacerdotale.

A questi riti di purità che risguardano ogni classe di persone è da aggiungersi probabilmente anche quello che concerne una pratica non obbligatoria, con la quale ognuno, cui piacesse, poteva darsi a una maggiore santità di vita mediante un voto detto Nazireato. Questo poteva essere o perpetuo, come si racconta di Sansone (Giud., xiii, 7) o anche temporario come appare dal cap. vi del Numeri. Consisteva poi nellʼastenersi dal vino, dallʼuva, da ogni bevanda inebbriante, nel non radersi nessuna parte del corpo, e nel tenersi lontano da ogni impuro contatto. Che la pratica di tal genere di voto fosse molto antica, si rileva da un passo del profeta Amos (ii, 11 e seg.), e perciò consentiamo col Wurster che vuole la parte prima del capitolo vi del Numeri (2–8) facesse parte delle leggi di santità, e che il rimanente sia da tenersi, come abbiamo detto anche per le antecedenti leggi, aggiunta dellʼautore del codice sacerdotale.[235] I talmudisti scesero anche intorno a questo voto a molte minute prescrizioni, fra le quali solo noteremo che essi fissarono a un minimo di trenta giorni il Nazireato temporaneo, di cui non fosse esplicitamente determinato il limite.[236]


[174]
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Capitolo VII

altre novelle al primo codice

(Levitico, xix, xx, xviii)

Come sopra già ci venne fatto di accennare (pag. 15), i capitoli xviixxvi del Levitico constano di leggi e di riti di diversa indole, cosicchè non presentano fra loro vera unità, e mostrano ancora notevoli differenze di stile fra le loro diverse parti. Perciò contrariamente alla opinione di alcuni critici che vedono in questi capitoli un codice per sè stante, che forma quasi il passaggio nello svolgimento religioso e civile del popolo ebreo fra la legge del Deuteronomio e quella del codice sacerdotale,[237] assentiamo più volentieri allʼopinione di quelli che tengono questi capitoli di più autori e di più età, raccolti poi da un più recente compilatore.[238] Ma non parleremo qui se non di quelle parti che[176] possonsi con qualche probabilità tenere anteriori al Deuteronomio, le altre esamineremo al debito luogo.

Il capitolo xix è una raccolta di varie raccomandazioni religiose, morali e di rito, che da un lato fanno riscontro al Decalogo e al codice dellʼEsodo xxxxiii, dallʼaltro ad alcune leggi del Deuteronomio. Ma si presentano più nello stile parenetico dellʼesortatore morale che del vero e proprio legislatore, tanto più che non sono per nulla accompagnate da sanzioni penali, dovendosi tenere, come fra poco meglio spiegheremo, per interpolazioni di più recente mano i vv. 6–8, e 20–22.

Incomincia questo nostro capitolo dal concetto di sopra già notato che il popolo dʼIsraele doveva essere santo, come santo è il suo Dio, quindi raccomanda il rispetto ai genitori, lʼosservanza del sabato come giorno santificato al riposo, e lʼadorazione di un solo Dio.

1. 2.Jahveh parlò a Mosè, dicendo: Parla a tutta lʼadunanza dei figli dʼIsraele, e dirai loro: Santi siate, perchè santo io Jahveh vostro Dio. 3.Ognuno sua madre e suo padre temete; e osservate i miei sabati, io Jahveh Dio vostro. 4.Non vi volgete aglʼidoli e Dei di getto non fate a voi, io Jahveh Dio vostro. 5.E quando sacrificate sacrifizi pacifici a Jahveh, a vostro piacere sacrificateli.

In questi primi cinque versi si ripetono sotto forma diversa tre precetti del Decalogo, e si lascia come nel codice dellʼEsodo (xix, 24) piena libertà in quanto allʼoffrire i sacrifizi.

È aliena interamente dallo stile di tutto questo luogo che in breve forma raccomanda i precetti, senza fermarsi a lungo sopra nessuno, la prescrizione dei tre versi che seguono (6–8) di dover mangiare nei due primi giorni la carne del sacrifizio, di bruciarla, se ne[177] avanzasse fino al terzo, e la sanzione penale che se fosse in questo mangiata, chi avesse in tal modo prevaricato sarebbe distrutto dal suo popolo.[239] Mentre a molti veri e propri delitti, come fra poco vedremo, non si pone in questo nostro capitolo sanzione penale, stando contento lʼautore alla raccomandazione dì astenersene, non è possibile che egli stesso abbia posto la sanzione penale alla trasgressione di un rito rispetto al sacrifizio. Ma è da credersi che o lʼautore del codice sacerdotale, o lʼultimo compilatore combinando con quello questi e altri passi, trovata in questo punto menzione del sacrifizio pacifico, vi abbia inserito la stessa prescrizione rituale che si trova in altro luogo. (Levitico, vii, 17, 18).[240]

I precetti di carità verso i poveri e i forestieri, di cui abbiamo già trovato qualche esempio nel piccolo codice dellʼEsodo, hanno qui un più ampio svolgimento, imponendosi di lasciare a loro benefizio una parte delle ricolte.

9.E nel vostro mietere la mèsse delle vostre terre, non terminare di mietere lʼestremità del tuo campo, e non raccogliere la spigolatura della tua mèsse. 10.E la tua vigna non racimolare, nè raccoglierne gli sparsi granelli, abbandonali al povero e allo straniero: io sono Jahveh Dio vostro.

Non riporteremo qui tutte le sottili distinzioni alle quali è sceso intorno a questi precetti di carità il posteriore rituale rabbinico, avendosi in questo punto un[178] intiero trattato della Mishnah[241] in otto capitoli, sul quale però non abbiamo Ghemarà babilonese, ma solo quella gerosolimitana. Sono da notarsi peraltro alcune disposizioni rabbiniche tutte a vantaggio dei poveri. Se il testo biblico raccomanda di lasciare nel mietere lʼestrema parte del campo a benefizio deglʼindigenti, parrebbe che ciò avesse voluto dirsi soltanto per tutte le specie di fromenti; ai quali si applica propriamente la parola mietere. Ma i Rabbini stabilirono in principio generale che ogni specie di alimento, che può conservarsi, che cresce dalla terra, che si raccoglie in un dato tempo, e si ripone per conservarlo, debba essere sottoposto a questa donazione per i poveri; dimodochè vi compresero oltre i frumenti anche i legumi e quelle specie di piante i cui frutti si ripongono per conservarsi, come i cornioli,[242] i carubi, i noci, i mandorli, le viti, i granati, gli olivi e le palme.[243] Stabilirono ancora che questa estrema parte da lasciarsi ai poveri non potesse essere, al minimo, inferiore a un sessantesimo.[244]

Intorno poi al non racimolare la vite, dal testo biblico apparirebbe che si raccomandasse di lasciare ai poveri i piccoli grappoli sparsi qua e là, che sogliono restare, fatta la vendemmia. Ma i talmudisti hanno stabilito che racemoli si chiamano tutte quelle uve che non sono raccolte in grossi grappoli, dimodochè se una vite producesse il suo frutto tutto in[179] questa maniera, tutto dovrebbe lasciarsi ai poveri, secondo lʼopinione di un dottore, la quale prevalse contro quella dʼun altro che diversamente opinava.[245]

A questi precetti di carità seguono, più in forma di raccomandazioni che di leggi, insegnamenti morali concernenti le relazioni fra uomo e uomo, per la proprietà, per il rispetto alla persona, e alla vita, per lʼamministrazione della giustizia, e anche per quella umanità degli intimi sentimenti, senza la quale non può darsi vero consorzio civile.

11.Non rubate, e non mentite, e non siate falsi ciascuno contro il suo prossimo. 12.E non giurate per il mio nome in falso, profanando il nome del tuo Dio: io Jahveh. 13.Non opprimere il tuo compagno, e non rapire; non rimanga la paga del mercenario presso di te fino la mattina. 14.Non maledire il sordo, e davanti il cieco non porre inciampo, e temerai del tuo Dio: io Jahveh. 15.Non fate torto nel giudicare; non aver rispetto al povero, non avere ossequio al grande, con giustizia giudica il tuo prossimo. 16.Non andare sparlando fra le tue genti, non sorgere contro il sangue del tuo compagno: io Jahveh. 17.Non odiare il tuo fratello in cuor tuo, riprendi pure il tuo prossimo, e non ti aggravare per lui di peccato. 18.Non prendere vendetta, e non serbare rancore contro i figli del tuo popolo, anzi ama il tuo compagno come te: io Jahveh.

In questi precetti, che sono in parte ripetizione e in parte ampliazione del Decalogo e delle susseguenti leggi, i talmudisti hanno voluto trovare anche precise prescrizioni legali, se non per tutti, almeno per alcuni di essi. Intorno al primo: «non rubate» già sopra abbiamo notato che è questa per essi la vera proibizione di attentare allʼaltrui proprietà, mentre il precetto corrispondente del Decalogo «non rubare» si[180] riferirebbe solo al plagio,[246] e la legge sul furto (Esodo, xxi, 37, xxii, 3), conterrebbe la sanzione penale, la quale secondo un principio di esegesi talmudica già sopra esposto (pag. 37) non potrebbe stare senza una disposizione proibitiva. Non è da tacersi nemmeno che un dottore talmudico intese questo passo del Levitico in modo anche più morale, volendo trovarvi la proibizione della rappresaglia, e inibendo così al derubato di portar via da sè stesso al ladro lʼoggetto rubatogli.[247]

Il secondo precetto «non mentite» i talmudisti lo restringono al comando di non negare la restituzione di un deposito.[248] Il non esser falsi contro il prossimo lo intendono per la proibizione di non giurare in falso per negare un debito.[249] La proibizione poi di non giurare in falso sul nome divino, siccome sarebbe ripetizione del terzo comando del Decalogo, dai talmudisti è applicata a un nuovo insegnamento. Quindi interpetrano che nel Decalogo si parli del solo ineffabile tetragramma, e qui di qualunque dei nomi attribuiti allʼessere supremo, essendo eguale colpa il giurare in falso tanto per quello, quanto per uno di questi.[250]

Il comando di non opprimere il prossimo lo restringono alla proibizione di non defraudare il salario dei mercenari[251] per qualunque titolo sia, tanto la mercede delle persone quanto delle cose. Rispetto a non rapire, distinguono bene che sia il prendere lʼaltrui[181] per violenza, mentre il rubare del v. 11 è più propriamente con frode.[252]

Molto moralmente poi i talmudisti hanno esteso la proibizione di non maledire il sordo anche ad ogni altra sorta di persona.[253] E il non porre inciampo dinanzi al cieco lo interpetrarono per non dare consigli fallaci agli inesperti, quasi detti ciechi della mente, e ancora per non offrire altrui occasione a cadere in peccato.[254] Nulla di nuovo aggiunsero per ciò che concerne lʼamministrazione della giustizia, se non che il precetto che secondo la lettera proibisce di sparlare dʼaltrui, fu da alcuni dottori inteso in modo tutto diverso come un avvertimento ai giudici per non essere benigni a una delle parti contendenti in giudizio e aspri verso lʼaltra; e da alcuni anche per avvertire i giudici di non rivelare il segreto del voto, quando fossero di diversa opinione. Ma altri dottori gli mantennero il significato letterale di un avvertimento contro la diffamazione.[255]

Il non insorgere contro il sangue del prossimo significa secondo la lettera non far nulla che possa recar nocumento allʼaltrui vita. E forse non a torto lʼAben Ezra vede qui un nesso con la precedente proibizione, perchè il diffamare può essere talvolta, come cagione remota, un attentato contro la vita. Ma i talmudisti vollero trovarci insegnamenti di ben altra portata morale, cioè lʼobbligo di deporre come testimone, quando alcuno sia stato presente al fatto[182] portato in giudizio, e il dovere di difendere il prossimo quando si veda in pericolo di morte;[256] e così tradusse anche il Luzzatto «nè rimanerti spettatore [inerte] nel pericolo della vita del tuo prossimo».

Senza allontanarsi poi dal significato letterale, molto bene notarono gli stessi talmudisti che il precetto di non odiare il fratello nel cuore, proibisce anche il solo sentimento dellʼodio, sebbene non manifestato con atti ingiuriosi e offensivi.[257]

Il riprendere il prossimo, se lo crediamo in colpa, appare nel significato letterale del testo una concessione connessa con lʼavvertimento che precede di non odiarlo, e con ciò che poi segue di non sopportare per causa di lui peccato; perchè riprendendo il compagno del suo fallo, non si serba contro di lui sentimento avverso, e quindi non si cade in questo peccato. Ma i talmudisti del riprendere il prossimo, se in colpa, ne fecero un dovere, e dando tuttʼaltro senso alle parole che seguono le intesero come se significassero «tu hai il dovere di riprenderlo, fino al punto però, che la riprensione non sia per lui cagione dì vergogna.[258]

Finalmente sul precetto di amare il compagno come sè stesso, il celebre ʼAqibà si contentò di esprimere queste notevoli parole: «Questo è un grande principio nella legge».[259]

Ai sovra esposti precetti di moralità succedono alcuni religiosi, che però rientrano nel principio generale di conformare la vita a regole di purità e santità:

[183]

19.I miei statuti osserverete: il tuo bestiame non farai accoppiare di due diverse specie, il tuo campo non seminerai di specie diversa, e abito di due specie di lana e lino[260] non si ponga sopra di te.[261]

23.E quando sarete giunti nella terra, e pianterete qualunque albero fruttifero, tagliategli il prepuzio, il suo frutto, tre anni saranno a voi come incirconcisi, non se ne mangi. 24.E nellʼanno quarto sarà tutto il suo frutto santo per celebrazione a Jahveh. 25.E nellʼanno quinto mangerete il suo frutto per raccoglierne per voi il prodotto. Io Jahveh Dio vostro.

26.Non mangiate col sangue, non usate nè augurii nè divinazioni. 27.Non vi rasate a tondo nei lati del capo, e non guastare i lati della tua barba. 28.E incisione per morto non ponete nelle vostre carni, nè segno dʼincisione non mettete in voi: Io Jahveh.

Il precetto di non confondere le specie nè per la riproduzione degli animali, nè per la coltura della terra e nemmeno negli abiti è da tenersi come motivato dal rispetto che si voleva imporre alle leggi naturali, le quali lʼarbitrio dellʼuomo non deve alterare, e però questi precetti sono preceduti dalle parole, i miei statuti osserverete, cioè quelle eterne leggi che Jahveh creatore ha istituito. Quindi quelle parole nel testo hanno la loro ragione dʼessere, e non si capisce troppo perchè da qualche critico vogliano tenersi come interpolate. Non così i tre versi 20–22 che per il contenuto sono estranei a tutto lʼargomento del nostro capitolo, e per la forma ne differiscono talmente da dover credere che appartengono veramente ad altro autore.[262] Gli traduciamo, acciocchè il lettore possa da sè stesso giudicarne.

[184]

20.E quando uomo giacesse con donna in accoppiamento carnale, ed essa fosse serva appartenente ad altrʼuomo, ma non fosse riscattata, nè le fosse data libertà, punizione se ne farà; ma non morranno, perchè non era libera. 21.E porterà il suo sacrifizio della colpa a Jahveh, alla porta della tenda della congregazione, un montone espiatorio. 22.Ed espierà per lui il sacerdote col montone espiatorio dinanzi Jahveh per il suo peccato che avrà commesso, e sarà perdonato del suo peccato che avrà commesso.

Per quanto i concetti in questo capitolo si succedano con una certa libertà, pure siccome dallʼaltro lato un qualunque nesso non manca, almeno dividendoli in gruppi generali, il lettore resta da prima meravigliato, vedendo interrotta la continuazione dei pensieri fra il precetto di non promiscuare le diverse specie e quello di non mangiare i frutti degli alberi primaticci per i primi tre anni. Perchè questi due precetti hanno in certo modo tra loro una qualche relazione, come attinenti ambedue allʼagricoltura, e non si può intendere perchè sarebbe posta fra lʼuno e lʼaltro questa legge così precisa sulla unione illegittima con una schiava che appartenga ad altri. In secondo luogo poi tutto il contenuto di questo capitolo non è di leggi precise e determinate accompagnate dalla sanzione penale, ma di precetti e avvertimenti generali di religione, moralità e giustizia. Si capirebbe che lʼautore su questo punto avesse fatto una raccomandazione in termini generali per imporre il rispetto della donna altrui; ma il prendere a considerare uno specialissimo caso, e non certo il più grave in questo genere, anzi il più lieve, e il porvi[185] ancora la sanzione penale, non si accorda in nessun modo con tutto il resto, se non dobbiamo dire che troppo ne dissente. In terzo luogo la forma delle espressioni è onninamente diversa, e sotto più rispetti.

Prima di tutto, gli altri avvertimenti di questo nostro capitolo sono in seconda persona, ora al singolare, ora al plurale, ma sempre come una raccomandazione diretta a tutto il popolo, ora considerato come un ente collettivo, e ora volgendosi ad ognuno dei suoi individui. Qui invece, lasciato il discorso diretto, si suppone in terza persona il caso di alcuno che commetta quel tale peccato. Questo subitaneo cangiamento di stile è troppo brusco e inaspettato per potere appartenere a uno stesso scrittore.

Ma più di questo colpisce la straordinaria e slombata diffusione di questi tre versi messi a confronto colla rapida e verbosa concisione di tutto il resto. Chi osservi quanta materia è condensata in questo capitolo, e come i precetti sono tutti espressi nella più stringata forma sentenziosa non potrà capacitarsi che uno stesso autore abbia impiegato tante inutili parole, in questi tre versi. Nè si citi come altro esempio di diffusione il precetto sugli alberi primaticci; perchè se questo è spiegato con più parole che gli altri, erano però tutte necessarie a rendere chiaro il concetto, e nulla vi si potrebbe togliere come inutile. Mentre nei tre versi in questione è proprio la diffusione oziosa, in cui lo scrittore del codice sacerdotale si compiace, quando si tratti di ciò che attiene al culto. Per la qual cosa è da credersi che qui abbiamo una interpolazione, di cui possiamo tanto più renderci ragione nel seguente modo.

[186]

Il capitolo venti tratta principalmente delle unioni illecite sia per adulterio, sia per incesto, sia per accoppiamento infame o bestiale; ma non annovera fra gli altri questo caso di unirsi a una donna di condizione servile, i cui sponsali per non essere stata posta in libertà non erano tenuti legittimi.

Ora o lo scrittore del codice sacerdotale nellʼaccogliere nella sua opera queste più antiche piccole raccolte di leggi, o lʼultimo compilatore del Pentateuco, ha voluto supplire a questa che per lui era una omissione, ed ha aggiunto questi tre versi, imitando lo stile del capitolo xx, perchè ivi, esemplificando i diversi casi, si ripete sempre questa forma: e uomo che giacesse ecc.; similmente come essi tre versi incominciano. E più si aggiunge, come in tutto il capitolo xx, la sanzione penale. È però ad ogni modo notevole che questa legge sia qui fuori del suo luogo, giacchè il nesso logico dei concetti la vorrebbe piuttosto fra gli altri casi di unione proibita e non condannabile con la pena capitale (xx, 19–22). Imperocchè, trattandosi non di moglie legittima, non era questa unione, come nel vero e proprio adulterio, punita di morte; ma da un lato sʼimponeva un sacrifizio espiatorio, dallʼaltro poi i colpevoli erano sottoposti anche ad un altro genere di punizione che il testo non determina, ma esprime col termine di Biqqoreth, poco chiaro, perchè leggesi solo in questo luogo. Secondo i talmudisti la pena consisteva nella flagellazione per la donna, e non per lʼuomo che ne usciva col solo sacrifizio espiatorio.[263] Secondo invece il significato letterale del testo dovevano essere tutti e due[187] sottoposti alla stessa pena, qualunque questa si fosse, sebbene lʼobbligo del sacrifizio espiatorio pare che incombesse solo allʼuomo. Di più i talmudisti hanno voluto restringere questo caso alla sola serva di origine non ebrea e sposata a un servo ebreo, ma non ancora posta in condizione di piena libertà.[264]

Torniamo ora allʼesposizione di quei precetti che formano parte originaria e integrale di questo nostro capitolo.

Il precetto di non mangiare dei frutti degli alberi primaticci nei primi tre anni è da un lato un insegnamento dʼagricoltura; perchè svettando gli alberi novelli prima che fioriscano e fruttifichino, si ottiene che non se ne disperda il succo mentre sono troppo teneri, e che dopo qualche anno crescano più rigogliosi e diano frutti migliori. Dallʼaltro lato poi il precetto concerneva in qualche modo anche il culto, in quanto dovendosi consacrare le primizie al Signore, si voleva che fossero frutti degni da ciò, e non miseri come quelli degli alberi troppo novellini. E tanto su questo precetto, quanto su quello contro la promiscuazione delle specie nulla diremo delle numerose distinzioni rabbiniche contenute in due trattati della Mishnah.[265] Tutti gli altri precetti tendono ad allontanare gli Ebrei da pratiche o superstiziose o semi barbare in uso presso molti dei popoli antichi.

Il comando di non cibarsi di sangue tendeva a mitigare i costumi, lʼorigine del qual rito volle poi trovarsi così antica che lo scrittore sacerdotale ne fece rimontare il primo comandamento sino allʼetà[188] dei Noachidi (Genesi, ix, 4–6). Se pure in questo nostro luogo deve seguirsi la lezione del testo ebraico da me adottata nella traduzione, e non è da preferirsi quella della versione alessandrina: non mangiate sui monti,[266] che proibirebbe i sacrifizi ad altri Dei soliti a farsi sulle alture, e che starebbe in più stretto nesso con le altre due proibizioni che seguono di non usare nè augurii nè arti divinatorie, come pratiche anche queste di religioni politeistiche e idolatriche.

I talmudisti poi, trovando la proibizione di cibarsi di sangue in altri luoghi del Pentateuco, secondo il loro principio esegetico, che la legge non deve contenere ripetizioni inutili, dedussero da questo nostro testo altri riti. Di non mangiare nessuna parte di un animale, sino a che non sia compiutamente morto; di non cibarsi della carne dei sacrifizii fino che il sangue raccolto nei bacini non fosse versato sullʼaltare; di non fare convitto funebre pei condannati a morte; e più moralmente di tutti, se non con più verità, Rabbì `Aqibà voleva che fosse proibito ai giudici di prendere qualunque nutrimento nel giorno in cui si eseguiva una sentenza capitale da essi decretata.[267] Tanto era lʼorrore che certi buoni rabbini sentivano per la pena di morte.

In quanto agli altri precetti nessuna modificazione notevole introdussero i talmudisti, se non che intorno al radersi lʼestremità della barba e del capo restrinsero la proibizione al solo rasoio, permettendo di tagliare o anche svellere i peli e i capelli con altri mezzi.[189][268] Lʼuso poi ti tondersi in tal modo il capo, e radersi lʼestremità della barba pare che fosse speciale degli Arabi.[269]

Anche nelle pratiche del lutto la legge ebraica voleva allontanare da quegli eccessi cui si abbandonavano e si abbandonano ancora genti barbare, incrudelendo come segno di disperazione contro il proprio corpo. Ma non è proprio allora contrario a questʼintendimento della legge scritturale il rito rabbinico che impone di stracciarsi le vesti in segno di lutto non solo alla morte dei prossimi parenti, ma anche per qualunque individuo, alla cui decessione uno si trovi presente, e anche per la semplice notizia che se ne apprenda quando si tratti di persona rispettabile?[270] È verissimo che fra incrudelire nel proprio corpo, e stracciarsi le vesti passa qualche differenza. Ma anche questo è costume di popoli barbari, massime poi quando sia imposto come rito, e non provenga come espressione spontanea di disperato dolore. Tanto più che nessun altro fondamento scritturale i rabbini poterono trovare a questo loro rito, se non il comando contenuto in altro luogo del Levitico, (x, 6) e diretto ad Aron e ai suoi figliuoli di non lacerarsi le vesti per la morte degli altri due figli dello stesso Aron, Nadab e Abihu,[271] giacchè erano nei giorni della consacrazione, e non dovevano abbandonarsi a nessuna pratica di lutto. Ma da questo comando proibitivo, non se ne può desumere lʼobbligo inverso in ogni altro caso. Sia pure che fosse uso degli Ebrei di stracciarsi le vesti in segno di dolore[190] e di disperazione, come si rileva da molti passi della Scrittura;[272] ma un uso non può mai divenire un rito obbligatorio, quando la legge tace, e anzi in certi casi lo proibisce, dimostrando in questa maniera non dʼimporlo, ma tutto al più di tollerarlo.

Abbiamo inoltre un profeta che disapprova questa ostentazione esteriore di mestizia, quando non sia accompagnata collʼinterno sentimento, e dice a chiare note e con bellissima espressione: «lacerate il vostro cuore e non i vostri abiti» (Joel, ii, 13). Dobbiamo dire dunque che tale rito rabbinico di stracciarsi le vesti in segno di lutto è contrario non meno alla lettera che allo spirito della legge religiosa del Pentateuco.

Seguono nel testo altri precetti che concernono in parte il costume e la morale, e in parte la religione e lʼallontanamento da altre pratiche superstiziose.

29.Non profanare la tua figlia per farla prostituta, e non si prostituisca il paese nè si riempia dʼinfamia.

30.I miei sabati osservate, e il mio Santuario venerate, io Jahveh.

31.Non vi volgete ai necromanti, e agli indovini, non cercate di contaminarvi con essi: io Jahveh vostro Dio.

32.Davanti alla canizie alzati, e rispetta la presenza del vecchio, e temi del tuo Dio: io Jahveh.

Nel comando di non prostituire le proprie figlie non è da vedersi soltanto un insegnamento di buon costume, ma anche una proibizione di seguire certi infami culti molto praticati dai popoli asiatici. La raccomandazione di osservare il sabato, e di non ricorere[191] ad arti divinatorie sono ripetizione dei v. 3b e 26b, dimodochè si potrebbe con qualche ragionevolezza dubitare che i versi 30 e 31 non facessero parte della originaria composizione di questo nostro capitolo. Ma si potrebbero in qualche modo difendere, perchè alla proibizione di seguire le infami pratiche di certi culti, poteva risvegliarsi nella mente dello scrittore il concetto di raccomandare lʼosservanza di quelle feste che erano imposte dal culto di Jahveh, e di rispettare il luogo a lui consacrato, quasi come salvaguardia e antidoto per non festeggiare le solennità di altri Dei, e per non accorrere ai loro templi. E ciò ha potuto forse nellʼautore far passare sopra allʼinconveniente della ripetizione. Come pure le arti divinatorie proibite nel v. 31 non sono precisamente quelle del v. 26, ma indicate con termini più speciali, e forse, come di pratiche più in uso presso i popoli vicini, più necessario si vedeva il raccomandarne lʼastensione.

I rabbini poi dallʼessere qui ripetuto il precetto dellʼosservanza del sabato unitamente a quello del rispetto del Santuario vollero dedurne il rito, che il riposo del sabato non doveva essere posto in non cale nemmeno per la edificazione del Santuario. E il rispetto per questo luogo lo spinsero tantʼoltre che imposero di non dovere camminare nel colle, sul quale era edificato il tempio, nè col bastone, nè con la bisaccia, nè coi sandali, nè colla cintura dove si lega qualche oggetto, nè coi piedi polverosi.[273] Meschine minuzie, a cui certo non pensava chi aveva in mente più elevato concetto, scrivendo «il mio Santuario venerate».

[192]

Finalmente questa raccolta di morali e religiosi insegnamenti termina con due raccomandazioni, lʼuna di benevolenza per gli stranieri, e lʼaltra di osservare in ogni cosa la giustizia, dando ad ognuno il suo.

33.E quando abiti con te uno straniero nelle vostre terre, non lʼopprimete. 34.Come un indigeno tra voi sia per voi lo straniero, che presso voi abita, e lo amerai come te, perchè stranieri foste nella terra dʼEgitto: io Jahveh Dio vostro.

35.Non fate iniquità nella giustizia, nella misura, nel peso, e nel contenente. 36.Bilancie giuste, pesi giusti, Efàh[274] giusto, Hin[275] giusto sia a voi: io Jahveh Iddio vostro, che vi feci escire dalla terra dʼEgitto. 37.E osserverete tutte le mie istituzioni e tutte le mie leggi, ed eseguirete quelle: io Jahveh.

I rabbini intesero in significato anche più benigno della lettera il precetto a favore degli stranieri, perchè vollero che non fossero oppressi non solo con i fatti, ma nemmeno con le parole, e stimarono peccato il rinfacciar loro la passata loro condizione in seno ad altre religioni, quando si fossero convertiti allʼebraismo.[276] Del resto il contenuto di tutto questo nostro capitolo è proprio una transizione fra alcune leggi del piccolo codice dellʼEsodo, e altre del Deuteronomio, cosa già osservata con molta ragione dal Vellhausen.[277] È si può dire che siano da un lato ripetizione e in parte amplificazione delle prime, e dallʼaltro avviamento alle seconde. Anche gli antichi rabbini videro che in questo luogo si conteneva come in compendio tutta la legge, e alcuni dissero che ne comprendeva i sommi capi, altri che era sotto altra forma una ripetizione del Decalogo.[278]

[193]

In quanto al tempo della composizione di questo nostro capitolo crediamo di non andare errati, ponendolo nella età intermedia fra la promulgazione del primo codice e quella del Deuteronomio. Crediamo di più che lʼautore ne sia stato un profeta, o almeno uno appartenente alle scuole profetiche, perchè lʼintendimento generale di questo piccolo scritto è la santità della vita e la moralità dei costumi e delle azioni, fine al quale più che ad ogni altro hanno mirato con la parola e con gli scritti i profeti e i loro seguaci. Ma, se si volesse fissarne più precisamente lʼetà, mancherebbe ogni serio argomento per fondarci, non che una certa, nemmeno qualche probabile conclusione.

I capitoli xviii e xx del Levitico sono fra loro molto affini nel contenuto, in quanto proibiscono il culto del Dio Moloch (xviii, 21, xx, 2–5), e stabiliscono le varie specie di unioni carnali proibite come incestuose, o adulterine, o pederastiche, o bestiali.

Il capitolo xx contiene di più la proibizione di ricorrere a certe specie di divinazioni (v. 6), come abbiamo visto nel capitolo xix, e lʼaltro di maledire i genitori, come nellʼEsodo (xxi, 17); e una raccomandazione di distinguere gli animali puri dagli impuri (v. 25), senza darne nessuna regola, lo che prova la preesistenza dei riti intorno a questo punto, stabiliti nel cap. xi. Ma sarebbe impossibile che uno stesso autore a così breve distanza avesse ripetuto le stesse disposizioni legislative rispetto a ciò che forma lʼargomento principale di questi due capitoli. Nè vale meglio qui che altrove il solito ripiego talmudico che nel capitolo xviii abbiamo la sola proibizione, mentre nel capitolo xx si contiene ancora la sanzione penale,[194] perchè questo secondo luogo è sufficiente per lʼuna e per lʼaltra cosa. Ad ogni modo se uno solo fosse lʼautore di questi due passi, non si sa vedere perchè nello scrivere il capitolo xviii non avrebbe aggiunto subito alla disposizione proibitiva la sanzione penale, per aspettare poi a riprendere lʼargomento, come se mai fosse stato trattato, e allora soltanto parlare delle pene. Oltrechè anche nel capitolo xviii una generale sanzione penale è stabilita per tutti i delitti e peccati antecedentemente esposti, dicendo che le persone che gli avessero commessi sarebbero distrutte dal loro popolo (v. 29). Conviene poi dire che ognuno di questi due capitoli ci si presenta nella sua forma come un solo scritto indipendente, che ha in sè unità di argomento e di composizione, con un principio e una conclusione che ne forma un tutto compiuto, nè vi si contiene alcun riferimento di uno allʼaltro, come si aspetterebbe naturalmente da un autore, che col secondo scritto avesse in certo modo voluto compiere il primo. Tanto più che il concetto dominante in ambedue i capitoli è lo stesso, cioè dʼimporre agli Ebrei norme di santità di vita, che gli tenessero lontani dai costumi idolatrici, o corrotti, o superstiziosi dei popoli vicini. Dove è da notare che a questo proposito anche la ripetizione delle stesse raccomandazioni quasi con le identiche frasi (cfr. xviii, 26–29, xx, 22–23) rimane inesplicabile in un solo scrittore che si sarebbe inutilmente copiato. È ragionevole dunque conchiudere che in questi due capitoli abbiamo due composizioni di leggi miranti allo stesso scopo, ma di autori e di tempi diversi, quantunque forse non molto lontani, ma pure sempre quanto basta a spiegare alcune diversità e in qualche particolare concetto e nella forma, che ora vedremo facendone lʼanalisi.

[195]

Il capitolo xx, dopo brevissima introduzione che dice doversi queste leggi esporre al popolo dʼIsraele, incomincia col proibire il culto del Dio Moloch consistente nel sacrificare ad esso i figli, bruciandoli. Questa proibizione incombe tanto agli Ebrei quanto agli stranieri che avessero dimora stabile nel paese, e il colpevole era condannato alla lapidazione (v. 2). Di più si soggiunge che Dio si sarebbe volto contro questo colpevole per distruggerlo dal popolo (v. 3). La quale espressione non contraddice alla sanzione penale del verso antecedente, come a prima vista potrebbe sembrare. Imperocchè alcuno potrebbe dire: se il colpevole era sottoposto alla lapidazione come a sanzione penale che doveva infliggersi dai tribunali umani, a che allora la giustizia divina? Ma è facile supplire a ciò che in questi due versi è sottinteso, cioè che la provvidenza divina avrebbe punito il colpevole, quando la giustizia umana per qualunque ragione non lo avesse colto. Sottinteso al quale suppliscono i due versi seguenti (4, 5), ma che giusto appunto per ciò noi crediamo interpolazione introdotta nel testo primitivo, come chiosa a spiegare quello che pareva non troppo chiaramente espresso.[279] Altrimenti non si capirebbe come uno stesso scrittore avesse ripetuto nel v. 5 quello che già aveva detto nel v. 3. Ad ogni modo però qui troviamo alternarsi la sanzione penale umana con quella divina, espressa per tre casi con frase identica, cioè che Jahveh avrebbe volto la sua faccia contro la persona del colpevole e lʼavrebbe[196] distrutta dal suo popolo (Levit., xvii, 11; xx, 3, 5, 6). Stando alla lettera del testo questo non può significare, se non che la Provvidenza avrebbe punito il colpevole con una morte precoce. I rabbini vi hanno aggiunto ancora di morire senza prole,[280] e questa è quella punizione provvidenziale da essi conosciuta sotto il nome di Chareth (distruzione), che da ora in poi per brevità anche noi chiameremo con questo nome ebraico.

Viene poi proibito (v. 6) il dirigersi a certe specie di arte divinatorie, come nel v. 31 del capitolo precedente, e anche qui la sanzione penale è del tutto lasciata alla Provvidenza.

Questi due primi precetti sono sotto altra forma la stessa raccomandazione fatta nel capitolo xx di tenersi fedeli alla religione e al culto del solo Jahveh. Verso il quale gli Ebrei dovevano essere santi, osservandone le istituzioni, imperocchè per mezzo di queste li santificava (vv. 7, 8). Anche qui troviamo il precetto della osservanza verso i genitori, ma sotto la forma proibitiva di non maledirli, accompagnata dalla sanzione della pena di morte (v. 9), come abbiamo già sopra spiegato (pag. 104) sul testo dellʼEsodo (xxi, 17).

Seguono poi le leggi sulle unioni proibite. In prima lʼadulterio, poi lʼincesto con la moglie del padre, e con la nuora, la sodomia, lʼincesto con la figlia e con la madre della moglie, e il coito bestiale (vv. 10–16). Tutti questi delitti sono puniti con la pena capitale, senza che il testo scritturale ne abbia determinato[197] il modo, eccetto per lʼunione incestuosa con una donna e con la madre di lei, per la quale è specificato che si dovevano bruciare. Però mentre il testo parla chiaro di un vero e proprio bruciamento, i talmudisti stabilirono che dovesse eseguirsi la condanna facendo trangugiare del piombo strutto. La ragione da essi addotta per giustificare tale interpretazione è che in questa esecuzione capitale doveva rimanere il cadavere del condannato, cosa impossibile in un vero e proprio bruciamento. Con quanta verità potesse poi ciò accordarsi con le espressioni del testo è inutile domandare ai talmudisti, quando già sappiamo quale fosse il loro metodo esegetico. Apparisce dallʼaltra parte anche dal Talmud stesso che talvolta lʼesecuzione fosse fatta abbruciando il condannato col rogo.[281]

Lʼadulterio secondo i talmudisti era punito con la strangolazione,[282] e gli altri delitti di sopra enumerati con la lapidazione.[283] Tanto poi per il testo biblico quanto per il Talmud nel coito bestiale veniva condannato a questo genere di morte non solo lʼuomo o la donna che se ne fossero resi colpevoli, ma anche lʼanimale. E a questo proposito domandano con ragione i talmudisti: se la persona umana è colpevole, qual colpa può imputarsi al bruto? E rispondono che ragione di dover uccidere anchʼesso, è lʼessere stato stromento di danno per lʼuomo; oppure che, venuto lo sconcio a pubblica cognizione mediante il processo, non deve lasciarsi in vita lʼanimale, perchè atto a rammentare lo scandalo.[284]

[198]

Lʼincesto con la sorella, sia paterna o materna, è proibito nel v. 17, ma con una sanzione penale espressa in forma differente da quelle che precedono. E saranno, si dice in questo caso, distrutti alla presenza della gente del loro popolo: scoprì la vergogna della sua sorella, sopporti il suo delitto.

Lʼessere distrutti alla presenza del popolo pare che significhi essere sottoposti alla pena capitale; ma i talmudisti hanno voluto vedere anche qui uno di quei casi del loro Chareth, nei quali lʼumana giustizia non poteva infliggere ai colpevoli se non la pena della fustigazione, lasciando alla Provvidenza la cura del resto; e così hanno interpretato ogni qual volta il testo si esprime con identiche o simili frasi.[285] Ma qui fa dʼuopo distinguere. Sia pur vero che la Scrittura abbia inteso di lasciare la cura della sanzione penale alla Provvidenza nei tre luoghi poco sopra enumerati dove Jahveh stesso avrebbe detto: volgerò la mia faccia contro quella persona e la distruggerò; ma non lo stesso può dirsi quando il testo dice: quella persona sarà distrutta, o quelle persone saranno distrutte dal loro popolo. Con altra forma allora si è voluto imporre la pena capitale; e tanto più ciò appare manifesto nel nostro verso 17, dove aggiungesi ancora: alla presenza della gente del loro popolo. Parole che hanno bene un significato, se trattasi di una pena che dovesse infliggersi dalla giustizia umana, ma in una morte lasciata alla cura della Provvidenza non significano più nulla. Non potrebbero neanche significare che la giustizia divina si farebbe palese: perchè anche i giusti e i buoni muojono spesso in età giovanile e senza figli: come avrebbe potuto[199] lo scrittore di questo nostro luogo pensare che la gente distinguesse se la morte di tal genere sarebbe provvidenziale e in pena di qualche commesso delitto? Si deve dunque concludere che quando la legge scritturale usa lʼespressione: sarà distrutta la persona, o saranno distrutte, se trattasi di più colpevoli, ha voluto porre come sanzione la pena capitale, sebbene i rabbini abbiano voluto vederci soltanto il provvidenziale Chareth, lasciando in questo caso allʼumana giustizia la sola pena della fustigazione.

Parificato allʼincesto con la sorella è lʼaccoppiamento con una donna durante il mestruo (v. 18), la quale proibizione è da riporsi fra i riti di purità; tenendosi come cosa impurissima il flusso mestruale. Anzi i talmudisti fondandosi sopra un altro passo del Levitico (xv, 19–24, 33), spinsero la proibizione fino al punto di tenere la donna impura, anche dopo il mestruo, per tutto il tempo, sia pur questo lunghissimo, che non si sia purificata mediante una abluzione generale in un bagno,[286] che per la capacità e per la qualità dellʼacqua raccoltavi adempia a moltissime minuzie rituali, che essi si compiacquero di ammassare così in questo punto come in tutti gli altri delle pratiche religiose.

Lʼincesto con la zia, o sorella del padre, o della madre, o moglie del zio paterno, e quello con la moglie del fratello sono proibiti, ma lasciati punire alla Provvidenza (19–21), perchè il testo dice soltanto sopporteranno il loro peccato, e morranno senza prole. I rabbini hanno veduto anche qui il loro Chareth, e ammessa come sanzione umana la fustigazione. Vedremo[200] poi a suo luogo quando esporremo la legislazione del Deuteronomio quale restrizione fu posta allʼincesto con la moglie del fratello. A questi casi dʼincesto lʼautore del capitolo xviii aggiunse ancora quelli con gli antenati (v. 7) e con i discendenti (v. 10), taciuti forse dallʼautore del cap. xx come supposti più contrarii degli altri alla stessa natura, e per conseguenza non necessari a prevedersi dalla legge. Ma oltre questi nel cap. xviii è proibita come incestuosa anche lʼunione con la sorella della moglie, questa vivente (v. 18).

Alla fine poi del nostro capitolo xx si proibiscono le pratiche negromantiche e divinatorie, sottoponendo i colpevoli alla pena della lapidazione. E questa è certo una aggiunta o dellʼautore del codice sacerdotale, o del finale compilatore. Perchè enunciata già la proibizione nel v. 6, doveva in quel medesimo luogo aggiungersi la sanzione della pena capitale, se una pratica in sostanza nulla più che superstiziosa, avesse voluto dallʼautore sottoporsi alla più grave delle punizioni, mentre, come abbiamo visto, contento di proibirla, ne lasciò la sanzione alla giustizia divina. Ma sarebbe inesplicabile che uno stesso scrittore dopo essersi a lungo trattenuto sopra leggi di altro genere, tornasse in ultimo a parlare di una prevaricazione già trattata, per sottoporla a una sanzione penale diversa da quella stabilita da prima. Inoltre poi il capitolo xx è in sè uno scritto molto armonico e unico nel concetto dʼimporre agli Israeliti lʼosservanza di certi riti e di certe leggi, come a quelli che dovevano essere fra tutti i popoli santi appo Jahveh. Perciò esso ha la sua logica e naturale conchiusione col v. 26: «E sarete a me santi, perchè santo io Jahveh, e ho separato voi dai popoli per essere a me». Come sarebbe[201] possibile che dopo queste espressioni, che assumono e conchiudono nellʼidea di santità tutti i particolari sovra esposti, uno scrittore avesse guastato lʼunità della sua composizione per ritornare sopra una proibizione, della quale già aveva trattato? Certo nellʼetà dello scrittore sacerdotale, o in quella del finale compilatore, il rigorismo teocratico fu sì oltre spinto da tenere anche le superstizioni negromantiche e divinatorie come una vera infrazione al puro monoteismo, e perciò punibili con la pena capitale al pari dei peccati dellʼadorazione di altri Dei, e della idolatria. Quindi si è voluto supplire con questʼaggiunta a ciò che nella legge più antica sembrava manchevole.

Il contenuto principale di questi due capitoli xviii e xx del Levitico, il quale si aggira principalmente intorno allo stabilire quali siano i gradi di parentela che impediscono il matrimonio, ci fa credere che essi siano fra le leggi assai per tempo stabilite nella vita civile del popolo ebreo, e per conseguenza promulgate come aggiunta al primo codice dellʼEsodo xxxxiii prima della legislazione deuteronomica. Un punto come questo così importante per regolare le relazioni di famiglia non può essere rimasto a lungo indeterminato, o lasciato soltanto al capriccio della consuetudine; e perciò siccome il primo codice mirava principalmente come abbiamo visto, a tutelare la libertà, la vita, e la proprietà, è ragionevole il supporre che si sia quindi sentito il bisogno di regolare con norme fisse ciò che era permesso, e ciò che era proibito in fatto di unioni matrimoniali. Tanto più ciò sembrerà naturale, quando si pensi che presso gli Ebrei, o almeno nella parte di essi intellettualmente più elevata, lʼunione matrimoniale fra certi gradi di parentela era tenuta una[202] infrazione a quella norma di vita pura e santa, cui il popolo eletto da Jahveh doveva informarsi. E che a fissare le leggi regolatrici di questo punto si sia ritardato nel popolo ebreo fino ai tempi dellʼesilio, o anche posteriormente, noi non possiamo in alcun modo indurci a crederlo. Perciò teniamo per fermo che senzʼalcuna ragione lʼHorst sentenzi che sia impossibile dare la prova che qualche cosa della legge del Levitico xi, xviixxvi sia anteriore al Deuteronomio, mentre la più parte di essa appartiene chiaramente a un posteriore grado di svolgimento.[287] Seguiamo invece, come molto più probabile, lʼopinione del Kleinert,[288] che alcune parti e precisamente quelle da noi esposte pone anteriori al Deuteronomio, quantunque del tutto dissentiamo da lui nel fissare la data per la compilazione della legge in questo libro contenuta.

Ora in quanto ai due capitoli del Levitico presi da noi in esame resta la difficoltà di spiegare come e perchè le stesse leggi con poche diversità nei particolari abbiano avuto una doppia compilazione, e quale fra i due sia lʼanteriore. A questa difficoltà non puossi rispondere che con ipotesi più o meno probabili.

Osserviamo che il culto del Dio Moloch è proibito nel capitolo xx in una forma molto più estesa, che nel xviii, e con una sanzione penale molto rigorosa, che nellʼaltro luogo è taciuta, e si proibiscono ancora le pratiche negromantiche, di cui nel xviii non si fa menzione. Questo cʼinduce a credere che il capitolo xx sia stato scritto in un tempo in cui il culto politeistico e le pratiche che ne facevan parte erano[203] tuttora seguite nel popolo ebreo, mentre lo scrittore del capitolo xviii sentiva meno il bisogno di promulgare, su questo punto, leggi proibitive. In secondo luogo poi ognuna delle leggi intorno alle unioni incestuose, o per altro titolo proibite, è accompagnata nel capitolo xx da una sanzione penale, che non in tutti i casi è eguale, ma differisce, come abbiamo visto, ora per il grado, ora soltanto per il modo della esecuzione. Se bene si riflette, questo è necessario nella prima promulgazione di una legge; mentre nel capitolo xviii la sanzione penale è espressa una sol volta in termini generali e indeterminati (v. 29), involgendo in una sola punizione tutti i delitti e i peccati sovra esposti. A che potrebbe servire una legge proibitiva, quando questa non istabilisse nel medesimo tempo a quali conseguenze si troverebbe esposto chi la infrangesse?

È logico pensare precisamente il contrario del principio esegetico dei talmudisti. Essi dicono: la sanzione penale non potrebbe esserci nella legge senza una antecedente esplicita proibizione. Ma appunto la sanzione penale implicitamente contiene la proibizione, mentre questa disgiunta da quella resta senza efficacia. Se la legge decreta: Chi uccide deve essere condannato a morte, ciò basta per riporre lʼomicidio fra i delitti. Ma se la legge dice soltanto: non devi uccidere; essa non è compiuta, perchè non mi fa sapere a che pena lʼomicida deve essere sottoposto. Nè si tragga alcuna obbiezione dal modo come è composto il Decalogo; imperocchè questo, piuttosto che una vera e propria legge nel senso rigoroso di tale parola, è un compendio dei più importanti precetti religiosi o morali, che costituiscono il fondamento della legge, e che quindi ha bisogno di trovare nella più[204] ampia compilazione di questa il suo svolgimento. E lo stesso si dica anche per il capitolo xix del Levitico. Perciò si può capire che lʼautore del capitolo xviii, avendo innanzi a sè le leggi del xx si sia contentato di ripeterle, e in parte ampliarle, senza aggiungerci la sanzione penale; ma se egli fosse stato il primo autore di tali leggi tale mancanza sarebbe inesplicabile. Per ultimo il modo come lʼautore del cap. xviii parla dei popoli antecedenti possessori della Palestina, dimostra che da molto tempo essi erano distrutti (v. 28), attribuendo questa distruzione al non essersi mantenuti puri da simili peccati; mentre lʼautore del capitolo xx, sebbene certo di molto posteriore alla conquista, sa meglio conservare nelle espressioni la situazione di chi considerava la distruzione di quei popoli come un fatto non ancora compiuto. Per queste ragioni noi crediamo il capitolo xx anteriore al xviii. Ma resta sempre a spiegarsi perchè lʼautore di questo avrebbe di nuovo ripetuto leggi che per la maggior parte già esistevano. E qui possono farsi due ipotesi. O i due autori appartenevano ai due diversi stati di Samaria e di Giudea, sentendosi nellʼuno e nellʼaltro il bisogno di fissare tale specie di leggi, e ciò spiegherebbe ancora la diversità fondamentale che fra lʼuno e lʼaltro passa nella sanzione penale. Oppure il più moderno autore, vedendo forse come tali leggi spesso sʼinfrangessero, si sentì mosso da ardore religioso e morale a nuovamente bandirle, più come una raccomandazione morale che come una legge positiva. Imperocchè la ragione principale addotta dallʼautore del capitolo xviii per tenersi lontani da simili profanazioni è quella di non seguire i costumi corrotti e impuri degli Egiziani, e dei popoli antecedenti possessori[205] della Palestina. Come ancora è da tenersi raccomandazione morale appartenente alla dottrina profetica la minaccia che la infrazione di tali precetti sarebbe stata seguita dalla perdita del paese conquistato. La quale ipotesi spiegherebbe ancora come il secondo autore si sia contentato di accennare per le generali una indeterminata sanzione penale (v. 29), quando già il più antico legislatore a ogni trasgressione ne aveva assegnata una propria. Se pure il v. 29 è da tenersi autentico della originaria composizione, e non piuttosto da credersi col Kayser[289] aggiunta del compilatore.

Qui, a nostro avviso, deve fermarsi ogni ipotesi intorno alle parti legislative dellʼEsodo e del Levitico, che possono, se non nella loro integra forma presente, almeno per il loro contenuto, giudicarsi come intermedie fra il primo piccolo codice dellʼEsodo xxxxiii, e il più esteso e posteriore del Deuteronomio. E di queste, che potrebbero in certo modo chiamarsi Novelle diamo qui come un quadro assuntivo.

1.o Istituzione di Magistrati Esodo, xviii, 21–26
2.o Distruzione dei popoli cananei e amalechiti
» xxiii, 20–43
» xvii, 14–16
3.o Commemorazione dellʼescita dallʼEgitto, rito delle azzime, consacrazione dei primogeniti
» xii, 21–27
» xiii, 3–16
4.o Distinzione degli animali puri e impuri permessi e proibiti come cibo
Levit., xi, in parte
5.o Prescrizioni sulla lebbra » xiii,
6.o Nazireato Num., vi, 2–8
7.o Prescrizioni religiose e morali per la santità della vita
» xix, 1–5, 9–19, 23–37
8.o[206] Leggi sulle unioni carnali proibite, contro il culto del Dio Moloch, e contro le pratiche divinatorie
Num., xx, xviii

Si avverta però che non si è voluto in questa tabella stabilire in verun modo un ordine cronologico, perchè mancano a nostro avviso assolutamente glʼindizii per poterlo fissare con qualche ragionevole probabilità. Si può supporre però che le leggi indicate sotto i numeri 1, 2, 3 abbiano preceduto le altre.


[207]

Capitolo VIII

IL SECONDO CODICE, O LA COMPILAZIONE LEGISLATIVA DEL DEUTERONOMIO

Il nome di Deuteronomio (seconda legge) male appropriato al quinto libro del Pentateuco, se si volesse intendere con lʼopinione tradizionale che esso contiene una legge, la quale forma in parte la ripetizione e in parte il compimento di quella contenuta negli antecedenti libri, è invece convenientissimo, se sʼintende che è una seconda legge rispetto alla prima del Decalogo, del codice dellʼEsodo, e delle varie Novelle sopra esposte. Seconda legge però, alla quale, come vedremo, seguì poi una terza.

Ma non tutto il quinto libro consta di sole leggi. Alcune parti di esso sono da sceverarsi come di altro argomento; e in prima lʼintroduzione (i, 1, iv, 43), e poi quella che potrebbe chiamarsi la perorazione (xxixxxxiv), intorno alle quali qui non tratteremo delle molteplici quistioni che occupano la critica nella loro unità col rimanente del libro, sulle diverse fonti originarie da cui furono tratte, sugli autori, e sulle età[208] cui appartengono. Imperocchè tali quistioni escirebbero dal nostro argomento. E perciò ci restringeremo a quelle parti del Deuteronomio che costituiscono propriamente la legge, toccando ancora, per quanto sarà necessario, di quelle parenetiche che con le legislative sono strettamente connesse.

Imperocchè lo scrittore del Deuteronomio è spesso più che un legislatore un moralista, e, come con appropriata frase si esprime il Reuss, parla di cose che non si comandano ma si raccomandano.[290] Col v. 44 adunque del capitolo iv incomincia veramente il proprio argomento del Deuteronomio, e con esso vuolsi a ragione da molti critici che avesse principio questo libro nella sua forma originaria, tenendo tutto quanto precede come una aggiunta apposta di poi per unirlo con i precedenti.

44.Questa è la legge che espose Mosè dinanzi ai figli dʼIsraele: 45.Questi gli avvertimenti, e gli statuti, e le leggi che disse Mosè ai figli dʼIsraele, quando erano esciti dallʼEgitto, al di là del Giordano, nella valle di faccia a Beth–Pe‛or,[291] 46.nel paese di Siḣon re dellʼEmoreo, che abitava in Ḣeshbon, il quale Mosè e i figli dʼIsraele avevano battuto, quando escirono dallʼEgitto. 47.E possederono la sua terra, e la terra di ‛Og re del Bashan, due re dellʼEmoreo che erano al di là del Giordano, a oriente, 48.da ʼAro‛er che è sulla riva del torrente Arnon, e sino al monte di Sion[292] cioè il Ḣermon, 49.e tutta la pianura al di là del Giordano a oriente, e sino al lago della pianura alle falde di Pisghà.[293]

[209]

v. 1.E Mosè chiamò tutti i figli dʼIsraele e disse loro: Ascolta, o Israele, gli statuti e le leggi che io dico oggi alla vostra presenza, e imparatele, e osservatele per eseguirle.

2. 3.Jahveh Dio nostro stabilì con noi un patto in Horeb. Non solo con i nostri padri stabilì Jahveh quel patto; ma ancora con noi, questi che siamo qui oggi, tutti viventi. 4.Faccia a faccia parlò Jahveh con voi nel monte di mezzo il fuoco. 5.Io stava fra Jahveh e voi in quel tempo, per palesarvi la parola di Jahveh, perchè temevate della presenza del fuoco, e non saliste nel monte.

Questa introduzione allude chiaramente allʼantecedente promulgazione del Decalogo e al patto successivamente stabilito fra Jahveh e il suo popolo. Dimodochè non è da porsi in dubbio che il deuteronomista avesse cognizione delle leggi che al patto servono di fondamento. Siffatte leggi come sopra abbiamo visto (pag. 136), sono quelle dellʼEsodo, xxxxiii.

Dopo lʼintroduzione il deuteronomista ripete il Decalogo, intorno al quale non ci fermeremo avendone sopra discorso quanto era opportuno (v. cap. IV).

Ma dopo il Decalogo, che termina col v. 21 del capitolo v, non si trova lʼesposizione della legge, se non al capitolo xii, contenendo tutto quanto è scritto framezzo, o discorsi esortativi, o richiami alla storia precedente (ix, 7–x, 11).

Su qualche punto di quelli gioverà forse un tratto fermarsi, perchè se non sono propriamente nè leggi nè riti, contengono come un germe, non direi ancora di dogmi religiosi, ma di principii di fede; e i rabbini poi hanno voluto da qualche passo desumerne assolutamente riti precisi e obbligatorii. Alcuni passi poi varranno a dare un concetto dello stile di questo scrittore, che nel suo genere è certo dei migliori del Vecchio Testamento.

vii. 1.Questi sono i precetti, gli statuti e le leggi che comanda Jahveh Dio vostro dʼinsegnarvi per eseguirli nella terra, nella[210] quale voi passate per possederla. 2.Acciocchè tu tema Jahveh tuo Dio per osservare tutti i suoi statuti e i suoi precetti, che io ti comando, tu, e tuo figlio, e il figlio del tuo figlio, tutti i giorni della tua vita, acciocchè si prolunghino i tuoi giorni. 3.E ascolterai, o Israele, e osserverai per eseguire ciò che sarà bene per te, acciocchè tu moltiplichi, come parlò Jahveh Dio dei tuoi padri a te, in paese fluente di latte e di miele.

4. 5.Ascolta, Israele: Jahveh nostro Dio, Jahveh è uno. E amerai Jahveh tuo Dio con tutto il tuo cuore, e con tutta lʼanima tua, e con tutta la tua possa. 6.E queste parole che io ti comando oggi siano sul tuo cuore. 7.E inculcale ai tuoi figli, e parlerai di esse, stando in casa, andando per via, nel tuo coricarti e nel tuo alzarti, 8.e le legherai per segno sulla tua mano, e saranno per benda[294] fra i tuoi occhi; e le scriverai sugli stipiti della tua casa, e nelle tue porte.

In questa esortazione si sente veramente lʼinfluenza della predicazione profetica, e sono enunciati i concetti fondamentali della religione, sebbene non disposti in ordine del tutto logico. Lʼunità di Dio (v. 4), il dovere di amarlo (v. 5) e di temerlo (v. 2a), di tenere sempre presente i suoi comandi (v. 6–9), di osservarli e di tramandarli di generazione in generazione (v. 2b), e finalmente la promessa che allʼosservanza della legge avrebbe seguito come ricompensa la felicità, cioè una lunga vita e la diuturna possessione di un fertile paese (v. 2c, 3). Questa promessa è qui una più chiara enunciazione di ciò che già era stato detto da altri autori in due delle sovra esposte[211] leggi (cfr. Levitico, xviii, 28, xx, 22–24). Ed è notevolissimo che in tutto il Pentateuco, e più diffusamente nel Deuteronomio, si prometta come ricompensa della buona condotta la felicità su questa terra, e come pena dei peccati e dei delitti parimente la terrena infelicità, senza mai escire dai termini di questo mondo. Non è già però la felicità o infelicità individuale quella che è proposta come premio o come pena del vizio o della virtù; ma la felicità o infelicità collettiva di tutta la nazione; nè si può dire che in tal modo considerato questo concetto dei legislatori e degli antichi profeti del popolo ebreo fosse sbagliato, o smentito dalla realtà dei fatti. Che la felicità sia conseguenza della virtù, e lʼinfortunio del vizio può essere un principio in moltissimi casi falso, se si vuole applicare ad ogni singolo individuo. Quanti virtuosi furono, sono, e saranno infelici! quanti malvagi furono, sono, e saranno i prediletti della fortuna! Ma, considerati invece collettivamente i popoli e le nazioni, non va errato chi sostiene esser vero il contrario. I popoli virtuosi, forti, e soprattutto che sanno rispettare la legge, sacrificare il comodo dellʼindividuo al bene comune, operare di conserto come una forza sola tendente a un fine, sono grandi, potenti, felici e ricchi in casa loro, rispettati e temuti fuori. Mentre popoli che non sanno rispettare la legge, i cui individui, e giustʼappunto i più eminenti fra gli altri, operano ognuno per fini propri, e mirando al particolare vantaggio, nulla curandosi del bene comune, sono quelli che devono necessariamente divenire deboli e meschini e cadere al fine sotto lʼaltrui servaggio. E se pure per fortunate accidentalità possono momentaneamente risorgere, è risorgimento efimero ed[212] apparente, che porta con sè i germi di nuova ruina. Tutta la storia antica e moderna è una continua dimostrazione di tale verità. Popoli corrotti sono stati sempre vinti da quelli animati da vere virtù cittadine. Non erano dunque nellʼerrore gli antichi sapienti ebrei, quando avvertivano il popolo che si attenesse alla legge di Jahveh, se voleva continuare ad esistere felice nella terra che i suoi padri avevano conquistato. Imperocchè la legge di Jahveh rappresentava per il popolo ebreo la virtù cittadina, trascurata la quale, non avrebbe avuto più ragione di essere come popolo esistente per sè, ma avrebbe dovuto andare confuso e disperso fra le altre genti dellʼAsia. Ma questo principio non fu inteso nè seguito dagli Ebrei nei tempi che precedettero da vicino lʼesilio di Babilonia; e quando poi dopo il ritorno in patria la legge, la predicazione e i canti degli antichi e nuovi profeti e poeti ispirarono gradatamente nei pochi reduci un vero nazionale entusiasmo, la forza del popolo ebreo, che non poteva più consistere nel possesso di un angustissimo territorio, sorse grande, e si estese in un mondo del tutto rinnovato sotto un aspetto interamente diverso da quello di una forza politica. Qui però la digressione ci condurrebbe troppo fuori di via, e perciò torniamo al nostro argomento.

In questa bella esortazione religiosa e morale che testè abbiamo esposto, i talmudisti hanno voluto trovare lʼimposizione di alcuni riti così speciali, minuziosi e vuoti da rendere veramente meschino ciò che per sè sarebbe nobile ed elevato. Quando il deuteronomista ha detto: (v. 7) «e parlerai di esse (delle parole divine) stando in casa, andando per via, nel tuo coricarti e nel tuo alzarti» ha usato una frase iperbolica[213] per esortare di aver sempre presente alla mente i comandi di Jahveh. Ma i talmudisti, prendendo alla lettera lʼespressione nel coricarti e nellʼalzarti, hanno imposto lʼobbligo di recitare la mattina e la sera questo breve paragrafo della Scrittura (v. 4–9) e gli altri due del Deuteronomio xi, 13–21, e del Numeri xv, 37–41.[295] Così pure il deuteronomista con le frasi «le legherai per segno sulla tua mano, e saranno per benda fra i tuoi occhi (cfr. Esodo, xiii, 9–16), e le scriverai sugli stipiti della tua casa e nelle tue porte» ha usato delle metafore per esprimere lo stesso pensiero di tenere fortemente e di continuo impresso ciò che Dio comandava. E anche qui i talmudisti, prendendo le parole alla lettera hanno trovato il precetto delle filatterie, Tefilin, (cfr. Matteo, xxiii, 5) che sono piccoli cubi vuoti di cuojo con base quadrata alquanto più larga, dentro i quali in pergamena sono scritti quattro paragrafi del Pentateuco, e dai quali pendono delle striscie parimente di cuojo, da porsi sul braccio sinistro e sulla fronte, almeno durante la recitazione della preghiera mattutina.[296] Ed hanno trovato ancora lʼaltro rito di dover porre negli stipiti delle porte della città e delle case dentro a piccoli tubi o di canna, o di vetro, o di metallo o di altra materia una pergamena, Mezuzà, che contenga i due stessi citati brevi paragrafi del Deuteronomio.[297] A queste meschinità è sceso il rituale rabbinico, e in tal modo ha fatto consistere la religione nellʼosservanza di pratiche materiali, che nulla possono dire nè al cuore nè alla mente, mentre intese nel loro vero significato queste[214] esortazioni del deuteronomista erano davvero di una religione alta e ideale.

Fra queste esortazioni che si ripetono troppo diffusamente in varia forma sino a tutto il capitolo xi primeggia quella di non adorare altri Dei; e con espressioni molto simili a quelle dello scrittore Jehovista (Esodo, xxiii, 20–33, xxxiv, 11–16), anche di non fare alcuna alleanza con i popoli primi possessori della terra promessa, ma anzi di distruggere tutti i luoghi dove essi celebravano i loro culti politeistici e atterrarne le imagini.

Questa esortazione diviene poi un preciso comando nel principio della legge (xii, 2–4); e come contrapposto al divieto di ogni culto politeistico si passa a stabilire quale debba essere la forma di quello consacrato da Jahveh.

Se nel primo codice ogni luogo si diceva atto a potervisi offerire i sacrificii (v. pag. 40), qui invece si comanda il più rigoroso accentramento per il luogo di culto che deve essere uno solo.

5.Soltanto nel luogo che Jahveh vostro Dio eleggerà fra tutte le vostre tribù, per porre colà il suo nome, per sua abitazione, ricercatelo, e andate colà. 6.E ivi porterete i vostri olocausti, e i vostri sacrifizii, e le vostre decime, e lʼofferta delle vostre mani, e i vostri voti, e le vostre oblazioni; e i primogeniti del vostro armento e del vostro gregge. 7.E mangerete colà davanti Jahveh vostro Dio, e vi rallegrerete in tutto il prodotto delle vostre mani, voi e le vostre famiglie, che Jahveh tuo Dio benedì. 8.Non farete come tutto ciò che noi facciamo qui oggi, ciascuno quello che gli piace. 9.Perchè non siete ancora venuti al riposo e alla possessione che Jahveh tuo Dio ti darà.

10.Ma quando avrete passato il Giordano, e abiterete nella terra che Jahveh vostro Dio vi fa possedere, e vi farà riposare da tutti i nemici allʼintorno, 11.e starete in sicuro, nel luogo che Jahveh vostro Dio avrà eletto per farvi abitare il suo nome porterete tutto ciò che io vi comando, i vostri olocausti, e i vostri sacrifizii, le vostre decime, e lʼofferta delle vostre mani,[215] e tutta la scelta dei vostri voti, che voterete a Jahveh. 12.E vi rallegrerete dinanzi a Jahveh vostro Dio voi e i vostri figli e le vostre figlie e i vostri servi e le vostre schiave, e il Levita che è nelle vostre città, perchè egli non ha parte e possessione con voi. 13.Riguardati dallʼoffrire i tuoi olocausti in qualunque luogo ti piaccia. 14.Ma solo nel luogo che Jahveh eleggerà in una delle tue tribù, ivi offrirai i tuoi olocausti, e ivi farai tutto ciò che io ti comando.

15.Pure a tutto piacere dellʼanimo tuo scannerai e mangerai carni, secondo la copia che Jahveh tuo Dio ti concede in tutte le tue città lʼimpuro e il puro potranno mangiarlo come capriolo e come cervo.[298] 16.Solo il sangue non mangiate, sulla terra versatelo come acqua.

17.Non potrai mangiare nella tua città, le decime del tuo grano, del tuo mosto, del tuo olio, nè i primogeniti del tuo armento e del tuo gregge, nè qualunque voto voterai, nè le offerte, nè lʼoblazione delle tue mani. 18.Ma soltanto alla presenza di Jahveh tuo Dio le mangerai, nel luogo che Jahveh tuo Dio eleggerà, tu, e tuo figlio, e tua figlia, e il tuo servo, e la tua schiava, e il Levita, che è nella tua città, e ti rallegrerai dinanzi Jahveh tuo Dio in tutto il prodotto delle tue mani. 19.Abbi riguardo di non abbandonare il Levita tutti i tuoi giorni nella tua terra.

Vedasi con quanta insistenza e ripetuta diffusione si raccomanda di non avere più di un luogo per le cerimonie del culto, e come questo precetto è posto a capo, come importantissimo, a tutte le leggi di questo codice. Ma si distingue nettamente fra le carni dei sacrifizii e quelle degli animali uccisi semplicemente per cibarsene, le quali sono permesse in qualunque luogo. Forse con questo permesso si è voluto togliere lʼantica costumanza di tenere come sacrificio ogni animale che fosse scannato anche per i bisogni della vita. Costumanza impossibile a conciliarsi con lʼaccentramento del culto in un[216] solo luogo, ma che poteva bene convenire quando da per tutto esistevano altari, e potevano ancora con poche pietre, o poche legna, o poche zolle di terra da per tutto edificarsi. E il tenere come sacrifizio ogni animale scannato per qualunque uso, la cerimonia di versarne il sangue sopra un altare, e anche di bruciarne una parte come dono al Dio era tale costumanza che bene appagava le credenze e i desiderii di gente superstiziosa. Ma, lasciato al volgo questo uso di sacrificare a capriccio, avrebbe potuto facilmente mantenere tante altre pratiche superstiziose che non si accordavano con quella pura religione che il nostro legislatore voleva insegnare. Perciò gli era dʼuopo insistere su questo punto, e togliere ogni carattere di santità agli animali uccisi per i bisogni della vita, fuori del luogo destinato al culto. E nel passo che fa seguito a quello testè tradotto si dice anche più chiaramente che nei luoghi lontani da quello eletto da Dio per celebrarvi i sacrificii potevansi pure scannare animali a piacere, e mangiarne come cibo totalmente profano, pure di astenersi dal sangue.

Il monoteismo era nella mente del deuteronomista il fondamento della religione non solo, ma anche di tutto lʼedificio sociale israelitico, e vi ritorna sopra in più modi e in più forme, perciò dopo averlo di nuovo raccomandato (xii, 29–31), stabilisce alcune leggi punitive contro chi avesse tentato dʼinfrangerlo. E prima contro il falso profeta che insegnasse di adorare altri Dei oltre Jahveh, ancorchè desse in prova del suo insegnamento dei segni o dei prodigi che si avverassero. Imperocchè la bontà della dottrina in sè considerata, e non lʼavverarsi del segno, il quale potrebbe avvenire anche accidentalmente, deve tenersi criterio[217] della veracità del profeta. Quindi ognuno che tenta dʼinsegnare erronee dottrine quasi gli fossero ispirate da Dio, è falso profeta, e come tale dalla legge condannato a morte (xiii, 2–6). Pena che secondo il Talmud in questo, come in altri casi, doveva eseguirsi con la strangolazione.[299]

In secondo luogo è condannato pure a morte, chiunque anche senza spacciarsi profeta, tentasse sedurre altri a seguire culti politeistici e idolatrici. La persona sedotta ha il dovere in tal caso di denunciare il seduttore, fosse anche suo fratello, suo figlio, o sua moglie, ed eseguendosi in questo caso la pena capitale per mezzo della lapidazione, il sedotto che diveniva accusatore, doveva essere il primo a lanciare contro il reo le pietre (v. 7–12).

In terzo luogo, quando tutta una città si fosse alienata dalla religione di Jahveh, per darsi in braccio ad altra, tutti gli abitanti dovevano essere uccisi, e la città con tutto ciò che conteneva data alle fiamme con proibizione assoluta di salvarne alcuna cosa (v. 13–19).

I talmudisti vollero in parte mitigare la troppa crudeltà di questʼultima legge, ponendovi molte limitazioni. In prima per condannare tutta una città come rea di politeismo o dʼidolatria si richiedeva che vi fossero dei seduttori, i quali lʼavessero a ciò indotta; che i seduttori fossero o della stessa città o della stessa tribù; che fossero più dʼuno, e adulti di sesso maschile.

In secondo luogo non avrebbe potuto mai a tale giudicio sottoporsi nè la città di Gerusalemme, nè alcuna[218] di quelle che trovavansi sui confini, perchè quella era città destinata non tanto allʼabitazione quanto allʼesercizio del culto, e queste erano secondo i talmudisti escluse dallʼespressione della legge che diceva «in mezzo a te», dunque le città poste nellʼinterno, e non quelle del confine. Alla quale ragione ne è aggiunta anche unʼaltra più razionale, cioè, per non togliere le città che servivano di difesa contro i popoli vicini.

In terzo luogo era necessario che cedesse alla seduzione la maggior parte dei cittadini. Per ultimo questo giudicio non avrebbe potuto pronunziarsi se non dal grande Sinedrio che risiedeva nella capitale, nè uno stesso tribunale avrebbe potuto mai pronunziare più che due di siffatte sentenze, eccetto che non si trattasse di città poste in provincie diverse e lontane fra loro come la Giudea e la Galilea.[300]

Come conseguenza del monoteismo e di essere amati da Jahveh quai figli, viene imposto, come già abbiamo veduto nel cap. xix del Levitico (pag. 183, 189), di non abbandonarsi a eccessive disperazioni nel dolore per la morte di qualche persona fino al punto dʼincrudelire contro il proprio corpo. Questa costumanza è proibita come barbara e superstiziosa, e indegna quindi di un popolo che doveva vivere secondo certe norme di santità (xiv, 1–2).

Queste vengono poi con ogni particolare fissate rispetto ai generi di cibi permessi e proibiti come puri o impuri (v. 3–21). Del quale argomento però[219] è stato già sopra discorso, parlando del luogo del Levitico a questo parallelo (pag. 166–69).

Già nel primo codice era stato fatto un cenno sullʼobbligo di offrire le primizie e i primogeniti (Esodo, xxii, 28, 29). Il deuteronomista tratta con alquanta più estensione questo stesso punto in due luoghi poco distanti (xiv, 22–29, xv, 19–23), che qui riuniamo per non tornarvi sopra due volte. Ma oltre alle primizie, il deuteronomista stabilisce ancora lʼobbligo della decima. La quale non costituiva secondo questa legge una rendita sacerdotale, ma soltanto doveva prelevarsi dai proprietarii per godersela come cosa sacra ogni anno nel luogo prescritto a centro del culto, e lo stesso doveva farsi dei primogeniti degli animali; dando parte però della decima e dei primogeniti anche ai Leviti che si trovavano nelle diverse città, perchè non avevano possesso territoriale al pari degli altri.

Ogni tre anni poi la decima doveva lasciarsi totalmente a benefizio dei Leviti e dei poveri.

Questa caritatevole istituzione conduceva naturalmente il deuteronomista a trattare di due altre leggi già imposte dal primo codice, cioè dellʼanno settimo, e della liberazione degli schiavi. Ma del primo nellʼEsodo era stato dato un sol cenno (xxiii, 10–11) rispetto allʼobbligo di lasciare i prodotti dei campi a vantaggio dei poveri. Qui con intendimento anche più umano si comanda di rimettere ai poveri ogni settimo anno tutti i loro debiti, facendo una distinzione fra lʼIsraelita e lo straniero, giacchè da questo in ogni tempo il debito era esigibile (xv, 1–3).

Si disputa peraltro fra glʼinterpetri in qual modo debba intendersi questa remissione dei debiti, se era[220] assoluta, nel senso che, scorso lʼultimo anno di ogni settennio, ogni credito si teneva estinto; oppure se solo durante il settimo anno non potevano i crediti esigersi, ma, passato questo, il creditore riacquistava ogni suo diritto. La maggior parte dei moderni seguono la seconda opinione, ma diciamo il vero che non possiamo ad essi assentire, e ci sembra che in questo caso i talmudisti, e quelli che con loro concordano diano la retta interpretazione.

In prima la lettera del testo non ammette che si tratti di raccomandare una mitezza temporanea per non esigere i crediti solo durante il settimo anno; perchè, se si trattasse solo di aspettare un anno di più a poter far valere i propri diritti contro il debitore, davvero che le espressioni del testo che qui diamo tradotte sarebbero inesplicabili.

1. 2.Al termine di sette anni farai remissione. E questo è il significato della remissione: rimetta ogni creditore il suo che avrà prestato al suo compagno, non esiga dal suo compagno, dal suo fratello, perchè si bandì la remissione di Jahveh. 3.Dallo straniero potrai esigere, e quello che sarà di tuo presso il tuo fratello rilasciaglielo. 4.Pure non vi sarà in te povero, chè Jahveh ti benedirà nella terra che Jahveh tuo Dio da a te in eredità per possederla; 5.semprechè tu ascolti la voce dellʼEterno tuo Dio per osservare e per eseguire tutti i comandamenti che io ti comando oggi; 6.perchè Jahveh tuo Dio ti benedirà, come disse a te; e presterai a molte nazioni, e tu non prenderai in prestito, e dominerai molte nazioni, e sopra te non domineranno.

7.Ma quando sarà, in te qualche povero, alcuno dei tuoi fratelli, in una delle tue città nel tuo paese che Jahveh tuo Dio diede a te, non indurire il tuo cuore, e non chiudere la tua mano al tuo fratello povero. 8.Ma anzi glie lʼaprirai, e gli darai in prestito, quanto basti al suo bisogno, ciò che gli manca. 9.Guardati che non sia pensiero malvagio nel tuo cuore, dicendo: è vicino lʼanno settimo, lʼanno della remissione; e che non sia maligno il tuo occhio contro il tuo fratello, sicchè tu non gli dia, e invocherebbe contro di te Jahveh, e sarebbe in te peccato.[221] 10.Gli darai, e non si dolga il tuo cuore nel dargli; perchè per cagione di ciò ti benedirà Jahveh tuo Dio in tutte le tue opere, e in tutto il prodotto delle tue mani. 11.Perchè non mancherà qualche povero nel paese; perciò io ti comando con dire: apri la tua mano al tuo fratello meschino e povero che sia nella tua terra.

Quando un testo parla così chiaro come questo, non è lecito in conseguenza di argomenti, che potranno essere più o meno logici, interpretarlo differentemente da ciò che vi si legge. Se una qualunque istituzione legislativa è chiara in ciò che ha voluto stabilire, sembri pure a noi assurda, e ne discendano pure le più perniciose conseguenze, non è permesso però intenderla in modo diverso. Per noi la prima regola di ermeneutica è questa: intendere i testi nel loro significato letterale. Se questo presenta anche un senso assurdo, se ne derivano conseguenze poco accettabili, tanto peggio per lʼautore, ma lʼinterprete deve dire: chi ha scritto, ha scritto unʼassurdità, ma lʼha scritta. In fatto poi di leggi, sono forse tutte buone, tutte ragionevoli, tutte giuste quelle che sono state istituite presso i varii popoli da permetterci di dare a una legge un significato diverso da quello che il letterale ne porge, per la speciosa ragione che questo conterrebbe unʼassurdità? Se siffatto criterio interpretativo fosse vero, coloro che questo tempo chiameranno antico dovranno dare tuttʼaltro significato a tante leggi assurde, ingiuste, mostruose che si istituiscono da certe assemblee costituzionali; eppure ne siamo noi i testimoni. Come non sarebbe buon criterio interpretativo in letteratura quello che si lasciasse guidare da sole regole estetiche per concludere che un grande autore non potrebbe avere usato di un modo, o di una imagine che a quelle non si uniformasse.[222] Anche Dante, anche Shakespeare, anche Goethe avranno nei loro scritti qualche cosa di non bello, e anzi, se vogliamo, di assolutamente brutto. Ma ragionerebbe male chi dicesse: ciò è brutto, dunque un grande autore non può averlo scritto. No, è da vedersi prima con altri criterii se veramente ciò appartiene a quel dato autore, è da intendersi prima in sè il vero significato letterale; ma stabilita lʼautenticità da un lato, la vera interpretazione dallʼaltro, il brutto in arte, lʼassurdo nella scienza non saranno mai ragione sufficiente per escludere che una data cosa non sia stata scritta o pensata.

Nel caso nostro poi non ci sembra nemmeno che da questa legge, interpretata come noi sosteniamo che debba essere, ne derivino conseguenze assurde e dannose.

Esaminiamo le ragioni di chi vuole intendere in modo diverso. Dicesi in primo luogo che, ordinando ogni sette anni la remissione dei debiti, si sarebbe preclusa la via a ogni prestazione, perchè chiunque vi si sarebbe rifiutato.

In secondo luogo che la legge sarebbe stata dannosa, perchè avrebbe dato troppo buon giuoco alla infingardaggine, facendo del chiedere a prestanza un mestiere troppo facilmente lucroso.

In terzo luogo, che rimettendosi ogni sette anni interamente i debiti, non si sa comprendere come si sarebbe potuto dare il caso pure previsto dalla legge che qualcheduno per povertà si vendesse schiavo.

In ultimo che malamente questa legge si accorderebbe con lʼaltra che permette di tenere servo fino al giubileo colui che fosse venduto schiavo per povertà.[223] Ma queste obbiezioni sono tratte in parte da non aver distinto ciò che in questa legge è obbligatorio da ciò che è semplicemente esortativo come precetto morale, e in parte dallʼavere considerato come appartenenti a un sol codice quelle che sono leggi di diversi autori e di varie età.

La legge è obbligatoria soltanto per il contenuto dei primi tre versi dove si comanda di rilasciare il debito, ma non obbliga nessuno a prestare. Esorta quindi ad essere generosi, ma soltanto verso il povero, verso quello che ha vero bisogno, non verso colui che si abbandoni al vizio o alla infingardaggine, e da una legge dettata solo per umanità voglia trarre profitto per fare il cavaliere dʼindustria.

E la prima obbiezione che se la remissione dei debiti avesse dovuto essere assoluta difficilmente si sarebbero trovati prestatori, è prevenuta nello stesso testo al v. 9, esortando a non negare la prestazione perchè si avvicinava lʼanno settimo. Esortazione che non avrebbe senso, se si fosse trattato della sola dilazione di un anno, perchè questa si presentava ad ognuno come poco dannosa, e in ispecie ai ricchi che più erano in grado di poter dare in prestito. Perciò bene argomentano lʼHupfeld[301] il Bunsen e lʼHerxheimer[302] quando da questo verso concludono che si tratti dʼintiera remissione del credito. Non ha nulla poi che fare la remissione dei debiti ogni sette anni col caso di vendersi schiavo per povertà. Perchè durante il settennio poteva alcuno trovarsi ridotto a tale stato di miseria da costringerlo a rinunziare temporaneamente[224] alla propria libertà. E se nei libri storici si fa menzione del diritto del creditore sulla persona del debitore (2o Re, iv, 1), è da credersi che appunto le leggi del Deuteronomio abbiano voluto mitigare una così crudele costumanza. Per ultimo niuna obbiezione contro al modo dʼinterpretare questa legge deuteronomica si può desumere da quelle del Levitico, perchè appartengono del tutto a un altro ciclo legislativo.

Quale ragione poi si adduce perchè nellʼanno settimo si sarebbe dovuta usare tale concessione di non esigere durante quello i crediti? Perchè, si dice, nellʼanno settimo non si coltivavano le terre, e i poveri si trovavano a peggiore partito; ma incominciato il nuovo settennio, tutti i lavori si riprendevano, e i creditori potevano di nuovo farsi pagare. Questa ragione può avere qualche valore per coloro che ammettono che il deuteronomista conoscesse questa istituzione del riposo dei campi nel così detto anno sabbatico. Ma per tutti coloro che interpretano collʼHupfeld il passo dellʼEsodo (xxiii, 11) come anche da noi fu sopra inteso (pag. 133 e segg.), e che tengono la legge del Levitico (xxv) posteriore al deuteronomista, lʼallegata ragione non può in alcun modo esistere; anzi nellʼanno settimo i poveri si trovavano a miglior partito, perchè la coltivazione della terra non cessava, ed era lasciata a lor profitto buona parte dei raccolti.

Invece, secondo la nostra interpretazione, va bene che una legge altamente umana e caritatevole come è tutta quella del Deuteronomio, abbia voluto che al termine di ogni settennio venisse alle classi meno agiate un maggiore vantaggio, rimettendo ad esse ogni debito che fosse stato contratto per cagione di vera indigenza. Era questa una vera seisachtheia non istituita[225] una sol volta come quella attribuita a Solone, ma che periodicamente si rinnovava. La quale istituzione può sembrare contraria a ogni buon ordine sociale, se la poniamo in relazione col nostro modo di vivere, da troppo lungo tempo ormai retto economicamente sulle industrie e sul commercio, il cui fondamento principale è il credito. Non così era però nellʼantico popolo ebreo, la cui vita si alimentava principalmente con la pastorizia e con lʼagricoltura. Chi in tale società era costretto a ricorrere a una prestazione non lo faceva nè per alimentare un commercio, nè per dar vita a unʼimpresa industriale; ma per provvedere ai più stringenti bisogni. Era dunque una istituzione tutta diretta a favore dei poveri, verso i quali la legislazione ebraica si mostra così benigna, tanto più che era ristretta ai poveri soltanto che appartenessero al popolo ebreo. Il quale nella mente dei profeti e dei diversi legislatori, che fondarono successivamente le israelitiche istituzioni, doveva formare piuttosto che un popolo una sola famiglia, i cui individui sono obbligati a soccorrersi lʼun lʼaltro, e provvedere allʼindigente fra essi almeno gli alimenti.

Non era un comunismo, nel quale lo Stato assorbirebbe e distruggerebbe lʼindividuo. Ma quella forma di socialismo, che è forse la sola possibile e la sola veramente utile nella pratica, cioè: lʼobbligo alle classi abbienti di soccorrere in modo efficace i derelitti dalla fortuna. Nè questo sistema così umano si fondò nel popolo ebreo tutto di un sol getto, anzi è facile vedere come si andò successivamente formando. Nel primo codice sʼimpone di prestare al povero senza usura, di non ritenere in pegno gli oggetti più necessarii alla vita, e di rilasciargli ogni sette anni[226] parte dei rurali prodotti. Nel Deuteronomio si fa un gran passo di più, si comanda che ogni sette anni si rimettano dai ricchi i crediti verso i poveri. La quale istituzione non è da credersi che fosse stabilita, se le condizioni sociali non lo avessero altamente richiesto. E siccome la legislazione deuteronomica, non è anteriore al regno di Josia, abbiamo le predicazioni dei profeti dellʼottavo e settimo secolo, che spesso si scagliano contro le oppressioni esercitate dai ricchi e dai potenti contro i poveri. Dimodochè la remissione dei debiti era una vera giustizia, che ai non abbienti la legge concedeva. Si osservi poi che la perdita di certi crediti presso un popolo pastore e agricolo non poteva esser tale da cagionare grave danno ai creditori. Che se ciò avessero pensato coloro che intendono la legge nel senso di una temporanea dilazione, non avrebbero trovato tante difficoltà ad ammetterla invece, come suona la lettera del testo, nel senso di una periodica totale remissione dei crediti.

Vediamo ora con quali sapienti restrizioni intesero questa legge i talmudisti. Ammisero in prima che contro lʼeffetto dellʼanno settimo valesse il patto esplicito, col quale il debitore si obbligasse verso il creditore a non farsi in quello rimettere il debito. In ogni modo poi la remissione dei debiti, sarebbe avvenuta soltanto per le prestazioni, non per ciò che i negozianti o i bottegai dessero a credenza nel loro commercio, non per il salario dovuto ai mercenarii, non per le multe giuridiche,[303] e non per la dote che il marito dovesse alla donna ripudiata.[304] E anche i prestiti non sʼintendevano[227] rimessi se contratti con pegno, per quella parte del prestito che fosse dal pegno coperta, e nemmeno quando prima dellʼanno sabbatico un contratto di mutuo fosse dal creditore prodotto allʼautorità giuridica, acciocchè questa ne procurasse lʼesazione. Per ultimo la remissione dei crediti non avveniva secondo i talmudisti se non allo spirare dellʼanno settimo. Dimodochè durante tutto il corso di questo ogni credito era esigibile.[305]

Siffatte restrizioni furono certo in gran parte introdotte per le mutate condizioni dei tempi; ma che anche in origine la legge mirasse alle sole prestazioni fatte ai poveri, e non ad ogni genere di credito ci pare ragionevole di doverlo ammettere.

È celebre poi nella legislazione talmudica lʼistituzione dʼHillel, il quale, quando vide che la remissione dei debiti a ogni settennio era cagione che molti non facessero più alcuna prestazione, stabilì che mediante una protesta dinanzi allʼautorità giudiziaria i creditori potessero dichiarare di esigere ogni loro credito in qualunque tempo fosse loro piaciuto;[306] e in tal modo si rendeva irrito ogni effetto dellʼanno sabbatico. Questa protesta però doveva essere posteriore alla prestazione, e posare quasi come un atto ipotecario sopra un fondo del debitore, ancorchè questo fosse già ad altri ipotecato, o di valore di gran lunga insufficiente a coprire il debito. Dimodochè questo fondarsi della protesta sopra un bene immobile diveniva una mera finzione legale.

[228]

Fa onore finalmente su questo punto alla morale talmudica lʼavere i rabbini a chiare note espresso che sarebbe da essi altamente approvato quel debitore, che non si fosse prevalso del vantaggio che gli accordava lʼanno settimo, e avesse soddisfatto al suo creditore.[307]

Queste leggi a vantaggio dei poveri dovevano alla mente del Deuteronomista far pensare allo schiavo ebreo, il quale come già abbiamo veduto non poteva essere ridotto a tale condizione se non dalla povertà.

Il nostro legislatore non distingue come quello del primo codice fra lo schiavo e la schiava, e pare che indifferentemente per lʼuno e per lʼaltra stabilisca che al settimo anno debbano riacquistare la libertà. Non è da credersi però che abbia voluto abolire i maggiori vantaggi che la più antica legge aveva stabilito a pro della donna. È ragionevole anzi supporre che, tacendone, abbia inteso, rispetto ad essi, alla medesima legge riferirsi. Del resto è anche qui concesso allo schiavo di rimanere volontariamente per tutta la vita in istato di servitù, sottoponendolo alla formalità di avere forato lʼorecchio, come già abbiamo veduto, (pag. 90, 94 e seg.). Ma il Deuteronomista ispirato sempre dalla stessa umanità esorta il padrone a non lasciare andar via il servo dalla propria casa privo di tutto il bisognevole, ed anzi di fargli dei doni in bestiami, in grano, in vino e in olio, secondo che ognuno meglio poteva. Perchè altrimenti quale sarebbe stata la condizione di quei poveretti che, liberi dalla schiavitù, si sarebbero trovati oppressi dalla miseria? Ma invece[229] con qualche elargizione usatagli dal padrone avrebbero avuto un poco di tempo per poter provvedere a loro stessi.

Il nostro autore guidato da quella associazione delle idee, che sui Semiti più di ogni altra regola prevale nella distribuzione dei loro scritti, aveva interrotto con queste leggi per i poveri ciò che aveva da dire sui primogeniti, che ora ripiglia in fine del capitolo xv; e siccome stabilisce che i primogeniti dovevano essere goduti annualmente dai proprietarii nel luogo che sarebbe stato centro del culto, questo lo conduce a dire anche delle tre feste annuali, nelle quali ogni uomo adulto doveva ivi recarsi per adorare Jahveh. La prima festa cadeva nel mese di primavera, ed era la pasqua in memoria dellʼescita dallʼEgitto; la seconda quella della Pentecoste, sette settimane dopo la Pasqua; e la terza nellʼautunno quella della raccolta dei frutti, che qui per la prima volta è chiamata festa delle capanne. Denominazione facilmente spiegabile, perchè è da credersi che, celebrandosi questa festa nellʼautunno da un popolo agricolo, si festeggiasse sotto capanne o pergolati. Vedremo poi a suo luogo come in tempi posteriori siasi data a questo uso diversa origine.

Ma notiamo intanto che queste feste conservano presso il Deuteronomista, particolarmente le ultime due, la loro primitiva indole rurale. Soltanto mentre il primo codice, e le aggiunte jehovistiche non avevano stabilito la durata della festa autunnale, il Deuteronomista la determina in sette giorni, lasciando indeterminata quella della Pentecoste. E sempre col solito umano intendimento raccomanda di non dimenticare in queste feste nè i Leviti, nè gli stranieri, nè gli orfani,[230] nè le vedove, ma di sovvenirli, perchè della festa comune possano tutti godere.

Pare che il nostro legislatore pensasse di avere qui finito ciò che concerneva il culto e i riti di purità, o in genere le leggi religiose, interrotte però come abbiamo visto da qualche altro argomento, e passa quindi alle leggi civili. Ma con uno scrittore semita non vi è molto da contare sopra unʼesatta divisione logica dei pensieri, e lo vedremo più presto e più spesso che non si crede far ritorno a precetti religiosi, e a riti di culto.

Ad ogni modo come primo fondamento del viver civile sʼimpone lʼobbligo dʼistituire in ogni città giudici che giudicassero, ed esecutori della legge. Si raccomanda quindi di amministrare rettamente la giustizia, senza portare rispetto a nessuno, e senza lasciarsi corrompere per denaro (xvi, 18–20).

Ma non vien data alcuna più precisa determinazione intorno al modo come doveva costituirsi il potere giudiziario, nè intorno allʼautorità di cui questo era rivestito. Secondo una più antica legge accolta dal Jehovista nel suo scritto abbiamo già veduto (pag. 145) che il popolo agli effetti giuridici era diviso in migliaia, centurie, cinquantine e decurie, a capo di ognuna delle quali erano costituiti dei giudici. Ma qui il Deuteronomista parla invece di città, divisione che si adatta molto meglio ad una condizione più avanzata dʼincivilimento.

Non dando egli però più precise indicazioni, è forza supporre che su questo punto si riferisse a istituzioni già da lungo tempo per consuetudine vigenti. Nè la storia cʼillumina intorno a ciò meglio che facciano[231] le istituzioni legislative, perchè pochi fatti troviamo narrati, dai quali possiamo dedurre quale fosse veramente la costituzione giuridica del popolo ebreo, e per di più appariscono non molto concordi. Durante tutta lʼetà in cui il sommo potere, se non sopra tutta il popolo, almeno sopra alcune tribù fu esercitato da quei capi, più o meno elettivi, conosciuti sotto il nome di Giudici, pare che il potere giuridico fosse tenuto come il più importante fra quelli loro affidati, e che perciò fosse loro dato quel titolo.

Difatti per la maggior parte di questi capi troviamo usata per indicare il loro potere la frase «giudicò Israele». Qualche cosa di più determinato ci vien detto intorno a Samuele, quando si narra che andasse attorno ogni anno nelle diverse principali città per giudicare il popolo (1o Sam., vii, 15–17). Lo che basterebbe a provare che la legge deuteronomica di dovere istituire giudici in ogni città certo a quel tempo non esisteva; perchè se vi fossero stati giudici locali, il giro annuale di Samuele allo scopo di giudicare sarebbe stato inutile. Sotto il governo dei re le indicazioni che ci danno su questo punto i libri storici sono scarsissime; ma da un lato, le parole del popolo a Samuele «poni sopra noi un re per giudicarci» (1o Sam., viii, 5), certi fatti della vita di David (2o Sam., xiv, 1–11, xv, 1–6), il celebre giudizio di Salomone (1o Re, iii, 16–28), e il presentarsi di una vedova al re Jehoram per chiedere giustizia (2o Re, vi, 26–31), ci farebbero credere che il potere giuridico fosse esercitato dal re; dallʼaltro, il fatta di Naboth, per disfarsi del quale la regina Jezabele moglie del re Achab ha bisogno di ricorrere allʼautorità degli anziani, e far pronunziare da questi una ingiusta[232] condanna (1o Re, xxi, 1–13), farebbe supporre al contrario che lʼesercizio del potere giudiziario non fosse nel monarca.

È dʼuopo dire però che nelle narrazioni dei libri dei Re troppo la parte leggendaria si è mista a quella storica, e molto spesso gli scrittori, o i compilatori certo posteriori ai fatti che narrano, vi hanno introdotto degli elementi che solo convenivano alla loro età, e non a quella delle persone di cui intendevano esporre la storia. Dimodochè non possiamo trarre da queste narrazioni certi argomenti, tanto più quando accade, come vediamo in questo caso, che siano contradittorii.

Se si potesse poi accettare tutto quello che è narrato nei libri delle Croniche vi si troverebbe in prima che David aveva eletto fra i Leviti quelli che dovevano officiare come giudici ed ufficiali della giustizia (1o Cron. xxiii, 6); ma lo stesso numero di 6000, che ivi è indicato, non pare esorbitante e quasi impossibile? tanto che non si può a questa indicazione prestar fede, e pare invece che debba tenersi una di quelle cose che il cronista ha narrato per seguire quella tendenza teocratica e sacerdotale che lo ispirava. Più credibile è lʼaltra notizia, che egli ci fornisce, che il re Jehoshafat avesse istituito giudici in tutte le città della Giudea, e quasi un tribunale supremo in Gerusalemme. (2o Croniche, xix, 5–11). Istituzione che sarebbe stata inutile, se già vi avesse provveduto il re David. Dimodochè le due narrazioni difficilmente sono conciliabili, ma fra le due ne sembra più accettabile la seconda. Ad ogni modo tutte queste indicazioni non sono tali da pienamente appagare.

Però la stessa legge deuteronomica in altro paragrafo che a poca distanza segue quello testè esposto[233] (xvii, 8–12) ci fa sapere che nella città destinata come centro del culto esisteva un sommo potere giudiziario, al quale tutti i tribunali delle altre città dovevano riferirsi per tutte le quistioni sì civili come criminali, le quali superassero la loro capacità. Ma anche su questo punto troviamo nel testo biblico molta indeterminazione. Quale era, si domanda in prima, questo tribunale supremo, cui dovevasi ricorrere nei casi più difficili? Il testo dice nei termini più generali: «Andrai ai sacerdoti leviti e al giudice che sarà in quei tempi» (v. 9). Dunque troviamo qui nominate due autorità distinte, i sacerdoti e il giudice. Distinzione anche più chiaramente affermata nel v. 12 dove leggesi: «Lʼuomo che operasse con orgoglio per non dare ascolto al sacerdote che starà ad officiare colà presso Jahveh tuo Dio, o al giudice, quellʼuomo morrà». Non è chiaro in secondo luogo, se questo riferirsi allʼautorità centrale era come ad autorità giuridica, o come ad autorità docente; imperocchè il testo accenna ad ambedue, parla di legge che lʼautorità centrale avrebbe insegnata, e di giudicio che avrebbe pronunciato (v. 10, 11).

Ma forse su questo punto può dirsi che i sacerdoti come depositarii e interpreti della legge erano lʼautorità docente, che aveva diritto e dovere nel medesimo tempo di porre in chiaro e meglio spiegare ciò che agli altri rimanesse oscuro e dubbioso. E i giudici poi del luogo centrale avevano autorità giuridica per sentenziare quello che superasse la competenza degli altri tribunali. Non si può pensare che presso i soli sacerdoti risiedesse lʼautorità giudiziaria, perchè gli vediamo distinti dai giudici.

E quando gli troviamo nel capitolo xxi, 5 a lato[234] degli anziani della città, conviene ben dire che questi funzionassero come giudici, e i sacerdoti come dottori della legge. Istituzione forse affine in questo punto a quella degli Ulema presso i Maomettani.

E finalmente non è molto strano lo stabilire la competenza del magistrato a seconda della sua capacità? E chi avrebbe potuto di questa farsi giudice? La sua propria coscienza? Ma ognun vede quali e quanti inconvenienti ne sarebbero derivati. E dallʼaltro lato ognuna delle parti contendenti non avrebbe potuto accampare contro i giudici locali, se avesse temuto di averli contrarii, questa ragione della incapacità, per appellarsi allʼautorità centrale? E come e da chi si sarebbe giudicato, se questʼappello era o no fondato sopra buone ragioni? In verità che, resi incompetenti i giudici dalla legge per sola ragione dʼincapacità, vi sarebbe da temere che i tribunali particolari delle singole città avessero ben poche volte da giudicare, ma che o lʼuna o lʼaltra delle parti nelle cause civili, e lʼaccusato in quelle criminali, chiedessero di volersi riferire alla suprema magistratura centrale.

Noi opiniamo però che questo soggetto, come in generale tutto ciò che concerne la pubblica costituzione dello Stato sia molto manchevole nelle compilazioni legislative che nel Pentateuco ci furono conservate. Difetto in parte spiegabile, perchè i legislatori e i compilatori, mirando più che altro colle loro leggi e con le loro compilazioni alla moralità della vita privata, posero per iscritto, e raccolsero soltanto quelle leggi che direttamente o indirettamente quella concerneva, lasciando poi del tutto alla consuetudine ciò che rispetto alla pubblica costituzione in questo o in quel modo trovavano stabilito. Fissarono sì anche[235] intorno a questa solo quel tanto che credettero più opportuno; ma in termini generali, i quali avevano anche il vantaggio di lasciare aperto lʼadito a modificarlo, secondo che i tempi richiedessero. Ed è senza dubbio questo uno dei punti, dove, argomentando dal silenzio della legge conservata per iscritto, non si apponevano tanto male i rabbini, sostenendo che a lato a questa esisteva anche una legge tradizionale. Concetto vero, se vuoi dirsi soltanto che molte leggi erano raccomandate più alla consuetudine, che a una scritta codificazione, e che queste appunto per ciò erano soggette a continue variazioni e modificazioni. Ma concetto falsissimo, se volesse dirsi, come hanno preteso i talmudisti, che la legge tradizionale si fosse conservata immutata e immutabile fino dai tempi più antichi, e che sia quella da essi poi raccolta nelle talmudiche compilazioni. No, queste non ci danno il rito e la legge ebraica, se non tale quale in parte era divenuta negli ultimi tempi dello Stato giudaico, e in parte quale i rabbini lʼavevano cangiata in ragione dei tempi, o ancora fantasticamente immaginavano che avesse potuto essere.

E da vedersi però ad ogni modo quale secondo il Talmud fosse la costituzione giuridica dello Stato giudaico.

I tribunali erano di tre gradi: 1o Quello che potrebbe dirsi Corte suprema di giustizia, composto di 71 magistrato residente a Gerusalemme, che chiamavasi grande Sinedrio coadiuvato nelle cause di minore importanza da altri due tribunali di 23 membri ciascuno. 2o Quelli di secondʼordine detti Sinedrii minori, composti egualmente di 23 membri, istituiti nelle città che avessero almeno 120 abitanti di sesso maschile[236] e adulti.[308] Il grande Sinedrio era presieduto da un capo (Nasì) e da un vice presidente (Ab Beth Din).[309] I piccoli Sinedrii costituivano a loro capo quello che fra essi era il più ragguardevole.[310] 3o I tribunali inferiori, composti di tre soli individui.[311]

Il nome di Sinedrio dato ai tribunali di primo e di secondo ordine mostra quanto questa istituzione fosse recente, e certo non anteriore alla dominazione greca nella Siria.

Rispetto alla idoneità personale si distingueva in prima fra i Sinedrii e i tribunali di terzʼordine. Per quelli si richiedeva di essere di nascita ingenua,[312] e si procurava che ai laici fosse unito un certo numero della tribù sacerdotale, sebbene ciò non fosse necessariamente richiesto, e anche un Sinedrio tutto di laici fosse competentissimo per qualunque genere di giudizio.[313]

Le sole qualità personali richieste erano sapienza e virtù, ma si voleva ancora che avessero tale aspetto fisico da incutere più facilmente rispetto.[314] Erano inoltre esclusi quelli di vecchiezza troppo avanzata, gli eunuchi, quelli che non avevano prole, e i ciechi.[315] I tribunali poi di terzʼordine potevano comporsi anche di chi non fosse per nascita ingenuo;[316] ma anche da questi erano esclusi quelli che per professione erano giocatori di dadi, o ammaestratori dʼuccelli, gli usurai,[237] e quelli che nellʼanno sabbatico facessero commercio di derrate.[317] Sʼintende poi che in ogni giudicio si escludevano i prossimi congiunti di una delle parti o degli accusati.[318] Soleva farsi un tirocinio per imparare a poco a poco la legge e la procedura. Giacchè presso i Sinedrii stavano sempre degli apprendisti distribuiti in tre classi, dalle quali si riempivano i posti a mano a mano vacanti, tenendo conto nel medesimo tempo della anzianità e della perizia.[319] Come pure il sommo Sinedrio esercitava una specie di sindacato sui tribunali inferiori per esaminare se i componenti di essi fossero idonei; e solevasi dalla magistratura locale di grado in grado promuovere ai due Sinedrii inferiori di Gerusalemme, e da questo a quello superiore.[320]

La elezione a magistrato si faceva per mezzo delle imposizioni delle mani da chi avesse ricevuto da un altro questa medesima dichiarazione dʼidoneità, e bastava anche senza la materiale imposizione delle mani che fosse dato il titolo di Rabbì.[321]

Per altro nelle cause di minore importanza era competente a giudicare anche un tribunale i cui magistrati non fossero stati dichiarati idonei con questa formalità.

Ed eccoci alla questione di competenza che i talmudisti definirono con piena determinazione, e non lasciarono in quella incertezza che abbiamo veduto nel testo della scrittura.

Di sola competenza del sommo Sinedrio residente in Gerusalemme erano lʼelezione del re, lʼelezione dei[238] Sinedrii di secondʼordine, la dichiarazione di guerra contro i popoli non indigeni della Palestina, le condanne capitali di una tribù o di una città convertita ad altra religione, come pure del sommo sacerdote, o di un profeta falso, o di un giudice ribelle e pervicace contro le decisioni della legge, il sottoporre alla prova delle acque miracolose la donna sospetta di adulterio, e lʼampliamento della città di Gerusalemme o degli atrii del tempio destinati ad accogliere il popolo che voleva assistere alle ceremonie rituali. Tutte le altre cause di pena capitale erano di speciale competenza dei Sinedrii di secondʼordine. Ai tribunali di terzʼordine rimanevano tutte le cause civili, e quelle penali di multa o di fustigazione.[322] Però queste potevano giudicarsi da soli magistrati, la cui idoneità fosse dichiarata con la formalità della imposizione delle mani, quelle civili anche da qualunque magistrato.[323]

Per il sacrificio espiatorio imposto dalla legge agli abitanti della città più vicina al luogo dove si trovasse un cadavere di un ucciso, quando non si scoprisse lʼomicida, si richiedeva un tribunale di cinque membri.[324] E finalmente per dichiarare quando nellʼanno dovesse interporsi il tredicesimo mese intercalare, per ristabilire la coincidenza dellʼanno lunare con quello solare, si preferiva che la decisione fosse data da sette dottori, sebbene a fatto compiuto anche da soli tre fosse valida.[325]

[239]

Ad ogni seduta dei Sinedrii assistevano due scribi per compilare i processi verbali,[326] e oltre i giudici dovevano in ogni città esservi gli ufficiali della giustizia per fare eseguire le sentenze che da essi fossero pronunziate. Questo significato dà il Talmud alla parola Shoterim del testo, e ci pare che in questo caso rettamente si apponga. Altri in questo nome, vogliono trovare indicati soltanto gli scribi. Ma sebbene questo nome derivi dalla radice verbale Shatar che significa in origine incidere, quindi scrivere, pure acquistò presto un significato più esteso per indicare in genere tutti gli officiali pubblici, e in questo senso ci sembra che sia usato anche in altro luogo del Deuteronomio (XX, 5–9).[327]

Queste leggi intorno al potere giudiziario che noi abbiamo insieme esposto ed esaminato per non interrompere il nesso logico dei pensieri, sono però nel testo interrotte da altre leggi rispetto al culto e al politeismo.

Dopo i primi tre versi (xvi, 18–20) che impongono il dovere di istituire magistrati e officiali di giustizia, anzichè continuare lo stesso argomento che si riprende invece al v. 8 del cap. xvii, i vv. 21–22 del capitolo xvi comandano di non porre alcuna Asherà[328] presso lʼaltare di Jahveh, nè di erigere alcunʼaltra immagine idolatrica.

Il cap. xvii nel primo verso proibisce di sacrificare a Jahveh alcun animale difettoso. Precetto qui enunciato solo in termini generali, e di cui si diede poi nel codice sacerdotale più particolare specificazione.

[240]

Finalmente con altra legge (v. 2–7) si stabilisce la pena della lapidazione per chi adorasse altri Dei oltre Jahveh. La condanna non poteva però pronunziarsi, se non dopo aver bene provato la verità del fatto per deposizione almeno di due testimoni. I quali dovevano essere i primi ad eseguire la condanna sulla persona dellʼaccusato. Istituzione che certo mirava a rendere più cauto ognuno prima di farsi accusatore di una colpa, che portava seco tali estreme conseguenze. I talmudisti poi hanno circondato la legge anche di maggiori cautele, spingendo lʼesame dei testimoni sino ai menomi particolari, dimodochè la più piccola contraddizione fra essi, anche nei più insignificanti particolari, sarebbe bastata ad assolvere lʼaccusato.[329]

Ma non è facile il dire come fra il v. 20 del capitolo xvi e il v. 8 del xvii si trovi in tal modo interrotta la sequela logica delle idee. Perchè interrompere con queste leggi di altro argomento, quelle che concernono lʼautorità giudiziaria? Si consideri il passo che sta fra mezzo come autentico, o come interpolazione di altra mano, la difficoltà a noi pare che sempre esista. Imperocchè nella prima ipotesi si può a ragione domandare: perchè lʼautore ha così interrotto il corso naturale dei suoi pensieri? E nella seconda non si potrà dare ragione sufficiente, perchè un compilatore abbia scelto giusto questo luogo per inserire tale aggiunta. La quale, per ciò che riguarda la proibizione dellʼAsherà e di altre imagini, avrebbe trovato bene il suo luogo fra il v. 4 e 5 del capitolo xii; per gli animali non atti al sacrifizio, nello stesso capitolo[241] laddove parla dei sacrifizii e delle offerte; e per la condanna capitale del politeista nel capitolo xiii dove si stabiliscono leggi a questa affini.

Dimodochè senza voler dare ragione di ciò che in nessun modo ci si mostra spiegabile, è meglio riconoscere che in questo luogo, o nella primitiva composizione del Deuteronomio, o nella sua finale compilazione, è nato un disordine, di cui non possiamo dare ragione soddisfacente.[330] Disordine che dallʼaltra parte tanto più ne colpisce, in quanto che, eccetto lʼindicata interruzione dal xvi, 21 al xvii, 7, tutto questo passo dal xvi, 18 al xviii, 22, ci si mostra destinato a trattare con abbastanza nesso logico delle autorità civili e religiose dello Stato, cioè: dei giudici, del re, dei sacerdoti, e del profeta.

In quanto al re la legge pone come facoltativo nel popolo lʼeleggere o no un monarca (v. 14). E qui si allude certamente al fatto narrato nel primo libro di Samuele (viii), quando il popolo non contento della amministrazione dei figliuoli di questo profeta, gli chiede un re. Ma contro alla facoltà concessa dalla legge starebbero i rimproveri fatti da Samuele al popolo (ivi, 6–22, xii, 17), perchè è chiaro che quel profeta non avrebbe potuto dire: «è grande il male che avete fatto in presenza di Dio di domandare per voi un re», se a quei tempi fosse già esistita la legge deuteronomica che lo avesse permesso. Dunque certamente questa legge è posteriore almeno allʼetà di Samuele. Dopo la concessione di potere eleggere un monarca, la legge stabilisce che debba essere Israelita,[242] non di altro popolo, e in certo modo ne rimette la elezione al potere teocratico, dicendo che doveva essere scelto da Jahveh (v. 15). Difatti vediamo nella storia lʼelezione dei re avvenire per mezzo dei profeti, che si dicevano e si tenevano da Jahveh ispirati, e consacravano il re per mezzo della sacra unzione. Ma lʼelezione venne spesso alternata col diritto ereditario, che poi si volle tenere perpetuo e imperituro nella dinastia di David, la quale regnò ancora difatto senza interruzione sul piccolo regno della Giudea fino alla conquista babilonese.

Lungi dallʼessere dispotico il re aveva dei doveri; e in prima la legge glʼimpone di non alimentare molti cavalli, di non tenere molte donne, di non accumulare tesori (vv. 16, 17), nel che vi è certo allusione a ciò che nel primo libro dei Re (x, 26, xi, 1–9) viene narrato con biasimo di Salomone, come principe troppo dedito al lusso e alla voluttà. Inoltre al re viene imposto di trascriversi una copia della legge, per la quale deve intendersi soltanto quella del Deuteronomio[331] e di tenerla presso di sè, per essere in grado di conoscerla e di osservarla, in conseguenza di che non avrebbe trattato con altera tirannia quelli che doveva tenere non tanto suoi sudditi quanto suoi fratelli (vv. 18–20). Dunque da ciò si può argomentare che al re non fosse conceduto il potere legislativo, ma che anzi fosse tenuto ad obbedire alle leggi già stabilite.

E se la descrizione che Samuele fa al popolo delle conseguenze di un governo monarchico, farebbe supporre che si fosse trattato di un principe assoluto, e[243] quasi dispotico, fa dʼuopo intendere quelle parole non come una descrizione della realtà, ma come una pittura tinta di colori alquanto foschi per distogliere il popolo dal sottomettersi a un monarca. Dobbiamo tenere però che questo non fosse nè dispotico nè assoluto non solo per ciò che ne vien detto nella legge deuteronomica, ma anche per il fatto già sopra citato del Re Achab verso Naboth (1o Re, xxi), dal quale apparisce che lʼautorità monarchica trovava un limite nella legge, e che poteva sì corrompere lʼautorità giudiziaria, ma non di questa passarsi. Oltrechè, se prestiamo fede a Giuseppe Flavio, lʼautorità regia lungi dallʼessere assoluta, doveva nei suoi atti ottenere lʼapprovazione dei sacerdoti e dellʼadunanza dei Seniori.[332]

Dallʼaltro lato abbiamo già veduto (pag. 231 e seg.) che, se non sempre, almeno in certi casi spettava al re la suprema autorità giudiziaria, e di sicuro insieme con questa anche tutto ciò che fa parte del potere esecutivo, specialmente il dichiarare e amministrare la guerra (1o Sam., viii, 20).[333]

Si potrebbe poi da un passo del primo libro di Samuele (x, 25) con qualche probabilità arguire, che quel profeta stabilisse e scrivesse un diritto monarchico, più ampio che non questi cenni del Deuteronomio, ma è certo che questa costituzione di Samuele non è fino a noi pervenuta. Si parla ancora di patti stabiliti fra il popolo e il re, tanto allorchè le altre tribù oltre quella di Giuda riconoscono per monarca David (2o Sam., v, 3), quanto nella elezione di Joash [244]dopo la usurpazione di Atalia (2o Re, xi, 17). E certo questi patti dovevano contenere una specie di diritto regio limitato da quello del popolo. Ma nemmeno di questi patti gli scrittori biblici ci hanno fatto conoscere il contenuto. E il Deuteronomista si è dato cura, secondo il suo costume, di registrare solo quel tanto che mirava, più che ad altro, ad uno scopo religioso e morale.

Anche rispetto alle entrate del re per il mantenimento di lui, della famiglia, e della corte, inevitabile conseguenza di qualunque monarchia, la legge tace del tutto. E solo dai libri storici sappiamo che fino dai tempi di David il re possedeva tesori, campi, vigne, uliveti, albereti di altre specie, greggie, e mandrie, che pare constituissero tutti insieme i beni demaniali (1o Cron., xxvii, 25–31). In quanto poi a Salomone ci viene narrato che speciali commissari nei diversi paesi del regno fossero incaricati, a vicenda mese per mese, di provvedere al mantenimento del re e della sua casa, e sʼintende mediante tasse da prelevarsi probabilmente in natura dai paesi a cui ognuno di essi era preposto (1o Re, iv, 7–19, v, 2–3). Pare anzi che lʼeccessiva gravezza delle contribuzioni fosse la causa, dopo la morte di Salomone, per la quale dieci tribù si ribellarono al suo figliuolo Rehabamo (ivi, xii).

Tutte insieme però queste indicazioni forniteci dalla Scrittura e nella legge e nei libri storici restano sempre molto manchevoli; mentre invece nel Talmud troviamo determinato il diritto regio con molto maggiore precisione.

Si distingue in prima il re per elezione, da quello per diritto ereditario. Doveva naturalmente eleggersi il re, quando si trattò di fondare da prima la monarchia,[245] ma una volta eletto, il diritto monarchico diveniva ereditario. Lʼelezione spettava al sommo Sinedrio e al profeta del tempo,[334] giacchè secondo il concetto talmudico in ogni età vi fu almeno un profeta.

Eleggibili erano soltanto i maschi, escluse le donne dal trono anche per diritto successorio,[335] dovendosi tenere come illegale usurpazione quella di Atalia. Erano inoltre esclusi gli stranieri, ma bastava per il Talmud che fosse di origine ebrea anche uno solo dei genitori,[336] ed era pure escluso chiunque avesse esercitato un mestiere che non fosse tenuto decoroso.[337] Il diritto ereditario tanto nella dinastia di Saul, quanto nelle altre che regnarono sulla Samaria, o, dopo il ritorno dallʼesilio, sulla Giudea, è tenuto come temporaneo; mentre nella dinastia di David è tenuto perpetuo ed imperituro, e si ammette che per un certo tempo soltanto prima fosse limitato collo scisma delle dieci tribù, e poi interrotto con lʼesilio di Babilonia.[338] Lʼelezione veniva confermata per mezzo dellʼunzione, ma secondo il Talmud soltanto i re della dinastia di David vennero unti con lʼolio consacrato, quelli delle altre dinastie con un semplice olio aromatico. Nè si usava[246] la cerimonia dellʼunzione, quando si trattava dellʼinalzamento al trono per diritto ereditario, eccetto che non si fosse fatto da altri pretendenti qualche opposizione, nel qual caso la cerimonia dellʼunzione stimavasi necessaria per convalidare legalmente lʼassunzione al trono.[339]

Il più grande rispetto era imposto verso la persona del monarca,[340] e la più cieca obbedienza a qualunque dei suoi ordini, tranne che non fossero contrarii alla legge, la quale sempre e in ogni caso si teneva superiore alla volontà del re.[341] Egli doveva quindi in tutto alla legge uniformarsi, e se il Deuteronomista gli aveva imposto di scriversi una copia della legge, i rabbini vollero che ogni re ne avesse due, una per tenersi nel palazzo fra gli altri arredi reali, e lʼaltra da portarsi di continuo con sè.[342]

Le tre proibizioni fatte al re dalla legge scritturale, intorno al non prendere molte mogli, al non tenere molti cavalli, e al non accumulare tesori, furono dal Talmud meglio precisate e, quel che più importa, convalidate mediante una sanzione penale. Il numero delle donne fu fissato a diciotto, non certo esorbitante, se si pensa agli harem dei monarchi dellʼoriente.

Di cavalli poteva tenerne tanti quanti erano necessari per il suo uso, e per i carri da guerra o per la milizia, ma nemmeno uno solo a puro oggetto di lusso.

E così non poteva accumulare ricchezze per formarne tesori da tenere in serbo, ad uso privato, ma[247] solo quanto gli era necessario per lʼesercito, per i ministri e per la corte, e per le spese del culto, e dellʼamministrazione dello Stato, o della guerra.[343]

Se poi il re non si fosse uniformato a una di queste tre leggi doveva essere punito con la fustigazione.[344] E quantunque è certo che in fatto ciò non sia mai avvenuto, ed è un puro diritto ideale che i rabbini hanno immaginato, pure è bello vedere da essi stabilito un principio di così rigido rispetto alla legge, che sottopone alla stessa pena il re, come qualunque altro cittadino, che avesse infranto uno dei precetti proibitivi. Tanto più ciò sembrerà da ammirarsi, quando si rifletta che si trattava di monarchi, secondo il concetto del Talmud, di vero diritto divino, perchè eletti in origine per divina ispirazione, e per divina legge ereditarii. Sembra però che questa sanzione penale non si sarebbe potuta applicare ad altri re fuori che a quella della dinastia davidica, perchè questi potevano giudicare e comparire in giudizio, ma quelli delle altre dinastie non potevano nè lʼuna nè lʼaltra cosa.[345] Il Talmud stesso ne assegna la ragione, dicendo che quelli delle altre dinastie erano tanto altieri e dispotici, che per evitare maggiori inconvenienti era meglio tenerli come fuori della legge. E ciò è vero infatti, se si pensa particolarmente ad alcuni monarchi più vicini e anche contemporanei alle più antiche compilazioni che fanno parte del Talmud. Ma non furono monarchi tiranni e dispotici anche nella dinastia davidica? I libri dei Re e delle Croniche non lasciano su questo punto verun dubbio, dimodochè fa dʼuopo[248] riconoscere che qui come in molti altri luoghi il senso della realtà storica fece ai rabbini onninamente difetto.

Dallʼaltro lato poi era data facoltà al re per il buon ordine dello Stato di supplire con i suoi decreti alla deficienza della legge, e poteva anche mandare a morte un colpevole, quando secondo la stretta legalità non fossero concorsi gli estremi, perchè i tribunali ordinari potessero condannarlo.[346] Viceversa poi è sconosciuto del tutto nel Talmud il diritto di grazia, ed è ragionevole che fosse così, quando la legge era tenuta divina, perchè allʼesecuzione di questa non poteva porre impedimento nessuno la volontà di qualunque uomo. Mentre dallʼaltro lato poteva concedersi allʼarbitrio del re di fare qualche cosa di più oltre la stretta legalità, affinchè la legge fosse osservata; ciò che avveniva, condannando per decreto reale quel colpevole che fosse sfuggito alla pena solo per mancanza di prove legali o per irregolarità di processo. Ciò è contrario, è vero, a quel principio di maggiore mitezza, che verso i rei ha ispirato le legislazioni moderne; ma nessuno potrebbe ragionevolmente aspettarsi che i rabbini in tutto e per tutto avessero avanzato il grado di civiltà dei loro tempi.

Le rendite del monarca sarebbero state costituite dalla decima di ogni prodotto agricolo e pastorale, dal possesso di tutte le terre conquistate in guerra fuori della terra promessa, dalla metà di ogni specie di preda guerresca, e dai tributi che avrebbe avuto diritto dʼimporre secondo i bisogni dello Stato. Inoltre i talmudisti riconoscevano nel re il diritto di scegliersi[249] gli officiali sì civili che militari, come tutto il personale della sua casa per servirlo, senza che nessuno potesse rifiutarvisi.[347]

Se vogliamo finalmente dare un giudizio sopra questo diritto regio talmente costituito che vi si trovano non poche contraddizioni, dovremo dire che è una miscela di libertà e di dispotismo. Di libertà, in quanto rende il re soggetto come tutti gli altri allʼimpero della legge; di dispotismo, in quanto il diritto dellʼindividuo non era contro allʼarbitrio del monarca sufficientemente tutelato.

Dopo dei giudici e del re, il nostro legislatore passa a trattare della casta sacerdotale, non per istabilire quali ne fossero gli officii, che ciò in parte lascia al diritto consuetudinario, e in parte fa indirettamente capire da ciò che è detto qua e là per incidente, anzichè fissarlo con norme determinate e precise; ma in questo luogo (XVIII, 1–8) stabilisce quali dovevano essere le rendite di questa casta. I sacerdoti leviti non avevano, come le altre tribù, possesso di beni territoriali, e i loro proventi dovevano trarsi dai sacrifizi e da altre offerte (v. 1, 2). Per conseguenza, degli animali offerti a Dio non come olocausti, spettavano al sacerdote, la coscia, le ganasce, e il ventricolo;[348] di più le primizie del grano, del vino, dellʼolio, e della tosatura del greggie. Oltre ai sacerdoti leviti residenti nel luogo centrale del culto, il legislatore volle provvedere ai Leviti sparsi nelle altre città,[250] e concede anche ad essi gli stessi diritti, senza tener conto delle rendite private che avessero potuto avere dalla famiglia.[349]

Il ricercare poi le ragioni storiche della esclusione dei Leviti dal possesso territoriale, del come si fosse formata in seno al popolo ebreo questa casta sacerdotale, e come i Leviti oltre che nel luogo centrale del culto, fossero ancora nelle altre città dello Stato, appartiene piuttosto alla storia che allo studio della legislazione; e però qui ce ne passiamo, contando di potercene occupare in altro scritto.

Del modo poi come il Talmud stabilì le rendite sacerdotali, e pretese mettere in armonia le discordanti leggi del Pentateuco, parleremo nella esposizione del codice sacerdotale.

Finalmente fra le autorità, che o di diritto o di fatto dirigevano il popolo ebreo, il legislatore si occupa dei profeti. Già in altro apposito libro abbiamo singolarmente trattato della profezia,[350] dimodochè qui ci resta soltanto a dire del profeta in relazione con la legge. Questa del Deuteronomio al pari di altre leggi antecedenti proibisce lʼuso di qualunque arte divinatoria, come costume abbominevole da lasciarsi alle altre genti (v. 9–14). Ma per consultare e conoscere il detto divino vi sarebbero stati i profeti, alle cui parole era dovere obbedire (v. 15–19). Però il profeta scoperto falso e bugiardo, che ardisse predicare in nome di Jahveh ciò di cui non era stato ispirato, era reo di morte (v. 20–22).

[251]

La proibizione di usare delle arti divinatorie fu intesa dai rabbini con una certa larghezza, perchè vollero che non fosse in alcun modo proibito di farne studio teorico per sapere in che cosa consistessero, e per potere meglio insegnare agli altri come astenersene. Imperocchè si può per errore incappare in ciò che non si conosce, mentre si sa tenere lontano un male che ci è conosciuto. Quindi, estendendo anche più lʼinterpretazione di questo passo della Scrittura e facendone un principio generale, non proibirono i rabbini lo studio teorico delle altre religioni, ma anzi lo consigliarono, come il miglior mezzo per evitarne le pratiche.[351]

In quanto alla persona del profeta i rabbini, prendendo alla lettera le parole del v. 15 «Profeta di mezzo a te fra i tuoi fratelli, come me, farà sorgere a te Jahveh tuo Dio» stabilirono che non potesse essere profeta per glʼIsraeliti se non chi di nascita era ebreo.[352]

Il dovere di ascoltare la parola del profeta non aveva nessuna sanzione umana, ma la pena ne era lasciata alla provvidenza; come pure quella del profeta stesso che non obbedisse alla propria ispirazione, o che invece di farla palese la tenesse celata, mancando così di adempiere al suo officio.

Invece era punito colla morte mediante la strangolazione il profeta falso, cioè chi spacciasse come ispiratogli da Jahveh ciò che non gli era stato ispirato, e chi ripetesse come rivelato a lui ciò che avesse[252] udito da altro profeta, o che si dicesse inviato da altro Dio.[353]

Lʼobbligo poi di ascoltare lʼinsegnamento del profeta era solo per ciò che non fosse opposto alla legge, che anzi un insegnamento di tal genere sarebbe stato il maggiore e più certo indizio della falsità del profeta. Doveva però seguirsi un insegnamento anche contrario a qualche disposizione particolare della legge, se il profeta dichiarasse che non intendeva con esso alterare la legge nella sua essenza, ma soltanto fare adottare un provvedimento o necessario, o opportuno in certa data occasione, passata la quale, avrebbe dovuto osservarsi regolarmente la consueta disposizione legislativa.[354]

Stabilite le norme fondamentali intorno alle autorità direttive dello Stato, tanto civili quanto religiose e morali, il legislatore passa alla parte più importante del diritto privato, cioè alla tutela della vita.

Chi uccide deve essere ucciso, questo è un principio comune a molte legislazioni, e che abbiamo veduto nel codice dellʼEsodo (xxi, 12). Qui però (xix, 1–10) si determina meglio il diritto dʼasilo già da quello concesso allʼomicida involontario, e non si fa più cenno dellʼaltare come luogo dʼasilo, ma sʼimpone di scegliere tre città a tale uopo destinate per sottrarre alla vendetta dei parenti dellʼucciso lʼuccisore disgraziato e non colpevole. Nel caso poi che si estendesse la conquista a tutto il territorio promesso da Jahveh, ma non mai conquistato, invece che tre le[253] città avrebbero dovuto essere sei.[355] Però come nellʼEsodo la legge esigeva che fin anche di sopra lʼaltare si strappasse chi con premeditazione aveva ucciso un altrʼuomo (xxi, 14), così il Deuteronomista impone che gli anziani della città ritolgano il vero colpevole dal luogo di rifugio, e senza pietà lo sottopongano alla debita condanna (v. 11–13). Tanto poi era, nella legge ebraica, lʼorrore che si aveva per lʼomicidio che in qualche modo si era voluto provvedere a una espiazione, anche quando non si fosse riuscito a scoprire il colpevole. Il sangue versato grida vendetta: è questo, più che un pensiero, un sentimento, se vogliamo feroce, e che ha portato presso molti popoli, come anche oggi fra i Corsi, le più funeste conseguenze di eterni odii; ma dallʼaltro lato è pure un sentimento che vale a tener lontano dal più atroce e dal più dannoso dei delitti. E se non si può col sangue dellʼuccisore placare quello dellʼucciso, la legge ebraica aveva stabilito che trovandosi in campagna il corpo di un uomo ammazzato e non si scoprisse lʼomicida, si dovesse[254] dalla città più prossima offerire pubblicamente una giovenca come sacrificio espiatorio. Gli anziani della città dovevano portare la giovenca presso un torrente di corso continuo, il cui letto perciò non era mai atto ad essere nè seminato nè coltivato, ed ivi accopparla. Dovevano ancora accompagnare il sacrificio con una protesta di non aver avuto parte nel delitto, e di non conoscerne lʼautore, e con una preghiera a Dio di perdonare il sangue versato (xxi, 1–9).[356] Rito, se vogliamo superstizioso, come tanti altri di tal genere, ma che pure sulle menti rozze di uomini non inciviliti valeva sempre più a fare intendere, quanto preziosa sia la vita di un uomo, e come lʼomicidio richieda in tutti i modi una qualunque espiazione.

Perciò, sebbene il testo parli soltanto di un cadavere trovato nel campo (v. 1), si deve intendere che ha voluto esemplificare il caso di un omicidio, di cui è più facile rimanga sconosciuto lʼautore; ma non escludere gli altri casi congeneri, in cui si trovasse il cadavere in qualunque altro luogo, e anche dentro le mura di una città. Ma di questo la legge non ha esplicitamente parlato, perchè si supponeva che in un modo o nellʼaltro si potesse facilmente pervenire a conoscerne lʼautore. Sarebbe proprio contro allo spirito che dettava la legge volerla intendere grettamente alla lettera, e che il rito dovesse praticarsi soltanto per gli uccisi trovati in campagna.

Sembra per altro che in questʼultimo modo abbia inteso il Talmud, il quale vi portò anche altre limitazioni. La parola ebraica ḣalal usata nel testo[255] per significare ucciso, secondo il Talmud significa soltanto ucciso di ferro, e lʼaltra espressione del testo «quando si trovasse nella terra», che significa in questo luogo nel paese, fu presa in senso puerilmente letterale, e si volle che significasse doversi trovare il cadavere sulla terra, sul suolo, e non appiccato a un albero, o nascosto in un mucchio di pietre, o notante nellʼacqua. Per conseguenza in tutti questi casi il rito espiatorio non avrebbe dovuto praticarsi.[357]

Ma in verità che, se non leggessimo coi nostri occhi queste inesplicabili assurdità, nessuno potrebbe credere che fossero state dette sul serio da chi pretendeva di interpretare un codice. Tanto più che i dottori del Talmud non assegnano di queste loro limitazioni alla pratica del rito nessuna ragione, se non quella di una interpretazione del testo, che parrà dissennata a chi conserva pure un grano di senso comune. Non così dobbiamo dire di altre interpretazioni talmudiche dello stesso testo, che sembrano anzi dettate da buone ragioni. Se la città più vicina si trovasse essere Gerusalemme, per il rispetto dovuto a questa sede del culto, il rito espiatorio doveva praticarsi da altra città, che per distanza venisse in secondo grado. Così era stabilito anche quando la città più vicina non fosse sede di una Corte di giustizia, perchè il rito espiatorio doveva praticarsi dai membri di questa.[358]

Sono lodevoli ancora i talmudisti di avere abolita questa pratica in tempi di disordine sociale, in cui gli assassinii erano troppo frequenti; perchè non si poteva dire allora che fosse veramente sconosciuto lʼuccisore,[256] essendosi formate delle società di malfattori, conosciute come scellerate aggregazioni, se rimaneva incognito lʼindividuo.[359] E solo per circostanze eccezionali queste società andavano impunite. Finalmente a ragione confermarono ciò che resulta dal testo, sebbene non vi sia esplicitamente spiegato, che scopertosi il reo anche dopo compiuto il rito espiatorio, doveva sottoporsi a processo, e condannarsi secondo le forme imposte dalla legge per ogni altro omicidio.[360]

Dopo la tutela della vita, la legge deve difendere le proprietà, e principalmente presso un popolo agricolo quella fondiaria; perciò si proibisce dʼinvadere gli altrui confini (xix, 14), e di nulla usurpare oltre il possesso ereditario stabilito dagli antichi nella divisione della terra.

Questi massimi delitti contro la vita e contro la proprietà conducevano naturalmente il legislatore a porre almeno i principii fondamentali della procedura penale, ma bisogna ben dire che si restringe a stabilirne due sole, cioè che per condannare si richiedevano almeno due testimoni, e che il testimonio falso doveva essere sottoposto alla stessa pena, cui sarebbe soggiaciuto il reo (v. 15–21); al qual proposito si trova ancora ripetuta la legge del taglione, di cui sopra già abbiamo discorso (pag. 110 e seg.).

I rabbini sentirono poi quanto fosse necessario determinare con leggi più precise tutto ciò che riguardava i testimoni, e stabilirono moltissime norme, delle quali però riporteremo soltanto quelle che hanno qualche importanza. Occorreva in prima stabilire chi fosse idoneo a fare testimonianza, ed esclusero le[257] donne, gli schiavi, i fanciulli di età inferiore a tredici anni,[361] i pazzi, i sordomuti, i ciechi,[362] gli empi,[363] le persone spregevoli,[364] i prossimi parenti,[365] e quelli che si trovassero in qualche maniera interessati in causa.[366] La ragione per la quale erano escluse le donne si fonda sopra una di quelle solite rabbiniche interpretazioni. del testo, le quali proprio non possono in alcun modo giustificarsi. Il testo biblico usa naturalmente la parola testimoni in genere maschile, ma che abbia voluto con ciò escludere le donne non è nemmeno supponibile.[367] Piuttosto è da dirsi che i costumi del popolo ebreo, tenendo la donna in grado giuridicamente inferiore a quello dellʼuomo, non la reputarono nemmeno idonea a fare testimonianza; e poi i rabbini, anzichè correggere in questo punto il diritto consuetudinario, come avrebbe dovuto accadere in una più avanzata civiltà, lo hanno voluto confermare, cercando di sostenerlo con assurdissime interpretazioni. Tutte le altre esclusioni si vede facilmente che si fondano sopra ragioni, o del tutto, o fino a un certo punto, da approvarsi, eccetto che fa dʼuopo vedere la definizione che vien data degli empi.

Per questi il Talmud intende tutti coloro che fossero incorsi in una trasgressione sottoposta alla pena della fustigazione fino a che non lʼavessero scontata,[258] o pubblicamente non ne avessero fatto ammenda, dichiarando di non volere più ricadervi.[368]

Non occorre poi dire che era escluso chi fosse reo di maggiore delitto. Ma siccome sotto la pena della fustigazione cadevano anche le trasgressioni dʼinsignificanti precetti religiosi, come puta il caso, il mangiare un cibo proibito,[369] o vestirsi di un abitò tessuto o cucito di lana e di lino, è dʼuopo riconoscere che lʼintolleranza religiosa andava troppo oltre, con vero danno talvolta dellʼordine sociale; perchè poteva trovarsi impedito per futili ragioni il corso della giustizia. Condoniamo per altro queste perniciose conseguenze allo spirito dei tempi, e di una legislazione che era tutta dominata da principii teocratici.

Lʼobbligo di deporre come testimoni non incombeva solo a chi fosse come tale citato dallʼautorità giudiziaria, ma a chiunque si fosse trovata presente alla perpetrazione di un delitto, e trattandosi di una causa civile, conoscesse la verità dei fatti.[370]

La deposizione dei testimoni doveva essere verbale dinanzi ai giudici, e alla presenza dellʼaccusato, o delle parti. Non si accettavano deposizioni per iscritto, eccetto quelle che resultassero da testimoni sottoscritti antecedentemente nella stipulazione di un atto.[371] In quanto poi alla condanna dei falsi testimoni non furono piccole le modificazioni introdotte dal diritto talmudico a ciò che resulterebbe dalla lettera del testo.

Come la deposizione di un solo testimone non aveva nessun valore giuridico, così per il Talmud un solo[259] testimone, se deponesse il falso non potrebbe essere condannato, e nemmeno se nella deposizione di due testimoni uno fosse, per alcuna delle ragioni legali addotte di sopra, non idoneo a fare testimonianza. Si richiedeva inoltre che il giudizio di condanna del reo fosse già pronunziato, e non era condannato il falso testimonio, se si scopriva la falsità della deposizione durante la discussione del processo.

Ma pare un assurdo che, trattandosi di un processo di pena capitale, se lʼimputato per falsa deposizione dei testimoni era già giustiziato, quelli non dovessero essere più sottoposti alla stessa pena; perchè i rabbini, secondo il loro costume, interpretavano malamente alla lettera lʼespressione del testo «e farete a lui come aveva pensato di fare al suo fratello». Come aveva pensato, dicevano essi, non come gli era riescito che realmente fosse fatto. Dal che sarebbe resultato questʼassurdo, che i falsi testimonii erano condannati a morte, quando lʼerrore che sarebbe resultato dalla loro deposizione era per anco rimediabile, e lʼimputato poteva dichiararsi innocente; ma se lʼerrore per lʼeseguita condanna era ormai irreparabile, essi non erano più condannati. Finalmente si richiedevo, che la prova della falsità della testimonianza resultasse dalla deposizione accertata di altri testimoni, la quale concernesse la persona stessa dei primi testimoni, e non bastava che resultasse da qualche circostanza concernente il fatto stesso, o la persona dellʼimputato. Nel qual caso lʼimputato sarebbe stato dichiarato innocente, ma non condannati come falsi i testimoni, che contro lui avevano deposto. Per esempio, se era provato che lʼazione di cui veniva accusato lʼimputato non era mai avvenuta, o veniva provato[260]alibi dellʼimputato, i testimoni dellʼaccusa non potevano venire condannati per falsa testimonianza; ma sarebbero stati sottoposti alla stessa pena dellʼaccusato, se veniva provato da altri testimoni lʼalibi di loro stessi.[372] Trattandosi però di delitti sottoposti a pena capitale, i falsi testimoni, se non potevano essere condannati a morte, erano dal magistrato condannati a una fustigazione rimessa al suo arbitrio.[373] E per iscusare in parte, se non giustificare, queste disposizioni rabbiniche, si può dire soltanto che in tutto ciò che riguarda al diritto penale, e particolarmente alla pena di morte, esse erano ispirate da un sentimento di mitezza, che portava a ridurre al minimo possibile i casi di condanna anche per i falsi testimoni. Però rispetto a questi non si richiedeva, nemmeno secondo il Talmud, come in altri delitti sottoposti a pena capitale, lʼavvertenza fatta da altri testimoni.[374] E ciò è ragionevole, perchè nel primo iniziarsi del processo il magistrato avvertiva talmente i testimoni da dovere distoglierli dal fare qualunque deposizione della cui verità non fossero certissimi.[375] La pena poi a cui i testimoni falsi dovevano essere sottoposti era la morte, quando si fosse trattato di una deposizione per delitto capitale, alla fustigazione quando lʼimputato fosse sottoposto alla medesima pena, e a un rifacimento di danni in tutte le cause civili.

Il Deuteronomista tratta quindi un altro punto di diritto pubblico, cioè quello che concerne la guerra. Nella quale fa dʼuopo distinguere quella necessaria e[261] obbligatoria che dovevasi combattere contro i popoli possessori della Palestina per conquistarne i paesi e contro gli Amaleciti per vendicare antiche ingiurie, e la guerra rimessa allʼarbitrio dei reggitori dello Stato, contro i popoli al di là dei confini della terra promessa. Della prima già il Deuteronomista in parte aveva trattato (vii) e in parte ne tratta in altro luogo (xxv, 17–19) imponendo, come altro legislatore più antico (Esodo, xxiii, 20–33) di non dar quartiere a siffatti nemici.[376] Della seconda stabilisce nel cap. xx alcune norme regolatrici.

La prima concerne lʼobbligo del servizio militare, dal quale erano esclusi a loro volontà chi aveva fabbricato una casa nuova, e non lʼaveva ancora rinnovata, chi aveva piantato una vigna, e non ne aveva goduto il frutto, chi unito in isponsali non aveva consumato il matrimonio, e chi fosse stato tanto timido e pauroso da comunicare agli altri la sua pusillanimità.

Questa esclusione veniva fatta per mezzo di bando proclamato dal sacerdote, prima di rassegnare le schiere preparate a partire per la guerra (xx, 1–9).

Può sembrare strana però lʼultima specie di esclusione, giacchè ogni vigliacco e pauroso non avrebbe[262] avuto se non a dichiarare questo suo vergognoso sentimento, per non essere tenuto a far parte dellʼesercito. Dimodochè parrebbe che non ci potevano essere come nel regime militare di altri popoli veri renitenti alla leva. Ma è forza pur dire che il legislatore fosse certo di poter contare sul sentimento di amor patrio, e di onore nazionale, ancorchè non fossero molti costoro che avrebbero potuto fare simile dichiarazione; imperocchè altrimenti quali perniciose conseguenze non ne sarebbero derivate? Se i più, o molti, fossero stati così vili da dichiarare di temere la guerra, il popolo ebreo sarebbe stato preda del primo nemico; mentre la storia prova che in ogni tempo oppose eroica resistenza anche a popoli incomparabilmente più potenti, come gli Assiri, i Babilonesi, i Greci, e i Romani. Dimodochè una istituzione, che sarebbe assurda nei costumi borghesi ed effeminati dei popoli moderni, era anzi ispirata da vera libertà in un popolo che religione ed amore di patria rendeva doppiamente fiero ed indomabile. Lo che viene pienamente dimostrato da alcune parole del Maimonide, che ci sembra prezzo dellʼopera qui riportare: «Dopochè alcuno è entrato nelle schiere di guerra si affidi alla speranza dʼIsraele, e a chi lo salva in tempo di sciagura; e sappia che per lʼunità di Dio egli combatte, e ponga lʼanima sua ad ogni rischio; nè tema, nè sʼimpaurisca, nè pensi alla moglie ed ai figli, anzi ne cancelli la memoria dal cuore, e si astragga da ogni cura per attendere alla guerra. Chi cominciasse poi a pensare e a sospettare intorno alla guerra in modo da avvilirsi, prevaricherebbe un precetto proibitivo; perchè è detto nella Scrittura: non si ammollisca il vostro cuore, e non temete, non vi smarrite, non vʼimpaurite dinanzi a loro[263] (Deut., xx, 3). Oltre a ciò tutto il sangue dʼIsraele è affidato a ognuno dei combattenti, e se non vince e non fa la guerra con tutto il cuore e con tutta lʼanima, è come se versasse il sangue di tutti...., invece chi combatte con coraggio, senza timore alcuno, e ha intenzione di santificare Dio, è certo di non incontrare danno, e di non imbattersi in alcun male».[377] Per questa profonda fiducia adunque in Jahveh, che era nello stesso tempo un sentimento patrio, il legislatore del Deuteronomio poteva dettare una disposizione di diritto militare, quale è quella che testè abbiamo accennata; tanto più che, anche secondo il testo della Scrittura, il bando incominciava da una esortazione a non avere alcun timore e a mostrarsi anzi coraggiosi e intrepidi contro qualunque nemico (v. 3). Ad opinione del Talmud il sacerdote deputato a questo officio veniva consacrato con una speciale unzione, e il suo bando era ripetuto in parte da altri sacerdoti e in parte da altri officiali, affinchè tutti potessero udirlo. E non solo chi avesse fabbricato una casa o piantato una vigna, ma anche chi lʼavesse ereditata, o lʼavesse comprata, o ricevuta in dono, senza averne goduto, era esente dal servizio militare. E così pure, intendendo con certa larghezza le espressioni del testo, per casa intendevano i rabbini qualunque edificio, ove fosse possibile porsi al riparo, per esempio anche una stalla, o un magazzino; e per vigna intendevano anche qualunque piantagione di alberi fruttiferi, che occupasse una certa estensione. Se però costoro erano esenti dallʼobbligo di combattere, dovevano prestare servizio per aver cura delle provvisioni, e per rendere praticabili[264] le vie. Quando poi alcuno si fosse unito in matrimonio, o avesse cominciato ad abitare una casa nuova, o a godere di una vigna piantata di recente, o di altra agricola piantagione lʼesenzione avrebbe dovuto durare, secondo il Talmud, per il tempo di un anno, riferendosi ad altro passo del Deuteronomio, nel quale veramente si parlerebbe soltanto di un nuovo sposo (xxiv, 5). Ma, fondandosi sullʼanalogia, parve loro di poter fissare dentro gli stessi termini lʼesenzione anche degli altri, di cui si tratta in questo nostro testo.[378]

La seconda legge del diritto di guerra concerne il modo di comportarsi verso il nemico. Trattandosi di città non appartenenti nè ai popoli della Palestina nè agli Amaleciti, si dovevano prima invitare alla pace, perchè si sottoponessero a un tributo e alla soggezione del popolo ebreo; e quando questa condizione non fosse accettata, la guerra era bandita. In caso di vittoria ogni uomo adulto era ucciso, le donne e i fanciulli fatti schiavi, e ogni avere predato (v. 10–18). Con poca differenza era questo il feroce diritto di guerra di tutti i popoli antichi, e solo a poco a poco i costumi si mitigarono da rendere la guerra non tanto devastatrice, o almeno non micidiale per quelli che non vi prendono attivamente parte.

È da notarsi anzi che con certa mitezza il legislatore ebreo comandò di risparmiare in parte le campagne, e proibì di distruggere gli alberi fruttiferi, anche nel caso di porre lʼassedio intorno ad una città (v. 19, 20).[379]

[265]

Il diritto di guerra conduce il Deuteronomista a trattare di un caso specialissimo, che poteva non tanto di rado esserne una conseguenza, cioè di una donna prigioniera, della quale uno dei soldati vincitori si fosse invaghito in modo da farne sua moglie (xxi, 10–14).[380]

La legge si mostra umana e compassionevole verso donna tanto sciagurata da aver perduto patria e famiglia. Impone al vincitore di condurla in sua casa, e prima di tutto purificarla nella persona, facendole radere il capo e curare le unghie. Che il radersi fosse una forma di purificazione si desume ancora da ciò che vien detto per la consacrazione dei Leviti (Num., VIII, 7) e per analogia si può pensare lo stesso del tagliarsi le unghie. Altra forma di purificazione era lo spogliarsi degli abiti che la donna aveva portato, quasi dovesse abbandonare ogni cosa recata dal paese straniero. Quindi per un mese era lasciata in libertà di far lutto per la perdita dei genitori e della famiglia. Soltanto dopo di ciò era permesso di regolarmente sposarla. Nel caso poi che allʼuomo più non piacesse come moglie, poteva ripudiarla al pari di qualunque altra donna, ma non venderla ad altri nè trattarla duramente come schiava.

I rabbini in parte hanno reso questa legge anche più umana, e in parte vi hanno introdotto il loro principio dʼisolamento, per il quale procuravano di[266] rendere anche più difficile qualunque unione con donne di altri popoli. Essi avevano permesso in tempo di guerra lʼinfrazione di molti riti obbligatorii in tempi ordinari, e particolarmente di far uso di qualunque cibo e di qualunque bevanda, fosse anche carne di porco, o vino consacrato a qualche pagana divinità.[381] E con largo principio di tolleranza non avevano nè anche considerato peccato, se i soldati, facendo in guerra delle belle prigioniere, soggiacevano alla fralezza dei sensi.[382] Ma, obbedendo poi dallʼaltro lato a un principio di morale, imponevano che si riparasse al male commesso in un impeto di sensuale voluttà. E la riparazione consisteva nellʼastenersi di più usare con quella donna, fino a che non fosse fatta legittima moglie, come la legge imponeva. Ma per i rabbini il radersi il capo, il mutarsi di vesti non erano forme di purificazione; al contrario imposte dalla legge, perchè coi capelli rasi, con vesti di duolo la prigioniera non più bella apparisse al vincitore, e se ne infastidisse in modo da non più farla sua moglie. Anzi ad opinione di un Dottore la frase della Scrittura non significherebbe di tagliarsi le unghie, ma di lasciarle crescere per rendere in questo modo la persona di aspetto sempre più lurido. Anche il tempo del lutto, secondo uno dei Dottori, non doveva essere di un solo mese, come dice chiaramente il testo, ma di tre mesi, e ad opinione di altro dottore, di quattro;[383] e forse, anche ciò era fatto allo scopo di tentare che col più lungo tempo i sentimenti del vincitore si mutassero. Trascorso questo tempo, la donna, se voleva,[267] poteva farsi ebrea e sposarsi col suo conquistatore, se poi non avesse voluto convertirsi allʼebraismo, avrebbe dovuto almeno accettare i sette precetti dei Noachidi (v. sopra, pag. 5 e seg.); ma in questo caso non poteva sposarsi collʼebreo, e restava ad ogni modo in condizione libera, come qualunque straniero che fosse andato ad abitare nel paese deglʼIsraeliti.[384]

Con questa ultima disposizione i rabbini si mostrarono verso la donna presa prigioniera animati da uno spirito anche di maggiore libertà, che la legge scritta; perchè lasciarono in suo arbitrio di far parte o no del popolo ebreo, e per conseguenza di sposarsi o no con quellʼuomo a cui solo la fortuna della guerra lʼavrebbe legata.

Lʼaver trattato della donna prigioniera di guerra conduce il Deuteronomista a parlare di altre relazioni di famiglia, e quindi dal v. 15 del cap. xxi fino a tutto il cap. xxv si contiene una serie di disposizioni legislative, religiose e morali non sempre molto connesse fra loro, le quali daremo per intiero tradotte; perchè questo ci sembra il luogo più acconcio del codice deuteronomico a presentare un giusto concetto delle leggi, dei riti e della morale in esso contenuti; e ad ogni singolo precetto noteremo, secondo il consueto, le più importanti aggiunte o modificazioni rabbiniche.

xxi. 15.Quando un uomo avesse due mogli, una amata, e lʼaltra odiata, e gli partorissero figli lʼamata e lʼodiata, e il figlio primogenito fosse della odiata; 16.nel giorno, in cui fa eredi i suoi figli di ciò che egli ha, non potrà dichiarar primogenito il figlio della donna amata a preferenza del figlio primogenito della odiata. 17.Anzi il primogenito figlio della odiata riconoscerà, per[268] dargli parte doppia in tutto ciò che possiede; perchè esso è il principio del suo vigore, a lui spetta il diritto della primogenitura.

È questo il solo luogo della legge, dove si confermi il diritto consuetudinario della primogenitura, che consisteva nellʼereditare quota doppia di ognuno degli altri fratelli.

Il legislatore temeva che, nel caso non certo infrequente della poligamia, nel quale una delle mogli fosse la preferita, il primo nato di lei, potesse togliere il diritto a quello che era il primo figlio del padre, e quindi il vero suo primogenito. Lʼantica leggenda narrava appunto che ciò fosse avvenuto rispetto a Giuseppe a danno di Ruben. (Gen., xlviii, 22). E quantunque questo trasferimento di diritto potesse convalidarsi collʼautorità del patriarca Giacobbe, pure la legge lo proibisce.

Tutto quanto concerne poi il diritto successorio ci riserviamo a spiegare, quando esporremo il capitolo xxvii del Numeri, ove più direttamente se ne parla.

Ma lʼaver toccato dei diritti dei figli conduce il Deuteronomista a parlare del figlio malvagio.

18.Quando sia ad un uomo un figlio ritroso e ribelle, che non ascolti la voce di suo padre e la voce di sua madre, i quali lo correggano, senza chʼesso gli ascolti, 19.lo prendano il padre e la madre, e lo conducano agli anziani della città, ed alla porta[385] del luogo, e dicano agli anziani della città: 20.questo nostro figliuolo è ritroso e ribelle, non ascolta la nostra voce, è scialacquatore e beone; 21.e lo lapideranno tutta la gente della sua città con le pietre, sicchè muoja; e tu sgombrerai il male di mezzo a te; e tutto Israele ascolterà e vedrà.

Certo che la pena della lapidazione per un giovane dissipato e contumace contro lʼautorità dei genitori,[269] deve a noi parere soverchia e crudele. Ma ricordiamo il diritto di vita e di morte che il padre di famiglia aveva presso gli antichi Romani, e riflettiamo che il legislatore ebreo non gli concede anche per le colpe domestiche, se non il diritto di accusarlo presso i magistrati ordinarii. I quali naturalmente dovevano istruire un processo in forma regolare. Manca poi nel testo della Scrittura ogni precisa determinazione degli estremi richiesti per potere costituire un tale reato. Solo stabilisce il modo di esecuzione della sentenza. E mentre per ogni altro caso i primi esecutori dovevano essere i testimoni (cfr. xvii, 7), qui con pietoso consiglio vengono liberati i genitori dellʼaccusato dal troppo crudele officio, cui sono invece deputati indifferentemente tutti gli abitanti della città. Ma quelle più precise determinazioni che mancano nella Scrittura si trovano nel diritto talmudico, il quale inoltre ha talmente ristretto i termini di questo reato da renderlo giuridicamente quasi impossibile.

Furono in primo luogo escluse le femmine. Quindi dovendo stabilirsi lʼetà, questa per i rabbini non poteva essere inferiore di tredici anni compiuti, perchè quelli di età inferiore erano considerati minori per ogni effetto sia giuridico sia religioso. Ma compiuti i tredici anni, il tempo di tale soggezione allʼarbitrio dei genitori non durava per i rabbini al massimo più che tre mesi; perchè si teneva che a questo tempo fosse compiuta la pubertà, la quale avrebbe messo la persona per certi effetti in balìa di sè stessa, e non più trattenuta sotto una così dura soggezione paterna.[270] Di più se anche prima dei tre mesi si fossero manifestati certi indizii di pubertà, ne derivava lo stesso effetto.

La colpa doveva consistere nel rubare al padre, e comprare carne e vino in grande quantità per farne oggetto di crapula fuori di casa con compagni crapuloni e di mal costume. Lʼaccusa doveva essere fatta da padre e madre concordi; dimodochè non solo si richiedeva il consenso di ambedue, ma non poteva essere accusato chi fosse orfano di uno dei genitori. I quali poi, spingendo i rabbini le cose fino allʼassurdo, dovevano essere esenti da molti difetti fisici, cioè nè monchi, nè zoppi, nè sordi, nè ciechi, nè muti. Dimodochè se uno dei due genitori avesse avuto qualcuno di questi corporali difetti, il processo per tale reato non avrebbe potuto nemmeno istruirsi.

La prima accusa doveva avvenire con prova testimoniale dinanzi a tre giudici, e questa non portava altra conseguenza che la fustigazione. Quando a questa prima condanna il figlio non avesse mutato costume, e fosse ricaduto nelle prime colpe, i genitori dovevano accusarlo con nuova prova testimoniale dinanzi un tribunale di 23 magistrati, del quale facessero parte i tre giudici del primo processo, e compiute le forme di ogni altra causa capitale, si dava la sentenza. Però tutto il tempo che questa non era proferita i genitori avrebbero potuto ritirare lʼaccusa.[386]

È chiaro che i rabbini mossi da altri principii in tempi di più avanzata civiltà, senza tradire la lettera della legge, contro la quale non hanno mai apertamente stabilito nessuna istituzione, hanno voluto trovar[271] modo, acciocchè la legge non venisse in fatto eseguita. Al qual fine, se bene si guarda, sarebbe bastato anche solo fissare i termini della colpabilità nel ristrettissimo termine di tre mesi durante tutta la vita, ma ai rabbini ciò non parve sufficiente, e vollero porvi anche altre restrizioni.

Da questo caso di delitto capitale il Deuteronomista passò a stabilire una regola generale intorno alla condanna di morte.

22.E quando sia in alcuno colpa di giudizio capitale, sicchè sia fatto morire, lo impiccherai sul legno. 23.Non passi la notte il suo cadavere sul legno; anzi lo seppellirai nello stesso giorno, perchè maledizione di Dio è lʼimpiccato, e non contaminare la terra che Jahveh tuo Dio ti dà in possessione.

Questo testo da quasi tutti glʼinterpetri è stato spiegato nel senso che lʼimpiccagione non fosse il modo di eseguire la condanna capitale, e solo uno spregio fatto al corpo del giustiziato, impiccandolo, dopo che in altro modo era stata eseguita la condanna.

Ma a noi pare di dovere intendere diversamente, cioè che lʼimpiccagione era il modo appunto, col quale la condanna capitale generalmente doveva essere eseguita, eccetto quei casi in cui il testo impone un diverso modo di giustiziare. Infatti la Scrittura stabilisce per lo più la condanna capitale senza indicare la maniera di eseguirla, e solo in parecchi casi determina la lapidazione; in due soli poi, cioè, per lʼadulterio con la madre o con la figlia della moglie (Levit., xx, 14), e per la prostituzione di una figlia di un sacerdote (ivi, xxi, 9) impone lʼabbruciamento; e per un solo caso, cioè per lʼapostasia di una intiera città, prescrive lʼuccisione con la spada (Deut., xiii, 15). Ora il nostro testo è grammaticalmente suscettibile di diversa[272] interpretazione, secondo che si traduce la congiunzione la quale unisce la proposizione sia fatto morire con la precedente. Perchè se quella congiunzione si intende come una semplice copulativa, traducendo: e sia fatto morire, lʼimpiccagione, di cui quindi si parla, doveva succedere la morte del condannato: ma se, come noi crediamo, la congiunzione in questo caso non è semplice copulativa, ma invece consecutiva, allora la terza proposizione: e lʼimpiccherai indica il modo di eseguire la condanna.

Noi preferiamo questa seconda interpretazione, perchè sarebbe strano che la legge imponesse lʼimpiccagione dopo la morte, come un dispregio per il condannato, mentre dallʼaltro lato vuole che si usi al cadavere il riguardo di toglierlo dalla forca prima che annotti. Sarebbero queste due disposizioni contraddittorie, contenendo lʼuna il dispregio, lʼaltra il rispetto per il cadavere del giustiziato. Invece essendo lʼimpiccagione il modo più generale di giustiziare, il precetto di seppellire il cadavere nel giorno stesso è ispirato da un sentimento lodevole, essendo inutile lʼincrudelire contro un corpo insensibile, quando già la giustizia è soddisfatta.

Anzi a questo sentimento morale il legislatore accoppia quello religioso, vietando di rendere immondo il paese col lasciare a lungo insepolti i cadaveri, che avrebbero potuto divenire facilmente preda di animali o di uccelli rapaci.

Inoltre poi sembra ragionevole che in qualche luogo uno dei legislatori abbia indicato il modo più generale con cui si dovesse giustiziare; e se togliamo questo, e non lo intendiamo come da noi si propone, siffatta indicazione mancherebbe del tutto.

[273]

Finalmente, per quanto si debba andar cauti nel dare molto peso alla tradizione talmudica, non è però che le si debba negare ogni e qualunque valore. Ora essa insegna, come abbiamo già sopra notato (pag. 104 e seg.) che i modi di eseguire la condanna capitale erano quattro; la lapidazione, il bruciamento, il taglio del capo, e la strangolazione.[387] I primi tre si trovano nei singoli casi indicati nel testo, ma del quarto non si farebbe parola, se togli il passo in questione. È vero dallʼaltro lato che la strangolazione secondo il Talmud si sarebbe eseguita in modo diverso dallʼimpiccamento, ma è pure anche questa una maniera di strangolare.[388] E che nel modo più preciso di esecuzione il Talmud dissenta dalla lettera del testo, non è meraviglia, quando tanto differentemente, come abbiamo veduto (pag. 197), intendeva che si applicasse la condanna dellʼabbruciamento, e quando anche la lapidazione si sarebbe fatta secondo i rabbini in maniera alquanto diversa da ciò che generalmente sʼintende. Imperocchè prima che il popolo gettasse le pietre addosso al condannato, questi era posto in un luogo alto due volte la statura dʼun uomo, di là sospinto in basso da uno dei testimoni: se nella caduta moriva, non si richiedeva di più, altrimenti un altro dei testimoni gli gettava una pietra contro il cuore; e se nemmeno a questa fosse seguita la morte, allora soltanto il popolo gli gettava contro le pietre.[389] Ma a conferma del nostro modo dʼinterpetrare a noi basta che la tradizione ammetta quattro modi di esecuzione per le condanne capitali, mentre secondo lʼaltra interpretazione ne resterebbero[274] soltanto tre. Difatti tanti e non più ne ammette il Saalschütz,[390] e il Michaelis solo due, tenendo anche il bruciamento, uno spregio fatto al cadavere del colpevole, per disperderne ogni resto, e non un modo di giustiziare.[391] Ma le parole del testo nei due citati passi del Levitico sono troppo chiaramente contrarie a siffatta interpretazione, e già il Saalschütz ha dimostrato essere più ragionevole tenersi al senso piano della lettera.

I rabbini però i quali volevano che la strangolazione si eseguisse in modo diverso dallʼimpiccamento, dovevano in altra maniera intendere il nostro testo. E secondo un Dottore, tutti i giustiziati con la lapidazione dovevano poi impiccarsi; secondo lʼopinione degli altri Dottori, che quindi prevalse, solo il bestemmiatore, e lʼapostata a un culto idolatrico, e anche in questi due casi gli uomini e non le donne,[392] risparmiando a queste per un riguardo al pudore un maggiore avvilimento, anche nei casi da essi tenuti più gravi.

I primi dodici versi del cap. xxii contengono alcuni precetti di vario genere, fra i quali sarebbe difficile trovare anche il semplice filo dellʼassociazione delle idee, che ha potuto condurre lo scrittore a passare dallʼuno allʼaltro. Il primo concerne il rispetto per lʼaltrui proprietà, imponendo il dovere della restituzione di ogni cosa, che trovisi smarrita dal suo proprietario (cfr. Esodo, xxiii, 4).

[275]

xxiii. 1.Quando tu vedrai il bove del tuo fratello o il suo agnello smarrito non ti ritrarre da essi, ma restituiscili al tuo fratello. 2.E se non è vicino a te il tuo fratello, o non lo conosci, raccogli quelli dentro la tua casa, e siano presso di te, fino che il tuo fratello li ricerchi; e glie li restituirai. 3.E così farai per il suo giumento, e così farai per il suo vestito, e così farai per ogni oggetto perduto del tuo fratello, che si smarrisca da lui, e tu lo trovi, non potrai ritirartene.

A questʼobbligo imposto dalla Scrittura il diritto talmudico ha aggiunto che, trovando qualche animale o qualche oggetto non proprio, se ne debba fare pubblico bando. Il quale avveniva, quando il popolo dʼIsraele aveva propria vita politica, nelle tre feste annuali, e poi una quarta volta, finita la terza festa; perchè in quelle tutti convenivano in Gerusalemme. Distrutto lo Stato israelitico, il bando deve farsi nelle Sinagoghe, o negli altri ritrovi di religioso convegno.[393] Dopo il quarto bando, chi ha trovato lʼoggetto perduto è obbligato di conservarlo; e trattandosi di animali il cui mantenimento esigerebbe cura e spese, dopo un certo tempo più o meno lungo secondo la varia specie degli animali, può venderli e serbarne il ricavato, senza che mai per diritto di prescrizione possa considerarli come suoi,[394] eccetto che il possessore non abbia in qualche modo renunziato alla ricuperazione.[395] Ma chiunque si presenti a reclamare lʼoggetto deve fornire prova o per connotati o per testimoni di essere lui il proprietario.[396] Tantochè gli oggetti che sono comunemente simili nella loro specie, e le monete[276] di cui non possono darsi connotati, appartengono di buon diritto a colui che le trova.[397]

Molti altri particolari sono stati poi determinati dai rabbini intorno al possesso degli oggetti perduti; ma si entrerebbe qui in una troppo minuta casistica, aliena dal nostro assunto.

Al pari dellʼautore del primo codice, il Deuteronomista impone lʼobbligo di aiutarsi lʼun lʼaltro, nel caso certo non infrequente che si vedessero gli animali altrui caduti, o in altro modo bisognosi di soccorso.

4.Quando tu veda il giumento del tuo fratello, o il suo bove caduto nella strada, non te ne ritrarre, ma insieme con lui rilevalo: (Cfr. Esodo, xxiii, 5).

Un rispetto al buon costume, e la cura di allontanare gli Ebrei anche dalle occasioni che potevano condurre alle infami corruzioni praticate da altri popoli fece dettare al Deuteronomista il seguente precetto.

5.Arredo dʼuomo non si ponga sulla donna, nè lʼuomo si vesta abito muliebre; imperocchè abbominazione di Jahveh è chiunque fa tali cose.

I rabbini proibiscono non solo gli abiti, ma altresì qualunque genere di ornamento femminile; come alle donne di indossare le armi proprie allʼuomo, fosse ancora che ispirate da eccezionale sentimento eroico volessero andare in guerra.[398]

Il principio di conservare per quanto possibile tutte le produzioni naturali, delle quali è permesso agli uomini valersi, sino che può tornare utile ai bisogni della[277] vita, ma non inutilmente distruggerle, fece dettare al Deuteronomista il seguente precetto sui nidi degli uccelli.

6.Quando ti capiti dinanzi un nido dʼuccelli per via, in qualsivoglia albero, o sul suolo, pulcini o uova, e la madre covi sui pulcini o sullʼuova, non prendere la madre con i figli. 7.Manderai via la madre, e i figli prenderai per te, acciocchè ti avvenga bene e prolunghi i tuoi giorni.

È permesso di prendere le uova e i piccoli per cibarsene o allevarli; ma il prendere anche la madre sarebbe quanto distruggere interamente una famiglia di animali, mentre le femmina può ancora procreare altri piccoli. Sarà crudele privare la madre delle uova o dei piccoli nati; ma la necessità della vita di cibarsi anche degli animali fa permettere il minor male possibile, se tutto non può evitarsi. Le astinenze dei vegetariani erano sconosciute ai legislatori del Vecchio Testamento, che restano dentro i confini possibili allʼuomo, senza esigere il soverchio.

Il grande pregio in cui deve tenersi da ogni uomo la vita del prossimo, fa che non solo sia proibito qualunque attentato contro di essa, ma che ancora se ne prenda ogni riguardo e circospezione, per evitare ogni possibile sciagura; donde il seguente umanissimo precetto.

8.Quando edificherai una casa nuova fa un riparo nel tuo tetto; e non mettere sangue nella tua casa, se da quella alcuno cadesse.

I tetti erano piani a guisa di terrazza, come usasi anche oggi generalmente presso i popoli orientali, quindi sʼintende la ragione di un precetto che non ha importanza per il nostro modo di edificare. I rabbini poi provvidamente estesero il precetto ad altri casi[278] congeneri, e imposero lʼobbligo di circondare di ripari anche i pozzi, le fosse, e simili.[399]

Il concetto di non alterare gli ordini della natura, e non promiscuarne i generi e le specie fece dettare i seguenti precetti, la cui ragione però rimane del tutto religiosa e rituale.

9.Non seminare la tua vigna di due specie, acciocchè non si contamini la vendemmia, e il seme che seminerai, e il prodotto della vigna. 10.Non arare con bove e con asino insieme.[400] 11.Non vestire di due specie, di lana e di lino insieme uniti. (Cfr. Levitico, xix, 19).

Abbiamo già veduto che nel citato luogo del Levitico, si parla non solo della vigna, ma in generale del campo, per lo che ogni promiscuazione di semente era proibita.

I rabbini poi estesero a ogni sorta di lavoro la proibizione di servirsi di animali di specie diverse, quando lavorino uniti insieme.[401] E infatti è ragionevole che il testo, specificando lʼarare e il bove e lʼasino, non abbia inteso dire tassativamente di questi e non di altri, ma solo esemplificare il caso più comune, perchè se ne deducesse una regola generale.[402]

Il rito di porre certe frange intorno ai lembi del manto non ha nel nostro testo il suo compimento, lo vedremo meglio spiegato, quando esporremo il capitolo xv del Numeri (v. 37–41).

[279]

12.Frange ti farai sui quattro lembi del tuo manto, col quale 12. ti coprirai.

Dal v. 13 sino al termine del capitolo il legislatore tratta di più leggi matrimoniali dirette a tutelare il buon costume, la santità del matrimonio, e il decoro della donna, che troppo facilmente poteva restare vittima della frode e della violenza dellʼaltro sesso.

13.Quando alcuno prendesse una donna, e si unisse a lei, e poi lʼodiasse; 14.e le imputasse delle cose calunniose, e spargesse contro di lei diffamazione, dicendo: presi questa donna, e me le avvicinai, ma non le trovai la verginità; 15.il padre e la madre della giovane producano i segni della verginità di lei agli anziani della città nella porta. 16.E il padre della giovane dica agli anziani: mia figlia detti a questʼuomo per moglie, e poi la odiò. 17.Ed ora egli le appone cose calunniose, dicendo: non ho trovato a tua figlia la verginità; ma questi sono i segni della verginità di mia figlia; e stenderanno il panno dinanzi agli anziani della città. 18.Allora gli anziani di quella città prenderanno quellʼuomo, e lo puniranno. 19.E lo condanneranno in cento monete dʼargento, che daranno al padre della giovane; perchè aveva sparso diffamazione contro una vergine dʼIsraele; e sarà sua moglie, non potrà ripudiarla per tutta la sua vita.

20.Ma se la cosa fosse vera che non si fosse trovata verginità alla giovane, 21.condurranno la giovane alla porta della casa di suo padre, e la gente della città la lapiderà sicchè muoja; imperocchè ha commesso vituperio in Israele, fornicando in casa di suo padre. E tu sgombrerai il male di mezzo a te.

Per intendere questa legge è necessario riferirsi ai costumi tuttora in uso presso alcuni popoli meno civili dellʼAfrica e dellʼOriente, dai quali si pratica che la notte stessa delle nozze, o il giorno dopo, i parenti della sposa prendono e conservano come oggetto di onore per la famiglia quei panni che possono dimostrare lo stato di verginità, nel quale si trovava prima delle nozze. Or dunque il Deuteronomista ha stabilito che nel caso di una calunnia per parte di[280] un uomo annoiato dopo qualche tempo della moglie, i genitori di lei provino la calunnia con quei segni materiali che erano in grado di fornire, e il calunniatore sia condannato ad una multa e a non poter mai più ripudiare una donna ingiustamente da lui diffamata. Ma nel caso che lʼaccusa del marito fosse provata vera, la giovane che non si era saputa conservare intatta per le nozze legittime fosse condannata a morte con la lapidazione. Legge in questa seconda parte certo durissima, come quella che per i criterii di un giusto diritto impone una pena troppo sproporzionata ad una mancanza piuttosto che colpa. Ma tutto, anche nel diritto, è relativo ai tempi e ai luoghi. Presso certi popoli la giovane che si dava in braccio ad un uomo disonorava tanto la casa paterna da meritare la pena capitale, e tanto più la meritava, quando si aggiungeva la colpa certo non lieve di avere ingannato chi credeva di sposarsi a donna onesta e intatta. Comunque siasi però, non vi è dubbio che tale è il significato letterale di questa legge riconosciuto concordemente dalla maggior parte degli interpreti.[403] Ma alcuni rabbini hanno inteso differentemente il testo, e per loro il produrre i segni della verginità, lo stendere il panno altro non significa che provare con la discussione giuridica e con i testimoni la calunnia apposta alla giovane. Questa poi è lʼopinione che fu adottata contro quella più vera, che intendeva il testo nel suo significato letterale.[404] Di più, parendo loro troppo crudele la legge che condannava alla lapidazione una giovane per solo mal costume, stabilirono che non[281] fosse sottoposta alla pena capitale, se non colei che si prostituisse nel tempo decorso fra gli sponsali e la celebrazione delle nozze.[405] Giacchè gli sponsali erano per gli Ebrei solenni, e la donna era tenuta come maritata, quantunque il matrimonio non fosse compiuto.

Aggravarono poi dallʼaltro lato la pena dello sposo calunniatore, sottoponendolo, oltre alle pene che resultano dalla lettera del testo, anche a quella della fustigazione.[406]

Seguono alcune leggi sullʼadulterio, il quale, come già abbiamo veduto (pag. 196 e seg.), era punito di morte tanto per lʼuomo seduttore, quanto per la donna colpevole, eccetto, che questa non potesse provare di avere soggiaciuto soltanto alla violenza, in luogo dove le sue grida non potevano essere udite.

22.Quando si trovasse alcuno giacente con donna maritata, morranno ambedue; lʼuomo che giace con la donna e la donna: e sgombrerai il male da Israele.

23.Quando una giovane vergine fosse sposata ad un uomo, e la trovasse un altro nella città, e giacesse con lei, 24.li porterete ambedue alla porta di quella città, e li lapiderete con le pietre, sicchè muojano; la giovane, perchè, essendo in città, non ha gridato, e lʼuomo, perchè ha stuprato la donna del suo prossimo; e sgombrerai il male di mezzo a te.

25.Ma se lʼuomo trovasse in campagna la giovane sposata, e le facesse forza, e giacesse con lei, morrà lʼuomo solo che con lei si è giaciuto, e alla giovane non farai nulla; 26.non ha essa colpa mortale, perchè questo fatto è come quando alcuno assale il compagno e lʼuccide; 27.poichè lʼha trovata in campagna; avrà gridato la giovane sposata, ma non ha avuto chi la salvasse.[407]

28.Quando poi alcuno trovasse una giovane vergine che non[282] fosse sposata, e la prendesse e si giacesse con lei e fossero trovati, 29.questʼuomo che si è giaciuto con lei dia al padre della ragazza cinquanta sicli dʼargento, e la tenga per moglie (cfr. Esodo, xxii, 15, 16); siccome lʼha stuprata, non potrà ripudiarla per tutta la vita.

Nonostante che il Deuteronomista con queste ed altre leggi, che fra poco troveremo, abbia determinato alcune istituzioni intorno al matrimonio, pure nè esso nè altri legislatori hanno propriamente stabilito come il matrimonio dovesse tenersi legittimo. Dimodochè è da credersi che avessero lasciato questa parte al diritto consuetudinario. Ma se vogliamo essere anche intorno a questo istruiti, poco, o nulla, ne possiamo sapere dai fatti narrati nella Scrittura.

Il primo matrimonio legittimo di cui ci venga narrato qualche particolare è quello del patriarca Isacco, (Genesi, xxiv). Ma anche qui sono più i precedenti del matrimonio, che non la forma di esso, che ci viene dal biblico narratore esposta. Il servo di Abramo dà invero dei doni alla famiglia di Rebecca e anche a lei stessa (ivi, 53); ma non si può vedere in ciò un atto di matrimonio per procura. Egli fa la proposta di matrimonio, i parenti della giovane acconsentono, e la rimettono in sue mani, perchè la conduca al fidanzato. I doni costituiscono qui un atto di cortesia e di generosità; ma non si può dire in verun modo che siano il prezzo col quale, come praticavasi da alcuni popoli, il marito comprava in certo modo la moglie. Dallʼaltro lato poi che lʼuomo dovesse far sua la donna,[283] pagando al padre o alla famiglia o a lei stessa una dote, si rileva in prima da alcune narrazioni. Così il patriarca Giacobbe pagò Labano con quattordici anni di servizio per isposare le sue due figlie. (Genesi, xxix, 18, 27, xxxi, 41). Sichem invaghito di Dina figlia di Giacobbe, dice al padre e ai fratelli di lei, che qualunque dote e donativo gli avessero chiesto, lʼavrebbe dato volentieri (ivi, xxxiv, 11, 12). I servi di Saul fanno sapere a David che il re per dare in isposa la figlia, non avrebbe accettato dote più gradita che lʼuccisione di cento Filistei (1o Sam., xviii, 25). Potrebbe a ciò obbiettarsi, che nel libro di Tobia (vii, 15, 16), non si parla di dote pagata dallo sposo al padre della giovane, e soltanto si accenna in genere alla stipulazione di un atto coniugale, senza specificare in che cosa consistesse. Ma che anticamente vigesse il costume di dare una dote al padre della giovane, e che questo costume fosse confermato anche dalle leggi viene provato oltre che dai fatti testè citati, anche da questo nostro testo, e da quello dellʼEsodo (xxii, 16, 17). Del resto poi il passo di Tobia non prova nulla in contrario; perchè nella stipulazione dellʼatto, di cui non ci si fa sapere il contenuto, poteva benissimo parlarsi del pagamento di questa dote, come di altre convenzioni. E quando anche ciò non fosse, il libro di Tobia appartiene a tempi molto più recenti, nei quali le antiche costumanze potevano essersi modificate. Ma oltre questi pochi cenni altro non troviamo nella legge scritturale, e per ciò vi ha supplito il diritto talmudico. Il quale non considera più la dote, che lʼuomo avrebbe sborsato al padre o alla famiglia della sposa, come quasi un mezzo di acquistarla, ma ne ha grandemente trasformato il concetto.

[284]

Gli sponsali, detti ebraicamente Irusin o anche Qiddushin, valgono a considerare lʼuomo e la donna legati fra loro in vincolo matrimoniale, sebbene non valgano per poter consumare il matrimonio; e siffatto vincolo non si potrebbe sciogliere, se non col divorzio.[408] Si può contrarre in tre modi, cioè con lʼanello, o con un atto scritto, o col coito.[409] Se lʼuomo dà alla donna lʼanello in presenza di due testimoni, o anche invece dellʼanello, un oggetto qualunque, purchè di un determinato valore, dicendole: con questo tu mi sei sposata, ed essa lʼaccetta, gli sponsali sono legalmente contratti.

Lo stesso ne consegue, se lʼuomo consegna alla donna in presenza di due testimoni una carta o un altro oggetto, dove siano scritte le sole parole: tu mi sei sposata, purchè siano state scritte con intenzione determinata per quella cotal donna, ed essa lʼaccetti.

Finalmente, anche se un uomo o una donna alla presenza di due testimoni si ritirano soli in una stanza, dichiarando di farlo per accoppiarsi con intenzione di congiungersi in matrimonio, il vincolo legalmente è valido; sebbene i rabbini per moralità lo abbiano proibito, e sottoposto alla pena della fustigazione chi commettesse tale impudenza.[410]

Perchè il legame sia valido, deve essere contratto dallʼuomo dopo la pubertà,[411] al contrario una fanciulla impubere poteva essere fatta sposa dal padre,[412] o se orfana anche sposarsi da sè stessa. Però in questo[285] secondo caso può, giunta alla pubertà, sciogliersi dagli sponsali con una semplice dichiarazione, nè si richiede lʼatto formale del divorzio[413] (Ghet), basta un atto meno solenne, fatto dalla donna, che si chiamava Rifiuto (Miun). Perchè gli sponsali si tengono non veramente legittimi, come quelli che sono contratti da una minorenne; non così quelli contratti dal padre, che ha autorità sulla figlia impubere di promettere per lei. Ma giunte alla pubertà le donne non possono essere sposate senza il loro consenso.[414]

Sono poi tenuti nulli tutti gli sponsali contratti fra persone la cui unione per la legge scritturale sarebbe incestuosa, e così quelli contratti per errore o per dolo con donna maritata.[415] Ma le unioni proibite soltanto per ragione di purità, o tenute incestuose soltanto per istituzione posteriore dei rabbini erano valide, e faceva dʼuopo scioglierle mediante il divorzio.[416]

Un certo tempo più o meno lungo dopo gli sponsali, o anche immediatamente dopo questi, si celebrano le nozze come atto iniziatore del coabitare insieme dei coniugi.

È necessaria la presenza almeno di dieci persone come un atto solenne, e che richiede una certa pubblicità,[417] e prima delle nozze si stipula un atto fra lo sposo e la sposa, col quale esso le costituisce una dote[418] esigibile soltanto in caso della morte del marito, o di divorzio[419] non motivato da colpa della donna.[286][420] Questa costituzione di dote non toglie però che la donna porti anchʼessa, se di proprio possiede, o se la famiglia glie ne fa dono, una dote al marito, della quale si parlava nellʼatto matrimoniale per obbligare il marito o gli eredi di lui alla restituzione in ogni e qualunque caso. Sulla somma della dote il marito suole fare un aumento variabile secondo la consuetudine dei vari paesi. Può anche la donna possedere dei beni stradotali, dei quali il marito gode i frutti, ma non è responsabile nè della conservazione nè della restituzione del capitale.[421] Oltre lʼobbligo della costituzione della dote il matrimonio induce nellʼuomo i seguenti doveri verso la donna. Il mantenimento, il vestiario, la coabitazione, il curarla in caso di malattia, il riscattarla se fatta prigioniera, le spese funerarie, se ella premorisse, farla mantenere dagli eredi, se restasse vedova, e lasciarla abitare nella sua casa tutto il tempo che non esigesse la dote costituitale dal marito, o non passasse a seconde nozze, prelevare dallʼasse ereditario gli alimenti in favore delle figlie, e in favore dei figli oltre la loro quota ereditaria la dote costituita alla loro madre.[422] Istituzioni sempre necessario queste due ultime nel caso non infrequente di avere figli da più donne, ma molto più necessarie presso gli Ebrei, per i quali la poligamia era permessa.

In correspettività di questi doveri il marito ha diritto ai frutti di ciò che possiede la moglie, e anche a quelli del suo lavoro, a ogni oggetto da lei trovato, e a divenire di lei erede in precedenza di qualunque altro congiunto, in caso che ella gli premorisse.[423]

[287]

Come si vede, la donna in questa parte è dal Talmud trattata assai bene, tranne che nel diritto ereditario. Ma ciò esamineremo meglio, quando a suo luogo esporremo ciò che spetta alle successioni.

Dalle leggi che stabiliscono certe relazioni fra lʼuomo e la donna il Deuteronomista passa a proibire alcune unioni matrimoniali, e in prima quella incestuosa con la moglie del padre, la sola che egli ripeta dallʼelenco delle unioni incestuose enumerate da altri legislatori (v. pag. 196 e seg.).

xxiii. 1.Non prenda alcuno la moglie di suo padre, e non iscuopra il lembo di suo padre.

È proibito ancora di contrarre matrimonio con chi ha certi difetti fisici, che lo rendono inetto alla procreazione, con chi è nato da matrimonio incestuoso o adulterino, con i discendenti dei popoli Moabiti e Ammoniti in perpetuo, e con glʼIdumei e con gli Egiziani fino alla terza generazione dopo convertiti allʼEbraismo.

2.Non entri nellʼadunanza di Jahveh[424] chi è eunuco per i testicoli compressi, o per verga amputata.

3.Non entri lo spurio[425] nellʼadunanza di Jahveh, nemmeno la decima generazione non vi entri.

4.Non entri lʼAmmonita e il Moabita nellʼadunanza di Jahveh, nemmeno la decima generazione non vʼentri in perpetuo. 5.Perchè non vi vennero incontro con pane e con acqua per via, quando esciste dallʼEgitto, e perchè salariò contro di te Balaam figlio di Béor, da Petor di Mesopotamia per maledirti. 6.Ma non volle Jahveh tuo Dio ascoltare Balaam, e lʼEterno tuo Dio convertì per te la maledizione in benedizione, perchè Jahveh tuo Dio[288] ti ama.[426] 7.Non ricercare la loro pace e il loro bene tutti i tuoi giorni in eterno.

8.Non aborrire lʼIdumeo, perchè è tuo fratello. Non aborrire lʼEgiziano, perchè fosti forestiere nella sua terra. 9.I figli che saranno nati a loro in terza generazione, potranno entrare nellʼadunanza di Jahveh.

I talmudisti hanno ristretto la proibizione dei matrimoni con i discendenti dei Moabiti e degli Ammoniti agli uomini appartenenti a questi popoli, e non alle donne che si fossero convertite allʼEbraismo. A ciò furono costretti per non tenere il re David di origine spuria, giacchè la sua famiglia, secondo il libro di Rut (iv, 17), sarebbe derivata dal matrimonio di Booz con Rut Moabita.[427] Non tennero conto però che dal libro di Nehemia (xiii) resulta chiaramente che la legge deuteronomica era interpretata come applicabile indifferentemente agli uomini e alle donne. Sia venia però ad un errore che ha fatto interpetrare la legge con qualche maggiore larghezza.

Nel rimanente del capitolo xxiii si succedono alla rinfusa varii precetti di pulizia, di umanità, di buon costume, di carità e di religione.

[289]

10.Quando escirai in accampamento contro i tuoi nemici, ti riguarderai di ogni cosa cattiva.[428] 11.Quando fosse fra te alcuno impuro per qualche accidente notturno, esca fuori dellʼaccampamento, e non vi rientri, e al volgere della sera si lavi nellʼacqua, e quando sarà tramontato il sole, 12.rientrerà nellʼaccampamento. 13.E un luogo tu avrai fuori dellʼaccampamento, nel quale tu possa escir fuori. 14.E abbiti un piuolo fra i tuoi arnesi, col quale scavare quando tu stai fuori, per assettarti e coprire il tuo escremento. 15.Perchè Jahveh tuo Dio va in mezzo al tuo accampamento, per liberarti e consegnare i tuoi nemici dinanzi a te; e il tuo accampamento sarà santo, ne si vedrà in esso alcuna cosa vergognosa, per la quale egli si allontani da te.

16.Non consegnare il servo al suo padrone, quando da esso si salvi presso di te. 17.Con te abiti presso di te nel luogo che preferirà, in una delle tue città che meglio gli piace, non lo opprimere.

Questo precetto così umano verso gli schiavi è stato dai talmudisti ristretto al solo caso dello schiavo che fugga da altro paese nella Palestina;[429] e secondo altri, quando lo schiavo sia stato comprato da alcuno con la promessa di farlo libero.[430] In questo modo i rabbini hanno tolto al precetto scritturale quasi tutta quella generosa umanità dalla quale era ispirato.

18.Non sia prostituta tra le figlio dʼIsraele, nè cinedo fra i figli dʼIsraele. 19.Non portare dono di meretrice, nè prezzo di cinedo[431] alla casa di Jahveh tuo Dio per alcun voto, perchè abborrimento di Jahveh tuo Dio sono ambedue.

20.Non usureggiare verso il tuo fratello, nè usura di denaro, nè usura di cibo, nè usura di alcuna cosa che si presti. 21.Con lo straniero usureggia, non col tuo fratello; acciocchè ti benedica Jahveh tuo Dio in tutto il prodotto delle tue mani, sulla terra nella quale tu vai per possederla.

[290]

La carità di prestare senza interesse era ristretta alla gente dello stesso popolo; ma un giusto interesse sulle prestazioni, perchè così deve intendersi lʼusura permessa dalla legge, non era inibito negli affari che contraevansi con gli stranieri.

22.Quando fai un voto a Jahveh tuo Dio non ritardare a soddisfarlo; perchè lo ricercherebbe Jahveh tuo Dio da te, e sarebbe in te peccato. 23.Ma se ti asterrai dal votare, non sarà in te peccato. 24.Ciò che pronunziano le tue labbra osserverai ed eseguirai, come hai fatto voto a Jahveh tuo Dio, lʼofferta che hai detto con la tua bocca.

25.Quando andrai nella vigna del tuo compagno, mangerai uva secondo il tuo desiderio a tua sazietà, ma non la porre nei tuoi vasi.

26.Quando andrai nella mèsse del tuo compagno, potrai prendere delle spighe con la tua mano, ma non alzare la falce sulla mèsse del tuo compagno.

I pochi grappoli dʼuva o i pochi frutti, o le poche spighe, che si potevano prendere per mangiarle sol luogo, e cavarsi una voglia del momento, non erano considerate un furto; perchè la quantità poteva essere piccolissima, e perchè nei costumi dei popoli agricoli era una concessione che i proprietari reciprocamente si facevano. Ma lʼabusarne fino a portarne via, era considerato come appropriazione illecita.

Però i talmudisti hanno inteso questo luogo in modo molto più restrittivo per i soli operai, dando a questi il permesso di mangiare dei prodotti del terreno, mentre erano occupati a lavorare per conto del proprietario, e anche ciò con altre minuziose limitazioni, che qui non è prezzo dellʼopera enumerare.[432] Sembra dallʼaltro lato che gli scrittori degli Evangeli[291] dessero al nostro testo il significato che appare dalla lettera.[433]

Una legge concernente la donna ripudiata, che avrebbe avuto logicamente il suo luogo fra le altre leggi sul matrimonio, è stata invece dal Deuteronomista relegata qui fra precetti di tuttʼaltro genere.

xxiv. 1.Quando alcuno prenda una donna, e si unisca con lei, e poi ella non abbia grazia presso di lui, perchè avrà trovato in essa alcuna cosa vergognosa; e le abbia scritto una carta di ripudio, e glie lʼabbia consegnata, e lʼabbia mandata via di sua casa; 2.se ella, escita dalla casa di lui, va ad unirsi ad altrʼuomo, 3.e anche il secondo manto lʼodia, e le scrive la carta di ripudio, e glie la consegna, e la manda via di sua casa, o se muore questo secondo marito, che lʼaveva presa in moglie; 3.non può il suo primo marito, che lʼaveva ripudiata, tornare a prenderla, perchè gli sia moglie dopo che è stata contaminata; perchè è abbominazione dinanzi a Jahveh; e non rendere peccaminoso il paese che Jahveh tuo Dio ti dà in eredità.

Non vʼha dubbio che con questa legge il Deuteronomista non ha inteso dʼistituire il divorzio, che era già nei costumi; ma soltanto, riconosciutolo come esistente di fatto, proibire che la donna ripudiata, passata ad altre nozze, ritornasse poi al primo marito.[434] E la ragione della legge è altamente morale, perchè senza tale proibizione si sarebbe potuto fare da uomini corrotti commercio delle proprie mogli, mascherando il turpe mercato sotto la larva dellʼatto legale del divorzio. Anzi si potrebbe dire che il legislatore, se non ha voluto proibire il divorzio, perchè sentiva di non potere su questo punto opporsi al costume, lo[292] ha implicitamente dal lato morale quasi disapprovato, considerando contaminata per il primo marito quella donna repudiata che fosse passata ad altre nozze. Del resto allusioni alla pratica del divorzio trovansi nella vita di Mosè, il quale si dice aver ripudiata la moglie, e Jetro suo suocero avergliela ricondotta (Esodo, XVIII, 2), e anche in certe allegoriche espressioni dei profeti (Isaia, L, 1; Geremia, III, 1). Ma in nessun luogo della Scrittura si trova veramente determinato il diritto del divorzio, e specialmente, ciò che avrebbe maggiore importanza, quali ne dovevano, o ne potevano essere i motivi legittimi. Imperocchè, stando al nostro testo, è innegabile che le espressioni ne sono quanto mai incerte. Il non avere grazia in presenza del marito, cioè il non piacergli più, era per costui ragione sufficiente a ripudiare la moglie? Oppure si richiedeva ancora che trovasse in lei qualche vergognoso difetto, come aggiunge la frase seguente? E questo vergognoso difetto in che cosa doveva consistere? Pare dalle frasi della scrittura che molto arbitrio su questo punto fosse lasciato allʼuomo, e che le donne non fossero difese contro i capricci del sesso più forte da norme fisse e ben determinate.

Si disputò poi fra le scuole rabbiniche quale interpretazione dovesse darsi al nostro testo; e quella dʼHillel teneva qualunque piccola mancanza della donna valevole ragione per ripudiarla, anche se preparasse male al marito le vivande; mentre la scuola di Sciammai non teneva ragione sufficiente se non la mancanza in fatto di onestà; Rabbì ʼAqiba poi avrebbe permesso allʼuomo di ripudiare la moglie anche solo per aver trovato unʼaltra donna che gli piacesse di più.[435] Come[293] è noto, la scuola dʼHillel è in generale quella le cui decisioni hanno prevalso nel Giudaismo; ma in questo punto sono state un poco mitigate rispetto alla donna del primo letto, per la quale è stato imposto di non ripudiarla, se non per grave mancanza; giacchè il ripudiare la prima sposa, la donna amata nella gioventù, è reputata una vera sciagura; e come con poetica frase diceva un Dottore del Talmud, quando alcuno repudia la prima sposa, anche lʼaltare ne piange.[436] Ma per le donne sposate in seconde nozze la legge ebbe meno riguardi, e fu deciso di poterle repudiare anche per il solo motivo che il marito ne concepisse forte avversione.[437] Quando poi una donna fosse di contegno impudico, o non osservasse la legge giudaica in modo da apprestare al marito vivande proibite, o si congiungesse con lui in istato dʼimpurità, fu tenuto quasi obbligo il ripudiarla,[438] e obbligo assoluto in caso di provato adulterio.[439] La donna era di più condannata alla perdita della dote costituitale dal marito; e per la dote di sua proprietà non poteva reclamare se non ciò che ancora ne restava in essere, senza aver diritto contro il marito per ciò che questi ne poteva aver consumato.[440]

Ma se queste leggi, che regolavano il divorzio, sembrano alquanto dure rispetto alla donna, fa dʼuopo dire che alcuni secoli dopo la finale compilazione del Talmud, il celebre rabbino Ghereshom, nel decimo secolo o nel principio dellʼundecimo, stabilì con una sua ordinazione che nessuna donna potesse essere ripudiata[294] senza il proprio consenso, eccetto il caso di gravissime mancanze;[441] come pure a frenare la poligamia, stabilì la scomunica per chi si unisse con più donne.[442] Ordinazioni queste dovute certo allʼinfluenza dei costumi che già si erano resi più miti verso la donna, da riconoscere anche in lei la pienezza di certi diritti, sebbene non si pensasse ancora a porla a pari dellʼuomo. Ma pure anche nel Talmud sullʼargomento del divorzio fu fatto molto a favore della donna, quando le fu riconosciuto il diritto di chiederlo in certi casi al marito e di obbligarlo dinanzi lʼautorità giuridica a scioglierla dal vincolo matrimoniale. Questi casi erano il manifestarsi nel marito certi difetti fisici che le generassero schifo, lʼessersi dato allʼesercizio di mestieri che le producessero lo stesso effetto, come lo spazzino, il conciapelli e simili, lʼessersi manifestato nel marito qualche morbo contagioso pericoloso per il coito,[443] e anche, ad opinione di autorevoli Dottori, la provata e continuata impotenza.[444]

Ma dallʼaltro lato oltre i motivi già sopra accennati che davano facoltà al marito di ripudiare la moglie, aggiunsero la sterilità di questa continuata per dieci anni.[445] Imperocchè lo scopo religioso e morale del matrimonio essendo la riproduzione della specie, se dopo dieci anni di matrimonio una donna non restava incinta, si costringeva lʼuomo a ripudiarla, o almeno a sposarne unʼaltra, acciocchè potesse osservare il precetto religioso: crescite et multiplicamini.

[295]

Il divorzio fa al Deuteronomista ripensare in genere al matrimonio, quindi ripete con più particolare determinazione la dispensa per il nuovo maritato (cfr. XX, 7) dal servizio militare, fissandola al tempo di un anno.

5.Quando alcuno abbia sposato di recente una donna, non esca alla milizia, e non gli sia imposta alcuna cosa, libero stia in sua casa un anno, e rallegri la moglie che ha preso.

Altri precetti di vario genere, ma i più di morale intendimento, si succedono con pochissimo o verun ordine sino alla fine del capitolo.

Abbiamo già veduto quanto sia raccomandato di non angariare il povero che avesse bisogno di prestazioni, nè con usure, nè col prendergli in pegno oggetti di prima necessità (Esodo, xxii, 24–26). Troviamo qui una più particolare specificazione intorno a siffatto argomento.

6.Non si prendano in pegno le macine, neppure la mola superiore; perchè in tal modo si prenderebbe in pegno la vita.

Riportiamoci a tempi nei quali usavano piccoli mulinelli a mano anche per macinare i cereali, e vedremo quanto abbia di moralità un tale precetto. I rabbini poi, stando con ragione più allo spirito che alla lettera del testo, proibirono di pignorare qualunque oggetto necessario per preparare i cibi.[446] Ma perchè il legislatore non ha riunito questo verso col 20 e 21 del capitolo precedente, e con i versi 10–13 di questo stesso capitolo, invece che spezzare in tre brani una legge, che sarebbe stata tutta di argomento quanto mai omogeneo? Sarebbe difficile rispondere a questa domanda, se non adducendo il solito modo di[296] comporre dei Semiti saltuario e a sbalzi, trascinato dallʼidea che a mano a mano si presenta alla mente, non guidato da un concetto ordinatore di tutto lo scritto.

7.

7.Quando si trovasse alcuno che rubasse una persona dei suoi fratelli dei figli dʼIsraele, e se ne impadronisse e la vendesse, sia fatto morire quel plagiario, e sgombra il male di fra te. (V. pag. 103–105).

8.Riguardati assai nel morbo della lebbra per osservare grandemente ed eseguire tutto ciò che tʼinsegneranno i sacerdoti leviti: come gli ho comandati, voi osserverete per eseguire. 9.Rammenta ciò che fece Jahveh tuo Dio a Mirjam nel viaggio quando usciste dallʼEgitto.[447]

Non bastava al Deuteronomista che fosse già imposto di non pignorare gli oggetti più necessarii; ma con isquisita delicatezza impose al creditore di non entrare in casa del debitore per fare il pignoramento, e aspettare fuori che il debitore stesso gli portasse gli oggetti da esser tenuti come pegno.

10.Quando tu sia creditore del tuo compagno di qualche credito, non entrare in casa sua per prendere il pegno. 11.Fuori resterai, e lʼuomo del quale sei creditore, porterà a te fuori il pegno. 12.E se è uomo povero, non ti coricare, ritenendogli il pegno. 13.Glie lo restituirai verso il tramonto del sole, e giacerà con la sua coperta, e ti benedirà, e per te sarà carità appo Jahveh tuo Dio.

Sarebbe impossibile che tale precetto divenisse una legge positiva in una società corrotta, dove il far debiti fosse divenuto unʼindustria, e il debitore cercasse con ogni mezzo dʼingannare il suo creditore. Ma in una società dove i debiti fossero contratti soltanto[297] dai veri bisognosi, e gli abbienti sapessero con tanta umanità comportarsi verso i derelitti dalla fortuna, la quistione sociale non sarebbe ella in gran parte già risoluta, e raggiunti senza violente commozione molti dei desiderii di un ragionevole, e solo possibile socialismo? Nè vogliamo dire con ciò, che mai nemmeno nel popolo ebreo i fatti siano realmente accaduti in tal modo; vediamo anzi che i profeti e i poeti di continuo deplorano le oppressioni che i potenti esercitavano sui poveri;[448] ma sia lode a quei legislatori che hanno saputo mirare a un così alto ideale, ancorchè questo non sia mai divenuto una realtà. Che diremo poi dei Talmudisti, i quali vollero estendere questa mite disposizione anche allʼagente della legge? Certo noi non possiamo nemmeno immaginare gli uscieri del tribunale incaricati di un pignoramento aspettar fuori della porta che il debitore porti loro gli oggetti da pignorarsi; ma se i talmudisti hanno supposto tanta buona fede da una parte, e tanta moderazione dallʼaltra, erano davvero ispirati da una carità degna di qualunque elogio.

Lo stesso sentimento umano e caritatevole dettò il seguente precetto per ricompensare prontamente ognuno che lavori per mercede.

14.Non defraudare il mercenario povero e bisognoso dei tuoi fratelli, o dei forestieri che siano nel tuo paese, nelle tue città. 15.Nello stesso giorno darai la sua mercede, prima che tramonti il sole; perchè egli è povero, e ad essa volge lʼanima sua; acciocchè non invochi contro di te Jahveh, e sia in te peccato. (Cfr. Levit., xix, 13, pag. 179).

[298]

Lʼultima parola di questo precetto ha destato nella mente del legislatore il pensiero che non devono le mancanze di una persona vendicarsi sui suoi discendenti, nè quelle dei figli sui padri. Principio morale troppo spesso dimenticato dal feroce sentimento della vendetta, che vuole, quando non possa perseguitare il vero colpevole, sfogarsi sui più prossimi congiunti, mantenendo così perpetui gli odii, nelle famiglie. Crediamo quindi che con tale precetto, il Deuteronomista non abbia voluto insegnare un principio giuridico, che come tale sarebbe stato inutile, quanto un avvertimento morale. Sebbene dallʼaltro lato è da dirsi che non mancano fatti nella storia del popolo ebreo, dai quali resulterebbe che i figli sono stati puniti per le colpe dei padri. Così furono puniti insieme con Achan anche i suoi figliuoli (Giosuè, vii, 24), e sette discendenti di Saul furono impiccati per espiare un suo delitto (2o Sam., xxi). Inoltre questo precetto del Deuteronomista è in contraddizione col detto del Decalogo, ove si minacciano i nemici di Dio sino alla terza e quarta generazione. Ma queste sono difficoltà insormontabili per chi vuol trovare nella Bibbia una sola dottrina tutta consentanea con sè stessa come prodotto dello spirito di Dio. Chi sa invece che è composta da più uomini in più generazioni non si meraviglia di queste e molte altre contraddizioni dovute alla evoluzione delle idee e dei costumi. E se la ferocia di certi tempi ha voluto ai discendenti far espiare le colpe degli antenati, lodiamo il Deuteronomista che con giustizia e umanità ha saputo dire:

16.Non siano fatti morire i padri per i figli, nè i figli per i padri, ognuno per il suo peccato da fatto morire.

[299]

I talmudisti volsero questo testo a tuttʼaltra significazione, volendo trovarci la esclusione dei prossimi parenti a fare da testimoni lʼuno contro lʼaltro.[449] E per cavarne questo senso, che non vi è in nessun modo contenuto, furono costretti a dire che la preposizione per non significa invece, ma per mezzo, cioè per deposizione. Il principio di escludere i prossimi parenti dal deporre come testimoni è giusto; ma i rabbini dovevano confessare che non resulta in nessun modo da verun passo della Scrittura, piuttostochè volerlo desumere da un luogo che dice manifestamente cosa del tutto diversa.

Dopo avere con questo precetto per un momento divagato da quegli insegnamenti morali che inculcano la carità verso le classi più misere, il Deuteronomista riprende lo stesso argomento, e come massime simili ad altre già sopra esposte qui ci contenteremo di tradurle.

17.Non pervertire il giudizio del forestiere nè dellʼorfano. E non prendere in pegno lʼabito della vedova.[450] 18.E rammenta che fosti servo in Egitto, e ti redense Jahveh tuo Dio di colà; perciò io ti comando di fare questa cosa.

19.Quando mieterai la mèsse del tuo campo, se avrai dimenticato un covone nel campo, non tornare a prenderlo; per il forestiero, per lʼorfano e per la vedova sarà, acciocchè ti benedica Jahveh tuo Dio in tutto il prodotto delle tue mani.

20.Quando batti i tuoi olivi, non ricercare i rami dietro di te; per il forestiere, per lʼorfano e per la vedova saranno. 21.Quando vendemmi la tua vigna non racimolare dietro di te; per il forestiere[300] per lʼorfano, e per la vedova sarà. 22.E ti rammenterai che servo fosti nella terra dʼEgitto, perciò io ti comando di fare questa cosa.

La ricordanza delle oppressioni di ogni maniera sofferte dagli antichi Ebrei in Egitto, doveva indurre i loro animi ad essere pietosi verso tutti i deboli ed infelici; quindi la troviamo come motivo di questi caritatevoli precetti.

I primi tre versi del capitolo xxv stabiliscono la pena della fustigazione determinata in quaranta percosse, ma lasciata allʼarbitrio dei giudici per i casi da applicarsi; giacchè il testo dice soltanto di dover percuotere il colpevole, senza specificare quali colpe erano a siffatta pena sottoposte.

xxv. 1.Quando vi fosse contesa fra alcuni uomini, e ricorressero in giudizio e fossero giudicati, sarà assolto il giusto, e condannato lʼempio. 2.E se lʼempio è meritevole di essere percosso, lo farà cadere il giudice, e lo farà percuotere dinanzi a sè, secondo la sua colpa, a numero. 3.Quaranta colpi lo farà battere, non più; acciocchè non continui a farlo battere oltre questi di gran percossa, e non sia avvilito il tuo fratello alla tua presenza.

La legge scritturale non conosce altre pene che la pena di morte, la multa, già più volte indicata nelle singole colpe, e la flagellazione che qui per la prima volta è indicata; se pure coi talmudisti non è da tenersi che sia stabilita anche in un luogo del Levitico (v. pag. 186). Dimodochè la ragione vorrebbe che questa terza specie di pena fosse da infliggersi per tutte le colpe non sottoposte alle altre due. E non molto diversamente hanno inteso i talmudisti, i quali, consentanei con sè stessi, dissero la pena della flagellazione doversi applicare alla prevaricazione di tutti quei precetti proibitivi che non avevano nella legge[301] sanzione umana, ma ne era lasciata la pena alla provvidenza con la frase di distruzione dellʼanima (Chareth), o anche senza una tale frase (Morte per mezzo celeste), e di tutti gli altri precetti proibitivi, a cui non fosse assegnata veruna pena. A questi però posero un altro limite, sempre col mite intendimento di minorare il numero delle mancanze sottoposte a sanzione penale, esentandone tutti quei precetti la cui prevaricazione non consistesse veramente in un atto determinato e preciso, come sarebbe la maldicenza, la vendetta, il serbare rancore, lo spionaggio e simili.[451] Ma è più da meravigliare che anche per applicare la pena della flagellazione i talmudisti richiedevano che fosse stato fatto al colpevole lʼavvertimento prima che commettesse la mancanza, se non da due persone come nei delitti capitali, almeno da una, purchè, sʼintende, deponessero sempre almeno due testimoni intorno alla vera e propria perpetrazione del delitto o della mancanza.[452] Condizione questa dellʼavvertimento preventivo in ogni singolo caso e ad ogni singolo accusato, che rende molto difficile, se non quasi impossibile, intendere, come lʼapplicazione della pena potesse mai effettuarsi, secondo già abbiamo avvertito, parlando della pena capitale (v. pag. 102 e seg.).

Ma altri mitigamenti introdussero ancora i talmudisti. Mentre il testo scritturale restringe a quaranta il numero delle battiture, essi lo ridussero a un massimo di trentanove;[453] perchè, il testo avendo avvertito che non si poteva in niun modo nulla aggiungere ai numero di quaranta, vollero prevenire il caso possibile[302] di ogni e qualunque errore, riducendo di uno il numero massimo. Inoltre vollero che si avesse riguardo alla costituzione fisica dellʼimputato, e quando questa fosse tale da non poter reggere senza pericolo il numero di trentanove, stabilirono che si dovesse applicare solo quel numero di percosse che il reo poteva sopportare.[454]

Dallʼaltro lato poi lasciarono allʼarbitrio dei guidici lʼinfliggere in certi casi la fustigazione per quelle prevaricazioni a cui secondo la legge scritturale non si dovrebbe applicare pena,[455] e dettero facoltà ai magistrati di condannare a un altro genere di fustigazione, la quale, secondo certi autori, non aveva numero di battiture determinato, secondo altri, non avrebbe mai potuto superare il numero di tredici.[456]

Stabilirono ancora che la pervicace recidiva nelle più gravi mancanze sottoposte alla pena della flagellazione dovesse esser punita con una specie di ergastolo, così angusto ed opprimente, che avrebbe in breve cagionato la morte del reo.[457] Sorte di pena che nella legislazione ebraica è davvero una innovazione del Talmud, e introdotta dalla necessità dei fatti, perchè nella legge scritturale non se ne parla. Si trova però nei libri biblici menzione ancora di carcere, come luogo più di detenzione che di vera e propria pena.[458]

[303]

Difficilmente potrebbe spiegarsi perchè il Deuteronomista fra una legge penale, come quella testè esposta, e unʼaltra intorno a certo vincolo matrimoniale abbia inserito un precetto quale il seguente:

4.Non mettere la museruola al bue, quando trebbia.

Precetto moralissimo, e ispirato da compassione verso gli animali, che trebbiando le biade, soffrirebbero di avere la bocca chiusa, e di non potere soddisfare al desiderio di cibarsi; mentre dallʼaltro lato il danno dei proprietarii sarebbe lievissimo, essendo troppo poca la quantità che in tal modo andrebbe perduta. E certo è tale questo precetto che la società protettrice degli animali pienamente lo approverebbe; ma non si sa vedere perchè abbia trovato qui il suo luogo, e non piuttosto fra altre instituzioni che concernono più da vicino lʼagricoltura.

I talmudisti, come vuole la sana ragione, hanno esteso questo precetto a tutti gli animali, dicendo, che il testo ha esemplificato soltanto il bue, per parlare del caso più frequente.[459] E del resto è pieno il Talmud dʼinsegnamenti pietosi rispetto agli animali, tutti inspirati dal principio generale che si deve ad essi risparmiare ogni inutile sofferenza.[460]

Il vincolo matrimoniale testè accennato consisteva in ciò che una donna, restando vedova senza prole, si trovava vincolata ai fratelli del marito defunto, uno dei quali doveva tenerla come moglie, e se a ciò si fosse rifiutato, sottoporsi a una avvilente formalità per[304] isvincolare la cognata. Questa è lʼistituzione conosciuta sotto il nome di Levirato dalla parola latina Levir.

5.Quando vivessero due fratelli insieme, e morisse uno di loro, e non avesse figli, la moglie del defunto non sia fuori ad uomo estraneo, il suo cognato si unisca a lei, e se la prenda per moglie, per diritto di cognazione. 6.E il primogenito che partorirà sorgerà col nome del suo fratello morto, e non se ne cancellerà il nome da Israele. 7.Se lʼuomo poi non volesse prendere la sua cognata, questa si presenterà alla porta agli anziani e dirà: il mio cognato rifiuta di far risorgere a suo fratello il nome in Israele, non vuole sposarmi come cognata. 8.Allora gli anziani della sua città lo chiameranno, e gli parleranno, e se egli persisterà a dire: non voglio prenderla, 9.la sua cognata gli si avvicinerà in presenza degli anziani, e gli scalzerà la scarpa dal piede, e gli sputerà dinanzi, e alzerà la voce e dirà: così facciasi allʼuomo che non riedifica la casa del suo fratello. 10.E si chiamerà il suo nome in Israele: la casa dello scalzato.

La ragione di questa legge è facile ad intendersi. Non si voleva, per quanto possibile, la distruzione di una famiglia. Morto alcuno senza prole, uno dei fratelli aveva lʼobbligo di non lasciare abbandonata la vedova, ma considerarla come propria moglie, e il primo figliuolo che nascesse, tenerlo quasi come un fratello redivivo, il quale ancora aveva diritto alla parte che sarebbe a quello spettata nei beni della famiglia. Era una legge che mirava nel medesimo tempo allʼintegrità della famiglia, e alla conservazione in questa dei suoi possessi. Però stando al significato letterale del testo, secondo lo hanno inteso la maggior parte degli interpetri,[461] lʼobbligo del levirato sarebbe ristretto al solo caso in cui i fratelli coabitassero insieme o almeno nello stesso paese, e avessero in comune, o vicini, i loro possessi. Ma le espressioni[305] del testo si prestano ancora ad essere intese in modo più lato, potendo significare: quando vivessero contemporaneamente, prendendo la parola insieme relativa al tempo e non allo spazio. E così lo hanno inteso i talmudisti, tenendo che esistesse questo vincolo del levirato per tutti i fratelli, ancorchè vivessero lʼuno lontano dallʼaltro.[462]

Questa legge però è in contraddizione con altra del Levitico, già sopra accennata (pag. 199 e seg.), secondo la quale senza distinzione fra lʼesservi o non esservi prole, ogni unione matrimoniale con la moglie del fratello è tenuta incestuosa. Quello però che ci viene narrato nel libro del Genesi (xxxviii) rispetto a Tamar e ai figli di Giuda prova che presso gli Ebrei, come presso altri popoli, lo sposare la vedova del fratello morto senza prole fosse un costume generale. Il Deuteronomista si è uniformato a questo costume, lo ha regolato con una legge, e ha disposto anche il modo per sciogliere il vincolo, quando al fratello superstite non piacesse di sobbarcarsi a tale obbligo. E già questo è un avanzamento per modificare un costume che dal citato fatto di Tamar parrebbe fosse in ogni caso obbligatorio, non avendo trovato Giuda mezzo per discioglierne, come avrebbe desiderato, lʼultimo dei suoi figli, se non quello di procrastinare il matrimonio con mendicati pretesti. Un altro legislatore, che come abbiamo detto a suo luogo, mirava a stabilire istituzioni di più alta purità di costume, tentò di fare astenere da ogni unione matrimoniale anche gli affini di questo grado. Ma come i fatti dimostrano, un tale tentativo rimase in questa parte frustraneo, e presso gli Ebrei[306] fu prevalente lʼantico costume sancito dalla legge del Deuteronomista.[463]

Ora è a domandare: questʼobbligo di far rivivere in certo modo la famiglia di un defunto senza prole, era soltanto tra fratelli o ancora fra più lontani parenti? Alcuni hanno voluto concludere dal libro di Ruth per questa seconda opinione; imperocchè parrebbe che Ruth, essendo rimasta vedova senza figli, e non avendo nè anche fratelli del marito, si trovi vincolata al più prossimo parente di esso. Questi poi rifiuta di sposarla mediante la forma legale dello scalzamento della scarpa, e allora in suo luogo la sposa Booz, che gli succedeva per titolo di prossima affinità. A noi sembra però che nel caso di Ruth lʼobbligo di sposare questa vedova derivasse non dal costume o dalla legge del levirato, ma dal fatto che i più prossimi parenti avevano il diritto di ricuperare i possessi territoriali già appartenuti alla famiglia del defunto, acciocchè non passassero ad estranei; ed insieme a questo diritto si univa il correspettivo obbligo di sposare la vedova, obbligo che non si può concludere dovesse essere in ogni caso, anche laddove non fosse stato luogo a ricuperazione dei beni.

Si domanda ancora se la Scrittura ha inteso di stabilire questo vincolo, nella mancanza di ogni prole, o anche nella mancanza di sola prole maschile. Se si riflette che la famiglia massimamente presso i popoli antichi era costituita dai maschi, dimodochè si poteva dire non avesse vera e propria successione chi lasciava soltanto prole femminile, saremmo inclinati a[307] credere che il legislatore ha voluto sancire il vincolo fra cognato e cognata ogni qual volta il morto non lasciasse figli maschi, valutando a tale effetto di niuna importanza le femmine; tanto più che, come vedremo a suo luogo, il diritto ereditario conceduto alle figlie in precedenza dei collaterali è una innovazione introdotta assai più tardi nel codice sacerdotale. Inoltre la parola usata dalla Scrittura nel nostro testo è ben, figlio, mentre invece per indicare in genere la prole di qualunque sesso avrebbe dovuto dirsi piuttosto zerʼa. Non ostante i rabbini, come di necessità doveva resultare dal tutto insieme degli istituti prevalenti ai loro tempi, esentarono dal legame del levirato in ogni caso che vi fosse prole dellʼuno o dellʼaltro sesso.[464] E bastava, a loro opinione, anche la prole nata da qualunque altra donna, anche spuria, purchè non fosse da una schiava, o da una non ebrea.[465] Così pure se il defunto senza prole lasciava più vedove, essendo permessa la poligamia, non tutte erano vincolate ai cognati; ma col matrimonio o con lo scioglimento di una qualunque tra esse, tutte le altre rimanevano libere.[466]

Stabilirono inoltre che non esistesse del tutto il vincolo del levirato, quando la vedova si trovasse col cognato in tal grado di parentela o di affinità che per legge il matrimonio fosse proibito; e svincolava da tal legame non solo sè, ma anche le altre mogli, se il defunto fosse stato poligamo.[467] Nel caso fossero più fratelli, la precedenza spettava al maggiore di età, ma quando questi vi rinunziasse, si procedeva a interrogare[308] gli altri per anzianità, fino a che si concludesse in qualche modo o al matrimonio o allo scioglimento.[468] Nel caso poi che ella assolutamente non volesse sposarsi col maggiore dei cognati, quando questi non rinunziasse al suo diritto; o con nessuno degli altri, quando il maggiore vi rinunziasse, ammettevano i rabbini che ne potesse essere sciolta, ma sotto pena di perdere la dote costituitale dal marito.[469] In questo modo il Talmud riconobbe nella donna un certo diritto alla propria libertà, che parrebbe dalla lettera del testo non fosse ammesso. E tanto più lo riconobbero, quando stabilirono che potesse legittimamente rifiutare il cognato senza essere sottoposta a niuna pena, quando quegli avesse qualcuno dei difetti già sopra enumerati (pag. 294), pei quali la donna avrebbe avuto il diritto di chiedere il divorzio.[470] Imperocchè non si sarebbe potuto obbligare la donna a sposare un uomo, in quei casi, nei quali anche dopo il matrimonio le sarebbe stato riconosciuto dalla legge il diritto di separarsene.

Riconoscendo poi i rabbini, perchè vi erano costretti dalla lettera della legge, lʼesistenza del vincolo fra i cognati, disputarono a che cosa si dovesse dare la precedenza, se allʼatto matrimoniale che regolava e confermava questo vincolo, o allʼatto di scioglimento.[309][471] Pare che nei tempi più antichi prevalesse la prima opinione; ma pure in molti casi, nei quali potesse con qualche fondata ragione credersi che cognato e cognata non fossero convenienti lʼuno allʼaltro, i magistrati dovevano consigliare piuttosto allo scioglimento che al matrimonio.[472] Avendo poi che fare con uomo poco onesto che volesse profittarsi del diritto che gli accordava la legge sopra la cognata, i rabbini arrivarono fino a permettere che gli si promettessero dei danari per indurlo a sciogliere dal vincolo la cognata, anzichè costringere questa a sposarlo.[473] Nei tempi più moderni fra i Dottori posteriori al Talmud continuò a disputarsi se al matrimonio od allo scioglimento dovesse darsi la preferenza. E lʼAlfasi e il Maimonide decisero per il matrimonio, nel senso di dovere obbligare la donna a sposare il cognato o a sottostare alla pena della perdita della dote. LʼIsaacita e Giacobbe ben Meir opinarono che si dovesse nella maggior parte dei casi piuttosto sciogliere il vincolo che obbligare al matrimonio. E dai passi del Talmud citati pro e contro sembra che questi ultimi Dottori si appongano più al vero.[474]

Ad opinione poi di tutti, si dovè preferire lo scioglimento, nel caso che i fratelli del defunto fossero già coniugati, in tutti quei paesi dove gli Ebrei accettarono lʼistituzione del Dottore Ghereshom contro la poligamia, della quale già sopra abbiamo fatto cenno.

In quanto al diritto ereditario il Talmud stabilì che tutti gli averi del defunto fossero di quello dei fratelli che sposasse la cognata, ma nel caso di scioglimento,[310] tutti i fratelli fossero eredi in quota eguale, come in ogni altro caso in cui la successione fosse devoluta ai collaterali.[475] Le formalità dello scioglimento consistenti nello scalzare la scarpa del cognato, nello sputargli davanti, e nel gridargli: scalzato, doveva farsi dinanzi a un magistrato di tre giudici, e con certa pubblicità.[476] In origine questi atti significavano certo dispregio verso lʼuomo che si ricusava di far risorgere lo spento nome del fratello. Ma continuarono queste forme ad usarsi per ossequio più alla lettera che allo spirito della legge, anche quando lʼatto dello scioglimento fosse provocato per volontà della donna, o per consiglio del magistrato, anche nei tempi nei quali fu data allo scioglimento la preferenza sul matrimonio; e si capisce bene che allora essi perdettero ogni odioso significato, e restarono come vuote forme, che più nulla esprimevano.

Abbiamo veduto nel primo codice (pag. 109 e seg.), una legge rispetto allʼindennità e alla multa dovuta da chi, altercando con altri, percotesse per caso una donna incinta. Qui il Deuteronomista prevede il caso che fra due rissanti sʼintrometta la moglie di uno, e per salvare il marito assalga lʼaltro, e sfacciatamente lo offenda nelle parti genitali. Nuovo genere di pena troviamo sancito in questo caso, il taglio della mano.

11.Quando alterchino alcuni fra loro, uomo contro il suo fratello, e si avvicini la moglie di uno per liberare il suo marito dalla mano di chi lo percuote, e stenda la sua mano, e lo prenda per le pudende, 12.le taglierai la mano, il tuo occhio non le avrà compassione.

[311]

I talmudisti mitigarono molto questa pena, e le tolsero quanto aveva di odioso riducendola a una multa, e a una indennità[477] per gli stessi titoli, dei quali già altrove abbiamo discorso, trattando delle lesioni corporali. Estesero poi da un lato la pena, perchè la sancirono non solo per lʼoffesa corporale fatta toccando le pudende, ma anche qualunque altra parte. E dallʼaltro la restrinsero alla sola moglie di uno dei rissanti, ma vollero libera dalla pena la moglie di un agente della pubblica forza, se intervenisse per liberare il marito da chi gli opponesse resistenza.[478]

Le due ultime leggi, con le quali si chiude questo capitolo sono lʼuna (v. 13–16) ripetizione di quanto già era raccomandato nel Levitico (xix, 35, 36) di usar misure e pesi giusti; lʼaltra è nuova indizione di guerra contro gli Amaleciti, come già abbiamo veduto nellʼEsodo (xvii, 14–16).

E qui ha termine la parte legislativa del Deuteronomio.

Il capitolo xxvi non fa se non prescrivere certe formalità per lʼofferta di quelle decime già imposte nel capitolo xiv, 22–29 (v. sopra, pag. 219). Queste si dovevano accompagnare con un rendimento di grazie a Dio per i beni prodigati alla nazione e agli individui; con una dichiarazione di avere adempito a quanto imponeva il rito, tanto per avere usato elargizione ai leviti, agli stranieri, agli orfani e alle vedove, quanto per non aver mangiato di queste decime in istato dʼimpurità; e finalmente con una preghiera, perchè[312] Dio continuasse la sua benefica provvidenza per il popolo tutto, in ispecie con la fertilità delle terre (v. 1–15).

Comincia quindi come conchiusione della parte legislativa e precettiva una bellissima esortazione a seguire glʼinsegnamenti di Jahveh, perchè, così facendo, ne sarebbe derivata ogni sorta di prosperità. Esortazione, che, dopo il verso 19, malamente nella forma presente del Deuteronomio, è stata interrotta col cap. xxvii, che è manifestamente una interpolazione.[479] Qualunque lettore può accorgersi che il primo verso del cap. xxviii è intimamente connesso con lʼultimo del capitolo xxvi. Il discorso esortativo si succede così bene che nulla più potrebbe desiderarsi. Mentre lʼinserzione del cap. xxvii guasta proprio ogni cosa.

Si vedano questi passi, acciocchè ognuno ne possa restare convinto.

xxvi. 16.Oggi Jahveh tuo Dio, ti comanda di eseguire questi statuti e queste leggi; e le osserverai, e le eseguirai con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima. 17.A Jahveh tu prometti oggi che ti sarà Dio, e seguirai le sue vie, e osserverai i suoi statuti, e i suoi precetti, e le sue leggi, e obbedirai la sua voce. 18.E Jahveh ti promette oggi che tu gli sarai popolo di sua proprietà, come ti disse, e che osserverai i suoi precetti, 19.e che ti [313] porrà superiore a tutti i popoli che ha creato, per lode nome e gloria, e che tu sarai popolo santo a Jahveh tuo Dio come parlò.

xxviii. 1.E se ascolterai la voce di Jahveh tuo Dio per osservare ed eseguire tutti i suoi precetti che io ti comando oggi, Jahveh tuo Dio ti porrà superiore a tutte le genti della terra, 2.e verranno sopra te tutte queste benedizioni e ti toccheranno, quando ascolterai la voce di Jahveh tuo Dio.

Si prosegue poi ad enumerare nei particolari le benedizioni generalmente enunciate. Ma, se fra il cap. xxvi e il xxviii inseriamo il xxvii, come ora lo troviamo, la logica e naturale sequela delle idee è malamente interrotta. E infatti nel cap. xxvii si dice che Mosè e gli anziani comandano al popolo di scolpire nelle pietre la legge divina, quando avessero passato il Giordano, fabbricare un altare, e fermarsi distribuito in due parti di sei tribù ognuna sui due monti Gherizim ed Ebal, per pronunziare le benedizioni e le imprecazioni, e quindi ad alta voce maledire chi commettesse certi peccati o delitti, a cui sembra voglia darsi così maggiore importanza. Ma lʼimprecazione contro certi speciali delitti è cosa troppo diversa dal concetto, che qui può formare solo argomento della chiusa della legge, cioè la promissione di felicità, se questa venisse osservata, e la minaccia di sciagura, quando fosse posta in non cale. Di più questo stesso capitolo xxvii si mostra manifestamente poco consentaneo nelle sue diverse parti. Imperocchè mentre nei versi 11–13 si parla di benedizione e maledizione, ripetendo cosa altrove già detta (xi, 29–32) e che secondo il libro di Giosuè (viii, 30–35) sarebbe stata a suo tempo eseguita, nei vv. 14–26 troviamo che i Leviti dovevano ad alta voce pronunziare la maledizione contro certi speciali peccatori.

[314]

Da ultimo, se lʼoriginale composizione del Deuteronomio avesse contenuto il cap. xxvii, quello seguente avrebbe dovuto avere necessariamente un suo proprio principio con le parole «e Moisè disse ai figli dʼIsraele» o qualche cosa di simile. E difatti così vediamo farsi in tutto il Pentateuco ogni volta che si prende a trattare un nuovo argomento, o che dalla parte narrativa si passa a quella precettiva. Ora il Deuteronomio ci appare come un discorso continuato dal cap. v fino a tutto il xxvi, dimodochè non è mai necessario riprendere lʼargomento con qualche speciale introduzione, ma basta quella posta al principio del cap. v. Il cap. xxvii che tratta un argomento diverso, incomincia secondo il solito stile con le parole «e comandò Mosè», e vediamo che lʼargomento si ripiglia di nuovo al v. 9 e al v. 11 con simili transizioni. Ma siccome il cap. xxviii non continua per nulla lʼargomento del xxvii, e si riconnette col xxvi, sarebbe stato troppo necessario che incominciasse con le parole testè accennate. Queste invece mancano del tutto, e ciò solo sarebbe ragione sufficiente per indicare che il cap. xxvii è una interpolazione.

Il cap. xxviii poi è bellissima conclusione profetica a tutta la legge contenuta in questo libro, e particolarmente per la fierezza delle minaccie nella seconda parte, che sono proprio una pittura dei miseri destini del popolo ebreo nella sua lunga peregrinazione a traverso i secoli, dacchè ha cessato la sua politica esistenza come nazione indipendente. E se non fosse un passo troppo lungo, e del resto anche un poco alieno dal nostro argomento, volentieri ne daremmo tutta la traduzione, ma valgano come saggio i soli undici ultimi versi.

[315]

58.Se non osserverai di eseguire tutte le parole di questa legge scritte in questo libro di temere questo nome glorioso e venerabile, Jahveh tuo Dio, 59.Jahveh accrescerà le tue piaghe e le piaghe della tua prole, piaghe grandi e costanti, e infermità maligne e perpetue. 60.E volgerà contro di te tutti i dolori dellʼEgitto dei quali temesti, e ti si attaccheranno. 61.Anche ogni infermità e ogni piaga, che non è scritta in questo libro della legge, la farà venire Jahveh contro di te, sino che ti distruggerà. 62.E rimarrete poca gente, mentre sarete stati come le stelle del cielo in moltitudine; poichè non avrai ascoltato la voce di Jahveh tuo Dio. 63.Ed avverrà che come godè Jahveh di voi per farvi bene e per moltiplicarvi, così Jahveh godrà di voi per disperdervi e per distruggervi, e sarete rimossi dalla terra nella quale tu vai per possederla. 64.E Jahveh ti spargerà in tutti i popoli da un estremo allʼaltro della terra, e servirai colà altri Dei, che non conoscesti nè tu nè i tuoi padri, di legno e di pietra. 65.E fra quelle nazioni non avrai quiete, non sarà riposo alla pianta del tuo piede, e Jahveh ti darà ivi cuore tremante, e struggimento di occhi, e dolore di animo. 66.La tua vita sarà sospesa innanzi a te, e avrai paura di notte e di giorno, nè crederai alla tua vita. 67.Nella mattina dirai: chi mi porta la sera? e nella sera dirai: chi mi porta la mattina? per la paura che temerai nel tuo cuore, e per le cose che vedrai coi tuoi occhi. 68.E Jahveh ti farà tornare in Egitto sulle navi, per quella via che ti aveva detto: non continuerai più a vederla; e sarete venduti colà ai vostri nemici per servi e serve, nè vi sarà compratore.

Questo misero destino già in parte cominciava a vessare il popolo ebreo fino da quando si scrivevano tali minaccie; imperocchè ai tempi del re Josia, già da un pezzo il regno samaritano più non esisteva, e gli abitanti ne erano stati in gran parte deportati come prigionieri; nè era difficile prevedere che nella guerra poi sorta fra il piccolo regno giudaico e lʼEgitto quello sarebbe stato vinto, e avrebbe subìto la sorte cui specialmente si allude nellʼultimo versetto.

Non si può ormai seriamente dubitare che la compilazione della legge deuteronomica non sia stata fatta o poco prima del regno di Josia sotto il suo predecessore[316] e padre Menasse, o anche nei primi anni del suo governo.[480] Si racconta nel secondo libro dei Re (xxii, 8 e seg.) che nel 18o anno del governo di Josia, il sommo sacerdote Ḣilqijahu trovasse nel tempio un libro della legge da lui consegnato allo scriba Shafan, il quale ne fece lettura al re. La prima impressione che questi ne ricevette fu così trista, che si stracciò per dolore le vesti; perchè sapeva bene che i comandi di quella legge non erano stati osservati nemmeno dai loro antenati (ivi, 11–13). Come è possibile che se questa legge fosse esistita ab antico, il contenuto ne giungesse così nuovo e sorprendente ad un re, dallʼaltra parte tanto pio, quale ci viene presentato Josia? Il quale poi consultata la profetessa Ḣulda, si dà molto da fare, acciocchè quindi innanzi la legge sia osservata, non solo col togliere intieramente ogni culto politeistico o idolatrico, ma anche concentrando quello di Jahveh nel tempio di Gerusalemme. Anzi come inizio di tale riforma fa celebrare la pasqua delle azzime, in modo che secondo quel narratore non era stata più celebrata, dal tempo dei Giudici (ivi, xxiii, 1–25).

Se richiamiamo alla memoria che, oltre le continue esortazioni contro il politeismo e lʼidolatria, precipua caratteristica del Deuteronomio è di stabilire lʼaccentramento del culto in un solo luogo, accentramento, di cui per nulla si fa parola nella legge anteriore del primo codice, ci persuaderemo facilmente che la legge deuteronomica non fu ritrovata, ma per la prima volta compilata verso i tempi del re Josia. Imperocchè non[317] è supponibile che se scritta ab antico, allora giungesse agli orecchi non pure del re, ma anche ai maggiorenti del popolo, come cosa del tutto nuova.

Era inoltre la legge del Deuteronomio il resultato naturale della predicazione dei profeti, che da Amos fino a Zefania e a Geremia si erano sforzati di richiamare il popolo alla pura religione di Jahveh, e alla osservanza di una morale nobile ed elevata. Nè vale lʼobbiezione che anche sotto tutti i re antecedenti troviamo dagli autori, che ne raccontano la storia, disapprovato il costume di sacrificare sugli altari sparsi in più luoghi fuori di Gerusalemme, quasi fino da tempi antichi fosse esistita una legge che lo proibisse. Imperocchè lo scrittore, o per meglio dire, il compilatore dei libri dei Re con questa sua disapprovazione non ha fatto altro che adattare i fatti a una legge posteriore esistente ai suoi tempi, ma non a quelli dei re di cui narrava la storia. E infatti monarchi religiosi come Asà e Geosafatte, per non parlare di altri, non avrebbero consentito che si continuasse lʼesercizio del culto fuori del tempio di Gerusalemme, se fosse già esistita una legge che come quella del Deuteronomio esplicitamente lo vietava (v. pag. 214 e seg.). Invece essi non vi si opponevano, perchè non vi si opponeva la legge del primo codice, la sola ad essi conosciuta, che diceva anzi, come abbiamo veduto (pag. 40), «in ogni luogo dove rammenterai il mio nome verrò a te e ti benedirò».

Però se la compilazione del codice deuteronomico e la primitiva composizione di quelle parti che concernono lʼaccentramento del culto è da riportarsi ai tempi che abbiamo testè accennato, non ne viene di necessaria conseguenza che tutte le leggi e tutti i[318] riti di cui esso consta siano stati per la prima volta allora costituiti. Questo in niun modo potrebbe sostenersi per le non poche disposizioni che ripetono quelle del primo codice o delle novelle a questo aggiunte; ma può ancora molto probabilmente credersi che molte civili e morali istituzioni si siano a poco a poco successivamente stabilite. E senza menar buona lʼopinione dello Steinthal, che vuole anche la legge deuteronomica compilazione di più autori,[481] si può benissimo tenere per vero che, scritta da un solo autore, perchè lʼunità di composizione non è da negarsi, questi abbia raccolto leggi e riti che antecedentemente esistevano.

Ciò può applicarsi specialmente a una gran parte dei capitoli xxxxv. E in questa maniera cade lʼobbiezione che fa il Kleinert[482] contro la possibilità di ritardare la composizione del Deuteronomio fino agli ultimi tempi del regno giudaico, giacchè egli osserva che non vi era più opportunità per istituire certe leggi che solo in esso si trovano. Ma se si ammette che queste istituzioni esistevano anche antecedentemente, e che il deuteronomista le ha accolte nel suo codice, combinandole in modo da non guastare lʼunità della sua composizione, la proposta difficoltà del tutto si dilegua. Del resto poi ciò fanno gli autori di tutti i codici. Prendiamo, per tacere di altri, anche il codice napoleonico, il nostro italiano, e troveremo che pur molto innovando, hanno ripetuto e convalidato non poche istituzioni che prima di essi esistevano. Nè altrimenti[319] è da dirsi del Deuteronomio, vera sintesi legislativa tanto delle istituzioni già scritte, quanto di altre che con lʼandar del tempo si erano stabilite nel popolo; ma sopratutto della religione e della morale che i profeti con ispirato entusiasmo e con potente parola avevano da lungo tempo insegnato.

Questo codice poi doveva una volta ogni sette anni, allo scadere dellʼepoca della Shemittà (v. sopra, pag. 33) pubblicamente leggersi nella festa delle capanne, dinanzi al popolo convenuto in quella occasione nel luogo centrale del culto. Anzi mentre nelle altre solennità lʼobbligo di presentarsi nel tempio era solo per gli uomini adulti, a questa pubblica lettura dovevano assistere anche le donne e i bambini. (Deut., xxxi, 10–13). Se il passo che impone questʼobbligo appartenga allo stesso autore della legge,[483] o al compilatore del libro nella sua forma presente,[484] poco rileva al nostro assunto. Non vi è dubbio però che per la legge imposta alla pubblica lettura, si deve intendere solo quella del Deuteronomio. Così infatti hanno inteso anche i talmudisti, che dettero a questa cerimonia tanto grande importanza e solennità, da stabilire che la lettura doveva esser fatta dal re assistito dai più grandi dignitarii, fra i quali anche il sommo sacerdote.[485] Questo fatto però che la pubblica lettura della legge si restringesse o al Deuteronomio, o come vuole una tradizione rabbinica a certi luoghi di esso,[486] vale vie più[320] a comprovare che questo libro formava in origine una raccolta di leggi per sè, prima di essere unito alle altre tanto più antiche quanto più recenti, e che continuò ad avere questa importanza anche dopo la finale compilazione del Pentateuco.


[321]

Capitolo IX

IL CODICE DI EZECHIELE. IL CODICE SACERDOTALE

La riforma introdotta dal re Josia col codice deuteronomico non salvò il piccolo regno giudaico dalla estrema rovina. Dopo non lungo tempo cadde sotto la soverchiante potenza babilonese, come già il regno di Samaria era caduto sotto quella assira. Ma il sentimento religioso, che i profeti avevano ispirato colla loro predicazione, anzichè attutirsi, acquistò maggior forza nellʼestinguersi della nazionale indipendenza, e i profeti seppero anche nella terra dʼesilio mantener vivo il fuoco sacro dellʼebraismo.

Per tacere dʼaltri, di cui altrove già abbiamo discorso;[487] e per tenerci soltanto a quello che più da vicino si connette col nostro argomento, diremo che Ezechiele ci si presenta non solo come profeta, ma come vero istitutore di ordini e precetti per il culto, cui sono miste pochissime civili disposizioni. Nè già si tratta di un culto quale gli Ebrei avrebbero potuto praticare nel paese di esilio; ma di quello che si sarebbe dovuto esercitare nella restaurata Gerusalemme, imperocchè la certa[322] fiducia di un non lontano risorgimento non mancò mai ai profeti, e nemmeno ai più credenti del popolo. Certo che in Ezechiele lʼamore di un culto non più possibile a praticarsi fuori della patria terra, doveva tanto più vivamente farsi sentire, in quanto egli stesso era sacerdote, e doveva rammentare con pena la passata sua gioventù, quando come tale officiava nel tempio di Gerusalemme. Al tempio, di fatto, volano talvolta i suoi ardenti pensieri, e quando ancora quello non è distrutto, sebbene egli con la miglior parte dei suoi concittadini sia esule, immagina di essere come in estasi rapito da Babilonia a Gerusalemme, per vedere ciò che si faceva nel Santuario, e ne rimane addolorato non trovandovi altro che profanazione (viiixi). La sua qualità di sacerdote, e la profonda fede nella religione di Jahveh, fanno sì che, quando immagina il suo popolo risorto e ristabilito nella terra dei suoi padri, non possa pensarlo senza un tempio centro del culto, e senza una casta sacerdotale che in quello offici. Crede perciò che a dare maggior stabilità al futuro Stato, che certo, secondo le sue speranze, non avrebbe potuto mancare di risorgere, faccia dʼuopo un ordinamento del culto. Nè è da pensar che, ciò facendo, egli inventi qualche cosa di artificioso, od obbedisca a un sentimento solo a lui personale. La storia successiva del Giudaismo prova che egli si faceva interprete di un sentimento che a poco a poco diveniva comune. È da supporsi che nella terra dʼesilio gli Ebrei pensassero di avere troppo trascurato quella religione di Jahveh, alla quale i profeti avevano raccomandato di consacrarsi sotto pena di cadere altrimenti in totale rovina. Questa fatalmente era sopraggiunta, ed è naturale che nella sciagura si pensasse essere la[323] religione il mezzo per poter di nuovo risorgere. Ma una religione svincolata dalle pratiche del culto, quale i più grandi profeti avevano predicata, è troppo difficile che divenga quella a cui le turbe si affidano, ed è più facile far credere che la religione consiste in pratiche esterne, ed in sacrifici che possono placare un Dio irato. Una religione che stia solo nellʼamore del prossimo e di un alto ideale (si chiami pur questo Iddio, se così piace) è stata predicata da qualche profeta e da qualche poeta del Vecchio Testamento, dal Cristo, e da alcuno dei suoi apostoli; ma è lontano ancora il giorno, se pur mai verrà, che possa davvero regnare sola fra gli uomini.

È molto facile, e molto comodo ancora beffarsi delle religioni e dirle false e assurde; ma studiarle sul serio per formarsi una vera coscienza religiosa, sia anche per giungere alla negazione; spogliare le religioni di ciò che hanno di sensuale transitorio e temporaneo, per ritenerne lʼideale ed eterno, e convertirlo nel fine supremo, a cui si dovrebbe aspirare, non come fine soprannaturale ed estraterreno, ma come supremamente umano, ecco ciò che è davvero difficile e dato a pochissimi. Nè sono certo le classi sacerdotali di nessuna religione positiva che hanno inteso e insegnato la religione sotto tal forma. Esse insistono principalmente nella osservanza di pratiche insignificanti, e dicono crudelmente punito anche per tutta lʼeternità colui che le trascura, mentre assolvono o per un sacrifizio o per una preghiera chi ha commesso anche i più grandi delitti. Ma non è questa la religione che avrebbero insegnato i veri Profeti e i veri Apostoli, ben diversi dai sacerdoti che hanno voluto dare ad intendere dʼinterpretare di quelli i nobilissimi insegnamenti. Un profeta[324] dellʼantico Testamento ha detto una volta per tutti coloro che vogliono essere veri maestri di religione: Misericordiam volui et non sacrificium (Hosea, VI, 6). E per misericordiam è dʼuopo intendere tutta la morale, tutta la benevolenza che deve legare gli uomini fra loro; per sacrificium tutte le esterne pratiche religiose, che certo nulla conferiscono al conseguimento dellʼideale, ed immergono anzi sempre più lʼuomo nella volgarità dei sensi. Lʼebraismo era stato incamminato dai suoi grandi profeti dellʼ8o, 7o e 6o secolo in quella via ascendente che gli avrebbe fatto salire

....... il dilettoso monte
Chʼè principio e cagion di tutta gioia;

ma lo hanno fatto ritornare alla noja della selva oscura i sacerdoti, gli scribi e i farisei, autori, conservatori e interpreti di una religione che ha voluto, se non tutta, certo principalmente consistere in pratiche esteriori, in riti minuziosi e puerili.

E uno dei primi a volgerla per questa via angusta è stato Ezechiele, il quale ha certo in sè due lati, uno del nobile profeta, e lʼaltro del pratico sacerdote. A lode di lui dobbiam dire che la maggior parte dei suoi scritti ce lo presenta sotto il primo aspetto; imperocchè diretti a un insegnamento rituale sono specialmente gli ultimi capitoli del suo libro (xlxlviii); e di questi dobbiamo ora occuparci.

Ezechiele, secondo è suo stile, che preferisce la forma della visione, immagina di essere rapito in estasi nella terra dʼIsraele; e là sopra un alto monte vedere dalla parte di mezzogiorno una città edificata, quindi apparirgli un essere di forma umana ma di colore di rame, con in mano una corda e una pertica per misurare.[325] Da questo gli viene rivelato quale debba essere la forma del futuro Santuario, di cui si fa ampia e particolareggiata descrizione (xlxlii); ma tale pur non ostante che a noi rimane oscurissima, ed è quasi impossibile formarsi un concetto del disegno di tale edificio.

Dopo questa descrizione apparisce al profeta la gloria divina nella stessa forma come nella celebre visione del carro narrata nella introduzione ai suoi vaticinii, e da Dio il profeta sente comandarsi ciò che riguarda il rito del tempio (xliii, 1–10).

Questo è posto in cima ad un monte, che dobbiamo supporre essere il Moria, e tutto il recinto intorno intorno per lʼestensione di cinquecento pertiche (xlii, 16–20) è dichiarato territorio santo (xliii, 12). Si danno poi le dimensioni dellʼaltare (13–17), e si prescrive il rito della sua consacrazione che doveva celebrarsi dai sacerdoti discendenti di Zadoq, nel primo giorno, col sacrificio espiatorio di un toro, nel secondo, con quello di un capro, accompagnato dallʼolocausto di un altro toro e di un montone, i quali sacrifici dovevano essere ripetuti per sette giorni, colla sola differenza che nel primo giorno il sacrifizio espiatorio era di un toro, negli altri sei di un capro.[488] Compiuta la consacrazione, dallʼottavo giorno in poi lʼaltare era atto per celebrarvi ogni specie di sacrificio (18–27).

La porta orientale del tempio, presso la quale venivano rivelati gli esposti riti, doveva essere chiusa, perchè per essa vi era entrata la gloria divina, e avrebbe potuto aprirsi soltanto per dare accesso al principe[326] (xliv, 1–3). Passando quindi a parlare delle persone dei sacerdoti, si vogliono escludere in prima da tale ministero tutti glʼIsraeliti estranei alla tribù di Levi (4–8). Ma anche fra i Leviti molti sono incirconcisi di cuore e di carne, i quali, sebbene nel passato offrissero gli olocausti e altri sacrifizii, pure se ne erano resi indegni, assentendo al popolo nelle sue pratiche di culto idolatrico; perciò erano degradati a fare il servizio inferiore del tempio, ed esclusi dal sacro ministero dellʼaltare (9–14), cui erano chiamati i soli Zadoqiti. Questi si erano mantenuti puri in mezzo agli errori comuni del popolo, e perciò potevano entrare nel Santuario, e accostarsi alla mensa divina. Ma dovevano vivere con ispeciali leggi di purità. Vestirsi di puro lino ogni volta che ministravano, e deporre i sacri abiti prima di escire fra mezzo al popolo. Non radersi il capo, e non lasciare troppo crescere la chioma; e pare, sebbene la ragione non sia accennata, perchè costume lʼuno e lʼaltro che sa di lascivia. Non ber vino ogni qual volta erano per entrare nellʼatrio interno del tempio. Non unirsi in matrimonio nè con vedove, nè con ripudiate, eccetto che con la vedova di altro sacerdote. Non rendersi impuri, avvicinandosi a morti, tranne che per il lutto dei più prossimi parenti, cioè genitori, o figli, o fratelli o sorelle nubili. Finito il lutto dei quali, il sacerdote per poter tornare al suo ministerio, doveva celebrare un rito di purificazione.

Gli officii del sacerdote erano dʼinsegnare al popolo la legge e la religione, di giudicare le materie contenziose, e sorvegliare allʼosservanza delle feste e del sabato. I suoi redditi, non avendo possessione territoriale al pari degli altri, consistevano nelle offerte,[327] nei sacrificii espiatori fatti dal popolo, negli oggetti da questo consacrati, e nelle primizie prelevate dai raccolti e anche dalla pasta del pane. Si conclude col raccomandare specialmente ai sacerdoti di astenersi dalle carni di animali dilaniati o morti naturalmente, quantunque questo precetto di purità fosse dalle antecedenti leggi imposto indifferentemente a tutto il popolo (15–31).

Notiamo qui le importanti differenze che istituisce questo codice di Ezechiele relativamente ai precedenti. Quello dellʼEsodo (xxixxiii) non conosce casta sacerdotale, anzi nella stipulazione solenne del patto con Jahveh, officiano i giovani israeliti senza distinzione di tribù (xxiv, 5). Nel Deuteronomio si fa un primo passo per lʼistituzione della casta sacerdotale, è questa la tribù di Levi, e si dice quasi sempre Sacerdoti–Leviti (xviii, 1). Ezechiele inoltre fra la tribù di Levi, sceglie come veri sacerdoti una sola famiglia, quella dei Zadoqiti. Finalmente le loro rendite sono accresciute, se si paragonano a quelle fissate nel Deuteronomio.

Dalle leggi speciali per i sacerdoti Ezechiele passa a stabilire che nella divisione della terra si debba lasciare allʼintorno del tempio un vasto territorio come santo, ove i sacerdoti possano edificare le loro case e gli scribi ancora avere le loro stanze. Il resto della città rimaneva comune per tutti glʼIsraeliti, ma una parte doveva assegnarsi come possesso peculiare del principe (xlv, 1–8a). Quindi si prende occasione di trattare dei doveri e dei diritti di questo capo dello Stato. Si avvertono in prima i principi a non usare contro il popolo nessuna specie di violenza, ma anzi comportarsi con equità e giustizia. Siccome poi essi avevano[328] diritto a una prelevazione sui prodotti pastorali e rurali, si stabiliscono con esattezza le misure e i pesi, acciocchè non si usi mediante questi veruna frode. Al principe sarebbe spettato il sessantesimo della mèsse, il centesimo dellʼolio, e forse ancora del vino, sebbene di questo non si parli, e il ducentesimo del greggie, non solo per provvedere a sè e alla sua casa, ma anche per i pubblici sacrifizii, che su di lui incombevano nelle feste, nel sabato, nelle calende, e nelle altre solennità (8b–17).

I sacrifizii sarebbero stati i seguenti. Nel primo giorno del primo mese dellʼanno, cioè nella primavera, il sacrifizio di purificazione per lʼaltare, che consisteva nellʼimmolare un toro e nellʼaspergere del suo sangue lo stipite della porta del tempio, dellʼatrio interno, e i quattro angoli dellʼaltare. Questo stesso sacrifizio doveva ripetersi dopo sette giorni per espiazione dei peccati involontarii (18–20). Nel quattordicesimo giorno cadeva la festa delle azzime per sette giorni, in ognuno dei quali avrebbero dovuto sacrificarsi sette tori, sette montoni, e un capro espiatorio, accompagnato da una offerta incruenta di farina e olio (21–24).

Nel settimo mese poi si sarebbe celebrata nel quindicesimo giorno unʼaltra festa di eguale durata, solennizzata con eguali sacrificii (25).

Queste sono le due feste della Pasqua, e della raccolta, detta con altro nome delle Capanne, imposte già nel primo codice (Esodo, xxiii, 15, 16) e nel Deuteronomio (xvi); ma perchè Ezechiele tace intieramente della Pentecoste?[489]

[329]

Sarebbe difficile darne risposta che intieramente appagasse. Pure può dirsi come congettura, che volendo qui il nostro autore non istituire feste che già erano ordinate da leggi antecedenti, ma solo fissarne i sacrificii, che non troviamo in quelle determinate, ha voluto solo far ciò per le due feste maggiori dellʼanno; perchè lasciava per lʼaltra, la quale durava un sol giorno, che rimanessero al beneplacito degli offerenti, o perchè credeva di non dover mutare per essa la consuetudine già prevalsa.

In ogni sabato il sacrifizio doveva essere di sei agnelli e di un montone, accompagnati anche questi da una offerta incruenta di farina e di olio, e nei novilunii doveva sacrificarsi di più un toro (xlvi, 4–7). Il sacrificio quotidiano era di un agnello ogni mattina, accompagnato anche questo da una più piccola offerta della stessa specie (13–14).

Ma il nostro buon sacerdote non è contento di prescrivere i sacrificii, e scende ancora a più minuti particolari. Abbiamo poco sopra veduto che la porta del tempio, che guardava a oriente, era tenuta come più santa delle altre, e destinata allʼingresso del solo principe. Qui ora si determina che anche per esso si apriva soltanto nel sabato, nei novilunii (xlvi, 1, 2), o quando faceva delle offerte volontarie (12), e pare[330] che il popolo dovesse in quei giorni solenni restare fuori del Santuario, e dallʼesterno inchinarsi alla maestà divina (v. 3).

Nelle maggiori solennità tutti entravano nel tempio o dalla porta settentrionale o da quella di mezzogiorno, avvertendo di escire dalla parte opposta a quella per cui ognuno era entrato, e allora il principe non aveva nessuna distinzione, entrava ed usciva confuso con gli altri (9–10).[490] Può essere che questa prescrizione di escire dalla parte opposta fosse per evitare la confusione, e che nelle maggiori solennità, accorrendo numerosa turba di gente, il profeta prescrivesse agli Ebrei di fare

Come i Roman per lʼesercito molto;

ma certo sembra che la confusione si sarebbe meglio evitata con lo stabilire a tutti una sola porta per lʼentrata, e quella opposta per lʼescita.

Il rispetto che abbiamo veduto professarsi per il principe non era tale però che lo dovesse condurre a[331] infrangere le leggi; e però Ezechiele, lasciando per poco lʼargomento rituale dei sacrificii, vuole avvertire che il potere del principe trovava un limite insuperabile nel diritto successorio, che doveva rimanere inalterato.

Poteva il principe fare ad alcuno dei suoi figli una donazione, ma soltanto del proprio patrimonio, non mai toccare il possesso altrui, e nemmeno spogliare perpetuamente i propri figli di una parte del suo avere con una donazione a favore di un suo servo. Quando poi a questo avesse donato qualche cosa, il beneficio durava soltanto fino allʼanno in cui il servo riacquistava la libertà,[491] ma quindi la proprietà tornava al principe, perchè non fosse tolta ai suoi figli (v. 16–18).

Dopo questa divagazione, che mostra quanta importanza si desse in ogni tempo presso gli Ebrei alla inalterabilità del diritto ereditario, si ritorna a un altro minuto particolare del rito per determinare il luogo dove i sacerdoti dovevano cuocere le carni dei sacrificii che loro spettavano (19–24).

Lʼultimo argomento legislativo che finalmente occupa Ezechiele è di diritto pubblico intorno alla divisione della terra fra le dodici tribù. Ne determina prima i generali confini (xlvii, 13–21); poi con vero progresso relativamente alle antecedenti legislazioni, istituisce che anche lo straniero, stabilitosi nel paese e che vi abbia procreato figli, debba possedere al pari

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del cittadino un fondo da assegnarglisi nel territorio della tribù, presso la quale avesse posto il suo domicilio (22, 23).

La divisione della terra è fatta in un modo del tutto ideale e quasi impossibile ad effettuarsi nella pratica. Sette tribù sono distribuite al settentrione di Gerusalemme (xlviii, 1–7). Il territorio di questa è diviso, come sopra fu accennato, fra i sacerdoti e i leviti, che non lo possono mai alienare, la città comune a tutti, il subborgo, e la parte spettante al principe (8–22).

Le altre cinque tribù sono distribuite al mezzogiorno di Gerusalemme (23–29), la quale deve avere dodici porte in corrispondenza delle dodici tribù, e chiamarsi dʼallora in poi: Jahveh qui (30–35).

Queste istituzioni di Ezechiele rimasero però allo stato di pio desiderio, e per molte di esse la esecuzione era resa impossibile dalle condizioni politiche. Il ritorno in patria degli Ebrei fu molto lungi dal comprendere tutti gli esuli. Solo una parte delle tribù di Giuda e Benjamino, e molti dei Leviti risposero allʼinvito di Ciro, e se pure accorsero ancora delle altre tribù, non se ne potè conoscere con certezza la genealogia (Ezra, ii). Nè tutta lʼantica Palestina fu sottomessa al dominio dei reduci, che anzi una gran parte rimase ai Samaritani, ai Fenici e agli altri antichi abitatori; e da prima solo la regione più meridionale ad essi appartenne. Molto meno quindi lo Stato risorto potè raggiungere i confini ai quali Ezechiele aspirava. Dimodochè non poteva nè anche effettuarsi la partizione del territorio, come egli aveva divisato.

Ma oltre a ciò, anche quelle istituzioni che avrebbero potuto praticarsi non furono adottate nè rispetto[333] ai sacrificii nè rispetto alla costituzione della casta sacerdotale. Un nuovo codice fu composto, ispirato in generale dagli stessi principii che quello di Ezechiele, ma differente nelle sue disposizioni.

Chiunque si fosse che compilasse questo codice, del cui tempo e autore parleremo più innanzi, sentì il bisogno di non attribuirne a sè stesso la composizione, ma di riportarla a Mosè, che ormai valeva nellʼopinione popolare come tipo di legislatore. E in parte ciò poteva corrispondere anche al vero, perchè sarà stato benissimo che alcune leggi del codice sacerdotale fino da tempo antico si praticassero come istituzioni consuetudinarie, che, se pure non erano realmente stabilite da Mosè, pure come tali avranno potuto essere tenute dalla opinione comune. Imperocchè sappiamo che così appunto si formano i tipi leggendarii, accumulando cioè a poco a poco sopra una sola persona tutto quello che è invece il portato di successive età. Quindi troviamo che nel codice sacerdotale si riferiscono senza distinzione al primo tempo della escita degli Ebrei dallʼEgitto i riti sacerdotali che tradizionalmente in un lungo periodo di tempo si saranno stabiliti nella pratica del culto, e ciò che di nuovo sʼintroduceva dopo il ritorno dallʼesilio babilonese.

Si voleva stabilire un culto regolare e così ampio che quasi abbracciasse tutta la vita del credente; ma nel medesimo tempo accentrato in un solo luogo e sotto la sorveglianza della casta sacerdotale, acciocchè non potesse cadere in pericolose deviazioni. Ad ottenere questo fine era necessario seguire lʼesempio di Ezechiele, e porre come cosa capitale della religione e del culto un Santuario, dove esclusivamente si avessero[334] ad esercitarne le pratiche. Ma Ezechiele dava come rivelate a lui le leggi del culto, quindi parlava di un tempio da edificarsi. Invece il compilatore del nuovo codice lo dava come esistente da antico, e rivelato a Mosè, quindi la necessità di trovare un Santuario anche nelle peregrinazioni del deserto. Un tempio di edificio murale non avrebbe potuto esistere, sia per le condizioni nomadi degli Ebrei esciti dallʼEgitto, sia ancora per avere prevalso ormai altra tradizione che ne faceva primo edificatore il re Salomone. Sʼimmaginò quindi un tabernacolo asportabile da montarsi e rimontarsi, ma a cui nel medesimo tempo non mancasse una certa lussuriosa magnificenza.

Si vuole che Jahveh stesso ne desse il disegno a Mosè, determinando i più minuti particolari anche di tutti gli arredi e delle vesti sacerdotali (Esodo, xxvxxviii, xxx, 1–10, 17–21).

Quando si passa poi a dire che gli ordini divini furono eseguiti, e il tabernacolo eretto, si ripete in tutte le sue parti la medesima descrizione (xxxvi, 8; xxxix); e davvero che non si potrebbe rendere di tale ripetizione ragione che appagasse, tantochè fu sostenuto che queste due parti del Pentateuco appartengano ad autori diversi.[492] Ma lʼaddentrarsi in ciò che concerne la costruzione, per noi ideale, del tabernacolo spetta più allʼarcheologia, che alla legislazione del popolo ebreo, e perciò qui ce ne passiamo.

È da vedersi piuttosto come insieme con la costruzione del tabernacolo si connetta la costituzione del culto, nella quale prenderemo in esame: 1o il sacerdozio; [335]2o i sacrifizi e le offerte; 3o le feste.

Sono in prima chiamati ad officiare come sacerdoti tutti gli Aronidi (Esodo, xxviii, 1), con esclusione rigorosissima di qualunque altro (Num., xviii, 7). Questi devono essere consacrati con apposita ceremonia che dura sette giorni (Esodo, xxix, 1–37; Levit., viii), e con lʼunzione dellʼolio sacro (Esodo, xxx, 30) composto di diversi aromi (ivi, 23–25). Il quale olio doveva servire ancora per consacrare il tabernacolo e i suoi arredi (ivi, 26–29). E tanto era tenuto sacro, che rigorosamente si proibiva di comporne eguale per usi privati (ivi, 31–33).

A capo dei sacerdoti è costituito uno fra essi chiamato il Massimo, la cui dignità si vuol far risalire fino ad Aron. Si distingue da tutti gli altri in prima per gli abiti splendidissimi, ricchi di porpora, dʼoro e di gemme; mentre per i comuni sacerdoti sono semplici di puro lino (Esodo, xxviii). Uniti alle vesti del massimo sacerdote avrebbero dovuto essere gli Urim e Tummim, che, qualunque forma avessero, servivano per dare i responsi (ivi, 30); dimodochè il massimo sacerdote era tenuto lʼinterpetre della divina volontà. Era egli poi anche il grande espiatore di tutto il popolo, portando a tale effetto incise sul frontale dʼoro le parole: Sacro a Jahveh (ivi, 36–38), e offerendo lui solo i sacrificii e il profumo nel giorno solenne della espiazione di tutti i peccati (xxx, 10). Nel qual giorno egli solo poteva penetrare oltre la cortina che separava dal Santo il luogo Santissimo, ove conservavasi lʼarca (Levit., xvi, 2, 3).

Pare che questo fosse in quanto allʼofferire i sacrifizi il solo officio obbligatorio del massimo sacerdote. Il testo scritturale tace sul resto. I talmudisti hanno aggiunto che in qualunque altro giorno a lui fosse[336] piaciuto di officiare aveva la precedenza sopra tutti i sacerdoti.[493]

Avrebbe avuto inoltre il massimo sacerdote una grande importanza anche civile, se avesse dovuto durare quanto la sua vita, il confine dellʼomicida involontario in alcuna delle città destinate come asilo (Num., xxxv, 25, 28). Gli erano dallʼaltro lato imposti nelle relazioni di famiglia più stretti doveri, in quanto non poteva sposare, se non una donna vergine;[494] e per nessun parente che gli morisse, fossero anche i genitori, non poteva rendersi impuro con lʼavvicinarsi al cadavere (Levit., xxi, 10–14).

La dignità del massimo sacerdote si sarebbe trasmessa per eredità da Aron ai suoi discendenti nella linea di Eleazar (Num., xx, 26), ed anche nel diritto talmudico questa dignità, al pari delle altre, è tenuta ereditaria.[495]

I sacerdoti comuni avevano per officii principali di offrire sullʼaltare ogni specie di sacrifizio e di offerta, e il profumo degli aromi, di preparare e porre sulla tavola sacra le dodici focacce dette pane del cospetto, che si mutavano ogni settimana (Levit., xxiv, 5–9), di preparare e accendere il sacro candelabro (Esodo, xxvii, 21; Levit., xxiv, 2–4), di decidere della purità o impurità delle persone affette da malattie tenute[337] impure (Levit., xiii), di bandire al suono delle trombe la partenza e la stazione dellʼaccampamento (Num., x, 8), e di benedire solennemente il popolo (ivi, vi, 23–27).

Dal testo del Pentateuco non resulta come i sacerdoti avrebbero dovuto distribuirsi per prestare il loro officio, e solo secondo lʼautore delle Croniche (1o, xxiv, 4) sarebbero stati divisi ai tempi del re David in 24 compagnie, che avrebbero alternativamente officiato (v. sopra, pag. 164). I talmudisti poi vollero far risalire una prima distribuzione o in otto o in sedici compagnie fino ai tempi di Mosè; e il servizio si sarebbe alternato fra esse di settimana in settimana.[496]

In quanto ai riti di purità speciali a questa casta, il codice sacerdotale, per ciò che concerne il lutto dei parenti, si accorda con le prescrizioni di Ezechiele (Levit., xxi, 1–6); ma i talmudisti hanno voluto interpretare questo testo, come se avesse posto fra i più prossimi congiunti anche la moglie.[497] Ciò fa onore allʼintenzione che essi possono avere avuto di nobilitare in questo modo la donna, e di dare maggiore importanza al legame conjugale; ma è certo che il nostro testo ne tace, se pure non ha voluto esplicitamente escludere la moglie colle espressioni del verso 4, il quale, così come ci è pervenuto, forse corrotto, è di significato oscurissimo.

Glʼimpedimenti matrimoniali sono minori che presso Ezechiele, non trovandosi proibite le vedove dei non sacerdoti. Ma si enumera di più, oltre la ripudiata e la prostituta, anche la donna profanata (ivi, 7), che[338] dalla sola lettera del testo non si sa bene che cosa sia, e secondo la interpretazione rabbinica, sarebbe la donna nata dal matrimonio illegittimo di qualche sacerdote.[498] E fin qui i talmudisti possono avere interpretato giustamente; ma pare che abbiano troppo esteso gli altri impedimenti matrimoniali, volendo che fossero proibite ai sacerdoti anche le proselite, le liberte, e qualunque donna avesse contratto matrimonio illegittimo, perchè tenevano che, volontariamente o no, avesse in tal modo fornicato; e oltre la repudiata, proibirono ancora la donna sciolta dal legame del levirato.[499]

La santità dei costumi conduce poi il legislatore sacerdotale a connettere con ciò che concerne il matrimonio dei sacerdoti, una legge rigorosissima rispetto alle loro figliuole, cioè, di condannarle a morte mediante il bruciamento,[500] se si fossero prostituite (ivi, 9). Tanto si voleva preservare lʼonore e il decoro della casta sacerdotale!

I talmudisti però mitigarono questo rigore, e vollero imposta la condanna capitale soltanto quando si trattasse di adulterio, non per la licenziosità di costume di una nubile o di una vedova.[501] Dimodochè per essi, essendo condannato lʼadulterio in genere con la morte, la differenza per una figlia di sacerdote sarebbe consistita soltanto nel modo di applicare la pena. Non era questo certo lʼintendimento della legge, nel testo scritturale, che parlando solo del disonora[339] che sarebbe risultato al padre, fa capire che si trattava specialmente di donna non maritata.

I sacerdoti non erano atti a offrire sullʼaltare, se avevano qualche difetto fisico, e perciò ne erano esclusi i ciechi, gli zoppi, i simi, i disproporzionati nelle membra, glʼimpediti per qualche rottura nelle mani o nei piedi, i gobbi, i gracili,[502] i difettosi negli occhi, gli scabbiosi, gli erpetici e i difettosi negli organi genitali (16–21). Ma però con pietoso consiglio i diritti di questi infelici erano eguali a quelli di tutti gli altri sacerdoti, e potevano mangiare anche delle carni dei più santi sacrificii (22–24).

Non potevano del pari officiare nel Santuario quelli che fossero impuri o per malattie corporali, o per contatto od avvicinamento di morti, o di altre persone impure, o di quei rettili considerati immondi (xxii, 2–9). Il prevaricare questo precetto era tenuto peccato mortale, e il testo non ispiega se veramente dovevano essere sottoposti alla pena suprema. I talmudisti, mentre da un lato, con la consueta mitezza, lo riposero fra quei peccati la cui punizione è rimessa alla Provvidenza,[503] dallʼaltro si mostrarono non solo intolleranti, ma anche efferati, dando facoltà ai giovani sacerdoti dʼinveire crudelmente contro chi in tal modo prevaricasse, sino a farlo morire.[504] Improvvida disposizione, che oltre essere crudelissima in sè stessa,[340] poteva dare occasione a fomentare nemicizie e odii mortali fra i sacerdoti, che avrebbero dovuto dare invece esempio di umanità e concordia.

Finalmente, per assicurarsi che dal lato morale e da quello fisico i sacerdoti fossero puri e santi nel momento che officiavano, era loro proibito di bere vino o altri liquori inebbrianti, quando erano per entrare nel Santuario (Levit., x, 8–11); e dovevano prima di officiare fare una abluzione alle mani e ai piedi in un gran serbatojo dʼacqua che a tale uso tenevasi nel tempio.

Siccome oltre lʼofferire i sacrifizii, i presenti e il profumo, nel tabernacolo o nel tempio erano necessarii molti altri servizi per la custodia e nettezza tanto del luogo, quanto dei suoi mobili e dei suoi arredi, agli Aronidi erano assegnati come ministri tutti gli altri componenti la tribù di Levi (Num., iii, 6–13). Secondo il nostro codice sacerdotale sarebbero stati distribuiti nelle tre famiglie dei Qehatiti, Ghersonidi, e Merariti, ad ognuna delle quali sarebbero stati assegnati diversi officii nello smontare e rimontare il tabernacolo, durante le peregrinazioni nel deserto (ivi, iv).

Altra divisione molto più particolareggiata sarebbe stata fatta ai tempi del re David, secondo lʼautore delle Croniche (1o, xxv e seg.), il quale però attribuisce così a tempi molto più antichi ciò che era accaduto soltanto dopo il ritorno dallʼesilio. Imperocchè i libri storici anteriori non mostrano di conoscere nulla di questo ordinamento gerarchico di sacerdoti e leviti, e il Deuteronomio anzi li pone allo stesso grado.

Fa menzione inoltre lo stesso autore di un altro officio dei leviti, cioè di rendere più solenne il culto[341] accompagnandolo col canto e col suono di varii stromenti (ivi, xxv, 1–7). Anche nel Pentateuco si dice che col suono delle trombe si dovevano accompagnare i sacrificii nei giorni festivi e nelle calende (Num., X, 10), ma non si prescrive questʼofficio ai leviti. I quali del resto sarebbero stati divisi in 24 compagnie come i sacerdoti.

Il tempo del servizio da una legge del codice sacerdotale viene stabilito per i leviti dai trenta ai cinquantʼanni (Num., iv, 3, 23, 30, 39); ma fu modificato poi da una Novella introdotta nello stesso codice, che voleva incominciasse a venticinque (ivi, viii, 24). Le Croniche in parte si accordano colla prima disposizione (1o, xxiii, 3), in parte discordano dallʼuna e dallʼaltra, comprendendo nella rassegna dei leviti tutti quelli da ventʼanni in poi (ivi, 24, 27),[505] come si trova fosse fatto ancora al ritorno dallʼesilio (Ezra, iii, 8); dimodochè è da tenersi che prevalessero in varie età norme differenti. In fatti anche il Talmud riconosce che la cessazione del servizio a cinquantʼanni sarebbe stata prescritta soltanto fino che sarebbe durato il trasporto del tabernacolo da luogo a luogo; ma poi, eretto il tempio stabile, il servizio avrebbe continuato per tutta la vita.[506]

Per i sacerdoti il testo della Scrittura non determina nè a quale età potessero incominciare nè a quale finire il loro officio; ma i talmudisti stabilirono che[342] per legge fossero idonei dalla pubertà fino alla cadente vecchiezza; però la consuetudine voleva che non sʼincominciasse a officiare sino allʼetà di ventʼanni.[507]

Secondo la Scrittura non sarebbero stati altri ordini di sacerdoti o ministri del culto oltre quelli che abbiamo annoverati. I rabbini poi vollero istituire fra il massimo sacerdote e gli altri una vera gerarchia. Un ajuto del massimo sacerdote chiamato Segan, che in tutte le funzioni del culto lo avrebbe accompagnato, due vicarii, sette prefetti, tre tesorieri, ventiquattro capi delle ventiquattro compagnie, e finalmente i capi di ogni famiglia.[508]

I redditi dei sacerdoti, non avendo questi nè gli altri della tribù di Levi una parte nella divisione della terra, furono stabiliti nel codice sacerdotale molto più ampii che nelle legislazioni antecedenti.

Tutte le offerte di farina e olio portate daglʼIsraeliti, e chiamate col nome di Minhà, presente, bruciatone sullʼaltare quanto ne conteneva un pugno, appartenevano ai sacerdoti (Levit., vi, 7–11). Però le offerte di questo genere portate da qualche sacerdote dovevano essere intieramente bruciate (ivi, 16). Spettava ancora ai sacerdoti tutta la carne dei sacrificii espiatorii (Num., xviii, 9) di cui si bruciavano sullʼaltare soltanto il grasso delle interiora, i reni e lʼomento, (Levit., vi, 17–vii, 10), fatta eccezione dei sacrificii espiatorii per qualche peccato involontario commesso o dal massimo sacerdote, o dal pubblico, che intieramente si bruciavano (ivi, iv, 1–21). Erano di pertinenza sacerdotale anche le pelli delle vittime, così nei sacrificii espiatorii, come negli olocausti (ivi, vii, 8).[509]

[343]

Dei sacrificii votivi detti Shelamim, pacifici, spettava al sacerdote soltanto il petto e la coscia destra (ivi, 34), e il resto rimaneva al proprietario. Si faceva poi questa distinzione, che i presenti e i sacrificii espiatorii erano considerati di maggiore santità, e però ne potevano mangiare soltanto i sacerdoti maschi (ivi, vi, 11, 22; vii, 6); degli altri sacrificii tenuti di minore santità, godeva tutta la loro famiglia,[510] escluso sempre, sʼintende, chi si trovasse in istato dʼimpurità (vii, 20).

E stato già notato (p. 46 e seg.) che questa disposizione del codice sacerdotale non concorda con quella del Deuteronomio (xviii, 3), che farebbe differente, se non forse più piccola, la parte dei sacerdoti, perchè invece del petto assegna loro le ganasce e il ventricolo. I talmudisti hanno voluto conciliare le due disposizioni, interpretando il testo del Deuteronomio, come se si applicasse a qualunque animale macellato ovino o bovino;[511] dimodochè il reddito sacerdotale sarebbe venuto di molto ad accrescersi.

Anche Filone[512] e Giuseppe Flavio[513] parlano di questi diritti dei sacerdoti sopra qualunque animale ammazzato per privato convito; ma essi scrivevano quando già era stato necessario conciliare in qualche modo le leggi discordanti, e per conseguenza prevaleva ormai un rito che a tale conciliazione si uniformava; non possono quindi avere autorità come interpreti fedeli del testo, ma solo come espositori di una costumanza dei loro tempi. Ad ogni modo questa conciliazione non può accettarsi per più ragioni.[514]

[344]

In prima perchè lʼespressione del Deuteronomista collʼarticolo determinato significa sacrificatori del sacrifizio, non macellatori di qualunque animale.

In secondo luogo, perchè non si parla di questo diritto sacerdotale laddove si enumerano i proventi che spettavano ai sacerdoti (Num., xviii).

In terzo luogo, perchè tale imposizione sopra ogni animale sarebbe stata enorme e insopportabile.

In ultimo, perchè sarebbe stata una prescrizione impossibile ad eseguirsi nella pratica, imperocchè i sacerdoti non si trovavano da per tutto; e come si sarebbero potute spedire da un luogo allʼaltro le carni macellate? Forse si volevano obbligare le persone di luoghi ove non fossero sacerdoti, a non nutrirsi di carni nè ovine nè bovine?

Oltre i presenti e i sacrificii un non piccolo reddito sacerdotale era costituito dalle primizie dei prodotti agrarii, e dai primogeniti degli animali ovini e bovini, come dal riscatto dei primogeniti umani e di quelli degli animali impuri che doveva ai sacerdoti pagarsi (Num., xviii, 11–20).[515] Questo testo parla soltanto delle primizie del grano, dellʼolio e del vino, ma i talmudisti sottoposero allʼobbligo delle primizie anche lʼorzo, i datteri, i fichi e i melagrani.[516]

In altro passo del Numeri (xv, 17–21) si parla altresì di dover consacrare a Jahveh la prima parte della farina impastata per il pane. E i rabbini intesero che si dovesse anche questa dare ai sacerdoti.[345][517] Altri invece della pasta intendono la prima parte del macinato.[518]

Apparteneva di più ai sacerdoti tutto ciò che altri avesse consacrato a titolo dʼinterdetto (Ḣerem), fossero persone (schiavi), animali, o case, o beni terreni, o mobili (Levit., xxvii, 28; Num., xviii, 14). Ma siccome le cose consacrate a questo titolo potevano anche devolversi a vantaggio del tesoro del tempio, fu disputato fra i talmudisti se lʼinterdetto semplice senza esplicita dichiarazione appartenesse a questo o ai sacerdoti;[519] e parrebbe dal testo del Talmud che la quistione fosse decisa a pro del tesoro del tempio, mentre il Maimonide la risolvette a vantaggio dei sacerdoti.[520]

E non solo dal popolo traevano i sacerdoti le loro rendite, ma anche dagli stessi leviti, che erano obbligati a prelevare a lor favore un decimo sulla decima ad essi dovuta (Num., XVIII, 25–32).

Nè tutto ciò parve ancora sufficiente ai talmudisti, che, interpretando con sofistica sottigliezza un passo del Numeri (XV, 19), ove si parla soltanto della già accennata offerta sulla pasta, e un altro del Deuteronomio (XVIII, 4), ove si parla delle primizie, vollero dedurne lʼobbligo di dare ai sacerdoti una prima parte del raccolto,[521] antecedentemente a qualunque altra prelevazione; e il mangiare dei prodotti senza aver soddisfatto a questʼobbligo sarebbe stato, a loro avviso, gravissima trasgressione.[522] Questa fu chiamata[346] nel Talmud Offerta maggiore (Terumah ghedolah), della quale non era determinata a rigore di legge la proporzione, ma si voleva che non si desse meno del sessantesimo.[523]

I leviti erano trattati meno largamente: avevano soltanto la decima dei prodotti (Num., XVIII, 21–24), ma in ricambio non erano obbligati a dare ai sacerdoti se non il decimo di questa, ma nessuna delle altre imposizioni, a cui erano sottoposti gli altri israeliti, sopra loro incombeva. Sebbene però non avessero una vera e propria parte della terra, come le altre tribù, il codice sacerdotale imponeva di assegnar loro quarantotto città per abitazione con un subborgo (Num., XXXV, 2–8) in forma di quadrilatero, di cui ogni lato aveva lʼestensione di duemila cubiti, e ne era lontano mille dalle mura della città.[524]

Il numero di quarantotto città in un piccolo territorio come la Palestina potrebbe a ragione maravigliarci, se volessimo intenderle nel significato che diamo oggi a questa parola; ma bisogna intendere piccoli borghi, che per essere circondati di mura avevano quel nome. Ad ogni modo poi sarebbe stato esorbitante il territorio assegnato ai leviti, e quasi[347] impossibile in un paese accidentato come la Palestina misurare così matematicamente lʼestensione del subborgo. Quindi, come tante altre parti del codice sacerdotale, è da tenersi che questa sia una prescrizione rimasta nel campo della teorica, e che mai non ha potuto effettuarsi.

Nellʼultimo capitolo del Levitico (v. 32) si parla ancora di una decima da prelevarsi sugli animali ovini e bovini e da consacrarsi a Jahveh. Molti dei moderni interpreti lʼhanno intesa come dovuta ai sacerdoti. Il Talmud vuole invece che questi animali, considerati come sacrificii, rimanessero per la maggior parte ai proprietarii che ne dovevano fare un convito sacro, dopo aver bruciato sullʼaltare il grasso e versatovi il sangue, dando ai sacerdoti solo una parte eguale a quella che loro spettava nei sacrificii votivi.[525]

Se a tutte queste imposizioni aggiungiamo anche la primizia della tosatura del greggie, di cui si parla, come già abbiamo veduto, nel Deuteronomio (xviii, 4), facilmente sʼintende come da un lato i sacerdoti e i leviti si trovassero in troppo felice condizione, e come dallʼaltro il popolo fosse eccessivamente aggravato. Che diremo poi, quando vediamo che i rabbini, per conciliare le leggi del Deuteronomio (xiv, 22–29) con le altre del Pentateuco, imposero una seconda decima, di cui doveva farsi ogni anno un convito sacro a Gerusalemme, ed elargirne ai leviti, e poi ogni tre anni, invece di questa seconda decima, prelevarne una a favore dei poveri?[526] Ma già dallo stesso Talmud apparisce in più luoghi come la maggior parte del popolo[348] non mai si sottopose a tutte queste gravissime imposizioni, per cui Giovanni Ircano fece una riforma, e anche alcune prescrizioni intorno a quei prodotti, da cui si dubitava che non fossero prelevate le decime, e che furono dette Demai.[527] Nome significantissimo, se fosse, come alcuni vogliono, derivato dal greco Demos, popolo, quasi volesse dire che questo nella massima parte non pagava le decime.[528]

Coloro poi che scrupolosamente le prelevavano, quasi appartenessero a una stretta associazione di zelanti, chiamavano sè stessi soci (Ḣaberim)[529] e davano con disdegno il nome di volgo (ʼAm haarez)[530] a quelli che non si uniformavano al rito.

Una cosa però fa onore al codice sacerdotale: che il massimo sacerdote non avrebbe avuto in quanto ai redditi nessuna preminenza sugli altri, e sarebbe stata tolta così ogni odiosità fra la fastosa ricchezza e la misera povertà dellʼalto e del basso clero. Ma nel diritto talmudico questa eguaglianza più non si trova. Se fu lasciato il massimo sacerdote pari agli altri in quanto alle decime e alle offerte, si stabilì in prima che fra le sue qualità ci fosse la ricchezza; dimodochè se di suo non fosse stato ricco, gli altri sacerdoti, ognuno secondo i propri averi, contribuivano a formargli un patrimonio, che tutto insieme superasse quello di ogni singolo sacerdote.[531]

In secondo luogo si dette al sommo sacerdote la[349] precedenza sopra ogni altro per appropriarsi i sacrificii e i presenti offerti nel tempio.[532]

Dobbiamo riconoscere che queste, piuttosto che istituzioni rabbiniche, saranno state consuetudini introdottesi a poco a poco come conseguenze quasi necessarie della dignità maggiore, nella quale il massimo sacerdote era costituito. Ma è pur forza dallʼaltro lato deplorare che si aprisse così il varco a tutti gli atti dʼimmoderazione, di abuso di potere, e anche di vera immoralità, in cui caddero molti dei massimi sacerdoti giudei durante lʼepoca dei Seleucidi.

Dal personale del sacerdozio passiamo alla forma del culto, che, secondo il codice sacerdotale, sarebbe consistito quasi tutto nei sacrificii e nei presenti offerti a Jahveh, non parlandovisi mai di preghiere, tranne un fugacissimo cenno di confessione di peccati, che avrebbe dovuto accompagnare un certo sacrificio nel giorno dellʼespiazione (Levit., xvi, 21).

Al contrario nel rituale rabbinico, cessati con la distruzione del tempio i sacrificii, le preghiere e le recitazioni della Sacra Scrittura, e di alcuni passi del Talmud, divennero la parte principale del culto esterno. Si prescrissero tre preghiere quotidiane da recitarsi la mattina, dopo il mezzogiorno, e a vespro, se ne aggiunse una quarta per il sabato, per i novilunii, e per le solenni feste annuali, e una quinta per il giorno dellʼespiazione.[533] Inoltre si costituì una speciale orazione di rendimento di grazie da recitarsi dopo ogni pasto, e si arrivò fino a prescrivere una breve lode[350] a Dio ogni volta che si prendesse qualunque cibo o bevanda.[534] Ma lo scendere ai particolari di questo rituale sarebbe altrettanto tedioso, quanto alieno dal nostro assunto. Solo noteremo che i talmudisti vollero che alcune preghiere, come le tre quotidiane, fossero in uso fino da tempi antichissimi, e le dissero istituite dai patriarchi.[535] Nella quale idea è da vedersi soltanto la consueta pretensione di fare risalire a tempi remoti anche le più recenti istituzioni religiose. Ma lasciando questo argomento, di cui basti un breve cenno, ritorniamo ai sacrifizii.

Il primo e più generale precetto intorno ai sacrificii è nel nostro codice quello di non offrirli, se non nel luogo centrale consacrato al culto (Levit., xvii, 8, 9). Lʼoffrirli fuori di questo luogo era tenuto gravissimo peccato. Anzi, lo scrittore di queste leggi, rappresentandole come se avessero avuto origine fino dai tempi mosaici, chiama il luogo centrale del culto non tempio, ma tenda della congregazione, che è quanto dire lʼideale tabernacolo del deserto. E non solo ciò, ma spingendo le cose fino al più assurdo estremo, si vuole far credere che ai tempi mosaici esistesse una legge per la quale non solo gli animali immolati per il sacrifizio, ma anche quelli uccisi per uso profano, si dovessero scannare alla porta del tabernacolo (ivi, 3–7).[536]

[351]

Non si può pensare che questa legge sia stata scritta, perchè mai fosse eseguita. Le frasi nellʼaccampamento, e fuori dellʼaccampamento, di cui si vale questo scrittore, mostrano che egli vuol riferirsi a un tempo, in cui sʼimmaginava che gli Ebrei avessero vissuto tutti raccolti in un campo, non quando erano sparsi in più città, fossero state queste anche in un piccolissimo territorio, come era la Giudea occupata, dai reduci di Babilonia. Inoltre come sarebbe stato possibile nè anche immaginare che ogni qual volta si voleva mangiare delle carni bovine o ovine, che in sostanza per gli Ebrei erano le più usate, si dovesse portare lʼanimale alla porta del tempio, perchè il sacerdote ne spargesse il sangue sullʼaltare? Evidentemente anche come una legge soltanto teorica, chi lʼha immaginata lʼha riferita allʼetà mosaica, rappresentando però questa sotto un aspetto ideale molto lontano dalla verità dei fatti. Perchè nè il tabernacolo è mai esistito, nè due milioni di persone avrebbero potuto vivere nei deserti dellʼArabia in un accampamento così regolarmente distribuito, come nel Pentateuco si vuol far credere (Num., iiv).

Il precetto poi di versare sullʼaltare come sacro a Jahveh il sangue di ogni animale ucciso, fa che per associazione dʼidee si ripeta il precetto, già da altre leggi imposto, di non bere mai del sangue di nessun animale, nemmeno di animali selvatici[537] o volatili presi a caccia (v. 10–14). E se il cibarsi di questi era permesso, era tenuto impuro chi mangiava animali morti naturalmente o dilaniati dalle fiere (v. 15–16), cose già, come abbiamo veduto, da altre leggi proibite.

[352]

I rabbini poi non si contentarono che gli animali permessi come cibo fossero uccisi dalla mano degli uomini; ma prescrissero che fossero scannati con una lama perfettamente affilata, in modo che nei quadrupedi si tagliasse almeno la maggior parte della trachea e dellʼesofago, e nei volatili almeno la maggior parte di uno dei due. Un quadrupede o un volatile ucciso altrimenti sarebbe per le disposizioni talmudiche contrario al rito, e quindi proibito di cibarsene.[538]

Questi due precetti però furono toccati dal nostro scrittore solo per incidente, perchè il concetto principale era lʼimmolazione dei sacrifizii. Intorno ai quali, venendo ora a dire partitamente, è da premettersi che sono da distinguersi in pubblici e privati, in obbligatorii e volontarii.

Si può dire che i pubblici fossero tutti obbligatorii, ed erano o quotidiani, o festivi, o espiatorii. Il sacrificio quotidiano consisteva, secondo il nostro codice, in due olocausti di due agnelli immolati sera e mattina, e accompagnati da un presente di farina e olio, e da una libazione di vino (Esodo, xxix, 38–46; Num., xxviii, 2–8). Inoltre sopra un altare apposito ogni mattina doveva bruciarsi un profumo composto di diversi aromi (Esodo, xxx, 2–10), che secondo il testo scritturale sarebbero stati soltanto quattro: storace, unghia odorata, galbano e incenso; a cui poi, secondo abbiamo nel Talmud, se ne aggiunsero altri sette: mirra, cassia, spigonardo, croco, costo, corteccia odorosa e cinnamomo.[539] La composizione di questo[353] profumo era tenuta così santa, da giudicare peccato gravissimo il farne eguale per usi profani (Esodo, ivi, 38).

A questo sacrificio quotidiano si aggiungevano ogni sabato due agnelli con i loro soliti presenti di farina e olio (Num., xxviii, 9, 10). Nei novilunii, nei sette giorni della Pasqua, e nella Pentecoste[540] si aggiungevano due tori, un montone, sette agnelli con i loro presenti, e un capro espiatorio, vale a dire che non doveva essere offerto come olocausto, ma, bruciatone soltanto il grasso, e versatone il sangue, la carne era goduta dai sacerdoti (v. 11–31).[541]

Nel primo giorno e nel decimo del settimo mese si offrivano un toro, un montone, sette agnelli, un capro espiatorio (ivi, xxix, 1–11), oltre i soliti sacrificii del novilunio per il primo giorno; e oltre il sacrificio espiatorio speciale a tale solennità per il giorno decimo. Di questo si parla in altro luogo (Levit., xvi) e sʼimpone di offrire un toro, un montone e due capri, dei quali uno a Jahveh, lʼaltro a ʼAzazel, e il testo della Scrittura non prescrive intorno a questa vittima se non di mandarla in luogo remoto e deserto (ivi, 22).

Che cosa significa ‛Azazel? Molto se ne è disputato dagli antichi e moderni interpetri, ma la spiegazione più probabile, avvalorata anche dalla tradizione giudaica, è che sʼintendesse sotto quel nome un demone malefico,[542] uno di quelli chiamati Seʼirim, demoni dal piede caprino, a cui la superstizione popolare[354] prestava fede. E quantunque altrove si proibisse di sacrificare a questi supposti Dei minori (Levit., xvii, 7), pure si vede quanto fosse grande la superstizione, se unʼaltra legge aveva dovuto con questa venire a patti, e fare in tal modo non piccolo strappo al monoteismo, che per ogni altro rispetto si voleva rigoroso e assoluto.

Nei sette giorni della festa delle capanne sʼimmolavano due montoni, quattordici agnelli, e il solito capro espiatorio, ma il numero dei tori variava cominciandosi nel primo giorno da tredici, e diminuendo ogni giorno di uno. Nellʼottavo giorno, chiamato di santa convocazione, il sacrificio era eguale a quello del primo giorno del settimo mese (Num., xxix, 12–39).

Oltre questi sacrificii il pubblico era obbligato a un sacrificio espiatorio, consistente in un toro, che tutto doveva bruciarsi, se per errore lʼuniversità dei credenti fosse caduta pubblicamente in qualche peccato (Levit., iv, 13–21).

Una più recente disposizione (Num., xv, 22–26) impone in questo caso, oltre un toro, anche un capro. I talmudisti, per conciliare siffatta contraddizione, vollero che nel Levitico si parlasse di peccati in genere; nel Numeri, dello speciale peccato di adorare altri Dei, o dʼidolatria.[543] Di più nellʼuno e nellʼaltro caso intesero che si trattasse sempre di un erroneo insegnamento dato dal sommo magistrato, e seguito da tutto il popolo o dalla massima parte. E alcuni dottori non furono contenti di una o due vittime, come apparirebbe dal testo della Scrittura, ma ne vollero chi dodici o ventiquattro, vale a dire o un toro, o questo[355] e un capro per ognuna delle dodici tribù, e chi tredici o ventisei, aggiungendo anche un sacrifizio apposito, per il magistrato stesso che avesse dato lʼerroneo insegnamento.[544]

Finalmente come offerta incruenta si ponevano sulla sacra mensa, di settimana in settimana, dodici focaccie chiamate il pane del cospetto, che mangiavano i sacerdoti cui spettava allora il servizio (Levit., xxiv, 5–9).

I mezzi per supplire alle spese di tutti questi sacrifizii pubblici, ed anche ad altri bisogni del culto, erano forniti da una tassa di mezzo siclo a testa, imposta sopra tutti i maschi maggiori di ventʼanni, come riscatto della loro vita, quando si doveva fare il censimento (Esodo, xxx, 12–16). Imperocchè era un pregiudizio presso gli Ebrei, quello di non fare direttamente il censo delle persone (2o Sam., xxiv), ma contare invece le monete da esse pagate. Il testo non stabilisce quando questo censimento dovesse farsi; ma i rabbini tennero che la tassa dovesse pagarsi ogni anno.[545]

I sacrifizii privati obbligatorii erano, lʼagnello pasquale (Esodo, xii), i primogeniti degli animali ovini e bovini (Esodo, xiii, 2; Num., xviii, 17), la decima di questi stessi animali (Levit., xxvi), secondo lʼinterpretazione talmudica, i sacrificii espiatorii, e quelli di purificazione.

Il Talmud, oltre lʼagnello pasquale, aggiunse lʼobbligo di offrire nelle tre feste annuali della Pasqua, della Pentecoste e delle Capanne un olocausto detto di presentazione (Reijà), e un altro sacrificio di animali ovini o bovini, per farne parte ai sacerdoti, e[356] per celebrare in quei giorni solenni un convito sacro (Ḣaghighà), ognuno colla propria famiglia, e anche con i propri amici.[546] Ma si poteva profittare di questa occasione per offrire la decima degli animali, o anche i voti fatti nel corso dellʼanno, e valevano come sacrificii festivi.

Quelli espiatorii si offrivano nel caso che involontariamente alcuno fosse caduto in qualche trasgressione; ma qui si distinguono le qualità delle persone. Il sommo sacerdote doveva offrire un toro che per intiero si bruciava, ma il grasso si bruciava sullʼaltare, tutto il rimanente nel deposito della cenere (Levit., iv, 1–12).

Il principe doveva offrire un capro; qualunque altro privato una capra o una pecora (ivi, 22–35), alla quale disposizione apparisce essere contradittoria quella, forse più recente, del Numeri (xv, 27–31), che indifferentemente per tutti prescrive una capra. I talmudisti vollero togliere questa contraddizione, riferendo il passo del Numeri al solo peccato di adorare altri Dei, o dʼidolatria.[547]

Per certe speciali trasgressioni come per aver mancato a deporre in testimonianza, o per essere caduto in istato dʼimpurità, o per non aver potuto osservare un giuramento, si concedeva a chi era in condizione meno agiata di offrire due colombi, o due tortori invece di un animale ovino, e se nè anche ciò avesse potuto, una certa quantità di fior di farina intrisa con olio (Levit., v, 1–13).

Per essersi appropriato roba appartenente al Santuario, o roba altrui, dopo la restituzione e il pagamento[357] della multa, si doveva offrire un montone, acciocchè la mancanza fosse intieramente espiata (ivi, 14–26).

I sacrifizii di purificazione erano imposti alla puerpera nellʼuscire dal puerperio, ai lebbrosi, ai gonorreati, e ad altri infermi di siffatte malattie, quando fossero guariti, e il sacerdote gli avesse dichiarati in istato di purità.

La puerpera avrebbe dovuto offrire un agnello e un colombo o un tortore; ma, se i suoi mezzi non glie lo avessero permesso, poteva allʼagnello sostituire un altro di questi stessi volatili (Levit., xii; cfr. Luca, ii, 24).

Il sacrificio purificativo del lebbroso doveva consistere in due agnelli e una agnella con un presente di farina e olio; ma anchʼesso, se povero, poteva ai due agnelli sostituire due tortori o due colombi; al quale sacrificio doveva precedere di sette giorni una ceremonia di purificazione (ivi, xiv, 1–32).

Il gonorreato e gli altri impuri per siffatte malattie dovevano offrire soltanto due dei già nominati volatili (ivi, xv).

Unʼaltra specie di sacrifizio privato obbligatorio era quello del Nazireo (v. sopra, pag. 173), quando involontariamente fosse divenuto impuro, e doveva offrire due colombi, o due tortori, e un agnello (Num., vi, 8–12). Ad ogni modo però, quando terminava il tempo del Nazireato, era obbligato ad un sacrificio consistente in un agnello per olocausto, in una agnella per espiazione ed in un montone come votivo, uniti al solito presente di farina e olio (ivi, 13–21).

Per la purificazione di chi era venuto a contatto di corpi morti, o vi si era avvicinato, non era prescritto[358] sacrificio, ma solo lʼaspersione colla cenere della vacca fulva, la quale era provveduta a spese del pubblico (Num., xix).

Anche il proselita, quando entrava a formar parte della ebraica comunità avrebbe dovuto, secondo il Talmud, offrire un sacrificio di purificazione, consistente in un olocausto, che secondo i mezzi dellʼofferente era o di un animale bovino o ovino, o di due tortori o colombi.[548]

I sacrifizii volontarii potevano farsi da ognuno in qualunque tempo, e in qualunque occasione, e consistevano o in olocausti di animali bovini od ovini maschi, o di colombi o di tortori, o in sacrifizii detti pacifici (Shelamim), che potevano essere anche di femmine, di cui il grasso che cuopre le interiora, i due reni col loro grasso e lʼomento si bruciavano sullʼaltare, una parte delle carni spettava ai sacerdoti (v. pag. 343) e il resto ai proprietarii, con lʼobbligo di consumarla dentro due giorni, e di bruciarne lʼavanzo, quando ne rimanesse fino al terzo (Levit., i, iii, vii, 18, 29–34).

Questʼultima specie di sacrifizii, se offerti per rendimento di grazie (Todah), dovevano essere accompagnati da un presente di farina e olio, che si coceva parte in pane azzimo, e parte in pane lievitato, e doveva mangiarsi tutto in un sol giorno.

Ma per unʼaltra disposizione del Numeri (xv, 2–16), che sembra più recente, ogni sacrifizio, fosse olocausto o pacifico, doveva essere unito al presente di farina e alla libazione del vino.

Del resto questo genere di offerta, come volontaria,[359] poteva farsi in più modi anche separata dal sacrifizio cruento. (Levit., ii).

Le sole specie di animali idonee ad essere offerte in sacrifizio erano quelle che più volte abbiamo nominato, cioè gli ovini e i bovini fra i quadrupedi, e le tortore e i colombi fra i volatili; ma non potevano fra i quadrupedi immolarsi nello stesso giorno la madre ed uno dei suoi figli (Levit., xxii, 28). Era dʼuopo inoltre che la vittima avesse almeno età di otto giorni (ivi, 27) e fosse immune da qualunque difetto (ivi, 17–25).[549]

In certi casi poi, come nel sacrifizio quotidiano, in quelli del sabato, dei novilunii, e delle feste, gli agnelli non dovevano superare lʼetà di un anno. I rabbini consigliarono al minimo lʼetà di un mese per ogni sacrifizio espiatorio e per gli olocausti pubblici, non superiore di un anno per gli agnelli, i capretti e i vitelli, non di due per i montoni e i capri, e non di tre per i giovenchi.[550]

Essi inoltre trattarono molto ampiamente tutto questo subbietto dei sacrifizii, e discesero ai più minuti particolari, specialmente in due estesi trattati talmudici intitolati dei Sacrifizii (Zebaḣim) e delle Offerte (Menaḣoth); ma seguirli in questo rituale sarebbe veramente ozioso, ed estraneo ancora allo scopo che ci siamo proposti.

Ci resta però ad esaminare brevemente una questione di qualche importanza per le idee religiose[360] dellʼEbraismo. Era egli permesso accettare offerte e sacrifizii da chi non apparteneva per nascita al popolo ebreo, e non voleva nè anche convertirsi? A parer nostro, non vi può essere dubbio che, quando nel Levitico, dopo aver proibito di offrire animali difettosi, si soggiunge: «E dalla mano di persona straniera non offrirete il cibo del vostro Dio di tutti questi, perchè è in essi guasto, è in essi difetto, non vi sarebbero graditi» (xxii, 25), si proibisce di accettare anche dagli stranieri offerte di animali difettosi; lo che necessariamente suppone che di animali perfetti si sarebbero potuti accogliere. Così intesero rettamente questo passo i talmudisti[551] e alcuni degli interpetri moderni.[552] È dunque un errore quello del Wellhausen[553] che non badando al contesto, nel quale si trovava questo verso, ne ha voluto trarre lʼesclusione degli stranieri dal portare offerte a Jahveh.

Per terminare finalmente questo argomento dei sacrifizi fa dʼuopo ancora aggiungere che quasi come conseguenza del rito di dover bruciare certe parti del grasso di ogni animale offerto in sacrifizio, il nostro codice proibisce di mangiare il grasso degli animali ovini e bovini, e solo permette di valersi per altri usi del grasso degli animali morti naturalmente o dilaniati dalle fiere. (Levit., vii, 23–26, iii, 17).

Sʼintende facilmente che non tutto il grasso era proibito, ma soltanto quelle parti che nei sacrifizii si dovevano offrire sullʼaltare. Ma anche su queste sorge unʼaltra domanda: si è voluto fare questa proibizione soltanto per gli animali offerti in sacrifizio, o ancora[361] per qualunque altro? Le parole del testo non sono troppo chiare, perchè da un lato intese alla lettera si applicherebbero ad ogni animale, dallʼaltro, badando a tutto il contesto, sembrerebbero contenere una particolare proibizione per gli animali sacrificati. Glʼinterpetri quindi sono di opinioni differenti.[554]

I talmudisti hanno inteso la proibizione nel senso più lato,[555] e ci pare che in questo caso si siano apposti al vero; perchè nei due citati passi della Scrittura, si pone a paro la proibizione di cibarsi di grasso con quella di cibarsi di sangue. Ora, siccome è impossibile che lʼautore del codice sacerdotale abbia voluto ristringere la proibizione del sangue alle sole vittime sacrificate, perchè altre leggi anteriori lo avevano proibito di ogni animale, assegnandone ancora la ragione; così anche la proibizione intorno al grasso deve intendersi nello stesso modo, ma ristretta però, come il testo stesso ne avverte, agli ovini e ai bovini.

Veniamo alla terza parte dellʼordinamento del culto, che consiste nelle feste.

Il codice sacerdotale tratta in prima partitamente della pasqua (Esodo, xii, 2–10, 15–20, 43–51), imponendo per essa un doppio rito. 1o Il sacrifizio pasquale consistente in un agnello o in un capretto, da immolarsi verso la sera del giorno quattordicesimo del mese primo di primavera, per mangiarne la carne arrostita unita ad azzime e ad erbe amare. 2o La festa di sette giorni, di cui il primo e il settimo dovevano tenersi come solenni, e in tutti poi mangiarsi azzime e astenersi rigorosamente da ogni cibo fermentato. Questo secondo rito che sarebbe stato imposto[362] da Dio prima che gli Ebrei fossero cacciati dallʼEgitto non può fondarsi, come il passo jehovistico (ivi, 39), sul fatto che non ebbero tempo di far fermentare la loro pasta, e perciò la cossero prima che fermentasse. Di più proibisce non solo di mangiare, ma di tenere presso di sè qualunque cibo fermentato (v. 19), per cui i rabbini, logicamente argomentando, proibirono nei sette giorni della pasqua di fare del lievito qualunque uso.[556]

Si aggiunsero inoltre più speciali formalità al rito del sacrifizio pasquale (ivi, 43–50), volendone esclusi tutti gli stranieri, chiamati ancora col nome dʼincirconcisi. I rabbini compresero in questa esclusione anche gli Ebrei che si trovassero in questo stato,[557] sebbene non per volontaria prevaricazione, ma per mera accidentalità, o anche per concessione della legge; giacchè a loro avviso, i genitori possono non circoncidere il figlio, quando altri due ne siano loro morti in conseguenza di tale operazione.[558] Curiose particolarità poi del rito pasquale, sono quelle che doveva mangiarsi tutto in una sola casa, sebbene più famiglie potessero insieme riunirsi per celebrarlo con una sola vittima, e di non potere romperne le ossa (ivi, v. 46).

Altra Novella a questo rito (Num., ix, 1–14) prescrive a chi si fosse trovato impuro o per viaggio, quando cadeva la pasqua, in modo da non poter prender parte al sacro convito dellʼagnello, di celebrarlo con eguale rito un mese dopo, ciocchè fu conosciuto nel rituale rabbinico col nome di seconda pasqua; ma durava un solo giorno, e sebbene con la carne del[363] sacrifizio si dovesse mangiare il pane azzimo, non vi era, secondo il Talmud, proibizione di quello lievitato.[559]

Un lato importante di questo precetto della pasqua nel codice sacerdotale è la prescrizione di dovere incominciare lʼanno dal primo giorno della primavera (Esodo, xii, 2); imperocchè sembra che non sia stato costante presso gli Ebrei lʼuso di computar lʼanno o dalla primavera o dallʼautunno. Finalmente si venne alla conciliazione di festeggiare un doppio capo dʼanno, quello della primavera come dellʼanno civile da un lato, e dallʼaltro come dellʼanno religioso per le feste, e quello dellʼautunno anchʼesso come anno civile per il computo degli anni, dei settenii e dei giubilei, e come anno agricolo allʼeffetto delle piantagioni e delle semente. A questi principali capi dellʼanno se ne aggiunsero anche altri due, uno nel mese di Ellul (agosto, settembre) per prelevare la decima degli animali, lʼaltro nel mese di Shebat (febbraio) per il primo spuntare dei polloni degli alberi.[560]

Il che ci conduce naturalmente a parlare delle nuove feste prescritte dal codice sacerdotale nel settimo mese, computando come primo quello primaverile in cui cadeva la pasqua. Si dice nella Scrittura (Levit., xxiii, 24 e seg., Num., xxix, 1) di dover festeggiare il primo giorno del settimo mese, ma si tace del tutto la ragione. Non era dessa la festa chiamata nel primo codice (Esodo, xxiii, 16) della Raccolta, e nel Deuteronomio (xvi, 13) delle Capanne; perchè secondo il nostro codice si sarebbe dovuta celebrare nel 15o giorno dello stesso mese, e non al primo (Levit., xxiii, 34); dunque fa dʼuopo concludere che nel testo[364] scritturale abbiamo qui prescritta una festa senza che la ragione ne sia assegnata. Il Talmud vi trovò, come abbiamo veduto, un capo dʼanno, e di più una preparazione alla penitenza annuale e solenne,[561] che si celebra nel decimo giorno, chiamato per ciò della espiazione. Intorno al quale, non contento il nostro codice di parlarne insieme alle altre solennità annuali, prescrisse uno speciale rito di sacrificii (Levit., xvi), imponendone lʼobbligo della celebrazione al massimo sacerdote.

Di più il testo della scrittura impone di dovere in questo giorno solenne porre in contrizione la persona (Levit., xvi, 29, xxiii, 27–32), senza specificare in che cosa consistesse questa contrizione. I talmudisti intesero che consistesse principalmente nel digiuno, che doveva durare ventiquattʼore da sera a sera, e nellʼastenersi ancora da ogni culto corporale, come lavarsi, ungersi, calzarsi, e molto più dal piacere venereo.[562]

Che i rabbini non abbiano immaginato essi questo rito, ma lo abbiano trovato nelle costumanze già da lungo tempo prevalse alla loro età, è molto ragionevole a supporsi; tanto più che nei profeti dellʼesilio o posteriori, troviamo menzione dellʼuso di digiunare come lutto e come contrizione (Isaia, lviii, 3–6, Zaccharia, viii, 19). È facile però che essi abbiano disciplinato questa costumanza con riti più precisi e determinati.

Il codice sacerdotale accrebbe ancora di un giorno la festa dellʼautunno, facendola di otto invece che di sette, e quasi tenendo lʼottavo come una festa per sè stessa, non impone per questo giorno lʼobbligo di[365] stare sotto le capanne. (Levit., xxiii, 36). Una legge poi che, se non è propria del codice sacerdotale, in esso fu accolta, dà spiegazione dellʼorigine di questa festa autunnale, togliendole la primitiva indole campestre; giacchè dice che la ragione di dovere stare sotto le capanne è che gli Ebrei in quelle avevano abitato durante la loro peregrinazione nel deserto (Levit., xxiii, 43). In questo modo la festa diveniva una storica commemorazione. Presso i talmudisti accadde una ulteriore trasformazione, giacchè ad opinione di alcuno tra essi le capanne non si devono intendere nel senso proprio, ma come simbolo delle nubi miracolose che avevano nel deserto fatto ombra sopra lʼaccampamento deglʼIsraeliti.[563]

Finalmente il codice sacerdotale sebbene non imponga di celebrarlo come festa, prescrive di distinguere ogni novilunio con un sacrificio speciale (Num., xxviii, 11–15). Sul quale punto però è da dirsi che, se il nostro codice è il primo a stabilire per i novilunii un rito preciso e determinato, il costume di festeggiarli in qualche modo era popolare, quantunque non ne parlino le più antiche raccolte di leggi (Isaia, i, 14).

La festa del Sabato è resa di osservanza più rigorosa e in sè stessa e nelle sue conseguenze. In sè stessa, perchè oltre la proibizione del lavoro si inibisce di accendere il fuoco (Esodo, xxxv, 3). Alcuni hanno voluto porre questo rito in relazione colla religione dei Persiani adoratori del fuoco. Ma non è forse più ragionevole supporre che, proibito ogni lavoro, si volesse ancora andare più oltre, e colpire in questo giorno sacro a Jahveh ogni umana industria in quella che[366] ne è la principal fonte, cioè il calore del fuoco, senza il quale nessuna industria potrebbe esistere? E certo che il trovato, a noi ormai divenuto semplicissimo, di accendere il fuoco, fu uno dei primi per cui gli uomini poterono fare i primi passi nella via della civiltà, e innalzarsi al di sopra di tutti gli altri animali. Quindi la paura, espressa in tanti varii modi presso le prime genti, di perdere questo grande trovato. Quindi lʼadorazione del fuoco presso quasi tutti i popoli, ora in una forma, ora sotto lʼaltra, e il rito anche presso gli Ebrei di tenere continuamente acceso sopra lʼaltare di giorno e di notte il fuoco, che doveva bruciare lʼolocausto (Levit., vi, 2–6). Ma quando si tratta di usi privati, deve cessare nel giorno santo al Signore questo trovato, che è principalissimo mezzo di soddisfare a tutti i bisogni della vita umana; e col non esservi fuoco in nessuna delle private abitazioni si dimostri quanto e come in quel giorno si vuole essere separati da ogni cura terrena, per rivolgersi tutti ai pensieri di religione.

Si rese inoltre più rigoroso il Sabato nelle conseguenze della sua prevaricazione, sottoponendo il colpevole, che in quello avesse lavorato, alla pena capitale (Esodo, xxxi, 15), che doveva eseguirsi con la lapidazione (Num., xv, 32–36).

Altre feste poi da un lato, e luttuose commemorazioni dallʼaltro, si stabilirono nel popolo ebreo in conseguenza di nuovi eventi.

Il fatto narrato nel libro di Ester, della persecuzione di Aman primo ministro del re di Persia contro tutti gli Ebrei che si trovavano nella vasta monarchia, e della quasi portentosa loro salvazione, dette origine alla festa dei due giorni di Purim nel 14 e 15[367] del mese di Adar (febbraio–marzo). E noi qui non dobbiamo esaminare se il fatto sia storico o leggendario, ma soltanto registrare la istituzione della festa.

Altra commemorazione annua, le Encenie, che dura, otto giorni incominciando dal 25 di Chislev (decembre–gennaio), fu istituita per le vittorie degli Asmonei rettori del popolo giudaico, contro le prepotenze di Antioco (1o Macchab., iv, 52–56; 2o, i, 9 e seg.). È sebbene i libri dei Maccabei non siano ammessi nel canone giudaico, pure siccome se ne tiene storicamente vero il contenuto, fu confermata questa festa anche dallʼautorità del Talmud.[564] Però in queste due commemorazioni non fu imposta lʼastensione dal lavoro, e possono considerarsi a certi effetti come semplici mezze feste.

A commemorazioni luttuose per la conquista della Giudea fatta prima da Nabuccodonossor, e poi da Tito per la distruzione del tempio, furono istituiti quattro digiuni allʼanno, di cui troviamo anche un cenno scritturale presso il profeta Zaccharia (viii, 18, 19). Il più solenne di questi digiuni cade nel 9 di Ab (luglio–agosto); perchè, secondo la tradizione, in questo stesso giorno Gerusalemme sarebbe caduta in potere dei nemici, e si sarebbe incendiato il tempio, tanto nelle guerre contro i Babilonesi, quanto in quelle molto più recenti contro i Romani. E il destinare un giorno di lutto e di digiuno per deplorare la perdita della nazionale indipendenza ha certo qualche cosa di grande e di lodevole; tanto più quando si crede, come nellʼEbraismo, che questa sia stata la conseguenza di corruzione morale, e di peccati religiosi. Gli altri tre[368] digiuni furono istituiti: nel 17 del quarto mese, perchè si credeva che tre settimane prima che Gerusalemme fosse caduta in mano dei nemici, questi avessero aperta una breccia nelle sue mura, e si fosse cessato di offrire il sacrifizio quotidiano; nel 10 del settimo mese, perchè da quel giorno la città era stata circondata dʼassedio; e nel 3o del decimo mese, perchè in quel giorno era stato ucciso Ghedalià lasciato dai Babilonesi a capo dei pochi Giudei rimasti nella terra nativa, dopo che era stata conquistata e sottomessa (2o Re, xxv, 25, Geremia, xl, xli).[565] Parve di valutare questa uccisione come una sciagura nazionale, perchè ne derivò la finale dispersione di quei pochi Giudei, e la loro emigrazione in Egitto (Geremia, xliii).

Si ordinarono poi dei pubblici digiuni, per far preghiera, quando era troppo lunga la mancanza delle pioggie; e in generale si dava facoltà allʼautorità religiosa dʼimporti per qualunque pubblica calamità.[566]

Ma intorno a questi giorni o festivi, o luttuosi, o di contrizione, che non traggono, e non potrebbero trarre la loro origine dal Pentateuco, basti aver dato questo breve cenno, necessario a far conoscere lo svolgimento di certi riti nellʼEbraismo, e torniamo ad esaminare gli altri precetti e le altre leggi che il codice sacerdotale contiene, oltre le accennate tre parti principali del culto.

[369]

Uno speciale genere di offerte erano le consacrazioni che si sarebbero potute fare o delle persone, o del bestiame, o delle case, o dei terreni.

Quando si trattava delle persone si doveva pagarne il riscatto in denaro, secondo lʼetà e secondo il sesso.

Da un mese fino ai cinque anni, il maschio era valutato cinque sicli, e la femmina tre. Da cinque anni sino ai venti, il maschio era valutato venti sicli, e la femmina, dieci. Da venti fino a sessantʼanni, il maschio era valutato cinquanta sicli, e la femmina trenta, e da sessanta in poi, quindici sicli il maschio, e dieci la femmina. Ma se colui che faceva questa consacrazione fosse stato povero, da non poter pagare lʼintiero prezzo del riscatto, si rimetteva la cosa al giudizio del sacerdote, per imporlo secondo le facoltà dellʼofferente (Levit., xxvii, 1–8).

Quando si consacravano animali, se erano delle specie atte ad essere sacrificate, si dovevano offrire sullʼaltare, senza che fosse permesso nè permutarle nè riscattarle. Se erano di altre specie, se ne pagava il riscatto valutato dai sacerdoti, e quando allʼofferente fosse piaciuto di redimerle, bisognava aggiungere al valore il quinto (ivi, 9–13); il quale però, secondo lʼinterpretazione talmudica, doveva esser valutato non interno, ma esterno al valore, in modo che veniva ad essere invece il quarto.[567]

Lo stesso criterio si teneva per la consacrazione delle case e dei campi, i quali però si consacravano soltanto fino allʼanno del Giubileo, ma, se giunto questo i proprietarii non lo avessero riscattato, rimaneva come terreno sacro appartenente ai sacerdoti (ivi, 1421).[370] I talmudisti aggiunsero che i sacerdoti dovevano pagarne il valore al tesoro del tempio.[568]

Si faceva inoltre una distinzione fra i terreni di possesso patrimoniale, e quelli comprati da altri, i quali al giungere del Giubileo, sebbene consacrati dal compratore, ritornavano in possesso del venditore; perchè nessuno poteva disporre di cosa non propria, oltre i termini fissati dalla legge (ivi, 22–24).

Sulle cose già sacre per sè stesse, come i primogeniti, non si poteva fare altro voto di consacrazione (ivi, 26).

Si conosceva poi unʼaltra forma di consacrazione sotto il nome dʼinterdetto (Ḣerem), e persone, mobili, ed immobili consacrati a questo titolo non si potevano permutare, ma erano sacri come appartenenti o al tesoro del tempio, o ai sacerdoti.[569] Però in questo punto vi è una espressione nel testo rispetto alle persone che dà alquanto a pensare. Vediamone i termini precisi. «Ogni voto che alcuno faccia a Jahveh, come interdetto, di qualunque cosa egli abbia, o persone, o animali, o campi di suo patrimonio, non si venda e non si riscatti, ogni voto dʼinterdetto sia santissimo a Jahveh. Ogni voto dʼinterdetto che si faccia di persona, non si riscatti, ma sia fatta morire» (ivi, 28–29).

Ha inteso forse la legge di permettere una consacrazione, che equivarrebbe a un sacrificio umano? e sopra quali persone? su quelle forse dei servi e dei figli? Non ci lasciamo troppo facilmente indurre in[371] errore dal significato apparente di questo luogo. Mentre leggi antecedenti avevano stabilito che il padrone non avesse diritto nemmeno di percuotere il servo troppo crudelmente, ma per avergli offeso un occhio, o fatto cadere un dente lo doveva lasciare in libertà (pag. 107, 110); mentre anche sul figlio ribelle e procace non avevano riconosciuto al padre diritto di vita e di morte, ma solo di deferirlo allʼautorità giudiziaria (pag. 268) è impossibile che una legge posteriore permetta al padre o al padrone di consacrare a morte o il figlio o il servo. Il fatto di Jefte (Giud., xi, 31 e seg.) non prova nulla per dare a questa nostra legge una interpretazione crudele e sanguinaria. Non si nega che nei primitivi costumi della gente ebrea vi sia stato quello dei sacrifizii umani, praticati più o meno da tutti i popoli antichi, prima che vero lume di civiltà fosse in essi penetrato. Ma qui si tratta di sapere, se questo costume sia stato mai presso gli Ebrei confermato da una legge. E per quanto le varie compilazioni legislative che si trovano nel Pentateuco appartengano a diverse età, e siano ispirate da principii differenti, in questo sono concordi, nel volere cioè tenere gli Ebrei lontani dai culti o immorali o crudeli dei popoli o vicini per territorio, o affini per istirpe. Non sarebbe poi con una frase messa così quasi di sotterfugio, e come per incidente, che si sarebbe confermato per legge un atto di tanta importanza come il sacrifizio umano. E tanto più queste ragioni acquistano valore, quando si tenga che questo passo è posteriore non solo al primo codice, al Levitico xviiixx, e al Deuteronomio, ma anche ai profeti, che tanto orrore avevano ispirato per tale genere di sacrificii. Laonde è necessario dare a questo luogo altro significato.

[372]

Lʼinterdetto di cui si parla nel versetto 29 non è quello che poteva farsi da qualcheduno per voto, come quello di cui si parla nel verso precedente; ma invece lʼinterdetto in cui le persone per forza di legge si potevano trovare involte. Era questo per lo più usato in guerra contro i nemici, come lo vediamo contro i Madianiti (Num., xxxi), contro gli abitanti di Gericho (Giosuè, vi, 17 e seg.), contro gli Amalechiti (1o Sam., xv, 3) e confermato per legge anche in più luoghi (Esodo, xvii, 14; Deut., xx, 17). Ma poteva usarsi anche contro gli stessi cittadini che non ottemperassero alle leggi. Questi erano scomunicati, erano fuori della legge, non potevano riscattarsi, ma dovevano porsi a morte.[570]

Non molto differentemente hanno inteso questo passo i talmudisti, i quali lo hanno applicato a colui che condannato a morte per qualche delitto, non avrebbe potuto per denaro riscattarsi, ma doveva considerarsi, come interdetto, come posto al bando dalla civile società, e quindi uccidersi.[571]

In quanto poi a quellʼinterdetto sulle persone di cui si parla nel citato verso 28, non per farle morire, ma per tenerle come consacrate, il Talmud stabilì che non si potesse fare nè sui figli, nè sui servi ebrei, perchè gli uni e gli altri avevano personalità propria, e non erano cosa nè del padre nè del padrone; ma soltanto sui servi stranieri, che sarebbero passati al servizio dei sacerdoti o del tempio.[572]

[373]

Prescrissero inoltre i Dottori del Talmud di non consacrare mai tutti i propri averi, ma solo una parte, e alcuni giunsero fino a tenere nulla una consacrazione universale.[573] Temperamento certo molto saggio per moderare il troppo zelo di qualche fanatico, che avrebbe potuto con un atto imprudente cagionare la miseria a sè e alla propria famiglia.

Con questo rito della consacrazione si connette ciò che troviamo disposto intorno ai voti (Num., xxx). Si raccomanda in prima, come già abbiamo veduto nel Deuteronomio (xxiii, 22), di non mancare al loro adempimento (v. 3). Ma qui si contiene di nuovo la disposizione in quanto ai voti delle donne. Le quali, non avendo intiera personalità giuridica propria, ma dipendendo o dalla patria potestà, o da quella del marito, si trovavano anche per i voti, o da questa o da quella dipendenti. Finchè erano nubili in casa del padre, questi poteva, quando avesse saputo il voto fatto dalla figlia, dichiararlo nullo, e Dio non glielo avrebbe apposto a peccato; ma il silenzio equivaleva allʼapprovazione, e quindi induceva lʼobbligo nelle donne di mantenere il voto (4–6). Lo stesso è disposto rispetto allʼautorità del marito, dopo che la donna fosse sposata (9–15). Ma quando il marito prepotentemente volesse render nulli i voti della moglie, anche dopo averli implicitamente approvati, stava a lui a sopportare le pene religiose, come qualunque mancatore al voto, ed ella era assolta (v. 16). La vedova poi o la ripudiata, siccome aveva acquistato una personalità giuridica propria, era tenuta, come lʼuomo, allʼadempimento dei suoi voti (v. 10).

[374]

I talmudisti, come in tutte le relazioni civili della donna, restrinsero anche per i voti la sua dipendenza allʼautorità paterna fino alla pubertà, giunta la quale, se non era maritata, la donna avrebbe secondo essi avuto responsabilità propria per tutte le sue azioni.[574] Di più nel rito talmudico si ammette per tutti la possibilità di sciogliersi dallʼobbligo del voto, facendone una dichiarazione soddisfaciente, alla presenza o di un solo perito nella legge, o di tre individui, ancorchè semplici privati, purchè capaci di giudicare della importanza del voto e delle ragioni che inducevano a doverlo sciogliere.[575] Dimodochè lo scioglimento dei voti non era rimesso alla sola autorità di una casta sacerdotale, ma anche alla discrezione di altri cittadini.

Unʼaltra legge che concerneva la condizione della donna, ma certo non a suo vantaggio nè a sua dignità, era una specie di giudizio divino, a cui poteva andare sottoposta per volontà del marito, se questi conosceva che avesse mancato ai doveri matrimoniali, senza potere addurre una prova testimoniale, o anche ne concepiva sospetto. Lʼuomo poteva condurre sua moglie al tempio dinanzi al sacerdote, con un presente di farina dʼorzo. Il sacerdote metteva in un vaso dellʼacqua santa[576] e della polvere presa dal suolo del tempio. Scopertole il capo, e postole sulle mani il presente, la faceva giurare di non aver mancato ai suoi doveri di moglie, quindi la imprecava, se avesse spergiurato, che Jahveh lʼavrebbe colpita di una malattia,[375] che i più intendono lʼidropisia dellʼovaia, alla quale imprecazione la donna doveva acconsentire, ripetendo: così sia, così sia (Amen, Amen). Scriveva quindi il sacerdote le imprecazioni, e disfaceva la carta nellʼacqua, offriva il presente secondo il rito delle altre offerte incruente, e le dava a bere quellʼacqua; se era colpevole, si dovevano verificare le imprecazioni, se innocente rimaneva incolume (Num., V, 11–31). Tutto ciò, se si deve prendere alla lettera, è fondato solamente sopra una credenza superstiziosa. Alcuni hanno voluto giustificare la prescrizione, come se dovesse valere più per lʼimpressione che doveva operare sulla fantasia della donna, e come mezzo atto a strapparle una confessione nel caso che fosse colpevole.[577] Ma non si tien conto che tutte le prove di questo genere, efficaci per le indoli nervose ed eccitabili, non producon nessun effetto sui temperamenti più calmi. Senza dire dallʼaltro lato quale pericolosa arme si poneva nelle mani dei sacerdoti, uomini anchʼessi, e sottoposti quindi a tutte le umane passioni. Questo rito adunque fa pessima figura in mezzo agli altri della legge ebraica; perchè da un lato mostra troppa intolleranza verso la donna, e la espone a una prova troppo avvilente, e dallʼaltro concede troppo allʼarbitrio del marito, rimettendo poi per peggio la decisione di un punto così delicato nelle mani di un sacerdote, senza che la donna potesse ricorrere ad altri mezzi per provare la sua innocenza.

I rabbini, non potendo togliere a questa prescrizione il suo fondamento tutto superstizioso, la ridussero[376] però dentro confini molto ristretti. La cagione legittima di gelosia per dare al marito il diritto di sottoporre la donna a tale prova era per il Talmud una sola. Lʼaverla ammonita dinanzi a testimoni di non restare sola con un dato individuo, perchè gli era sospetto, e lʼavere essa disobbedito a tale avvertimento.[578] Si voleva inoltre che il marito fosse stato casto anche lui tutta la sua vita, e una sola trasgressione carnale provata bastava a togliergli il diritto di sottoporre la moglie alla prova miracolosa.[579] Perciò da quando si conobbe che i costumi erano corrotti, e molti gli adulteri, si stabilì che si dovesse del tutto cessare questo rito, la quale istituzione è attribuita al dottore Johanan figlio di Zacchai, poco tempo prima della conquista romana.[580] Basterebbero queste due sole restrizioni a togliere gran parte della ingiustizia verso la donna, che conteneva il rito secondo la lettera della Scrittura. Ma i rabbini andarono anche più innanzi. La donna non poteva a loro avviso in nessun caso essere per forza costretta alla prova. Se colpevole, poteva confessare; ma poteva anche dire io sono innocente, e non voglio bere di cotestʼacqua, e il solo danno che nellʼuno e nellʼaltro caso ne avrebbe risentito, sarebbe stato di dividersi dal marito, perdendo il diritto della dote da questo costituitale. Non era poi sottoposta nemmeno a questa pena, se il marito dopo aver risoluto di sottoporla alla prova miracolosa, si fosse con lei accoppiato; ma si obbligava al divorzio, mantenendole integri i diritti sulla dote.[581]

[377]

Argomentando poi sottilmente sulle parole del testo, esclusero da questa prova la donna che fosse o zoppa, o cieca, o muta, o sorda, o monca, o moglie di un uomo che avesse uno di questi difetti.[582] La ragione giuridica di queste esclusioni non si saprebbe comprendere, ma i rabbini le istituirono, interpretando la Scrittura col loro modo di esegesi. Però apparisce la ragione giuridica di altre esclusioni, cioè della donna sposata semplicemente con lʼanello, perchè il matrimonio non è ancora perfetto; della minore, o anche dellʼadulta moglie di un minore, come della demente, o moglie di un demente; perchè mancherebbe nellʼuna e nellʼaltra la giuridica capacità; della donna obbligata per diritto di levirato; perchè il cognato non può ancora avere tutti i diritti del marito.[583]

In questo modo la superstizione rimaneva, ma moltissime, se non tutte, le perniciose conseguenze erano ovviate.

Un altro rito, che riguardava la santità della vita, si trova rammentato nel codice sacerdotale, ed è posto, senza che se ne possa assegnare ragione che veramente appaghi, fra le due narrazioni di un violatore del Sabato, e della sommossa di Coreh (Num., xv, 37–41). La spiegazione di questo rito quale lʼabbiamo in questo luogo è ampliazione di quello stesso brevemente accennato nel Deuteronomio (xxii, 12). Ma laddove colà dopo un altro rito che concerne i tessuti, dei quali abbigliarsi, si dice semplicemente di farsi delle frangie ai quattro lembi della veste, lo che poteva essere nulla più che un costume, qui si prescrive[378] più specialmente la foggia di questa frangia, e se ne assegna uno scopo religioso. A ognuno dei lembi della veste si doveva dunque porre una frangia (Zizit), e frammettervi un filo di colore giacintino. La ragione di questo precetto è che, vedendo questa frangia, si sarebbero ricordati i comandi di Jahveh, sicchè non avrebbero errato dietro le tentazioni del cuore e degli occhi. Ma come mai una frangia può avere questa virtù? Forse per il colore del giacinto simile a quello del cielo, e che per conseguenza doveva distornare i pensieri dalle cose terrene, e rivolgerli a quelli celesti?[584] Ma sarebbe un concetto troppo ascetico, e molto alieno da tutto lʼintendimento che ispira il codice sacerdotale e in genere ancora tutte le leggi del Pentateuco. Forse soltanto perchè era un comando divino, il cui segno materiale portato sulle vesti poteva continuamente risvegliare la ricordanza di tutta la legge? Questo ci sembra più probabile, ma asseverarlo con piena certezza non si potrebbe.

E curiosa poi la trasformazione che ebbe questo rito nel posteriore svolgimento del Giudaismo. Siccome il vero colore giacintino si faceva presso gli antichi al pari della porpora dal succo di una conchiglia, e questo sarebbe difficile a ottenersi, se si dovesse fare con tutte le prescrizioni rituali,[585] i rabbini stabilirono di continuare a portare le frange, ma senza più frammettervi il filo di quel colore. E adattandosi a mano a mano gli Ebrei ai costumi e ai vestimenti dei popoli fra i quali furono dispersi, il rito di indossare un manto con siffatte frangie ai quattro[379] lembi, insieme con le filatterie, di cui già abbiamo discorso, rimase ristretto solo alle ore del giorno in cui recitano le preghiere, e particolarmente in quella del mattino. I più devoti però portano continuamente sotto alla vesta una piccola tonica, ai quattro lembi della quale sono sospese le frangie di rito.[586] Ed è cosa nota che delle filatterie e delle frangie si parla negli Evangeli, come un uso dei Giudei devoti, e di cui Gesù faceva rimprovero ai Farisei come esterna pompa della loro ipocrita e materiale osservanza della legge (Matt., xxiii, 5).

Il rispetto al nome divino imposto con un semplice avvertimento nel primo codice (Esodo, xxii, 23) è qui sanzionato con la pena capitale inflitta alla bestemmia, prendendo per occasione di questa legge che il figlio di unʼEbrea e di un Egiziano avrebbe commesso questo delitto (Levit., xxiv, 10–16). Consultato Jahveh sul da farsi, avrebbe ordinato di lapidarlo. I talmudisti però vollero che per meritare questa condanna concorresse lʼestremo di proferire nella bestemmia lʼineffabile tetragramma; sotto altra forma, sarebbe stata a loro avviso punita soltanto con la fustigazione.[587]

Insieme con tutti questi riti e precetti di culto esterno, che fino a qui abbiamo esposto, il codice sacerdotale contiene tre leggi civili molto importanti, e che concernono lʼanno sabbatico e il Giubileo, la successione ereditaria, e le città di rifugio per lʼomicida involontario.

Il caritatevole precetto del primo codice (Esodo, XXIII, 10, 11), di lasciare ogni sette anni il prodotto[380] delle terre a favore dei poveri (v. pag. 133 e seg.) si è trasformato in queste più recenti leggi (Levitico, xxv), in un rito assurdo e quasi impossibile a praticarsi, cioè di lasciare ogni settʼanni in riposo la terra, senza coltivarla, dʼonde il nome di anno sabbatico.

xxv. 2.Parla ai figli dʼIsraele e diʼ loro: quando verrete nella terra che io vi do, riposerà la terra sabato a Jahveh. 3.Sei anni seminerai il tuo campo e sei anni poterai la tua vite, e raccoglierai il suo prodotto. 4.Ma nellʼanno settimo sabato, riposo sarà alla terra, sabato a Jahveh, il tuo campo non seminerai, e la tua vigna non poterai. 5.Quello che è cresciuto da sè nella tua mèsse non mieterai, nè vendemmierai le uve della tua vite; anno di riposo sarà per la terra. 6.E questo riposo della terra sarà, perchè voi ne godiate: a te, e al tuo servo, e alla tua serva, e al tuo mercenario, e allʼabitante che dimorano presso di te, e al tuo bestiame, 7.e alle fiere che saranno nella tua terra sarà tutto il suo prodotto per mangiarne.

Proibito nel settimo anno ogni lavoro agricolo, i prodotti che in esso si raccoglievano dovevano andare a vantaggio di tutti, non meno per i proprietarii e per le loro famiglie che per tutti coloro che ne avevano bisogno, non meno per gli animali domestici che per i selvatici. Dei prodotti di quellʼanno non si poteva far commercio; ma avrebbero dovuto servire per una generale cuccagna. E dopo sette settenii si doveva festeggiare il 50o anno, nel quale, oltre il riposo della terra con le sue conseguenze, i beni terreni venduti ritornavano al primo loro possessore, e gli schiavi in libertà. Nè si poteva dire che questo fosse un estorcere ingiustamente al compratore ciò che aveva di buon diritto acquistato; perchè la vendita dei campi era in sostanza un affitto sino allʼanno del Giubileo; e la compra di un servo ebreo, non era altro che il prendere a servizio una persona per un certo numero di anni.

8.E ti conterai sette riposi di anni, sette anni sette volte, e[381] sarà per te il tempo di sette riposi dʼanni, quarantanove anni. 9.E farai passare la tuba sonatrice nel mese settimo,[588] nel dieci del mese, nel giorno dellʼespiazione, farete passare la tuba in tutte le vostre terre. 10.E santificherete lʼanno cinquantesimo, e bandirete libertà nella terra per tutti i suoi abitanti, quello siavi Giubileo,[589] e tornerete ognuno alla sua possessione, e ognuno alla sua famiglia.

11.(Questo Giubileo sia a voi ogni cinquantanni, non seminate, e non mietete ciò che nasce da se, e non potate le viti. 12.Perchè e Giubileo, santo sarà a voi, dal campo mangerete il suo prodotto. 13.In questʼanno del Giubileo tornerete ognuno alla sua possessione).[590]

14.E quando farete qualche vendita al vostro compagno, o comprerete dal vostro compagno, non commettete ingiustizia lʼuno[382] verso lʼaltro. 15.Secondo il numero degli anni dopo l Giubileo comprerai dal tuo compagno; secondo il numero degli anni dei prodotti egli venderà a te. 16.Se gli anni sono molti, accrescerai il prezzo, e se gli anni sono pochi lo diminuirai, perchè egli ti vende il numero dei prodotti. 17.(E non ingannate alcuno il suo compagno, ma temi il tuo Dio chè Io Jahveh Dio vostro. 18.Ed eseguirete i miei comandi, e le mie leggi osserverete ed eseguirete, ed abiterete con sicurezza nella terra. 19.E darà la terra il suo frutto, e mangerete a sazietà, e vi abiterete in sicuro. 20.E se direte: che cosa mangeremo nellʼanno settimo? ecco non seminiamo, e non raccogliamo il nostro prodotto. 21.Ma comanderò la mia benedizione per voi nellʼanno sesto, e farà il prodotto per tre anni. 22.E seminerete nellʼanno ottavo, e mangerete del prodotto vecchio fino allʼanno nono, sino che verrà il suo prodotto mangerete del vecchio). 23.E la terra non si venderà assolutamente, chè mia è la terra, e peregrini e abitanti voi siete con me; 24.e in tutta la terra delle vostre possessioni, darete alla terra riscatto.[591]

25.Quando impoverisca il tuo fratello, e venda una parte della sua possessione, se si presenta chi ha diritto di riscattarla, cioè il suo prossimo parente, riscatti la vendita del suo fratello. 26.E chi non ha un riscattatore, ma la sua facoltà vi arriva, 27.e trova quanto basta per il riscatto, conti gli anni della sua vendita, e restituisca il di più allʼuomo cui ha venduto, e torni al suo possesso. 28.Ma se non gli bastano i mezzi per restituirgli, sia ciò che ha venduto in mano del compratore fino allʼanno del Giubileo; ma esca nel Giubileo, ed egli torni al suo possesso.

Altra legge regolava la vendita delle case. Quelle di campagna erano parificate ai terreni; nelle città circondate di mura erano riscattabili dentro un anno, trascorso il quale, rimanevano in possesso del compratore. Siffatta distinzione non si sarebbe dovuta applicare alle case dei Leviti, che, o di città o di campagna, erano sempre riscattabili, e al Giubileo sarebbero ritornate al primo possessore.

29.E se alcuno vende una casa di abitazione in città murata, ne avrà il riscatto fino al termine dellʼanno della vendita; un[383] anno abbia per il riscatto. 30.E se non la riscatta prima che si compia lʼanno intiero, rimanga la casa, che è in città con mura, assolutamente al compratore di quella per i suoi discendenti, non esca nel Giubileo.31.Ma le case delle ville, che non hanno mura intorno, insieme col campo della terra si valutino, abbiano riscatto, ed escano nel Giubileo. 32.Le città poi dei Leviti, le case delle città di loro possessione abbiano riscatto sempre per i Leviti. 33.E ciò che non si riscatta[592] dai Leviti, vendita di case e città di loro possesso, esca nel Giubileo, perchè le case delle città dei Leviti sono il loro possesso tra i figli dʼIsraele. 34.E il campo del subborgo delle loro città non si venda, perchè è per loro possesso perpetuo.

Ciò che il legislatore abbia voluto stabilire con questo ultimo verso non apparisce molto chiaro. Se si è voluto dire che i campi dei Leviti non si potevano definitivamente vendere, ciò era inutile; perchè era già stabilito innanzi per tutte le terre, e quelle dei Leviti non potevano essere in condizione peggiore delle altre. Se si è voluto dire che i Leviti non potevano vendere le loro terre nemmeno per un certo tempo, e colla riversabilità allʼepoca del Giubileo, anche questo pare difficile a concepirsi; perchè i Leviti non avrebbero potuto in caso di momentaneo bisogno, valersi delle loro terre al pari degli altri cittadini. I talmudisti hanno voluto trovare in questo luogo un privilegio dei Leviti, cioè che le loro terre non fossero sottoposte a vendita per parte dei pubblici esattori,[384] se le consacrassero, e non le riscattassero prima del Giubileo.[593]

Lʼaver parlato del possibile impoverimento di qualcheduno conduce il legislatore a raccomandare un precetto di carità, già inculcato da altri, di non prestare ad usura, ma di sovvenire gratuitamente i bisognosi. Questa figliazione di concetti ci sembra naturale in uno scrittore ebreo, e però qui non vediamo necessario di ricorrere allʼipotesi di una interpolazione come fanno alcuni critici. Oltrechè lʼidentico modo con cui incominciano i vv. 25, 35, 39 proverebbe che sono tutti dello stesso autore.

35.E quando impoverisca il tuo fratello, e vacilli la sua condizione presso di te, sostienilo, pellegrino o abitante che sia,[594] e viva presso di te. 36.Non prendere da lui interesse nè usura, e temi del tuo Dio, e viva il tuo fratello presso di te. 37.Il tuo denaro non dargli a interesse, nè con usura darai a lui il tuo cibo. 38.Io Jahveh Dio vostro che vi feci escire dalla terra dʼEgitto per darvi la terra di Canaan per essere a voi Dio.

Finalmente in questa legge del Giubileo si viene a parlare degli schiavi. Se gli Ebrei fossero ridotti in questo stato per povertà, tornavano liberi con la loro famiglia nellʼanno del Giubileo, e anche nel tempo della servitù era imposto di trattarli con dolcezza. I veri schiavi a perpetuità si potevano comprare soltanto[385] dai popoli stranieri. Se poi un ebreo si fosse venduto schiavo a uno straniero, era dovere dei suoi parenti di riscattarlo; e se ciò non potesse farsi, esciva libero allʼanno del Giubileo. Dimodochè uno straniero, che comprava per servo un israelita, sapeva di acquistarlo soltanto per un tempo più o meno lungo, secondo che distava lʼ anno del Giubileo, e lo pagava in ragione di esso.

39.E quando impoverisca il tuo fratello presso te, e ti si venda, non lo far servire come uno schiavo. 40.Come un mercenario, come un abitante sia con te, sino allʼanno del Giubileo ti serva. 41.Ed escirà da te esso e i suoi figli con lui, e tornerà alla sua famiglia e alla possessione dei suoi padri. 42.Perchè miei servi essi sono, che feci escire dalla terra dʼEgitto, non saranno venduti come vendita di schiavi. 43.Non signoreggiare su quello con durezza, ma temi del tuo Dio. 44.E il tuo schiavo e la tua schiava che saranno tuoi, comprali dalle genti che sono nei vostri dintorni, da quelli comprerete schiavo o schiava. 45.E anche dalle persone che abitano e sono forestiere presso di voi li comprerete, e dalle loro famiglie che sono presso di voi, che genereranno nelle vostre terre, e saranno a voi come vostra proprietà. 46.E li possederete per lasciarli ai vostri figli dopo di voi come possesso ereditario, per sempre ve ne servirete; ma sui vostri fratelli figli dʼIsraele, nessuno sul suo fratello signoreggi con durezza.

47.E quando giunga la facoltà del forestiere o dellʼabitante presso di te, sicchè, essendo povero il tuo fratello presso di lui, si venda al forestiero abitante presso di te, o a un rampollo di famiglia straniera, dopo che si e venduto abbia riscatto. 48.Uno dei suoi fratelli lo riscatti, o il suo zio, 49.o il figlio di suo zio, o alcuno dei suoi parenti carnali della sua famiglia, o se vi arriva la sua facoltà, si riscatti da sè stesso. 50.E computi col suo compratore dallʼanno che gli si è venduto sino a quello del Giubileo, e sia il denaro della sua vendita secondo il numero degli anni, come il tempo di un mercenario sia presso di lui. 51.Se rimangono ancora molti anni, secondo quelli renda il suo riscatto dal prezzo col quale fu comprato. 52.E se rimangono pochi anni sino allʼanno del Giubileo, glie li computi, secondo i suoi anni renda il suo riscatto. 53.Come mercenario, anno per anno, sia con lui, non lo signoreggi con durezza alla tua presenza.[386] 54.E se non si riscatta con uno di questi mezzi, esca nellʼanno del Giubileo egli e i suoi figli con lui. 55.Perchè a me i figli dʼIsraele sono servi, miei servi essi sono, che feci escire dalla terra dʼEgitto, io sono Jahveh vostro Dio.

Per quanto nella sostanza di tutta questa legge si nasconda un principio di eguaglianza sociale, con cui si voleva, per quanto era possibile, assicurare la permanenza dei possessi delle terre nella medesima famiglia, e la libertà personale, non consentendo la schiavitù perpetua del cittadino ebreo, pure è da notarsi che questa non è addotta dal legislatore come la ragione di tali disposizioni, ma invece una ragione del tutto teocratica. Le terre non si possono vendere per sempre, non perchè si vuol difendere la proprietà della famiglia dalla dissipazione o dalla negligenza del suo capo; ma perchè tutta la terra è proprietà di Jahveh, che valuta gli Ebrei soltanto come stranieri e abitanti, a cui lʼavrebbe concessa come in libero beneficio (v. 23). Gli schiavi non sono proprietà perpetua di chi gli ha comprati, e devono o più presto o più tardi tornare liberi, non si possono nemmeno trattare duramente, non perchè la libertà personale è inviolabile, non perchè così vuole il sentimento umano; ma perchè gli Ebrei sono servi di un altro padrone, sono servi di Jahveh. È innegabile che la legge presentata sotto tale aspetto perde molto della sua bellezza morale. Ma è innegabile ancora che così ci vien presentata dal legislatore sacerdotale, mentre lʼautore del primo codice e il deuteronomista tacciono del tutto di questa ragione così prettamente teocratica.

Nè si declami, come vanamente si declama da certi apologisti, che lʼebraismo non ha conosciuto la schiavitù. Ciò può dire soltanto chi ignora del tutto la[387] legge scritturale. Gli Ebrei hanno avuto la schiavitù come tutte le altre nazioni antiche; perchè la legge permetteva di comprare schiavi e tramandarli in eredità, come cosa di proprio possesso, tra tutti i popoli stranieri, e solo proibiva di farlo verso gli Ebrei. Ma anche presso i Greci e i Romani molto presto si stabilì che i cittadini non potevano ridursi in istato di servi. Solo deve dirsi che gli schiavi anche stranieri erano trattati presso gli Ebrei con molta più umanità e mitezza, e ciò fin dai primi tempi della loro vita civile (v. pag. 107, 112). Contentiamoci dunque di attribuir loro questo merito che è vero, e fondato sulla verità dei fatti; ma non ci lasciamo trascinare dallo spirito apologetico, che troppo spesso fa velo alla mente, e sempre spinge in una via che è troppo lontana da quella del metodo scientifico. Diciamo ancora, perchè a ragione possiamo dirlo, che i rabbini hanno anche più della Scrittura alleviato la condizione dello schiavo ebreo, e lo provano, oltre a ciò che sopra abbiamo esposto (pag. 91–101), anche le loro interpretazioni a questa nostra legge.

A loro opinione qui si parla soltanto dello schiavo divenuto tale per vendita volontaria,[595] mentre la lettera del testo ammetterebbe anche la vendita giudiziale, come a ragione intende il Saalschütz[596] assai meglio del Michaelis, che si uniforma alla interpretazione talmudica.[597] Ma siccome i talmudisti non vogliono trovare ripetizione, e molto meno contraddizione nelle diverse parti del Pentateuco, sono costretti a dare differenti applicazioni alle tre leggi intorno alla schiavitù,[388] che si trovano nel primo codice, nel Deuteronomio, e in questo luogo del Levitico. Quindi la durata della schiavitù fino allʼanno del Giubileo è da loro intesa troppo diversamente da quello che non porti la lettera del testo. Essi dicono: duri al massimo fino al Giubileo per chi si è venduto volontariamente, e anche per colui che è venduto dallʼautorità giudiziaria, se il Giubileo cade dentro i sei anni, che erano il termine fissato altrove per la schiavitù degli Ebrei.[598] Questa interpretazione non solo non si può desumere in nessun modo dalle parole della legge, ma è ad esse onninamente contraria. Se il legislatore avesse voluto fare una disposizione di tal sorta, non solo avrebbe saputo, ma avrebbe dovuto chiaramente spiegarla. È solo la necessità, in cui si trovavano i rabbini di porre in conciliazione due leggi contrarie, che ha fatto trovare questo modo tutto fantastico dʼintendere la legge.

Dalle parole del testo resulterebbe ancora che i figli divenivano servi insieme col padre, e con lui riacquistavano la libertà; perchè non avendo personalità giuridica propria, avrebbero dovuto seguire la condizione del padre. Ma ai rabbini ciò è parso ingiusto e crudele, e una legge che presa alla lettera darebbe tanto vantaggio al padrone è per loro divenuta tutta a suo carico. Imperocchè ne hanno desunto soltanto lʼobbligo nel compratore di uno schiavo ebreo di provvedere al vitto dei suoi figli minori.[599] La legge è umana, e fa onore alla moralità dei rabbini, ma non è certo quello che ha voluto disporre il legislatore del Levitico,[389] scrivendo: «escirà da te esso e i suoi figli con lui». Essi spinsero fino a tal punto questo sentimento di umanità verso il servo ebreo, che imposero di doverlo trattare sempre come fratello; e se la Scrittura comanda di non farlo servire come uno schiavo, a loro avviso ciò significa che non si dovesse in pubblico fargli prestare certi servigi che svelassero la sua condizione. Quindi era proibito altresì al padrone di approfittarsi del lavoro del servo ebreo per farne un lucro, obbligandolo a esercitare un mestiero o un commercio, eccettochè non fosse questa la sua professione anche in istato di libertà, perchè in tal caso non vi sarebbe stato per lui un avvilimento. Sul modo poi in generale con cui doveva essere trattato, è prezzo dellʼopera riferire le loro stesse parole. «Deve essere pari a te nel cibo, pari a te nella bevanda, pari a te nel vestire netto; che non mangi tu pan bianco ed egli pan bruno, che tu beva vino vecchio, ed egli del nuovo, che tu dorma sopra molli strati, ed egli sulla paglia».[600] Sentiamo bene che tutto ciò sarà sempre rimasto allo stato di un pio desiderio; perchè nella pratica della vita certi ideali non possono mai divenire realtà. Ma è da domandarsi ancora: tutta questa legge dellʼanno sabbatico e del Giubileo è stata mai in pratica osservata? In quanto al rimandare liberi i servi dopo sei anni abbiamo manifesta la testimonianza di Geremia (xxxiv, 8–17), che, nemmeno dopo aver rinnovato questo patto sotto il regno di Zedechia, i Giudei vi si erano mantenuti fedeli; ma anzi assoggettavano di nuovo come schiavi anche quelli rimandati in libertà.

[390]

Il non aver riposato dai lavori agricoli nellʼanno sabbatico, è annoverato nello stesso Levitico (XXVI, 34, 35, 43) come una delle trasgressioni della legge, che avrebbe cagionato la deportazione in terra straniera, e la terra allora avrebbe avuto i suoi riposi. Anzi i 70 anni dellʼesilio babilonese corrisponderebbero, secondo certi calcoli rabbinici, appunto ai 70 anni sabbatici non osservati dagli Ebrei dal loro ingresso nella terra promessa fino alla conquista di Nabuccodonossor per lo spazio di 430 anni.[601] Prescindiamo dallʼesaminare troppo per la sottile che questo calcolo non va dʼaccordo con la vera cronologia; ma ha il suo valore come tradizione e come memoria rimasta viva che lʼanno sabbatico non era stato osservato.

Non poteva esserlo quindi nemmeno lʼanno del Giubileo, che dipendeva dal computo antecedente dei sette settenii. Per noi poi e per tutti quei critici che tengono questa legge posteriore a quella del Deuteronomio, dove, come abbiamo visto, di riposo nellʼanno sabbatico e dellʼanno del Giubileo non si fa nemmeno parola, ne deriva per conseguenza che non poteva osservarsi una legge che ancora non esisteva.

E non esisteva certo la legge del Giubileo al tempo del re Achab, quando questi voleva comprare da Naboth una vigna (1o Re, xxi); perchè questi invece di opporre alla richiesta del re un semplice rifiuto, si sarebbe fatto forte del suo diritto. Non esisteva nemmeno al tempo dʼIsaia; perchè questo profeta rimprovera i ricchi e i potenti di voler troppo estendere i loro beni terreni (v. 8), cosa che in verun modo avrebbe potuto avvenire, se ognuno avesse posseduto[391] la sua parte di terra, che fosse per diritto inalienabile. Non esisteva nemmeno ai tempi di Ezechiele, perchè egli prescrive di assegnare al principe la sua parte di possesso nella terra, acciocchè non si appropriasse quella altrui (xlv, 7). Ma non si sa vedere come avrebbe potuto far ciò, se la legge del Giubileo fosse stata in vigore, e ad essa come tutti gli altri fosse stato sottoposto il principe; perchè non apparisce mai che per diritto egli potesse rendersi superiore alla legge.[602]

Con Ezechiele siamo già allʼesilio babilonese. E non abbiamo memorie storiche che ci dicano la legge del Giubileo essere stata osservata dopo il ritorno dallʼesilio. Anche qui poi una tradizione rabbinica cʼinsegna che tale legge non era prescritta, se non per il tempo in cui tutti gli Ebrei erano in possesso della loro terra,[603] dunque non dopo il ritorno dallʼesilio, perchè i reduci non erano che piccola parte del popolo. Nè ci si obbietti che noi diamo troppa importanza a certe tradizioni rabbiniche. Perchè, se non se ne può tener conto laddove troppo visibilmente esse trasportano a tempi antichi istituzioni molto più recenti; è ben altra cosa laddove esse stesse attestano la non osservanza della legge. Faceva dʼuopo che il fatto[392] fosse troppo noto e inoppugnabile, perchè i rabbini lo confessassero. Ma invece di cercare una spiegazione storica, che sarebbe stata la vera, ne davano una ragione astratta di diritto, non contenuta in verun modo nella legge stessa, e da essi a forza desunta, piegandovi violentemente il testo con una delle loro solite interpretazioni. Non è perciò la ragione da essi addotta che per noi ha valore alcuno, ma il fatto da essi così ingenuamente attestato.

La legge intorno alle successioni contenuta in due luoghi del Numeri (xxvii, 1–11, xxxvi) è stata suggerita dal giusto principio di migliorare in questo punto la condizione della donna. Nella forma quale ci fu tramandata, questa legge avrebbe avuto per occasione la domanda di cinque figlie di un uomo chiamato Zelofḣad, che volevano sulla eredità del padre far valere il proprio diritto di precedenza contro i loro zii. La quale domanda suppone che sino a quel tempo le figlie fossero escluse dalla eredità, non solo dai propri fratelli, ma anche dai collaterali del defunto. Lo scrittore di questa parte del Pentateuco vuol fare risalire fino a Mosè la modificazione della legge a favore della donna. Ma per accettare una tale remota antichità bisognerebbe anche menar buono il censimento del popolo (Num. xxvi, 33), e tutta la narrazione della conquista dei paesi allʼoriente del Giordano come lʼabbiamo nella Scrittura. Sʼintende facilmente quali difficoltà presenti il censimento per poter esser tenuto vero, quando si pensi che 600,000 uomini di età maggiore a ventʼanni, suppongono per lo meno un popolo di 2,000,000, che non poteva tutto compatto e unito vivere nomade nei deserti dellʼArabia.[393] Che i paesi poi allʼoriente del Giordano fossero conquistati da tutto il popolo ebreo, e bonariamente conceduti alle sole tribù di Ruben, di Gad, e a una parte di quelle di Menasse, mentre tutto il resto del popolo si sarebbe contentato della speranza di conquistare, quandochè fosse, il rimanente della Palestina (Num., xxxi, e seg.), nemmeno questo è tanto facilmente da credersi. Di più farebbe dʼuopo supporre che fosse avvenuta la partizione di quei paesi fra le diverse famiglie; perchè nella seconda parte di questa legge si fa la difficoltà che, riconoscendo le figlie come eredi, una parte dei possessi territoriali della tribù di Manasse, cui Zelofḣad sarebbe appartenuto, avrebbe potuto passare ad altra tribù, se elle avessero fuori della propria contratto matrimonio. Ma questa narrazione presenta i fatti come sono stati immaginati molti e molti secoli dopo che erano avvenuti. Perchè non è possibile che se un popolo vissuto per lungo tempo nomade conquista mediante tutte le sue forze alcuni paesi ove fermarsi in stabili sedi, bonariamente ne ceda il possesso a una piccola parte, ancorchè questa prometta, come vuol far credere la Scrittura, di essergli alleata nelle successive conquiste che egli si sarebbe accinto di fare.

Di tale narrazione può storicamente ammettersi soltanto che degli Ebrei esciti dallʼEgitto una parte staccatasi dagli altri cominciasse a conquistare i paesi allʼoriente del Giordano, mentre il resto del popolo viveva, e continuò a vivere ancora per lungo tempo, nello stato nomade. La partizione regolarmente fatta delle terre alle famiglie, e il patto di alleanza fra le tribù ivi stabilite e il resto del popolo sono immaginosi concetti dello scrittore sacerdotale, quando si era[394] perduta la memoria del modo, col quale il popolo ebreo aveva avuto origine, e si voleva rappresentare come unito da legami politici fino dai suoi primordi. Mentre a chi legge con attenzione il libro dei Giudici chiaro si manifesta che le tribù ebbero per lungo tempo vita separata e indipendente lʼuna dallʼaltra. Cosa dimostrata ancora da questo fatto del parziale stabilimento di alcune di esse allʼoriente del Giordano.

Lʼoccasione poi della legge successoria ci è presentata talmente connessa coi fatti precedentemente narrati intorno allʼoccupazione di questi paesi, che se quelli non possono tenersi storicamente veri, ne deriva per conseguenza che anche quella occasione è supposta. Artifizio a cui altre volte ricorre lo scrittore sacerdotale, per trovare la ragione di fatto in una legge che si vuoi far credere antica.

Accennate brevemente queste cose, che non possono qui avere il loro pieno svolgimento, perchè concernono piuttosto la storia, vediamo la legge in sè stessa. (Num., xxvii).

8.Quando alcuno muoja, e non abbia figli, farete passare la sua eredità a sua figlia. 9.E se non ha figli, darete la sua eredità ai suoi fratelli. 10.E se non ha fratelli, darete la sua eredità ai fratelli di suo padre; 11.e se non vi sono fratelli del padre, darete la sua eredità al suo parente prossimo a lui della sua famiglia, e la possegga. Ciò sia ai figli dʼIsraele come statuto di legge.

Questa disposizione in sè è chiarissima. I discendenti sono i primi eredi, ed i maschi escludono le femmine. In mancanza di discendenti maschi, la discendenza femminile precede i collaterali. E quando manchino anche questi, si risale ai collaterali del padre del defunto, e quindi si procede in ragione della prossimità.

[395]

Ma questa legge fu trovata poi difettosa, in quanto concedendo lʼeredità alle femmine, e queste potendo passare in matrimonio ad uomini di altre tribù, avrebbero potuto trasportare dallʼuna allʼaltra i possessi terreni, cosa contraria al sistema dʼeconomia sociale immaginato secondo la legge del Giubileo (xxxvi, 4). Allora, sentita la difficoltà, si stabilì che le figlie eredi dovessero maritarsi con uomini della stessa tribù.

8.Ogni figlia posseditrice dʼeredità fra le tribù dei figli dʼIsraele a uno della famiglia della tribù di suo padre sia per moglie, acciocchè i figli dʼIsraele posseggano ognuno lʼeredità dei suoi padri. 9.Nè si devolga lʼeredità da una tribù allʼaltra; ma ognuna nella propria eredita rimangano le tribù dei figli dʼIsraele.[604]

Tutte queste disposizioni della Scrittura, se bene si guarda, erano manchevoli, e lungi dal provvedere a ogni possibile caso, e opportunamente quindi furono rese più compiute nel Talmud.

Dove si stabilì in primo luogo che le successioni fossero per stirpe e non per testa.[605] In secondo luogo ai collaterali si fecero precedere gli ascendenti,[606] ma sempre nella linea del padre e non in quella della madre. Alle figlie, quando ci fossero figli, si dette diritto agli alimenti, e diritto, tanto prevalente, da assorbire lʼeredità dei figli maschi, quando gli averi lasciati dal padre fossero insufficienti.[607] Fu prescritto[396] ancora di dare alle figlie una dote in proporzione del patrimonio e dello stato della famiglia.[608] Intorno al diritto del coniuge superstite si instituì il marito erede della moglie in precedenza di qualunque altro;[609] ma dallʼaltro lato alla vedova si dette solo il diritto agli alimenti, fino che non esigesse il suo credito dotale.[610]

Di più, non parlandosi affatto nella Bibbia della facoltà di testare, il Talmud stabilì come principio che non potesse lʼarbitrio umano alterare la successione legittima.[611] Però concedette che dentro i confini degli eredi di eguale grado si potessero beneficare alcuni a danno di altri, e anche lasciare tutto il patrimonio a uno solo, purchè le espressioni della disposizione non contenessero in forma esplicita la diseredazione parziale o totale.[612] Cioè si potrebbe dire rispetto al beneficato: il tale erediti tanto, oppure: erediti tutta il mio; ma non rispetto al diseredato di parte o di tutto: il tale non erediti più che tanto, o non erediti nulla. In questo modo si credeva di salvare la lettera, se non lo spirito della legge.

Ma anche intorno a questa ristretta facoltà di disporre arbitrariamente fra gli eredi dello stesso grado si fece nel Talmud la quistione, se fosse conceduta soltanto a chi si trovasse in istato di malattia, o ancora a chi fosse sano.[613] Questione che può parere molto strana, come quella che parte dal presupposto che il malato per disporre dei suoi averi per dopo morte abbia in generale maggior facoltà di quella che ha[397] il sano. Ma se non si parte da questo presupposto non è in verun modo spiegabile come nel Talmud siasi potuta fare una tale domanda.

La risposta alla quistione è così avviluppata in sottili disquisizioni che i più celebri interpetri del Talmud si sono divisi in due schiere, e alcuni opinano che sia stata risoluta nel senso affermativo che anche lʼuomo sano possa arbitrariamente disporre dei suoi averi fra gli eredi dello stesso grado. Altri per contro affermano che la quistione non è risoluta, che per conseguenza non si deve per nulla derogare alla successione legittima, e quindi in istato di salute non si può neanche fra gli eredi dello stesso grado farsi la menoma preferenza. Quelli che hanno dato al Talmud questa seconda interpetrazione sono gli autori che per comune consenso dellʼEbraismo hanno autorità di decidenti,[614] e quindi fu adottata la loro opinione. Dimodochè il testamento non esiste per legge biblica, perchè nessun testo scritturale concede la facoltà di testare, e, secondo il Talmud, è solo quellʼatto che può fare un uomo in istato di malattia per beneficare più lʼuno che lʼaltro degli eredi dello stesso grado o per sceglierne fra essi uno solo a danno di tutti gli altri.[615]

Potevasi però disporre altrimenti dei propri averi? Non era possibile negare ad ognuno di donare il suo, perciò la donazione inter vivos fu concessa indistintamente a tutti. Si fece poi una distinzione per il malato o per chi fosse altrimenti in istato di grave pericolo[398] come il condannato condotto al patibolo, o chi partiva per mare o in carovana, ai quali era concesso di fare la donazione per causa di morte, revocabile,[616] e quando fosse cessata la cagione che lʼaveva dettata, da tenersi anche per sè stessa nulla, se si trattava di donazione universale.[617]

A chi poi non si trovasse in condizione pericolante non fu concesso se non di fare donazione con la riserva dellʼuso frutto, ma con lʼimmediata traslazione della proprietà nel donatario. Solo poteva sottoporsi la donazione anche alla condizione risolutiva del pentimento, e riprendere la cosa donata, la quale condizione risolutiva non toglieva mai alla donazione la sua qualità di atto tra vivi.[618]

Può parere strano il privilegio conceduto al malato; ma nel Talmud se ne è data la ragione, dicendo che si è voluto avere un riguardo alla sua condizione, perchè la sua mente non si disturbi, pensando che la sua volontà non potrebbe eseguirsi, se non avesse modo di fare una vera e propria donazione inter vivos.[619]

Queste modificazioni furon le sole che i talmudisti introdussero nella legge successoria, procurando sempre secondo il loro costume, di trovarle anche nella lettera della legge. E però essi non poterono arrivare, come nel diritto romano, alla vera istituzione del testamento, quindi a ragione disse lʼEineccio[620] che quello,[399] a cui nel diritto rabbinico fu dato questo nome, a Romanorum institutis toto coelo distare videatur.

Lʼasilo per lʼomicida involontario accennato brevemente nel primo codice, maggiormente ampliato nel Deuteronomio, ebbe nel codice sacerdotale tutto il suo svolgimento, e anche una notevole innovazione. (Num., xxxv, 9–34).

Le città di rifugio furono addirittura portate a sei, senza sottoporre questo numero alla condizione posta dal Deuteronomista che il territorio conquistato raggiungesse il suo massimo ampliamento (v. pag. 252 e seg.); tre dovevano essere ad oriente, e tre ad occidente del Giordano.

Si afferma inoltre, e si spiega più chiaramente il diritto di vendetta nel più prossimo parente dellʼucciso chiamato redentore del sangue, al quale spettava porre a morte lʼomicida. Questo diritto però, che sente ancora della barbarie degli uomini primitivi, e che fu comune a tanti popoli dellʼantichità, presso gli Ebrei fu regolato dalla legge.

Il giudicare se lʼomicidio fosse stato volontario o involontario spettava allʼautorità giudiziaria, la quale, se riteneva lʼuccisore non colpevole, lo liberava dalla mano di chi aveva il diritto della vendetta, curandone il confine in una delle città a ciò designate (v. 24, 25). Come ancora pronunziava la condanna, se giudicava che ci fossero gli estremi della colpa, e consegnava lʼomicida al redentore del sangue, il quale in tal modo era soltanto lʼesecutore della sentenza dei magistrati.

Lʼuccisore involontario poi era obbligato a non escire dal suo confine; nè fuori di questo la legge tutelava[400] la sua vita. Se il redentore del sangue lo avesse trovato fuori del confine ed ucciso, non sarebbe stato colpevole (v. 26–27).

Lʼinnovazione importante introdotta in questa legge è la durata del confine, intorno alla quale le altre leggi tacciono. Parrebbe che avesse dovuto durare o sino alla morte dellʼomicida, o sino a quella del redentore del sangue. Ma invece qui viene stabilito che durasse tutta la vita del sommo sacerdote (v. 25, 28), il quale certo in questo modo ci apparisce come capo non solo dellʼautorità religiosa, ma anche di quella civile. Col mutarsi della persona rappresentante della doppia autorità, cominciava, a dir così, una nuova era, e di quella antecedente si voleva cancellare ogni memoria non buona, concedendo amnistia a quelli che involontariamente avevano commesso riprovevoli azioni. Ma ciò che non era mai permesso dalla legge ebraica, era il prendere un riscatto dallʼomicida, come avveniva presso altri popoli (v. 31, 32). Il delitto di sangue era tale che avrebbe reso impura la terra, se non fosse stato debitamente punito con la morte dellʼomicida, quindi era tenuto di azione pubblica, e non lasciato punire alla sola privata vendetta. Imperocchè Jahveh abitava in mezzo ai figli dʼIsraele sulla terra ad essi conceduta, e non permetteva che divenisse impura lasciando impuniti i delitti di sangue (v. 33, 34). Quasi si credesse che il sangue versato nellʼomicidio e assorbito dalla terra gridasse vendetta. Concetto espresso nella leggenda di Caino e Abele, quando si dice che il sangue dellʼucciso esclamava a Jahveh dalla terra (Gen., iv, 10). Dimodochè, se lʼucciso non avesse avuto parenti per vendicarne la morte, o vi avessero rinunziato, il potere giudiziario doveva non solamente[401] giudicare, ma anche curare lʼesecuzione della condanna. Conseguenza che se non è chiaramente spiegata nella lettera della Scrittura, si deduce però con piena sicurezza dallo spirito della legge, e qui hanno avuto ragione dʼinsegnare in tal modo anche i talmudisti.[621] I quali però hanno aggiunto in questa legge che non le sole sei città designate come asilo fossero di rifugio allʼomicida involontario, ma anche le altre quarantadue assegnate come abitazione dei Leviti.[622] Estendendo in tal modo i luoghi dʼasilo, si vede bene che i rabbini erano mossi dal solito loro principio di introdurre nella legge penale una maggiore mitezza.

Anche nel codice sacerdotale si contiene, come nel Deuteronomio, un discorso parenetico (Levit., xxvi), nel quale si promette la felicità, se il popolo ebreo avesse osservato la legge, e ogni genere di infortunio, se vi avesse disobbedito. È notevole però che in questo discorso del Levitico si pone una certa gradazione nelle minaccie delle sventure, supponendo che di mano in mano debbano farsi maggiori, se il popolo non si pentisse, e ritornasse sulla buona via (v. 18, 21, 23, 27).

Ed è poi maggiormente da osservarsi che nella presente disposizione delle leggi ELN questo discorso, che ne dovrebbe formare la conclusione, non si trovi alla fine, ma fra la legge del Giubileo, e quella dei voti per le consacrazioni, e poi nel Numeri seguano sparse alcune altre leggi tanto religiose quanto civili. La quale osservazione ci conduce naturalmente a dire qualche cosa sul concetto che noi abbiamo della forma del codice sacerdotale.

[402]

Come può essersi facilmente accorto chi abbia avuto la pazienza di seguire fino a qui la esposizione che abbiamo fatta di questo codice, noi comprendiamo sotto questo nome qualche cosa di più che non fanno altri critici, e principalmente molte parti delle leggi del Levitico xviixxvi, intorno alle quali abbiamo opinione diversa da quella oggi tenuta da molti per vera. Non ci sembra che queste leggi abbiano mai potuto formare un tutto per sè, nemmeno come raccolta di elementi diversi. Abbiamo sopra addotto le ragioni (cap. vii) per le quali teniamo che i capitoli xviiixx siano leggi particolari promulgate nel lungo tempo decorso fra il primo codice e il Deuteronomio. Ora chi considera tutto il rimanente di questi capitoli non vi troverà ragione, nè per il contenuto nè per la forma, di non tenerli una delle parti costitutive del codice sacerdotale.

Il contenuto del capitolo xvii è principalmente il precetto di non offrire sacrifizii fuori del luogo centrale del culto, ed è questo un fondamento così necessario a tutto lʼordine del culto, che non è possibile, come vorrebbe il Vellhausen,[623] che nel codice sacerdotale non se ne facesse menzione perchè da sè stesso sottinteso. Nessuna legislazione può sottintendere ciò che ne forma uno dei principii regolatori.

I capitoli xxi, xxii sono di argomento sacerdotale quanto altri mai, perchè prescrivono tutte le norme di purità per la casta sacerdotale, e per gli animali atti ad essere offerti in sacrifizio. In un codice ordinatore del culto non si poteva tacere di questi due principalissimi argomenti. Come non era possibile non[403] prescrivere nulla intorno alle feste che formano subbietto del capitolo xxiii, tanto più, quando ne era accresciuto il numero relativamente a quello stabilito nelle antecedenti legislazioni. In questo capitolo però si sono introdotti alcuni elementi più antichi, che sono i vv. 9–22 e 39–44. Il codice sacerdotale è monotono nelle sue prescrizioni, e ama di farle in forma o identica o molto simile. Le prescrizioni intorno al sabato (1–3), intorno alla pasqua (4–8), al primo giorno del settimo mese (23–25), al giorno dellʼespiazione (26–32), alla festa delle capanne (33–38), sono espresse, se non nellʼidentico modo, almeno con uno stesso stile. Non così nei versi 9–22, ove si parla della doppia festa delle primizie al principio e alla fine della primavera, e nei vv. 39–43, che trattano della festa della raccolta nellʼautunno, dando a queste due feste un aspetto tutto agricolo, quale avevano in origine, ma perduto nel codice sacerdotale. E per i vv. 39–44 è maggiormente chiaro che non potevano formar parte della primitiva composizione di questo capitolo, perchè della stessa festa delle capanne si parla nei versi precedenti 33–36, e i vv. 37, 38 chiudono lʼargomento di tutte le feste, in modo che è impossibile supporre che uno stesso scrittore torni immediatamente a dirci sopra qualche cosʼaltro. In quanto poi ai vv. 9–23 si potrebbe obbiettare che, se questi sono interpolati, non abbiamo nel codice sacerdotale una prescrizione intorno alla Pentecoste. Ed è vero che nella forma in cui questo codice ci è pervenuto essa mancherebbe. Ma è da supporsi ragionevolmente che lʼultimo compilatore, combinando in questo capitolo elementi diversi, siccome trovava forse troppo succinta la prescrizione della Pentecoste quale era nel codice sacerdotale, e voleva[404] anche mantenere i riti intorno allʼofferta delle primizie, che in esso mancavano, lʼha soppressa, e vi ha inserito invece una disposizione rituale più antica.[624] Mentre per la festa delle capanne, volendo il compilatore mantenere il rito di festeggiarla con le palme e con i rami di altre piante (v. 40), ha meno avvedutamente sovrapposte lʼuna allʼaltra due disposizioni appartenenti a documenti diversi.[625] E finalmente che il rito intorno alla Pentecoste quale lo abbiamo qui nel cap. xxiii del Levitico non abbia potuto formar parte originaria del codice sacerdotale si prova inoppugnabilmente dalla contraddizione, che intorno al sacrifizio da offrirsi in essa festa già fu sopra notata (pag. 44) fra questo luogo e il Numeri xxviii, 27. Ma queste due inserzioni tratte da documento più antico, e da accagionarsi allʼultimo compilatore, non fanno sì che il capitolo xxiii non appartenga in sostanza al codice sacerdotale.

Sebbene fossero parti accessorie del culto, lʼaccendere il candelabro nel Santuario, e il porre sulla tavola santa le dodici focacce del pane sacro di settimana in settimana (xxiv, 1–9), domandiamo noi in quale altra collezione legislativa, se non nel codice sacerdotale, avrebbero potuto trovare il loro luogo?

Nè aliena dallo stesso codice è la terza parte dello stesso capitolo (vv. 10–16), che vuole punito colla lapidazione il bestemmiatore. Perchè è proprio di questa parte della legge del Pentateuco il sanzionare con la pena anche i peccati puramente religiosi.

[405]

Ciò che succede sulla legge del taglione è stato forse interpolato più recentemente, e non si saprebbe vedere una relazione fra le due leggi.

Se vi è poi disposizione degna di una mente sacerdotale è quella del riposo delle terre nellʼanno sabbatico, e della immobilità del possesso territoriale nella stessa famiglia, mediante il Giubileo (xxv) per la ragione teocratica che la terra è di Dio, e non dellʼuomo. Non si creda che questa è legge di precauzione per ovviare alla povertà, nè avviamento a un beato comunismo; ma è legge che inceppa ogni progresso, ogni aumento di ricchezza nel popolo, e che condanna invece alla immobilità, vagheggiata sempre e da per tutto dai sacerdoti di ogni religione.

Nè alcun miglioramento questa legge del Giubileo portò nella condizione degli schiavi, a cui già meglio avevano provveduto le leggi antecedenti col concedere la libertà dopo sette anni di servizio.

Crediamo finalmente che abbiano formato parte originaria del codice sacerdotale anche il cap. xviii del Numeri intorno ai proventi dei sacerdoti e dei leviti, e i capitoli xxviii, xxix dello stesso libro intorno ai sacrificii quotidiani e di tutte le solennità; perchè anche queste due erano parti troppo importanti dellʼordinamento del culto.

Come sia avvenuto che questi riti si trovino oggi così fuori del loro posto non è tanto facile a dirsi, come non è facile dare ragione di tutto il presente ordinamento del Pentateuco. Ma forse si può supporre che il compilatore ha posto dove oggi si trova la prescrizione intorno ai proventi sacerdotali, perchè voleva riconnettere i privilegi del sacerdozio alla narrazione della sommossa di Coreh, di Datan e di Abiram[406] contro lʼautorità di Mosè e di Aron. Ma non si potrebbe fare nessuna ipotesi ragionevole intorno alla presente posizione delle leggi sui pubblici sacrificii, perchè proprio non hanno alcun nesso nè con ciò che precede nè con ciò che segue.

La conclusione poi del codice sacerdotale era formata dal cap. xxvi del Levitico con le promesse di felicità in premio dellʼosservanza della legge, e con le minacce delle più terribili sventure, se fosse stata trascurata. Lʼultimo verso di questo capitolo: «Questi sono gli statuti, queste le leggi e glʼinsegnamenti che Jahveh diede fra sè e fra i figli dʼIsraele nel monte di Sinai per mezzo di Mosè» dimostra chiaramente che qui siamo giunti alla fine di una raccolta legislativa. La quale a parer nostro comincia col cap. xii (1–10, 15–20, 43–xiii, 2) dellʼEsodo, e riprende poi col cap. xxv, e interrotta dal v. 18 del cap. xxxi fino a tutto il xxxiv per inserirvi una narrazione desunta da più antico scritto, continua fino a questo punto.

Nè vogliamo dire che, quale oggi lʼabbiamo, questa raccolta sia tutta di uno stesso autore. Già per le cose antecedentemente discorse resulta come a nostra opinione le leggi di cui sopra abbiamo parlato nei capitoli vi e vii siano assai più antiche, e sarebbe difficile il dire se dallo stesso legislatore sacerdotale, o dallʼultimo compilatore siano state inserite là dove oggi si trovano. Come anche alcune modificazioni nei particolari si dovranno certamente alla mano di quelli che successivamente hanno ora ordinato ora disordinato il Pentateuco. Ma il volere precisamente fissare quali e quante queste modificazioni siano, noi giudichiamo che sia opera, per non dire impossibile, difficilissima. Ci sembra però resultare chiaramente che anche dopo[407] la formazione del codice sacerdotale si sentì il bisogno di renderlo maggiormente compiuto con altre disposizioni, le quali formano altrettante Novelle contenute nel cap. xxvii del Levitico, e nelle parti legislative del Numeri, che abbiamo antecedentemente esposte. Le quali Novelle, secondo ciò che abbiamo nel Pentateuco, si dicono in parte rivelate da Dio nel monte Sinai (Levit., xxvii, 34) o nel deserto dello stesso nome (Num., ix, 1), e in parte nelle pianure di Moab presso il Giordano (ivi, xxxvi, 13). Noi le abbiamo considerate come parti del codice sacerdotale, perchè, se non erano comprese nella originaria sua composizione, certo erano dettate secondo gli stessi principii, e con lʼintendimento di rendere più compiuta una stessa legislazione, non di formarne una nuova e diversa. Oltrechè poi avremmo giudicato impossibile disporre in ordine cronologico queste Novelle, sicchè vi fosse ragione di trattarne separatamente. Resta però ad esaminare in qual tempo nelle principali ed originarie sue parti il codice sacerdotale siasi formato, e a quale età sia da attribuirsi la sua promulgazione.

Che sia posteriore ad Ezechiele, come sopra fu accennato, si prova manifestamente, dallʼordine del culto immaginato da questo profeta diverso da quello del codice sacerdotale, per la disciplina del sacerdozio, per le feste, e per i sacrifizii.

Nel codice sacerdotale i sacerdoti sono tutti i discendenti di Aron, e per Ezechiele soltanto i Zadoqiti. In quello è permesso ai sacerdoti di sposare qualunque vedova, da Ezechiele si permettono solo le vedove di altri sacerdoti.

Nel codice sacerdotale si prescrivono cinque feste annuali, e in Ezechiele soltanto tre, fra le quali il[408] primo giorno del primo mese di primavera, che sembra il capo dʼanno, festa non nominata nel Pentateuco, il quale prescrive invece di festeggiare il primo giorno del mese autunnale.

I sacrificii prescritti da Ezechiele nelle diverse solennità (xlv, 18–xlvi, 12) non concordano per nulla con quelli ordinati nel Numeri (xxviii, xxix). Ma capitale differenza è quella del sacrifizio quotidiano, doppio nel codice sacerdotale, che lo prescrive mattina e sera (ivi, xxviii, 2–8, Esodo, xxix, 38–42) e uno solo per Ezechiele che lo ordina soltanto nella mattina (xlvi, 13). Nè meno grave è la discrepanza intorno al provvedimento per le spese dei sacrificii, che Ezechiele impone al capo dello Stato (xlv, 17), e il codice sacerdotale indifferentemente a tutti i cittadini (Esodo, xxx, 11–16).

Non è possibile che se un ordinamento del culto quale abbiamo nelle leggi ELN, fosse già esistito ai tempi di Ezechiele, questi lo avesse così profondamente variato.

Mentre è facilissimo che le parole di un profeta vaticinante in terra straniera durante lʼesilio, non abbiano avuto tanta autorità sopra i reduci da farle accettare come legge, tanto più che potevano ancora non essere generalmente conosciute. Ma un codice, che, secondo lʼopinione tradizionale, sarebbe stato da tempo antichissimo in vigore, come poteva non essere cognito al profeta?

Questa difficoltà fu bene avvertita dai talmudisti, i quali volevano per ciò dichiarare apocrifo il libro di Ezechiele, come fu proposto anche per i Proverbii e per lʼEcclesiaste; ma non lo fecero, perchè dissero che un certo Anania dopo lungo e faticoso studio era[409] riescito a conciliare tutte le contraddizioni fra le parole della legge e quelle del profeta.[626]

Di queste conciliazioni però solo poche ne abbiamo nel Talmud,[627] e davvero non sono tali da farci, come al buon Isaacita,[628] rimpiangere la perdita delle altre; ma possiamo ad ogni modo essere contenti che per esse il libro di Ezechiele ci sia stato conservato nel canone; chè forse altrimenti sarebbe andato perduto.

Ad ispiegare poi, non a conciliare, le contraddizioni ci appigliamo al più saggio partito di tenere posteriore il codice sacerdotale.

Intorno alla sua promulgazione abbiamo un passo nel libro di Nehemia che ci pare decisivo per poterne fissare lʼetà. Si narra che, dopo rifabbricate le mura di Gerusalemme, fatto il censimento del popolo, e distribuitolo nelle varie città (vii), nel mese settimo fu fatta pubblica lettura della legge (viii, 1–8), alla quale il popolo si commosse (v. 9) come a udire cose novissime. Quindi in conformità della legge fu celebrata la festa delle capanne con lʼaggiunta di un giorno ottavo, come si prescrive nel codice sacerdotale a differenza del Deuteronomio, che la ordina soltanto di sette giorni (vv. 14–18). Nel giorno 24 poi dello stesso mese si celebra un grande digiuno di espiazione (ix). E finalmente si stabilisce un vero patto, col quale il popolo si obbliga di osservare la legge, quale lʼabbiamo[410] nel codice sacerdotale (x, 1). Cioè, oltre il non imparentarsi con i popoli stranieri e osservare scrupolosamente il sabato, fino a non comprare e vendere in quel giorno, di riposare nellʼanno settimo, pagare un terzo di siclo per le spese di culto; offrire annualmente le primizie delle ricolte e dei frutti, dare i primogeniti ai sacerdoti, come pure le primizie della pasta e le offerte, e ai leviti la decima di ogni prodotto (vv. 31–40). Questʼordinamento del culto è tutto proprio del codice sacerdotale, e se era dʼuopo stabilire un nuovo patto, affinchè il popolo lʼosservasse, ne deriva di conseguenza che allora per la prima volta veniva promulgato; perchè altrimenti si sarebbe sentito obbligato dai patti, che si dicono antecedentemente stabiliti per il primo codice (Esodo, xxxiv, 8), e per il Deuteronomio (xxviii, 69), e tuttʼal più sarebbe stata necessaria una confermazione di essi, non una nuova stipulazione. Dimodochè la prima promulgazione del codice sacerdotale cade senza dubbio nellʼetà di Ezra e Nehemia, circa la metà del v secolo, ed è da tenersene compilatore il primo,[629] detto chiaramente «Scrittore delle parole dei comandamenti di Jahveh, e dei suoi statuti per Israele» (Ezra, vii, 11). È vero che la parola ebraica Sofer dalla tradizione religiosa è stata interpretata nel significato di Scriba, scrivano, trascrittore, ma non è men vero che le si addice benissimo anche quello di compilatore, che noi le attribuiamo. E compilatore più che autore è da tenersi Ezra, come quello che certo si è giovato di molte separate[411] leggi già esistenti. Ma la sua opera non è stata del tutto disconosciuta nemmeno nella tradizione religiosa, imperocchè i talmudisti dissero a chiare note: «Sarebbe stato degno Ezra che la legge fosse stata data per suo mezzo, se non lo avesse prevenuto Mosè».[630] Ora, siccome noi sappiamo che Mosè non lo ha prevenuto, dobbiamo dire che ciò che per i talmudisti era soltanto un merito, è stato invece un proprio e verissimo fatto. Nè meno dei talmudisti avvertirono lʼopera di Ezra alcuni padri della Chiesa, fra i quali S. Girolamo scrisse: «se vorrai dire Mosè autore del Pentateuco, e Ezra ristauratore della sua opera, non lo rigetto». Cosicchè non deve dirsi Ezra autore di tutto il Pentateuco, come opinava lo Spinoza,[631] perchè certo moltissime parti rimontano a più antiche età, ma solo ordinatore di quelle leggi che costituiscono il codice sacerdotale.

È da avvertirsi però che nei citati luoghi di Nehemia troviamo due disposizioni, che con quelle del codice non concorderebbero. Cioè il giorno del digiuno di espiazione celebrato nel 24 del mese settimo, invece che al dieci, e la tassa per le spese di culto fissata a un terzo di siclo, anzichè a mezzo. Ma è dʼuopo dire che come il codice sacerdotale fu ampliato successivamente con altre Novelle, così in altri punti fu modificato. E può essere che per certe ragioni, che a noi sfuggono, fosse trovato più comodo anticipare di quattordici giorni il digiuno espiatorio, come certo, trovato insufficiente il terzo di siclo per le spese del culto, fu poi la tassa elevata a mezzo.

[412]

Questo modificarsi della legge è naturale ed umano perchè nella natura e nellʼuomo, che ne è parte, regna sola sovrana la lenta e continua evoluzione. E chi nello studio della legge ebraica, come in ogni scientifica ricerca, si fa guidare dallʼesame dei fatti, vede che non può essere stata tutta di un sol tratto creata da un uomo nei primi quarantʼanni che gli Ebrei escirono dallʼEgitto; ma fu formata e svolta lentamente nel corso di più e più secoli.

Quindi sʼintende che la parte legislativa del Pentateuco è il resultato di una compilazione fatta da tutti i vari elementi che sino qui abbiamo analizzato, combinata ancora con le parti narrative del medesimo libro, per opera di colui che a questo e a quello di Giosuè diede la loro presente forma.

Questa successiva formazione della legge ebraica non segnò sempre un progresso. È un felice svolgimento dal Decalogo al Deuteronomio; ma è un regresso da questo al codice sacerdotale; imperocchè converte a poco a poco un popolo in una società religiosa, impacciata nelle pastoie di un rituale, che vuole rigorosamente determinare tutti i menomi particolari della vita. Dopo il ritorno degli esuli dalla Babilonia in Giudea, non è più lʼantico Israelitismo che anima quel piccolo popolo ritornato libero, ma una religione profondamente modificata, che prende il nome di Giudaismo.[632]

Non vi sono più gli antichi profeti, che sappiano con la loro ispirata idealità, e con la loro ardente[413] parola dare alla religione una vita che potrebbe essere mondiale, ma subentrano gli Scribi conservatori e interpetri della lettera della Torah. La quale perde quasi la sua importanza politica e civile di legge, per restringersi a poco a poco ad essere soltanto la religione insegnata dal Talmud. Vi è in questo, a dir vero, insieme col rito (Halachà), che soffoca ed opprime, anche la leggenda (Haggadà), che per elevatezza di principii religiosi e morali avrebbe potuto condurre lʼEbraismo in una atmosfera tanto alta e tanto pura, da farne una religione molto differente da ciò che in fatto è divenuto; ma nessuno ne ha saputo trarre giovamento, quando i tempi avrebbero potuto essere opportuni.

Ad ogni modo non è da dimenticare che anche il Giudaismo ha avuto le sue glorie; perchè ha saputo ispirare tanto entusiasmo da far sì che un piccolo popolo desse una generazione di eroi vincitori nella lotta dei Maccabei contro i Seleucidi, e più generazioni di eroi vinti ma di gloriosissimi martiri, quando soggiacque, per non più risorgere, alla potenza di Roma. E anche dopo il suo estremo fato, il Giudaismo per diciotto secoli ha saputo mantenersi sparso sulla terra in mezzo a persecuzioni e avvilimenti di ogni specie; perchè gli Ebrei, perduta la loro patria materiale, ne hanno trovata unʼaltra ideale nel loro Jahveh, che hanno continuato a proclamare unico Dio, Ma, se questo è il lato grandioso del Giudaismo, non deve nemmeno tacersi che giustʼappunto per tale pregiudizio, comune ad esso con tutte le religioni positive, di essere solo possessore degli eterni veri, ha mantenuto vivo tra i popoli un sentimento di odio, o almeno di disprezzo reciproco.

[414]

Verrà egli un giorno in cui cesserà questa gara di religioni non sempre incruenta, ma anzi troppo spesso sanguinosa? Potranno gli uomini finalmente intendere che non devono, che non possono nè odiarsi nè disprezzarsi per adorar Dio, o così, o così; perchè i dogmi e i riti di tutte le religioni hanno un valore solo relativo di tempo e di luogo? Spariranno un giorno dallʼuman genere i due flagelli della superstizione e del fanatismo, inseparabili conseguenze delle religioni positive?

Tali quistioni si pongono da tutti coloro che sanno quanto importante problema per i destini dellʼuomo sia quello dellʼavvenire della religione; ma è troppo arduo trovarne certa risposta. Lasciamo che lo svolgimento religioso si operi come dovrà operarsi; e invece di congetturare il futuro, studiamo intanto il passato delle religioni; imperocchè solo dalla loro analisi e dalla loro storia si può conoscere quale ne sia stata lʼazione sullʼumano incivilimento. E solo siffatto studio pacato e senza passione, divenuto argomento di generale coltura, potrebbe forse condurre gli uomini a conoscere il vero valore di tutte le religioni, e a persuadersi che nessuna di esse ha mai avuto il monopolio della verità, e nessuna gente mai ha avuto sulle altre il celeste privilegio di essere depositaria di una divina rivelazione.


[415]

INDICE ALFABETICO

Abiti. Di altro sesso, 276.

Di lana e di lino insieme, 183, 278.

Abiti sacerdotali, 12, 335.

Acqua miracolosa per provare la fedeltà della moglie, 18, 374–77.

Adulterio, 16, 63, 73, 193, 196, 281.

Agnello pasquale, 361 e seg.

Altare. 11, 40–42, 88.

Serviva dʼasilo, 101 e seg.

Secondo Ezechiele, 325.

Amalechiti. Obbligo di distruggerli, 11, 135, 311.

ʼAm haarez, 348.

Ammoniti, 287.

Amore di Dio, 210.

Amore del prossimo, 179, 182.

Animali. Atti ai sacrifizii, 16, 359.

Carità verso gli animali, 303.

Come devono uccidersi per cibarsene, 352.

Difettosi non idonei ai sacrifizii, 359.

Lacerati dalle fiere e morti naturalmente, 16, 48, 129 e seg., 166 e seg., 351.

Permessi e proibiti come cibo, 166 e seg., 193.

Pericolosi, 112 e seg.

Puri e impuri, 15, 193.

Anno sabatico, 33, 134, 379 e seg., 389 e seg.

Anno settimo, 133 e seg., 219 e seg., 379 e seg.

Appropriazioni. Permesse e illecite, 290.

Arca santa, 159–162.

Aron e suoi discendenti, 14, 20, 336.

Aronidi, 152, 335, 340.

Asherà, Asherot, 81, 239.

Asilo (Città dʼ), 21, 101 e seg., 252 e seg., 399–401.

Augurii, 183.

ʼAzazel, 353.

Azzime, 81, 134, 145 e seg., 361

e seg.

Benedizione sacerdotale, 18, 337,

Bestemmia, 5.

Punita con la lapidazione, 17, 129, 379,

o con la fustigazione in certi casi secondo i talmudisti, 379.

Bestialità, 16, 127, 193, 196.

Calendario, 10.

Candelabro, 12, 16, 19, 336.

Capanne (Festa delle), 16, 229, 364 e seg.

Capo dʼanno, 363 e seg.

Carcere. Di detenzione, 302.

Preventivo, 106 e seg.

Carità, 133, 177 e seg., 229, 276, 299 e seg.

Castrazione. Proibita secondo il Talmud, 359.

Censimento, 17 e seg., 21, 355.

Chareth, 196, 198 e seg.

Cibi proibiti. V. Animali, 218.

Carne cucinata col latte, 12, 81, 135, 168.

Grasso di certe parti dei bovini e degli ovini, 360 e seg.

Membro tolto da un animale vivo, 5.

Nervo ischiatico, 9.

Sangue, 5, 16, 183, 215, 351.

[416]

Cinedi, 289.

Circoncisione. 7.

In qual caso non è imposta, 362.

Città. Dʼasilo, V. Asilo. Dei Leviti, 21, 346.

Rea di politeismo o dʼidolatria, 217 e seg.

Codice. Di Ezechiele, 165, 321–33.

Primo, 87, 143 e seg., 154.

Sacerdotale, 153 e seg., 155, 165, 401–407: etá della sua composizione e promulgazione, 407–11.

Colpabilità. Personale e non ereditaria, 298.

Concubinato. 96.

Confessione. Accompagnava certo sacrifizio espiatorio, 349.

Confini. Inviolabili dellʼaltrui proprietà, 256.

Consacrazione.

Degli animali, 17, 369 e seg., 373.

Dei Leviti, 19.

Dei beni immobili, 17, 369 e seg., 373.

Delle persone, ivi.

Dei Sacerdot, 14, 335.

Del Tabernacolo, 19, 335.

Contraddizioni.

Fra il codice sacerdotale ed Ezechiele, 407 e seg.

Fra il codice sacerdotale e Nehemia, 411.

Fra diverse leggi, 37 e seg.

Culto. (Sede del), 162 e seg.

Suo accentramento, 152 e seg., 163 e seg., 214 e seg.

Danni. Cagionati da animali, 112 e seg.

Contro alle proprietà, 115 e seg., 121 e seg.

Debiti (Remissione dei), 219–228.

Decalogo. 11, 12, 13, 61–86, 135, 209.

In che giorno rivelato secondo il Talmud, 404.

Decima. 8 e seg.

Degli animali, 347, 355.

Dei Leviti, 346.

Dei Leviti e dei poveri, 219.

Mangiabile nel luogo centrale del culto, 214 e seg.

Dei poveri, 347.

Decimo della Decima, 346.

Demai. 348.

Depositi. 122 e seg., 180.

Desiderio della roba altrui. 63.

Deuteronomio. 22 e seg., 54, 60, 153 e seg., 155, 207.

Etá e modo della sua composizione, 315–20.

Diffamazione. 132, 179, 181.

Del marito contro la moglie, 279.

Digiuni. Di espiazione, 166, 364.

Di lutto pubblico, 367 e seg.

Per mancanza di pioggie, 368.

Divinazione. 183, 190, 193, 196, 200, 250.

Divorzio. 291–94.

Donazione. Inter vivos, 397 e seg.

Per causa di morte, 398.

Donne.

Come esenti dal lʼobbligo del voto, 21, 373 e seg.

Diritti e doveri verso il marito, 286.

Diritto agli alimenti, 394, 396.

Diritto alla domanda del divorzio, 294.

Diritto alla dote, 396.

Diritto allʼeredità, 394.

Eredi devono sposarsi nella stessa tribù, 21 e seg., 395.

Inette a deporre come testimoni, 256.

Prigioniere di guerra, 265–67.

Quali erano inette al matrimonio con sacerdoti, 326, 336 e seg.

Serve, 97–101.

Dote. 126, 396.

Il marito deve costituirla alla moglie, 285 e seg.

Elohim. 58.

Elohista.

Scritto elohistico, 53 e seg., 60, 135, 147.

Secondo elohista, 55.

Egiziani. 288.

Empi. Non idonei a deporre come testimoni, 257 e seg.

Encenie. 367.

Eredità. 21, 309 e seg., 331, 394.

Ergastolo. 103, 113 e seg., 302.

Esegesi talmudica. 6, 35 e seg.

Espiazione (Giorno di). 15, 165 e seg., 364.

Eunuchi. 287.

Ezechiele. 321.

Suo codice, 321–333.

Suo libro voluto rendere apocrifo, 408.

Ezra. 410 e seg.

Fattucchiera. 127.

Feste.

Annuali, 12, 16, 81, 134 e seg., 229;

tre secondo alcune leggi, cinque secondo altre, 39 e seg., 155.

Delle capanne, 16, 229, 364 e seg.

Delle Encenie, 367.

Della mèsse o Pentecoste, o delle settimane, 12, 16, 81, 135.

Di Purim, 366.

Della raccolta, 12, 81, 135.

Del settimo mese, 16, 363–365.

Figlie eredi. 21 e seg., 394, 395.

Figli ribelli ai genitori. 268–71.

[417]

Filatterie. 36, 213, 379.

Focacce consacrate. 16. V. Pane del cospetto.

Forestieri. 128, 133, 177, 192, 229, 299, 331.

Fornicazione. 279 e seg.

Frange ai quattro lembi della veste, 20, 279, 378 e seg.

Fuoco. Dellʼaltare, 366. Nel giorno del sabato, 34, 365 e seg.

Furto, 5, 63, 179.

Punito con la multa del doppio per i mobili, 121, 123.

Del quadruplo o del quintuplo per gli animali, 117, 121.

Fraudolento e violento, 180 e seg.

Fustigazione. 129, 300–302.

Genitori. Rispetto verso di loro, 10, 63, 104, 176, 193, 196.

Ghet. 285. V. Divorzio.

Giubileo. 49, 92, 94, 107, 379–92.

Giudici. Loro istituzione, 11, 145, 230–239.

Con quale maggiorità sentenziassero, 132.

Giuramento. 123, 125, 179 e seg.

Giustizia (Amministrazione della).

Come ordinata, 230–239.

Deve amministrarsi rettamente, 133, 179, 181, 192, 230.

Da osservarsiin ogni contrattazione, 192, 311.

Gonorrea. 15, 171.

Sacrifizio per purificarsene, 357.

Grazia (Diritto di). 248.

Guerra (Diritto di). 264 e seg.

Obbligatoria e volontaria, 260 e seg.

Scioglieva dallʼosservanza di certi riti, 266.

Ḣaberim. 348.

Ḣaghighà. 43, 356.

Ḣerem. 345, 370.

Hexateuco. 56, 60.

Idolatria. 5, 11, 62, 63, 71, 88, 176, 212, 239.

Idumei. 288.

Impiccamento. 271–274.

Impuri. Tenuti fuori dellʼaccampamento, 219.

Incesto. 5, 10, 16, 193, 196, 198 e seg., 286.

Incidersi il corpo. 183.

Indennità. V. Pena della multa.

Interdetto. 345, 370-–72.

Irusin. 284.

Jahveh. 58, 66. Nome da non pronunziarsi in vano, 62.

Jehovista o jahvista. Scritto jehovistico o jahvistico, 54, 60, 135, 136, 144, 147.

Ladro. A che pena sottoposto, 119.

Quando possa impunemente uccidersi, 118.

Lebbra. 15, 169 e seg., 296.

Degli abiti e delle cose, 172.

Sacrifizio per purificarsene, 357.

Leggi. Civili, 5.

Del Sinai, 11, 407.

Delle pianure di Moab, 407.

Sacerdotali, 16.

Lesioni corporali. Come punite, 105 e seg., 310.

Contro una donna gravida, 109 e seg.

Rendono libero il servo, 110, 112.

Lettura di certi paragrafi del Pentateuco a mattina e a sera, 213.

Levirato. 9, 304–310.

Leviti. 20, 153, 155, 215, 229, 340.

Censimento, 17 e seg.

Città di abitazione, 21, 346.

Consacrazione, 19.

Distribuzione, 340.

Rendite, 20, 46, 250, 346.

Riscatto dei loro beni venduti, 382 e seg.

Tempo del servizio, 19, 46, 341.

Levitico. xvii–xxvii, 153 e seg., 175.

xix, 176, 193.

xviii,

xx, 193, 201–205.

Lievito. Non può unirsi col sangue del sacrifizio, 81, 135.

Proibito nella Pasqua, 146, 361.

Lutto (Cerimonie di). 189, 218.

Maledizioni. 104, 129, 179, 181.

Marito. Diritti e doveri verso la moglie, 286.

Erede della moglie, 396.

Matrimonio. Come doveva legalmente celebrarsi, 282–285.

Con chi è proibito, 196–200, 287.

Con la vedova del fratello, 49 e seg., v. Levirato.

Con le genti palestinesi, 8, 214.

Dei sacerdoti, 326, 336 e seg.

Menzogna. 179.

Mercenario. 179 e seg., 297.

Mestrui. 15, 16, 171, 199.

Mezuzà. 213.

[418]

Milizia. Chi ne era esente, 261 e seg., 295.

Miun, 285.

Mishneh Torah, 23.

Moabiti, 287.

Moloch, 16, 193, 195.

Monoteismo, 5, 61, 63, 66, 71, 88, 152, 216, 354.

Mosè, 1, 10 e seg., 12 e seg., 17, 19, 21, 23, 25–29, 34, 40, 57–60, 61, 65 e seg., 68, 85, 141 e seg., 145–147.

Multa. V. Pene.

Mutilazione degli animali, 5.

Nazireato, 18, 173, 357.

Necromanzia. V. Divinazione.

Nemici. Devono aiutarsi, 133.

Nidi dʼuccelli, 277.

Noachidi. Patto con essi, 4.

Precetti loro imposti, 5, 10.

Novelle. Al primo codice, 144–148, 166, 175–205.

Al codice sacerdotale, 407, 411.

Novilunio, 365.

Offerta maggiore, 345 e seg.

Offerte. Da godersi nel luogo centrale del culto, 214 e seg.

Dei non Ebrei, 360.

Della pasta del pane, 20, 344 e seg.

Incruente separate e unite ai sacrifizii, 20, 358 e seg.

Olio sacro, 12, 335.

Olocausti. ʼOloth, 150.

Omicidio, 5, 63.

Volontario e involontario, 101, 252, 399 e seg.

Il primo punito di morte, 101 e seg., 109, 252–254, 256;

il secondo col confine nelle città dʼasilo, 399 e seg.

Orfani, 128, 229, 299.

Pane del cospetto, 355.

Pasqua, 10, 12, 16, 229, 361.

Da celebrarsi nel secondo mese per le persone impure, 19, 363.

Patto. Di Dio con Abramo, 7.

Con gli altri patriarchi, 8.

Con Israele, 12, 85, 136, 209.

Con i Noachidi, 4.

Con i Protoplasti, 3.

Dopo il ritorno dallʼesilio, 409 e seg.

Pederastia. V. Sodomia.

Pegni, 128, 295, 296.

Pene. Ergastolo, 103, 113 e seg., 302.

Fustigazione, 129, 300–302.

Morte, 102 e seg., 104 e seg., 110, 113, 127, 188, 195, 196 e seg., 200, 217, 240;

a qual maggioranza di voti, 132;

modi di eseguirla, 104 e seg., 197, 271, 273.

Multa, 105 e seg., 109 e seg., 111, 114–116, 117, 311.

Taglio della mano, 310 e seg.

Taglione, 17, 110 e seg.

Pentateuco. Non è opera di Mosè, 25 e seg.

Pentecoste, 16. V. Feste.

Plagiario e Plagio, 103, 105, 180, 296.

Poligamia, 99, 294.

Politeismo, 62, 127, 134, 214.

Punito con la pena capitale, 216, 217, 240.

Popoli palestinesi, 21, 80 e seg., 135, 214.

Porta orientale del tempio, 325, 329 e seg.

Poveri, 133, 177 e seg.

Preghiere, 349 e seg.

Nellʼofferire le decime, 311 e seg.

Prepuzio degli alberi, 183.

Prestiti, 122 e seg., 128.

Primizie, 81 e seg., 129 e seg., 135 e seg., 219.

Dovute ai sacerdoti, 249, 344.

Primogeniti. Sacri a Dio, 10.

Modo di consacrarli, 44 e seg., 81, 129 e seg., 145, 214, 219, 229, 355.

Primogenitura, 9, 267.

Principe, 129.

Diritti e Doveri, 327, 330.

Profeta falso, 216 e seg., 250 e seg.

Profeti, 250–52.

Profumo, 212, 352.

Promiscuazione delle specie, 183, 278.

Proselita, 358.

Prostituzione, 190, 289.

Prozbol, 227.

Puerpera. Suo sacrificio di purificazione, 357.

Puerperio, 15.

Pulizia, 288 e seg.

Purificazione, 10, 16, 171. V. Sacrifizii.

Purim, 366.

Purità, 152, 167 e seg., 289, 357

e seg.

[419]

Qiddushin, 284.

Radersi. 183, 184.

Rappresaglia. 180.

Re. 241.

Diritti, 243, 248.

Diritto ereditario, 245.

Doveri, 242.

Elezione, 244 e seg.

Redentore del sangue, 399 e seg.

Reijà, 355.

Restituzione dellʼaltrui, 274 e seg.

Riparo intorno ai tetti, 277.

Ripetizioni delle stesse leggi, 30 e seg.

Riscatto. Delle case e delle terre vendute, 382.

Degli schiavi, 385.

Sabato, 10, 11–13, 16, 62, 81, 134, 176, 190 e seg., 365 e seg.

Chi lo prevarica è punito con la lapidazione, 20, 366.

Proibizione di accendere il fuoco, 34, 365 e seg.

Ragione diversa di esso, teologica e nazionale, 38, 63.

Sacerdote massimo, 335 e seg.

Redditi e ricchezza, 348.

Sacrifizio espiatorio, 356.

Sacerdoti, 14, 20, 335.

Abluzioni prima di officiare, 340.

Consacrazione, 335.

Difettosi nel corpo, 339.

Distribuzione in compagnie, 337.

Gerarchia, 342.

Figlie, 338.

Impuri, 339.

Lutto pei morti, 326.

Maestri della legge, 233 e seg.

Matrimonio, 326, 337. Officii, 326, 336.

Rendite, 20, 46 e seg., 155, 249, 326 e seg., 342–346, 353.

Secondo Ezechiele, 325–327.

Tempo del servizio, 341 e seg.

Vino era loro proibito prima di officiare, 326, 340.

Sacerdozio, 152 e seg., 155, 164 e seg.

Sacrifizii, 14, 176, 352.

Delle feste e dei novilunii, 21, 353 e seg.

Di Purificazione, 357 e seg.:

quotidiani, 12, 21, 329, 352:

del sabato, 21, 353:

secondo Ezechiele, 328 e seg.

Espiatorii, 18, 20, 184, 355 e seg.

Pacifici, 150, 176, 343, 358.

Proibiti fuori del Tabernacolo o del Tempio, 15, 350 e seg.

Volontarii, 358.

Sacrifizii umani, 130 e seg., 370 e seg. V. Moloch.

Sacrifizio, Espiatorio dellʼomicidio di cui è ignoto il reo, 253–256:

del principe, 356:

dei privati, ivi:

del pubblico, 354:

del sacerdote massimo, 356:

pubblico secondo Ezechiele, 325.

Pasquale, 10, 43, 81, 135, 145, 355, 362.

Sangue, Proibito come cibo, 5, 16, 183, 215, 351.

Dei sacrifizii, 81, 135, 351.

Santità, 152, 166 e seg., 176, 196, 218.

Schiavi, Fuggiaschi non si consegnano, 289.

Liberi per lesioni corporali, 110, 112.

Lʼuccisione loro è punita, 107 e seg.

Schiavitù, 386 e seg.

Degli Ebrei, 48 e seg., 88–101, 228, 384 e seg., 387–389.

Degli stranieri, 385 e seg.

Seduzione, 126.

Serpente di rame, 72.

Shaʼatnez, 183.

Shelamim, 33. V. Sacrifizii pacifici.

Shemà, V. Lettura ecc.

Shemittà, 33. V. Anno sabatico, e Anno settimo.

Seʼirim, 353.

Sinedrii, 235 e seg.

Sodomia, 16, 193, 196, 289.

Sotà, V. Acqua miracolosa.

Sponsali, 284.

Spurio, 287.

Stranieri, V. Forestieri.

Stupro, Per seduzione, 126.

Violento di una fidanzata, 281 e seg.:

di una nubile, 282.

Successione legittima, 394, 396.

Tabernacolo, 12, 15, 156–63, 334.

Taglio della mano, 310 e seg.

Taglione, 17, 110 e seg., 256.

Tassa di mezzo siclo, 355, 411.

Tavole del Decalogo, 12, 13, 68, 159.

Tefilin, V. Filatterie.

Tempio, 163 e seg., 191.

Ideale di Ezechiele, 325.

Terra, Come divisa alle tribù secondo Ezechiele, 331 e seg.

Terumah ghedolah. V. Offerta maggiore.

Testamento, 396–399.

Testimoni, 125, 132, 181 e seg., 240, 256–60, 299.

Falsi, 258 e seg.

Testimonianza falsa, 63, 256.

[420]

Timore di Dio, 210.

Todah, 358.

Torah, 1.

Toro cozzatore, 113 e seg., 116.

Totafoth. 210.

Tribunale supremo, 233.

Tribunali, Loro ordinamento, 235–239.

Tributo per il culto, 12. V. Tassa.

Trombe, 19, 337.

Urim e Tummim, 335.

Usura, 128, 289, 384.

Vacca fulva, 10, 20, 358.

Vecchi, 190.

Vedove, 128, 229, 299.

Vendetta. 179.

Verginità, Se manca nella nuova sposa, 279.

Violazione della donna altrui, 184, 186 e seg.

Vitello dʼoro, 71 e seg.

Voti. 21, 214 e seg., 290, 373 e seg.

Zadoqiti. 325 e seg., 327.

Zizit. v Frange.


ERRORI CORREZIONI
Pag. 33 linea 10      Shemità Shemittà
» 36 » 21 ghanaz ganabh
» 115 » 1 talmudista talmudica
» 125 » 2 impropriazione appropriazione
» 157 » 24 sarebbe dovuto sarebbero dovute
» 188 » 18 convitto convito
» 205 » 31 » xix Levit. xix
» 206 » 2 Num. Levit.

FOOTNOTES:

[1] Quelle pochissime volte che abbiamo creduto necessario esporre insieme passi di eguale argomento, sebbene nel testo separati, lo abbiamo singolarmente avvertito.
[2] Memorie postume, pag. 220.
[3] Lenormant, Les Origines de lʼHistoire, chap. ii, ix.
[4] Hosea, vi, 7.
[5] Isaia, xliii, 27.
[6] Lenormant, op. cit., chap. viii.
[7] Talmud Bab. Sanhedrin, f. 56a e b. Abbiamo riportato intorno ai sette precetti dei Noachidi lʼopinione più comunemente accettata; ma in questo luogo del Talmud si possono vedere le varie opinioni sullʼenumerazione di questi precetti. Altri vi aggiungono anche la proibizione di nutrirsi del sangue, altri quella della castrazione, e altri anche della stregoneria. Finalmente ad opinione di altri, si mantiene il numero di sette; ma allʼobbligo di osservare le leggi civili, e alla proibizione di bestemmiare Iddio si sostituisce la proibizione della castrazione e del promiscuamente delle specie. Secondo altri libri tradizionali i precetti dei Noachidi sarebbero stati soltanto sei, non computando quello che qui abbiamo registrato per ultimo (V. Bereshith Rabbà, § 16, Debarim Rabbà, § 2).
[8] Cfr. Michaelis, Mosaisches Recht, § 18.
[9] V. Hirschfeld, Geist der talmudischen Auslegung.
[10] Talmud Bab., Jomà, 28b, Qiddushin, 82a.
[11] V. Talmud Bab. Sanhedrin, 56b, Mechiltà, Sez. Vaissà, i, Rashì in locum, Seder ‛Olam Rabbà, cap. 5.
[12] Vedi, Midrash Tanḣumà e Rashì in locum.
[13] V. Politecnico, Parte letterario–scientifica, luglio 1866, pag. 25–42.
[14] Denoto per brevità con questa sigla le leggi quali ora le abbiamo nei tre libri dellʼEsodo, Levitico, Numeri; ma sʼintenda bene da ora, per evitare ogni equivoco, che non le attribuisco ad un solo autore.
[15] V. Kuenen, Histoire critique, I, pag. 370.
[16] Ḣolin, 115b. Nella Mechiltà poi (Esodo, xxiii, 19) sono riportate altre spiegazioni che possono essere molto adatte come un saggio delle rabbini eh e sottigliezze. Rabbì Shimʼon vuole nelle tre ripetizioni trovare allusione al patto tre volte sancito fra Dio e il popolo, una nellʼHoreb, lʼaltra nelle pianure di Moab, la terza nel monte Gherizim e nel monte Ebal; Rabbì Jonathan vuole dedurne la proibizione per i quadrupedi domestici, per i selvatici, e per i volatili, Rabbì Elʼazar per i bovini, per le capre e per le pecore, Rabbì Shimʼon figlio dʼElʼazar per i bovini, per gli ovini, e per gli animali selvatici; unʼaltra opinione si conforma a quella del Talmud; una ultima finalmente ne deduce la proibizione in qualunque tempo e in qualunque luogo, così fuori della terra promessa, come nella terra promessa, tanto durante resistenza del tempio, quanto prima che fosse eretto o dopo distrutto.
[17] Rashì in locum; cfr. Sanhedrin, 4b.
[18] Sanhedrin, 86a; Mechiltà, Esodo, xx, 15.
[19] Vedi Sifrà, Levitico, xix, 11. Questo modo dʼinterpetrazione è poi frequentissimo in tutto il Talmud e nei commenti talmudici al Pentateuco; dimodochè vi si trova proprio ad ogni piè sospinto.
[20] Il testo ebraico dice veramente «in qualunque luogo farò rammentare il mio nome»; ed essendo Dio che parla, si è voluto intendere che il permesso di costruire lʼaltare fosse conceduto solo per il luogo designato come centro del culto. (V. Keil in locum). Ma è da dubitarsi in prima che la lezione del testo masoretico sia corretta: anzi probabilmente invece di Azchir, farò rammentare, la lezione primitiva sarà stata, Tazchir, rammenterai. (V. Geiger, Nachgelassen Schriften, IV, pag. 56; Merx, Nachwort im Genesis Tuchʼs, pag. cxvi; Iona ibn Ganach, Sefer harikma); e la correzione sarà stata fatta appunto per tentare una conciliazione fra questa legge che ammette la libertà di culto, e le altre che ne impongono al contrario lʼassoluto accentramento. Ad ogni modo però, anche accettando la lezione, quale ora lʼabbiamo, le parole «in qualunque luogo farò rammentare» significano dove darò occasione che si rammenti, dove sarò rammentato, e così spiegano i più ragionevoli commentatori (Rosenmüller, Knobel, Reuss, Ewald, Alterthümer 3a ediz., p. 162. De Wette, Opuscula Theologica, pag. 164). I talmudisti traggono da questo passo tuttʼaltro significato: vi hanno voluto trovare la proibizione di proferire il tetragramma fuori del tempio, perchè al verbo rammentare danno il significato di menzionare, quindi proferire, e il nome divino è per loro soltanto il nome per eccellenza, il tetragramma. (Mechiltà, Jtrò, § 11; Sotà, 38a). Ognuno vede quanto questa interpretazione sia arbitraria e priva di ogni fondamento.
[21] Per meglio dimostrare quanto asseriamo gioverà riportare tradotto il commento tradizionale ebraico. «Sino che non fu eretto il tabernacolo erano permessi gli altari, e il culto [era ministrato] dai primogeniti; da che fu eretto il tabernacolo, furono proibiti gli altari, e il culto fu ministrato dai sacerdoti; sino che non arrivarono a Shilò, furono permessi [di nuovo] gli altari; da che vennero a Shilò, furono proibiti; giunsero a Nob e a Ghibʼon, furono di nuovo permessi; vennero a Gerusalemme, gli altari furono proibiti, e più non furono permessi». (Sifré, ii, § 65, cfr. Zebaḣim, 112b).
[22] I commenti rabbinici tentano conciliare questa contraddizione, interpetrando che gli animali bovini potevano immolarsi non per il sacrifizio pasquale propriamente detto, ma per i conviti festivi chiamati nel Talmud Ḣaghighà, dei quali però il testo biblico non parla per nulla. (Vedi Sifré, ii, § 129, Mechiltà, Bo, § 4, Pesaḣim, 70b.) Altra conciliazione anche più sofistica o proposta nella Mishnà (Menaḣoth, 82a).
[23] Vedi Sifrà in locum, Menaḣoth 45b. Questa stessa conciliazione è proposta anche dal Delitzsch (Genesis, 4a ediz., pag. 43).
[24] Sifré, i, § 118; Mechiltà, Bo, § 18; Bechoroth, 5b.
[25] Sifré, i, § 62, Ḣolin, 24a.
[26] Secondo il Talmud, oltre queste rendite i sacerdoti ne avrebbero avuta unʼaltra chiamata terumà ghedolà (offerta maggiore), tolta da qualunque prodotto, e che non avrebbe potuto essere meno di un 60o (Mishnà, Terumoth, IV, 3).
[27] Dal censimento del Numeri (ii, 32) resulterebbe che le altre tribù tutte insieme davano poco più di 600,000 uomini al di sopra di 20 anni, mentre la tribù di Levi (ivi, iii, 43) avrebbe dato poco più di 22,000 maschi al di sopra di un mese. Approssimativamente dunque si può calcolare che essa fosse un cinquantesimo di tutto il popolo (cfr. Reuss, Geschichte der heiligen Schriften, § 294).
[28] V. Graf, Die geschichtlichen Bücher des A. T., pag. 67.
[29] Mechiltà, Mishpatim, § 2 in fine, Qiddushin, 15a.
[30] Sifrà, xx, 21, Jebamoth, 55a.
[31] Ewald, G. d. V. J., 3a ediz., I, pag. 111. Kuenen, Histoire critique, I, pag. 112.
[32] Nöldeke, Untersuchungen zur Kritik d. A. T., pag. 3; Tuch, Die Genesis, pag. xl.
[33] Lenormant, La Genèse, pag. xv.
[34] Schrader, nellʼEinleitung del De Wette, 8a ediz., pag. 274.
[35] Wellhausen, Die composition des Hexateuchs, Jahrbücher für deutsche Theologie, XXI, pag. 392, XXII, pag. 407.
[36] Reuss, LʼHistoire Sainte et la Loi, I, pag. 231. Il Wellhausen (op. cit., XXII, pag. 407 e seg.) distingue il codice sacerdotale nella forma presente dal primitivo scritto dei Quattro Patti.
[37] Dillmann, Die Genesis, 3a ediz., pag. x.
[38] Schrader, l. c.
[39] Bleek, Einleitung, 4a ediz. § 42 e seg. Tuch, op. cit., pag. li.
[40] Ewald, op. cit., pag. 148, 156.
[41] Schultz.
[42] Dillmann, op. cit., pag. xii.
[43] Ewald, op. cit., pag. 144.
[44] Knobel, Numeri, Deuteronomium und Josua, pag. 532. Questa critico ammette come uno dei documenti originali anche un altro scritto che sarebbe stato il Libro delle guerre di Jahveh (cfr. Numeri, xxi, 14).
[45] Schrader, l. c.
[46] Schultz.
[47] Dillmann, op. cit., pag. xi.
[48] Wellhausen, op. cit., XXI, pag. 392.
[49] De Wette, Ewald, Bleek, Nöldeke e altri.
[50] Graf, Reuss, Wellhausen, Kuenen nei più recenti suoi scritti.
[51] Elohim è il nome generale di Dio: dicendo a Mosè che è Jahveh, vuole rivelargli il proprio nome come Dio nazionale degli Ebrei; ma fino allora, secondo la tradizione accolta da questo scrittore, il nome col quale si era rivelato ai patriarchi era El Shaddai, cioè Dio potentissimo.
[52] Tutto il passo che si trova qui nel testo è altra interpolazione che interrompe il discorso fra Jahveh e Mosè (Reuss; Kayser, Das vorexilische Buch der Urgeschichte Israels, pag. 38 e seg.).
[53] Die sieben Gruppen mosaicher Gesetze, pag. VII.
[54] Il Chethibh nel Deuteronomio ha suo comando.
[55] D. osserva.
[56] D. aggiunge: come ti comandò Jahveh tuo Dio.
[57] D. aggiunge: e il tuo bove, e il tuo asino, e tutto eco.
[58] D. aggiunge: acciocchè riposi il tuo servo e la tua serva come te.
[59] A tutto questo versetto D. sostituisce: e rammenterai che servo fosti nella terra dʼEgitto, e ti fece escire Jahveh tuo Dio di colà, con mano forte, e con braccio teso, per ciò Jahveh tuo Dio ti comandò di fare il giorno del sabato.
[60] D. aggiunge: come ti comandò Jahveh tuo Dio.
[61] D. aggiunge: e acciocchè sia bene a te.
[62] In D. invece che Shaqer è il sinonimo Shav.
[63] D.: la moglie.
[64] D. non ripete lo stesso verbo, ne sostituisce un altro che ha significato affine, tithavvè invece che thaḣmod.
[65] D.: la casa.
[66] D. aggiunge: il suo campo.
[67] Macchoth, 24a.
[68] Sefer hammizvoth, parte I, § 1, parte II, §§ 1–5.
[69] LʼAbrabanel si è studiato di togliere questa difficoltà, distinguendo fra comandamenti e sentenze, e dicendo che queste sono dieci, quantunque alcuna di esse contenga più comandamenti.
[70] Questa opinione è in sostanza ammessa da alcuni critici fra i più indipendenti e arditi. V. Reuss, LʼHistoire Sainte et la Loi, I, pag. 66, II, pag. 55, n. 4.
[71] LʼHistoire Sainte et la Loi, I, p. 66; Geschichte der heiligen Schriften d. A. T., § 77.
[72] Kuenen, The Religion of Israel; Reuss, Histoire des Israélites, pag. 12–14. LʼHistoire Sainte et la Loi, pag. 87, n. 2; Die Geschichte der heiligen Schriften d. A. T., §§ 73, 77, 139; Tiele, Histoire comparée des anciennes religions, lib. 3o, capp. x, xi, xii.
[73] Wellhausen, Geschichte Israels, I, pag. 17–22; Reuss, Hist. des Israélites, pag. 32.
[74] Rosh Hasshanà, 29a. I dottori del Talmud hanno prevenuto lʼobbiezione e hanno creduto di rispondervi, dicendo che gli Ebrei guarivano dai morsi velenosi, quando innalzavano i loro occhi e la. loro mente al cielo, cosa che veniva fatta, guardando lʼimmagine del serpe posta sopra un alto stendardo.
[75] È stato proposto ancora di togliere del tutto questʼultimo comando dalla originale composizione del Decalogo, e allora per compire il numero di dieci si tiene come terzo comando la proibizione di farsi immagini per adorarle. (V. Meier, Geschichte der poetischen national Literatur der Hebräer, pag. 43).
[76] Graf, Die geschichtlichen Bücher d. A. T., pag. 19; Reuss, LʼHistoire Sainte et la Loi, I, p. 183 seg.; Geschichte der heiligen Schriften d. A. T., § 290.
[77] Graf, op. cit., p. 8; Wellhausen, Die Composition des Hexateuchs, Jahrb. f. d. Theol., XXII, pag. 464.
[78] Op. cit., l. c.
[79] Wellhausen, op. cit., XXI, pag. 559.
[80] Einleitung del De Wette, 8a ediz., § 188.
[81] Il Dillmann invece tiene per la maggior parte i primi 19 versi del 2o Elohista con interpolazioni jehovistiche, e il frammento 20–25 del Jehovista. Cfr. Wellhausen, Die Composition des Hexateuchs, pag. 556 e seg.
[82] Molti tentativi sono stati fatti dai critici, fra i quali designarne principalmente quelli del Wellhausen (op. cit, pag. 556) e del Bruston (Les quatre sources des lois de lʼExode, Revue de Théologie et de Philosophie, Lausanne, juillet 1883). Questʼultimo, come indica il titolo del suo scritto, vuole dividere in quattro gli scritti originali, che cronologicamente si sarebbero succeduti nel seguente ordine: 1. il 1o Jehovista; 2. il 1o Elohista; 3. il 2o Jehovista; 4. il 2o Elohista. Dovremo più innanzi esaminare meglio questa ipotesi in alcuni dei suoi particolari.
[83] LʼIsaacita per conciliare per quanto è possibile tante ascensioni, fa che anche questa sia avvenuta prima della promulgazione del Decalogo. Cfr. Talmud B. Shabbath, 88a.
[84] Popoli abitatori della terra promessa.
[85] Imagini della dea Asherà, rappresentata in origine da un semplice palo o da una colonna di legno posta presso lʼaltare di Baal, di cui era il principio femminino. (Merx, Asherà, Bibel–Lexikon di Schenkel; Baudissin, Studien zur semitischen Religionsgeschichte, II, pag. 218 e seg.).
[86] Qui pare si debba intendere che i primogeniti dovevano offrirsi, o in natura o mediante il riscatto, in quelle tre feste annuali (v. 23), nelle quali gli uomini si recavano in alcuni dei luoghi consacrati al culto.
[87] Secondo lʼinterpretazione talmudica la proibizione è estesa a qualunque specie di carne con qualunque specie di latte (Ḣolin, 103b, 133), e in egual modo intendeva questo passo il Michaelis (Mosaiches Recht, § 205). Ma è certo che il significato letterale del precetto è ben diverso. Probabilmente si voleva con esso proibire soltanto un uso crudele, quale sarebbe stato quello di cuocere un tenero animale con lo stesso latte che per legge di natura dovrebbe servirgli di nutrimento. (Cfr. Saalschütz, Das mosaiche Recht, cap. xvii, § 5; Salvador, Histoire des Institutions de Moïse, ix, 1). Altri hanno supposto che questo fosse un uso superstizioso di popoli idolatri, dal quale il legislatore voleva tener lontani glʼIsraeliti (Maimonide, Guide des Egarés, parte terza, xlviii).
[88] Il primo a proporre questa ipotesi fu il Göthe (Zwo wichtige bisher unerörterte biblische Fragen). Lʼadottarono poi molti altri, come lʼHitzig (Ostern und Pfingsten im zweiten Decalog), lʼEwald (Geschichte d. V. I., II, pag. 238), il Reuss (LʼHistoire Sainte et la Loi, II, pag. 94 e seg.), il Graf (Die geschichtlichen Bücher d. A. T., pag. 28), il Wellhausen (op. cit., xxi, pag. 455), il Vernes (Rev. de lʼHistoire des Religions, 1883, pag. 68).
[89] Op. cit., XXI, pag. 554.
[90] Che il xxxiv, 10–26 sia tolto dal xxiii e non viceversa è opinione anche del Geiger (Nackgelassene Schriften, IV, pag. 247), del Maybaum (Die Entwickelung des altisraelitischen Priesterthums, pag. 19, n. 1) e del Bruston (Revue de Théologie et de Philosophie, Lausanne, 1883, pag. 348, 361).
[91] Reuss, LʼHistoire sainte et la Loi, I, pag. 184.
[92] Bertheau, Die sieben Gruppen der mosaischer Gesetze, pag. 21–76; Bunsen, Bibelwerk, V, pag. 348–352; Ewald, Geschichte d. V. I., II, pag. 224–239.
[93] Quando esporremo questa parte della legislazione del Levitico esamineremo i diversi modi in cui è stata intesa dal Talmud e dai critici.
[94] Per quanto il Talmud non conceda ai creditori diritto sulla persona del debitore (Maimonide, Dei Servi, i, 1), due passi biblici provano il contrario (2o Re, iv, 1, Nehemia, v, 5).
[95] Era questo il segno che portavano i servi in molti paesi dellʼOriente, come si sa anche da scrittori classici (Petronius Arbiter, Satirarum Reliquiae, Berlino, 1862, § 102, pag. 59; Juvenalis, Satirae, I, v. 104.)
[96] Senza pagare alcun riscatto.r97
[97] Sʼintende che lo dovesse condurre in uno dei luoghi sacri al culto, nei quali risiedevano i magistrati per rendere giustizia.
[98] Maimonide, Dei Servi, I, 3.
[99] Mechiltà, Neziqin, § 1; Qiddushin, 17.
[100] Qiddushin, 14b.
[101] Ibidem, 17b.
[102] Maimonide, Dei Servi, iv, 10.
[103] Mechiltà, Neziqin, § 1; Qiddushin, 22. Vedremo a suo luogo quando spiegheremo il testo del Levitico, xxv, 41, che la stessa mitissima e umana interpretazione è stata data dal Talmud rispetto ai figliuoli dello schiavo.
[104] Qiddushin, 14b.
[105] Ibidem, 20a.
[106] Mechiltà, ivi, § 2, Qiddushin, 15a.
[107] Così a ragione intende anche il Saalschütz (Das Mosaische Recht, cap. 101, nota 901) contro lʼopinione del Bertheau (Sieben Gruppen Mosaïscher Gesetze, pag. 22) e del Salvador (Institutions de Moïse, VII, 5), i quali vorrebbero che la donna ebrea fatta dal padrone sposare al servo compisse i suoi sette anni di servitù, e poi escisse libera con i figli. Ma questo non appare dal testo; è anzi contraddetto dal v. 6.
[108] Mechiltà, ivi; Qiddushin, ivi. Che in tal modo fosse interpretata la legge da un certo tempo in poi si vede anche da Giuseppe Flavio (Ant., iv, 8).
[109] Maimonide, Degli Schiavi, cap. ii, § 2, 3.
[110] Qiddushin, 17b.
[111] Mechiltà, Neziqin, § 2; Qiddushin, 22a.
[112] Il Kerì ha il pronome dativo come noi traduciamo, il Chethib ha invece la particela negativa non, e allora bisognerebbe tradurre: in guisa che non la destini a sè, come traducono il Rosenmüller, il Luzzatto e il Bunsen. I codici dei lxx danno anchʼessi varie lezioni. Delle altre antiche traduzioni, solo la caldaica ha a lui, le altre hanno non. Nel contesto certo si adatta meglio la lezione da noi preferita (cfr. Geiger, Urschrift, pag. 187–190).
[113] Per carne sʼintende il nutrimento, usata quella parola in senso generale di cibo.
[114] Così intende Samuele ben Meir: invece il Talmud e i più dei commentatori si antichi che moderni intendono il concubito; ma a lato del nutrimento e del vestire sembra più ragionevole che la legge abbia parlato anche della abitazione.
[115] Il Saalschütz (op. cit., cap. 101, § 11) a torto sostiene lʼipotesi tutta sua che nel Deuteronomio si parli soltanto di donne già serve vendute dal primo padrone ad un altro. Se la legge avesse trattato solo di questo caso, avrebbe dovuto farlo intendere, mentre dice in generale senzʼalcuna distinzione: «Quando si vendesse a te il tuo fratello ebreo, o lʼebrea».
[116] LʼIsaacita, Samuele ben Meir, Aben Ezra, Rosenmüller, Reuss, Knobel, Bunsen, Luzzatto, Reggio. Il Nachmanide le riferisce al padre.
[117] Vedi lʼIsaacita e gli altri interpetri.
[118] Mechiltà, Neziqin, § 3; Sotà, 23.
[119] Mechiltà, ivi; Sotà, ivi.
[120] Maimonide, Dei Servi, IV, 2.
[121] Mechiltà, ivi. Questa interpretazione talmudica si appalesa in contraddizione col passo di Nehemia (v, 5), ove si parla di aver venduto per povertà i figli di ambedue i sessi.
[122] Mechiltà, ivi. Qiddushin, 14b.
[123] Qiddushin, 17.
[124] Maimonide, Dei Servi, iv, 10.
[125] Secondo il concetto religioso, tutto accade per volere di Dio; è quindi la Provvidenza, per suoi fini segreti, la quale fa si che casualmente un uomo sia ucciso dallʼaltro.
[126] Macchoth, 12a.
[127] Sanhedrin, 40b, 41a.
[128] Ibidem, 81b.
[129] Ibidem, 76b.
[130] Cfr. Salvador, Histoire des Institutions de Moïse, vii, 3.
[131] Mechiltà, Neziqin, § 95; Sanhedrin, 84b; Babà Qamà, 86a.
[132] Mechiltà, ivi; Sanhedrin, 66a; Shebuòth, 35.
[133] Mechiltà, ivi; Sanhedrin, 85b.
[134] Mechiltà, ivi; Sanhedrin, 84b.
[135] Mechiltà, ivi; Sanhedrin, 53a. È opportuno avvertire che per i talmudisti lʼesecuzione della pena capitale si faceva in quattro modi, cioè la lapidazione, il bruciamento, il taglio del capo, e la strangolazione (vedi Sanhedrin, 49b). Lʼordine con cui sono enunciati rappresenta per essi la maggiore o minore gravità del modo di esecuzione, procedendo dal massimo al minimo. Per cui quando il testo non specifica il modo, si doveva applicare la strangolazione. Ma talvolta anche quando il testo non specifica, come nel caso di chi maledice i genitori, i talmudisti, con sottili argomentazioni e tutte proprie a loro, spiegano perchè si dovesse preferire lʼuna specie di esecuzione allʼaltra. Nel Levitico (xx, 9), per il bestemmiatore dei genitori, dopo la sanzione della pena di morte, è scritto: il suo sangue sia sopra di lui, perchè egli stesso col delitto è cagione della propria morte. Ora, siccome questa frase è usata anche per i fattucchieri, contro ai quali chiaramente il testo stabilisce che si debba applicare la lapidazione (ivi, 27), i talmudisti ne hanno concluso che lo stesso modo di esecuzione è da usarsi per tutti quei colpevoli rispetto ai quali si trova una frase eguale. Ma forse i talmudisti con tale sottigliezza volevano soltanto trovare una origine scritturale a un uso già invalso nella esecuzione della giustizia.
[136] Mechiltà, ivi; Sanhedrin, 85b.
[137] Babà Qamà, 83b.
[138] Ibidem.
[139] Maimonide. Haḣobel vehammeziq, Della lesione e del danno, ii, 10.
[140] Babà Qamà, 86.
[141] Mechiltà, Neziqin, § 6; Sanhedrin, 78.
[142] Mechiltà, ivi; Isaacita in locum.
[143] Ibidem.
[144] Mechiltà, ivi, § 7; cfr. Saalschütz, op. cit., cap. 72, § 2.
[145] Saalschütz, op. cit., cap. 72, § 2; Mayer, Die Rechte der Israeliten, Athener und Römer, § 132. Così era anche presso gli Egiziani (Diodoro Siculo, i, 77). Il Diodati però e con lui il Michaelis (Mosaiches Recht, § 126) e alcuni dei moderni interpetri (Knobel, Keil, Rosenmüller, Reuss, ecc.) intendono differentemente, e vogliono che la pena secondo la diversità delle circostanze fosse determinata dalla potestà giudiziaria (cfr. Dillmann in locum). LʼEwald si restringe a osservare che nel testo la pena non è specificata (Alterthümer d. V. I., 3a ediz., p. 282). Il Salvador (op. cit., vii, 5) traduce: il est puní de mort. Questo è fare troppo a confidenza con i testi.
[146] Mechiltà, ivi; Sanhedrin, 52b. Concordano in questa interpretazione la maggior parte dei commentatori ebrei, anche i più indipendenti dalla esegesi tradizionale, come lʼAben Ezra fra gli antichi, il Reggio e il Luzzatto fra i moderni.
[147] Mechiltà, ivi; Maimonide, Dellʼ Omicida, ii, 10–12.
[148] Così intendono Giuseppe Flavio (Ant., iv, 8), la Mechiltà, la Vulgata, Samuele ben Meir, lʼAben Ezra, il Reggio e il Luzzatto. Altri non credono che la parola Ason del testo significhi morte, ma danno in genere, e spiegano il v. 22 nel senso che non si cagionasse danno nè alla donna nè al feto (Keil in locum). Ma questa interpretazione è da rigettarsi, perchè se danno alcuno non fosse cagionato, a quale multa potrebbe giustamente essere condannato il percussore? Nè più accettabile e la interpretazione di alcuni commentatori (Knobel; Evald, Altherthümer, pag. 234, n. 4; Dillmann), che staccano del tutto il v. 23 dal precedente, come se quello considerasse non più il singolo caso della donna incinta, ma le lesioni in genere cagionate in rissa. Chi legge però con attenzione il testo vede che i due versetti costituiscono fra loro due proposizioni alterne che considerano i due casi, o di aver prodotto colla percossa la morte, o di non averla prodotta. E se poi nei versi seguenti si parla della legge del taglione, ciò si spiega, perchè lo scrittore, invece di seguire un ordine dʼidee rigorosamente logico e dominato da un concetto regolatore, fa come tutti i Semiti, che si lasciano troppo spesso trascinare dalla associazione delle idee. LʼEwald e chi lo ha seguito hanno voluto nella mente di uno scrittore semita portare le regole con cui compongono gli Ariani; e però non hanno rettamente inteso.
[149] Maimonide, Della lesione e del danno, iv.
[150] Mechiltà, ivi, § 8; Sanhedrin, 79; Chethuboth, 35.
[151] Maimonide, Dellʼ Omicida, iv.
[152] Vedi Giuseppe Flavio, Ant., iv, 8. Sappiamo che lo stesso accadde presso i Romani (Institut., iv, c. 4, § 7). Cfr. Michaelis, op. cit., v, § 240; Saalschütz, op. cit., cap. 57.
[153] Così intende anche il Diodati (Commenti in questo luogo), e pare che di eguale avviso fosse il Salvador (Loi de Moïse, 1re partie, liv. iv, chap. ii, § v).
[154] Mechiltà, Neziqin, § 8; Babà Qamà, 83b, 84a. Non fu però questa interpretazione accettata senza una penosa e sottile discussione, come può vedersi nel luogo citato del Talmud. E pare che Rabbì Eliezer opinasse per la pena del taglione nel caso della lesione dolosa, per la multa in quello della lesione involontaria. Cfr. le note del Weiss nel citato luogo della Mechiltà.
[155] Maimonide, Dei Servi, i, 1.
[156] Mechiltà, ivi, § 9; Qiddushin, 20a.
[157] Aben Ezra; Rosenmüller; Saalschütz, op. cit., cap. 76, § 3.
[158] Mechiltà, ivi, Qiddushin, 16a, 24 e seg.
[159] Un siclo è da valutarsi poco più che tre delle nostre lire. (Munk, Palestine), pag. 403.
[160] È stranissima in questo punto lʼinterpretazione rabbinica che vuole con le parole figlio o figlia siano compresi nella legge anche i fanciulli, quasi potesse supporsi che nelle parole uomo o donna non si comprendessero i danni recati ai minorenni. (Mechiltà, ivi, § 11; Babà Qamà, 43b).
[161] Mechiltà, ivi, § 10; Babà Qamà, 54b.
[162] Babà Qamà, 33a.
[163] Mechiltà, ivi, § 10, Babà Qamà, 27a 40a, Macchoth, 2. I dottori del Talmud hanno disputato (ivi) se la multa dovesse valutarsi secondo il valore dellʼoffensore o dellʼoffeso. La disputa in questo caso non è priva dʼimportanza; perchè, secondo la prima opinione, sarebbe un vero riscatto che lʼuccisore pagherebbe per redimere la propria persona dalla morte, secondo lʼaltra opinione, la multa si ridurrebbe a una indennità. Nel Talmud si vuole però dimostrare che ad avviso di tutti si tratta di riscatto valutato soltanto in modo diverso.
[164] LʼIsaacita, lʼAben Ezra, Rosenmüller, Reggio, Luzzatto.
[165] Babà Qamà, 49b.
[166] Mechiltà, ivi, § 11; Babà Qamà, 10b.
[167] Luzzatto, Commento in questo luogo.
[168] Mechiltà, ivi, § 12. Babà Qamà, 79b. È troppo puerile la ragione addotta da altro dottore nel Talmud che la pena sarebbe stata minore nel furto del bestiame minuto, perchè il ladro dura fatica a caricarlo addosso. E quale criterio giuridico sarebbe questo di misurare la pena a seconda del disagio patito dal reo nel commettere il delitto?
[169] Aben Ezra, Samuele Ben Meir, Diodati, Reggio, Rosenmüller, Luzzatto, Dillmann, Keil, Reuss.
[170] In questo senso metaforico i talmudisti interpretano la frase del testo: se è sorto il sole.
[171] Mechiltà, ivi, § 13, Sanhedrin, 72; Maimonide, Del furto, cap. ix.
[172] Qiddushin, 18a.
[173] Maimonide, Del Furto, iii, § 12.
[174] Sotà, 23.
[175] Mechiltà, Neziqin, § 4, 5, 6, 14; Sanhedrin, 85b.
[176] Qiddushin, 18a. Maimonide, Del Furto, iii, 14.
[177] Qiddushin, ibidem. Maimonide, ibidem.
[178] Mechiltà, Neziqin, § 12; Babà Qamà, 62b.
[179] Babà Qamà, 2b, 3a.
[180] Samuele Ben Meir, Luzzatto, Dillmann.
[181] Mechiltà, ivi, § 14; Babà Qamà, 6b, 7a.
[182] Maimonide, Dei danni pecuniarii, viii, 10.
[183] Queste sono le parole di più che contiene la versione alessandrina dopo quelle del testo ebraico: campo altrui: ἀποτίσει ἐκ τοῡ ἀγροῡ κατὰ τὸ γέννημα ἀυτοῡ, ἐὰν δὲ πάντα τὸν ἀγρὸν καταβοσκήση. Egualmente suona lʼaggiunta della versione samaritana.
[184] Cioè il depositario.
[185] Vedi sopra, la nota 97, pag. 90.
[186] Così intendono i lxx, la Vulgata, lʼIsaacita, lʼAben Ezra, il Rosenmüller, Dillmann, il Keil e altri; ma il Luzzatto interpreta invece che lʼinnocenza del depositario doveva farsi chiara per ricerche giuridiche del tribunale.
[187] La giustizia tenuta come divina per il luogo dove si amministrava.
[188] Mechiltà, Neziqin, § 16; Babà Meziȁ, 94b.
[189] Ibidem.
[190] Mechiltà, l. c.
[191] Nel Talmud con ispirito quasi di critica moderna fu proposta anche lʼipotesi che questo verso sia fuori del suo luogo. Ipotesi del resto fatta dagli antichi dottori ebrei anche per altri passi della Scrittura (Babà Qamà, 107; Sanhedrin, 2).
[192] Mechiltà, ivi, § 15; Babà Qamà, 107; Babà Meziȁ, 3; Shebùoth, 42; Chethuboth, 18.
[193] Maimonide, Dellʼattore e del convenuto, I, § 2.
[194] Questo principio fu prima oggetto di discussione fra due dottori, volendo invece Rabbì Meir che chi paga il nolo fosse esente da ogni indennità in qualunque caso (Babà Meziȁ, 80b), ma fu deciso come lʼopinione contraria di Rabbì Jehudah (vedi Babà Meziȁ, 93a). La Mishnà in una forma breve ha espresso le esposte distinzioni. Non dispiacerà forse vederla nella traduzione latina pubblicata dal Surenhusio: «Quatuor custodum genera sunt, custos gratuitus, qui mutuo petit, qui mercedem recipit, et qui conducit; custos gratuitus jurabit pro omnibus; qui mutuo petit, solvet omnia; qui mercedem recipit, et qui conducit, jurabunt pro pecude confracta, et pro mortua, et solvent rem amissam vel furto ablatam».
[195] Altri ha creduto di dover annoverare questa legge fra quelle concernenti la proprietà (vedi Dillmann), perchè la figlia non maritata è come proprietà del padre. Ma lʼobbligo che si vuole imporre al seduttore di sposarla, quando il padre acconsenta, cʼinduce a porre questa legge piuttosto fra quelle che concernono la morale.
[196] Mechiltà, Neziqin, § 17; Chethuboth, 10a.
[197] Mechiltà, ivi; Chethuboth, 39b; Qiddushin, 46a.
[198] Mechiltà, ivi; Sanhedrin, 67.
[199] Lascio qui, come altrove, il trapasso dal singolare al plurale, idiotismo proprio dellʼebraico, come il trapasso dallʼuna allʼaltra persona.
[200] Mechiltà, ivi, § 19.
[201] Babà Meziȁ, ivi.
[202] Maimonide, Dei Sinedrii, xix, § 4.
[203] Il testo direbbe alla lettera la tua pienezza, e la tua lagrima, intendendo forse dʼincludere in queste frasi i prodotti solidi come tutti i cereali e le frutta, e quelli liquidi, come il vino e lʼolio. È impossibile in questo caso una traduzione letterale, che non darebbe senso. Il pseudo Jonathan traduce: «Le primizie dei tuoi frutti, e le primizie del vino del tuo tino»; e i lxx: ἀπαρχὰς ἄλωνος καὶ ληνοῦ σου, cogliendo in questa maniera il vero significato. La Vulgata poco diversamente traduce: «Decimas tuas et primitias tuas».
[204] Del passo del Levitico xxvi, 29, che da alcuno è stato inteso come se permettesse i sacrifizii umani, parleremo più innanzi a suo luogo.
[205] Mechiltà, ivi, § 20; Sanhedrin, 2a.
[206] Intendi: il primo moto dellʼanimo tuo, il sentimento istintivo, ti porterebbe a non soccorrerlo.
[207] Vedi Hupfeld, De primitiva et vera temporum et feriatorum apud Hebraeos ratione festorum, III, pag. 10 e seg.; Graf, Die geschichtlichen Bücher des Alten Testaments, pag. 79; Wellhausen, Geschichte Israels, I, pag. 119; Bunsen, Bibelwerk, nella traduzione; Geiger, Nachgelassene Schriften, IV, pag. 277; Horst, Leviticus XVII–XXVI und Ezechiel, pag. 64; Reuss, LʼHistoire Sainte et la Loi, I, pag. 176, II, pag. 64.
[208] Lo schiavo: bellissima frase, e in tutto rispondente a quella italiana: respirare, prender fiato.
[209] Nel presentarsi a celebrare la festa nei luoghi santificati al culto si dovevano portare dei sacrifizi, non doveva andarvisi a mani vuote.
[210] Die Composition des Hexateuchs, xxi pag. 556 e seg.
[211] Geshichte d. V. J., I, 3a ediz., pag. 103–111.
[212] Op. cit., xxi, pag. 559.
[213] Les quatre Sources des Lois de lʼExode nella Revue de Théologie et de Philosophie, Lausanne 1883, n. 4.
[214] Vernes, Les debuts de la nation juive nella Revue de lʼHistoire des Religions, tom. VII, N. 3, mars–juin 1883.
[215] Graf, Die geschichtlichen Bücher des A. T., pag. 94. Reuss, LʼHistoire Sainte et la Loi, I, pag. 195, Wellhausen, Die Composition des Hexateuchs, xxi, pag. 392. Kayser, das Vorexilische Buch der Urgeschichte Israels, pag. 112.
[216] Nöldeke, Untersuchungen zur Kritik d. A. T., pag. 50; Kayser, op. cit., pag. 54. Wellhausen, op. cit., xxi, pag. 550.
[217] I versi 11–13 sono frammento della legge jehovistica inserito dallʼultimo compilatore in quella elohistica. Ciò apparisce principalmente dal ritornare una seconda volta sul comando di tingere di sangue gli stipiti, dandone una ragione troppo antropomorfica, aliena dal concetto dello scrittore elohista, e dal formare questi tre versi una interruzione fra il 10 e il 14; perchè in quello è compiuto logicamente quanto concerne il sacrifizio pasquale, e in questo si comincia a dire della festa delle azzime: cfr. Kayser, op. cit., pag. 45 e seg.
[218] Reuss, op. cit., i, pag. 199, 267, Die Geschichte d. h. Schriften A. T., § 213–216: Kayser, op. cit., pag. 197.
[219] Zum Gesetz und zum Zeugniss, pag. 11.
[220] Hupfeld, Osterprogramm, 1858, pag. 9; Ewald, Geschichte d. V. I., 3a, I, pag. 104.
[221] Bunsen, Bibelwerk, V, pag. 341 e seg.; Fürst, Geschichte der biblischen Literatur, I, pag. 288 e seg.
[222] Graf, Die geschichtlichen Bücher d. A. T., pag. 29; Reuss, Geschichte der heiligen Schriften A. T., § 200; Maybaum, Die Entwickelung des altisraelitischen Priesterthums, pag. 19–20.
[223] Cfr. Kuenen, Histoire critique, I, pag. 248 e seg.
[224] Kuenen, The Religion of Israel, I, pag. 132.
[225] Nel passo di Samuele 1o, xiv, 3, le parole sacerdote di Jahveh in Shilò sono apposizione di Elì, ultimo nominato, non di Aḣijjà sacerdote contemporaneo di Saul; e però non se ne potrebbe argomentare lʼesistenza tuttora in Shilò di un luogo di culto. (Cfr. Thenius, commento in questo luogo.)
[226] Il luogo parallelo del 2o libro delle Croniche (i, 3) aggiunge che in Ghibʼon era il tabernacolo di Dio edificato da Mosè servo di Jahveh nel deserto, e che Salomone offrì i suoi sacrifizi sullo stesso altare di rame che era stato costruito da Bezalel. Ma lʼautore più antico del libro dei Re non sa nulla di tutto ciò, e chiama Bamà il luogo consacrato al culto di Ghibʼon, mentre tal nome non avrebbe potuto darsi allʼofficiale e ritualmente comandato tabernacolo. È chiaro pertanto che lʼaggiunta delle Croniche fu posta dallʼautore per adattare i fatti al concetto sacerdotale già prevalso, che sino dai tempi mosaici fosse imposta dal rito lʼunità del culto. Lo stesso cronichista è obbligato a riconoscere che lʼarca non si trovava in questo immaginario tabernacolo. E come, si domanda, avrebbe potuto non trovarcisi se questo fosse esistito? Vedi Reuss, Cronique ecclésiastique de Jérusalem, pag. 124.
[227] Cfr. Stähelin, Versuch einer Geschichte der Verhältnisse des Stammes Levi. ZDMG, 1855, pag. 704–730.
[228] Sembra essere provenuta da solo errore grafico la lezione masoretica del Deuteronomio (v. 13) Raʼah invece che Daʼah, come leggesi nel Levitico, tanto più che le due lettere D R hanno tanto nel carattere samaritano quanto in quello ebraico forma molto simile e da potersi facilissimamente scambiare.
[229] Tacitus, Historiae, v, 3; Justinus, xxxvi, 2. Giuseppe Flavio riporta la stessa cosa nel trattato contro Appione, i, 34, come una favola di scrittori malevoli.
[230] Vedi il fatto di Mirjam punita da Dio con la lebbra (Num., xii, e seg.), e lʼaltro di Gheḣazi servo del profeta Eliseo punito nello stesso modo (2o Re, v. 27). Cfr. il Midrash Vaiqrà Rabbà, Sez. 16.
[231] Cfr. Kleinert, Das Deuteronomium und der Deuteronomiker, 2te Untersuchung, pag. 77 e seg.
[232] Mosaisches Recht, § 211.
[233] Rosenmüller, Scholia in Leviticum, xiii, 47; Reuss, LʼHistoire sainte et la Loi, II, pag. 138, n. 5.
[234] Vedi i citati autori.
[235] Zur Charakteristik und Geschichte des Priestercodex und Heiligkeitsgesetzes. Zeitschrift f. d. alttestamentliche Wissenschaft, 1884, pag. 129 e seg.
[236] Sifré, I, § 25, Nazir 5a.
[237] Graf, Die geschichtlichen Bücher d. A. T., pag. 75–83; Reuss, LʼHistoire sainte et la Loi, I, pag. 250 e seg.; Geschichte der heiligen Schriften d. A. T., § 369.
[238] Geiger, Nachgelassene Schriften, IV, 265 e seg.; Maybaum, Die Entwickelung des altisraelitischen Priesterthums, pag. 77; anche il Nöldeke (Untersuchungen zur Kritik d. A. T., pag. 63 e seg.) ammette che lʼautore di quello che per lui è il Grundschrift si sia qui valso di una antica raccolta di leggi.
[239] A suo luogo esamineremo il significato di questa frase.
[240] Secondo lʼopinione del Kayser (Das vorexilische Buch ecc., pag. 69) sarebbe interpolato anche il verso 5; ma non ci sembra ciò necessario, perchè in questo verso non si accenna a nessun rito particolare.
[241] Peah, ossia, De Angulo Agri.
[242] Seguo lʼinterpretazione del Bartenora; il Maimonide, e Abraham Ben David intendono che sia il sommacco, ma questa pianta non produce frutto mangereccio.
[243] V. Sifrà, Qedoshim, I, Peah, I, 4, 5.
[244] Peah, ivi, 2.
[245] Peah, vii, 4, 7, Sifrà, Qedoshim, 3; Maimonide, Dei Doni ai Poveri, iv, 21.
[246] Sifrà, Qedoshim, § 2; Sanhedrin, 86.
[247] Sifrà, l. c.; Babà Qamà, 27b.
[248] Sifrà, l. c.; Babà Qamà, 105b.
[249] Sifrà, l. c., secondo il commento di Abraham Ben David; Babà Qamà, 105b.
[250] Sifrà, l. c.
[251] Sifrà, l. c., Babà Meziȁ, 111a.
[252] Babà Qamà 79b, secondo lʼinterpretazione del Maimonide nel cap. i, § 3, Del Furto.
[253] Sifrà, l. c.
[254] Sifrà, Pesaḣim, 22, ʼAbodà Zarà, 6.
[255] Sifrà, l. c., Chethuboth, 46a, Babà Qamà 99b, Sanhedrin 31a.
[256] Sifrà, l. c.; Sanhedrin, 73.
[257] Sifrà, l. c.; ʼErachin 16b.
[258] Sifrà, l. c.; ʼErachin, l. c.
[259] Sifrà, l. c.; T. G. Nedarim, cap. 9.
[260] La parola del testo Shaʼatnez è oscura, e dʼincerta derivazione. Il Deuteronomista nel luogo a questo parallelo (xxii, 11) lʼha spiegata in parole ebraiche, come noi qui traduciamo. La spiegazione parve vera allʼEwald, che credè averne trovata la derivazione in due parole copte. (Altherthümer, pag. 215).
[261] Pei versi 20–22 vedi più sotto.
[262] Che i vv. 21, 22 siano posteriore aggiunta del compilatore lo ammettono il Kayser (op. cit., pag. 69) e il Wellhausen (Die Composition des Hexateuchs, xxii, pag. 427), e che non appartenessero originariamente al nostro capitolo lo dice anche il Graf (Die geschichtlichen Bücher d. A. T., pag. 78 in nota).
[263] Sifrà, l. c., Cherithot, 11a.
[264] Sifrà, l. c.; Ghitin, 41b, Cherithot, 11a.
[265] Chilaim, o De Heterogeneis; ʼOrlà, o De Arborum Praeputiis.
[266] La diversità di lezione è facilmente spiegabile, perchè la medesima preposizione può significare sopra e con, e fra haddam, il sangue, e harim, monti nella scrittura ebraica lʼequivoco è facile.
[267] Sifrà, ivi, § 3; Sanhedrin, 63a.
[268] Sifrà, l. c.; Nazir, 40b, Qiddushin, 35b, Macchoth, 21a.
[269] Cfr. Dillmann, commento in questo luogo.
[270] Caro, Shulhan ‛Aruch, II, § 340.
[271] Sifrà, Shemini; Moʼed Qatan, 24a.
[272] Genesi, xxvii, 34; 2o Samuel, i, 11; 1o Re, xxi, 27; 2o Re, ii, 12; v, 7; vi, 30; xix, 1; xxii, 11; Ezra, ix, 3, 5. Ester, iv, 1.
[273] Sifrà, l. c., Jebamoth, 6a, Babà Meziȁ, 32.
[274] Misura dei solidi, in ispecie dei frumenti.
[275] Misura dei liquidi.
[276] Sifrà, l. c.; Babà Meziȁ, 58.
[277] Die Composition des Hexateuchs, xxii, pag. 427.
[278] Sifrà, l. c. § 1; Vaiqrà Rabbà, § 24.
[279] Cfr. Wellhausen, Die composition des Hexateuchs, xxii, pag. 428. Questo autore però, mentre riconosce essere una glossa i vv. 4 e 5, propende piuttosto a tenere come aggiunta del compilatore tutta la prima parte del capitolo, cioè i vv. 1–9.
[280] Vedi lʼIsaacita sul Genesi xvii e sul Talmud Bab. Cherithoth, 7a e Shabbath, 25b. In questʼultimo luogo vedi anche i Tosafisti.
[281] Sanhedrin, 52a.
[282] Ubi supra, 84b.
[283] Ubi supra, 53a.
[284] Sifrà, Qedoshim, § 10; Sanhedrin, 54a.
[285] Cherithoth in principio; cfr. ivi il commento dellʼIsaacita.
[286] Shabbath, 64b.
[287] Op. cit., pag. 47.
[288] Das Deuteronomium und der Deuteronomiker, pag. 78.
[289] Das vorexilische Buch der Urgeschichte Israels, pag. 69.
[290] Die Geschichte der heiligen Schriften d. A. T., § 292.
[291] Nome di un luogo, dove aveva speciale culto il Dio dei Moabiti Peʼor.
[292] Da non confondersi colla cittadella di Gerusalemme, che esattamente trascrivendo dallʼebraico dovrebbe dirsi Zijjon piuttosto che Sion, come volgarmente dicesi.
[293] Nome di un colle.—Si osservi che se quanto precede nel Deuteronomio fosse dello stesso autore, non vi sarebbe stata ragione di ripetere qui brevemente ciò che con estensione aveva sopra narrato (ii, 31–iii, 11).
[294] La parola ebraica Totafoth, che abbiamo tradotto bende, è dʼincerta interpretazione, tanto più che si trova soltanto in questo e negli altri luoghi paralleli (Esodo, xiii, 16; Deut., xi, 18). Vero è che in altro luogo parallelo anchʼesso (Esodo, ivi, 9) trovasi invece una parola che senzʼalcun dubbio significa ricordo, ma nulla permette di dare a Totafoth lo stesso significato. I più dei lessicografi la fanno derivare dallʼarabo Tâfa, circondare; ma il Delitzsch la vuole simile allʼassiro Tatâpu che avrebbe lo stesso significato. (The hebrew language viewed in the light of assyrian research, pag. 20.)
[295] Sifrè, Deut., § 34; Berachoth, 2a, 10b.
[296] Sifrè, l. c., § 35; Mechiltà, Bo, § 17, 18; Berachoth, 14b.
[297] Sifrè, l. c., § 136; Menaḣoth, 28a e seg.; Shabbath, 32b.
[298] Degli animali uccisi non per sacrifizio si dava il permesso di mangiarne senza osservare le leggi di purità, come mangiavansi i caprioli e i cervi, animali non atti a sacrificarsi.
[299] Sanhedrin, 84b.
[300] Sifrè, l. c. § 93–95; Sanhedrin, 16b, 111b, e seg. Babà Qamà, 82b. Secondo poi una tradizione talmudica, il fatto di una intiera città condannata per politeismo o idolatria non sarebbe mai avvenuto, nè potrebbe avvenire (Sanh., 71a).
[301] De primitiva et vera temporum festorum et feriatorum apud Hebraeos ratione, III, pag. 21 e seg.
[302] Nelle note in questo luogo.
[303] Sifré, l. c., § 112–117; Shebiʼith, l.
[304] Ghitin, 18a.
[305] Sifré, Shebiʼith ubi supra.
[306] Questa costituzione dʼHillel è detta nel Talmud Prozbol (vedi Sifrè e Shebiʼith, l. c.), voce del cui significato si disputa fra glʼinterpreti. Probabilmente è corruzione del greco προσβολή, aggiunta, quasi voglia dire aggiunta fatta alla legge.
[307] Shebiʼith, x, 9.
[308] Sanhedrin, I, § 6, x, § 2, e f. 88b.
[309] Ḣaghighà, 16.
[310] Maimonide, De Synedriis, i, 3.
[311] Sanhedrin, iii, § 1.
[312] Ibidem, iv, § 2.
[313] Sifré, ii, § 153.
[314] Sanhedrin, f. 17a.
[315] Ibidem, 36b.
[316] Ibidem.
[317] Ibidem, 24b e seg.
[318] Ibidem, 27 e seg.
[319] Ibidem.
[320] Ibidem, 88b.
[321] Sanhedrin, 13b.
[322] Sanhedrin, i, 1; Maimonide, De Synedriis, v.
[323] Ibidem, f. 3a.
[324] Sifré, ii, § 205; Ibidem, 2a e 14a, secondo lʼopinione di R. Jehudah prevalente contro lʼopinione contraria di R. Simeone, che sosteneva essere sufficienti anche soli tre.
[325] Ibidem, 2a e 10b.
[326] Ibidem, f. 36b.
[327] Cfr. Saalschütz, Das mosaische Recht, pag. 58–64.
[328] V. sopra, pag. 81.
[329] Sanhedrin, 40 e 41.
[330] Cfr. Knobel, commento su questo luogo; Wellhausen, Die Composition des Hexateuchs, xxii, pag. 463.
[331] Anche nella tradizione rabbinica alcuni opinarono che ai trattasse solo del Deuteronomio (Sifré, ii, § 160), sebbene poi prevalesse lʼopinione contraria che si trattasse di tutta la legge.
[332] Antichità, iv, 8, 17.
[333] Sanhedrin, 20b.
[334] Sifré, ii, § 157; Maimonide, De Synedriis, v. 1; De Regibus, i, 3.
[335] Sifré, ibidem.
[336] Sifré, ibidem; Jebamoth, 45b. A tale proposito si narra nel Talmud che il re Agrippa, leggendo pubblicamente questo paragrafo della Scrittura, si dette a piangere, pensando che egli non era di origine ebrea, ma i dottori lo confortarono, esclamando ad alta voce: «nostro fratello tu sei» (Sifré, l. c.; Sotà, 41a). Non è ben certo poi se questo Agrippa fosse il primo o il secondo di tal nome. (Cfr. Derenbourg, Essai sur lʼHistoire et la Géographie de la Palestine, pag. 216, n. 4.)
[337] Qiddushin, 82a.
[338] Maimonide, De Regibus, i, 8, 9.
[339] Horajoth, 11b.
[340] Sifré, ii, § 157; Sanhedrin, 22a.
[341] Maimonide, De Regibus, iii, 8, 9.
[342] Sanhedrin, 21b.
[343] Sanhedrin, ibidem.
[344] Maimonide, De Regibus, iii, 2, 3, 4, De Synedriis, xix, 3.
[345] Sanhedrin, 19a.
[346] Maimonide, De Regibus, iii, 10.
[347] Maimonide, De Regibus, iv; Sanhedrin, 20b.
[348] Più innanzi, nella esposizione del codice sacerdotale, si vedrà in quale diverso modo fu inteso questo luogo dai talmudisti.
[349] Questa pare la più probabile interpretazione da darsi al difficile v. 8. V. Aben Ezra, Reggio, Rosenmüller, Bunsen, Knobel, Herxheimer, Reuss nei commenti su questo luogo.
[350] Della Profezia nella Bibbia, Firenze, 1882.
[351] Sifré, ii, § 170; Shabbath, 75a; Rosh–hasshanà, 24b; ʼAbodà Zarà, 18a, 43b; Sanhedrin, 68b.
[352] Sifré, ivi, 175. Ammisero però che anche fra le altre nazioni furono alcuni profeti, Babà Bathrà 15b.
[353] Sifré, ii, § 177; Sanhedrin, 89a.
[354] Sifré, ivi, § 175; Sanhedrin, 89b; Jebamoth, 90b.
[355] È patente la contraddizione di questo passo con quello del IV, 41–43, ove si dice che Mosè aveva già destinato le tre città dʼasilo nel paese alla destra del Giordano. La interpretazione rabbinica, che nel cap. xix si parli di tre città da destinarsi nella regione alla sinistra del Giordano, in aggiunta alle tre già destinate da Mosè, non resulta in alcun modo dalla piana intelligenza del testo. I rabbini poi erano così impacciati nella interpretazione conciliativa dei due testi, che alcuni vollero le città di rifugio dovessero essere in tutto nove, altri dodici, e altri quindici. (Vedi Sifré, ii, § 185. Talmud Ger. Maccoth, ii, § 3, Tosaftà, Maccoth, ii.) Nè meglio quadra lʼinterpretazione di altri, i quali per le prime tre città indicate in questo luogo del Deuteronomio intendono quelle allʼoriente del Giordano, e per le seconde tre, quelle allʼoccidente. Imperocchè il legislatore non potrebbe imporre di fare una cosa che già da Mosè era stata fatta. Di necessità dunque bisogna concludere che il passo iv, 41–43, è di autore diverso da quello della parte legislativa del Deuteronomio. Tutto questo argomento poi delle città dʼasilo sarà esposto più estesamente quando esamineremo il cap. xxxv del Numeri.
[356] Sebbene questa legge non segua nel testo immediatamente dopo quella dellʼasilo e dellʼomicidio, le abbiamo riunite per non interrompere due argomenti così affini.
[357] Sifré, ii, § 205; Sotà, 44, 45.
[358] Sifré, ivi, § 205, 206; Sotà, ivi.
[359] Sifré, ivi, § 205; Sotà, 47.
[360] Sifré, i, § 161; Sotà, 47.
[361] Babà Qamà, 88a; Sifré, ii, § 190; Shebuʼoth, 30a.
[362] Ghitin, 23.
[363] Sanhedrin, 24b, 25, 26, 27. Cfr. ivi il commento del Rashì; Babà Qamà, 72b.
[364] Qiddushin, 40b.
[365] Sanhedrin, 27b e seg.
[366] Babà Qamà, 42b e seg.
[367] Questa interpretazione è del Maimonide, Della testimonianza, ix, 2. Nel Sifré, ii, § 190, e nel Talmud (Shebuʼoth, 30a) si deduce la stessa conseguenza da altra interpretazione dello stesso genere.
[368] Maimonide, op. cit., x.
[369] Sanhedrin, 26b.
[370] Babà Qamà, 56.
[371] Maimonide, op. cit., iii, 4–6.
[372] Vedi per tutte queste disposizioni Macchoth, cap. i.
[373] Maimonide, op. cit., xviii, 6.
[374] Macchoth, 4b.
[375] Sanhedrin, 29a.
[376] In un luogo del Talmud Gerosolimitano (Shebiʼith, vi, 1) si dice che anche ai popoli della Palestina Giosuè, prima di entrare nei loro confini, mandasse pubbliche lettere, per avvertirli che chi voleva emigrare, emigrasse, chi far pace, la facesse, chi guerreggiare, guerreggiasse. Ora è certo che a questo luogo non si può dar valore se non come leggenda; ma anche come tale è contrario a tutto ciò che nella Scrittura viene insegnato intorno alla condotta da tenersi verso questi popoli. Però ci apparisce soltanto come singola opinione di qualche dottore, tanto più che nel Talmud babilonese non si contiene nulla di simile. È da meravigliare quindi che il Maimonide lʼabbia adottata come principio di diritto (V. Dei Re e delle loro guerre, vi, 5).
[377] Dei Re e delle loro guerre, vii, 15.
[378] Sifré, ii, § 191–198; Sotà, 42–44.
[379] Secondo il Maimonide (op. cit., vi, 7) il diritto tradizionale rabbinico avrebbe imposto che assediando le città nemiche si lasciasse una parte libera per quelli che volevano fuggire; e pare che desuma questo insegnamento da un passo del Sifré, I, § 157, ove dicesi che gli Ebrei si contennero in tal modo militando contro i Madianiti (cfr. il pseudo Jonathan). Ma da un solo fatto, il quale poi è leggendario, non si può dedurre una regola generale di diritto, da applicarsi in ogni caso.
[380] Abbiamo già sopra notato come i vv. 1–9 del cap. XXI siano una interruzione in questo argomento, e da riportarsi logicamente nel cap. xix, ove si parla dei delitti di sangue.
[381] Ḣolin, 17a. Cfr. Maimonide, Dei Re e delle loro guerre, viii, 1.
[382] Qiddushin, 21b.
[383] Sifré, ii, § 212, 213; Jebamoth, 48.
[384] Maimonide, l. c., § 7.
[385] Presso la porta, come luogo di più facile convegno, perchè comunicazione fra la città e la campagna, si radunava il magistrato per rendere giustizia.
[386] Sifré, II, § 218–220; Sanhedrin, 68b–72a, 88b.
[387] Sanhedrin, 49b.
[388] Ibidem, 52b.
[389] Ibidem, 45.
[390] Das Mosaische Recht, pag. 457–460.
[391] Mosaisches Recht, § 235.
[392] Sanhedrin, 45b.
[393] Babà Meziȁ, 21–28.
[394] Maimonide, Del furto e delle cose smarrite, xiii, 10.
[395] Babà Meziȁ, 23a.
[396] Ibidem, 28b.
[397] Ibidem, 21 a–24.
[398] Nazir, 59a. È noto che uno dei capi dʼaccusa contro Giovanna dʼArco fu di avere indossato abiti ed armature virili.
[399] Sifré, ii, § 229.
[400] Questo precetto poteva essere ispirato da un sentimento di compassione per lʼanimale più debole, costretto a faticare più che le sue forze non consentirebbero, se appajato a uno più forte.
[401] Sifré, ii, § 231; Mishnah, Chilaim, viii, 2.
[402] Babà Qamà, 54b.
[403] Cfr. Michaelis, Mosaisches Recht, § 92; Saalschütz, Das Mosaiche Recht, pag. 564; Luzzatto, commento in locum.
[404] Sifré, ii, § 237; Chethuboth, 46.
[405] Sifré, ii, § 240; Chethuboth, ubi supra; Sanhedrin, 50b.
[406] Sifré, ii, § 238; Chethuboth, ubi supra.
[407] Lʼantico commento tradizionale Sifré intende a ragione che tanto in campagna quanto in città sia condannata la donna, se si prova che avesse mezzo di chiamare gente in suo ajuto, e al contrario assolta, anche se in città non potesse esser da nessuno udita. Non trovo però che questa ragionevole interpretazione sia stata adottata come decisione legislativa.
[408] Maimonide, Leggi matrimoniali, i, 3.
[409] Qiddushin, 2a.
[410] Ibidem, 12b.
[411] Jebamoth, 96b, 112b.
[412] Qiddushin, 41a.
[413] Jebamoth, 107a.
[414] Qiddushin, 79a.
[415] Jebamoth, 20a.
[416] Caro, Eben haʼezer, xv, 1.
[417] Chethuboth, 7a.
[418] Caro, op. cit., lxi, 1.
[419] Caro, op. cit. xciii, 1.
[420] Chethuboth, 72a, 101.
[421] Isaacita, in Jebamoth, 66a.
[422] Chethuboth, 46, 47, 52.
[423] Chethuboth, 46b, 65b.
[424] Cioè, non faccia parte del popolo, della cittadinanza, mediante il matrimonio legittimo.
[425] Pare più ragionevole di intendere la parola del testo nel significato più ristretto che abbiamo sopra accennato, e che è conforme alla interpretazione rabbinica (V. Sifré, ii, 248; Jebamoth, 49), che non qualunque nato da unione non legittima.
[426] Questo scrittore aveva innanzi a sè le narrazioni del Jehovista nel Numeri (xxiixxiv), ma non quella del proemio del Deuteronomio (ii, 29), dalla quale anzi resulterebbe il contrario. È da supporsi ancora che i vv. 5–8 siano posteriore aggiunta, e non appartengano veramente al legislatore deuteronomista. Se il non avere usato cortesia verso gli Ebrei esciti dallʼEgitto era ragione sufficiente per proibire ogni unione in perpetuo con gli Ammoniti e con i Moabiti, non doveva esserlo ancora per glʼIdumei, che secondo il narratore jehovista gli avevano trattati con eguale durezza? (Numeri, xx, 14–21). Ma è più probabile che le unioni matrimoniali con quei due popoli fossero proibite, perchè lʼantica leggenda (Genesi, xix, 30–38) gli faceva derivare dallʼunione incestuosa di Lot con le figliuole.
[427] Sifré, ii, § 249; Jebamoth, 76b.
[428] Avvertimento opportuno a frenare la licenza dei costumi militari.
[429] Ghitin, 45a. Cfr. Maimonide, Degli Schiavi, viii, 10.
[430] Jebamoth, 93b.
[431] Non vi è dubbio che tale è il significato della parola ebraica del testo, che letteralmente significa cane. Questa interpretazione, già sostenuta da molti commentatori, è stata confermata dal Derenbourg col confronto di tale nome dato ai cinedi per dispregio presso i Fenicii (Revue des Études juives, 1881, pag. 123–127).
[432] Sifré, ii, § 266, 267; Babà Meziȁ, 87, 91, 92.
[433] Matth., xii, 1; Luc., vi, 1.
[434] Questa è lʼinterpretazione di molti commentatori. V. Rosenmüller, Reggio, Knobel, Reuss, Herxheimer, i quali tutti tengono i primi tre versi come la protasi, e il 4o come lʼapodosi di un solo periodo. Cfr. Michaelis, Mosaisches Recht, § 119; Saalschütz, Das Mosaische Recht, pag. 799.
[435] Sifré, ii, § 269; Ghitin, 90.
[436] Ibidem, e Sanhedrin, 22a.
[437] Caro, Eben haʼezer, CXIX, 3.
[438] Ibidem, 4.
[439] Qiddushin, 66a.
[440] Chethuboth, 101a.
[441] Isserles, Eben haʼezer, cxix, 6.
[442] Caro, op. cit., i, 10.
[443] Chethuboth, 107a.
[444] Caro, op. cit., cliv, 6, 7.
[445] Jebamoth, 64a.
[446] Babà Meziȁ, 115a.
[447] Narrasi nel Numeri (xii) che Mirjam fu castigata con una lebbra che durò soli sette giorni, per avere sparlato di suo fratello Mosè. Qui il legislatore vuole indirettamente far intendere che questa gravissima malattia era per lo più una punizione provvidenziale. Così lʼintesero anche i rabbini (Sifré, ii, § 275).
[448] Amos, ii, 5–8, iii, 9, v, 11, 12, viii, 4–6; Isaia, iii, 14,15, x, 2, xxxii, 7; Michà, iii, 1–4; Ezechiele, xxii, 29; Zacharia, vii, 10; Salmi, x, 2, 8, 9, xii, 6, xxxv, 10, xxxvii, 14, cix, 16.
[449] Sifrè, ii, § 280; Sanhedrin, 27b.
[450] La condizione della vedova in un popolo, nel quale essa non aveva diritto se non che agli alimenti, doveva essere in generale meschina; quindi si spiega facilmente questo maggiore riguardo usatole dalla legge. I rabbini però lo estesero alle vedove di qualunque condizione, e, anche se ricche, proibirono che a carico loro si facesse qualunque pignoramento (Babà Meziȁ, 115a).
[451] Sifré, ii, § 286; Macchoth, 13, 15b, 16, 17, 20.
[452] Maimonide, De Synedriis, xvi, 4, 6.
[453] Sifré, l. c.; Macchoth, 22a; cfr. 2 Corinth., xi, 24.
[454] Macchoth, l. c.; Sanhedrin, 10.
[455] Sanhedrin, 46a.
[456] Cfr. lʼIsaacita in Ḣolin, 141b, e gli Scolii sullʼIsaacita nel Deuteronomio, xxv. Altri autori opinano ancora che per la continuata e ripetuta prevaricazione della legge si sarebbe potuto fustigare il pervicace peccatore, fino che si pentisse, o, se non volesse pentirsi, fino a farlo morire (Bartenora, e Jom Tob Levita sul cap. 4o di Nazir, § 3).
[457] Sanhedrin, 81b.
[458] 1o Re, xxii, 27; Geremia, xxxii, 2 e seg., xxxvii, 4, 15, 18.
[459] Sifré, ii, § 287; Babà Qamà, 54b.
[460] Cfr. Babà Meziȁ, 32b, Shabbath, 154b.
[461] Michaelis, Mosaisches Recht, § 98; Saalschütz, Das Mosaische Recht, pag. 757; Rosenmüller, Diodati, Luzzatto, Knobel, Reuss.
[462] Sifré, II, 288; Jebamoth, 17.
[463] V. Matth., xxii, 24 e seg.; Marc., xii, 19 e seg.; Luc., xx, 28 e seg.
[464] Babà Bathrà, 109a.
[465] Jebamoth, 22.
[466] Ibidem, 43 e seg.
[467] Ibidem, in principio.
[468] Ibidem, 39.
[469] Maimonide, Del Levirato, ii, 10. Questʼautore avrebbe ancora concesso alla donna, quando il maggiore dei cognati rinunziasse al suo diritto, di preferire quello tra gli altri, col quale potesse avere una reciproca propensione (ivi, 12); ma altri autori non la intendevano a questo modo, e si mostrarono verso la donna più rigorosi, volendola sottoposta al diritto che per ragione di anzianità avevano su lei i cognati. Cfr. ivi il commento Magghid.
[470] Jebamoth, 4a, Chethuboth, 77a.
[471] Jebamoth, 39b. Jaʼaqob ben Asher, Tur Eben haʼeser, § 165.
[472] Sifré, ii, § 290.
[473] Jebamoth, 106.
[474] V. i Tosafisti in Jebamoth, 39b.
[475] Jebamoth, 40a.
[476] Sifré, II, § 291; Jebamoth, 106b.
[477] Sifré, ii, § 293; Babà Qamà, 28a.
[478] Sifré, ii, § 292, Babà Qamà, ivi.
[479] Graf, Die geschichtlichen Bücher des A. T., pag. 8; Reuss, LʼHistoire Sainte et la Loi, I, pag. 208 e seg. Il Wellhausen, che vuol trovare nel Deuteronomio tre codici diversi per letteraria composizione, ammette che il capitolo xxvii sia stato aggiunto nel secondo, e non formasse parte del terzo, nel quale entrò il cap. xxviii. (Die Composition des Exateuchs. Jahrb. f. D. Theol., xxii, pag. 464). Il Kayser tiene come interpolazione tutto il capitolo eccetto i vv. 1–3 e 8–10, che a lui sembrano transizione fra il xxvi e il xxviii (Das vorexilische Buch, pag. 101). Ma a chi bene osserva, questa transizione non è punto necessaria, anzi sarebbe una vera interruzione nei corso dei concetti che così naturalmente si seguono. Con molta ragione dice il Reuss: «Ce serait la seule fois dans tout le code que le rédacteur aurait changé la forme de son discours. Partout ailleurs cʼest Moïse qui parle, et au v. 9 le rédacteur aurait trouvé convenable de le dire explicitement?»
[480] Questa è lʼopinione prevalente omai fra i critici, che in un punto cosi conosciuto, è inutile nominatamente citare.
[481] Zeitschrift für Völkerpsycologie und Sprachwissenschaft 1880, pag. 1–28.
[482] Das Deuteronomium und der Deuteronomiker. Questo autore, contro lʼopinione più comunemente accettata, vuol riportare la composizione della legge deuteronomica sul finire dellʼetà dei Giudici (ivi, pag. 137 e seg.).
[483] Schrader nellʼEinleitung del De Wette, 8a ediz., § 191; Kayser, Das vorexilische Buch, pag. 102.
[484] Wellhausen, op. cit., xxii, p. 464; Reuss, LʼHistoire sainte et la Loi, I, 210.
[485] Sotà, 41a.
[486] I libri rabbinici non sono concordi nel determinare in quali parti veramente consisteva la lettura. Secondo il Sifré (II, § 160), una delle più antiche fonti del rituale ebraico (Geiger, Urschrift, p. 434, 436) pare che si sarebbe dovuto leggere tutto il Deuteronomio. La Mishnah, secondo il testo gerosolimitano (Sotà, vii, 8), la restringe ai seguenti passi: ivi, 8; xi, 13–21; xiv, 22–29; xxvi, 12–15; xxviii; mentre secondo il testo babilonese si sarebbe letto anche il xvii, 14–20; e si deve pur dire che questa è lezione più corretta, perchè è innegabile da tutto il contesto che si dovesse leggere anche questʼultimo passo, che concerne il diritto monarchico. Pare inoltre che il Maimonide avesse una lezione differente da tutte e due, perchè egli dice che si faceva lettura continuata dal xiv, 22 a tutto il xxviii (Ḣaghighà, iii, 3).
[487] La Profezia nella Bibbia, capp. v, vi.
[488] Per quanto nelle parole del testo sia non poca oscurità, pare questo il modo più probabile dʼintendere siffatta cerimonia di consacrazione dellʼaltare. Delitzsch, Smend nei commenti su questo luogo.
[489] LʼIsaacita ha creduto di trovare per lo meno una allusione alla Pentecoste nella lezione del testo masoretico (v. 21) che relativamente alla Pasqua ha Shebuʼoth jamim = settimane di giorni, in plurale, invece che Shibàt jamim = sette giorni. Ed il Wellhausen opina che questa sia una correzione introdotta a bella posta dai Masoreti con tale intendimento (Geschichte Israels, I, pag. 110). A me non pare che possa accettarsi nè lʼuna nè lʼaltra opinione. Anche nel testo masoretico come ora lʼabbiamo è chiaro che si parla soltanto della pasqua delle azzime. Del resto sette giorni, e non settimane di giorni, danno concordemente le antiche versioni dei lxx, di Jonathan, la Peshito, e la Vulgata.
[490] Così intendo questo passo con lʼIsaacita, il Qimḣi, il Rosenmüller e lʼEwald. Altri, fra i quali il Reuss e lo Smend, opinano che anche nelle feste il principe avesse ingresso speciale per la porta dʼoriente, e che Ezechiele, dicendo che doveva escire insieme con gli altri abbia volato dire per identità di tempo, non per eguaglianza di luogo. Ma la parola del testo bethocham = in mezzo a loro, non può intendersi se non relativamente al luogo; questa espressione dice in modo troppo chiaro che nelle feste il principe doveva essere confuso con gli altri. In mezzo a loro non è lo stesso che insieme con loro, la quale espressione avrebbe potuto interpretarsi anche in relazione solo del tempo. Inoltre poi in tutto il contesto si capisce troppo chiaro che il privilegio di entrare per la porta dʼoriente era concesso al principe solo nel sabato, nei novilunii, e quando offriva volontarii sacrifici privati. Resterà a noi oscura la ragione, perchè nelle festa non si accordasse al principe questo privilegio, ma ciò non deve indurci a interpretare il testo diversamente da quanto resulta dal chiaro senso letterale.
[491] La parola Deror del nostro testo va intesa nello stesso significato in cui la troviamo usata da Geremia (xxxiv, 8, 15), cioè per lʼanno settimo, in cui gli schiavi riacquistavano la libertà, non per lʼanno del Giubileo, che, secondo ogni probabilità, al tempo di Ezechiele non era stato ancora istituito. Cfr. Smend; Wellhausen, Geschichte Israels, I, pag. 123; Maybaum, Die Entwickelung des altisraelitischen Priesterthums, pag. 43.
[492] Popper, Die biblische Bericht über die Stiftshütte, p. 84–104.
[493] Jomà, 14a.
[494] Dalla lezione dei lxx (Levit., xxi, 13) resulterebbe che avrebbe dovuto essere della stessa tribù sacerdotale: οὺτος γυναῖκα παρθένον ἐκ τοῦ γίνους αὑτοῡ λήψεται. Filone, secondo il suo costume di attenersi alla versione alessandrina, accetta anche lui questa restrizione maggiore nel rito del massimo sacerdote (De Monarchia, ii, 11). La tradizione talmudica è conforme al testo ebraico; soltanto da un passo del Talmud (Jomà, 13a) parrebbe resultare che il sommo sacerdote non fosse di solito poligamo.
[495] Maimonide, Degli arredi del Tempio, IV, 20.
[496] Taànith, 26, 27.
[497] Sifrà, xxi, 2. Jebamoth, 22b.
[498] Sifrà; Qiddushin, 77.
[499] Sifrà; Jebamoth, 61.
[500] Vedi sopra, pag. 197, come i talmudisti intesero questo modo di condanna.
[501] Sifrà; Sanhedrin, 51b.
[502] Il Talmud invece che gobbi e gracili interpetra le parole del testo come se significassero un difetto nelle palpebre, o una macchia nellʼocchio. (Rashì; Pseudo Jonathan). I lxx invece di gracile hanno ἔφηλος, lentigginoso; la Vulgata ha lippus. Il Talmud inoltre ha enumerato molti altri difetti che rendevano i sacerdoti inetti al culto, come può vedersi nel trattato Bechoroth, vi, 6, e presso il Maimonide, Dellʼammissione al santuario, viix.
[503] Sanhedrin, 83a.
[504] Ibidem, 81b.
[505] I tentativi di alcuni interpetri per conciliare questa contraddizione non hanno fondamento, e bisogna pur dire che lʼautore delle Croniche ha attinto qui come altrove a fonti diverse, che ha procurato di far concordare, senza però riuscirvi. (Bertheau, Die Bücher der Chronik, 2a ediz., pag. 196; Reuss, Chronique ecclésiastique de Jérusalem, p. 107.)
[506] Ḣolin, 24a.
[507] Ibidem, 24b.
[508] T. G. Sheqalim, v, 12; T. B. Horajoth, 13a.
[509] Cfr. Sifrà, in questo luogo; Ḣolin, 133b.
[510] Zebaḣim, v, § 6, 7.
[511] Sifrè, ii, § 165; Ḣolin, 130.
[512] De Premiis sacerdotum, § 3.
[513] Antiq., iv, 5.
[514] Cfr. Reuss, e Knobel, sul Deuteronomio.
[515] Intorno alla consacrazione delle primizie e dei primogeniti è stata sopra (pag. 44 e seg.) notata la contraddizione fra le diverse leggi, ed esposta ancora la insussistente conciliazione dei talmudisti.
[516] Sifré, ii, § 297; Bicchurim, i, 3.
[517] Sifré, i, § 110, Mishnah, Ḣallàh, ii, 5.
[518] Reuss, Knobel, Gesenius.
[519] Sifrà, sul luogo citato del Levitico, ʼArachin, 28b.
[520] Delle Stime e deglʼInterdetti, vi, 1.
[521] Sifré, i, 110, Rashì, sul Deut. xviii, 4.
[522] Sanhedrin, 33a, cfr. Maimonide, Dei Cibi proibiti, x, 20.
[523] Terumoth, iv, 3; Ḣolin, 137b.
[524] Questa è la spiegazione dei due versi 4 e 5, intorno ai quali tanto hanno fantasticato quegli interpetri, cui sembrava che fossero in contraddizione; perchè il verso 4 parla di un subborgo di mille cubiti e il verso cinque dice di misurare un lato di due mila. (Rosenmüller, Excursus, ii, in Num.; Knobel; Reuss). La conciliazione proposta in un luogo del Talmud che mille braccia dovessero servire per vero e proprio subborgo, e altre duemila braccia per campagna come campo e vigneti (Sotà, 27b), estenderebbe troppo il terreno assegnato ai leviti, già abbastanza vasto, e si oppone alla piana intelligenza del testo. Per queste stesse ragioni non è da accettarsi neppure ciò che resulterebbe da altro luogo talmudico (ʼErubin, 56b), che, restringendo lʼestensione a duemila cubiti, li vuole divisi in eguale maniera.
[525] Zebaḣim, 56b.
[526] Sifré, ii, § 105–110; Rosh Hasshanà, 12b.
[527] Sotà, 48a, Jomà, 9a, Babà Meziȁ, 90a.
[528] Questa etimologia del Mussafia non è accettata dal Levy che deriva la parola Demai dallʼaramaico Dema, essere eguale, ambiguo, incerto. Chaldäisches Wörterbuch, sub voce.
[529] Bechoroth, 30b. Tosaftà, Demai, ii.
[530] Berachoth, 47b.
[531] Sifrà, Emor, § 2; Jomà, 18a, Horajoth, 9a, Ḣolin, 134b.
[532] Jomà, 73a, Horajoth, 12b.
[533] Maimonide, Della Preghiera, i.
[534] Maimonide, Delle Benedizioni, i.
[535] Berachoth, 26b.
[536] Nel Talmud prevalse lʼopinione che si trattasse soltanto di animali offerti in sacrificio, e non di quelli uccisi per gli usi della vita. (Sifrà, Aḣarè Moth, cap. 9; Zebaḣim 106), sebbene Rabbì Ismaele volesse dare alla Scrittura il suo letterale significato. (Ḣolin, 17a). E difatti chi legge senza preconcetto vede che si è voluto intendere anche degli animali uccisi a solo scopo di cibarsene. (V. Luzzatto, Rosenmüller, Diodati, Dillmann, Reuss, Bunsen).
[537] Degli animali ruminanti oltre gli ovini e bovini permessi come cibo è data la lista nel Deut. xiv.
[538] Ḣolin, 27a, 32a.
[539] Cherithoth, 6.
[540] Vedi sopra (pag. 44) la contraddizione fra questo luogo del Numeri e il Levitico xxiii, 18, 19; imperocchè, secondo questʼultimo passo, il sacrifizio nella Pentecoste sarebbe stato differente.
[541] Zebaḣim, v, 3.
[542] Dillmann, Exodus u. Leviticus, 1880, pag. 528 e seg.; Baudissin, Studien zur Semitischen Religionsgeschichte, I, pag. 140.
[543] Sifrè, i, § 111; Horajoth, 9.
[544] Horajoth, 4b e seg.
[545] Maimonide, Dei Sicli, i, 1.
[546] Mechiltà, sullʼEsodo, xxiii, 15; Ḣaghighà, 6b e seg.
[547] Sifré, i, § 112; Horajoth, 7a.
[548] Cherithoth, 8b.
[549] È da notarsi che la proibizione della Scrittura di offrire animali difettosi negli organi genitali fu intesa dai talmudisti nel significato molto più ampio dʼinibire la castrazione degli animali e molto più dellʼuomo (Sifrà, Emor, § 7; Shabbath, 111a). È da domandarsi però se nellʼallevamento del grosso bestiame lʼosservanza di un tal rito è possibile.
[550] Mishnah, Parà i, 2–4.
[551] Ḣolin, 13b, Temurà, 7a.
[552] Cfr. Rosenmüller, Dillmann.
[553] Geschichte Israels, I, pag. 390.
[554] Dillmann, Exodus und Leviticus, pag. 450 e seg.
[555] Sifrà, Zav, Sez. 10; Cherithoth, 2a, 4a.
[556] Mechiltà, , § 8; Pesaḣim, 21b.
[557] Mechiltà, , § 15; Pesaḣim, 96a.
[558] Jebamoth, 64b.
[559] Pesaḣim, 95.
[560] Rosh Hasshanà, 2 e seg.
[561] Ibidem, 16 e seg.; Pesiktà Rabbati, Vienna, 1880, pag. 166.
[562] Sifrà, Aḣarè Moth, Sez. 5, Emor, cap. 14; Jomà, 73b e seg.
[563] Sifrà, Emor, cap. xvii; Succhà, 11b.
[564] Shabbath, 21b.
[565] Rosh Hasshanà, 18b; Taʼanith, 26. Fra questi due luoghi talmudici vi è un dissenso in quanto allʼapertura della breccia, il primo di essi dicendola avvenuta nel 9 invece che nel 17. È poi questo dissenso conciliato (Taʼanith, 28b), con la distinzione che nel 9 avvenne lʼapertura della breccia nelle guerre babilonesi, e nel 17 nelle guerre romane. Sarebbe però in ogni modo ad esaminarsi se la conciliazione è fondata sopra la verità dei fatti. Restò poi nel rito fissato il digiuno nel 17.
[566] Taʼanith, 10, 19.
[567] Babà Meziȁ, 53b e seg.
[568] Sifrà, xxvii, 21b, ʼArachin, 25b, secondo lʼopinione di Rabbì Jehudah, che è tenuta la prevalente, contro lʼopinione opposta di Rabbì Shimʼon (cfr. ʼErubin, 46b).
[569] ʼArachin, 28b.
[570] Luzzatto, commento in questo luogo; Knobel–Dillmann, Exodus und Leviticus, pag. 633 e seg.; Saalschütz, Das Mosaische Recht, cap. 44, § 2.
[571] Sifrà, xxvii, 29; ʼArachin, 6.
[572] Sifrà, ivi, 28, ʼArachin, 28a; Ghitin, 38b.
[573] Sifrà, xxvii, 28; ʼArachin, 28a.
[574] Sifré, e lʼIsaacita, Num., xxx, 4.
[575] Nedarim, 22b; Bechoroth, 36b, e seg.
[576] Quella che si teneva in un vasto recipiente allʼingresso del tempio per le abluzioni dei sacerdoti (Sifré, I, 10; Sotà, 82, Rosenmüller, Diodati, Knobel, e altri).
[577] Rosenmüller, Reuss; Michaelis, Mosaisches Recht, V, pag. 191; Saalschütz, Das Mosaische Recht, pag. 572.
[578] Sotà, 2 e seg.
[579] Sifré, I, § 21; Sotà, 28a.
[580] Sotà, 47a.
[581] Ibidem, 24a.
[582] Ibidem, 27.
[583] Ibidem, 23b, 26b, 27.
[584] Cfr. Sifré, i, § 115; Menaḣoth, 43b; Sotà, 17a; Ḣolin, 89a.
[585] Caro, Beth Joseph, i, 11; Buxtorfius, Synagoga Judaica, cap. ix.
[586] Caro, Shulḣan ‛Aruch, I. § 24; Buxtorfius, op. cit., l. c.
[587] Sifrà, in questo luogo; Sanhedrin, 55b e seg.
[588] Ricordiamo che nel primo del mese settimo ricorreva il capo dʼanno (v. pag. 363 e seg.), dimodochè dieci giorni dopo, si bandiva solennemente a suon di tromba, lʼanno del Giubileo.
[589] Il nome Giubileo, è derivato dallʼebraico Jobel, in varii modi interpretato; ma più probabilmente significa il suono della tuba, un suono di giubilo, con cui lʼanno cinquantesimo veniva bandito.
[590] Questi tre versi che abbiamo rinchiuso fra parentesi sono da tenersi una interpolazione fatta quando si volle tenere anche il cinquantesimo anno come sabbatico per cessare da ogni lavoro agricolo. Pare impossibile che a una prescrizione di difficilissima pratica, quale è quella di non coltivare le terre ogni settimo anno, si aggiungesse questo sommo assurdo di stare due anni di seguito senza coltivarle come si vorrebbe imporre nei versi 11, 12. A tale assurdo non si può esser giunti, se non per gradi. Si noti poi che il verso 13 è ripetizione di ciò che è già detto nel verso 10, e si vede essere stato aggiunto per riprendere lʼinterrotto filo dei concetti. Mentre i versi 14–16, 23 sono la continuazione immediata del verso 10, spiegando la pratica applicazione di ciò che ivi è enunciato come principio generale. Perciò anche i versi 17–22 sono da tenersi interpolazione aggiunta, quando si avvertì lʼassurdo della prescrizione dellʼanno sabbatico raddoppiato per peggio ogni cinquantʼanni col riposo anche nellʼanno del Giubileo, e si volle ovviarvi, ricorrendo, come si dice nel v. 21, alla miracolosa assistenza divina. Lʼipotesi che in questa legge del Giubileo vi sia la mano di più autori è di parecchi critici, e fra gli altri del Kayser (Das vorexilische Buch, pag. 75–77), e dellʼHorst (Leviticus XVII–XXVI und Ezechiel, pag. 27–30), ma differiscono in alcuni particolari. Non vediamo poi veruna ragione di supporre anche due autori diversi per questa e per la legge dellʼanno sabbatico, che sono fra loro così intimamente connesse.
[591] Farete in modo che le terre vendute si possano riscattare anche prima del Giubileo, come si spiega nel passo seguente.
[592] Sembra necessario di dover qui eseguire la lezione della Vulgata: si redemptae non fuerint, a preferenza di quella del testo ebraico, che non ha la negazione prima del verbo si riscatta, imperocchè questa lezione non da significato accettabile. Come potrebbe dirsi che escirebbe nel Giubileo ciò che già sarebbe riscattato? Per quanto antichi e moderni commentatori abbiamo tentato di dare un senso anche al testo ebraico, si cadrebbe sempre in sottigliezze poco sostenibili. Cfr. Ewald, Altherthümer, 3a ediz., pag. 498. Dillmann, Exodus und Leviticus, pag. 613 e seg. Reuss, LʼHistoire sainte et la Loi, II, pag. 172, n. 4.
[593] Sifrà, in questo luogo.
[594] A noi sembra che le parole pellegrino, ed abitante, si riferiscano al tuo fratello, e significhino non solo quello della tua città, ma anche quello che venisse di fuori come straniero o come abitante, giacchè è facile che il povero, il quale ha venduto la casa e la terra, vada ramingo a cercare di che vivere. I talmudisti hanno voluto intendere che il precetto di carità fosse esteso allo straniero, ancorchè non Israelita per nascita, ma divenuto proselita (Gher), o semplice abitante (Tosḣab), colla condizione di osservare i precetti noachidi di (v. Sifrà). Ma le due parole ebraiche ora citate hanno acquistato tale significato nella legislazione talmudica, non lʼavevano in quella scritturale.
[595] Sifrà, Behar Sinai, cap. 7; Mechiltà, Neziqin, § 1.
[596] Das Mosaische Recht, cap. 101, § 8.
[597] Mosaisches Recht, § 123.
[598] Mechiltà, Mishpatim, § 2 in fine; Qiddushin, 15 e seg.
[599] Sifrà, Behar Sinai, cap. 7; Qiddushin, 22a.
[600] Sifrà ivi; Qiddushin, ivi.
[601] Sifrà, Beḣuqqotai, cap. 7; Isaacita, sul Levitico, XXVI, 35. Cfr. 2o Cronache, xxxvi, 21.
[602] Del passo dello stesso Ezechiele xlvi, 17, già abbiamo sopra (pag. 321) parlato. Intorno al vii, 12, 13, dove alcuni vogliono vedere unʼallusione al Giubileo, è da riflettersi che, se fosse così, il non potere il venditore ritornare in possesso della cosa venduta non dovrebbe essere per lui ragione di non rattristarsi per aver venduto, come si farebbe dire al profeta, ma anzi cagione di maggior duolo. Dunque il profeta volle dire che il venditore non si dolesse di aver venduto, perchè non tornerebbe più nella terra dove erano i suoi possessi andati in mani di altri; ma resterebbe esule nel paese dove era stato deportato. (Cfr. Smend, 2a ediz., pag. 43).
[603] Sifrà, Behar Sinai, cap. 2; ʼArachin, 32b.
[604] Secondo una opinione registrata nel Talmud (Taànith 30b, Babà Bathrà, 121a), questa proibizione avrebbe dovuto valere soltanto per la prima partizione della terra promessa; ma quindʼinnanzi anche le figlie eredi avrebbero potuto contrarre matrimonio con uomini di differente tribù. È chiaro per sè stesso che questʼopinione è contraria non meno alla lettera che allo spirito della legge scritturale.
[605] Maimonide, Della eredità, i, § 5.
[606] Sifré, i, § 134, Babà Bathrà, 108, 110, 115.
[607] Babà Bathrà, 139b.
[608] Chethuboth, 50, 52b, 68.
[609] Babà Bathrà, 111b.
[610] Chethuboth, 52b, 103a.
[611] Babà Bathrà, 126, 130.
[612] Ibidem, Maimonide, Della eredità, vi, § 2.
[613] Babà Bathrà, 131a.
[614] LʼAlfasi, il Maimonide, lʼAsher, il Caro.
[615] Gans, Das Erbrecht in welt geschichtlicher Entwickelung, I, pag. 149–151, 170–175; Saalschütz, Das Mosaische Recht, pag. 826 e seg., e nota 1059.
[616] Babà Bathrà, 146b, 151b; Ghitin, 65b e seg.
[617] Babà Bathrà, 146b.
[618] Rashbam e i Tosafisti in Babà Bathrà, 135b; lʼIsaacita in Babà Meziȁ 19a, Mendelssohn, Ritualgesetze der Juden, 3a ediz., pag. 48, 49, 53; Thiel, Principia Jurisprudentiae judaicae per Germaniam communis, § 214.
[619] Babà Bathrà, 147b.
[620] De testamentifactione jure germanico.
[621] Sifré, i, § 160; Sanhedrin, 45b.
[622] Macchoth, 10a.
[623] Die Composition des Hexateuchs, xxii, pag. 423.
[624] Nel rito posteriore dellʼEbraismo si perdè lʼindole rurale della Pentecoste, che divenne una solennità del tutto teologica, perchè in essa si commemora la rivelazione del Decalogo, avvenuta in quel giorno secondo il Talmud (Shabbath, 86b; Mechiltà, Itrò, § 3).
[625] Hupfeld, De primitiva et vera Festorum apud Hebraeos ratione, II, pag. 3, 6, 7; Wellhausen, op. cit, pag. 432–435.
[626] Shabbath, 13b, Ḣaghigà, 12a, Menaḣoth, 45a.
[627] Ne riferiremo una sola per saggio. Se nel Pentateuco si prescrivono per il sacrifizio del novilunio due tori e sette agnelli, e presso Ezechiele invece un solo toro e sei agnelli, i talmudisti non si peritano ad insegnare con la maggiore serietà che il profeta ha voluto soltanto dire che, non potendo adempiere in tutto la prescrizione della legge, sarebbe stato accetto il sacrifizio anche adempiendola in parte (Menaḣoth, l. c.).
[628] Commento in Ezechiele, xlv, 22.
[629] Kuenen, The Religion of Israel, II, pag. 231–233; Graf, Die geschichtlichen Bücher d. A. T., pag. 71–75; Wellhausen, Geschichte Israels, pag. 421; Reuss, LʼHistoire sainte et la Loi, I, pag. 241; Die Geschichte d. heiligen Schriften A. T., § 378–380.
[630] Sanhedrin, 21b.
[631] Trattato Teologico–Politico, cap. viii.
[632] Kuenen, The Religion of Israel, II, pag. 45–49; Reuss, Die Geschichte d. heiligen Schriften, § 383–386; Smend, Ueber die Genesis des Judenthum. Zeitschrift f. d. alttestamentliche Wissenschaft, 1882, pag. 94–151.