The Project Gutenberg eBook of La plebe, parte II

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Title: La plebe, parte II

Author: Vittorio Bersezio

Release date: August 29, 2014 [eBook #46724]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PLEBE, PARTE II ***

LA
PLEBE

ROMANZO SOCIALE

DI

VITTORIO BERSEZIO


PARTE SECONDA


PROPRIETÀ LETTERARIA

TORINO,
PRESSO GIUS. FAVALE E COMP., EDITORI
1867.

[3]

PARTE SECONDA.

I Ricchi.

CAPITOLO I.

Ad un lembo estremo della città, verso il fiume, delle cui acque si serviva per forza motrice, siedeva la fiorente officina di lavori di ferro dei signori Giacomo Benda e comp.

Verso la strada, fiancheggiata dai viali di olmi che cingevano da ogni parte Torino, sorgeva la casa in cui abitavano la famiglia del principale ed alcuni dei primi capi-officina, de' quali due erano a parte, secondo una certa misura, nei guadagni dell'impresa.

Attraversato un cortile, nel cui mezzo eravi uno strato di erba ed alcuni alberi che nella bella stagione rallegravan la vista col verde delle loro fronde, trovavasi il vasto, oblungo, affumicato casamento in cui erano le varie officine che tutto il giorno mandavano per gli alti camini il denso fumo del coke e per le numerose e larghe finestrone l'incessante rumore del lavoro.

Alla destra di questo cortile stavano le rimesse ampie e ben costrutte, dove, insieme con i diversi carri necessari allo stabilimento pel trasporto delle merci, eranvi pure una modesta ma comoda carrozza per la famiglia, un elegante tilbury, che il ricco industriale aveva regalato al suo figliuolo avvocato, unico di maschi, ed una tromba idraulica, opportuna cautela pei casi d'incendio.

Di faccia si trovavano le scuderie, nelle quali, oltre i cavalli forti e robusti da attaccarsi ai carri di trasporto, facevano bella mostra di sè colle loro fine e svelte forme alcuni cavalli di prezzo che servivano al giovane avvocato da sella e pel tilbury.

Per ora non esamineremo la officina. Mentre noi ci intromettiamo in questi locali sono presto le quattro mattutine di una fredda notte d'inverno, in cui lenta ed abbondante fiocca sopra Torino la neve. Il casamento dei laboratorii dorme, per dir così, in una compiuta oscurità sotto la guardia di due mastini che, abbaiando ad ogni menomo rumore, girano per la neve, la quale copre il selciato del cortile. Avremo forse occasione di entrare colà dentro di poi per andarvi ad assistere ad alcune delle scene del nostro racconto.

Anche la casa di abitazione della famiglia Benda è avvolta nell'oscurità, eccetto che due fiochi raggi di luce filtrano da due finestre, trammezzo alle imposte rabbattute. Una di queste finestre è al pian terreno presso al portone, ed è quella della stanza del portinaio; l'altra è al piano superiore verso l'angolo della casa, a destra di chi vi accede.

Un giovane di belle forme avviluppato in un pastrano impellicciato viene pel viale verso la casa di cui ho detto. La sua andatura dinota in lui un forte turbamento morale. Ora cammina a passi speditissimi, come uomo cui preme giungere dov'è diretto; ora invece il suo piede si rallenta come di chi si reca in alcun luogo di troppo mala voglia; ed ora [4] si arresta del tutto tenendo le scarpine lucide da ballo, di cui è calzato, nella fredda umidità della neve senza punto badarci. Tronche parole ed esclamazioni gli escono tratto tratto dalle labbra frementi, a dinotare come una qualche soverchia passione gli occupi l'animo; e gesti violenti, quasi di minaccia, accompagnano le sue voci interrotte.

A seconda che egli si veniva avvicinando alla casa, le esitazioni parevano crescere. Chi gli fosse stato presso avrebbe potuto udirlo ad un punto pronunziare le seguenti parole, fissando il suo sguardo sulla casa che oramai gli si mostrava distintamente, anche nello scuro di quella notte invernale, fra le roste assecchite degli alberi:

— Potessi rientrare senza che mia madre mi udisse! Con qual fronte vederla? Come avere il coraggio di darle tranquillamente il saluto ed il bacio? Essa certo mi leggerà nel viso il mio turbamento; e che cosa dirle? Povera madre mia! Se sapesse la verità!.... E se mai domani mi succedesse disgrazia!....

Si fermò sui due piedi, sentendo la sua passione, che era un complesso di varii sentimenti, tutta fondersi in una potente commozione che gli mandava le lagrime agli occhi.

— Ella mi ama tanto!.... Ed anche mio padre!... Ah, se voglio aver coraggio, bisogna che non li veda.....

In quella vennero a ferirgli lo sguardo i due raggi di luce che partivano dalle finestre che ho detto.

Egli fissò i suoi occhi rimbamboliti su quella del primo piano, con una espressione d'immenso affetto. Era la finestra della camera di sua madre.

— La mi aspetta come sempre!.... S'io non sono rientrato in casa, la buona mamma non può riposar tranquilla..... E s'io non avessi da rientrar più mai?!...

Un brivido gli corse per tutto il corpo; stette un poco immobile ove si trovava, come senza risoluzione di sorta; poi si passò le mani sulla faccia quasi per condurre l'usata calma sui suoi lineamenti conturbati, e disse seco stesso:

— Andiamo; farò di tutto per non farmi sentire, e s'ella pure mi ode, allora, viso fermo, e metterò l'espressione della mia fisionomia in conto della stanchezza, del sonno e d'una leggiera indisposizione.

Camminò risolutamente verso la casa; giunto al portone, trasse fuori di tasca la chiave ed aprì con ogni maggior cautela per non far rumore, quindi per lo sportello s'intromise chetamente; ma i cani abbaiarono ed il portiere che vegliava si mosse.

— Chi va là? Gridò egli con voce stentorea dall'interno della sua stanza che si trovava a destra del portone, e tosto dopo la sua grande e grossa persona comparve sul passo dell'uscio, tutto avvolta in un vecchio, lungo pastranone, con una lucerna da una mano ed un buon randello dall'altra.

— Zitto Bastiano: disse il giovane entrato, nel riconoscere il quale i cani già si erano acchetati e gli facevano festa; non far rumore, sono io.

— Che? Gli è Lei sor avvocato? A piedi e tutto solo! E la carrozza?

— Ah! la carrozza..... Esclamò il giovane, come ricordandosi allora di cosa che avesse affatto dimenticata. L'ho lasciata là in piazza ad aspettarmi. Avevo bisogno di prender aria, e son venuto a piedi.

— Biagio non sa dunque niente ch'Ella sia qui?... Ed è capace di star là fino a mezzogiorno.

— È vero..... Povero Biagio! Disse il giovane con tono di rincrescimento. Sì che la notte è fredda! Non ci ho pensato..... Vuoi farmi un piacere Bastiano?

— Comandi.

— Corri in Piazza S. Carlo e cerca di quel povero diavolo: digli come io sia già rientrato e fallo venire a casa.

— Subito.

— Mi rincresce farti prendere questo freddo...

— Che? La mi burla. Tanto tanto ero deciso di star su tutta notte per aspettar che la carrozza rientrasse affine di aprire il portone. Correrò per la strada e mi scalderà ancor di più che non a stare accoccolato presso il mio caminetto.

— Da bravo!... E per iscalducciarti di meglio, to' qualche cosa da berne un bicchierino.

Pose in mano del portinaio che riluttava un bello scudo d'argento.

— Ma no: esclamava Bastiano. Si figuri se gli occorre, sor Francesco.... Sor avvocato, voglio dire.

— Chiamami pure semplicemente Francesco; mi è più caro.....

— O sor Francesco, o sor avvocato, per Lei, come per tutta la sua famiglia, già lo sa, io mi getterei nel fuoco al menomo cenno, altro che andare a scalpitare un po' di neve.....

E voleva respingere ancora la moneta che il padroncino lo costrinse a ritenere.

— Come la vuole, e grazie mille. Vado a farle lume su per la scala e poi corro laggiù.

— Vai, vai pure. Io monterò su per la scaletta piano piano, e su nella stanza di passaggio troverò preparato lume e zolfini.

Il portinaio entrò nella sua loggia, depose la lanterna, si calcò in testa un cappellaccio e tirato su il bavero del suo pastranone, una pipa accesa in bocca, il suo buon randello in mano, uscì del portone e chiuso dietro sè lo sportello con un colpo che rimbombò per tutta la casa.

— Il grossolano! Borbottò fra i denti Francesco, che con passo leggerissimo saliva su della scaletta di servizio, cercando di fare il meno rumore che si potesse. Se mia madre non mi avesse udito entrare, ecco che questo fracasso la mette in sull'avviso, od [5] almeno nella curiosità di sapere chi sia venuto. Come fare a sottrarmi alla sua vista?

Seguitò a salire colle stesse cautele. Quando fu sul pianerottolo, benchè fosse scuro, andò, pratico qual egli era, ad una mensola appoggiata alla parete in un angolo, e vi prese il lume che si trovava colà preparato secondo suo ordine, non volendo egli che nessuno dei servi stesse a vegliare per lui. Ma nel punto ch'egli era per soffregare il fiammifero, udì nell'interno dell'appartamento una porta e poi un'altra, che s'aprivano pianamente, e un passo lievissimo che veniva a quella volta. Il sangue gli diede un rimescolo.

— Ecco mia madre! Diss'egli restando lì collo zolfino dall'una mano e colla candela dall'altra, senza più muovere.

Pensò di fuggirsene cheto cheto allo scuro per non lasciarsi cogliere a quel posto; ma poi subito avvisò che la madre, poichè dubitava che fosse il figliuolo quello che era entrato, sarebbe andata a cercare di lui anche nelle camere che gli servivano da quartiere. E poi, ove anche si fosse allora sottratto alla vista di lei, la povera madre, credendolo non ancora venuto, avrebbe continuato a vegliare aspettandolo, e quando la carrozza sarebbe giunta che inquietudine per essa a sapere che la era tornata vuota, che il figliuolo avrebbe già dovuto essere in casa, ed ella non l'aveva visto, ed egli non erasi recato, come n'aveva l'abitudine, a darle il bacio del ritorno! Decise di affrontare il pericolo. L'uscio da cui s'era sentito venire il rumore di passi, prima che Francesco avesse acceso il lume, si aprì, e comparve una donna che recava un candeliere. Ma, non avendo essa riparata colla mano la fiammella della candela, il buffo dell'aria fredda che dal pianerottolo, per il battente aperto, si gettò nell'appartamento, glie la spense nell'atto medesimo che la donna si affacciava all'uscio.

In quel fugacissimo istante in cui la candela accesa aveva gettato il suo chiarore nel pianerottolo, prima di spegnersi, la madre aveva travisto dritta in mezzo alla stanza l'ombra d'un uomo. Camminò verso quella parte colle mani tese innanzi a sè, come per afferrare quella diletta persona.

— Sei tu Francesco? Diss'ella.

Il giovane esitò un momentino. Si rallegrò quasi che intanto la madre non potesse scorgerne subito i tratti del viso, e stette un poco per preparare la sua voce ad una calma tale che nulla nulla lasciasse sospettare.

Ma la donna non ottenendo così tosto risposta, ridomandò più sollecita ancora:

— Sei tu?

Francesco si sforzò di dare alla sua voce un accento scherzoso:

— No, mamma, non sono io, sono un ladro.

La madre era arrivata a toccarne i panni. Lo strinse fra le sue braccia e lo baciò con ardore:

— Cattivo! Diss'ella. Ve' come sei tutto bagnato, e come son fredde le tue guancie!.... Ora capisco perchè non ho sentito entrar la carrozza. Tu sei venuto a piedi? Ma che pazzia la è codesta! A rischio di pigliarti una costipazione....

— Oibò!.... Anzi uscendo dall'ambiente soffocante del ballo, avevo bisogno di prendere un po' d'aria.

— Baie! baie! Colà dentro un caldo da fondere e fuori un freddo da gelare.... Roba da restar lì proprio come un sorbetto!... Ed io che ti tengo qui in novelle, allo scuro ed all'aria ghiaccia della notte!... Vieni, vieni meco nella mia stanza che ci ho acceso un bel fuoco a cui potrai scaldarti. L'ho fatto accendere, il fuoco, anche nella tua camera, e ci sono andata io stessa parecchie volte a tenerlo su animato; ma poichè ti ho colto lì in sull'entrare, mi è più caro che tu venga a riscaldarti al mio camino. Ci ho costì una cuccuma di caffè che ti aspetta ed un pentolino di brodo: tu piglierai quello che più ti talenta.

E così dicendo, l'amorosa madre aveva preso per la mano il suo Francesco e l'aveva seco tratto nella propria camera, facendogli attraversare, prima un corridoio, poi una specie d'anticamera, quindi una stanza da mangiare ed una sala.

Nella camera da letto della madre splendeva entro il camino allegramente il fuoco vivace, e sopra un tavolino da lavoro, presso il camino medesimo, una lampada col coprilume mandava quel mite chiarore di cui alcuni raggi trapelando pei cristalli della finestra, erano stati visti da Francesco al di fuori.

Questa camera, chi sapesse osservarla, era tutta una manifestazione del carattere e delle condizioni di chi l'abitava. La ricchezza dei mobili e degli arredi cominciava per dire la prosperità delle fortune; ma l'assembramento di cose disparate e una certa mancanza di gusto nell'assortire le varie parti della masserizia, mostravano che l'abitudine di godere dei vantaggi e delle sontuosità della ricchezza non era da lungo tempo acquistata, non era uguale a quella di chi è nato in essa dopo varie generazioni di suoi maggiori che già ne fruivano, e si è allevato, come nel suo ambiente naturale, in mezzo agli sfarzi ed agli sbarbagli delle eleganze sociali. A canto a mobili di prezzo costosissimo, adorni di intarsiature di legni di valore e di fregi di bronzo dorato, vedevansi arnesi ed utensili di domestico uso, rozzi e volgari, un arcolaio, un aspo, una rocca sul filatoio con suvvi il pennecchio, una cesta comune di vimini con dentrovi pannolini alla rinfusa da cucire, un cuscinetto per lavoro da pochi quattrini, uno scaldino da piedi logoro e di forma antiquata; poi appiccata alla parete, sopra il letto, fra gli arazzi dell'elegante cortinaggio, l'incisione grossolana d'una immagine miracolosa di Madonna e un acquasantino di cristallo con una palma ed [6] un rosario a grani di legno. Nella parete in faccia al letto, in una brillante cornice rindorata di fresco un ritratto d'uomo di età matura, che è quello del marito, ai due lati due altri ritratti d'un bambino e d'una bambina, che erano del figliuolo Francesco e della figliuola Maria quando ancora in età infantile. Questi ritratti lucevano di molto per vernice e colori, ma chiamarli opere d'arte era un adularli soverchiamente; pur tuttavia alla buona madre, che di arte non se ne intendeva e non si curava nulla, erano le cose più care del mondo. In questi oggetti era tutta rappresentata la storia di quella eccellente creatura: la storia e gli affetti. Questi si concentravano tutti nella famiglia, quella si contava in due parole.

Era nata nella povera, onestissima famiglia d'un impiegato. Doveva, pel decoro, tenere le apparenze da madamigella, ed era più povera d'un'operaia: portava il cappellino e la veste di mussolina la domenica, e molte volte non aveva nè anco pane asciutto a colezione. Non aveva imparato di nulla che importasse oltre i lavori femminili: nè storia, nè geografia, nè manco la propria lingua; appena era se sapeva scrivere senza troppo rispetto all'ortografia ed alla sintassi, ma aveva preso per due mesi lezioni di danza le quali non le avevano fatto imparare che a far la riverenza con tutte le regole dell'arte. Era però instancabile nel lavoro: tutti i punti di cucito che v'era da dare per la numerosa famiglia erano dati dalla sua mano alacre e sempre in moto; lei filare, lei far calze, lei stirare, lei rammendare, lei tutto. Era la più virtuosa delle ragazze senza spirito; e non era brutta. Si meritava la felice sorte d'un buon matrimonio, e l'azzardo, che non è sempre ingiusto, glie lo fece ottenere. Un amico comune mise in relazione la famiglia dell'impiegato e il signor Giacomo Benda, scapolo oramai in sulla maturanza degli anni, al quale l'età crescente cominciava a rendere uggiosa la vita da solo, faticoso il lavoro ed arida l'occupazione di guadagnar denaro soltanto per sè. Il signor Benda, non più giovane, ma non vecchio ancora, onestissimo e ricco, era il partito il più lusinghiero che potesse desiderarsi per madamigella Teresa e per la sua famiglia. Figuratevi se fu accettato! La fortunata madama Benda si trovò dall'oggi al domani ricca sfondolata; e non salì in superbia, e non si piacque dello spendere a capriccio e fuor di luogo, e non volle procurarsi tutti i sollazzi che dà il mondo in cambio di denari, sollazzi dai quali ella era stata scevra sino allora.

Fu madre, ed il marito e i due figliuoli (Francesco e Maria) che n'ebbe, occuparono tutto il suo cuore. Aveva presa l'abitudine di lavorar molto, e non la smise. Poteva servirsi dell'opera di quante fanti e mercenarie volesse; preferiva far tutto colle sue mani, e cuciva ancora, e stirava, e faceva calze, e filava persino, come prima. Le cose fatte da sè trovava meglio fatte ed erano più presto compite: ed aveva ogni ragione, e del suo parere erano anche gli altri, suo marito pel primo, al quale rincresceva sì alquanto di veder sua moglie lavorare come una proletaria o poco meno, e ne la rampognava di belle volte, ma che intanto non trovava mai le cose ammodo se donna Teresa non ci aveva posto mano. Aveva molta religione: la religione delle donnicciuole e degli animi pusilli è vero, la religione un po' idolatra delle minutezze del culto esteriore; ma anche in codesto le impedivano di essere gretta e intollerante, due cose: la profonda bontà dell'animo e l'amoroso rispetto che aveva pel marito un po' libero pensatore. Come aveva continuato a levarsi la mattina all'alba ed a lavorare della guisa che faceva quando era povera, così aveva continuato a prestare poca attenzione al suo vestire. Altrettanto ci teneva che la sua figliuola Maria fosse elegante, altrettanto si dava poco pensiero di sè; e doveva essere la figlia, o il figliuolo, o il marito a costringerla di vestire nelle volute circostanze secondo le condizioni della famiglia. Ora che ci viene innanzi, ella ci appare avvolta a bardosso d'una guarnacca scura, con suvvi un giaco di grosso panno ed al collo un fazzoletto di cotone male attorcigliato, così che, in vece della signora del luogo, uom la prenderebbe facilmente per l'ultima delle fanti della casa.

La signora Teresa, appena entrata in istanza, si affrettò a levare dalle spalle del figliuolo l'umido pastrano, e traendolo amorosamente verso una poltrona che si trovava in faccia al fuoco divampante, ve lo fece sedere.

— Costì: diss'ella, e rasciugati un po' i piedi a questa bella fiamma. Ve' che giudizio, per un tempaccio simile far sì lunga strada a piedi con di scarpe come queste, sottili come una pellicola d'aglio.

E Francesco di rimbalzo, sforzandosi sempre a parer gaio e scherzoso:

— E ve' da parte tua, mamma, che giudizio a star levata tutta notte a questa stagione, per che cosa? Per aspettare un figliuolo che non ha più i lattaiuoli e il quale s'è andato a divertire.

— Oh! io, la è un altro paio di maniche... Prima di tutto io non posso fare diversamente..... Che cosa varrebbe che mi mettessi a letto? Tanto e tanto nè potrei chiuder occhio, nè manco starmene ferma e tranquilla. Che cosa vuoi? Le son cose che le capisce soltanto una madre. Finchè tutti quelli della mia piccola famiglia, non sono rientrati nel nostro domestico tetto; finchè non li so tranquillamente coricati tutti, io non posso aver quiete. È una cosa puerile, assurda, tutto quello che vuoi; ma mille paure mi assalgono. Mi pare che qualche brutto avvenimento li può cogliere; che la disgrazia può approfittarsi di ciò che non siamo uniti per piombare addosso a quello che manca.

[7] Queste parole della madre erano troppo corrispondenti alla verità del caso avvenuto a Francesco, cui egli voleva ad ogni patto nascondere alla povera donna, perchè il giovane non fosse assalito da una subita dolorosa emozione. Si volse in là per nascondere alla madre il turbamento della sua faccia, ma tanto non potè reprimere il suo affanno che un doloroso sospiro non gli uscisse dalle labbra.

Alla signora Teresa non isfuggì questo sospiro.

— Che cos'hai? diss'ella vivacemente, levando la testa e lo sguardo sul volto del figliuolo.

— Io?.... Nulla. Che cosa vuoi che abbia? Sono stanco, assonnato..... To', poichè vedo la cuccuma lì, prenderei volentieri un po' di caffè.

Il coprilume della lampada impediva che sul volto di Francesco percotesse tanta luce da distinguerne la pallidezza; poi la buona donna, volendo affrettarsi a soddisfare il desiderio del figliuolo, si precipitò verso il camino a mettere la polvere del caffè nella cuccuma in cui l'acqua bolliva. Per quella volta il giovane ottenne ancora il suo intento.

— Ti sei tu ben divertito a codesta festa? domandava intanto la madre, curva sul fuoco, curando che il caffè bollisse a dovere senza traboccar nelle ceneri.

— Sì, sì, molto: rispose Francesco, cercando sempre di dare alla voce il suo tono naturale.

— C'era molta gente, non è vero? E che lusso neh? Ci saranno state tutte le belle signore di Torino.

— Sicuro.... Una confusione di gente da non poter trovar luogo nè da stare, nè da respirare.

— A proposito di bellezze, c'era ella quella nobilissima signorina che fu compagna di Maria nel poco tempo che tua sorella stette nel convitto del Sacro Cuore, madamigella?... Com'è già che si chiama?

Francesco ebbe una lieve contrazione del viso che indicava quanto quella domanda lo turbasse: non ebbe forza a rispondere di subito. La madre, credendo che il figliuolo non avesse compreso di chi ella voleva parlare, si volse indietro del capo, mentre seguitava a star curva presso il fuoco e soggiunse:

— Sai bene quel fior di bellezza, la nipote del marchese di Baldissero?

Francesco fece uno sforzo su se medesimo, e rispose come se gli si parlasse d'una cosa indifferente.

— Sì, sì: madamigella Virginia di Castelletto. La ci era.... — Si fermò un istante e gli sfuggì un lieve sospiro, poi soggiunse: — .... E più bella che mai.

La madre si alzò colla caffettiera in mano, versò in una chicchera il liquido fumante, e messovi dentro lo zucchero, venne presso al giovane agitando il cucchiarino.

— To', Cecchino, e dimmi se l'ho saputo fare al solito secondo il tuo gusto.

— Eccellentissimo: disse il figliuolo, appena ne ebbe preso un sorso: eccellentissimo come sempre.

Bevette, poi rimise la tazza nelle mani della madre; mentre questa andò a riporla sopra la tavola di marmo d'una mensola, Francesco s'alzò da sedere, si passò la mano sulla fronte, ed afferrato il suo mantello, se lo gettò sull'avanbraccio sinistro.

— Addio mamma, diss'egli, mettiti a letto e fa di dormir bene.

— Vai già? Domandò la signora Teresa che, posata in fretta la tazza, si volse vivacemente verso il figliuolo.

— Sono stanco, ho bisogno di riposare ancor io.... Dàmmi un bacio, mamma.

Nel dire queste parole, la voce del giovane tremò un pochino. Teresa se ne accorse, fe' rattamente saltar via di sopra la lampada il coprilume e d'un balzo fu presso il figliuolo, le sue mani sulle spalle di lui, il volto innanzi al volto, gli occhi entro gli occhi. Vide allora il pallore di Francesco, vide i tratti accusare un turbamento interno che invano e' si sforzava nascondere, vide la nube di mestizia che ne copriva la bella fronte, ordinariamente così serena, seggio della sincerità.

— Tu hai qualche cosa, Francesco? Di certo t'è capitato alcun che? Oh che cos'hai?

Il giovane scosse il capo in segno negativo, non fidandosi abbastanza della fermezza della sua voce.

— Forse non ti senti bene?

Francesco avvisò che fra i motivi d'inquietudine per la buona madre, questo della salute era ancora minore d'assai di quello che sarebbe stato il conoscere la verità, e tostamente si decise di accettare la scappatoia che così gli veniva offerta.

— Gli è ciò: diss'egli. Non mi sento del tutto bene... Ma l'è una cosa da nulla, si affrettò a soggiungere. Il gran caldo di quelle sale, la luce soverchia, i profumi mi hanno dato un po' alla testa.

— Santa Madonna della Consolata! Esclamò la buona madre tutto già l'animo sottosopra. Ecco! Hai voluto venirne a piedi, ti sarai presa una costipazione.....

— Ma no, ma no...

— Ed io che invece di lasciarti andare subito a coricare ti tengo qui!... Presto presto che prendo lo scaldaletto e ti vado a metter sotto le coltri.

Il figliuolo volle dissentire, pregò la madre di rimanersi nella camera sua e di non farne nulla; ma ogni sua parola fu inutile, Teresa pose nello scaldaletto tutta la bragia che c'era nel suo camino, spinse Francesco nella camera ove dormiva, lo sollecitò aiutandolo a spogliarsi, e non lo lasciò più, finchè non lo vide colle coltri fin sopra le orecchie.

Prima di ritirarsi, e Francesco la pregava di andare a letto ancor essa senza ritardo, ch'egli si sentiva un gran sonno, Teresa depose un bacio amorosissimo sulla fronte del figliuolo, e gli disse:

[8] — Dormi bene; se hai bisogno di qualche cosa, suona che io sarò qui subito.

— Sì, sì, grazie; ma non avrò bisogno di nulla. Dormi bene anche tu mamma. Fra poche ore sarò guarito.

La madre uscì su queste parole.

Francesco le tenne dietro collo sguardo pieno di amore, e quando essa ebbe chiuso l'uscio alle sue spalle il giovane sorse a sedere sul letto.

— Fra poche ore: diss'egli. Chi sa che cosa sarà di me?

Stette così un poco, immobile, sovrappreso dal tristo pensiero, poi sentendosi intirizzire dal freddo della notte, si riscosse, saltò giù dal letto ed acceso un lume si vestì di fretta. In quel punto rientrava la carrozza ch'egli aveva mandato a cercare dal portiere. Francesco guardò l'ora: erano le cinque meno un quarto.

— Ho più di due ore per provvedere alle mie cose: diss'egli.

Sedette alla sua scrivania e scrisse due lettere, una per suo padre, l'altra per la madre. S'interruppe assai volte nell'opera sotto l'assalto d'una profonda emozione. Chiese loro con calda supplicazione perdono del dolore che avrebbe cagionato, se egli fosse stato soccombente nel duello a cui stava per recarsi; il pensiero di questo dolore essergli amarissimo, disse, ed avrebbe egli in quel punto dato qualunque cosa per loro poterlo risparmiare, ma al triste passo essere indotto da ineluttabile necessità, a cui senza disdoro non avrebbe potuto sottrarsi: villanamente insultato da un prepotente, sarebbe stato indegno d'esser loro figliuolo, di portare il nome onorato di suo padre, se non avesse propulsato l'iniquo oltraggio. Nella lotta a cui stava per recarsi e cui certo avrebbero condannato i sentimenti religiosi di sua madre, evidentemente lo assisteva la ragione, e Iddio pietoso non l'avrebbe abbandonato.

Quando ebbe finite queste lettere rimase alquanto col capo reclinato e chiuso fra le palme delle mani, i gomiti appoggiati alla tavola. Una maggior tranquillità entrò in lui. Pensò che al cimento nè la sua mano, nè la sua voce non dovevano tremare; bagnò d'acqua fresca un tovagliolo e si inumidì la fronte e le tempia; si atteggiò innanzi allo specchio per provarci l'aspetto e le mosse che avrebbe dovuto avere in presenza dell'avversario; impugnò una pistola e tolse di mira l'immagine sua entro la lucida lastra, per avvezzarsi a guardar freddamente la bocca nera dell'arma rivolta minacciosamente verso la sua testa; poi sorrise di sè, gettò la pistola sul letto e passeggiò un poco per la stanza con piede riguardoso, a capo chino. Ad un punto gli parve udire un lieve rumore nelle camere vicine; il suo cuore gli fece indovinare ratto che cosa fosse; fu d'un balzo presso il lume e lo spense; poi stette immobile, trattenendo il fiato, ma col cuore che gli batteva. Era la buona madre inquieta, che veniva con passo leggiero ad origliare all'uscio se il diletto figliuolo dormisse. Teresa socchiuse la porta ed ascoltò attentamente un istante; non vide nulla nell'oscurità della stanza, non udì il menomo rumore; esitò un momento, vogliosa di accostarsi al letto del figliuolo e vederlo, timorosa di turbargli il sonno salutare; vinse il timore e la si allontanò chetamente come la era venuta.

— Quanto mi ama! Esclamò Francesco, giungendo le mani con un fervido accesso di riconoscenza. Povera madre mia!

Pochi momenti dopo il giovane vestì il pastrano, si pose in testa il cappello e pigliate le due lettere che aveva scritte, discese con passo guardingo nel cortile, passando per la medesima scaletta per cui era salito. Nell'officina, nelle scuderie, nella casa, tutto era ancora chiuso, scuro e muto. Francesco picchiò all'uscio della loggia del portiere e chiamò a voce contenuta ma vibrata:

— Bastiano!

Il grosso uomo che abbiamo già veduto non tardò a rispondere all'appello, e venne fuori avvolto nel suo pastranone.

— Fa il piacere, gli disse il giovane, apri lo sportello. Ci devono venire due amici a cercarmi e non voglio che abbiano a picchiare.

Bastiano obbedì senza la menoma osservazione, quantunque trovasse strana la venuta di visitatori sì mattinieri. Francesco fece avvivare il fuoco nella stanza del portinaio e sedutosi presso il camino stette aspettando. Il portiere notò la preoccupazione del giovane, ma non osò interrogarlo. Il sospetto però che qualche cosa di disaggradevole fosse avvenuto o minacciasse di avvenire al padroncino lo assalse. Suonavano le sette all'orologio dell'officina, quando una carrozza si fermò sul viale dirimpetto al portone della casa, e tosto dopo il dottor Quercia entrava nell'andito dove Bastiano, mandatovi dal padrone, stava col lume in mano per guidarlo nel camerino in cui Francesco aspettava.

Non ebbero ad attendere gran tempo che giunse correndo Giovanni Selva.

— Andiamo: disse Francesco alzandosi con risoluzione.

— Ho pensato di venire colla mia carrozza: disse Gian-Luigi; e credo che la ci può servire.

— Avete fatto benissimo.

I tre giovani uscirono. Bastiano era lì sul passo dell'uscio, col lume in mano, irrequieto, dubbioso, con ansiosa curiosità. Francesco, passandogli innanzi, prese a quel brav'uomo una mano e glie la strinse.

— Addio Bastiano: gli disse con accento in cui c'era più affetto che non nelle occasioni ordinarie.

Il vecchio e fidato servitore sentì un certo rimescolo, che gli parve un funesto presentimento. Volle parlare e non seppe che cosa dire; volle trattenere [9] il padroncino e non osò; stette lì intento a guardarlo mentre attraversava le file degli alberi del viale e saliva coi suoi due compagni nella carrozza. Questa era già partita, e il buon Bastiano era ancora là piantato.

— Mah! Diss'egli poi togliendosi da quel luogo e crollando la testa: tutto ciò mi ha un'aria grandemente sospetta.

Una pallida luce incominciava a diffondersi pel grigiastro orizzonte e su per la campagna coperta di neve: questa cadeva tuttavia a lenti fiocchi e tutto era silenzioso come la tomba.

L'ombra d'un uomo, che nessuno aveva scorto, si staccò da una pianta dietro cui si nascondeva; fece alcuni passi sollecitamente per il viale, e mandò un fischio: due altre ombre si staccarono dai tronchi degli alberi, e vennero a raggiungere quella prima; queste due ultime avevano la montura di carabiniere.

— Al cimitero: disse vibratamente, con accento di comando, il primo di questi individui colà appiattati: correte.

I carabinieri non aspettarono altro, e presero la corsa nella direzione medesima per cui s'era avviata la carrozza.

E diffatti queste medesime parole — Al cimitero — aveva dette il dottor Quercia al cocchiere, salendo l'ultimo nel suo legno; poichè infatti colà era stato fissato il ritrovo ed il luogo pel duello che doveva aver luogo quella mattina fra il marchesino di Baldissero e l'avvocato Francesco Benda.

Quest'ultimo, in carrozza, affidò a Giovanni Selva le lettere che aveva preparate per suo padre e sua madre, da consegnarsi loro quando a lui toccasse la peggior sorte; Luigi Quercia diede alcune istruzioni ed ammonimenti a Francesco intorno al modo di governarsi sul terreno: e venti minuti non erano trascorsi da che avevano abbandonato la casa Benda, quando le grigie muraglie del Campo Santo e gli alti filari de' pioppi nudi di foglie apparvero agli occhi del dottore, che stava guardando traverso i cristalli.

— Ferma: gridò egli al cocchiere.

I tre giovani scesero di carrozza.

— Gli è qui che ci dobbiamo incontrare cogli avversarii; disse Quercia, mostrando il viale che conduce all'ingresso principale del Campo Santo. Siamo noi i primi al convegno, e non me ne dispiace.

Diffatti non c'era anima viva in quel luogo, e Francesco e i suoi padrini si diedero a passeggiare, aspettando, sulla neve che copriva tutta la strada.

CAPITOLO II.

Poco tempo dopo la uscita di Francesco, l'officina Benda era tutta in moto, e si svegliava altresì la casa del proprietario di essa. Gli operai avevano cominciato il lavoro, i tanti rumori delle diverse opere s'intrecciavano e si confondevano in un rumor solo, gli alti camini de' fornelli fumavano, le fiamme delle fucine si curvavano e strepitavano candidissime al vento de' mantici che soffiavano con pesante raucedine, la voce sonora d'alcuni lavoratori accompagnava col canto il batter de' martelli sulle incudini, e su tutto questo seguitava a cadere lenta lenta a larghe falde la neve.

Il signor Giacomo, il principale, secondo il solito è sceso un dei primi nell'officina a dare gli ordini opportuni, a curare l'avviamento de' lavori, a provvedere con intelligente prontezza intorno a quanto occorra per la mattinata. È un uomo che passa i sessant'anni, ma forte e robusto. La razza laboriosa e dura alle fatiche a cui appartiene, lo stampo dell'uomo nato pel lavoro manuale che fu quello dei suoi maggiori, si scorgono ancora in lui, mentre nel figliuolo, che ha il vantaggio di costituire già una terza generazione in quella famiglia di agiati, la cui ricchezza cominciò coll'opera dell'avolo, nel figliuolo, dico, quello stampo e l'indizio della razza di proletario sono quasi affatto scomparsi. Giacomo, giovane, lavorò ancora materialmente e indefessamente sotto la vigilanza di suo padre che non era stato tuttavia assalito dalla malattia moderna dell'ambizione di imbrancarsi ad una più alta sfera sociale che la sua non fosse. L'abitudine dell'operosità aveva in Giacomo lasciato svolgere molti de' germi fisici e morali della sua natura originaria d'operaio: nel figliuolo invece, l'educazione signorile e il frequentare la classe oziosa ed elegante, hanno con un ambiente diverso prodotto altri gusti, altre qualità, altre tendenze, quasi direi, altre forme esteriori altresì.

Giacomo è piuttosto basso di statura, grosso e tarchiato, ha una testa voluminosa, colla fronte bassa e quadrata, e con una folta ed arruffata capigliatura tutto grigia. Nel volto ha il colore acceso dei temperamenti sanguigni, e l'aria franca e decisa d'un'indole generosa e d'un carattere fermo; la forza della volontà gli si appalesa nello sguardo sicuro, nelle linee nette ma non dure della bocca facilmente dischiusa al riso. Cammina quasi sempre affrettato, come uomo spinto da premurose bisogne, le spalle rotonde, il passo pesante, le mani in tasca. Parla piuttosto volentieri, e, quando discorre della sua industria, come di cosa che conosce a perfezione, parla con una certa caldezza ed evidenza che non tornano disgradite; ma pur troppo non sa nulla più in là delle cose del suo mestiere, e discorsi di arte, letteratura e politica lo fanno sbadigliare. Veste ricchi panci senza affettazione, anzi senza eleganza affatto: e le sue mani corte, tozze, rugose, di color bruno, colle dita a punte quadrate, sono irreconciliabili nemiche coi guanti.

Quella mattina in cui Francesco andò a battersi col marchesino di Baldissero, adunque, il sig. Giacomo, [10] fatta la sua solita comparsa e il suo solito giro nell'officina, attraversava il cortile per rientrarsene in casa, quando, alzato il viso vide dietro i cristalli d'una finestra l'allegra faccia color di rosa d'una fanciulla sorridergli amorosamente con cenno di saluto. Era sua figlia Maria, che, saltata giù allor allora dal letto, tutto arruffata ancora le sue abbondevoli chiome di color castano, veniva a contemplare il cader della neve coi suoi grandi occhioni neri pieni di dolcezza e di giovanile allegria. La sorella di Francesco non avrebbe potuto essere esaltata come un tipo di bellezza. Le irregolarità delle sue fattezze erano troppe in faccia alla severa esigenza delle regole estetiche. Nulla di men greco della sua fronte un po' sporgente, del suo naso capriccioso, della sua bocca troppo larga, de' suoi occhi troppo grandi; ma questa unione di difetti formava un complesso graziosissimo a vedersi, a cui davano una simpatica piacevolezza la liscia e rosata carnagione, il fiore della gioventù, un'espressione indicibile di lieto umore e di bontà. Maria era la vivacità incarnata della casa, e suo padre soleva chiamarla l'uccello della famiglia; che infatti il suo frugolo e leggero correr di qua e di là, e il suo allegro chiaccherare imperlato di risa poteva paragonarsi al saltellare ed al cinguettìo d'un augelletto.

Vedendo suo padre traversare il cortile sotto il fioccar della neve, Maria non si contentò di salutarlo col moto del capo e col sorriso; aprì vivamente le invetrate e porse in fuori alla fredda brezza di quella mattinata invernale il suo visino color delle rose e le sue labbra color delle ciliegie.

— Buon giorno, papalino: gridò essa coll'accento petulantello d'un beniamino: hai dormito bene?

Giacomo volle corrugare la sua fronte bassa per darsi un'aria di severità e di malumore, cui non riuscì a prendere.

— Sei matta? Esclamò egli colla sua voce robusta. Vuoi prenderti un raffreddore? Aprir la finestra ed esporsi all'aria con questa temperatura! Dentro subito e chiudi più che in fretta.

La capricciosa ragazza scosse vezzosamente la testa da cui piovevano in disordine le sue treccie ricchissime.

— Oibò! Sai bene, papà, che io non patisco nulla..... Guarda la bella neve che vien giù!.... È un piacere il vederla..... Com'è tutto bellamente bianco, pulito! Si direbbe che la natura ha fatto il bucato ed ha steso sulla terra le lenzuola..... To' aspettami un momento, babbo; salto giù e vengo teco a scalpitarne un poco di quella bella neve che nessuno ancora ha toccato. Voglio mangiarne una bella manciata. A me mi piace tanto mangiar la neve!

E prima che il padre avesse tempo a dire pure una parola, Maria aveva richiuso le invetrate ed era sparita dalla finestra; ed un minuto dopo, per la scaletta da cui abbiam visto passar Francesco, la si precipitava saltellando nel cortile, coperto il capo da un cappuccio, avvolte le spalle in un mantelletto.

Fu in un balzo presso il padre che voleva rampognare e non poteva che sorridere.

— Ah! non far nemmanco mostra di sgridarmi, chè già non ne hai voglia: diss'ella gettando le sue braccia al collo del padre e baciandolo sonoramente sulle due guancie. Vedi! A me questo po' di aria libera mi fa bene.

— Avviluppati, se non altro, con più cura, disse Giacomo, serrando egli stesso i lembi del mantello al petto della figliuola. Sei tu almeno calzata a dovere?

— Altro che! Esclamò la ragazza trionfante, e colle due mani sollevando alquanto la sottana, mostrò sotto i lembi di essa, tendendo il suo piedino destro, uno stivaletto di cuoio colla pelliccia. Guarda! Potrei viaggiare per tutte le nevi della Siberia.

E tenendo così sollevate le vesti, la bricconcella, corse senz'altro nel mezzo del cortile, dove la neve era più alta, affondando in essa fin quasi alla caviglia: i due cani di guardia imitarono l'esempio della giovane padrona e lietamente abbaiando, vennero a saltellare intorno e con lei che si piaceva di eccitarneli con qualche carezza. Il padre, fermatosi ad un lato, guardava quella piacevol scena e sorrideva lietamente: sentiva in quel punto tutta la sua felicità paterna.

— E Francesco? Gridò egli in quel punto a Maria, come se avesse bisogno di associare alle dolci impressioni di quel momento il nome di suo figlio per averne compiuto il suo diletto di padre.

Maria aveva presa una buona manciata di neve colle sue manine sguantate, a cui un critico severo non avrebbe potuto trovare che tre difetti: d'essere un po' rosse, d'aver le unghie un po' corte e non abbastanza convesse, di avere la punta dell'indice della mano sinistra tempestata di piccole forature prodotte dall'ago nell'opera del cucire. Levò verso suo padre la faccia e mordendo tuttavia in quella neve co' suoi dentuzzi più bianchi di essa, rispose:

— Oh! sor avvocatino dorme. È stato a ballar tutta la notte lui; perchè egli è un uomo e può andar a ballare.

Giacomo sorrise.

— Vorresti esserci stata anche tu, eh?

— Vorrei di meglio: soggiunse la ragazza ridendo. Esserci stata è tempo passato, e quello che è passato è passato: vorrei andarci in avvenire.

Crollò le spalle, diede un'abboccata alla neve che teneva in mano e riprese con tutta filosofia:

— Ma la mamma dice che le ragazze non ci devono andare a quei balli, e che ci vanno soltanto le maritate, le quali mi pare dovrebbero rimanere [11] a casa a far le madri di famiglia.... E aspetto adunque d'essere maritata ancor io per andarci.

E si mise di bel nuovo a saltellare in mezzo alla neve, e i cani di conserva con lei.

— Che matta! Esclamò col medesimo tono giulivo il padre; ma poi tosto con accento più serio: — Oh basta ora. Maria, che ti vuoi render fradicia? Vieni qui subito.

La fanciulla ubbidì senza mostrare troppo rincrescimento, e fu a lato del padre. Questi le aggiustò alcune ciocche di bellissimi capelli che, saltate fuori del cappuccio, le cascavano sul volto animato dai più vivaci colori della gioventù e della salute, e soggiunse:

— Sarai tu sempre bambina quel medesimo? Parli di maritarti, e pare che non abbia più di dodici anni!

— Oh oh ne ho sedici suonati; disse la giovanetta con tono d'importanza, tirandosi su della persona.

In quella compariva ad una finestra della casa la buona faccia della signora Teresa. Essa aveva aperto le invetrate e si sporgeva in fuori, chiamando suo marito e sua figlia.

— Venite, diceva con voce riguardosa e contenuta: il caffè è pronto.

Maria si cacciava a correre verso la casa, gridando a gola spiegata colla sua voce fresca ed armoniosa:

— Ah cattiva d'una mamma, me l'hai fatta anche questa volta! — E non mi hai dato tempo di prepararlo io il caffè..... Aspetta aspetta che vado a castigartene io con tanti baci da stordirti.

La madre colla mano e colla voce accennò alla figliuola non facesse tanto chiasso.

— Vuoi azzittire? Tu sveglierai Cecchino che dorme e che ha bisogno di dormire.

La giovane ammortò i passi e l'allegro suono della voce, ma non cessò di correre verso la stanza della madre, dove fu in un battibaleno e dove, gettate le braccia al collo della signora Teresa, mantenne ad esuberanza la promessa fattale poc'anzi di darle tanti baci da stordirla.

Giacomo sopravvenne un istante di poi, quando la mamma sorridente sotto quella grandine di carezze figliali, diceva a Maria con ischerzosa minaccia:

— Vuoi star ferma, diavoletto che sei?..... Finiscila o t'aggiusto io.

— È bella e finita: disse la frugola ragazza, aggiustando in capo alla madre la cuffia che le aveva mandato di traverso: e poi con tutta serietà s'appressò al piccolo tavoliere su cui stava preparato il vassoio colle chicchere e mescette il caffè.

Era abitudine costante di quella buona famiglia il radunarsi la mattina, appena alzati, tutti insieme a prendere il caffè nella stanza della mamma. Il padre sedeva sopra il seggiolone più presso al camino (quello in cui poche ore prima di questo momento abbiam visto Teresa far adagiare il figliuolo), la madre si assettava sovra una bassa seggiolina innanzi al marito, e frammezzo a loro due solevano mettersi Francesco e Maria, quello allato alla mamma, questa al papà. A questa radunanza non ci mancava mai nessuno, fuorchè il giovane avvocato, quando avea passata la notte, come ora era il caso, in qualche festa: e l'abitudine di esser tutti insieme era tale che quelle volte riusciva sempre spiacevole agli amorosi genitori il veder fra lor due la seggiola vuota, e sul vassoio una chicchera che non si riempiva.

— È rientrato tardi Francesco stanotte? Domandò Giacomo fra un sorso e l'altro di caffè.

— Poco più dopo le tre; rispose la madre.

— Tu già, secondo il solito, sei stata aspettandolo!

Teresa fece un piccol moto del capo che voleva dire: — È naturale.

— E questa mattina, continuò il padre, sor Francesco dormirà di sicuro fino a mezzogiorno.

— Ne ha bisogno: disse vivamente la madre. Quando è rientrato stanotte non si sentiva bene gran che....

Giacomo levò vivamente la testa, interrompendosi nel sorbire il caffè.

— Non si sentiva bene? Esclamò con vivo interesse.

— Ma non mi parve cosa d'importanza: s'affrettò a soggiungere la madre. Disse che il troppo caldo gli aveva fatto venire mal di capo. Figurati che per prendere aria, egli volle venire di Piazza San Carlo fin qua a piedi.

— Che imprudente!... A rischio di pigliarsi una malattia ed a rischio altresì di cascar nelle mani di qualcheduno di quei birbanti che pur troppo tengono il campo la notte, e che formano quella banda che chiamasi la cocca.

— È vero! Esclamò la madre spaventata ora da un pericolo a cui non aveva pensato dapprima. E noi siamo così isolati e così lontani su questo viale!

— Lo ammonirò io ben bene perchè ciò non gli capiti più: disse il padre. E intanto chi sa ora come sta?

— Dorme tranquillamente, e spero che ciò gli vorrà far bene più d'ogni altra cosa.

— Dorme? Ripetè Giacomo, il quale pareva esitante intorno al pensiero di andarsene a chiarire coi proprii occhi.

Teresa che sospettò questo proposito nel marito, sapendo come per quanta cautela egli usasse, il suo passo pesante, avrebbe svegliato il figliuolo ove Giacomo fossegli venuto in camera, s'affrettò a soggiungere:

— Sono già andata più volte ad origliare alla [12] sua porta; ho anche dischiuso pian piano l'uscio e non l'ho udito a muovere menomamente.

— Non l'hai visto in faccia?

— No, perchè la stanza è tutto scura e non volevo accostarmi al letto per timore di destarlo.

— Hai ragione: disse il marito che capì come quello indirettamente era un avviso a lui di non volerci andare. Lasciamolo dormire.

In quella s'udì un legger picchio all'uscio della stanza.

— Avanti: gridò Giacomo; e un domestico aprì il battente e mise dentro la testa.

— C'è una povera donna che domanda di parlare a Madama.

— A me? Disse Teresa. Una povera donna? Non ha detto chi sia?

— No; rispose il domestico, ma io l'ho riconosciuta.

— E chi è dessa dunque? Domandò a sua volta Giacomo volgendo la testa alla porta.

— Gli è quella poveretta che già venne parecchie volte a domandare l'elemosina; la moglie di quell'operaio che lavorava qui nell'officina e che si fece mandar via perchè era sempre ubbriaco.

Giacomo scosse la testa.

— Eh! questa non è un'indicazione precisa. Pur troppo sono parecchi gli operai che debbono avere tal sorte.

— Quella mingherlina, malaticcia, nera di capelli; soggiunse il domestico; a cui non è più d'un mese. Madama inviò in un fagotto alcune vesti ed alcune biancherie.....

— Ah! Paolina: esclamò Maria, battendo le mani tutto lieta d'aver indovinato; la moglie di quell'Andrea.

— Precisamente: disse il domestico: ora mi ricordo anch'io del nome.

Giacomo si alzò da sedere.

— E vuol parlare a mia moglie?

— Sì signore.

— Uhm! Gli è per domandare nuovi soccorsi.... Tu farai quello che vuoi, Teresa, ma qualunque cosa tu le dia, gli è tanto che aggiungi a mantener i vizi di quell'ubbriacone di suo marito.

— Giacomo! Mormorò la moglie con accento tra di supplicazione, tra di rimprovero.

— Ti dico che ti lascio fare quello che vuoi: soggiunse vivamente il marito che comprese quella velata rampogna; ma le mie parole sono vere come il vangelo. Oh guarda, ne vuoi una prova? Tu le hai mandato vesti e biancherie non è molto tempo: ebbene io son sicuro che non hanno più nulla di nulla, nè la donna nè i bambini.

E rivolgendosi al domestico:

— Di' un po' tu; come la è vestita?

— Oh a strappi che la è una compassione, precisamente com'era quando Madama le ha dato le vesti.

— Vedi! E se mai tu entrassi nella soffitta di quella gente, vedresti i bambini senza uno straccio di camicia addosso. Ora vuoi tu sapere che cosa ne fu di tutta quella roba che le hai dato? Sor Andrea l'ha venduta per pochi soldi affine di andarsi ad ubbriacare. Ora io mi domando se non è un alimentare il vizio il far carità a quella razza di gente.

Teresa non pareva molto convinta di quell'argomentazione del marito, ma non sapeva trovare una parola da opporvi; ben la trovò Maria che vivacemente proruppe:

— Ah babbo!... E i bambini?

Giacomo guardò sua figlia come sovraccolto; stette un poco e poi disse:

— Hai ragione. I bambini non ci hanno colpa e qualche cosa per essi non convien rifiutarlo.

Teresa colse a volo questa più esplicita permissione maritale, sorse lesta e frugando nelle profonde saccoccie del grembiale che portava dinanzi, ne trasse un pizzico di monete che andò a porre nella mano del domestico.

— Prendete, recatele codesto.

Quando il domestico fu uscito. Maria disse a mezza voce:

— Sarebbe forse stato meglio che l'avessimo ricevuta quella povera donna.

Il padre che udì quelle parole si volse alla figliuola con qualche vivacità:

— Avresti udito dei piagnistei che ti avrebbero commossa inutilmente.

— Perchè inutilmente?

— Perchè rimediare a quei mali ti sarebbe impossibile.....

— Impossibile! Esclamò la ragazza crollando la testa. Non siamo noi ricchi?

Giacomo sorrise.

— Bambina! La nostra ricchezza non tarderebbe a sfumare, se tu volessi riparare dalla miseria i poveri che ti domandano soccorso. L'elemosina non può che recare un rimedio temporaneo; e dev'essere così, altrimenti non ci sarebbe giustizia, ed una malintesa carità premierebbe l'infingardaggine. Dà retta. Io credo usare assai meglio dei miei capitali impiegandoli nella mia industria e facendo così guadagnare il vitto a tante famiglie di laboriosi operai, che non se dividessi le mie sostanze con tre o quattro miseri per farli vivere nell'ozio in un'agiata mediocrità.

Maria non capì bene del tutto la teoria economica cui adombravano le parole di suo padre, ma sentì pur tuttavia che in esse vi era un fondo di vero. Stava per muovere una sembianza d'obbiezione affine di farsi spiegar meglio la cosa, quando il domestico si presentò di nuovo all'uscio.

— Quella donna, diss'egli, ringrazia con tutto calore Madama della sua carità, ma insiste, piangendo, perchè voglia farle la grazia di riceverla, e dice che questa sarà una carità più fiorita ancora.

[13] Teresa, avvezza a dipendere in ogni cosa dalla volontà di suo marito, volse verso di lui uno sguardo interrogatore; ma quella petulantella d'una Maria, senz'attendere dell'altro, esclamò tutto animata:

— Oh sì, sì, bisogna riceverla.... Fatela venire.... Non è vero, mamma, non è vero, babbo, che bisogna farla venire?

Il padre fra il pollice e l'indice della mano destra prese il mento di Maria e disse scherzosamente:

— Che testolina che vuol fare a suo modo!... Ricevete pure quella povera donna. Voi siete due buone anime pietose, ed è anche necessario che si dia alimento alla vostra pietà. Badate però che non bisogna mai credere tutto quello che contano i poveri per eccitare la compassione altrui.....

S'interruppe come pentito d'essersi lasciato sfuggire queste parole.

— Però, riprese, non è mai in codesto che il lasciarsi ingannare sia colpa nè disdoro.

Il domestico era ito a prender la donna; Giacomo s'avviò alla porla che metteva nella sua stanza e nel suo studiòlo.

— Vi lascio in santa libertà.

Era già mezzo fuor dell'uscio, quando il bravo uomo si rivolse indietro a soggiungere:

— Quella poveretta, venendo fin qua per questo tempo, sarà tutta immollata. Potreste darle la tazza di caffè che non ha presa Francesco.

E sparì chiudendo l'uscio dietro sè.

— Com'è buono il babbo! Esclamò Maria. Con tutte le sue teorie utilitarie ha un cuore più tenero del nostro.

E chi avesse voluto in quel medesimo istante avere una prova del cuore tenerissimo che albergava in quel corpo di grossolano aspetto, non avrebbe dovuto che seguire il buon Giacomo quando uscì della stanza di sua moglie.

Egli s'era avviato verso il suo studiòlo, ma non aveva fatto la metà del cammino che aveva cambiato direzione e s'accostava alla camera in cui credeva che dormisse il figliuolo. Giuntone all'uscio, si fermò, stette un momento ascoltando, posò piano piano la destra sulla gruccia della serratura ed aprì, poi spinse il battente e cacciò dentro lo sguardo: la stanza era tutto scura da non potercisi vedere null'affatto. Volendo ficcare in mezzo ai battenti la sua testa, Giacomo spinse ancora un poco l'uscio, e questo mandò uno scricchiolìo. Il brav'uomo trasalì, come spaventato, rimase immobile a quel posto un istante, e poichè nulla udì muoversi tuttavia, mandò un sospiro, richiuse piano piano la porta e disse seco stesso:

— Per fortuna non s'è desto. Povero Cecchino! Lasciamolo dormire.

E se ne andò adoperando ogni possibil cautela per ammorzare il suo passo pesante.

Paolina frattanto era stata introdotta nella camera della signora Teresa, dove quest'essa e la figliuola Maria stavano aspettandola.

Nella prima parte di questo racconto, abbiamo visto la infelice donna andar cercando suo marito Andrea nella ignobile taverna di mastro Pelone, affrontare i mali trattamenti di Andrea e le insolenze del perfido amico di lui, Marcaccio, ma riusciva pur tuttavia a trarsi seco il suo uomo per ricondurlo alla denudata soffitta dove aspettavano pane i loro figliuoli. Abbiamo visto come fosse tale il miserevole aspetto di questa donna da ispirar compassione a chiunque la mirasse; livida, macilenta, strappata, senza forze qual essa era[1]; ora, nel momento in cui timorosa, tremante per emozione e per freddo, gli occhi rossi, ella si presentava sulla soglia della stanza della signora Teresa, la notte che era trammezzata, pareva aver condotto sul capo a quella infelice un doppio cumulo di anni, di stenti, di dolori e di fisica infermità. Paolina si fermò un istante come per prender fiato; il petto le ansimava penosamente; la sua tosse profonda suonava più cupa e più dolorosa che mai ad udirsi; le sue povere vesti, sottili pel rigore di quella stagione, le stavano serrate addosso sulle gracili membra, immollate com'erano dalla neve piovutale su per la lunga tratta di cammino che la misera aveva fatto a venir sin lì. Girò essa gli occhi intorno quasi smarrita; volle parlare per dare un saluto, ma dalle tremole labbra allividite non uscì che un balbettìo di debol voce; esitò, fece uno sforzo ancora per avanzarsi e parlare; e ruppe in pianto disperatamente.

Teresa e Maria le furono accosto con affettuosa premura; la presero per quelle mani magre, quasi diafane, fredde come ghiaccio e la trassero vicino al fuoco; le dissero generose e soavi parole di incoraggiamento, d'interesse e di compianto.

— Sedete qui, povera donna; e Teresa le additava la bassa seggiola, su cui stava poc'anzi ella stessa: riscaldatevi un po'..... Santa Madonna della Consolata, come siete tutta fradicia!... Lì, così: via, calmatevi; abbiate coraggio... Vi è capitata qualche disgrazia?... Fiducia nella Provvidenza, mia cara, e rassegnazione ai voleri di Dio.

Maria frattanto, con quella leggiadra lestezza di mosse che le era particolare, aveva riempito di caffè una delle tazze che col vassoio si trovavano tuttavia sul tavolino, ed agitando in essa il piccolo cucchiaio d'argento per farvi fondere lo zuccaro, la porgeva a Paolina, la quale invano si sforzava di frenare le lagrime ed i singhiozzi.

— Prendete, bevete questo po' di caffè caldo: diceva la ragazza colla sua voce così dolce e simpatica; ciò vi renderà un po' di calore in corpo.

— Grazie, grazie: balbettava la misera coi denti che le mozzicavano le parole battendo insieme. Che Dio ne le rimeriti!

Maria s'accorse che Paolina aveva i piedi nudi [14] entro scarpe rotte, in cui liberamente entrava da tutte parti l'umido della strada; ricordò in quel momento come suo padre mezz'ora innanzi si fosse dato sollecito pensiero di sapere s'ella era ben difesa dalla sua calzatura contro l'umido della neve, sentì intorno ai suoi piedini il caldo dei suoi stivaletti impellicciati, e non potè a meno che stabilire una specie di confronto, onde la sua anima pietosa rimase vivamente commossa; senza dire nè un nè due, fu in un salto nella sua camera, e tornò correndo con un paio di stivalini da inverno, i quali, per fortuna, essendo troppo larghi pei suoi piedi, poterono accogliere quelli abbastanza piccoli eziandio di Paolina.

— Lasciate stare quelle orribili ciabatte: disse la buona fanciulla; e mettete questi calzari.

La pezzente rifiutò dapprima, esitò, poi ubbidì, ringraziando commossa, e, nel vedere così buone madre e figliuola, accogliendo nel cuore un po' di speranza che avrebbe potuto conseguire il fine per cui era venuta, ed aveva insistito affine di essere introdotta presso la signora Teresa.

Fu quest'essa che, allorquando Paolina parve un po' riconfortata dal calore della fiamma e da quello della bevanda, e la emozione di lei si fu alquanto calmata, le disse:

— Or via, buona donna, diteci che cosa vi è capitato e che cosa possiamo fare per voi.

Paolina stette silenziosa un momento a capo chino, quasi le mancasse il coraggio; e poi con evidente sforzo cominciò a parlare: ma noi capiremo meglio le triste condizioni di quella disgraziata, se tornando indietro d'un passo, ci rifacciamo al momento in cui, la sera innanzi, ella usciva dalla bettola di Pelone, traendo seco pur finalmente, dopo molti sforzi, il marito ubbriaco.

CAPITOLO III.

Andrea si era lasciato condurre a casa dalla moglie, la quale ne aveva dovuto faticosamente sorreggere il passo barcollante. L'aria aperta e il freddo vento della notte avevano giovato alquanto a rischiarare all'ubbriaco la mente dai fumi del vino, e due idee le stavano innanzi precise e distinte: quella de' suoi figliuoli e della moglie che pativano, e quella dei torti ch'egli aveva verso di loro; onde barellando nel suo camminare sostenuto alla moglie, di tratto in tratto sparava una bestemmia, mandava un singhiozzo, faceva un atto di disperazione e borbottava colla lingua grossa ed impacciata:

— I miei figli!... Pane ai miei figli!... Sono un miserabile!

Così camminando, stiracchiato, a scossoni, a zigzag, fermandosi ogni tratto, in un tempo triplo di quel che sarebbe occorso, giunsero pur finalmente alla casa che abitavano, la quale, come sappiamo già, era una di quelle possedute da messer Nariccia il bigotto usuraio, e quella appunto in cui abitava egli stesso, e in cui Maurilio aveva passati quei tristi giorni che gli abbiamo udito narrare a Giovanni Selva.

Il signor Nariccia era troppo avaro per rischiarare pur d'un lumicino l'andito e le scale della casa e approfittava dell'incuria municipale, che a quel tempo non imponeva siffatto obbligo ai padroni, per lasciar rompere il naso ai suoi inquilini finchè l'abitudine li avesse guarentiti contro tale pericolo.

Urtando qua e là colle spalle nelle cantonate, coi piedi negli scalini, colla testa negli spigoli delle pareti, guidato, tirato, sorretto dalla moglie, Andrea era oramai pervenuto al terzo piano vociferando le più salate bestemmie di questo mondo, fra cui ricorreva sempre il ritornello: I miei figli, sono un miserabile.

Giusto al terzo piano, l'ubbriaco inciampò, e la moglie, troppo debole per sostenerlo, non potè impedire ch'egli andasse a battere con tutto il peso della sua abbandonata persona, contro un uscio, il quale suonò come percosso da una catapulta.

E qui dalla bocca di Andrea irritato giù una filza di bestemmie e d'imprecazioni.

— Accidenti al padrone di casa!.... Che il diavolo si porti quel ladro avaro, sanguisuga della onesta gente, che non mette manco la miseria di un lumino su questa sua scala maledetta di questa casa del demonio che vorrei profondasse fino giù al fin fondo dell'inferno!...

Paolina aveva bel dire: — Zitto, zitto Andrea, non dir così, vieni, andiamo su: — ed aveva bel tirarlo pel braccio; l'ubbriaco non si muoveva di un punto e gridava ancora più forte.

Ora quell'uscio contro cui il marito di Paolina era precipitato con tanto impeto, metteva niente meno che nel quartiere abitato da Nariccia medesimo; ed ecco — vista tremenda per Paolina — aprirsi in quella l'uscio fatale e comparire il signor Nariccia in persona con una lucerna in mano.

— Che cos'è questo chiasso? Cominciò egli a dire con tutta la severa imponenza di cui era capace. Che cos'è questa temerità di percuotere in tal modo contro l'uscio della mia abitazione? Che cosa sono queste sconcie impertinenze che andate sbraitando?

Paolina volle dire alcune parole di scusa.

— È inutile che cerchiate di negare; ho udito tutto, e se non fosse del debito che ho di buon cristiano di perdonare, ve la vorrei far pagare cara e salata...

Andrea era rimasto sovraccolto al primo apparirgli del padron di casa; ma poi tosto, ripigliando quella certa famigliarità che hanno con chicchessia gli ubbriachi, diceva a sua volta:

— Scusi.... Perdoni..... sa! Quello che ho detto, l'ho detto..... ecco..... perchè..... corpo d'un accidente..... gli è la verità.....

[15] — Vieni, vieni: s'affrettava ad interrompere Paolina. Non teniamo qui dell'altro il signor Nariccia a questo freddo.

— Lasciami stare: rispondeva Andrea, respingendo la mano della moglie: voglio parlare..... voglio spiegarmi..... Ecco! Qui è maledettamente scuro come in una caverna dì briganti..... non fo per dire.... Non ci si vede la punta del proprio naso.

E Paolina a soggiungere:

— Non abbiamo urtato apposta nel suo uscio; mio marito s'è inciampato e.....

— Ecco! Interrompeva l'ubbriaco. Mi sono inciampato. Non è già ch'io non istia ritto sulle mie gambe..... Tutt'altro! Sfido qualunque, io!... Sono un miserabile..... sì, va bene... ma non sono punto ubbriaco..... Dunque se ho risicato di rompermi la cassa de' corni contro i chiovoni di ferro di quel maledetto uscio lì, non l'ho fatto apposta..... Sono un miserabile, è vero, ma non l'ho fatto apposta... Ecco!

— Apposta o non apposta: interruppe bruscamente Nariccia; a me poco importa. Del resto opportunamente mi venite innanzi, chè ho da parlarvi, e giusto pochi momenti sono mi son preso l'incomodo di salire fino alla vostra soffitta. E ciò che ho da dirvi, è detto in due parole. Voi mi dovete sei mesi d'affitto: o pagatemeli domani, o doman sera dormirete in altra casa e non più certo nella mia.

Andrea e Paolina rimasero sbalorditi.

— Gesummaria! Esclamò la donna stringendo le mani e levandole supplichevolmente verso il padrone di casa. Oh buon signore, abbia compassione di noi!..

Ma Nariccia fulminando d'uno sguardo velenoso la povera donna col destro de' suoi occhi birci, mentre col sinistro saettava l'oscurità del vuoto della scala, interruppe fieramente:

— Io non sono un buon signore, io! Sono un ladro, un avaro, una sanguisuga dell'onesta gente. L'avete gridato voi....

— Signore....

— L'ha gridato vostro marito.

— S'accerti....

— Niente. Non voglio sentir più nulla, non voglio dir più niente. Avete udita la mia volontà. Basta!

E richiuse con fragore l'uscio ferrato, dietro il quale si sentì il rumore dei chiavistelli ch'egli tirava e dei catenacci che faceva andare a posto.

— Ah cane d'un cane peggiore d'ogni cane: si diede ad urlare Andrea scaraventando con tutta la sua forza dei pugni contro le imposte dell'uscio, saldo come macigno. Gli è così che si tratta la povera gente? Sulla strada e' ci vuol mettere.... Accidenti! Sulla strada i miei figli.... Sciagurato! Che sì che se ti prendo per quel cravattino bianco.... forca e tenaglie!... ti faccio schizzar fuori quegli occhi guerci....

La moglie lo pregava a tacere, a venir via di lì, lo tirava con tutta la sua forza, gli tappava colla sua mano la bocca; ma l'ubbriaco resistendo, aggrappandosi al muro, puntando i piedi al suolo seguitava pur tuttavia a gridare colla voce rauca, avvinazzata, di cose parecchie.

— Sono un miserabile io, sì, è giusto... Ma mia moglie, giuraddio!... ma i miei figli, sacramento!... Cacciarmeli sulla strada? Oh no, oh no, oh no!

E giù nuovi pugni contro l'uscio e nuove imprecazioni contro il padron di casa.

La moglie riuscì pur finalmente a levarlo di lì; e contrastando, inciampando, borbottando, Andrea pervenne alla fine sin nella soffitta abitata dalla miserissima famiglia. Là dentro regnavano un'oscurità non rotta che dal riflesso bianco della neve sui tetti vicini ed un silenzio che pareva di tomba. I bambini, dopo aver aspettato, dopo aver pianto, dopo aver chiamato invano durante l'assenza prolungatasi della madre, avevano ceduto alla debolezza della età e del digiuno, e s'erano addormentati. L'occhio di Paolina, esercitato a quella tenebrìa, li vide, appena fu essa entrata, giacere tutti quattro sul loro strammazzo, l'uno accosto all'altro, come raccolti in un gomitolo, scaldandosi a vicenda e sorreggendosi, le piccole testine reclinate come fiori appassiti, le gambe ripiegate, immobili come tanti piccoli cadaveri.

La povera madre trasse un sospiro e benedisse in cuor suo la pietà del Signore; dormendo, i bambini almanco non sentivano più il tormento della fame. Oh! avessero potuto dormir così tutta notte, fino a che il domani ella fosse riuscita a procacciarsi un po' di pane per essi! Come avrebb'ella ottenuto codesto? Non lo sapeva, ma confidava nella Madonna, confidava nell'efficacia di quelle preghiere in cui avrebbe consumata tutta la notte.

Ma sperare che i bambini potessero non venir desti era un fare i conti senza l'oste, o per dir meglio senza l'ubbriaco.

Andrea, sempre barcollante, cominciò per urtar malamente in un zoppo trespolino che trovavasi fra i pochissimi e poverissimi mobili ond'era composta la masserizia di quella soffitta, e quindi giù una filza di bestemmie a sfogo del suo dispetto.

— Accendi il lume, Paolina, gridava il marito: oh che io ho da camminare allo scuro come i gatti?

— Il lume? Rispose la donna con doloroso accento, pure ammorzando il suon della voce. Non ce no ho di lume.

— Che? Non ce ne hai?

— No, nè olio, nè candela.

— Vanne a prendere.

Paolina mandò un sospiro che somigliava ad un gemito.

— Se avessi qualche denaro avrei comprato del pane pei nostri figli che dormono digiuni da questa mattina.

[16] L'ubbriaco portò le mani con atto macchinale alle tasche del panciotto, che sapeva vuote pur troppo.

— E non ho manco un soldo da darti! Si mise a gridare, cacciando un pugno a quel trespolo contro cui aveva urtato, ed al quale ora sorreggevasi. Oh! sono un miserabile!...

— Taci, taci: disse la donna: non isvegliare almanco i bambini.....

Ma il male era già fatto. I figliuoli al rumore avevano aperto gli occhi, ed a quell'incerto barlume vedendo le ombre di due persone, sollevandosi sul misero giaciglio, intirizziti dal freddo, si posero a dire tutti insieme colla voce piagnolosa:

— Sei tu, babbo, sei tu, mamma? Ci avete portato da mangiare?

— Ho fame, ho tanta fame.

— Mamma, mamma, sono tutto ingranchito..... Ho male.... ho fame....

E il più piccino, senza formar parola, ricorse tosto al più eloquente linguaggio del pianto, nel quale tosto tosto gli tennero bordone anco gli altri.

Paolina fu presso di loro sollecita, carezzevole, amorosa ad acchetarli, a dir loro fra i baci tante ragioni per cui dovessero aver pazienza e dormire tranquilli per allora e che era troppo tardi in quel momento per trovar da comprar cibo, e che al domattina avrebbero avuto di sicuro pane e companatico e tante tante leccornie. Ma sì! ventre affamato non ha punto orecchi, dicono i Francesi, e i bambini seguitavano a domandare, piangere e strillare della più bella.

Andrea piantato a mezzo la soffitta si dava sempre più del miserabile a piena bocca e dei pugni nella testa a piene mani.

La povera madre, mercè le buone parole e le carezze, la stanchezza loro aiutando, riuscì pur finalmente a far azzittire i bimbi che ricaddero in un sonno di abbattimento da chiamarsi quasi torpore; allora essa li ricopri il meglio che le venne fatto con tutti quei pochi panni che rimanevano alla loro miseria, affinchè sentissero meno il freddo di quella notte invernale, e si rivolse ad acchetare eziandio il marito che continuava a strapazzarsi coi più fieri oltraggi.

— Andrea, gli disse, a qual punto siamo ridotti tu il vedi.....

— Non parlarmi, non dirmi nulla, interruppe egli in cui sotto l'emozione l'ebrietà andava alquanto dileguandosi. Tu non puoi movermi rampogna che io non me ne faccia di peggiori.

— Nè io te ne farò pure alcuna. Te l'ho detto che non avrei pronunziato un rimprovero..... Non è questo che ti voglio dire. Voglio anzi che tu stesso ti calmi e prenda riposo perchè ne abbisogni, e domani, a mente più fredda, penseremo ai casi nostri; e se tu, pentito come ti mostri, avrai proprio fondato il proponimento di mutar vita e di tornare quello che eri una volta, io benedirò il Signore e la Madonna della Consolata che ci avranno fatta la più bella grazia che potessimo invocare.

Lo prese amorosamente alle braccia, e con dolce violenza lo spinse verso lo strammazzo che loro serviva da letto. Andrea riluttò debolmente e borbottando, bofonchiando, esclamando, gemendo si lasciò coricare, e dieci minuti non erano passati che, intorpidito dai vapori del vino, egli faceva suonar la soffitta del suo robusto russare.

Il marito e i figliuoli di Paolina dormivano; ma non dormiva essa, la povera donna. Non prese nemmanco posto sullo strammazzo; ben sapeva che il sonno non sarebbe venuto alle sue pupille stanche, inaridite, quasi direi consumate dal pianto. Accoccolata presso il giaciglio dei suoi figliuoli, stette lì intirizzita, tremando, battendo i denti tutta quella ghiaccia notte d'inverno. E non era il freddo soltanto a tormentare quel povero corpo! L'infermità che in lei avevano prodotto le privazioni, gli affanni d'ogni fatta le veniva, quasi potrebbe dirsi ora per ora, consumando la vita. Il colpo che quella sera medesima il marito ubbriaco le aveva dato nel petto, avevale accresciuto il dolore e l'affanno del respiro e la tosse penosa. A volta a volta sentiva sotto l'impeto di questa tosse il suo debole stomaco contrarsi in tale spasimo che pareva volesse scoppiare; e l'infelice se lo comprimeva colle mani gelate e convulse. E ancora a quei momenti l'assaliva il timore che la sua tosse così forte giungesse a svegliare i bambini, e quindi a richiamarli al sentimento del loro bisogno che non si poteva soddisfare, alle lamentazioni ed al pianto. Si sforzava perciò a frenarla quella penosissima tosse, e non poteva, e ad altro non riusciva che ad accrescere il proprio soffrire.

E non era nulla ancora il patimento fisico appetto a quello morale ond'era travagliala l'anima sua! Come provvedersi il giorno di poi da sfamare i figli suoi? E se ciò non avesse conseguito, che sarebbe stato di loro? O Dio! Essa vedeva il pallido spettro della fame tendere sulle bionde teste de' suoi piccini l'adunco artiglio. Avrebb'ella dunque dovuto vederli morire? E col padrone di casa come la si aggiustava? In che modo procacciarsi da soddisfarlo? Che cosa escogitare da commuovere quelle ferree viscere da usuraio? Nella sua fantasia delirante, con acuto spasimo nel cervello, che pareva il tagliuzzio di finissime lancette, si formava l'immagine di quello che sarebbe avvenuto. Ella vedeva se stessa e i suoi figli abbandonati sulla via, senza tetto, sopra il cumulo della neve, e soffiando sulle loro membra appena se ricoperte, sulle loro carni allividite, soffiando con aspra intensità il rovaio.

Di sè poco le importava: oh! se essa sola avesse potuto soffrire, e con ciò togliere a quei tormenti i figli, la carne della sua carne!... Ma gli era questi esseri supremamente diletti ch'ella vedeva contorcersi nel dolore, che udiva gemicolare nell'agonia!.....

[17] Donne felici e liete di beltà e di ricchezza, che siete nate e vivete nel prospero ambiente degli agi; mogli e figliuole di arricchiti, a cui le avventurate speculazioni del marito e del padre mettono in potere le enormi somme che vi costano i vostri abiti, le vostre trine, i vostri scialli, i vostri diamanti; non pensate voi mai, in mezzo al tripudio d'una festa, che in quello stesso momento forse — e senza forse — qualche povera madre in una diserta soffitta piange e s'affanna per non aver pane da dare ai suoi figli, per non aver calore da sgranchirne i gracili corpi, per non avere un obolo che ne assicuri il domani?

Oh! pensateci qualche volta!

Ma un'altra immagine eziandio appariva alla fantasia o, dirò meglio, alla memoria dell'infelice, una lieta immagine, ma pur tuttavia non meno, anzi forse più dolorosa ancora della prima: la visione della quieta felicità d'un tempo, ora da parecchi anni perduta. Paolina rivedeva se stessa ricca dell'amore, dell'onestà, dell'abile lavoro di suo marito, felicemente orgogliosa de' primi suoi nati; allora il fiore della salute rallegrava le sue fresche guancie, ed anco il fior della bellezza, s'ella aveva da credere allo specchio ed agli sguardi ed alle susurrate parole con cui la salutavano sul suo passaggio i giovani signori ch'ella non curava; allora la sua mite anima non sapeva che cosa fosse amarezza e il suo sorriso e la sua canzone erano i più allegri del mondo. La si rivedeva al cader del giorno seduta presso la finestra della pulita cameretta, dar gli ultimi punti nel suo cucito, aspettando il ritorno di Andrea, e cullando col piede il bambino — fresco, roseo che pareva un amorino. Poi Andrea rientrava; il lavoro era finito anche per lei, i panni si gettavano in tutta fretta nella cesta, ed ella scattando da sedere si slanciava al collo di lui a dargliene il bacio del ritorno. Il marito divideva i suoi baci fra lei e il figliuolo: poi questo nutrito del latte materno si riaddormentava sorridente in mezzo a loro....

E quei tempi erano iti, e non sarebbero tornati mai più!

Paolina ricordò Marcaccio, il tristo amico d'Andrea, che era venuto a tôrre quest'ultimo ai suoi più sacri doveri, e un odio immenso assalse quella povera anima infelice.

Lunga, tremendamente lunga fu quella fredda notte insonne alla moglie di Andrea; ma pur finalmente ebbe fine ancor essa. Appena un po' di luce diurna si fu messa in quella nuda soffitta pei cristalli della finestra, molti dei quali erano sostituiti da fogli di carta, Paolina svegliò il marito che dormiva tuttora del sonno pesante dell'ebbrezza. I bambini dormivano eziandio, aggruppati ancora tutti insieme, per riscalducciarsi l'un l'altro sotto i diversi panni che la madre aveva rammontati su di loro. Erano pallidi pallidi e livide avevano le occhiaie affondate in cui stavan chiuse le palpebre; e quella dubbia luce del crepuscolo e il biancolastro riflesso della neve dai tetti circostanti accrescevano ancora quel pallore e quella lividezza. L'aspetto loro era tale da serrare il cuore d'un estraneo non che d'una madre.

Andrea, svegliato, si stirò, mandò un'esclamazione che si convertì in isbadiglio, e levandosi a sedere di mala voglia sul suo strammazzo, disse con lingua ancora impacciata per la cotta presa la sera innanzi:

— Che cosa c'è? È già dì?... Brrrr! Fa un freddo indemoniato questa mattina..... Non hai tu più manco una scheggia di legna da fare un po' di fiammata?

Paolina non rispose altrimenti che scuotendo desolatamente la testa.

— Ebbene, potevi lasciarmi dormire: riprese il marito con accento di rimbrotto ed oscurandosi nell'aspetto: almanco non avrei sentito così presto il freddo. Perchè svegliarsi? perchè alzarsi? Non ho dove andare a lavorare io; meglio dormire. Potessi dormire per sempre!

— Più sottovoce: disse la moglie mestamente, pianamente, ma con un certo accento di comando: più sottovoce per non destare i bambini. Loro sì che bisogna lasciarli dormire, perchè non tornino da svegli a sentir la fame, essi che non possono e a cui non tocca provvedere ai loro bisogni: ma noi... noi che dobbiamo pensare e fare..... noi si conviene non dormire.

— Ah! Esclamò Andrea recandosi le mani alla fronte, come per raccogliervi le idee.

La memoria degli avvenimenti della sera innanzi glie ne tornò a quel punto: ma le impressioni che egli ne aveva ricevute erano state così annebbiate dai vapori dell'ebbrezza, ch'e' non sapeva se quelle erano vaghe reminiscenze di sogni oppure ricordi veri di fatti.

— Che cos'è dunque avvenuto? Diss'egli quasi esitante. Aiutami un po' a ricordarmene, Paolina. Ieri sono uscito di qua mezzo disperato per andare a cercar lavoro e pane pei bambini.

— E non sei tornato più: disse amaramente la moglie: e noi abbiamo passato eterne ore ad aspettarti invano, i piccini piangendo, io non sapendo più a che santo votarmi per farli acchetare.

Un'ombra di confusione passò sulla fronte di Andrea.

— Che cosa vuoi? Riprese egli, non senza impaccio. Ho girato mezza città per trovar lavoro; ho battuto a un centinaio di porte, e sempre inutilmente. Ero disperato. Non osavo ricomparirvi dinanzi per dirvi: non ho nulla, non ho trovato nulla, non vi ho portato nulla. Giravo senza saper più dove batter del capo, quando ho trovato Marcaccio.

Una fiamma passò negli occhi di Paolina.

[18] — Ed io, non vedendoti tornare, ho indovinato tutto: interruppe ella. Quando la sera fu venuta corsi all'osteria di Pelone. Sapevo che mentre noi spasimavamo qui, tu eri colà.....

— Paolina! Esclamò il marito con accento di profonda vergogna, abbassando la testa.

La moglie si arrestò; guardò con occhio pietoso la vergogna del marito ed ebbe la generosità di non dir più che queste parole:

— E là ti ho trovato.

Andrea allora ebbe come un barlume di memoria che nella taverna era avvenuto qualche cosa fra sè e la moglie; gli tornò ad un tratto preciso il ricordo del modo crudele con cui egli l'aveva trattata, del colpo violento datole da lui, della caduta di essa. Levò gli occhi in volto a Paolina, come per vedere in quello se ciò era vero. L'aspetto, lo sguardo, il mesto sorriso medesimo cui abbozzarono le labbra scolorate della donna gli dissero eloquentemente che sì. Non si parlarono in quel punto, ma si compresero ambedue: eravi il più profondo pentimento dall'una parte, il più generoso perdono dall'altra.

Andrea mandò un'esclamazione soffocata e nascose nelle sue mani la faccia.

Paolina lo lasciò un istante alla sua meditazione; quindi, mettendogli dolcemente una mano sulla spalla, riprese a parlare.

— Ma non è del ieri che dobbiamo ora occuparci, gli è dell'oggi che ci si presenta più terribile che mai. Tu non hai mezzo alcuno nè speranza alcuna di trovar lavoro e guadagni.....

Il marito scosse dolorosamente la testa.

— Ai bambini conviene assolutamente dar pane...

Andrea levò con impeto la testa, contratti spaventosamente i lineamenti del viso.

— E l'avranno: esclamò egli: l'avranno..... dovessi rubarlo.

Paolina gli mise una mano sulla bocca.

— Oh taci!

Vi fu il silenzio d'un minuto; un penoso silenzio in cui non si udiva che l'affannoso respiro della povera Paolina.

Fu questa a ravviare il discorso.

— Il padron di casa, diss'ella abbassando ancora la voce, ha minacciato mandarci via se non gli paghiamo entr'oggi la pigione.

— Gli è dunque vero anche codesto? Esclamò Andrea, il quale erasi lusingato sino allora di aver solamente sognata una sì brutta novella.

La moglie curvò il capo in segno di dolorosa affermazione.

— Alla croce di Dio! Proruppe l'uomo. Tu vedi bene che non c'è più scampo alcuno per noi!

— Forse sì che c'è ancora: rispose Paolina. Ho pensato a codesto tutta la notte, ed ho pregato Iddio, ho pregato tanto che spero non ci mancherà il suo aiuto.

Andrea scosse le spalle in modo che dinotava nutrir egli assai poca fiducia in quell'aiuto supremo.

— Il signor Nariccia, continuava la donna, è un uomo religioso.

— È un impostore.

— Ah! non giudichiamo male del prossimo. Pregandolo in nome di Gesù Cristo, chi sa che non si pieghi a concederci un po' di respiro. Egli va tutte le mattine al Carmine ad udire la prima messa detta da padre Bonaventura, che è suo confessore, e che ha una grande influenza su di lui. Ho pensato dunque d'andar io pure colà, di raccomandarmi a padre Bonaventura di pregare lui messer Nariccia per le cinque piaghe ad averci compassione.

— E fa pur così, poichè te n'è nata l'idea: disse il marito con tono di scoraggiamento; ma non fondarci su molte speranze, chè il cuore di messer Nariccia è di bronzo, e l'anima di quel gesuita è più nera della sua sottana... Del resto poi, mettiamo pure che la tua Madonna del Carmine faccia il miracolo d'intenerire quei sassi, sarebbe già molto, ma ciò non darebbe ancora per oggi, nè per l'avvenire il pane ai nostri figliuoli.

— Anche a ciò ho pensato. Dopo la messa del Carmine andrò al palazzo del marchese di Baldissero....

— Ah! il marchese; disse Andrea con esitazione. Egli ha protestato che non ci avrebbe mai più dato soccorso nessuno.... Egli ti strapazzerà, povera Paolina.... Egli ti dirà un mondo di male de' fatti miei.

— Il marchese è di cuore così generoso, che, non ostante tutte le sue minaccie di non sovvenirci più in nulla, quando sapesse le tristi nostre condizioni, pur tuttavia non mancherebbe di aiutarci. Ma però ho pensato di non rivolgermi a lui..... Duole anche a me sentire a dir male de' fatti tuoi... e non poterti difendere.... C'è in quella casa una angelica creatura, la quale non può a meno d'aver pietà di noi: madamigella Virginia; ed ho pensato di parlare a lei.

— Sì, sì: disse Andrea con vivace premura che provava quanto più gli piacesse che se ne parlasse alla signorina che non allo zio marchese; sì, rivolgiti a madamigella Virginia. Oh ella non ti respingerà di sicuro. Anco se messer Nariccia non volesse menomamente cedere alle tue preghiere, come son sicuro pur troppo che avverrà, da quella brava signorina potrai avere, per poco che tu sappia fare, fin anco i denari della pigione.

— Non ne dubito. Ma questo, anche succedendo, come speriamo, se ci trae dalle tremende strette del momento, non ci salva ancora per l'avvenire.

— È vero: disse il marito con voce appena intelligibile, curvando più basso di prima la testa.

— Codesta salute, per noi, continuava la donna, non può venirci da altri che da te. Sei tu che hai da restituire nelle condizioni d'un tempo la tua famiglia, tornando, come già un tempo, al lavoro.

[19] Andrea non osò ancora levare il capo, nè lo sguardo verso sua moglie.

— Ma se di lavoro non posso trovarne a niun modo: diss'egli con voce soffocata.

— Ne troveresti cambiando costumi. Sei tu ben deciso a cessare da questo modo di vita che ha tratto a sì mal passo la tua famiglia?

— Oh sì: rispose il marito.

— Posso io sicuramente prometterlo per te?

— Certo.

— Ebbene, dopo che sarò stata al palazzo Baldissero, correrò all'officina Benda.

— Ah! il sig. Benda è un uomo ostinato: mi ha già scacciato due volte dai suoi lavoratoi, non mi riprenderà più la terza.

— Anche colà mi rivolgerò alle donne della casa. La moglie e la figliuola del signor Benda sono due pietose creature ancor esse.

— Puoi provare: disse Andrea scoraggiatamente: e se riuscirai tanto meglio.

— Non muoverti dunque di casa fin ch'io ritorni. Se i bambini si svegliano, prometti loro che alla mia venuta avranno cibo. Di certo non tornerò senza recare per essi del pane.

E avviluppatasi la testa in un misero fazzoletto, Paolina uscì frettolosa che era l'alba appena.

CAPITOLO IV.

Per prima cosa, Paolina, secondo quel che aveva detto, corse alla chiesa del Carmine, ed entrò diviata in sacristia. L'oscurità di quel luogo non era rotta che da un lucernino pendente da un braccio di ferro: un sacrestano sonnacchioso preparava sulla tavola della credenza i paramenti pel celebrante della messa, mentre un bambino, inginocchiato presso un largo braciere di ferro messo entro un recipiente di legno, ne smuoveva la semispenta carboncina e vi scaldava sopra le sue mani gonfie dai geloni.

Un alto silenzio regnava colà dentro, e si udiva soltanto il suono della campana che giusto allora dava i tocchi della prima messa.

Paolina si accostò un po' timorosa e titubante al sacrestano.

— Scusi, padre Celso: cominciò ella a dire, interrotta tosto da uno scoppio di quella sua tosse dolorosissima.

Il padre, a quel signor sacrestano che era un frate laico, poteva dirsi una piacenteria: ma Paolina voleva rendersi benevolo il fiero uomo, e sapeva che egli ci teneva maledettamente a quell'appellativo.

Padre Celso si volse con mossa solenne, e guardò con piglio altezzoso la povera donna che stavagli in aspetto supplichevole innanzi.

— Ah siete voi, Paolina. Ebbene, che cosa volete?

Quasi tutti gli uomini hanno un superbo concetto delle funzioni che sono incaricati d'esercitare, e nell'esercizio di esse quanto più sono basse, tanto più d'ordinario si mostrano orgogliosi. Andate a parlare ad un misero impiegatuzzo alla sua scrivania nel ministero; domandate ai coscritti che cosa sono i caporali che fan da capo di posto ad una guardia; entrate senza una particella nobiliare al vostro nome e senza l'aspetto d'un milionario nella anticamera d'un riccone ed affrontate l'impertinente sicumera dei lacchè in livrea; abbiate a che fare con uscieri, portinai, custodi e va dicendo, ed avrete i più notevoli esempi della sciocca superbia dell'uomo da nulla che si attribuisce appetto a voi una importanza che non ha; ma la impertinenza orgogliosa di tutti costoro che ho nominato è niente in paragone di quella d'un sacrestano. Hannovi le sue brave eccezioni, ci s'intende: ma il tipo dell'orgoglio impertinente e senza ragione bisogna andarlo a cercare sotto la cotta di solito bisunta d'uno spazzino di sacristia.

Il tono con cui un idalgo spagnuolo del seicento accoglieva un marrano era più cortese di quello che fosse il modo onde padre Celso parlava e sogguardava la povera Paolina.

— Vorrei parlare a padre Bonaventura: disse quest'essa tutto umile.

— Egli non è ancora disceso: rispose col medesimo accento di prima il villano vestito da frate. Discenderà a momenti, ma avrà altro da fare che dar retta a voi. Ha da dir la messa, e poi dopo andrà in confessionale.

Volse le spalle alla poveretta, e continuò la sua bisogna con quell'aria che potrebbe avere chi fosse in via di salvare il mondo.

Paolina si ricantucciò da una parte, e stette là, tutta abbrividendo, ad aspettare.

Poco stante, ecco entrare una vecchia che a primo vederla ciascuno avrebbe riconosciuta per una di quelle pitocche beghine che stanno tutto il giorno sulle porte delle chiese, negli anditi delle sacristie ad elemosinare biascicando pater ed ave e mormorazioni, spiando e divulgando gli affari della gente e facendo anche di peggio mestieri alla vista meravigliosa d'una moneta d'argento.

Costei diffatti, oltre la grinta bassamente ipocrita e furbescamente improntata di affettata divozione, che è propria di quella razza di donne, portava tra mano la vera insegna del suo mestiere, un mazzettino di piccoli candelotti di cera, avvolti dalla metà in giù in un pezzo di carta straccia di color bleu; al braccio aveva passato pel manico un veggio di terra cotta, e coll'altra mano si traeva dietro, mezzo riluttante, mezzo ancora addormentato, un ragazzo di circa dieci anni.

— Buon giorno, padre Celso: diss'ella, con accento della più profonda reverenza, al sacrestano. Lei sta bene? Ha dormito bene questa notte?

Il sacrestano si volse alla nuova venuta con un'aria [20] d'affettuosa protezione che dinotava come costei fosse nelle grazie di quell'importante personaggio.

— Ah ah! siete voi, Gattona?

Ella era infatti quella donna, di cui Maurilio la sera innanzi aveva trovato per la via il nipotino piangente, e in casa della quale il principale dei protagonisti del nostro dramma si era fatto condurre dal piccino[2].

— Me la non mi va male, peuh peuh!.... E voi?

— Eh! da povera vecchia..... si sa bene; alla mia età, colle miserie che ci toccano a noi..... Se non fosse di questi buoni Padri che mi soccorrono, sopratutto di quel sant'uomo di padre Bonaventura, per me la sarebbe bella e finita.

— Via, via: diceva col suo tono di protezione padre Celso. State di buon animo. Siete una brava donna, timorata di Dio, religiosa e dabbene. La Provvidenza e noi vi assisteremo come abbiam fatto fin adesso.

— Che Dio li benedica.... Lei e tutti i buoni Padri di questo convento.

— Voi siete sempre fedele a questa prima messa, Gattona.

— Oh sì, e il giorno in cui non mi vedrà più venire potrà ben affermare che io sono moribonda o morta addirittura. Oggi intanto le ho menato qui Gognino in caso ne avesse bisogno per qualche cosa, e sopratutto per servir la messa, ch'egli da solo non è capace, ma per la parte di chi tramuta il libro, tanto e tanto incomincia a raccapezzarcisi.

— Sì, davvero? Oh bene, bene; è un principio. Se occorrerà, potrà servir da secondo qui a questo altro bardotto; ma credo che non ve ne sarà affatto bisogno, perchè oggi è il giorno in cui il signor Nariccia suole confessarsi; e in que' giorni ha per abitudine di servir egli la messa a padre Bonaventura.

— Come Dio vuole. Intanto ho appunto piacere di dire due parole a padre Bonaventura.

— Egli sarà qui a momenti..... To', eccolo appunto.

Un uscio si aprì nell'impiallacciatura di legno scolpito e comparvero la persona grossa, la faccia rubiconda e la cotta nera di un frate gesuita.

In questa famosa, e per tanti titoli giustamente famosa compagnia, come tutti sanno, s'incontrano due tipi netti e distinti: l'uno è di frati ascetici, severi, entusiasti, fanatici; l'altro è di buontemponi, in apparenza tolleranti, allegri e sorridenti, che transigono su tante cose accessorie colle passioni dell'uomo e colle debolezze del mondo, purchè ottengano il principale — ed il principale per essi è la sottomissione alla Corte di Roma e la reverenza all'ordine loro. I primi si dirigono alle anime ardenti, agli spiriti eccessivi, a coloro che portano nella religione l'amor della lotta, quel po' di guerra civile che, come disse Massimo d'Azeglio, gl'Italiani hanno nel sangue; i secondi invece parlano alle anime tenere, ammorzano i rimorsi di peccatori convertiti che amano moltissimo il ricordo e qualche arrière-goût dei loro peccati, che nulla chiedono di meglio che far camminare di fronte con un sapiente equilibrio di pratiche religiose i loro piaceri, le soddisfazioni dei loro desiderii terreni, e la loro salute eterna.

Padre Bonaventura apparteneva alla schiera di questi ultimi. Una bella faccia di cuor contento, con labbra rosse sorridenti, guancie paffute e doppio mento. Aveva occhi chiari, limpidi e a fior di pelle che giravano vivacemente e sfuggivano molto bene lo sguardo altrui; la fronte piccola cogli ossi frontali molto sporgenti dinotava una tenace volontà, e sotto l'apparenza benignamente dolcereccia della fisionomia si vedeva un'acuta malizia che si faceva scambiare per buonumore.

Egli s'avanzò nella sacristia fregando le sue mani grassotte e bianche come quelle d'una signora.

— Hai già tutto preparato, Celso? Diss'egli al sacristano con accento di amichevole famigliarità.

— Sì, Padre; rispose Celso cambiando il tono superbo che aveva cogli altri in accento di umile soggezione verso il frate.

— Oh che bravo Celso! Soggiunse padre Bonaventura battendogli leggermente sulla spalla. Fa un freddo indemoniato stamattina, avrò le mani intirizzite a dir messa; fa di accendere intanto un po' meglio questo braciere perchè mi possa poi riscalducciare.

— Subito: disse il sacristano precipitandosi verso il braciere a smuoverlo, togliendo la paletta di mano al ragazzo.

— E mi metterai un po' di bragia nello scaldino e me lo porterai nel confessionale, che altrimenti i piedi mi geleranno o poco meno.

— Sì signore.

— A proposito. Messer Nariccia non è ancora venuto?

— Non l'ho visto.... Ah! c'è qui la Gattona che vorrebbe parlare a Lei.

— Ah ah! la Gattona: esclamò il frate volgendosi verso la vecchia con uno di que' suoi piacevoli sorrisi.

La Gattona, tenendo sempre il piccino per mano si avanzò verso il frate e fece una profonda riverenza.

— Sì, Padre, diss'ella: se volesse usarmi la carità d'ascoltarmi......

Padre Bonaventura si assettò comodamente sopra una seggiola a bracciuoli che c'era presso al braciere, pose i piedi sull'orlo di legno di quest'esso, e guardandosi compiacentemente le unghie rosee e le mani bianche, disse alla vecchia:

[21] — Parlate pure.

La vecchia fece guizzare uno sguardo di sfuggita verso il sacrestano e verso il ragazzo che stava ancora inginocchiato presso al braciere.

— Celso, disse il frate, comincia intanto per accendere le candele all'altare, poi verrai a vestirmi le paramenta.

Il sacrestano prese un cerino, lo accese alla lampada che pendeva e si avviò verso la chiesa.

— Vai anche tu ad aiutar Celso: soggiunse il gesuita, facendo una carezza alla guancia del ragazzo che gli era vicino, va, e ti darò poi una bella immagine di Gesù bambino coi fregi dorati.

Il ragazzo si levò sollecito e seguì il sacrestano.

— Or dunque: disse allora padre Bonaventura alla Gattona. Che cosa avete da dirmi?

— Sono venuta a demandarle un consiglio: cominciò la vecchia abbassando la voce e curvandosi verso il frate che, abbandonato sul seggiolone, coi gomiti appoggiati ai bracciuoli, si era disposto ad ascoltare.

— Che consiglio?

— Ieri sera un signore.... oh no, non mi ha di troppo l'aria d'essere un signore.... un uomo ch'io non conosco, ma che mi diede qui il suo nome scritto sopra una cartolina..... Eccola; guardi un po' Lei se ha mai sentito a menzionare questo individuo.

E trasse fuor della tasca del grembiale, spiegazzata e sporca, la polizzina che Maurilio le avea data la sera innanzi.

Padre Bonaventura la prese, se la pose innanzi agli occhi il più distante che potè col braccio teso, perchè la sua vista era da presbite, e lesse quello che già sappiamo esservi scritto su: Maurilio Nulla, scrivano pubblico, via.... porta num. 7, piano quarto.

— Ecco un nome originale: disse il gesuita: un nome che finora non mi avvenne mai di vedere nè di udire, quindi, eccetto che ne abbia anco un altro, l'individuo che lo porta mi è perfettamente sconosciuto. Ebbene, che cosa avete voi da spartire con questo tale?

— E' mi venne in casa inaspettato, e mi fece una proposta che io ho accettata, e che ora ho paura di aver fatto male ad accettare.

Il frate levò i suoi occhi grigi sul volto aggrinzito e ributtante della vecchia.

— Oh oh! esclamò egli. Che razza di proposta?

— Niente contro l'onestà e contro il timor di Dio: si affrettò a rispondere la lurida vecchia. Si tratta qui di questo biricchino — (ed accennava al ragazzo che teneva sempre per mano) — che anzi gli è stato lui che me l'ha menato in casa, chè lo ha trovato per le strade ch'era già tardi, perchè questo poco di buono s'indugia sempre a baloccarsi e peggio e non c'è verso di farlo rientrare al cader del giorno com'io vorrei....

— Bene, bene: interruppe padre Bonaventura con qualche impazienza, tamburellando colle dita grassotte sui bracciuoli del seggiolone. Udiamo questa proposta ch'e' vi fece.

— Io, già, sono una povera donna. Ella lo sa; vivo d'elemosina, e questo bardotto qui mi è di un peso... di un peso!...

— Si, sì, me lo avete già detto parecchie volte; ma egli pure vi guadagna qualche solduccio.

— Oh sante piaghe! Gli è così poco... E giusto, gli è a questo riguardo che quel cotale mi fece quella certa proposta.

— Sentiamola dunque, via, questa benedetta proposta.

— E' mi ha domandato s'io non gli avea fatto imparare a Gognino il leggere e scrivere, s'io non lo mandavo a scuola; ed udito che no, mi profferse di darmi egli dieci soldi al giorno, a patto che lo lasciassi andare in casa sua dov'egli avrebbe insegnatogli lettura, scrittura ed abbaco.

— Cospetto! Esclamò il gesuita meravigliato, spalancando tanto d'occhi. E questo per la bella cera di quel martuffino lì?

— Disse che voleva fare quest'opera buona.

— Uhm! E che figura ha egli codestui?

— Non ho potuto nemmanco vederlo bene. E' si teneva in testa un certo cappellaccio colla tesa sugli occhi. Una faccia strana, nè da giovane, nè da vecchio; una voce che ha una certa imponenza; i panni piuttosto da povero che da ricco.

Padre Bonaventura prese fra l'indice e il pollice della mano destra il suo mento grasso a doppia piega, nell'atto della riflessione.

— E voi dunque avete accettato il partito?

— Ho pensato che dieci soldi al giorno non si trovavano mica lì, sotto il primo sasso della strada. Me il bisogno mi perseguita. Mi parve una vera grazia mandatami dalla Madonna del Carmine. E poi ho pensato che Gognino avrebbe così imparato di meglio a servire la messa. Ora son io che debbo fargli entrare nella memoria le parole a forza di recitargliele, e le assicuro che la è una fatica..... una fatica. Ho detto di sì..... Ho forse fatto male?

— Che intenzioni può egli avere quell'individuo? Diceva il gesuita, come continuando a parole pronunziate le sue riflessioni. A questo mondo non si fa niente per niente. Voi Gattona, vecchia come siete, dovreste saperlo.

— Ho immaginato si volesse con siffatta carità far dei meriti per la vita eterna.

— Eh! che i meriti si acquistano con altri modi, più acconci, chi abbia fede veramente nella nostra santa religione. Scommetto che gli è uno dei moderni disseminatori di falsità e di eresie, uno dei campioni del progresso, come si usano chiamare, il quale vuole guadagnare all'errore un'anima di più.

— Ho dunque fatto male? Esclamò la Gattona [22] con accento spaventato: oh creda, padre Bonaventura, che io subito dopo ho pensato di venirle a raccontar tutto e di pregarla a volermi guidare in proposito. E s'Ella adunque mi dice che ciò non si deve fare, io non manderò a quel cotale, Gognino, nemmanco se mi volesse caricar d'oro..... Ci perderò dieci soldi al giorno belli e sicuri; ma che cosa m'importa? Io non guardo a codesto quando si tratta di schivare il male e di obbedire a Lei, padre Bonaventura..... benchè io sia miserissima, e debba contare non che i soldi, ma i centesimi. Oh! ci è una Provvidenza lassù; ed io sono tanto divota della Madonna e del Sacro Cuore di Gesù e di Santa Filomena, che non sarò abbandonata, e son persuasa che vostra reverenza medesima, se potrà, troverà modo di compensarmene, facendomi partecipare un po' più alle elemosine di questa parrocchia.....

Padre Bonaventura, il mento sempre appoggiato alla mano, guardava la vecchia con i suoi occhi fissi, nella cui espressione non avreste saputo se fossevi ironia o bonarietà.

— Ben sapete: disse a quel punto il frate colla sua voce più melliflua ed insinuante; ben sapete, Modestina, che siete fra le prime nella lista dei poverelli a cui amiamo distribuire i soccorsi delle carità che raccoltiamo.

La Gattona prese la mano sinistra del gesuita che era posata sul bracciuolo e la baciò con divozione; ma padre Bonaventura, a cui non parve molto piacevole quel contrassegno di reverenza, fu lesto ad allontanare la sua mano paffutella, dalle labbra vizze, triate e violacee della vecchia.

— Or dunque, riprese quest'ultima, io mi guarderò bene dal mandar Gognino colà.....

— Aspettate: disse vivacemente il gesuita a cui pareva nata una nuova idea. Sarebbe forse meglio far così. Lasciateci pure andare il vostro ragazzo da quest'uomo, ma inculcategli bene di osservar tutto, di tenere a mente tutto ciò che vedrà, che sentirà, che avverrà in ogni modo, e di farvene una relazione esatta giorno per giorno.

— Che io poi mi affretterò di ripetere a Lei: soggiunse la vecchia.

Padre Bonaventura fece un cenno affermativo cogli occhi, che voleva dire: — Ci si intende; e continuò:

— Luca è ben capace di osservare ciò che gli incontra e di saperlo esporre di poi?

— Oh sì, sì, che per la sua età è il più sveglio e il più furbo che ci sia sotto le stelle.

— Benone. Così voi non perderete quel po' di vantaggio che vi fu promesso, e noi, sapendo giorno per giorno come si passan le cose, potremo giudicare delle vere intenzioni di quel cotale; ed appena ci accorgiamo che tenti avviare quest'anima alla strada del male, possiamo porci rimedio. Anzi sarà bene che di quando in quando mi conduciate qui il ragazzo perchè io possa interrogarlo in proposito.

— Sì, Padre.

— Lasciatemi qui questa cartolina coll'indirizzo di quell'uomo. Potrò giovarmene per raccogliere informazioni. Vedrei volontieri un simile originale, e credo sia individuo da tenersi d'occhio.

In quella il sacristano si accostava a padre Bonaventura.

— Le candele sono accese, la messa è suonata, e se la si vuol vestire.....

— Gli è tempo eh? Bene, bene, eccomi qua.

Si alzò da sedere, e s'avviò verso il luogo in cui erano spiegate le paramenta pronte ad indossarsi.

— Vieni, Gognino: disse la vecchia incamminandosi, andiamo a sentir la messa del buon padre Bonaventura, e diremo la coronella secondo le sue sante intenzioni.

Paolina era sempre rimasta là nel suo cantuccio, tutto freddolosa, aspettando con ansia insieme e con timidità che il momento venisse di presentarsi ancor essa al gesuita. Ora che la Gattona erasi partita da lui avrebb'ella voluto avanzarsi; ma vedendo il frate accingersi a vestire i sacri arredi aiutato dal sacristano, e borbottando quelle preghiere che si suole in tal caso, non ardiva altrimenti accostarsi.

Uno scoppio violento di quella tosse malvagia che la tormentava rivelò la sua presenza al gesuita, che fino allora non l'aveva vista, od aveva fatto mostra di non vederla. Guardò egli da quella parte, e la povera Paolina fu lesta a fargli una profonda riverenza per saluto.

— Se non m'inganno, disse padre Bonaventura al sacristano, quella donna lì è Paolina la moglie del fabbro Andrea.

— Sì, Padre, la è dessa. Anzi è venuta cercando di Lei.

— Ah ah!

Paolina credette opportuno il momento di farsi innanzi.

— Se mi volesse far la grazia di ascoltare due parole.

Il sacristano la interruppe con burbero accento.

— Eh! vedete bene che ora si veste, e non ha tempo da badare a voi.

Deo gratias! Disse in quel punto alle spalle dei nostri personaggi una voce nasale da frate zoccolante.

Era messer Nariccia che arrivava sollecito e con un occhio guardava indignato Paolina, mentre coll'altro fissava la faccia fresca del gesuita.

— Siete qui, messere: disse Bonaventura sorridendo al nuovo venuto. Temevo già che foste per mancare a servirmi la messa.

— Oh mai, mai! Figuratevi se voglio perdere tal favore. Sapete che questo è anche il mio giorno di confessione.

La presenza del suo padron di casa aveva prima fatto tremar Paolina, poi datole risoluzione. S'ella [23] lasciava sfuggire quell'occasione in cui Nariccia avendo da accostarsi al sacramento della confessione avrebbe più facilmente ceduto alle esortazioni del gesuita, quando questi si decidesse di fargliene in favore della povera famiglia, mai più non si sarebbe presentato un caso tanto favorevole.

La misera donna ardì adunque fare ancora un passo verso il gesuita, e disse con infinita supplicazione nell'accento, stringendo insieme le mani:

— Oh per carità, padre Bonaventura, mi ascolti un momento.

— Subito?

— Sì, Padre; sono due sole parole.

— Ma due sole in verità?

— In fede mia.

— Bene. Se gli è così, dite pure, e sollecita.

Il sacristano e messer Nariccia si scostarono di pochi passi; ma se Paolina avesse visto lo sguardo che quest'ultimo saettò su di lei nell'allontanarsi, avrebbe conservato pochissima speranza di poter ottenere qualche cosa da lui.

Paolina colle meno parole che potè espose al gesuita le tristissime condizioni in cui si trovava la famiglia, la minaccia fatta di Nariccia di cacciarli nella strada, lo supplicò per tutti i Santi del Paradiso volesse interporre la sua autorevole parola affine di ottenere dal padrone di casa più benigni propositi.

Padre Bonaventura ascoltò sino alla fine col capo chino, gli occhi bassi, la faccia oscurata, ed in un silenzio che prometteva poco di bene. Quando la donna si tacque, e sorreggendosi all'orlo della vicina credenza, chè le forze le mancavano, stava aspettando la risposta con ansia ed affanno, il gesuita levò lentamente la testa e senza guardarla in volto, anzi facendo scorrere i suoi occhi per tutto altrove che verso la persona di lei, disse a sua volta con accento di affettato dolciume:

— Benedetto Iddio! Povera donna che siete, io vi compiango dal profondo dell'anima, proprio come una mia sventurata sorella che siete in Gesù Cristo, il cui santo nome sia lodato! Sì le vostre condizioni sono dolorose, anzi dolorosissime, e non so chi non ne resterebbe commosso.... Io non vorrei accrescervi il peso di esse col menomo cenno di rampogna; ma pure, mia cara, il mio stesso ministerio mi obbliga a dirvi che queste percosse della sorte c'è forse stato qualche cosa in voi che ve le ha attirate dalla mano giusta e punitrice di Dio. Il vostro uomo primamente, tiene egli la condotta di un vero cristiano? Chi l'ha più visto accostarsi ai santi sacramenti? Chi l'ha più visto soltanto in chiesa da mesi e mesi a questa parte? E voi stessa, voi Paolina, che pure un dì avevate il santo timor di Dio e il rispetto alla religione....

— Oh! li ho tuttavia: interruppe con vivacità la povera donna che ascoltava quelle rimostranze a capo chino nell'atteggio d'una colpevole pentita.

— Li avete, li avete: riprese il frate; ma non lo date a divedere, affè, ed agite come se non sapeste affatto che cosa sono. Alle funzioni religiose non vi si vede....

— Non manco mai tutte le feste di precetto alla messa...

— Non basta. Bel merito udir la messa, — una messa alla sfuggiasca — una volta per settimana! Ma alla predica ed alla benedizione ed ai vespri non vi si vede; ma alla Via crucis non vi si vede; ma alle quarant'ore non vi si vede; ma — che è peggio — al confessionale non vi si vede.

— Ho tanto da fare! Balbettò sommessamente Paolina. Quattro bambini a cui accudire. Mio marito non è mai a casa. Come lasciarli soli?...

— Eh! chi ha la volontà d'una cosa trova tempo, mezzo ed occasione par farla: e Dio aiuta chi lo adora come vuole la nostra Santa Madre Chiesa. Voi vi astenete dalle pratiche della divozione per accudire, voi dite, alla famiglia. Oh guardate come le vi van bene le cose di questa! Credete voi che se foste proprio que' divoti cattolici che si deve sareste ancora in siffatti imbrogli? Oh che il buon Gesù e la Madonna troverebbero modo ben essi di aiutarvi.

Nariccia si accostò al frate col suo collo torto e colle mani giunte.

— Perdonate, padre Bonaventura, ma vi faccio osservare che l'ora passa.

— È vero: disse il gesuita disponendosi a prendere tra mani il calice, mentre l'usuraio s'impadroniva del messale.

— Dunque, supplicò Paolina con ansia, mi vuol Ella fare la carità che imploro? Non per me, nè per mio marito, ma pei miei figli!... Sono innocenti loro.

— Bene: rispose a voce sommessa il frate. Rimanete. Dopo messa udrò in confessione messer Nariccia, ed allora glie ne dirò.

Alla povera donna parve con ciò di aver già ottenuto un sommo favore, ed aprendo il suo cuore angosciato ad un po' di speranza recossi nella chiesa ad ascoltar la messa detta da padre Bonaventura. Dopo la messa il frate, spogliatosi dei paramenti, fatte le solite preghiere, confabulato con parecchie donnaccole venute a parlargli, entrò nel confessionale, alla cui graticola stava già in ginocchio Nariccia ad aspettarlo. La confessione fu lunga come un colloquio d'affari. Paolina, prosternata sul freddo pavimento, in quella fredda atmosfera che le agghiacciava le ossa, guardava con occhio intento quel confessionale dove si trattava della sorte dei suoi e pregava con infinito ardore.

Finalmente la confessione di Nariccia fu finita; ed egli levandosi di là andò ad inginocchiarsi alla balaustra d'una cappella vicina, vi stette cinque minuti colla faccia nascosta nelle mani, poi si alzò e facendosi dei gran crocioni sul petto, senza guardare [24] nè a destra nè a sinistra, coi suoi occhi birci fissi alla terra si partì di chiesa.

Paolina lo aveva seguitato col medesimo sguardo ansioso e scrutatore. Avrebbe voluto discernere dall'espressione della fisionomia di lui, dagli atti il tenore della sua risposta alla preghiera fattagli per mezzo del confessore; ma chi era capace di leggere alcuna cosa sulla faccia da impostore di quel tristo? Si voleva confortare dicendosi essere impossibile che una preghiera fatta in confessione dal confessore non fosse esaudita; ma poi tosto ricordava la durezza di cuore del padrone di casa, ricordava le ingiurie che a costui aveva dette la sera innanzi Andrea ubbriaco, e cadeva d'ogni speranza. Ad ogni modo il tempo dell'attesa era lungo e doloroso troppo all'impazienza di quella povera anima. Pensava che i figli suoi erano là ad aspettare un tozzo di pane, ad aspettare la salvezza da una parola che quei due uomini raccolti in quel confessionale pronunziassero. Il disagio fisico accresceva l'angoscia morale della infelice. A quel freddo il dolore del petto le si era accresciuto, fattasi più tormentosa la tosse. Ella sentiva delle strette, delle oppressioni alla gola, ai polmoni, al cuore, per cui le pareva tratto tratto averle da mancare compiutamente il fiato ed essa dover cascar lì come morta. E il tempo passava; e dopo Nariccia alle grate del confessionale di padre Bonaventura succedevano l'uno all'altro i penitenti, la maggior parte vecchie donne che non la finivano più.

Ma anche codesto ebbe fine. Padre Bonaventura uscì soffiando dal confessionale coll'aria la più annoiata del mondo. Paolina gli corse dietro e lo raggiunse in sacristia.

— Ebbene? Interrogò ella ansiosamente.

— Ebbene ho parlato del vostro affare con messer Nariccia.

Fece una pausa. La donna pendeva dai labbri di lui, tutta l'anima concentrata nello sguardo con cui pareva volergli leggere nel cervello la risposta che stava per dare.

— E che cosa disse? Susurrò Paolina per sollecitare questa risposta.

— Che non gli è possibile far nulla in vostro favore.

Paolina lasciò cadere il capo sul petto e mandò un sospiro che pareva un singhiozzo.

— Voi avete molti torti verso di lui. Continuava a dire il frate con accento affettato di paterna rimostranza. Egli fu molto lunganime a vostro riguardo.....

Ma la donna, che non aveva più nulla da aspettarsi, giudicò inutile perdere ancora altro tempo ad ascoltare nuovi ammonimenti del gesuita.

— La ringrazio di cuore la stessa cosa: diss'ella con voce che sapeva di pianto. Se la pietà non ha toccato il cuore di messer Nariccia, ho pregato tanto tanto Iddio che spero mi vorrà accordare la grazia di trovare altri più generosi; e se no, Dio è lassù che ci vede, e quando il padrone di casa ci avrà cacciati a morir sulla strada, giudicherà Egli.

E senza più aggiungere altra parola si partì di là barcollante sulle sue deboli gambe con un affanno in cuore, come Dio vel dica.

Si recò diviata al palazzo Baldissero. La disperazione le diede coraggio di affrontare l'impertinenza dei domestici levatisi allor allora, che si stiravano nell'anticamera. Quando questi la udirono dire che voleva parlare a madamigella Virginia, la credettero matta. Ella insistette, e i lacchè la cacciarono via con brutte parole, e poco meno che a spintoni come una pezzente fastidiosa, giurando per tutti i diavoli che nemmanco a cagione d'una duchessa avrebbero fatto svegliare madamigella, la quale, stata al ballo la notte scorsa, avrebbe dormito almeno almeno fino alle dieci.

Paolina ottenne ciò soltanto, che, quando madamigella fosse alzata, le si dicesse della sua venuta, le si dicesse ch'ella — la misera donna — aveva bisogno di parlarle o sarebbe stata precipitata.

La infelice si trovò sotto il portone del palazzo, affranta, senza omai più un filo di speranza.

— E come portar pane intanto ai miei figli? Si domandava essa stringendosi colle mani tremanti il capo che le ardeva.

Si ricordò in quel punto della famiglia Benda.

— Ah! Esclamò con un lampo di gioia negli occhi. Quelli là li troverò alzati..... E la signora Teresa non mi respingerà.

Questo pensiero ridonò alcune forze a quel corpo affralito, e Paolina riprese la sua corsa verso la lontana officina del sig. Benda, dove l'abbiamo vista arrivare.

CAPITOLO V.

Paolina aveva semplicemente narrato la sua Odissea del mattino: le avevano risposto colle lagrime Teresa e Maria. Quest'ultima, senza lasciar pure che la misera donna formulasse le sue domande, proruppe con tutto l'ardore d'un cuor giovenile di donna commosso dalla pietà:

— Rassicuratevi, Paolina, non affliggetevi più oltre. Noi pagheremo la pigione che dovete a quel brutto cattivo padron di casa.... Non è vero mamma?... E i vostri figliuoletti avranno ciò che loro occorre.... Non è vero mamma?

La signora Teresa non aveva il coraggio di contraddire alle parole della figliuola.

Paolina a cui finalmente l'anima, per così dire, tornava in corpo, benediceva con trasporto di riconoscenza le generose benefattrici, e dalla loro bontà pigliava ardire a soggiungere quell'altra supplicazione, che per la sorte della sua famiglia era ancora più importante.

— Ciò non è tutto: diceva essa. Loro mi salvano [25] la vita dei bambini, ma potrebbero ancora salvarmene ed assicurarmene l'avvenire.... Ah! non mi dicano una sfacciata se oso chiedere più di quanto la loro generosità mi ha concesso. Una madre per cui si tratta della vita de' figli suoi — Ella deve capirlo signora Teresa — ha qualunque coraggio.

— Che cos'è? Domandava Maria con tale un accento d'affetto e d'interesse che era il migliore incoraggiamento a parlare.

E la poveretta riconfortata continuava:

— Capiranno anche loro che, dopo toltici da queste disperate condizioni del momento, se non ci si presenta qualche modo di ricavarcela, non andrà gran tempo che ci troveremo di nuovo al punto medesimo.

— Bisognerebbe che vostro marito si mettesse su strada migliore e lavorasse da buon operaio: disse Teresa.

— Ecco appunto! Il mio Andrea par deciso..... oh lo è assolutamente... questi ultimi nostri guai l'hanno scosso dal fondo... è deciso a cambiar vita e tornare quell'onesto, bravo e laborioso operaio che gli era un tempo. Ma per ciò vi occorre pure una cosa che non dipende da lui solamente: quella di trovar lavoro.

Madre e figliuola, che compresero tosto la conclusione a cui voleva venirne Paolina, ricordando le parole dette poc'anzi da Giacomo, si guardarono sconcertate.

— Egli ne ha già cercato da tutte parti, continuava Paolina; ma la mala ventura lo perseguita, e presso nessuno non ha potuto allogarsi... Io, sempre fiduciosa nell'inesauribile carità del loro cuore, ho accolto la speranza che grazie alla loro intromissione, il signor Benda avrebbe acconsentito ancora una volta a ricevere nei suoi laboratoi il mio uomo...

Vide l'impaccio che appariva nel volto di Teresa e di Maria, e s'affrettò a soggiungere con infinito calore di preghiera:

— Per carità non mi dicano di no... Mio marito è cambiato, glie lo assicuro, signora Teresa, vedrà... Facciano ancora questa prova ed avranno il merito innanzi a Dio d'averci salvati quanti siamo della povera nostra famiglia.

Ed aggiunse tante supplicazioni, e dipinse così al vivo ciò che sarebbe avvenuto di loro se questa sua speranza rimanesse frustrata, che qualunque, il quale non avesse il cuore di Nariccia, ne sarebbe stato commosso.

La signora Teresa, al primo enunciarsi della domanda di Paolina, era risoluta a non acconsentire di torsi l'incarico di parlar di ciò a suo marito; ma quando la misera donna ebbe dimostro con sì efficaci colori, come senza codesta grazia ogni altro soccorso per loro sarebbe nulla, la risoluzione della buona moglie di Giacomo era già molto scossa; finì poi per crollare del tutto, quando, secondo il solito, Maria colla sua graziosa petulanza si affrettò di esprimere ella prima, senz'altro, le impressioni e le volontà non solamente sue, ma anco della mamma.

— È vero, è giusto: esclamò essa. Dove non si dia lavoro all'uomo c'è nulla di fatto..... Ah! un uomo che cerca lavoro per mantenere la sua famiglia, qualunque sia stato il suo passato, dovrebbe sempre trovarne.... Non è vero mamma? Oh andate là, Paolina, che noi vi comprendiamo. Avete avuto la migliore ispirazione del mondo a venirvi raccomandare alla mia buona mamma. Essa parlerà in vostro favore al babbo, e quando essa parla, papà non può a meno che darle ragione..... Dunque io ritengo la cosa per bella e fatta.

— Ah! Dio l'ascolti e la benedica! Esclamò la povera donna stringendo le mani ed illuminando il volto d'un raggio di gioia come da lungo tempo non era più comparso sui patiti lineamenti della sua mesta fisionomia.

— Un momento, un momento: disse allora la madre di Maria, metà sorridendo, metà con aria di rampogna. Non corriamo per la posta. Tu pazzerella, soggiunse volgendosi alla figliuola, sei solita a vedere per cosa fatta quello che desideri, e colla tua testolina, vai, vai, che nessuno più ti può frenare.....

Maria mostrò a sua madre la faccia di Paolina che, a tali parole, spento quel lampo di gioia, erasi di nuovo rannuvolata tristissimamente.

— Ah mamma: esclamò la giovanetta: vedi come s'è subito di nuovo abbattuta questa povera donna!

E la signora Teresa, vivacemente:

— Non dico già che non siavi di ciò nessuna speranza. Io ben volentieri mi prenderò l'incarico di parlare a mio marito.

— Dunque la cosa è fatta: interruppe la fanciulla, battendo insieme le mani. Figurati se il papà vorrà dir di no ad una cosa che gli domandi tu!... E ad una cosa simile!!

— Mio marito: soggiunse con tono severo la madre: è il padrone, e nelle decisioni che ha da prendere, egli, meglio dei nostri cervelli, sa vedere quello che si debba.

— Sì, sì, hai ragione, mamma. E gli è appunto per ciò ch'io sono sicura che il babbo s'affretterà a dire un bel sì grosso, appena tu gli abbia parlato.

Teresa, sollecitata più che dalle parole, dagli sguardi della figliuola e della misera donna supplicante, si recò senz'altro indugio nello studiòlo di suo marito.

Il signor Giacomo, all'udire entrare qualcheduno, alzò la testa, e visto sul volto della moglie un certo impaccio, una certa timidità con qualche sollecitudine, avvisò tosto che la veniva per domandargliene alcun che; onde, affine di incoraggiarla, prendendo un'aria ridente, disse:

— Sei tu Teresa? Oh oh scommetto che tu hai bisogno di me per qualche cosa.

[26] — Bisogno, no: rispose la brava donna esitando. Sono venuta a pregarti d'un favore... d'un grosso favore... ma per altri.

Giacomo respinse da sè il libro di conti che aveva dinanzi, e volgendosi di meglio col suo seggiolone verso la moglie, le disse con accento fra premuroso e fra scherzevole:

— Parla, parla pure; ma che sì che indovino. Si tratta di qualche capriccietto di sor Francesco, il quale, non osando manifestarmelo egli stesso, ha incaricato te di venirmene a domandare.....

Teresa scosse la testa in segno negativo.

— Oppure di quella pazzerella di Maria, eh?

— Nemmeno. Trattasi di quella povera donna che è venuta adesso.

Il signor Benda s'aspettava così poco questa risposta che la sua fisionomia ne mostrò un alto stupore.

— Ah ah! Paolina vuol dire?

— Appunto.

— Ebbene? che cosa vuoi tu per essa? Ancora del denaro da darle?

Teresa espose la supplicazione della moglie di Andrea e la confortò con tutte quelle ragioni che seppe. Giacomo aveva preso sulla scrivania un tagliacarte e se ne batteva le nocca delle dita, lasciando parlare la donna senza interromperla e senza dar segno alcuno dei suoi sentimenti. Quando Teresa ebbe finito, egli stette ancora alcun poco in silenzio, come se meditasse tuttavia sul partito da adottarsi, poi disse con tono di rincrescimento, ma insieme di irremovibile fermezza:

— Duolmi assai non contentarti, poichè tu mostri desiderar codesto, mia buona Teresa; ma invero non lo posso e non lo debbo. Nelle officine non vi è assolutamente il posto per nessun nuovo operaio, e si presentasse anche il migliore di essi, in questo momento io non potrei accoglierlo se non mandandone via un altro per fargli luogo. Tu non mi vorresti già consigliare nel caso presente che io licenzii un buono e bravo lavoratore che mi serve bene per sostituirlo col tuo protetto, cui siamo già stati obbligati a scacciare tre volte per indisciplina, per mancanza ai suoi doveri, per pessima condotta? Tu mi dirai invece che, trattandosi di fare un atto di carità, si può bene prendere un operaio più del bisognevole; ma io, come uomo di affari, non sono di questo avviso. La carità è una cosa e l'esercizio di un'industria è un'altra. Chi volesse tener questo con tutte le nobili ispirazioni ed esigenze di quella, andrebbe presto in malora ed avrebb'egli bisogno della carità altrui. Un'impresa industriale deve limitarsi a dar pane, soltanto a quelli a cui ha da dar lavoro, e che quindi le sono utili efficacemente. Quest'obbligo di buona amministrazione non è soltanto il mio particolare interesse che me lo dà, ma quello altresì di coloro che mi si sono associati all'impresa, che hanno fiducia in me, nella mia attività, onestà e intelligenza per investire nella nostra impresa i loro capitali o il loro lavoro, ed ai quali io recherei una sottrazione di utili per far loro esercitare inconsciamente un atto di carità. È una cosa tanto da poco, mi dirai: ma io sono assoluto ne' miei principii e non ammetto eccezioni. Se si fa codesto favore per costui, perchè non dovrebbe farsi per tutti gli altri che si trovano nella medesima condizione, finchè ci sia un margine di guadagno da poter impiegare in paghe di operai non necessarii? E ne andiamo fino a quelle assurde teorie che proclamano alcuni matti in Francia, le quali sarebbero la rovina di tutti i capitali, val quanto dire la distruzione della proprietà e di ogni ricchezza privata e pubblica. Ma ti dirò di più, che nel caso concreto, ancorchè ci fosse veramente un posto nei laboratorii, non vorrei darlo a quell'Andrea, il quale non recherebbe fra i miei operai che cattivi consigli, tristi esempi e funeste tendenze..... Si è corretto, tu vuoi dirmi. Sarà; voglio crederlo, ma siccome l'ho già sperimentato due volte, preferisco che altri faccia la terza prova... To', dà a quella povera donna questo napoleone d'oro; ma dille che per suo marito non c'è posto nessuno.

All'espressione del volto della signora Teresa, quando tornò nella sua stanza dove l'aspettavano Maria e Paolina, quest'ultima tosto s'accorse che ogni speranza era perduta; ma quando la moglie di Giacomo ebbe manifestata la definitiva sentenza di suo marito, il dolore di Paolina fu tanto, che mandando appena un sospiro, svenne.

Maria e sua madre le furono intorno con ogni argomento atto a farla risensare, e quando la poveretta fu tornata in sè, con ogni fatta buone parole l'assicurarono che esse non l'avrebbero abbandonata, che fino a quando suo marito avrebbe trovato lavoro avrebbero provveduto alla misera famiglia.

Ma intanto l'infelice donna era così debole che a tornare a casa sua tanto lontano, le forze non le bastavano a nissun modo. Maria, coll'assenso della madre, fece attaccare i cavalli alla carrozza per condurvela e volle scortare ella stessa la povera donna recando seco un buon paniere con provvigioni di bocca e d'abiti e di biancherie, cui Bastiano il portinaio, che conosciamo, accompagnando la padroncina, avrebbe portato fin su nella soffitta di quella povera gente.

I bambini piangevano domandando del pane, Andrea non sapeva più quali parole trovare di promessa di minaccia per acchetarli. Le provvigioni recate da Bastiano nel grosso paniere, giunsero opportune come la manna agli Ebrei nel deserto. Andrea, udendo la sentenza del signor Benda che lo escludeva dalle sue officine, pronunziò una brutta bestemmia, e curvando il capo con atto di disperazione, disse cupamente:

[27] — Ah! quando ad un uomo si chiude tutte le vie dell'onesto guadagno, bisogna bene allora, che egli....

Ma Paolina lo interruppe:

— Ne troverai di lavoro, cercandone indefessamente, e intanto la buona signora Maria ha promesso che non ci avrebbe abbandonati.

— No: disse la giovane, a cui la vista di quella miseria stringeva dolorosamente il cuore. Mia madre ed io non vi abbandoneremo.

— La ringrazio: disse il marito di Paolina con accento in cui più della riconoscenza avreste potuto notarvi il dubbio; la ringrazio Lei e la signora sua madre; ma dica pure a suo padre che ha fatto male a non concedermi questa grazia, ha fatto molto male.

Paolina prontamente s'intromise.

— Il signor Benda non ha potuto credere così di subito che tu fossi tornato l'Andrea d'una volta. Quando tu gli avrai provato che così è veramente, egli non ti respingerà più, egli che un tempo ti voleva bene.

— Oh sì, sì: soggiunse Maria: sperate. Intanto Paolina, voi che siete alquanto indisposta, mettetevi a letto ed abbiatevi cura. Vedete come le vostre mani vi tremano ancora!..... Non avete che questo giaciglio per letto?.... Dio buono! Non c'è nemmanco da coprirvi! Manderò qui da Bastiano alcune coperte e lenzuoli; ma intanto coricatevi subito.... Scommetto che ci avete la febbre. Non ci è alcun medico che venga a visitarvi?

— No signora: rispose Andrea. Non abbiamo denari da pagarne veruno; e quello della parrocchia, è venuto due o tre volte, e poi ha detto che non c'era nulla da fare e non tornò più.

— Ve ne farò venire uno io: riprese la pietosa giovane; manderò a cercare di quello della nostra famiglia.

Si volse a Bastiano:

— Avete inteso, Bastiano! Adesso ch'io discenda, riconducendomi a casa, farete passare la carrozza innanzi l'abitazione del dottore e salirete su a pregarlo a mio nome di venir qui.

— Sì, signora Maria.

Paolina avrebbe voluto ringraziare ancora per questo nuovo tratto di carità; ma non aveva più la forza di farlo, non aveva più la forza nemmeno di reggersi, onde abbandonatasi del tutto su quello strammazzo presso cui si trovava, giacque lunga e distesa e chiuse gli occhi che pareva di nuovo svenuta. Il marito ne racconciò il corpo sul giaciglio: Maria ordinò a Bastiano che mescesse in un bicchiere un dito di quel vino che avevano recato e lo fece bere a piccoli sorsi alla giacente che ne parve riconfortata; poi, siccome toccandone le guancie e le mani la generosa fanciulla sentì sempre più ghiaccie le carni di quella povera donna, per un moto quasi irriflessivo, ella si tolse il suo scialle di lana caldo e soffice e lo pose accuratamente sopra le membra della povera Paolina.

Questa non ringraziò che con uno sguardo, poichè colla voce non lo poteva, ma quello sguardo era pieno di riconoscenza. In quella all'uscio della miserabile soffitta ecco suonare una voce di donna armoniosa e soavissima:

— Si può entrare?

— Avanti: disse la voce rauca ed aspra di Andrea.

L'uscio si aprì e comparve nel vano della porta, spiccando in chiaro sopra lo scuro del corridoio la splendida bellezza della nobile signora damigella Virginia di Castelletto.

Era vestita di scuro a le sue carni bianchissime e le sue chiome color d'oro parevano mandare attorno l'aureola d'una mitissima luce. Dietro di lei veniva una vecchia governante, e nell'ombra del corridoio vedevasi il cappello gallonato d'un domestico in piccola livrea. Stette ella un istante sulla soglia, guardando intorno co' suoi occhi splendidi, smaglianti, in cui avreste detto in quel momento esservi tutto il riflesso del più bel sereno di cielo in un purissimo lago, mentre un sorriso pietoso e pieno di dignità appariva sulle labbra con fiera eleganza disegnate; poi s'inoltrò con passo leggiero e spedito, che pareva sorvolare sullo spazzo con mossa di persona di naturalissima leggiadria, e si accostò alla donna giacente. Maria si tirò indietro d'alcuni passi per lasciarle luogo, e Virginia, entrandole innanzi le fece col capo un saluto cortesissimo, però senza mostrare che ella l'avesse altrimenti riconosciuta. Andrea stava colà dritto, quasi attonito, senza sapere che fare nè che dirsi; e i bambini medesimi tenevano aperto tanto di bocca e tanto d'occhi a guardare meravigliati quella giovanile ed elegante bellezza che attraversava come una splendida visione la squallida atmosfera della loro miseria.

Quando fu presso alla inferma, la nobile visitatrice, fece suonare quella sua voce piena di soavissimo incanto.

— Povera Paolina! Voi state poco bene?

La moglie d'Andrea, confusa e commossa balbettò:

— Oh signora marchesina... Lei qui... in questo miserabile buco... Lei venire fino quassù... Che degnazione!

E volle fare uno sforzo per levarsi su colla persona a seder sul giaciglio.

Ma Virginia le pose amorevolmente la sua piccola mano inguantata sopra una spalla e la impedì di muoversi.

— State lì, buona donna: disse: non vi muovete. Appena ebbi inteso che voi eravate venuta a cercare di me e con tanta fervorosa sollecitudine, amaramente mi dolse che non vi avessero introdotta, ed avvisando che forse premuroso sarebbe stato il motivo della vostra venuta, pensai miglior consiglio [28] non aspettare che tornaste, ma venire io stessa a vedervi..... Ed eccomi.

Queste cose erano dette con sì dignitosa semplicità e con tanto avvenente soavità di voce che chiunque le udisse doveva dar loro un pregio e provarne un effetto che è impossibile esprimere.

Virginia aveva diffatti un cuore generoso e nobilissimo, di tal natura da essere non solo facilmente accessibile ad ogni istinto di pietà, ad ogni sentimento di carità, ma ancora da sapere ogni atto misericordioso accompagnare con quelle forme e quei modi che maggior prezzo e nuovo merito accrescono all'atto medesimo.

Di siffatta natura era stata l'ispirazione che subitamente erale nata quella mattina udendo come la Paolina, con aspetto di tanto dolore e di tanta passione, fosse venuta cercando di lei; l'ispirazione voglio dire di recarsi ella stessa nella soffitta della povera donna, di cui ben conosceva l'indirizzo, affine di vedere cogli occhi proprii e più sollecitamente quali fossero i bisogni della disgraziata famiglia. Ben sapeva ella che un soccorso portato in persona, una buona parola detta a viva voce dal ricco e dal potente producono assai più bene al povero; e in quel punto ella sentivasi maggiore del solito nella bell'anima l'impulso di fare, a chi soffrisse, il maggior bene ch'ella potesse.

Il perchè di questa sua maggior tendenza alla benefica pietà, ella non avrebbe saputo pur dirlo dove altri ne l'avesse interrogata; ma in vero proveniva da ciò che il suo cuore fosse allora oppresso da non lieve angustia, a scemar la quale, come alle anime veramente gentili avviene, sentiva non esservi mezzo migliore che recar soccorso alle angustie altrui.

Cagione della sua angustia era il duello ch'ella non dubitava punto sarebbe intravvenuto fra suo cugino il giovane marchese di Baldissero e l'avvocato Benda, del qual duello ella, benchè involontaria affatto, era pur tuttavia la causa, o, per meglio dire, il pretesto.

Il pensiero che per lei due uomini stanno ponendo a cimento la vita è pur sempre doloroso ad ogni mite animo di donna; ma è tale tanto più allora quando di questi due uomini uno è legato a lei per vincoli di sangue, e verso l'altro inchina il suo cuore per profonda simpatia. Con Virginia il marchesino di Baldissero erasi allevato come fratello; il padre e la madre di lui — il padre soprattutto — avevano tenuto e tenevano luogo di genitori ad essa orfana e sola. Se una disgrazia fosse accaduta a quel giovane — il primogenito di quella famiglia supremamente aristocratica — qual dolore non sarebbe egli stato quello della marchesa, e a mille doppi più, benchè di più contenuto certamente, quello del vecchio marchese! E d'altra parte, se non al marchesino, ma al suo avversario fosse stata nemica la sorte? A tal pensiero, Virginia sentiva una stretta nell'animo tanto forte che non sapeva darsene una spiegazione. Era assai più dell'interesse cui suscita in un'anima cristiana il pericolo d'un indifferente; era lo sgomento che ci coglie, quando vediamo minacciata un'esistenza la quale per mille tenacissimi legami s'attiene alla nostra. Codesta fu come una rivelazione a Virginia medesima. Quel giovane non erale nulla di nulla, eppure perchè, palpitava cotanto il suo cuore al sol pensiero d'una disgrazia che potesse sovraccoglierlo? Secondo le strette regole delle usanze mondane potevasi dire ch'ella appena se lo conoscesse; egli non apparteneva alla casta di lei; nella sfera sociale in cui essa era nata e viveva, appena se quel giovane potesse comparire alla sfuggita, per tolleranza, per suo diritto mai; e tuttavia ella sentiva che della sorte di lui era troppo più sollecito il suo cuore che non di quella d'ogni altro. Ricordava ad un punto come lo avesse conosciuto, ed ogni occasione in cui l'avesse visto.

La prima volta che la esistenza di quel giovane si fosse a lei manifestata, era per mezzo d'una graziosa romanza piena di soavità e di affetto, ch'ella si piacque a suonare più d'ogni altro pezzo di musica sul suo gravicembalo ed a cantare colla sua voce d'argento. Era intitolata Crepuscolo, e con vera e piacevole commozione in quella stagione autunnale in cui si trovava, Virginia si accresceva coll'esecuzione di quella ispirata romanza la soave mestizia delle ore vespertine. Quella musica le diceva di tante cose, le accarezzava sì dolcemente l'anima vibrante! Dopo averla fatta risuonare pel mite ambiente delle prime ombrie, ella appoggiava il suo gomito sui tasti d'avorio, reclinava sulla mano la sua bella fronte, e pensava, o, per dir meglio fantasiava di così vaghe ed ineffabili immagini, e il venticello della sera che per la finestra aperta veniva ad agitarle i ricci graziosamente scomposti della sua capigliatura color d'oro, parevale che ancora sommessamente le ripetesse la graziosa melodia. Volle che il mercante di musica le provvedesse tutte le composizioni che vi fossero del medesimo autore, e in tutte trovò qualche cosa che le parlava all'anima. Alla persona di codesto autore che tanto sapeva scuotere le intime fibre dell'esser suo, ella non aveva pensato neppur mai. Che fosse vicino o lontano, di queste o di quelle sembianze, dell'una o dell'altra età; non erale venuto in mente nemmanco che ciò la potesse interessare. Non nascondeva a nessuno la sua preferenza per quelle musicali composizioni, e dopo i grandi maestri, di cui ella era tanto buona esecutrice da intendere e sapere interpretare i concetti, a sè medesima la non regalava altre suonate più che quelle dello sconosciuto Francesco Benda.

Questo nome non erale nuovo pur tuttavia, perchè nel Sacro cuore, ov'ella era stata allevata, una ragazza di famiglia borghese di tal nome aveva passato [29] alcun tempo: ma fra le due fanciulle, separate dal rango sociale, non eravi stata molta accontagione, e in quei pochi mesi durante cui Maria era rimasta nel collegio, appena se si erano conosciute di vista se avevano scambiata qualche rara parola. Virginia si ricordava tanto poco di questa sua compagna, di cui da oltre a due anni non aveva inteso più nulla, che mai non le venne pure in capo il pensiero che quel suo prediletto autore di composizioni musicali avesse alcuna attinenza colla giovinetta, la quale per alcun tempo ella aveva visto correre e saltare pei viali del giardino del convento.

Un giorno, quando rientrata in città dalla campagna, di tardo autunno, Virginia trovavasi al corso delle carrozze che allora soleva farsi dall'una alle tre pomeridiane sul viale dei platani, detto viale del re. La bella giornata, lo splendido sole che attiepidiva la temperatura avevano chiamato alla passeggiata tutto quanto contava allora Torino di più elegante: carrozze di lusso con dame in assettature di sfarzo, damerini colle spalline o col soprabito alla moda, a cavallo, formavano un fiume smagliante di colori che scorreva lentamente nello stradone di mezzo, mentre nei viali laterali, sotto i rami già assecchiti dei platani, brulicava la folla della gente a piedi che ammirava curiosa quegli sfoggi contesi alla mediocrità ed anco all'assenza delle sue fortune.

Virginia era nella carrozza scoperta e in compagnia di una sua amica di convento, la quale, maggiore di lei di alcuni anni, già erasi maritata. Una frotta di giovani eleganti a cavallo passò rasente il legno: alcuno di essi salutò e tutti salutarono.

— Hai tu visto, disse l'amica a Virginia, l'autore della bella romanza il Crepuscolo?

— No: rispose la giovane; non lo conosco punto. E soggiunse con qualche interesse: È egli passato?

— Sì, fra quei cavalieri.

Virginia staccò le spalle dai cuscini con un moto non privo di vivacità.

— Qual è di essi?

— Quell'alto, dai baffetti biondi, che cavalca quel bel morello così pien di fuoco.

Virginia si volse indietro non senza premurosa curiosità. La carrozza andava lentamente e i cavalieri camminavan di passo; a pochi metri distante ella vide il giovane additatole, rattenute le briglie del cavallo, volto verso la carrozza in cui ella era, lanciando su di lei uno sguardo che era più e meglio che di ammirazione. Gli occhi de' giovani s'incontrarono: quelli di lui furono corsi da un baleno, le pupille di lei si chinarono ratte, ed essa volse tostamente il capo, mentre un lieve rossore le saliva alle guancie.

Non era stato che un attimo: ma pur tuttavia la fanciulla aveva potuto scorgere la bellezza dei lineamenti di quel viso franco e giovanile, la bellezza dell'espressione di quello sguardo sincero, di quella fisionomia aperta; aveva scorto la grazia della persona, la destrezza del corpo nel cavalcare, tutto un acconcio complesso in cui si contemperavano leggiadria e forza di forme; e questa è tal veduta che non può dispiacere ad occhio nessuno di donna.

Ma v'era anche di più. Quell'avvenenza maschile non era la prima volta che le si presentava dinanzi: l'adorazione di quello sguardo profondo già più fiate ella se l'era trovata dinanzi, e senza volerlo n'era stata alquanto preoccupata la sua mente. Superbia o indifferenza, o riserbo che fosse, ella non s'era mai curata sino allora di sapere chi fosse quel discreto che fin dall'inverno precedente in ogni pubblico ritrovo, da lontano volgeva alla bellezza di lei un muto, modesto, ma pure appassionato omaggio di sguardi. Ora, ad un tratto, ecco ch'e' le veniva innanzi con un nome avvantaggiato d'una certa simpatica notorietà, col merito d'un talento, a cui ella doveva tante dolci emozioni.

— Un bel giovane, non è vero? Disse a Virginia la sua amica.

Virginia mostrò non avere udito e parve tutta intenta a contemplare l'abbigliamento d'una signora che passava.

Non se ne parlò dell'altro ed avreste detto che la nobile fanciulla non pensava più menomamente a codesto. Ma così non era. Quando la carrozza si incontrò nuovamente nella cavalcata dei giovani fra cui si trovava e davvero spiccava primo per leggiadria Francesco, Virginia vide da lontano la faccia simpatica e lo sguardo adorativo di lui, ma volse altrove senz'affettazione il suo volto e credette di potere lasciar trapassare l'elegante cavaliere, senza favorirlo altrimenti d'una occhiata; ma quando egli fu proprio all'altezza della carrozza in cui ella si trovava, fece corvettare il suo cavallo che parve inalberarsi e imbizzarrire. La compagna di Virginia mandò una lieve esclamazione; la giovane non ci potè reggere e si volse a guardare. Gli occhi loro s'incontrarono nuovamente: poi egli raccolse le briglie, eccitò cogli sproni il destriero che si slanciò avanti e passò. Fu un lampo; ma la prima impressione ricevutane senza che Virginia punto se ne accorgesse, era in lei ribadita.

— Quasi mi ha fatto paura: disse l'amica di Virginia sorridendo; ed ho avuto torto, perchè il sig. Benda è uno dei più abili cavalieri della nostra città.

Virginia non disse parola, ma dopo un momento di silenzio, domandò con indifferenza quasi sbadata:

— Tu lo conosci di molto?

— Chi? Il signor Benda?

La ragazza fece col capo un cenno affermativo.

— Mio marito lo tratta con una certa famigliarità. Egli viene qualche volta a casa nostra. Mi porta tutte le nuove composizioni che fa, e me le [30] suona egli stesso. Se tu le udissi eseguite da lui, quelle coserelle acquistano ancora maggior valore. Sa dare loro un'espressione, un sentimento!... È un buonissimo musico, ti assicuro... To, un giorno o l'altro, se ti piace, te lo voglio far sentire.

— Mi farai piacere; rispose tranquillamente Virginia.

Quel giorno medesimo, venuto il vespro, la nobile ragazza, rinchiusasi nel suo salottino, dove stava il gravicembalo su cui soleva studiare e da cui cercare il diletto di qualche ora della sua giornata, suonava con nuovo e maggior sentimento la romanza il Crepuscolo. La notte era mezzo caduta, e Virginia non aveva voluto alcuna luce. Regnava in quella stanza lo scuriccio d'una sera quasi invernale. Le bianche mani della ragazza correvano con tutta agevolezza sui tasti a suscitarne quella melodia ch'ella sapeva a memoria, ed una languida dolcezza, maggiore d'ogni altra volta, pareva col suono di quelle note invadere l'anima e la fantasia della leggiadra suonatrice. In mezzo alle varie e vaghe immagini che, come di solito, venivano ad aleggiare intorno a lei, una le si presentava nuova, e più precisa e più spiccata: quella d'un aitante cavaliero di aggraziate forme e sembianze, del quale parevale scorgere in quel buio la fiamma dello sguardo.

L'amica di Virginia mantenne la sua parola; ed un giorno fece in modo che nel suo salotto la nipote del marchese di Baldissero si trovò insieme col figliuolo dell'industriale Benda. Questi fu modesto, di tratti forbiti, non timido ma riserbato, e nelle indifferenti parole che scambiò con Virginia, seppe essere gentile senza volgarità nessuna. Suonò eccellentemente: poche delle sue composizioni, alcune dei grandi maestri, alle quali seppe dare sì acconcia espressione che più d'una volta Virginia sentì batterle più vivamente il cuore e inumidirsele gli occhi. Quando e' fu partito, la stessa orgogliosissima marchesa di Baldissero confessò che l'avvocato Benda era un giovane degno du meilleur monde; però soggiunse con quell'altezzoso cipiglio che le era naturale:

— Ma gli è figlio d'un petit bourgeois, un bottegaio, un fabbricante o qualche cosa di simile.

Virginia si sentì arrossire, si chinò sul pianoforte presso cui si trovava e da cui il giovane s'era alzato poco stante, e si diede a sfogliare un quaderno di musica.

— Io lo ricevo come un artista di buone maniere: disse la padrona di casa, quasi volendo scusare la presenza di quell'intruso nel suo salotto.

Una certa conoscenza si stabilì fra l'avvocato artista e la famiglia Baldissero, non tanta che permettesse al giovane di presentarsi come visitatore nelle sale del palazzo del marchese, ma tale da poter salutare le signore quando le trovasse per istrada, da parlar con esse allorchè s'incontravano in qualche pubblico convegno, da visitarle in palchetto a teatro.

Virginia e Francesco avevano parlato rare volte insieme e sempre di cose le più indifferenti; ma pure nei loro colloquii avevano avvertita una certa corrente di simpatia che li assembrava, per cui spesse volte le idee dell'uno erano quelle dell'altra, e la fanciulla soprattutto non aveva potuto a meno di notare una certa contenuta emozione che vibrava nella voce del giovane quando a lei dirigeva la parola. Francesco da canto suo non aveva potuto osservar nulla in lei che valesse a dargli l'incoraggiamento d'una menoma speranza a quella passione che oramai lo possedeva tutto e che non poteva più nascondere; ma tuttavia la gentilezza con cui la nobile donzella lo accoglieva, parevagli talvolta alquanto maggiore e più cordiale di quella ch'essa soleva usare con tutti. L'incidente intravvenuto al ballo dell'Accademia filarmonica, mercè il turbamento che le pose nell'animo, apprese alla titolata ragazza che quel giovane borghese erale più caro di quanto ella si sarebbe pensato, di quanto avrebbe voluto.

Virginia, tornata a casa, non potè trovare il menomo riposo. Alla mente non le soccorreva alcun mezzo da poter impedire il duello imminente; e lasciarlo compirsi le sembrava una gran colpa. Sapeva che, avesse anche tutto confidato allo zio, questi, colle sue idee delicatissime in punto ad onore, si sarebbe guardato bene dal muovere pure un dito per distogliere suo figlio da uno scontro stabilito, foss'egli il provocatore o il provocato. Accolse persino un momento la matta idea di scrivere essa a Francesco, pregandolo a non dar seguito alla sfida: ma poi capiva che quest'atto imprudentissimo e non conveniente in lei non avrebbe nulla rimediato, perchè il giovane non l'avrebbe di sicuro obbedita, e quando avesse ottemperato alla sua preghiera, ella sentiva che glie ne avrebbe diminuita la stima. L'oltraggio era veramente tale che un uomo non lo deve a niun modo tollerare: la si sdegnava, a questo pensiero, contro suo cugino, il quale aveva commesso atto sì villano: e si diceva che, secondo le regole di buona giustizia, a lui in un giudizio di Dio, qual era il duello, avrebbe dovuta toccare la punizione: poi tosto inorridiva di questo suo pensiero e se ne accusava come di un gravissimo fallo.

Quando, suonato perchè a lei venisse la cameriera, questa venne a dirle come e con quali parole ed aspetto Paolina erasi presentata al palazzo a domandare di lei, Virginia, secondo quello che ho già detto, sentì un impulso vivissimo a recar subito e di persona conforto a quella misera; chiamò a sè la governante che soleva accompagnarla ogni qual volta ella desiderasse uscire senza la zia (e in ciò le si lasciava una certa libertà) fece attelare la carrozza e venne, come abbiam visto, alla soffitta del proletario Andrea.

[31] — Oh ch'Ella sia benedetta! Dicevale Paolina, prendendo fra le sue la mano inguantata della marchesina e baciandola con fervore di riconoscenza. Sì che la sua visita mi fa bene all'anima ed anco alla salute.

Poi tosto la povera donna sentì che quest'entusiasmo di gratitudine verso colei che in quell'occasione non aveva ancora fattole altro benefizio che di mostrare in mezzo a quella squallidezza lo splendore della sua avvenenza, poteva sembrare un immeritato oblio, un manco verso quella pietosa che già avevala più efficacemente soccorsa; laonde facendo scorrere il suo sguardo verso Maria, la quale si teneva in disparte, ammirando sinceramente la bellezza della sua antica compagna di collegio, Paolina soggiunse:

— Ah! ce n'è ancora di anime d'oro sulla terra; e la Provvidenza ha voluto, nell'eccesso della nostra miseria, mandarcene due.

— Sì: proruppe in quella Andrea colla sua voce rauca e commossa: due angioli.

Virginia si volse vivacemente verso la sorella di Francesco.

— E il merito è tutto di chi venne per primo: diss'ella con infinita grazia, facendo un passo verso Maria.

Quest'essa, quasi abbacinata da quell'aspetto, chinò gli occhi, arrossì e non seppe rispondere che con una riverenza.

Virginia fermò il suo sguardo limpido ed espressivo sulle graziose sembianze di Maria. Riconobbe che esse non erano nuove per lei, e ad un tratto ricordò dove le avesse viste e qual nome portasse chi le aveva. Di botto ella non ebbe più il menomo dubbio che a quel giovane, per la cui sorte in quel momento ella era in pena, fosse congiunta la fanciulla che le stava dinanzi. Per moto irriflessivo, fece vivamente alcuni passi verso Maria, e disse con accento vibrato, come impresso di subita emozione:

— Ma noi ci conosciamo, s'io non m'inganno. Non fu ella nel Sacro Cuore?

— Sì: rispose Maria a cui questo riconoscimento con voce ed espressione così cordiali della marchesina produceva un aggradevol sentimento, quasi di gratitudine.

— Madamigella Benda, non è vero?

— Per l'appunto.

Gli occhi di Virginia balenarono d'un lampo di vero affetto; le sue mani si tesero tuttedue verso Maria che si affrettò a stringerle con affettuosa effusione.

— Con quanto piacere la rivedo! Ogni qual volta mi avviene di trovare alcuna compagna di quel tempo è per me una festa.

Maria non si domandò neppure come avvenisse che essa, a cui nel convento la marchesina non aveva badato più che tanto ed appena era se avesse parlato due o tre volte, ora destasse sì viva emozione nell'aristocratica donzella; ma, buona ed innocente com'ella era, si commosse per quell'accoglienza, e partecipò di vero cuore a quel sentimento quasi di tenerezza che si adombrava nelle parole e nel contegno della sua antica compagna.

— Anche per me: disse Maria un po' confusa; gli è un piacere... Io veramente sono stata così poco tempo in quel collegio... Ero d'altronde così bambina ancora!... Ho avuto pochi rapporti con Lei; ma tuttavia ricordo che fra le grandi Ella era una delle più graziose verso noi piccole, e mi ricordo sopratutto che la ammiravo già come prima e migliore di tutte in tutto.

Virginia sorrise con modestia.

— Ella mi vuole insuperbire.

— Oh no: proruppe Maria con quella sua schietta e irriflessiva vivacità; no, perchè a me non piacciono i superbi.

— Ed ha perfettamente ragione: disse graziosamente la marchesina.

Tacque un istante, e parve cercare una transizione affine di passare a dir cosa che le importava e per cui non sapeva troppo come cominciare; poi decisasi ad un tratto, disse sollecitamente, non senza arrossire un pochino:

— Ella è parente, s'io non erro, del sig. Benda, che scrive così graziose composizioni musicali?

— È mio fratello: rispose Maria con ingenuo orgoglio.

— Ah!...

Virginia esitò un momentino; poi con leggerezza d'accento che un osservatore avrebbe conosciuta un po' forzata:

— L'ho veduto questa notte al ballo della Filarmonica..... che fu in verità uno stupendo ballo..... Suo fratello le avrà detto quanta folla ci fosse...

— Mio fratello non mi ha dello nulla: interruppe Maria sorridendo: perchè quando sono uscita di casa egli dormiva ancora della grossa.

La marchesina mandò un'esclamazione quasi di gioia, e prese vivamente la destra di Maria.

— Dormiva? Davvero! Ella è certa che suo fratello non fosse uscito di casa?

La sorella di Francesco guardò tutto stupita in volto alla sua antica compagna.

— Altro che certa; rispose. La mamma mi fece parlare e camminar piano tutta la mattina, per non disturbare sor Francesco.

Virginia mandò un sospiro che pareva la manifestazione d'un sollievo sopravvenuto all'anima oppressa, e i suoi occhi lampeggiarono lietamente.

Ma Bastiano che aveva udito il colloquio, si fece avanti in quella con aria tra impacciata e tra inquieta e disse:

— Scusi, madamigella, mi rincresce contraddirla; ma il fatto gli è che sor Francesco è uscito quando era appena l'alba..... e mi aveva un aspetto diverso dal solito che mi diede molto da pensare.

[32] Virginia lasciò andare la mano di Maria e divenne pallida; Maria si volse vivacemente verso il portinaio:

— Francesco è uscito all'alba?

— Sì signora. Vennero due giovani a prenderlo, e partì con essi nella carrozza di uno di quei signori.

— Ah mio Dio! Esclamò la marchesina, impalliditasi ancora di più.

— Che vuol dir ciò? Chiese Maria, la quale si accorse del turbamento di Virginia. Qualche pericolo minaccia forse mio fratello?..... Ed Ella lo sa!... Oh per amor del cielo mi dica tutto.

— No, non so nulla: incominciò per rispondere la marchesina: ma poi non essendo ella affatto capace di mentire, inoltre avvisando essere assai miglior consiglio il prevenire quella famiglia d'una disgrazia che poteva colpirla, che a quel momento forse l'aveva già colpita, soggiunse subitamente con voce affrettata: ebbene sì, il caso ha voluto ch'io apprendessi una cosa che riguarda suo fratello. Se egli è uscito così per tempo di casa... molto probabilmente... gli è per andare a battersi.

Maria gettò un grido di spavento e divenne pallida a sua volta come un cencio.

— Battersi! Povero Francesco! Povera mamma!... O mio Dio! Ma come è ciò possibile?

— Ah! Ben me n'ero accorto che c'era qualche cosa di sospetto: esclamò Bastiano.

— Che cosa fare? Diceva Maria fuor di sè, tutto tremante. Come impedirlo? Dove andare?...

Virginia voleva tranquillare alquanto lo sgomento della giovanetta, ma era troppo turbata ancor essa per valerci a ritrovare ragioni che bastassero.

— Andiamo a casa: interruppe ad un tratto Maria: oh la mia povera mamma! Ch'io vada presso di lei...

La marchesina le prese di nuovo tuttedue le mani.

— Coraggio! Diss'ella con voce piena di emozione e d'affetto.

La sorella di Francesco, vinta dalla tenerezza, si lasciò andare sul seno e tra le braccia della nobile sua nuova amica scoppiando in pianto.

— Ah! se ci uccidono mio fratello, uccidono anche la mamma.

— Coraggio! Ripetè Virginia colla sua dolcissima voce; e stringendo fra le sue braccia la figliuola dell'industriale, ne baciò con affetto quasi protettore la fronte.

Il dolore e lo sgomento comuni avevano in quel punto distrutta ogni distanza che gli ordini o, per dir meglio, i pregiudizi sociali ponevano fra quelle due anime pietose ed elette.

Nel partire affrettata, Maria si fermò pur tuttavia innanzi al giaciglio di Paolina.

— Non vi dimenticherò nulla meno: diss'ella: e voi pregate per noi, pregate per Francesco...

Un singhiozzo le ruppe la parola.

— Ah madamigella! esclamò Paolina: con quanto fervore noi pregheremo per tutti loro!..... E non tema di male, no... Essi sono misericordiosi verso la povera gente, e il buon Gesù sarà misericordioso verso di loro.

— Dio vi ascolti! disse Maria asciugandosi gli occhi, e fatto un ultimo cenno di saluto a Virginia, sparì fuor della porta, seguìta da Bastiano.

Volò letteralmente giù delle scale, e salita in fretta nella carrozza che aspettava alla porta di strada, raccomandò a Bastiano con tronche parole che facesse dal cocchiere affrettare la corsa dei cavalli.

In dieci minuti la carrozza giungeva all'officina, e Maria correndo sopra nell'appartamento, trovava già la povera signora Teresa piena l'anima di sgomenti e di paure.

CAPITOLO VI.

Più volte la signora Teresa era andata all'uscio della camera di suo figlio ad origliare; e poichè niun rumore le veniva fatto d'udire, pensando sempre ch'egli chetamente dormisse, erasi sempre allontanata senz'altro con ogni cura per ammorzare il suono dei suoi passi.

Ma la mattinata s'inoltrava e nella stanza di Francesco era sempre la medesima immobilità, il medesimo silenzio. Una qualche inquietudine incominciò ad entrare nell'animo della madre. Che il malessere onde Francesco s'era lamentato fosse cresciuto e fosse la causa di quel sì prolungato manco d'ogni segno di vita? che quello non fosse sonno, ma torpore o fors'anche svenimento? Ad un punto ella ebbe un bisogno insuperabile di vedere suo figlio. S'accostò di nuovo pian piano all'uscio della Camera di lui, e ne aprì con ogni cautela un battente. Nulla udì muoversi colà dentro. Guardò, ma le imposte delle finestre erano chiuse sopra le invetriate e la pallida luce di quel giorno invernale non poteva menomamente penetrare nella stanza. Teresa rimase un poco lì sulla soglia, l'animo ed il passo sospeso, ascoltando attentamente, e poichè nulla nulla non le venne fatto d'udire, nemmanco il suono del rifiato del giacente, chiamò con voce contenuta il figliuolo per nome. Nessuna risposta; ella ripetè la chiama e poi, continuando il medesimo silenzio, si inoltrò cautamente, colle mani tese innanzi, a tastone.

Giunse così presso il letto e ci pose sopra le mani. Sentì che era vuoto, che fredde n'erano le coltri nè anco disordinate dall'esservi giaciuto qualcheduno, e sotto la sua destra il contatto d'un'arma. Era la pistola, con cui Francesco s'era mirato nello specchio, e ch'egli aveva poi gettata sopra il letto.

Teresa mandò un grido, corse all'una, poi all'altra [33] delle finestre, ne spalancò le imposte, e si volse a guardare. Il letto ancora rifatto mostrava che Francesco non s'era coricato; il lume sulla scrivania, alcuni fogli di carta disordinati lì presso, un bastone di cera lacca a metà consumato, di cui alcune goccie erano colate sul candeliere e sul tappeto verde, mostravano che Francesco aveva scritto; gli abiti gettati qua e là in un disordine che non gli era abituale, indicavano all'occhio chiaroveggente della madre un certo turbamento nell'animo del giovane: ma quella pistola sopratutto attraeva lo sguardo spaventato della signora Teresa, come un indizio manifesto di pericolo e di sventura.

La povera donna corse tutto sgomenta da suo marito e con affollate e confuse parole espresse il suo timore. Il signor Giacomo non trovò che quelli fossero indizi sufficienti per allarmarsi; volle recarsi ad esaminare la camera del figlio e trovò mille ragioni onde spiegare la sparizione di Francesco; ma in verità non credeva egli stesso a siffatte ragioni e si sentiva profondamente inquieto egli pure.

In quella ecco sopraggiungere Maria. La sua faccia pallida e sconvolta, i suoi occhi rossi e ancora pieni di lagrime dicevano troppo chiaro com'ella venisse annunziatrice di qualche trista novella. Teresa le fu incontro con impetuosa sollecitudine.

— Tu sai qualche cosa!... Francesco?... Che gli avvenne?... Che fu?... Dov'è?... Parla, parla in nome di Dio.

La giovinetta sconcertata, posseduta dal maggiore sgomento ancor essa, non seppe rispondere altro che la verità da lei appresa poco prima.

Il colpo fu tremendo per quella povera madre. Divenne bianca come un cadavere, si premette con una mano il cuore, vacillò, si tenne ad un mobile per non cadere, parve le mancasse un momento il respiro sotto le strette dell'angoscia che le oppresse il cuore e la gola; ma non mandò un grido, non diede una lagrima.

— Disgraziato! Esclamò il padre, percotendosi coi pugni chiusi la fronte. Di questi dispiaceri ha da dare ai suoi genitori!

Teresa si rassettò con atto meccanico e colle mani febbrilmente agitate i panni che aveva indosso, come fa chi s'appresta ad uscire.

— Lesti, lesti: diss'ella. I cavalli sono bene ancora attaccati alla carrozza? Non si stacchino..... Non bisogna perdere un momento..... O Dio! Ogni minuto che passa può essere mortale per Francesco..... Corriamo, corriamo.

E strinse nervosamente il braccio del marito per sollecitarlo a muoversi.

— E dove abbiamo da andare? Disse questi con ruvidezza dettata dal dolore. Chi sa mai dove si trovano quegli sciagurati!.... Se avessimo qualche indizio!...

Maria disse che Bastiano aveva visto ad uscire Francesco, e Bastiano fu fatto venire, e interrogato su tutti i particolari ch'egli conosceva. Le sue risposte non valsero a dare la menoma luce. Soltanto i genitori ne appresero che a prendere Francesco erano venuti due giovani, di cui uno era Giovanni Selva, ch'essi sapevano amicissimo del loro figliuolo.

Il signor Giacomo si disponeva a correre in casa di Selva per cercare di apprendere colà qualche cosa di positivo, quando una carrozza con un solo cavallo spinto al galoppo, giungeva alla fabbrica, ed entrava coll'impeto di un turbine sotto il portone della dimora dei Benda.

Giacomo, Teresa e Maria si precipitarono verso il vestibolo, e videro da quella carrozza uscire solleciti e venire alla lor volta due giovani di cui riconobbero Giovanni Selva che camminava primo.

Francesco non c'era.

La madre si gettò contro Giovanni con impeto che si sarebbe potuto chiamare quasi feroce.

— Mio figlio! Esclamò essa con voce arrangolata e convulsa. Mio figlio! Che avete fatto di mio figlio?...

Le forze le mancarono e piegandosi sulle ginocchia, sarebbe ella caduta, se Giovanni non fosse stato lesto a sostenerla. Non isvenne però, e mentre le labbra pallide come di morta non avevano più la capacità di pronunciare la parola, i suoi occhi ardenti, fissi sul volto del giovane che la sosteneva, seguitavano ad esprimere con ansia indicibile quella domanda.

— Si tranquilli: disse affrettatamente Giovanni. Suo figlio è sano e salvo, e sta bene..... Glie lo giuro! soggiunse con forza, vedendo l'incredulità dipingersi sul volto di Teresa.

— Si è battuto? Domandò Giacomo con voce, di cui voleva sforzarsi ma non riesciva a dissimulare il tremito.

— No signore, non si è battuto.

— Dov'è? Perchè non è qui? Domandò la madre che aveva ritrovato le forze per parlare e per reggersi sulle proprie gambe.

— Tutto ciò: rispose affrettato Selva, glie lo spiegherà questo signore — il dottor Quercia che doveva essere l'altro testimonio di Francesco. Io, per salvare suo figlio, per salvare molti altri eziandio, ho da compiere una missione, e non bisogna che ci metta indugio di sorta.

Si volse verso il sig. Giacomo e senz'altro preambolo gli disse col tono d'un uomo a cui la pressa non concede di far frasi:

— Ella sa ch'io sono amico intimo e confidente di Francesco; occorre che in tutta fretta io faccia sparire delle carte e dei libri che sono nello scrittoio di suo figlio. Ne va della sua sorte e di quella d'altrui. Si fida ella di me, signor Benda?

— Vada: rispose Giacomo senza la menoma esitazione, come quello che conosceva le strette attinenze che passavano fra quel giovane e suo figlio ed aveva la maggiore stima del carattere di Selva. Questi corse nella camera di Francesco.

[34] Il padre e la madre di quest'ultimo si volsero verso colui che loro era stato presentato col nome di dottor Quercia.

— Ella ci spiegherà.....

— Tutto: disse Gian-Luigi affrettatamente; ma per prima cosa, dia ordine, signor Benda, che si chiuda il portone perchè nessuno possa entrare senza farsi sentire picchiando; poi riduciamoci in casa a discorrere.

Bastiano ebbe ordine di chiudere e di non aprire senza prima venire ad annunziare chi fosse: poscia il giovane fu condotto nella sala, e tutti tre, Giacomo, Teresa e Maria, stettero lì ad ascoltare, pendendo dalle labbra di lui, che così fecesi a dire:

— Suo figliuolo è arrestato.

I genitori di Francesco mandarono un grido.

— Arrestato! Ma perchè? Ma come?

— Il duello che doveva aver luogo ne fu il pretesto, la ragione è forse più grave.

— Più grave? O cielo! Si spieghi.....

— L'avvocato Benda appartiene alla schiera della gioventù liberale; e la polizia odia assai tale schiera. Potrebbe darsi che questo arresto fosse soltanto uno sfogo della prepotenza di Barranchi, ma potrebbe anche essere che venisse come conseguenza di certi sospetti. Ad ogni modo ho consigliato io stesso al signor Selva di venire a far sparire ogni carta ed ogni libro compromettente che potesse avere il sig. Francesco, e così, se mai si venisse a fare una perquisizione, com'è assai probabile.....

— Una perquisizione! A casa nostra?

— Eh! nulla è di più facile.

Giovanni Selva aprì l'uscio e, cacciando dentro la testa, disse:

— Ho finito. Andiamo pure.

Ma da un altr'uscio accorreva Bastiano tutto conturbato.

— Oh signor padrone! Un Commissario di polizia coi carabinieri domandano di lei.

— Di già! Disse Quercia tranquillamente, mentre tutti gli altri a queste parole impallidivano. E' non ha perduto tempo. Lei, signor Giacomo, vada a parlamentare con loro e li tenga almanco dieci minuti in novelle prima di aprire. Io starò qui colla signora Benda; e Lei, signorina, conduca il signor Selva per la strada più breve nelle officine e lo faccia uscire per una di quelle porte che mettono nella campagna. Se i carabinieri non hanno pensato a custodire tutte le uscite, noi siamo salvi.

— È vero, è vero: disse Selva affrettatamente. Venga, madamigella Maria, ad insegnarmi la strada.

La giovanotta prese Giovanni per mano, e, passando per la scaletta di servizio, attraversarono ambidue correndo il cortile, ed entrarono nei laboratoi, mentre il signor Giacomo, fattosi al finestruolo del portinaio, domandava ai quattro carabinieri e ad un uomo vestito da civile che li guidava:

— Che cosa c'è? che cosa mi si vuole?

Il borghese volse in su il capo e mostrò la faccia volpina di messer Barnaba.

— Servizio di S. M.! Diss'egli con accento imperioso. Apra, e sollecitamente, signor Benda, altrimenti saremo costretti a gettar giù la porta.

— Un momento! un momento! Posso ben chiedere la spiegazione di questo strano procedere: soggiunse il signor Giacomo.

— La spiegazione glie la darò quando saremo entrati.

— Io sono un suddito fedele di S. M.

— Non ne dubito, ed è perciò che le ordino di farmi aprir subito.

I dieci minuti erano passati. Giacomo ordinò a Bastiano di aprire, poi mosse egli stesso all'incontro dell'agente di polizia e dei carabinieri che entravano; si fece forza a mostrare una fisionomia calma e tranquilla, ma sulla fronte gli spuntava a goccioline il sudore.

Per ispiegare divisatamente i fatti che erano successi ed avevano condotto l'arresto di Francesco, bisogna che ci rifacciamo alla sera precedente, ed entriamo nel camerino della portinaia della casa in cui dimoravano Giovanni Selva e i suoi amici, entro il qual camerino abbiamo visto Barnaba introdursi, dopo aver seguitato cautamente Maurilio fino alla sua abitazione.

CAPITOLO VII.

Il poliziotto, se vi ricorda, era vestito da povero operaio, ed aveva preso l'aria più timida e peritosa del mondo.

— Buona sera, madama: aveva egli detto con accento tutto rispettoso alla portinaia che per guardare attentamente chi le veniva innanzi, aveva fermate le sue mani nell'opera del far la maglia e stava colle punte dei suoi ferri da calza per aria.

Alle popolane torinesi, e massime a quelle dell'onorevole classe delle portinaie, il titolo di madama è un omaggio che si credono dovuto.

Monna Ghita sorrise graziosamente al nuovo venuto che si mostrava così civile, e rispose tutto garbata:

— Buona sera a Lei. In che cosa la posso servire? To', to': la è strana. Mi pare di conoscerla Lei, e non mi pare. Di certo la sua fisionomia l'ho già adocchiata.

— Può darsi: rispose Barnaba inchinandosi con un sorriso tutto piacenteria.

— Oh oh! io per ritenere le fisionomie non c'è la mia pari. Se mi avviene di vedere il muso di qualcheduno, passano anni ed anni e lo ravviso al primo rincontrarlo, come se non l'avessi visto che da ieri.

— Bella qualità! Disse con molta ammirazione il poliziotto.

[35] — Si figuri che una volta avevo un cardellino, un miracolo di cardellino che era addomesticato così bene da parere un cristiano a cui mancasse soltanto la parola.... E Lei saprà come sono difficili ad addomesticare i cardellini.

Barnaba fece un inchino per affermare che lo sapeva.

— Be', gli volevo bene, come ad una creatura ragionevole... e diffatti era tale più che certi bestioni d'uomini..... Basta, lasciamola lì..... Dunque un bel giorno, come fu, come non fu?... Io già ho sempre creduto che sia stato quello zoticone del mi' uomo che è il più grossolano del mondo... Allora egli abitava ancora meco... che ora per fortuna di Dio sta lontano e d'un bel tratto... Fuori di città sui viali, nella casa del signor Benda, se lo conosce, quel gran fabbricante di ferro...

— Ah, ah! Esclamò il poliziotto che parve prestare alcuna attenzione a questa circostanza.

— Dunque un bel giorno gli si lascia aperto l'usciolo della gabbia (al cardellino), ed egli frrrt! se ne volò via per la finestra che vallo a vedere!...

— O diavolo! Esclamò Barnaba giungendo le mani con vivo interesse, e sedendo intanto sopra un trespolino ch'era lì presso, per ascoltare più divotamente la mirabile storia.

— Lo credevo perso senza più redenzione, quando la Marta — una mia amica e vicina che quella volta ne fece per miracolo una di bene, perchè è la più melensa e sragionata femmina che sia sotto la luna... e una lingua poi! oh quanto a lingua non dico altro che darebbe dei punti alle forbici del sarto — basta, la Marta venne ad avvisarmi in gran segreto che comare Polonia, la rivenditrice di pignatte e pentoloni che sta di faccia, aveva nelle sue gabbie... — la tiene delle gran gabbione tutte piene di ogni fatta uccelli che abbia creato Iddio — la aveva un uccello di più, e precisamente un cardellino. E la cosa era naturale. Il mio Fifì — lo chiamavo Fifì — era venuto per tornare a casa sua, s'era fermato sulle gabbie di Polonia, e quella sorniona lo aveva acchiappato e poi fatto mostra di niente... Dunque io corro da Polonia, e fra cinque o sei cardellini che la ci aveva — noti bene cinque o sei — riconosco subito alla fisionomia Fifì, e non c'è stato santi che tenessero, me lo feci restituire e la Polonia ci dovette stridere.

— Cospetto! L'ammiro di molto. E quel prezioso cardellino?

Sora Ghita prese l'aria dolorosa di colui a cui si riapre un'antica piaga dell'anima.

— Mi cascò un giorno nel beverino e mi si annegò.

Barnaba assunse un aspetto adatto alla circostanza.

— Che disgrazia!

— Or dunque, che cosa dicevo?.... Ah!..... Nel veder Lei, mi parve subito di riconoscere qualcheduno già visto altra volta. Di certo Lei abita da queste parti..... To'! Badi se la indovino..... Lei è il fumista e stufista che sta alla cantonata di via Santa Teresa.

Il poliziotto fece il suo sorriso più grazioso ed adulatore, per temperare la negativa con cui doveva rispondere.

— No, non sono il fumista.

— Per bacco! Avrei giurato..... Si rassomigliano come le due chiappe d'una mela..... Ma senza fallo Lei la deve abitare in questi quartieri.

Barnaba col medesimo sorriso rispose:

— Veramente no..... Abito anzi piuttosto lontano..... Però (s'affrettò a soggiungere) pratico frequente da queste parti.

— Ecco! Appunto! Gli è ciò. Volevo ben dire! E Lei dunque cerca di qualcheduno? Mi pare che abbia detto che cercava di qualcheduno.

— Sì. Mi fu supposto che in questa casa ci deve stare o ci deve venire alcune volte un medico, un bravo medico, giovane ed elegante, che si chiama... che si chiama..... Ho lì il nome sulla punta della lingua..... Non saprebb'ella aiutarmi, madama?

Ghita appoggiò al suo mento onorato d'una lanugine che quasi poteva chiamarsi barba, la punta di uno de' suoi ferri da calza, in atto di profonda meditazione.

— Un medico? Diss'ella. No, veramente qui non ce ne abita nessuno di medici... Ah sì... Al secondo piano c'è un dentista.

— No, non gli è ciò.

— Al primo c'è un notaio con sua moglie e sua madre... Liti del diavolo fra la suocera e la nuora. Un giovane di mercante che abita uscio ad uscio fa gli occhi dolci a quest'ultima... La Marta dice che li ha trovati insieme, lei e lui, una mattina in una strada scartata. Basta! Non facciamo giudizi temerarii come fa quella maldicente d'una Marta. Di sopra dunque c'è il dentista e un impiegato al Ministero, un brav'uomo che ha mezza dozzina di ragazzi. Al terzo piano abitano il calzolaio che ha bottega qui vicino al portone, il pizzicagnolo ed una di quelle donne che vanno ad impegnare per altrui la roba al Monte di Pietà. All'ultimo piano poi c'è una frotta di giovani...

Barnaba si accostò alla vecchia ciarliera con un interessamento che era più vero di quello manifestato fino allora.

— Giusto! Il medico che cerco sarà forse tra quelli, od almeno sarà loro conoscente, e verrà a vederli.

— No: disse la donna, tornando a riflettere. Di medici non ce n'è punto. C'è un pittore, che anzi è quello che ha preso a pigione tutto il quartiere.

— E si chiama? Domandò con aria innocente il poliziotto.

— Antonio Vanardi.

— Ah bene..... L'ho sentito nominare..... E con lui ci stanno parecchi...

[36] — Tre... Anzi adesso quattro... Ma nessuno di loro è medico. Due devono essere avvocati..... Ma di quegli avvocati di cui ce ne regge mille sopra un ramo... Credo che non abbiano mai visto l'ombra d'un cliente... Scrivono su per le gazzette e stampano libri o qualche cosa di simile... Spiantati, in una parola.

— E si chiamano? Tornò a domandar Barnaba colla medesima aria innocente.

— Uno, che ha l'aria d'essere un po' più innanzi degli altri negli anni, si chiama Romualdo, l'altro Giovanni Selva. Il terzo, che non è punto avvocato nè altro, ma fa lo scrivano pubblico e scrive suppliche e poesie, ha nome Maurilio Nulla: un originale a cui nessuno è capace di far dire quattro parole..... È rientrato poco fa in casa, e l'ho visto passare attraverso il vetro del finestrino..... Ma non c'è pericolo che mai e poi mai dica uno straccio di parola di saluto.

Barnaba si stampava tutti questi nomi nella memoria. Il giovane ch'egli aveva visto nella bettola di Pelone, poi sotto l'atrio del palazzo dell'Accademia Filarmonica, dove aveva fatto un cenno di meraviglia incontrandosi col dottor Quercia; quel giovane chiamavasi dunque Maurilio Nulla, era scrivano ed abitava insieme con due che alla polizia erano già noti da tempo come liberali e, secondo s'usava dire, patrioti rivoluzionarii.

— E ce n'è ancora un quarto? Soggiunse Barnaba per provocare la portinaia a parlare.

— Sicuro, da poco tempo..... Saranno tre mesi tutt'al più... Questo è un forastiere... un italiano. Parla così bene che par sempre un libro stampato... È cantante e fa da secondo... com'è che si dice?... secondo baritono al teatro Regio... Si chiama Medoro Bigonci... È venuto ad affittare una camera in casa del pittore, e non so davvero dove diavolo lo abbiano cacciato... Di medici fra tutti costoro non c'è nemmanco l'ombra. Forse gli è qui nella casa vicina che Lei dovrebbe andare. Ci sta un flebotomo che un tempo aveva anche la bottega da barbiere, ed ora s'intitola dottore. Un uomo grande e grosso, colla faccia color del vino.....

— No, no, non è quello che cerco io: disse Barnaba. Io intendo anzi parlare d'un bel giovanotto che veste proprio coi fronzoli e porta due baffetti neri. Mi si diceva che qualche volta venisse a trovare quei giovani che abitano col pittore, e sopra tutto quel cotale che fa lo scrivano.

— Ah ah! Esclamò la portinaia come illuminata da una nuova idea. Sì che ci viene, ed anco di frequente, un giovane signore, ma signore per davvero e coi baffetti, ma questi baffi invece che neri sono biondi, e chi li porta non è medico altrimenti, ma avvocato ancor egli come il signor Selva e il signor Romualdo. E non è altri che il figliuolo del signor Benda il fabbricante presso cui è allogato il mi' uomo.

— Viene di sovente?

— Soventissimo. E ci si ferma per delle ore: Certe volte io ho già chiuso il portone, sono già andata a letto, sono già bella e addormentata che sor Francesco.... l'avvocato Benda si chiama Francesco.... non è ancora partito.

— Capisco. Una frotta di giovani. Faranno delle baldorie, cene, giuochi e donnette...

— Oibò! oibò!.... Prima di tutto c'è la signora Rosa, la moglie del pittore, una donna che ha lingua, ed anche le unghie, se occorresse, per farsi rispettare, la quale non tollererebbe mai una cosa simile.... E poi conviene essere giusti, quei giovani sono a questo riguardo veramente esemplari. Io che ho buoni occhi ed ho buon naso in queste cose.... come nelle altre.... non ho mai potuto accorgermi di tanto così che avesse un'aria sospetta riguardo ai costumi.

— Lei mi stupisce. Ci credo perchè gli è Lei che me lo dice; ma che tanti giovinotti si radunino insieme e stieno chiusi in casa sino a notte inoltrata per far che?.... Per guardarsi semplicemente addosso?... Uhm! la stenterei a mandar giù.... Ci deve essere qualche segreto motivo.

— Eh! il motivo ci sarà fors'anco. In verità pare che abbiano le gran cose d'importanza di cui discorrere. La signora Rosa, la quale si ferma alcune volte a scambiar meco quattro ciarle, non sa nemmanco ella, dice, che cosa facciano, ma dice che si chiudono in una stanza tutti insieme e parlano fitto fitto sottovoce. Ella ha bensì origliato alla porta, ma dice non aver mai potuto capire una parola; ed una volta, dice, che dopo uno di questi colloquii suo marito era più cupo e pensieroso del solito, perchè quasi sempre, dice, dopo siffatte conferenze, il pittore si mostra tutto sossopra; una volta dunque che essa l'ha voluto interrogare, egli, dice, le ha risposto brusco brusco che non ficcasse il becco in codesto che non erano cose di cui occuparsi una donna.

— Oh oh! Cospetto! Disse il poliziotto, il quale ora non aveva più bisogno di fingere l'interessamento, ma anzi voleva dissimulare quello vivissimo che provava in realtà. Ch'e' facciano i monetari falsi? soggiunse sorridendo.

— Mai più! L'avvocatino Benda è straricco e non metterebbe le mani in siffatto intruglio...

In quella giungeva il sedicente Medoro Bigonci, ossia Mario Tiburzio il carbonaro, il quale, come abbiamo veduto, credeva opportuno confabulare colla portinaia un momento prima di salire all'alloggio di Vanardi.

Se l'istinto di cospiratore, in Mario Tiburzio, gli aveva fatto presentire la spia e il poliziotto nell'uomo che trovavasi nel camerino della portinaia, l'istinto proprio del segugio di polizia aveva da parte sua fatto subodorare a Barnaba in quel sedicente artista di canto qualche cosa che sapeva della [37] ribellione alle leggi ed all'ordine vigente, e Mario non s'era niente affatto sbagliato, quando aveva creduto di accorgersi che quello sconosciuto, tuttochè cercando nascondersene, lo osservava con esperta attenzione.

Appena Mario venne fuori della stanza di monna Ghita, Barnaba disse vivamente a quest'essa:

— Quegli è il cantante Medoro Bigonci?

— Appunto. Gli è un pezzo che mi ha promesso dei biglietti d'entrata al teatro per me e per mio figlio.... il quale si chiama Bastiano come suo padre, ma spero che non diventerà un bestione come suo padre.

Barnaba meditava fra sè.

— L'aspetto di quell'uomo non mi è nuovo. Fra le tante figure che mi sono passate innanzi nella mia vita così avvicendata, vi fu certamente anche quest'essa; ma dove e quando e come?.... L'accento della sua parola è romano.... che io abbia dunque veduto codestui nel mio soggiorno a Roma?

Ad un tratto la nebbia che avvolgeva i suoi sovveniri parve squarciarsegli innanzi alla mente, e credette veder chiaro in essi, col suo vero nome e col vero esser suo, la figura dell'uomo che era passato.

Non potè frenare un'esclamazione, mentre e' si diceva a se medesimo:

— Conviene che ne esamini di meglio la persona, che lo veda almanco a camminare.

— Che cos'è stato? Disse la portinaia stupita, vedendo il suo compagno alzarsi di scatto.

Il poliziotto non ebbe altro spediente per ispiegare la sua mossa che dire la verità.

— Mi pare aver ravvisato quel signore per un cotale che ho conosciuto altrove, e voglio chiarirmi se ciò gli è vero o no.

Uscì sollecito dal camerino e seguitò con passo riguardoso il cospiratore, la cui ombra vedeva disegnarglisi innanzi nello scuriccio della scala male illuminata.

Mario Tiburzio s'accorse d'esser seguìto, ma non mostrò di porvi mente e continuò col suo solito passo il suo cammino.

Quando furono giunti all'ultimo pianerottolo, i sospetti di Barnaba s'erano quasi convertiti in certezza.

— Gli è lui senza fallo: disse a se stesso. È il rivoluzionario che fuggì in Roma medesima ai gendarmi papali che l'avevano arrestato.

Poichè Mario si fu introdotto nella stanza dove l'aspettavano i compagni, Barnaba s'accostò con cautela all'uscio, pose l'occhio e poi l'orecchio alla toppa, e vedendo che non poteva nulla scorgere nè udire di quanto avveniva colà dentro, si dirizzò della persona e collo stesso andar riguardoso si tolse di là e tornò nello stanzotto di monna Ghita.

— M'ero affatto sbagliato, diss'egli a costei; quel signor cantante mi è perfettamente sconosciuto. Ora non mi resta che ringraziarla della gentilezza con cui Lei mi ha trattato e partirmene che gli è tardi.

— Si figuri!... Tutta a suo servizio. La Ghita è conosciuta per essere la più servizievole del mondo. Mi rincresce non saperle dir nulla del medico che Lei cerca...

Il poliziotto pensò fare ancora uno sperimento.

— Ah! Ora me n'è venuto in mente il nome: esclamò egli. Si chiama il dottor Quercia.

La portinaia tornò a riflettere un momentino e poi rispose:

— Non lo conosco davvero; non l'ho mai sentito a menzionare.

Barnaba soggiunse:

— È amico dell'avvocato Benda. Glie l'ho visto insieme più volte.

— Allora forse mio marito che è portiere alla casa Benda saprebbe dirgliene qualche cosa.

— Lei non lo vede mai suo marito?

— Una volta ogni morte di vescovo..... e non cerco di più sicuramente. Un villanzone manesco che quando è in collera usa certi argomenti per aver ragione..... E non c'è verso di parlargli senza farlo andare in collera. Avrebbe avuto bisogno di aver per moglie un ceppo di legno e non una donna viva. Con lui avrei dovuto tagliarmi la lingua, cucirmi la bocca e vivere come una mummia..... Basta! Una buona ispirazione glie ne venne, sono già anni parecchi, d'andarsene egli pei fatti suoi e di lasciar me ai miei. È tornato al servizio dei Benda, dove era già stato fin da giovinotto. Ha una divozione per quella famiglia, che la sommission del cane pel suo padrone non gli è nulla.

L'agente della polizia che non aveva più cosa alcuna da spillare alle ciancie di monna Ghita, troncò lì il discorso, salutandola ed augurandole la felice notte con mille ringraziamenti, ed uscito di quella casa, s'avviò di buon passo verso Piazza Castello.

— Ecco un uomo assai gentile e garbato: disse la portinaia chiudendo dietro di lui il portone. È strana come ei rassomiglia al fumista!.... Ma guarda mò che ha finito per non dirmi chi egli è!

CAPITOLO VIII.

Barnaba, giunto in Piazza Castello, entrò nel Palazzo Madama e s'intromise in una stanzaccia a pian terreno che serviva di anticamera all'ufficio del Commissario. Due guardie di polizia sonnecchiavano là dentro, mezzo sdraiate su panche di legno, vicino alla stufa in cui ardeva un fuoco vivace. Allo entrare di Barnaba le guardie si alzarono in piedi e salutarono militarmente con segno di rispetto.

— Il Commissario? Domandò con accento asciutto e vibrato il nuovo venuto.

— È fuori dell'ufficio, rispose una delle guardie, ma ordinò che se Lei veniva le si dicesse d'aspettarlo.

Barnaba fece un segno col capo come per dire:

[38] — Sta bene; e passò in una camera vicina, a cui si accedeva per uno stretto e scuro corridoio.

Era meno grande della stanza in cui si trovavano le guardie. Una lampada ad olio con un cappello da riflettere il lume pendeva dalla metà della vôlta e la rischiarava debolmente. Le pareti nude, colorite a calce, erano grigie per la polvere e pei ragnateli. Il pavimento fatto di quadrelli di cotto era ronchioso per sudiciume rammontatovi su dai piedi di chi andava e veniva, senza che la granata si fosse immischiata mai a tentare una spazzatura. Da due parti correvano presso la muraglia delle panche lunghe, coperte di cuoio imbottito, ma questo cuoio, in parecchi luoghi lacero, lasciava scappare qua e colà la stoppa dell'imbottitura, come in varii punti pendeva a brandelli la lista, che, imbullettata all'estremità presso il legno della panca, doveva formare l'orlo da rattenere l'imbottitura. Alla parete che si trovava di faccia a chi venisse dal corridoio, non c'era panca, ma si vedeva in mezzo una scrivania posta in modo che chi vi sedesse avesse le spalle volte al muro, e in un angolo una porticina stretta e bassa con un uscio di legno di rovere irto delle capocchie di grossi chiovi, che pareva affatto un uscio di prigione. A destra di chi entrava si apriva un gran finestrone che guardava nei fossi del castello. Una tavola con sopravi un tappeto di panno verde sbiadito e sporco stava a metà della stanza sotto la lampada. Non c'era camino nè stufa e si sentiva entrando colà dentro un freddo umido ed uggioso che vi penetrava nelle ossa.

Barnaba si diresse tosto verso la scrivania e guardò le carte che vi si trovavan sopra. Erano rapporti di agenti subalterni, di carabinieri reali e lettere diverse d'ufficio: tutte cose indifferenti che il poliziotto scorse con occhio sbadato. Uno soltanto di quei fogli parve commuoverlo. Era il rapporto d'una rissa avvenuta a Porta Palazzo sulla piazza del mercato fra due saltimbanchi, di cui uno aveva ferito di coltello l'altro: il feritore era stato arrestato. Barnaba lesse due volte quel foglio, e la sua faccia si imbrunì stranamente; poi depose colle altre quella carta e fece due o tre giri per la stanza, la testa china, il volto cupo, come chi è assalito da dolorosi pensieri. Si fermò un istante presso la finestra, appoggiò ad una traversa dell'intelaiatura dell'invetrata la fronte, e rimase lì un istante a guardar fuori, innanzi a sè, ma con certi occhi che non vedevano gli oggetti esteriori, sibbene le immagini di qualche scena del passato evocata dalla sua memoria. Dopo un poco egli si riscosse, mandò un profondo sospiro, e venne a sedere presso la tavola di mezzo, sul tappeto della quale appoggiò il suo gomito, facendo sorreggere la testa alla palma della mano. Rimase immobile in quella positura, e pareva tutto intento a guardare il fiato che usciva dalla sua bocca addensato in vapore dal freddo ambiente di quella stanza.

Passò così più d'un'ora senza che quest'uomo si movesse altrimenti. Già da tempo era suonata la mezzanotte alla chiesa di S. Lorenzo, quando una voce rauca, ruvida ed imperiosa suonò improvvisa alle spalle di Barnaba.

— Ah! siete voi pur finalmente!

Barnaba sorse in piedi di scatto, e volgendosi si trovò in faccia al sig. commissario Tofi.

Un uomo alto e magro, di ossatura grossa e di membra asciutte: una faccia lunga colla mascella inferiore larga e molto sviluppata; una bocca enorme ed un naso monumentale; una fronte quadra colle ossa sopraccigliari proeminentissime e le occhiaie infossate; un colorito ulivigno e i capelli neri brizzolati; non un pelo di barba sulla faccia rasa accuratamente; un'espressione burbera e maligna; un alto e duro cravattino sotto il mento, un lungo soprabitone abbottonato sino al collo, con due grosse tasche ai due lati in sulle anche, un cappello basso a larga tesa in testa: tale era il temuto e temibile commissario, signor Tofi.

Barnaba lo salutò con umile deferenza, e l'altro, coll'accento più severo di rampogna che possa usare un superiore verso un subordinato in fallo:

— Gli è bene una fortuna, disse, che abbiate ancora avuta la degnazione di venire: di tutta stassera non ci è stato verso di vedervi.

— Signor Commissario: rispose Barnaba: non ho mica impiegato tutto questo tempo a divertirmi; e credo aver giovato anzi non poco al servizio. Vengo apportatore di informazioni che ritengo assai preziose.

Il signor Tofi lo guardò un poco entro gli occhi con quell'espressione feroce e minacciosa che gli era ordinaria.

— Sì? Diss'egli poi col medesimo tono ruvido e rimbrottoso. Udremo queste meravigliose informazioni, e vedremo se il loro valore è da farvi scusare del vostro ritardo. Intanto comincierete per istamparvi bene in mente le istruzioni e gli ordini che vi ho da dare. Venite nel mio gabinetto.

Camminò con passo militare verso l'uscio cui ho detto irto di chiovi di ferro; trasse di tasca una grossa chiave che introdusse nella toppa, ed aprì. Entrò esso primo ed a tastoni fu ad un caminetto, sopra la pietra di sporto del quale eravi un candeliere con una mezza candela di cevo. Accese quest'essa con un fiammifero che sfregò alla muraglia; depose il candeliere sopra la scrivania che si trovava nella profonda strombatura della sola finestra per cui là dentro penetrasse luce ed aria, e poi volgendosi a Barnaba che stava dritto sulla soglia, dissegli con quell'accento secco e imperativo:

— Entrate e chiudete.

Barnaba s'inoltrò, chiuse l'uscio e fece scorrere un catenaccio; poi rimase lì aspettando i comandi e le interrogazioni del suo superiore.

Questi depose il suo largo cappello sopra un forzierino [39] che trovavasi presso il caminetto, trasse dalle tascone laterali del soprabito due pistole a doppia canna e le mise sopra la scrivania, poi si accoccolò presso il focolare e colle sue mani medesime si diede a frugar fra la cenere se ancora vi fosse qualche carbone acceso; ne trovò alcuni, li raccolse, vi pose su delle scheggie di legna, un po' di carte stracciate che prese in una cesta apposita, e vi soffiò su robustamente colla sua bocca; si scaldò un momento le mani grosse, quadrate, nere, villose, alla fiamma che non tardò a levarsi, e poi drizzatosi della persona, fregandosi ancora l'una contro l'altra le sue manaccie, si volse a Barnaba, che era sempre stato immobile al suo posto, e gli disse:

— Ora a noi!

Sedette alla scrivania, e Barnaba si accostò fino ad appoggiarsi con una mano all'orlo della medesima. La fiamma della candela, oscillando all'aria che s'intrometteva dalle fessure della finestra, mandava una luce rossigna, ora più, ora meno intensa, sulle fisionomie caratteristiche di quei due uomini, sulle protuberanze della fronte bassa, sulle linee aspre, direi quasi, della faccia del Commissario, sui lineamenti pallidi ed incerti e sull'aspetto reso insignificante per mirabile effetto di dissimulazione dell'agente segreto; al di sopra di quest'ultimo quella luce oscillante faceva danzare le ombre sul fondo della parete e tingeva di color sanguigno i busti di Carlo Felice e di Carlo Alberto che sopra due mensole appiccate alla parete guardavano coi loro occhi senza pupille e colla loro faccia impassibile di gesso le misteriose scene che succedevano in quel sancta sanctorum della Polizia.

— Vengo adess'adesso da S. E. il conte Barranchi: così disse il Commissario. E' mi ha mandato a chiamare per un grave scandalo che è successo poco fa al ballo dell'Accademia filarmonica. Un borghese da nulla ha osato insultare il figliuolo d'un'Eccellenza: il marchesino di Baldissero; e ciò mentre nel palazzo medesimo trovavasi Sua Maestà!

Chinò il capo in atto di riverenza, e Barnaba fece altrettanto.

— L'insultatore è l'avvocato Francesco Benda.

Barnaba levò il viso, e fece un atto che significava:

— Conosco chi è e ne so le novelle.

Tofi seguitava:

— Spinse l'audacia fino a sfidare a duello il marchese. S. E. è decisa d'impedire che un simile eccesso abbia luogo. Credevo che fosse per ordinare senz'altro l'arresto di quell'avvocatuzzo, e glie ne dissi; ma S. E. per certi nuovi riguardi preferisce farlo cogliere in sull'atto al momento del duello. Ho pensato di affidare a voi questa operazione. Conviene adunque che scopriate l'ora ed il luogo in cui dovrà succedere lo scontro e che allorquando sieno coll'armi alla mano li sopraccogliate in flagranti. Il marchese lo lascierete andare, l'avvocato, colle armi che sequestrerete, lo condurrete qui. Avete capito?

L'agente fece un cenno affermativo.

— Ora, continuava il Commissario, vediamo un poco l'impiego della vostra serata, e sentiamo quelle informazioni che voi dite tanto preziose.

Barnaba cominciò modestamente a parlare.

— Sono stato, come il solito, nella bettola di Pelone...

Il Commissario lo interruppe con ruvida ironia:

— E vi credete avere scoperto qualche cosa di nuovo intorno al furto avvenuto la notte scorsa nella casa del signor Bancone?

— No: rispose ancora più modesto il poliziotto: non ho scoperto nulla; ma mi sono persuaso sempre pili che gli autori di esso appartengono alla famosa cocca, di cui i caporioni si radunano nella taverna di Pelone.

— Bella scoperta! interruppe di nuovo il signor Tofi, crollando villanamente le spalle. Ve ne dirò io di più: fra i ladri c'erano di sicuro i due galeotti scappati Graffigna e Stracciaferro.

— Sì signore: disse con qualche calore l'agente subalterno: ma codestoro non sono che il braccio che eseguisce. A immaginare, ordinare i piani e condurre le imprese di quella cocca c'è una mente superiore, ed è l'uomo che la rappresenta cui converrebbe scoprire ed afferrare.

— Ah ah! Esclamò il Commissario con una specie di sorriso su quelle sue labbra grosse. Sempre la vostra idea fissa?

— Signor sì. Ed ogni giorno più s'afforzano i miei sospetti.

— Eh! non sono che sospetti in aria.

— Pazienza! Spero un giorno o l'altro di convertirli in prove reali. Nella bottega di Pelone capita sempre quel misterioso personaggio cui chiamano il medichino e che si nasconde così bene ch'io non ho ancora potuto vederlo per quant'arte e cautele adoperassi. Questa sera, quando io giunsi colà, egli era di certo nella camera riposta. Al vedermi comparire, Maddalena, la fante dell'oste, si precipitò in quella stanza, e quando io entrai in essa, e mi vi affrettai benchè alcuni tentassero trattenermene per via, quando entrai colà dentro non c'era altri più che la serva ed un giovane che non avevo ancor visto mai.

— E se ci fosse stato quell'altro, secondo che voi dite, interruppe il Commissario, e' non avrebbe potuto svanire come un fantasma. Conosco ancor io quella camera e so che non ci ha altra uscita fuor quella che mette nello stanzone del banco.

Barnaba crollò la testa in segno negativo.

— Così credevo ancor io, soggiunse, ma da qualche tempo avevo sospettato che fosse diversamente, e stassera mi sono affatto chiarito del contrario. L'imbarazzo di Pelone, la sollecitudine di Maddalena, [40] le risposte che quell'imbecille di Meo fece ad alcune mie domande, mi persuasero che il medichino era sfuggito al mio sopraggiungere, e siccome pensai ancor io ciò che Ella ha detto or ora, ch'e' non poteva essere sfumato per aria, mi dissi che ci doveva essere un passaggio nascosto nell'impiallacciatura di legno che copre le pareti di quella stanza sino all'altezza d'un uomo. Rimasto solo un momento, mi diedi ad esaminare attentamente quell'impiallacciatura, e credo aver trovato il luogo preciso in cui s'apre l'uscio nascosto.

— Eh! questa è tal cosa che ha di certo la sua importanza: disse il Commissario pensieroso. Finora ho sempre inchinato a credere che il medichino fosse un personaggio di fantasia.

— Ah no! Proruppe con calore il poliziotto. Creda pure a tutta la realtà di esso.

— Allora bisogna assolutamente che ne sappiamo più precise le novelle. È già troppo tempo che si nasconde.

— Io credo che potremmo averle compiute queste novelle, se le cercassimo presso il dott. Quercia.

— Ecco la vostra idea fissa!

— È un istinto della verità. Non ho ancora nessuna prova positiva da poterlo stabilire; ma io penso, ma io sento che il medichino ed il dottor Quercia sono una medesima persona. E stassera medesima ne ho avuto un altro indizio.

Il Commissario guardò fisamente Barnaba a suo modo.

— Quale? domandò egli più breve e più imperativo.

— Le ho detto che nella camera riposta dell'osteria m'incontrai con un cotale non ancora veduto mai. Or bene, più tardi questo medesimo individuo io vidi sotto l'atrio del palazzo dell'Accademia Filarmonica tosto dopo che era passata la Corte; il dottor Quercia entrava giusto in quel momento, e il mio sconosciuto — allora era ancora tale per me, ora non lo è più — nel vedere il dottore fece un atto di conoscenza e pronunziò alcune parole cui non potei intendere ed alle quali il dottore mostrò di non badar punto.

— Sì, disse il signor Tofi: in codesto c'è un principio di indizio, ma così vago che non vi ci possiamo appoggiare per nulla imprendere.

— Ah! se Ella volesse far arrestare quel signor dottore!....

— Sarebbe forse un buon consiglio. Ma egli ha delle potenti raccomandazioni. Che cosa non direbbe il conte di Staffarda? e il conte San-Luca e il marchesino di Baldissero, che lo trattano da amico? Se noi non potessimo stabilir nulla di positivo a suo carico, avremmo torto e ci guadagneremmo il danno e la beffa. Piuttosto converrebbe sorvegliare quel tale che incontraste nella bettola, e che mostrò poi di essere in relazione col dottore. Voi avete detto che ora esso non vi è più sconosciuto.

— No signore, rispose Barnaba. Lo stesso pensiero che Ella ora manifesta, venne a me di presente, e determinai tosto cercar di scoprire alcuna cosa de' fatti di quel tale; ed ecco il risultamento delle mie indagini. Esso chiamasi Maurilio Nulla, abita in via ***, al num. 7, piano 4º, in casa d'un cotal pittore Antonio Vanardi, e fa lo scrivano pubblico.

— Oh oh! Vanardi: esclamò il Commissario: non mi è un nome nuovo. L'abbiamo scritto di sicuro in qualcuna delle pagine dei nostri libri. Aspettate un po'....

Si alzò e recossi al forzierino sul quale aveva deposto il suo cappello. Giunto colà sbottonò il suo soprabito, aprì il panciotto, e trasse fuori una chiavettina che ci portava sottopanni appesa al collo per un cordoncino; aprì con essa il forziere e ne tolse un grosso libro legato di pelle nera. Tornò con questo libro alla scrivania e lo spalancò al punto in cui sul margine era scritta in maiuscolo la lettera V. Fece correre l'occhio e l'indice della mano destra su varii nomi che erano scritti colà in colonna con una filza di note accanto.

— Vanardi, eccolo qua: diss'egli arrestando il dito a metà d'una pagina. Lo sapevo bene che ci era. Abbiamo un bel numero di nomi scritti qua dentro e in quegli altri libri che son là, ma pure io li so quasi tutti a memoria. Dunque vediamo un po' quali note abbiamo sul conto di questo soggetto.

E lesse le parole seguenti vergate con una magnifica scrittura all'inglese:

«Vanardi Antonio, pittore. Spirito inquieto e turbolento. Nipote d'un onesto droghiere non volle ubbidire alle volontà dello zio e ne abbandonò la casa. Di carattere sarebbe piuttosto timido, ma ha amici intraprendenti che lo spingono sulla cattiva strada. Parla poco rispettosamente della R. autorità, dei nobili e dei ministri del culto: sogna e desidera novità; si vanta d'essere italiano. Stette per qualche anno nell'Università come studente di leggi, e mancava sempre alla congregazione e dovette essere punito per aver presentato delle fedi di confessione false. Legge libri proibiti e non frequenta la chiesa. È molto legato coi caporioni della gioventù liberale, Giovanni Selva e Francesco Benda. Prese parte alla sottoscrizione per regalare una spada al nominato Giuseppe Garibaldi.»

— Ah sì: disse il Commissario cessando di leggere. I liberali inventarono un eroe in un certo Garibaldi, un ribelle esigliato che trovasi laggiù a Montevideo, dove fece non so che cosa, e per ispirito fazioso avviarono una colletta destinata a regalargli una spada. Io suggerii al conte Barranchi, e S. E. aveva accettato, di far prendere e chi teneva le liste di questa sottoscrizione e chi ci aveva dato il nome e di mandarli tutti in cittadella almanco per 15 giorni; ma Sua Maestà, a cui il conte [41] Barranchi ebbe il torto di parlarne prima, volle che non se ne facesse nulla.

— Ebbene, soggiunse Barnaba, gli è precisamente in casa di questo pittore che abita quel cotale che ho detto.

— Già; sarà ancor egli un nemico del trono e dell'altare. Ripetetemi un poco il suo nome.

— Maurilio Nulla.

— Questo non è nome da cristiano. Scommetto che egli è un nome finto.

Tacque un momento riflettendo.

— Però neppur esso non mi è affatto nuovo. In un modo o nell'altro mi deve esser già passato sotto gli occhi. Vediamo un po' qua.

Sfogliò il grosso libro alla rubrica N e non trovò cenno nessuno di quell'individuo.

— Ch'egli sia scritto in quell'altro registro dei sospetti e dei puniti per delitti comuni?

Si alzò, andò a riporre nel forziere il libro che ne aveva tolto, e ne prese un altro più grosso. Lo sfogliò come aveva fatto del precedente, e ad un punto mandò un'esclamazione.

— To', to'; eccolo precisamente. È un bastardo; fu accusato di avere avvelenati l'uomo e la donna che lo allevarono: stette parecchi mesi in carcere; non si sa troppo di che guadagni egli viva. Poffare! Qui c'è molto probabilmente un bandolo della matassa.

Barnaba si chinò verso il Commissario, ed abbassando ancora la voce come se avesse paura di essere udito da altri in quello stanzino rimoto le cui pareti erano spesse come quelle d'una fortezza e l'uscio come quello d'una prigione, soggiunse:

— E questo bandolo gli è tale che forse ci aiuterà a dipanarne due alla volta di matasse. In casa di quel Vanardi si sta complottando qualche cosa contro la sicurezza dello Stato.

Il Commissario fece un sobbalzo sulla sua seggiola.

— Alla croce d'Iddio! Barnaba, siete voi certo di quello che dite?

— Ascolti e giudichi Ella stessa. Di frequente nella settimana convengono in quel luogo parecchi dei più accesi liberali, e primi fra essi Romualdo, Selva, Benda. Si chiudono in una stanza e ci stanno delle ore e delle ore fino a notte inoltratissima il più spesso, senza che la moglie stessa del pittore possa aver mai saputo che cosa facciano o dicano. Dopo siffatte conferenze il Vanardi si mostra inquieto e preoccupato. Non basta. Da alcuni mesi abita in quella casa un cotale che si fa chiamare Medoro Bigonci e si spaccia per cantante; anzi ora egli appartiene alla compagnia del Teatro Regio.

— Sì: disse il signor Tofi; e ne ho veduto il passaporto io stesso, che ho trovato pienamente in regola.

— Ebbene, sotto quel finto cantante si nasconde un celebre cospiratore. Egli è Medoro Bigonci come lo sono io: si chiama Mario Tiburzio, è un esule romano, scappato alle carceri papali, uno dei principali agenti dei moti di Rimini: e se Lei vuole saperne di meglio sul conto di lui, consulti le note che riguardo a questo individuo ha trasmesso la polizia di Roma.

Il Commissario fece un sobbalzo, maggiore di quello che avesse fatto un momento prima.

— Poffare! Siete voi ben certo di quello che dite?

— Ne sosterrei la prova del fuoco. Ella che conosce la mia vita passata (nel dire queste parole la voce di Barnaba tremò leggermente) sa che io dimorai alcun tempo in Roma, e cominciai colà ad essere impiegato in questo pubblico servizio. Sono stato io il Delegato che diede l'interrogatorio a costui quando venne preso per la denunzia di due dei complici nella congiura che avevano ordita. Nel tradurlo a Castello, con fortuna pari all'audacia che in lui è grandissima, questo giovane atterrò i due gendarmi che lo accompagnavano, fuggì a tutto un intero corpo di guardia di Svizzeri che si pose ad inseguirlo e scampò meravigliosamente. Fra i nemici del trono e dell'altare, le dico io che questo è uno dei più pericolosi. S'egli è qui, se sta di casa con quei giovani di cui troppo conosciamo le tendenze, se fra essi hanno luogo di quelle segrete e lunghe conventicole, crede Ella che non vi sia sotto qualche perfido disegno contro lo Stato?

— Avete ragione: disse il Commissario pensieroso. Se mi si lasciasse agire liberamente come vorrei, come il bene medesimo del servizio richiederebbe, la cosa sarebbe la più spiccia del mondo. Farei arrestare tutta questa gente, ed una brava perquisizione ci metterebbe subito in chiaro di tutto. Ma Carlo Alberto — che il Cielo gli conceda un glorioso regno — da qualche tempo ha certe velleità cui non saprei definire altrimenti che chiamandole liberali... Alcuni di simili arresti che ho fatto eseguire ebbe la debolezza ultimamente di chiamare arbitrarii e di muoverne aspri rimbrotti a S. E. il conte Barranchi, il quale di rimbalzo me ne strapazzò come un cane. Andate a servire con zelo e con intelligenza il potere. Io mi trovo colle mani un po' impacciate e non posso pigliar nessuno di questi provvedimenti, senza prima farne motto almeno al conte. Uno intanto non ci scappa certo, ed è il Benda che coglieremo domattina al duello come un merlotto al paretaio. Avuto questo tra mani, chi sa che non abbiamo tanto di buono da tirar gli altri! L'arresto dunque del Benda diventa tanto più importante e quindi conto su di voi per eseguirlo a dovere.

Barnaba s'inchinò.

— Eccovi un ordine del generale comandante che mette a vostra disposizione quel numero di carabinieri che crederete; potrete prendere con voi quante di nostre guardie stimerete opportuno. Amo [42] credere che domattina il signor avv. Benda farà colazione in cittadella.

— Ci conti su: rispose Barnaba, inchinandosi di nuovo; e preso il foglio che gli porgeva il Commissario, uscì per tosto prendere le disposizioni acconcie all'affidatogli mandato.

Alcune guardie appostò nei dintorni del palazzo di Baldissero, perchè vegliassero sulle mosse del marchesino e cercassero, quando uscisse al mattino, di seguirne le poste; ed egli stesso andò ad appiattarsi presso la casa dei Benda, accompagnato da due carabinieri che fece nascondere più in là affinchè fosse di meglio dissimulata la loro presenza.

Abbiamo visto come allorchè Quercia disse al cocchiere il luogo dove dirigere la carrozza, Barnaba udisse quelle parole e facesse correre i carabinieri al cimitero dov'era diffatti il convegno dei duellanti, e dove si affrettò egli stesso a recarsi.

CAPITOLO IX.

Francesco e i suoi padrini erano giunti i primi al convegno; ma non ebbero ad aspettare di molto che un'altra carrozza soprarrivava al trotto serrato del suo cavallo, e fermandosi ancor essa a capo del viale, dove s'era fermata quella del dottor Quercia, ne scendevano il marchesino, il conte San Luca ed un altro giovane titolato amico di Baldissero.

I due gruppi s'accostarono salutandosi. Quercia, coll'agevolezza d'un uomo praticissimo di queste faccende, cominciò a dire senz'altro:

— Per molte ragioni che è inutile accennare — e fra le altre quella di questo freddo e di questa neve — stimo opportuno sollecitarci il più possibile. Qui dietro il muro del cimitero c'è una stradicciuola per cui a questa stagione, con questo tempo, non passa mai nessuno; se lor piace, possiamo recarci colà.

Tutti annuirono con un chinar del capo. Benda e i suoi due padrini s'avviarono primi; a due passi di distanza vennero dietro loro il marchese e i suoi compagni.

Giunti al luogo accennato da Quercia, i padrini si raccolsero a parlare, mentre Francesco per iscaldarsi i piedi faceva alcuni passi scalpitando sulla neve, lungo il muro del Campo Santo, e il marchesino terminava di fumare un suo sigaro d'Avana guardando la nebbia grigiastra che invadeva la campagna.

— Ho portato una mia cassetta di pistole: disse Gian-Luigi. Giuro loro sul mio onore che esse sono affatto sconosciute all'avvocato Benda, il quale mai non le vide nemmanco.

— Ancor io ho recato meco delle mie pistole: disse a sua volta San Luca; e faccio la stessa affermazione riguardo al marchese, che non le conosce nè punto nè poco.

— Sta bene; tiriamo la sorte quali di queste armi si debbano adoperare.

Il conte San Luca prese dalla sua borsa uno scudo e lo gettò in aria.

— Testa: disse Quercia.

Lo scudo caduto sulla neve mostrava il profilo di Luigi Filippo di Francia.

— Ha vinto: disse il conte inchinandosi. Si adopereranno le loro armi.

Gian-Luigi aprì la sua cassetta e prese a caricare le pistole in presenza degli altri tre padrini; quando ci aveva messo la polvere e il proiettile, passava l'arma al conte San Luca, il quale la innescava col cappellozzo.

— Mi permettano una parola, signori: disse Quercia, poichè le armi furono pronte. Loro sanno che noi siamo gli offesi, e in che modo non occorre rammentare. Il duello adunque, come già ne patteggiammo ier sera il conte San Luca ed io, non avrà termine, finchè da parte nostra non ci dichiareremo soddisfatti.

I padrini del marchese acconsentirono con un cenno di capo; quindi, salutatisi profondamente, Selva e Quercia si accostarono a Benda, mentre gli altri due si dirigevano verso il marchese.

Armato ciascuno d'una pistola, i due avversari furono posti alla distanza di 15 passi l'uno dall'altro.

— L'arma è buona: disse Quercia a Francesco: e non iscarta punto. Mirate giusto a metà corpo; il grilletto non è duro.

— Va bene: rispose freddamente il giovane; e poi stringendo forte la mano a Giovanni, gli susurrò all'orecchio: — In ogni caso ti raccomando sopratutto mia madre, ricordati!

Giovanni corrispose con una stretta di mano forte del pari, che era una promessa ed un solenne impegno.

— Signori: disse ad alta voce il dottore, ponendosi cogli altri padrini a metà della distanza fra i due combattenti: signori, batterò tre colpi colle mani, al primo essi armeranno la loro pistola, al secondo prenderanno la mira, al terzo faranno fuoco.

Egli s'apprestava a battere il primo colpo, quando due carabinieri voltarono correndo la cantonata del muro e comparvero sulla scena gridando:

— Ferma, ferma!

Il marchesino che dava le spalle al luogo onde venivano i carabinieri, si voltò, e viste le monture degli agenti della forza pubblica, la sua faccia espresse la più disgustosa meraviglia.

— Oh, oh! esclamò egli con disdegno: c'è qualcuno che ha saputo informare per bene la polizia del nostro ritrovo e della cagione di esso.

E gettò uno sguardo supremamente sprezzoso sopra Francesco e i suoi padrini che s'erano accostati a gruppo.

[43] — Signor sì: disse con isdegnosa insolenza Gian-Luigi. Tutto sta a vedere da qual parte debba cercarsi questo qualcheduno.

Baldissero arrossì fin sulla fronte.

— Per Dio! Ella oserebbe sospettare di noi?

— Ella osa bene mostrare sospetto sul conto nostro.

A quel punto comparve alla cantonata del muro un uomo studiosamente avviluppato in un mantello, avresti detto più ancora per nascondersi la faccia che per ripararsi dal freddo. Era messer Barnaba che veniva a sopravvegliare l'esecuzione degli ordini ricevuti.

— Qua le armi: disse uno dei carabinieri, e lor signori ci dicano tosto il loro nome.

Scrissero il nome di tutti un per uno sopra un loro taccuino.

— È finita la commedia? Disse il marchesino con isprezzante ironia.

— Finita o non finita; rimbeccò con vivacità Gian-Luigi, non fa punto onore al suo autore; e ciò posso affermare con sicurezza, che simile indegno personaggio non si trova fra noi tre.

— Questa è quistione, rispose superbamente di Baldissero, la quale potrebbe venir sciolta altrove fra di noi, se il modo con cui ha avuto termine la presente non ci levasse del tutto il coraggio e la voglia di siffatte partite con simil gente.

— Tregua agl'insulti! Gridò con imponente accento il dottor Quercia facendo un passo verso il marchesino; ma più innanzi verso codestui si fece Francesco Benda che schizzava fiamme dagli occhi.

— Oh che crede Ella che in questo modo tutto abbia avuto termine fra noi? Non sarà così, per Dio! a niun conto.

L'uomo dal mantello s'accostò d'un passo al gruppo de' nostri personaggi e col capo accennò ai carabinieri la persona di colui che aveva parlato per ultimo.

— È dunque Lei l'avvocato Francesco Benda? Dissero i carabinieri, mettendosi innanzi al giovane e disgiungendolo così dal marchesino.

— Sì.

— Ella avrà la compiacenza di venire con noi sino dal signor Commissario di polizia che molto desidera parlarle.

Tutti gli astanti fecero un moto di spiacevole meraviglia.

— Io? Esclamò Benda. A qual fine?

— Glie lo dirà il signor Commissario.

— E se mi rifiutassi d'andarvi?

— Saremmo costretti di condurvelo colla forza.

— È dunque un arresto il mio?

I carabinieri fecero un cenno affermativo.

L'impressione fu in tutti viva e diversa: Gian-Luigi diede una rapida sguardata all'ingiro, come per vedere se vi fossero probabilità di fuga; Selva si avanzò quasi minaccioso come per opporre la resistenza a quell'atto prepotente; il marchesino ed i suoi compagni mostrarono un orgoglioso disdegno.

— Ecchè? Disse superbamente Baldissero. Avete ordine di arrestarci?

— Lei no, signor marchese, risposero i carabinieri, nè altri qui dall'avv. Benda in fuori.

Selva e Francesco erano un po' impalliditi. La loro mente era corsa alla congiura che paventavano fosse scoperta. Quercia che osservava tutto, s'accorse come vi dovesse essere alcuna ragione da far temere ai due giovani più triste conseguenze da quell'arresto che non quelle cui avrebbe avuto il duello mancato: si rivolse al marchesino e gli disse vivamente:

— Ella vede quanto fossero ingiusti i suoi sospetti. Il suo onore medesimo, signor marchese, non consente che lasci così arrestare il suo avversario.

Baldissero lo interruppe con un gesto vibrato che voleva dire: — Ho capito e so ben io che cosa mi tocca di fare; poi con quell'accento di supremazia che dà la coscienza del proprio grado, disse agli agenti della forza pubblica:

— Io sono il figliuolo del marchese di Baldissero ministro di Stato. Rispondo io per l'avv. Benda.

— Do la mia parola, esclamò vivamente Francesco, che mi presenterò io stesso questa mattina medesima dal signor Commissario: ma prima lasciatemi andare a riabbracciare la mia famiglia.

— Siamo dunque intesi: soggiunse il marchesino con quel tono d'autorità; andate pure, e dite ai vostri superiori che io mi sono reso cauzione di lui.

I carabinieri parvero esitare; ma l'uomo dal mantello fece un altro passo ed un altro cenno.

— Ci rincresce davvero: disse allora uno dei carabinieri; ma non possiamo assecondare il suo desiderio. I nostri ordini sono precisi e formali.

Gian-Luigi, fin dal primo momento che Barnaba era comparso, lo era venuto esaminando con occhio acutamente investigatore.

Hai bel coprirti la faccia, diceva a se stesso, ti riconoscerò quel medesimo ad ogni volta che mi avvenga di vederti.

— Se la è così, disse Francesco, è inutile ogni altro indugio. Andiamo pure, o signori: e tu Giovanni, soggiunse volgendosi a Selva, non tardare a recar di mie notizie a casa mia.

Camminarono verso il luogo dove avevano lasciato le carrozze. Il cocchiere del dottor Quercia aveva gli occhi fissi sul suo pseudo-padrone che si accostava, e questi aveva lo sguardo intento sul suo cocchiere. Fu un cenno leggerissimo di Gian-Luigi, colto a volo da quella faccia furba di cocchiere, o fu veramente che il vivace cavallo attaccato al legno del dottore si spaventasse d'alcuna [44] cosa? Il fatto è che quella stupenda bestia fece un balzo, e, come se avesse tolto la mano al guidatore, prese a correre giù della strada del Parco. Non ci fu più che la carrozza del marchesino di cui si potessero servire i carabinieri per condurre l'arrestato. Vi salirono i militari con Francesco; l'uomo dal mantello salì a cassetta presso il cocchiere e la carrozza partì di trotto serrato.

— Signor marchese; disse Gian-Luigi a Baldissero, il quale si vedeva essere turbato e spiacentissimo di questo fatto: Ella non abbandonerà, ne son persuaso, l'avv. Benda.

— No certo: rispose vivamente il marchesino. Qui è avvenuto non so qual disgradevole equivoco, che mi affretterò a far dileguare. Quanto a difendermi dal sospetto che io possa in alcun modo aver contribuito a questo spiacevole incidente, credo non averne bisogno.

Quercia e Selva s'inchinarono leggermente.

In quella la carrozza del dottore tornava a quel luogo col cavallo affatto ammansato.

— Mi rincresce, disse Gian-Luigi al marchesino ed ai suoi compagni, non poter offrir loro un posto nel mio legnetto. Lo lascierei anzi del tutto a loro servizio, se noi non avessimo il dovere di correre il più sollecitamente possibile in casa Benda.

I nobili avversarii non risposero che con un saluto. Selva si precipitò nella carrozza, e Quercia, salendovi esso pure, diede al cocchiere l'indirizzo dell'officina e soggiunse:

— Di galoppo.

La carrozza partì come una saetta sprigionata dalla cocca.

— Benda avrebbe qualche motivo da temere una perquisizione? Domandò Gian-Luigi al suo compagno, mentre la carrozza andava colla rapidità del vento.

— Pur troppo!

— Bene. Può darsi che arriviamo prima di quelli che verranno a farla. Ella ha tutta la fiducia di Benda e della sua famiglia?

— Sì.

— Ella dunque si affretterà a fare scomparire ciò che possa compromettere il suo amico.

— È quello appunto che pensavo di fare.

Abbiamo veduto come di poco essi avanzassero in casa Benda Barnaba e i carabinieri che venivano a fare la perquisizione.

Ora seguitiamo Francesco, il quale viene condotto alla presenza del terribile signor commissario Tofi.

Il signor Commissario aveva dormito poco e male. Per la mente commossa tutta notte s'erano dimenate le rivelazioni di Barnaba ad eccitarne lo zelo irrequieto, operoso e prepotente. Egli aveva sognato degli arresti a fusone, e la sua fantasia s'era deliziata nella visione d'un reggimento di liberali mandato a impallidire dietro le inferriate del forte di Fenestrelle. S'arrabbiava della impotenza relativa a cui lo condannava la sua condizione di subalterno, e s'angustiava per non essere in grado di tradurre in atto di propria autorità lo splendido disegno della sua poliziesca immaginativa. Avrebbe dato non so che cosa per trovarsi ventiquattr'ore almanco nell'uniforme da generale del conte Barranchi.

Effetto di questa insonnia si fu che, appena il mattino, il signor Tofi era nell'anticamera del suo superiore ad insistere presso un domestico sonnoloso che sbadigliava, affinchè lo introducesse presso il padrone. Il domestico che sapeva bene non trattarsi di giuggiole, quando la faccia scura e il soprabito lungo del Commissario comparivano in quelle soglie, si lasciò vincere dalle imperiose parole di messer Tofi ed osò introdursi nella camera del conte a turbarne i dolci sonni mattutini.

Si ha bell'essere generale dei carabinieri reali e comandante supremo della Polizia, e tuttavia non si va esente da qualche piccolo difettuccio. Ahimè! Non c'è nessuno di perfetto su questa terra. Il conte Barranchi amava supremamente due cose: mangiar molto e bene con ghiottoneria istruita a perfezione nella difficil arte della cucina, e dormire beatamente la grassa mattinata. La sera innanzi egli avea pranzato a Corte, dove i pranzi di Carlo Alberto erano conosciuti per parsimoniosa frugalità; la notte aveva dovuto vegliarla al ballo, ed a sbrigar poi varie faccende, di cui lo aveva intrattenuto il Commissario: e quindi era naturale e necessaria conseguenza di ciò che il suo umore fin dalla sera innanzi non si trovasse nello stadio della sua maggiore amenità, e che massimo fosse in lui il desiderio e il bisogno di dormire tranquillamente sino all'alba dei tafani.

Per dire il vero, affatto affatto ameno l'umore del signor generale non lo era pur mai. Il suo carattere brusco e violento si era di molto rinforzato nell'impertinente disdegno d'altrui mercè la prepotenza concessa al suo grado ed alle sue funzioni. I suoi modi erano aspri come quegli ispidi baffi che gli ombreggiavano il labbro superiore. Avvezzo a parlare a carabinieri che lo ascoltavano in posture di rispetto per obbedirlo ciecamente, ad inferiori e subordinati che s'inchinavano innanzi allo scoppio della sua voce, come le umili erbe del prato al passaggio del vento, a poveri diavoli o timorosi o colpevoli che tremavano alla impettita severità del suo aspetto, il conte Barranchi trattava con tutti ch'ei non credesse suoi pari, come un caporal tamburo tratta con un allievo tamburino. Figuratevi un po' che cosa dovesse essere quest'umore quella mattina in cui il domestico venne a rompergli il più quieto dei sonni per dirgli che il Commissario era lì che voleva parlargli! Il fatto d'essere stato svegliato era già doloroso e grave; ma vi era di più che sotto il soprabitone del Commissario venivano occupazioni e fastidi da non lasciarlo riaddormentar poi, perchè era persuaso [45] che senza una pressante necessità Tofi non l'avrebbe disturbato. Il signor conte, che bestemmiava in francese, quantunque fosse austriaco in cuore, sparò una dozzina di sacrebleu! minacciò di prendere il domestico per il collo, diede un pugno sul tavolino da notte che mandò in aria il verre d'eau di cristallo di Boemia, agitò minacciosamente la ciocca di cotone che si drizzava con superbia in alto del suo berrettino notturno, e finì per dire che quel malaugurato signor Commissario fosse introdotto.

Tofi si avanzò con aspetto umile ma sicuro. La pervicacia della sua natura, la coscienza del suo merito poliziesco, l'essere addentro in tutti i misteri di quell'ufficio e in più a varii degli altri rami dell'amministrazione, gli davano eziandio, appetto al suo bizzarro superiore, una certa sicurezza di sè, che, trattandosi d'altro e per altre attinenze, avrebbe potuto anche dirsi dignità. Ciò non toglieva punto che S. E. il conte Barranchi non lo strapazzasse come un cane.

E fu appunto con una vera bordata d'improperii che il sig. Tofi venne accolto quella fatale mattina. E che gli era insopportabile l'essere perseguitato in quella maniera; e che fastidiosissimo e da sdegnar chicchessia non avere un Commissario che valesse a far da sè e sapesse come governarsi, senza venir a romper la testa e il sonno ad ogni momento a cui la sua alta posizione avrebbe dovuto lasciare più loisirs e meno seccature: parlasse presto e poco e bene, e guai a lui se le comunicazioni che aveva da fargli non fossero di tanta importanza da scusare quell'irriverente procedere.

Il Commissario, dritto nella postura del soldato senz'armi, il suo largo cappello in mano, i suoi occhi infossati, fissi sul generale, la faccia ossea ferma sul cravattino duro, ascoltò impassibile la sfuriata del conte, e poi colla sua voce rauca, bassa, contenuta, disse ordinatamente e laconicamente quanto aveva appreso da Barnaba.

A prima giunta siffatte informazioni non parvero abbastanza di rilievo al bravo signor generale. Gridò sbuffando che gli era un prendersi gabbo di lui il venirlo a sturbare per sì poca cosa. Bel miracolo che quattro arfasatti di liberale si radunassero in casa d'un pitocco per combriccolare; cani che vogliono prender la luna coi denti. Che sì che lo Stato aveva da tremare di que' mascalzoni! I becchi d'un cappello da carabiniere li avrebbe fatti scappar tutti come una legione di diavoli dall'acquasantino. Poi se la prese con questa empia incorreggibil razza dei liberali, stupidi matti che avrebbero potuto mangiar e bere e star tranquilli, e volevano ficcare il becco in ciò che loro non toccava. Gli era tempo di finirla mercè qualche buon provvedimento di rigore con questi paladini del disordine; ecchè eravi egli bisogno di andarlo a disturbare di quella guisa, un Commissario che sapesse secondo conviene il dover suo? Si arrestava, si procedeva, si perquisiva; e poi quando e individui, e carte, e tutto, fosse al sicuro, si aspettava un'ora un po' da cristiano per andarne a romper la testa al proprio superiore.

Tofi sostenne la seconda bordata colla medesima impassibilità colla quale aveva sopportata la prima; quando il conte si tacque, il Commissario fece balenare le sue pupille grifagne nelle occhiaie incavate e chinò leggermente la testa in moto affermativo.

— Va bene, e mi basta: diss'egli. Avevo appunto in animo di far così; ma le sue raccomandazioni di temperanza ultimamente fattemi e ripetutemi erano riuscite a pormene un po' in suggezione. Ora le sue parole mi levano ogni scrupolo ed io non mancherò di fare secondo le mie ispirazioni. Mi rincresce aver disturbata S. E.: non la scomodo oltre e vado a dar gli ordini che mi sembreranno più opportuni.

E girò sui suoi talloni per avviarsi alla porta da cui era entrato.

— Un momento, un momento: gridò il conte levandosi a sedere sul letto, appoggiato al gomito. Diavolo! Come voi ci andate di gamba lesta. Corpo d'uno squadrone! Innanzi a S. M. sono io che porto la responsabilità di tutto.

La risposta di Tofi gli aveva richiamato alla mente le rampogne fattegli dal pallido, severo labbro di Carlo Alberto per alcune maggiori prepotenze commesse da ultimo dalla Polizia, gli avevano ricordato che ancora il giorno prima il Re, fermandosi innanzi a lui a favorirlo di quella mezza dozzina di parole che soleva regalare ad ogni convitato, facendo il giro della sala dopo il pranzo, avevagli detto:

— E la sua Polizia, conte Barranchi?

— Cammina alla perfezione: aveva risposto il generale inchinandosi.

— Va bene: aveva soggiunto il Re. Spero che non sentirò più richiami di sorta per eccessi che ella commetta. Bisogna essere vigilanti, severi, ma nei limiti delle leggi e senza violare i diritti dei cittadini. Si ricordi, conte, che è mia intenzione precisa che la Polizia nei miei Stati cessi d'essere un arbitrio e diventi sempre più una magistratura.

Il generale non aveva saputo far altra risposta che inchinarsi di nuovo ed il Re era passato.

Che cosa precisamente significassero le parole di Carlo Alberto, lo spirito poco arguto del conte Barranchi non lo capiva ben bene. La Polizia una magistratura? Egli non vedeva nessun'attinenza fra queste due cose La Polizia e la sciabola, meno male! Ma il Re da qualche tempo si piaceva a tirar fuori di queste frasi; e il marchese di Villamarina, ministro della guerra, da cui Barranchi dipendeva direttamente, sembrava d'accordo col Re. Ragione di più per acconciarsi a quelle intenzioni, che in [46] fin dei conti erano di mettere la sordina allo zelo degli agenti. Ma il Re aveva pur detto che bisognava essere severi e vigilanti. Fin dove andava la vigilanza e la severità che piacevano al Re, senza cadere in quell'arbitrio ch'ei non voleva più tollerare? La quistione era troppo seria e complicata per i mezzi intellettuali del fiero comandante della Polizia; e questa aggrovigliata quistione gli avevano riposta innanzi in tutta la sua gravità le ultime parole del commissario Tofi.

Questi s'era fermato come un buon fantaccino che abbia udito il comando dell'alt. Si rivolse di nuovo verso il generale e col medesimo tono e colla medesima voce di prima disse:

— Abbia dunque la compiacenza di darmi i suoi ordini. Debbo lasciar correr l'acqua alla china e lavarmene le mani?

Il conte ricordò la severità e la vigilanza inculcatagli.

— Mai più, mai più: esclamò corrugando fieramente le sue sopracciglia ispide come i baffi.

— Debbo arrestarli tutti?

Barranchi sentì a suonare la frase che non bisognava violare i diritti dei cittadini, i quali al giusto egli non sapeva che cosa si fossero. Si grattò il berretto di cotone in testa, e mai faccia da generale dei carabinieri non espresse l'indecisione e l'imbarazzo come fece in quel momento il volto fiero del conte Barranchi.

— Tutti? Cospetto! Tutti addirittura? Si potrebbe vedere, esaminare... Uno di quei che mi avete nominato è un bastardo; peuh! certo che nessuno verrà a muover richiami per esso... Arrestatelo... Un altro è un ciarlatano da teatro e forestiero; anche per lui non ci sarà chi metterà innanzi pur un piede... Pigliatelo... Quell'impertinente d'un avvocato Benda abbiam già deciso di archiviarlo. Eh! una retata di tre gli è qualche cosa. Circa gli altri, guardate voi, fate voi... Avrete in mano qualche carta, qualche documento di cui vi potrete impadronire nelle perquisizioni che farete. Regolatevi dietro di ciò; che cosa volete che vi dica? Voi dovete esser pratico del servizio; lo siete più d'ogni altro: sapete meglio di chicchessia ciò che vi tocca di fare. Fate adunque in vostra buon'ora, e fate bene.

Si lasciò ricadere sul letto, come uomo che ha finito di spiegare le sue volontà e brama essere lasciato tranquillo; ma quando Tofi era già all'uscio, il generale si ridrizzò di nuovo con mezzo il corpo e colla sua voce tremenda da comandante di brigata in piazza d'armi soggiunse:

— Badate che lascio a voi la responsabilità di tutto. Siate severo, siate vigilante... ma guai a voi se mi fate prendere una rampogna da S. M.

Tofi uscì più perplesso di quanto fosse al venir suo; ed un'irritazione profonda contro Barranchi e contro tutti gli accresceva il maligno talento della sua natura. A lui toccava operare, ma se l'operato fosse stato creduto degno di lodi, queste sarebbero andate al conte Barranchi, se di biasimi, su di lui sarebbero piombati i più crudi, non senza pericolo ancora di qualche cosa di peggio che biasimi. In quell'occasione in cui a cagione di qualche eccesso di arbitrio, il conte Barranchi aveva avuto i rimproveri del Re, il commissario Tofi, su cui naturalmente s'era venuta a scaricare l'ira del generale aveva sentito scoppiar alle sue orecchie niente meno che la minaccia d'esser tolto a quel posto che da tanti anni occupava. Questa era per lui la peggior sciagura che ei potesse immaginare, e il solo pensiero ne lo spaventava tremendamente. Prima di tutto quel posto gli era carissimo per amore di artista che aveva collocato nel suo mestiere; poi eragli un'autorità di cui si compiaceva infinitamente ed una salvaguardia personale di cui sentiva vivissimo il bisogno. Nella sua lunga carriera egli aveva così perseverantemente offeso l'interesse, il carattere, l'onoratezza di tanti individui che ben sapeva avere ammassato sul suo nome un tesoro incalcolabile d'odio, cui la sua qualità sola impediva dal prorompere. Quel giorno in cui egli non fosse più nulla sarebbe stato oppresso dall'esplosione dello spregio e dell'animavversione pubblica; altro non gli sarebbe rimasto che fuggire per andare a nascondere in chi sa qual remota solitudine la sua imprecata e maledetta vecchiaia.

Con quella profonda irritazione che aveva in corpo, il Commissario si era recato nel suo uffizio di Piazza Castello e si disponeva a ricevere l'arrestato quando gli fosse condotto dinanzi.

Si era nella seconda camera, in mezzo della quale stava la tavola lunga collo sporco tappeto di panno verde. Alla scrivania sedeva un impiegato che, per la fredda temperatura, di quando in quando dava in uno scossone di brivido e soffiava sulle mani per iscaldarsele. Tofi passeggiava su e giù della stanza con passo concitato, il cappellone piantato in testa e le mani affondate nelle larghe tasche laterali del soprabito.

Ad un punto Barnaba socchiuse la porta che metteva nel corridoio e cacciò dentro la sua faccia scialba, appuntata, da faina.

— Gli è qui il merlotto.

— Ah ah, va bene.

Tofi trasse di tasca le sue grosse manaccie e si pose a fregarsele l'una coll'altra facendo chioccare le giunture delle dita premendosele.

— Come andò la faccenda? Dite spiccio.

Barnaba in poche parole raccontò ciò che era avvenuto presso il cimitero.

— Cospetto! Avevate colà anche quel Selva; potevate prenderlo.

— Ci ho pensato.

— Ma no; è meglio si abbia qualche altro pretesto. Voi correte subito a perquisire la casa Benda [47] con quanti uomini crediate aver bisogno. Mandate il Rosso con altrettanti in via ***, n. 7, a fare il medesimo da quel pittore, e si arrestino quel Maurilio Nulla e quel Medoro Bigonci. Gli altri vedremo poi. Andate. Dite che s'introduca l'arrestato.

Barnaba sparì.

Tosto dopo entrò Francesco e dietro di lui due carabinieri; questi si fermarono presso l'uscio; il giovane s'inoltrò nella stanza fino presso alla tavola. Era un po' pallido ancora, ma il suo aspetto non dinotava la menoma trepidazione. Il Commissario seguitava a passeggiare su e giù dall'altra parte della tavola guardando di sottecchi Francesco e brontolando inintelligibili parole fra i denti. Ad un tratto Tofi si piantò innanzi al giovane in atto minaccioso ed affondando le sue manaccie nelle tasche, disse con tono imperioso e villano:

— Dove si crede di essere Lei?

Benda esitò un momentino a rispondere, poi con una calma dignitosa disse fissando il suo limpido sguardo sulla faccia terrea e cupa del sig. Tofi:

— Il luogo, la compagnia che ho qui meco, il suo aspetto, il tono con cui Ella mi parla, mi dicono abbastanza che io sono in presenza del Commissario di Polizia.

— Ah sì? Riprese questi ingrossando vieppiù la voce ed aggrottando vieppiù le sopracciglia. E innanzi al Commissario Lei pensa di potersi rimanere col suo bravo cappello in testa, eh?

Francesco seguitò a guardare la faccia cupa del signor Commissario nello stesso modo franco e sicuro.

— Ella, rispose, sta bene col cappello in capo innanzi a me.

L'audacia della risposta fece sussultare l'impiegato subalterno alla sua scrivania, fece guardarsi in volto i due carabinieri come per interrogarsi mutuamente che cosa avessero da fare in presenza di tanta temerità. Tofi mandò un'esclamazione fra i denti che pareva un grugnito.

— Carabinieri! Diss'egli poi colla voce più rauca e più aspra del solito: tirate giù il cappello al signore.

Uno dei carabinieri, colla canna della carabina ond'erano armati, diede un colpo al cappello di Benda e lo mandò per terra. Il giovane non si mosse, ma arrossì fino alla radice dei capelli.

Tofi fece di nuovo due o tre giri per la stanza senza parlare; poi fermandosi presso alla scrivanìa dov'era l'impiegato:

— Siete pronto a scrivere? Disse.

L'impiegato prese la penna in mano e fece un cenno affermativo. Allora incominciò l'interrogatorio. Francesco rispose asciuttamente alle domande fattegli sull'esser suo: nome, cognome, figliazione, patria, età, ecc.

— Che cosa faceva Lei al Camposanto a quell'ora mattutina? Domandò poi il Commissario.

Benda parve studiare un momento la risposta da farsi, e poi disse:

— Se Ella sa la ragione per cui io mi trovava colà, è inutile ch'io glie la ripeta, se poi non la sa stimo niente affatto di mio dovere il dirgliela.

Tofi proruppe, sbuffando, in una esclamazione di collera.

— Oh oh! Crede Lei di poter far qui il bello spirito ed il capo ameno? Probabilmente Lei non conosce ancora bene chi sia il commissario Tofi.

Il giovane chinò leggermente la testa e fece un ironico sorriso come per significare che lo conosceva appuntino.

Tofi si volse allo scrivano:

— Scrivete che interrogato se si fosse recato là dove venne arrestato col criminoso proposito di cimentarsi in duello contro il marchese Ettore di Baldissero, rispose affermativamente.

— Io non ho detto così: esclamò Francesco.

— Vorrebbe forse negare ciò che sappiamo perfettamente?

— Io non nego, ma.....

— Dunque?.... (E allo scrivano) scrivete come vi ho detto.

— Protesto.

— Protesti quanto vuole, e tiriamo innanzi.

— Sul terreno si trovavano il dottor Quercia e l'avv. Selva?

— I carabinieri che ci sorpresero scrissero il nome di tutti coloro che eran colà.

— Quelli che ho or ora nominati erano suoi padrini?

— Mi accompagnavano.

Tofi gettò sopra il giovane uno sguardo feroce che avrebbe potuto paragonarsi a quello d'un animale di preda sopra la vittima che sta per isbranare.

— Qui si vuole schermire di finezza con me. Cattivo partito, signore, cattivo partito, glie lo dico io..... Risponda franco, sincero, la verità, e tutta la verità: e ne avrà maggior vantaggio. Quei signori sono suoi amici?

— Sì.

— Specialmente il Selva?

— Siamo stati compagni fino dalla prima adolescenza.

— Ella conosce le idee e le opinioni di questo suo intimo amico?

— Io so che quello è il più onorato e più dabben giovane che sia al mondo.

Il Commissario ruppe in uno scoppio di quella sua voce aspra e vibrata.

— Ah onorato? Ah dabbene? Gridò egli incrociando le braccia al petto ed atteggiando sul cravattino duro il suo mento quadrato con mossa minacciosa. No signore che non è un giovane onorato; no signore che non è un giovane dabbene.....

Francesco ebbe il coraggio d'interrompere il signor Tofi, parlando ancor egli di forza:

[48] — Signor Commissario, io non soffro smentite, e tanto meno soffro che si oltraggi con esse l'amico che ho più caro e che stimo di più.....

Il Commissario gli troncò le parole con esclamazione violenta, venendogli presso, la faccia contratta dall'ira, lo sguardo più acceso che mai sotto le folte sopracciglia:

— Lei non soffre?! Ma dove si crede Ella di essere? Con chi si crede di parlare?... Sono io che non soffro di queste arie in chi mi viene dinanzi, sa!... Badi che io fo presto a levar la superbia ai pari suoi. Ne ho domati di più audaci. Se la mi stuzzica la faccio cacciare al crottone a pane ed acqua, finchè le sia passato il ruzzo di fare il bell'umore. Il suo amico non è un giovane onorato, non è un giovane dabbene, perchè chi è onorato e dabbene ha rispetto ed obbedienza per le legittime autorità, non osa censurare il Governo del suo sovrano, non isparla de' suoi superiori e dei ministri della santa religione cattolica, non desidera e non cerca sovvertimenti nello Stato, non congiura contro il trono del principe di cui ha la fortuna e l'onore di essere suddito. E questo suo amico fa tutto ciò e peggio. E Lei lo sa, e Lei partecipa a questi empi intendimenti.

Francesco tacque un istante, sbalordito a codesta sfuriata; poi superando la trepidazione che quelle parole gli avevano fatto nascere — trepidazione naturale, perchè in quei tempi la Polizia non era menomamente impacciata da nessun ostacolo di legalità a mandare a Fenestrelle chi le paresse suddito non abbastanza devoto — disse colla calma che potè maggiore:

— Credevo d'esser qui per cagione della mia contesa col marchese di Baldissero, e non pensavo mai più di aver da rispondere per altre cose e pel fatto di altri.

— Ella è qui per tutto quello su cui mi piacerà interrogarla... Crede Lei che la Polizia non sappia appuntino ciò che lor signori fanno e dicono e pensano? Da molto tempo abbiamo gli occhi su di loro e ne seguitiamo i passi e le gesta. Noi sappiamo tutto, signore..... TUTTO! Ripetè pesando sulla parola.

Fece una piccola pausa e poi riprese:

— Ella conosce di molto anche il pittore Vanardi?

— Sì.

— Va spesso a casa di lui?

— Qualche volta.

— Spesso. E colà vi si tengono delle conventicole che durano fino a notte inoltrata.

— Ci troviamo in alcuni amici e stiamo insieme a discorrere.

— Vorrebbe dirmi di che cosa si discorre?

— Mah! Di mille cose e di nulla... di arte e di letteratura sopratutto.

— E per discorrere di codesto si chiudono in istanza ed impiegano parte della notte? Mi parli un po' di coloro che prendono parte a questi discorsi?

— Siamo in parecchi amici, quasi tutti compagni di Università.....

— I nomi, i nomi. Dica su come si chiamano.

Benda esitò.

— Ecchè? Disse il Commissario con perfida ironia. Per una cosa cotanto semplice ha forse scrupolo a dire il nome dei suoi compagni? Be': ve lo aiuterò io. V'è prima quel Selva; poi il padron di casa, poi un certo Maurilio Nulla... Appunto! Parliamo un momentino di codestui. Lei lo conosce bene?

— Sì.

— È suo amico?

— Sì.

— Sa che questa la è strana? Ella che è ricco ed appartiene ad una famiglia di ricchi commercianti, come va che si trova in intima relazione con quel cotale, che viene dalle più basse regioni del volgo? Conosce Ella bene il passato di quel giovane?

— Lo conosco.

— E ciò nulla meno Ella non ha avuto il menomo ribrezzo di stringere tanta attinenza con un trovatello, che fu accusato del più orribile dei delitti, che passò varii mesi in carcere, che non possiede nulla al mondo e si guadagna la vita non si sa ben come? Una simile amicizia non è degna di Lei e non è affatto naturale.

— Ho avuto campo di conoscere che in quell'infelice vi è un'anima nobilissima ed un'intelligenza superiore, e ciò mi basta per farmelo amare e stimare. L'essere povero e trovatello non è cosa di cui egli abbia colpa, e soltanto il pregiudizio può crederlo un disdoro; ch'egli sia rimasto in carcere accusato d'un orribile delitto non l'ho mai saputo, e non lo credo così di piano....

— Cospetto! Quando glie lo dico io!....

— Ad ogni modo io, giudicando da quello che conosco di lui, debbo credere ch'egli sia stato innocente.....

— Parliamo un poco d'un altro: voglio dire Medoro Bigonci. Anche di costui non so vedere alcuna ragione perchè partecipi a così stretti e confidenti colloquii da amico.

— Egli abita con Vanardi..... Del resto non prende parte quasi mai alle nostre riunioni.

— Ah no? A me le mie informazioni mi dicono diversamente. E le mie informazioni mi dicono molte cose, sa, che altri crede affatto nascoste..... Vuol saperne una, per esempio?

Si accostò ancora più presso a Francesco e gli disse con voce sommessa, ma piena di forza:

— Mi dicono che Medoro Bigonci non è il vero nome di quel tale, ma ch'egli chiamasi Mario Tiburzio.

Benda non fu tanto padrone di sè che non desse [49] indietro d'un passo e che non impallidisse nel volto.

Tofi vide l'emozione del giovane e ne conchiuse fra sè issofatto che Barnaba non s'era ingannato e che Francesco Benda era istrutto del vero essere di quell'individuo. Col proposito di atterrire l'arrestato e di ottenerne in questo modo alcuna confessione od almanco una più imprudente risposta, il Commissario continuò colla medesima voce sommessa ma fremente di minaccia:

— Ora Ella capirà agevolmente che la sua condizione non è così buona e i carichi che pesano su di lui non sono così lievi da permetterle tanta temerità e tanta sicurezza. Mario Tiburzio è un agente di Mazzini. Il solo essere in rapporto con lui è gravissima colpa, è delitto di Stato. Siffatte audacie dei mandatari di quello scellerato rivoluzionario che vengono a sedurre e sommuovere la gioventù nel nostro Stato sono oramai troppe. Il Governo di S. M. è deciso di porvi fine e di tagliare il male dalla radice. Qualunque siasi che abbia intinto in siffatta pece si è deciso di deportarlo senz'altro in Sardegna.

— In Sardegna! Esclamò Francesco, il quale non potè nascondere il suo sgomento. Egli pensò alla sua famiglia, al dolore che i suoi cari avrebbero provato, all'oggetto dell'amor suo che forse non avrebbe potuto veder più, ed uno spasimo indicibile gli strinse il cuore.

— Sì signore, in Sardegna: ripetè il Commissario, il quale s'accorse e fu lieto dell'effetto prodotto dalle sue parole. E primi di tutti i caporioni e i più pervicaci. Il Governo fu finora troppo magnanimo, troppo tollerante: è gran tempo che alla fine eserciti tutto il suo rigore. Nessuna pietà, nessun riguardo per i nemici dell'ordine e del Sovrano. Se si farà qualche distinzione fra essi, se si potrà essere più miti verso alcuni, sarà soltanto per coloro i quali col loro contegno dimostreranno come da illusione giovanile, da inconsideratezza meglio che da perversità d'animo furono tratti a fallire, per coloro che proveranno colla sincerità delle loro dichiarazioni il proprio pentimento. Mi capisce?

Le parole del Commissario erano troppo chiare per non essere capite. Francesco che colla forza della volontà aveva rinfrancato il suo animo si disse con disdegno:

— Costui tenta e spera di avere in me un delatore.

E la indignazione riagì sulla nobile di lui natura così da restituirgliene calma e fermezza.

Tofi continuava:

— Ella, signor avvocato, a quale di quelle due schiere vorrà ascriversi? Non di certo, io spero, a quella dei pervicaci nemici di S. M. l'augusto nostro Sovrano. Ella di certo ripudierà i scellerati propositi di chi non tende che ad abbattere la legittima autorità; Ella vorrà meritarsi il generoso condono alla leggerezza — non la chiamerò altrimenti — alla leggerezza della sua condotta, colla sincerità delle sue confessioni.

Fece una pausa, tenendo sempre que' suoi occhi grifagni fissi in volto al giovane. Francesco volse altrove lo sguardo con tutta indifferenza.

— Or dunque: riprendeva a dire il Commissario: poichè Ella conosce ed è in istretti rapporti con questo Mario Tiburzio, la mi saprà spiegare perchè quell'individuo è venuto a Torino con falso nome e sotto mentita qualità...

— Signore: interruppe Francesco, non senza manifestare nel suo accento il disprezzo e lo sdegno che in lui destavano i tentativi del suo interrogatore: io non so spiegarle niente affatto. Mario Tiburzio non conosco chi sia. Ho visto alcune volte in casa del mio amico Vanardi il signor Medoro Bigonci cantante, il quale non ha altro pensiero che quello delle sue crome e biscrome. Se mi sono legato qualche poco con lui, nulla è più naturale, essendo egli artista ed io dilettante di musica. E non ho altro da dire.

Il Commissario stette alquanto in silenzio e fece colle sue labbra grosse uno strano e minaccioso ghigno.

— Questo, disse poi con ironia grossolana, è il sistema di difesa che il signor avvocato crede bene di adottare?

— Io non ho bisogno di difesa nessuna, perchè non ho colpa.

Tofi tacque di nuovo un istante facendo sempre piombare sopra il giovane quel suo sguardo penetrativo, ironico e minaccioso.

— Sa una cosa? Proruppe quindi ad un tratto. In questo stesso momento si fa una perquisizione a casa sua.

In quella specie di scherma che aveva luogo fra l'interrogante e l'interrogato, fu questa una botta bene assestata che colpì il giovane in pieno petto.

— Ah! Esclamò egli con una scossa, ricordando di botto come nella sua camera, entro i cassettini della scrivania ci fossero l'Assedio di Firenze di Guerrazzi, i libri cinque sull'Italia di Tommaseo, la Giovane Italia di Mazzini, e peggio ancora di tutto questo una istruzione sul modo di ordinare e guidare la rivolta del popolo nelle città e di organare bande d'insorti nelle campagne, istruzione per sommi capi fatta e scritta tutta di pugno di Mario Tiburzio.

— Che cosa ne dice eh signor avvocato? Domandò il Commissario colla medesima insultante ironia.

— Dico che quella è una violazione di domicilio che non avverrebbe in paesi retti civilmente.

Tofi si abbandonò ad uno scoppio di collera.

— Come sarebbe a dire? Gridò egli con violenza. Forse che questo paese non è retto civilmente? Che insolenza la è questa? Come osa Ella, me presente, offendere così il Governo del nostro [50] augusto Sovrano? Sappia che gli Stati di S. M. il Re di Sardegna non hanno nulla da invidiare a nessun altro; e non mi dica di queste bestialità che sono quasi un crimenlese, perchè altrimenti saprò ben io ricacciargliele nella gola e farnela amaramente pentire. Per conchiudere, pensi bene ai casi suoi; è Ella decisa a rispondermi schietto la verità su ciò di cui la interrogo?

— Ciò che avevo da rispondere, ho risposto. Ripeto che non ho nulla da aggiungere.

— Sta bene. Vedremo se dopo i risultamenti della perquisizione Ella seguiterà a tenere simile linguaggio.

Volse villanamente le spalle a Francesco e disse ai carabinieri:

— Traducetelo in cittadella.

Venti minuti dopo il giovane sentiva chiudersi alle spalle le serrature, i chiavistelli e catenacci dell'uscio di quella stanza che doveva servirgli da prigione.

CAPITOLO X.

Barnaba era entrato sotto il portone di casa Benda, seguito da quattro carabinieri.

— È Lei il signor Giacomo Benda? Domandò al padre di Francesco che gli veniva all'incontro.

— Signor sì.

— Ella avrà appreso come suo figlio sia stato arrestato.

— Vennero or ora due amici di Francesco a darmene la infausta novella. Spero ch'Ella vorrà dirmene la ragione, ch'io non posso a niun modo immaginare.

— Io non ho nessuna istruzione di darle informazioni a questo riguardo. Ho invece l'ordine di perquisire minutamente tutta la casa.

— Non mi vi opporrò menomamente, sottomesso cittadino qual sono alle autorità, ma farò i miei richiami presso il signor Governatore, presso S. E. il Ministro medesimo, se occorre.

— Ella farà poi quel che crede. Intanto la prego, ed ove d'uopo le impongo di volere acconciarsi a quanto sto per dirle.

Il signor Giacomo curvò la testa per accennare che era pronto ad obbedire.

— I signori che vennero a comunicarle l'arresto di suo figlio sono il dottor Quercia e l'avv. Selva?

— Sì.

— Essi sono ancora in sua casa?

Giacomo esitò un istante; ma poi pensò miglior consiglio rispondere affermativamente. Barnaba notò quell'esitazione.

— Dove si trovano? Domandò egli fissando il volto del signor Benda.

— Nel salotto con mia moglie: rispose questi.

— Bene: riprese il poliziotto; noi comincieremo la perquisizione dal luogo più importante, dalla camera di suo figlio, ed Ella avrà la compiacenza di venir con me. In questo frattempo tutte le persone onde si compongono la sua famiglia e la servitù si raccoglieranno nel salotto in cui già si trovano la signora Benda e quei due signori, e nessuno se ne muoverà che dietro mio ordine.

Si volse ai carabinieri, e designandoli gli uni dopo gli altri, soggiunse:

— Voi due starete a guardia del salotto; voi due verrete meco.

Fu fatto a seconda ch'egli aveva detto; e senza altro ritardo Barnaba, il sig. Giacomo e i due carabinieri a ciò prescelti n'andarono nella camera di Francesco senza passar punto pel salotto.

Selva, troppo persuaso che non c'era affatto tempo da indugiarsi, aveva in tutta fretta arraffato e libri e carte pericolosi, dove sapeva che si trovavano, e senza darsi cura di chiudere cassettini e tiratoi erasi partito di corsa. Barnaba, appena entrato, vide i mobili aperti e le carte disordinate sopra il piano della scrivania. Andò vivamente a guardare in que' cassettini, fece scorrere sotto il suo sguardo linceo le carte abbandonate, tutte della più innocente indifferenza, e fu chiaro di tutto.

— Ah ah! Diss'egli volgendosi al padre di Francesco. Qualcheduno è venuto a toglier via il corpo del delitto, e probabilmente questo qualcheduno avrà cercato di salvarsi con esso.

In quel momento veniva frettoloso a cercar di Barnaba uno dei carabinieri che erano stati incaricati di custodire la famiglia e la servitù del signor Giacomo.

— Signore: disse il carabiniere; della famiglia non si trova in casa la signorina.

— Diavolo! Uscita a quest'ora, e sola, una ragazza! Esclamò Barnaba, guardando fisamente il signor Benda, che stette impassibile senza nulla rispondere.

Il carabiniere continuava:

— Di quei due signori che dovevano essere nel salotto non ce n'è che uno: il dottor Quercia.

— È naturale: disse Barnaba. L'avvocato Selva è amico intrinseco dell'avvocato Benda. Nissun altro era meglio di lui adatto a questo còmpito. Madamigella Benda potrebbe bene aver guidato l'amico di suo fratello ad uscire per qualche porticina riposta.

Il padre di Francesco, maravigliato e sgomentito dalla penetrazione del poliziotto, rispose pur tuttavia freddamente:

— Ella può fare tutte le supposizioni che vuole; a me per distruggerle bastano le mie negative.

— Ha ragione, ha ragione: disse Barnaba sorridendo. La non è mal giuocata; ma il guadagnare la prima bazza non vuole ancora dire partita vinta.....

Si volse ai carabinieri:

— Udite voi altri! Disse, e come i tre armigeri [51] si furono serrati intorno a lui, egli diede loro sottovoce alcune brevi istruzioni, parlando specialmente a quello tra di essi cui i galloni alle braccia indicavano per brigadiere.

— Ed ora andiamo nel salotto: riprese Barnaba ad alta voce. Signor Benda ci mostri la strada.

Quando fu per entrare colà dove sapeva trovarsi il dottor Quercia, l'agente di Polizia si tirò di nuovo il cappello sugli occhi, si avvolse di nuovo nelle pieghe del mantello la faccia, di guisa da nascondere affatto i suoi lineamenti. Del viso non gli si scorgevano che gli occhi sguscianti fra il tabarro e la tesa del cappello.

Maria non era ancora ritornata, e la madre non istava senza ansietà aspettandola; Quercia si era seduto comodamente presso al camino e colla maggior agiatezza del mondo giuocherellava colle molle aggiustando di quando in quando la legna sul focolare per farla ardere più vivacemente; i servi erano aggruppati in un angolo e mostravano nelle fisionomie la meraviglia e il turbamento che loro ispiravano quei fatti; però fra quei servi non trovavasi Bastiano il portinaio; il carabiniere stava dritto come una sentinella alla porta. Il signor Giacomo entrò primo, poi i tre carabinieri che col loro compagno si schierarono in fila innanzi all'uscio, ultimo venne Barnaba il quale, camuffato come era, si recò nella strombatura d'una delle finestre volgendo le spalle alla luce.

— Ancora l'uomo dal mantello! Disse Quercia fra sè. Gli è evidente che tutto quello studio di nascondere la sua grinta è cagionato dalla mia presenza. Il portamento della persona mi è affatto ignoto... Qui sotto c'è qualche mistero che bisogna ch'io penetri.

La madre di Francesco, vedendo entrare quell'uomo coi panni da borghese ed avvisando che esso fosse la persona più autorevole di quella brigata poliziesca, si slanciò verso di lui colle mani giunte e con infinita supplicazione nell'aspetto, nello sguardo, nell'accento della voce.

— Oh per carità, mi renda mio figlio..... Mio figlio è innocente..... Egli non è capace di far male nessuno..... No non è capace..... O mi dica almeno qual è la sua colpa.

Barnaba rimase impassibile, senza fare un moto nè dare pure una voce di risposta. Il brigadiere dei carabinieri si avanzò.

— Parli meco, se le aggrada: diss'egli. Quanto alle cause dell'arresto di suo figlio, possiamo dirle soltanto che gli è per ragione di Stato.

— O mio Dio! Esclamò la signora Teresa spaventata.

Suo marito, per calmarne lo sgomento, disse allora con ispiccata espressione:

— Qualunque sieno le accuse che si vogliano fare a Francesco, questo so di certo, che non potranno avere nessuna prova da convalidarle.

— Gli è ciò che vedremo: soggiunse il brigadiere. Intanto, siccome abbiamo fondate presunzioni che queste prove si debbano trovare, prevengo le signorie loro che noi faremo le più minute ricerche in tutti i locali di questa casa ed anche addosso alle loro persone.

Luigi Quercia si drizzò di scatto come spinto da una molla.

— Per Dio! Esclamò egli con impeto. Questo è ciò che non tollereremo....

In quella entrava Maria sollecita. Aveva il petto ansimante, le guancie arrossate, sugli abbondanti suoi capelli, cui non aveva avuto tempo di riparare nemmeno con un velo, ancora alcuni fiocchi di neve cadutile su nell'attraversare il cortile, ma aveva eziandio l'aria soddisfatta di chi ha eseguito con pieno successo una importante commissione. Il dottore fissò su di lei i suoi ardenti occhi neri, che contenevano una interrogazione; ella rispose con una intelligente occhiata, che diceva: — tutto è andato a seconda; rassicurò suo padre con un sorriso e si recò presso la madre, a cui strinse significantemente la mano.

Quercia continuava con maggior vigore:

— Difenderemo da simile oltraggio queste signore; difenderemo la nostra stessa dignità.

— Signore: rispose il brigadiere, a cui le parole di Gian-Luigi e l'aspetto di naturale autorità onde s'avvantaggiava la bella di lui figura imponevano assai. Certo duole anche a noi, ma Ella sa che noi siamo stromenti e dobbiamo obbedire.

Ma Barnaba vide in codesto una bella occasione di ottenere quello scopo ch'egli desiderava cotanto: l'arresto del dottore medesimo e una conseguente perquisizione nel quartiere dall'elegante giovane abitato ed in quell'altro che la Polizia sapeva essere segretamente da lui tenuto per ospitarvi i misteri delle sue molte avventure galanti. Egli si accostò quindi al brigadiere e gli insinuò nell'orecchio alcune parole.

Il brigadiere chinò la testa in atto affermativo, e mentre Barnaba ritornava al luogo che occupava dapprima presso la finestra, riprese a dire con più risolutezza al giovane che gli stava fieramente dinanzi:

— Noi dobbiamo obbedire: ed Ella avrà la pazienza di prestarsi primo a quest'operazione.

Gian-Luigi si trasse indietro d'un passo, incrociò le braccia al petto, aggrottò le sopracciglia e i suoi occhi lampeggiarono.

— Io?... E se mi vi rifiutassi?

— Adopreremmo la forza.

Il volto di Quercia arrossì pel sangue che tumultuosamente vi corse: sulla sua fronte si disegnò quella linea fatale che l'attraversava nei momenti di violenta passione del suo animo. Il suo aspetto era davvero terribile ed imponente, come quello di un coraggio impareggiabile accompagnato da una forza degna di esso.

[52] — Giuro a Dio! Esclamò Gian-Luigi con uno scoppio tremendo di voce; e si atteggiò in una positura minacciosamente aggressiva, che si sarebbe potuta paragonare a quella del leone che sta per islanciarsi addosso al suo nemico. Il brigadiere indietrò recando la mano all'elsa della sua sciabola, e i carabinieri gli vennero a costa in atto di difesa.

Maria, spaventata, per atto irriflessivo, spinta da quel suo cuore sensibilissimo, si slanciò davanti al giovane, quasi a fargli riparo.

— Per carità, signori! Esclamò essa pallidissima in volto, ma fatta indicibilmente bella dalla sua emozione.

In Gian-Luigi l'uragano era già passato, la violenza era domata. La sua fronte era di nuovo liscia e placida come prima, sulle guancie era tornato il suo colorito naturale, sulle labbra il tranquillo sorriso; nello sguardo soltanto, chi sapesse osservare avrebbe scorto tuttavia qualche cosa di duro, di implacato, quasi direi, di feroce.

Prese egli con garbo la piccola mano di Maria e glie la strinse con affetto; poscia, gentilmente traendola in disparte, le disse colle note più soavi di quella sua voce che sapeva mirabilmente temperarsi ad ogni espressione:

— Perdoni, madamigella, se il mio troppo impetuoso umore non ha saputo frenare questo subito scoppio. — Si volse al signor Giacomo ed alla signora Teresa e soggiunse: — Perdonino tutti e si rassicurino, chè per causa mia non avverrà nessuno scandalo in casa loro.

Fece alcuni passi verso i carabinieri che non avevano ancora smessa l'attitudine bellicosa, e disse con aspetto tutto piacevole:

— Con voi non la ho il meno del mondo, brava gente, che siete soltanto esecutori materiali di ordini, di cui non avete la responsabilità....

S'accostò a Barnaba che stava sempre rincantucciato nella strombatura della finestra:

— Gli è a Lei, signore, che io mi rivolgo: continuò. Ella è certo qualche cosa di più che un cieco stromento d'una volontà altrui; ed Ella deve capire che un uomo mio pari non si sottopone gratuitamente ad uno sfregio come quello di che mi si minaccia.

Barnaba rimase immobile.

— Non è certo con nessuna materiale resistenza ch'io voglia oppormi a codesto, ma gli è colle buone ragioni. Mi conceda Ella un colloquio di pochi minuti, e sono sicuro di convincerla dell'inopportunità, per non dir peggio, di siffatto provvedimento.

Il poliziotto non disserrò menomamente le labbra, non iscoprì punto nè poco il suo volto, ma fece un segno negativo colla testa.

Allora Gian-Luigi gli voltò disdegnosamente le spalle e parlò ai carabinieri.

— Sarà come si vuole. Ma badate che un simile oltraggio a cittadini onoratissimi come i signori Benda, ad un buon suddito di S. M. come mi vanto d'esser io che mi onoro dell'amicizia di molti fra i più considerevoli personaggi del Regno, è un atto gravissimo; e badate che io di tanto arbitrario eccesso farò tosto e direttamente i richiami al vostro comandante, il generale conte Barranchi che è di quelli appunto i quali mi onorano della loro stima e famigliarità.

Queste parole, più d'ogni altra precedente, fecero effetto sui carabinieri, i quali esitarono con manifesta perplessità.

Barnaba stava per invigorire la loro decisione con nuovo suo interporsi, quando un altro grave incidente venne ad interrompere quella scena.

Un uomo vestito da popolano, ma colla faccia da guardia di polizia si precipitò nella stanza.

— Signore, diss'egli a Barnaba; un cotale fuggiva per una porticina che dà sui campi dietro la fabbrica; lo abbiamo inseguito, raggiunto ed arrestato.

Barnaba mandò una sommessa esclamazione di soddisfacimento, e di sotto la tesa del cappello fece sgusciare uno sguardo di trionfo verso il sig. Giacomo, quasi per dirgliene: — Ecco la mia rivincita. Il sig. Giacomo, egli, impallidì; la povera signora Teresa si lasciò cader seduta mandando un gemito; Maria si torse convulsivamente le mani; Quercia si morse il labbro inferiore, ma il suo aspetto non perdette nulla affatto della sua sicurezza e della sua aria di imperiosità.

— Dov'è? Domandò Barnaba a voce bassa all'agente vestito da borghese.

— L'abbiamo qui sotto. Vuol vederlo?

Barnaba fece un segno affermativo, e il birro si allontanò di fretta.

Un minuto dopo entrava in quel salotto, in mezzo a quattro guardie travestite, Giovanni Selva.

Questi e Maria, che lo guidava per mano, avevano attraversato correndo il cortile e s'erano introdotti nell'officina. Là, per la via più corta, attraversando uno dei laboratoi, sempre di corsa, la ragazza aveva condotto il compagno alla porticina che era meta dei loro passi. Ma la serratura dell'uscio era chiusa colla chiave, e questa non era nella toppa. Maria corse nel più vicino dei laboratorii: e gridando quanto più poteva per superare il fracasso dei varii lavori che facevano le lime ed i martelli, domandò agli operai:

— La chiave della porticina?... Chi ha la chiave?... Presto per amor di Dio!

Gli operai dapprima non compresero le parole della giovanetta; ma videro l'ansietà e l'affanno così vivamente espressi nella fisionomia di lei, che smisero un momento il loro lavorare per poter udire che cosa ella dicesse.

Maria ripetè la sua domanda.

I più non ne sapevano nulla e si consultavano tra di loro, dicendo dev'esser qua, dev'esser là; intanto [53] il tempo passava con inesprimibile e dolorosa impazienza della ragazza.

— Ne chieda al capo-fabbrica: disse uno finalmente, e Maria, che comprese quello essere il migliore dei suggerimenti, corse nello stanzino occupato di solito dal direttore degli opificii.

Per fortuna egli vi si trovava; e Maria col respiro affannoso, colle parole tronche, fece la sua richiesta. Quella era per sè così strana e fatta inoltre così stranamente che il capo-fabbrica non potè tenersi dal provocare qualche spiegazione; ma la ragazza con impeto impaziente interruppe:

— Presto, presto..... Si tratta di salvar Francesco.... Lo hanno arrestato.... Bisogna far fuggire il suo amico colle carte.... Sono già al portone i carabinieri....

Il capo-fabbrica non capì bene che fosse avvenuto, ma vide che si trattava di cosa premurosa. Senz'altra osservazione si alzò e corse ad aprire la porticina.

Giovanni lanciò uno sguardo al di fuori, nei campi tutto bianchi di neve non si vedeva il menomo segno di anima viva. Strinse egli la mano a Maria e le disse:

— Ora Francesco non correrà più nessun grave pericolo. Si tranquilli, madamigella, e tranquilli anche la mamma.

Poi uscì di buon passo, mentre gli altri richiudevano la porticina alle sue spalle.

— Che cos'è ciò ch'Ella mi dice? Domandò con sommo interesse il capo-fabbrica a Maria. L'avvocatino arrestato? I carabinieri che sono al portone!

— Sì, sì.... Domandano del papà.... Purchè non vogliano arrestare anche lui!.... A quest'ora saranno già entrati.... Io corro presso la mamma, che è tutta sottosopra.

E tornò di volo vicino ai suoi parenti.

Il capo-fabbrica, onestissimo e risoluto uomo, devoto oltre ogni dire al suo principale, a cui doveva tutto, rimase perplesso e turbato profondamente.

— Hanno arrestato sor Francesco! Diss'egli tentennando il capo. Vogliono arrestare anche il padrone!... Che si abbia anche da veder questa?... Diavolo! Diavolo!

Ed entrò colla faccia tutto stravolta nelle officine dove gli operai, fra i quali quella notizia era corsa colla rapidità con cui prende fuoco una striscia di polvere da mina, avevano smesso il lavoro e stavano animatamente discorrendo in crocchi più o meno tumultuosi, in mezzo a cui si distinguevano appunto i capi dei laboratoi.

Selva intanto si era avviato di buon passo in linea retta davanti a sè con non altro intendimento che quello di allontanarsi il più presto da quel luogo e di ridursi quindi per un lungo circuito in città, dove avrebbe poi pensato in qual più sicuro nascondiglio andare a riporre i libri e le carte che aveva presi nella scrivania di Francesco.

Ciò di che più si rallegrava era di aver sottratto il manoscritto di Mario Tiburzio, e mentre camminava affondando le sue gambe fin sopra al polpaccio nella neve che copriva i campi, egli veniva scorrendo cogli occhi quella pericolosa scrittura che avrebbe bastato a far condannare alla galera qualunque l'avesse posseduta.

Ad un tratto gli parve udire dietro sè rumor di gente che si muovesse. Si volse e vide due uomini che con lunghi e solleciti passi, l'uno da destra e l'altro da sinistra venivano verso di lui traverso il campo. Quantunque non avessero divisa, Selva capì tosto che quelli erano birri; e senza aspettar altro prese la corsa con quanta più rattezza gli concedeva l'ostacolo dell'alta neve in cui affondavano i suoi piedi.

— Ferma, ferma: gridarono i birri, e giù a correre ancor essi, cercando di venirgli a tagliare diagonalmente la strada.

Ma Giovanni, oltre l'altezza della neve, aveva un altro impaccio al correre, ed era quello dei libri di cui teneva parte nelle tasche, e parte sotto il braccio. Non tardò egli ad accorgersi che uno di quegli sgherri, più lesto ed aitante, stava per venirgli a tagliare il passo nella direzione che aveva presa; pensò sfuggirgli con una svolta, e girando a sinistra cambiò direzione con una diagonale. Vide allora che due altri birri travestiti, chiamati dalle grida dei primi, accorrevano sulle sue traccie di modo da serrarlo per quattro lati: e capì che il salvarsene sarebbe stato un miracolo.

Barnaba era troppo esperto nel suo mestiere per non aver proceduto nella sua missione con tutte le possibili cautele. Mentre egli con quattro carabinieri si disponeva a presentarsi all'entrata principale della casa e degli opifici del Benda, avuti a sè una mezza dozzina di quelle guardie di polizia che allora il popolo chiamava gli arcieri, ordinava loro che, appostandosi acconciamente sì da poter gli uni venire all'uopo in aiuto degli altri, sorvegliassero con cura tutte le uscite dello stabilimento.

Giovanni Selva, mentre i quattro arcieri già già gli erano sopra, vide ancora gli altri due che scantonavano di dietro l'edifizio dell'officina. Si fermò ansante, perduta ogni speranza; e nel capo, in cui il sangue tumultuosamente saliva a turbargli il cervello, si sforzò ad evocare un'idea di quello che fosse da farsi. Glie ne nacque una ad un tratto: distrurre quella carta che teneva ancora in mano. Avesse egli pensato di subito a lacerarla in minutissimi pezzi e gettarla sparsa per la neve del campo! Volle eseguire allora quel proposito; ma non era più a tempo. La mano pesante d'uno degli arcieri si posò sulla sua spalla, e in un attimo Giovanni si vide circondato dai brutti musi di tutti sei quegli sgherri. Egli spiegazzò colle mani i due fogli ond'era composto lo scritto di Mario, e fattane una pallottola, convulsamente la serrò e tenne chiusa nel pugno della mano destra.

[54] — Alto là! Gridò quello degli arcieri che aveva afferrato Giovanni ad una spalla. Lei non ci scappa più.

E due altri dei birri lo presero al petto del soprabito.

— Che modo gli è questo? Disse il giovane divincolandosi per liberarsi dalla presa di quelle manaccie. Chi siete? Che mi volete voi?

Quegli che pareva il capo di quella schiera, rispose:

— Siamo agenti della Sicurezza Pubblica, e vogliamo arrestarla.

— Arrestarmi! Con qual diritto? Per qual ragione?

— Qual diritto? Quello che ci dà la nostra qualità e gli ordini che abbiamo ricevuti. La ragione? Eh forse ne saprà qualche cosa più di noi Lei che ci scappava con tanta premura. Orsù; non facciamo ciarle e venga con noi.

Nel divincolarsi erano caduti per terra i libri che Giovanni teneva sotto il braccio; uno degli arcieri li raccolse. Quelli che avevano afferrato Selva pei panni cominciavano a trascinarlo per farlo camminare.

— Dove mi conducete? Domandò il giovane resistendo.

— Lo vedrà: rispose villanamente il capo degli arcieri. Avanti, animo, marche!

E tenuto così, come un assassino, in mezzo ai sei birri, fu egli tratto alla casa dei Benda, dove, secondo che ho narrato, venne introdotto nel salotto in cui erano gli altri personaggi che sappiamo.

Appena entrato, Selva gettò sulla famiglia del suo amico e su Quercia uno sguardo che voleva dire: — Io non ci ho colpa.

Il capo dei birri si avvicinò a Barnaba e gli mostrò i libri che avevano preso al fuggitivo. Barnaba fece un segno di approvazione, e parlò a bassa voce coll'arciere.

— Domando che non mi si tenga oltre afferrato come un malfattore: disse Giovanni con voce fremente d'indignazione.

Il capo arciere a cui Barnaba aveva finito di parlare venne presso all'arrestato, e senza rispondere pure una sillaba alle parole di lui, mentre gli altri lo tenevano più stretto che mai alle braccia ed ai panni, si pose a frugarlo in ogni tasca con una lestezza singolare. Trasse fuori gli altri libri e tutte le carte che Giovanni aveva in tasca; e le faceva passare man mano a Barnaba, il quale gettava uno sguardo sopra ogni cosa e poi la rimetteva ad un arciere.

Giovanni sbuffava, ma tenuto strettamente da due uomini robusti non aveva modo di far efficace resistenza.

Quando ebbero finito di vuotargli le tasche, uno degli arcieri che lo tenevano disse al suo superiore:

— Egli tiene chiusa in pugno una carta.

— Ah ah! Bisogna averla. Signore, non faccia la pazzia di resistere e ci dia quella carta di buon accordo.

Selva non disse motto, ma serrò più convulsamente il pugno. Gli arcieri gli presero il braccio e con tutta la loro forza cercarono di aprirgli la mano, ma inutilmente.

Gian-Luigi tornò a sedersi con tutta tranquillità presso il camino, come se quella scena non avesse per lui il menomo interesse; e colle molle che non aveva cessato di tener fra mano, si diede a percuotere sui tizzoni eccitando più vivace la vampa. Giovanni capì quell'indiretto suggerimento. Raccolse tutto il suo vigore in uno sforzo supremo; si spinse innanzi con moto improvviso e inaspettato a quelli che lo tenevano, con una violenta strappata liberò il suo braccio dalla stretta dei due arcieri, lanciò la pallottola di carta verso il focolare. Impacciato com'era, Selva non la potè gettar giusto sul fuoco; la palla cadde presso gli alari; ma Quercia come se non aspettasse altro, con moto più ratto del pensiero, senza scomporsi menomamente, senza volgersi nemmanco, la prese colle molle e la pose rattamente dove più vive erano le fiamme.

Giovanni in quello sforzo, in quel moto violento che aveva fatto erasi inciampato nelle gambe degli arcieri che gli stavano addosso ed era caduto sul tappeto del pavimento. Ciò stesso fece ostacolo ai birri per correre presso il camino. Ma Barnaba, che con infinito interessamento porgeva attenzione a questa scena, visto bruciare quella carta, che di sicuro doveva essere importantissima, obliò un istante le cautele usate sino allora per nascondersi.

— Sul fuoco! Sul fuoco! Prendetela! Gridò egli colla sua voce naturale: e siccome i birri e i carabinieri, impediti nel passo da Giovanni caduto che si rialzava, non poterono così rattamente slanciarsi al camino com'era necessario, Barnaba stesso si fece innanzi d'un salto per disputare alle fiamme la preziosa preda.

Ma in quella, Quercia si drizzò in piedi innanzi al camino colle molle in mano che stringeva come un'arma, si volse colla faccia più innocente del mondo e domandò coll'accento d'uomo che non avesse visto nè udito nulla di quello che era successo:

— Che cosa c'è?

Barnaba e Gian-Luigi si trovarono a fronte meno che ad un passo di distanza. Al primo, in quel movimento impetuoso che aveva fatto, era caduta la falda del mantello dalla faccia, e Quercia ne potè vedere un istante i lineamenti scoperti, come ne aveva udita senz'alterazione per poche parole la voce. Nè questa, nè quelli Gian-Luigi si prometteva che avrebbe obliato mai più. L'agente di Polizia non rispose nulla al dottore; la carta era consumata; [55] egli si coprì di nuovo il volto col mantello e si ritrasse chetamente nel cantuccio appena abbandonato un istante.

— Lo scellerato! Il birbante! Urlavano gli arcieri incolleriti, venendo addosso a Giovanni coi pugni.

— Per carità! Esclamarono Maria e Teresa a cui si strinse il cuore alla vista dei mali trattamenti onde era fatto segno l'amico di Francesco.

E Gian-Luigi, facendosi innanzi con tutta l'autorevole imponenza d'un marchese del secolo scorso che si preparasse a castigare i suoi lacchè, gridò fieramente:

— Olà, mariuoli, volete smetterla, o ch'io, dietro rapporto a chi di dovere, vi faccio gustare un po' di ferri...

I birri si volsero inveleniti verso il dottore; ma anche su di loro fece effetto quella sembianza di autorevolezza; borbottavano però qualche insolenza e qualche minaccia, quando frettolosi entrarono nel salotto, non senza turbamento nel volto, i due arcieri che erano rimasti nelle anticamere. Dietro di essi pervenne colà il rumore caratteristico d'una massa di gente che tumultua.

— Che cosa c'è? Domandò il capo dei birri ai suoi due subordinati che entravano così precipitosamente.

— Tutti gli operai della fabbrica, armati di stanghe, di leve e di martelli, accorrono qua minacciosi.....

— Oh oh! Ribellione alla forza pubblica: disse il brigadiere dei carabinieri, aggiustandosi al petto la tracolla che gli sosteneva la sciabola. Badi signor Benda che codesto non vorrà avantaggiare le sue condizioni... Al contrario!...

Egli non aveva finito di parlare che sboccavano nel salotto impetuosi gli operai in attitudine tutt'altro che pacifica, e primi innanzi a loro, come duci, Bastiano il portinaio, il direttore della fabbrica ed i capi dei laboratoi.

— Signor Benda: cominciò senz'altro il direttore; siamo venuti a vedere che cosa si vuole da Lei, e se mai qualcheduno osa venire in casa a farle delle prepotenze; chè noi codesto, alla croce di Dio, non lo tollereremo mai.

— No, non lo tollereremo, urlarono una ventina di voci dietro i capi; e il grido si ripercosse nella camera vicina dove si assiepavano quelli degli operai che non avevano potuto intromettersi nel salotto ancor essi.

L'invasione degli operai aveva modificato la positura dei varii gruppi di persone che colà si trovavano. I carabinieri e gli arcieri s'erano raccolti insieme a fare quasi una siepe all'agente di Polizia che li guidava; i servi, rimasti appartati sino allora, s'erano riuniti agli operai che ingombravano la porta; la famiglia Benda s'era aggruppata innanzi al fuoco; Gian-Luigi si trovò in mezzo al salotto, ed al suo fianco Giovanni, cui gli sgherri avevano abbandonato per ritirarsi più in là insieme coi carabinieri.

— Tiburzio è compromesso? Bisbigliò rattamente Quercia all'orecchio di Selva, senza che alcuno ci badasse.

— Sì: rispose nella guisa uguale Giovanni.

— Ah ah! Va bene.

Ma come era egli avvenuto che gli operai si presentassero a quel modo in difesa del loro principale, non peritandosi innanzi ad una specie di rivolta contro la forza pubblica?

Torniamo indietro di qualche minuto, al momento in cui il direttore degli opifici, dopo aperta la porticina e dopo che Maria, dettogli quelle tronche parole, l'aveva lasciato, entrava nei laboratoi, dove trovava gli operai già tutti sottosopra per le sparsesi novelle. Vedremo fra i lavoratori medesimi manifestarsi certi screzii ed appalesarsi contro i sentimenti del maggior numero una minoranza, e potremo così fin d'ora conoscere alcuni germi che daranno in futuro tristo frutto di dolorosi avvenimenti, di pericoli e di danno per la prosperità finora cotanta, e tanto meritata, della casa Benda.

CAPITOLO XI.

Al vedere entrare il direttore della fabbrica, la maggior parte degli operai gli si fece incontro, e primi i capi dei laboratoi.

— Che cosa è successo? Domandarono tumultuosamente in più, circondando il nuovo venuto. È egli vero quel che si dice? Ci sono i carabinieri che vogliono arrestare il principale, che vogliono far chiudere la fabbrica?

Il direttore disse loro quel tanto che aveva appreso dalle poche e confuse parole di Maria: che cioè il figliuolo del principale era già in carcere e che la forza pubblica aveva invasa l'abitazione dei Benda per menarne imprigionato anche il capo della famiglia.

Gli operai aggruppati intorno al direttore risposero a quelle comunicazioni con una viva agitazione. Il figliuolo del padrone, l'avvocatino, come lo chiamavano, non era loro famigliare di molto; aveva egli poche attinenze con essi e raramente lo vedevano ed avevano occasione di parlargli; ma tutti coloro che l'avevano accostato erano rimasti presi dalle affabili di lui maniere, ed anche molti di quelli cui non era avvenuto di parlargli mai, solo al vederlo, avevano provato quell'influsso di simpatia che esercitava in quasi tutti la franca, sorridente, e leggiadra fisionomia del giovane. Oltre ciò tutti sapevano quanto amore avesse il signor Benda per suo figlio, ed il dolore che in tale occasione provava il principale, per quelli operai che lo amavano di molto, era potentissima cagione di commuoverli; ma non bastava, gli era il principale [56] medesimo di cui la libertà era minacciata, e qui, all'affetto si congiungeva, per turbarli, la ragione dell'interesse, che è il movente più efficace delle azioni umane. Diffatti, tutti si domandavano che cosa avverrebbe di loro se, tratto il principale in carcere, si dovessero chiudere gli opifici.

— Questo è un iniquo sopruso, questa è una prepotenza intollerabile, questa è una birbanteria: gridavano in parecchi colla concitazione dello sdegno. L'avvocatino è il più buon giovane della terra; il padrone è l'onestà in persona, è quello che dà pane a tutte le nostre famiglie. Se si trattano i galantuomini come i ladri e gli assassini, dove andremo noi a finire?

Il susurro cresceva come una marea che monta. Tutti avevano abbandonato i loro posti, e in mezzo al più vasto dei laboratoi si agitavano braccia nerborute e si corrugavano faccie minacciose annerite dal fumo dei fornelli; ma forse tutto si sarebbe rimasto a quel rumore inefficace, se Bastiano, su quelle polveri raccolte, non fosse venuto a recare la scintilla della sua indignazione più viva di quella d'ogni altro. La maggioranza degli operai amava la famiglia Benda, per cui mezzo aveva lavoro e giusta retribuzione; più della comune l'amavano i capi-operai che il principale aveva fatti partecipi ad una parte dei proventi; più di questi ancora l'amavano il direttore e il sotto-direttore della fabbrica più specialmente consociati all'andamento dell'impresa e che quindi andavano debitori d'una certa agiatezza al signor Giacomo; ma più di questi e di quelli e di tutti era affezionato e divoto a quella famiglia il grande e grosso Bastiano.

Egli entrò nell'officina coll'impeto d'una catapulta e coll'autorità d'un colonnello che va a porsi a capo del suo reggimento. Scuoteva colla mano destra il suo poderoso bastone; aveva gli occhi pieni di fuoco e le labbra piene di minacciose imprecazioni; possedeva quell'aspetto di forza, quella voce potente, quell'audacia di risoluzione e sopratutto quell'ardore di volontà e di convincimento onde sono vinte e trascinate le masse. La sua eloquenza fu quella di un cannone che spara: una vera mitraglia di giuraddio. Che sarebbero stati peggio di femminette a tollerare che sotto gli occhi, di mezzo a loro, si venisse a portar via il padrone; che di prepotenze non se ne aveva da sopportare; che la brava gente non andava trattata come i birboni, ed a chi lo dimenticava conveniva ridurglielo ben bene a mente. Per tutti i diavoli dell'inferno, s'aveva da mandar via scornati quei sciagurati di cappelli a becchi, o sarebbe stato chiaro che tutta quella mano di artigiani erano pani in molle, mogi come cani da pagliaio.

La maggioranza afferrò gli strumenti del lavoro che aveva a tiro di mano e mandò l'urlo più rivoluzionario del mondo; a quel fiume che stava per istraripare, venne ad opporre una sua momentanea diga la opposizione d'una minoranza che aveva formato un crocchio in disparte e guardava con riprovatrice ironia questo agitarsi dei più. A dire il vero, questa minoranza era composta di tutti quelli men bravi, meno diligenti e meno onesti operai, ai quali la giusta ma inesorabile fermezza del signor Benda, per la loro negligenza e per le loro varie mancanze, aveva inflitto punizione di multe e minacciato al primo nuovo fallo il rinvio.

Quegli di costoro che faceva i più manifesti segni di riprovazione, si avanzò verso il gruppo che stava per prendere le mosse dietro Bastiano, e disse:

— Siete matti? Volete pigliarvela colla forza pubblica e ficcarvi in chi sa che guai, per cose che non vi riguardano?

A questa inaspettata uscita, che aveva pure la sua buona parte di ragionevolezza, Bastiano divenne rosso come un galletto.

— Che non ci riguardano? Gridò egli, dando un tremendo colpo in terra col suo bastone. Giurabacco! Non ci ha da riguardare la sorte del nostro padrone?

— Padrone! Padrone! Di ripicco quell'altro. E' sarà il vostro padrone, Bastiano, che lo servite come un can da guardia; ma per noi? Non siamo suoi servitori, noi; ed e' ci è nulla di nulla.

Bastiano ebbe una matta voglia di troncar subito il dibattito con uno spediente che pareva il più naturale alla sua rozza e poco paziente natura: quello di pigliar pel collo l'oppositore. Fece un passo minacciosamente verso di costui e gli disse agitandogli innanzi agli occhi il randello:

— Ah! per voi, Tanasio, il sig. Benda gli è nulla di nulla? Disgraziato! Gli è quello che vi dà il pane...

Tanasio si trasse indietro.

— Non mi minacciate, Bastiano, chè tanto e tanto non mi fate paura e non m'impedirete di dir la verità. S'egli mi dà il pane — e uno scarso pane — io me lo guadagno col mio lavoro.

Il direttore della fabbrica comprese che la discussione era mal impegnata in quel modo da Bastiano e che le parole del contraddittore erano tali da produrre effetto sugli operai. Credette bene intromettere la sua parola.

— Hai ragione, Tanasio: ma senza il sig. Benda questo lavoro che ti fa vivere non l'avresti.

— Eh! Se non ci fosse lui ce ne sarebbe un altro. Andate là che non mancheranno mai quelli che vorranno ingrassarsi dei sudori dell'operaio. Egli sì che senza il nostro lavoro non potrebbe esser nulla e far nulla. Gli è il nostro lavoro che guadagna al signor Benda i milioni; questo nostro lavoro che, noi, ci lascia sempre nella miseria..... Perchè volete ch'io mi scaldi il fegato per lui? Tutti i signori la scialano levando la pelle al povero; e questo come gli altri. Mentr'egli viene un momento a dare un'occhiata alle officine, scrive quattro [57] scarabocchi sopra la carta; ordina e comanda come un pascià, noi sgobbiamo tutto il giorno e ci frustiamo la vita con un travaglio che ammazza: ed egli va in carrozza e gode d'ogni bene di Dio, e noi mangiamo pane e polenta, viviamo colla miseria alla gola ed andiamo a crepare all'ospedale. Domando io se questo è giusto, se ciò vale la pena ch'io alzi pure un dito a trarre da un mal passo questo nostro succhiasangue, ch'io mi cacci in imbrogli per levarnelo lui?... Al diavolo egli e tutti i ricchi del mondo; tutti gente cattiva, che vive alle nostre spalle e che dovremmo aggiustar per le feste se sapessimo quel che ci facciamo.

Il gruppo degli opponenti diede una fragorosa approvazione a queste parole che fecero alquanto perplessi gli altri.

Bastiano proruppe colla sua solita violenza:

— Brutto coso di un..... siete sempre nella miseria voi che tutto quanto guadagnate non perdete tempo a sciupare in bagordi e con male femmine...

— Eh! che non vorreste la povera gente si dèsse un poco di spasso? Si divertono bene loro, i signori; e cocchi, e cavalli, e feste d'ogni maniera, e banchetti in cui si mangia in una volta quello che ci costano i nostri pasti di un anno. E se io vo' sollazzarmi alquanto non ho costà la cassa di ferro, in cui sono a torrette i marenghini, da pescarci dentro, ma bisogna che mi raccomandi a quel porco nen-da-vend d'un Macobaro[3], per fargli comprare per pochi soldi or questo or quello dei miei stracci, o delle mie masserizie. E ripeto che i poveri son matti a pigliar la scalmana pei ricchi; e che si accoppino pure tutti quanti, non abbiamo che da rallegrarcene, chè gli è un tanto di nostro guadagno.

La violenza di queste parole destò una viva manifestazione di corruccio e di riprovazione nella maggioranza.

— Bravo! Esclamò il direttore. Se i ricchi non ci fossero, chi darebbe lavoro e chi lo pagherebbe ai poveri?

— Se non ci fossero i ricchi, non ci sarebbero più nemmanco i poveri; quel denaro e quelle proprietà che i ricchi hanno accaparrato tutto per essi, che hanno usurpato sul povero, sarebbero ugualmente distribuiti a tutti, che tutti in fin dei conti siamo uomini uguali, e ciascuno ne avrebbe secondo suo bisogno. Quanto poi al lavoro dell'operaio, eh! anche in ciò m'intendo ed ho sentito da persone che ne sanno più di noi, e potete domandarne a Marcaccio, chè esso ve ne farà conoscere; ho sentito che la è un'ingiustizia il guadagno che il padrone di fabbrica fa sul nostro lavoro, e che tutti quei proventi gli è noi stessi che dovremmo spartirceli fra noi....

— Quante bestialità! Esclamò il direttore. Il padrone avrebbe da contentarsi di farci lavorare e non averne profitto....

— Ma gli è che non ci sarebbero più padroni...

— Sì il mondo alla rovescia.... Senza padroni, come ci sarebbero gli opifizi, come le macchine, come il capitale?

— Giusto! Il capitale è il nostro nemico.... Me l'hanno provato chiaro come il sole... Macchine, opifici e tutto quanto, sarebbe roba nostra.

— Ti ripeto Tanasio, che queste sono bestialità che non hanno il senso comune.

— Già, le trovate bestialità, voi che partecipate dei profitti del principale....

Il direttore lo interruppe con forza:

— E s'io sono arrivato a tal punto; gli è perchè coi miei risparmi ho potuto raccogliere un piccolo capitale, che ho investito nella fabbrica; e che inoltre il signor Benda ha giudicato che la mia pratica e il mio zelo nel fare il mio dovere fossero anche loro una specie di capitale che meritassero frutto. Il capitale è il nostro nemico, tu dici, ma non sai nemmanco che cosa sia il capitale. Esso è il risparmio fatto sui guadagni del proprio lavoro....

— Baje! E chi nasce ricco senza aver mai fatto nulla?...

— Costui eredita il risparmio dei guadagni del lavoro di suo padre o di suo nonno...

— E ciò non è giusto. Che chi lavora metta in disparte e goda il fatto sparagno, va benissimo, ma che ne goda quello che non ha avuto altra fatica che di nascere...

— Ma se suo padre non ha lavorato e non ha risparmiato per null'altro che per lasciargliene a lui? To'; io non era che un operaio come sei tu, ma invece di sciupare tutte le mie paghe in istravizzi, secondo che Bastiano ti ha giustamente accusato di fare, io vissi con tutta parsimonia ed accumulai quel poco che ora possiedo. Se qualcheduno mi venisse a dire che quella roba guadagnata col mio santo sudore, non apparterrà di buon diritto a' miei figli, per Dio!... vorrei mostrargli...

Bastiano, che fremeva d'impazienza, uscì fuori allora colla sua vociona e col suo solito impeto:

— Maledetti da Dio! Quante inutili ciancie noi stiamo qui infilzando che non valgono un fruscolo, mentre quei cani laggiù ci portano via il padrone e mettono a soqquadro tutta la casa. Aspettate ad accorgervi qual sia il vostro interesse quando avranno mandato in rovina il principale, sarà chiusa la fabbrica e voi sarete sul lastrico a crepar di fame. Io non ne capisco un acca delle vostre quisquiglie, [58] ma so che quel Marcaccio, che voi Tanasio citate come un'autorità, è un tristo arnese capace di qualunque peggior cosa, e so che il signor Giacomo è il re dei galantuomini.

E qui si mise a ricordare tutti i meriti della famiglia Benda, la giustizia e la benevolenza del signor Giacomo verso gli operai, la carità della signora Teresa, la graziosa bontà della ragazza e la domestica affabilità di Francesco; il direttore e i capi-operai rincarirono; le teorie sovversive di Tanasio avevano allarmato l'animo retto dei più; l'idea di rimaner senza lavoro, se il signor Benda loro mancasse, li spaventava; la gratitudine e l'interesse si congiungevano ad accrescere l'affetto che portavano al principale; breve, Bastiano e i capi-officina riuscirono a trascinar seco la massa degli operai non ostante l'opposizione dei pochi, e concitati, apparvero tumultuariamente, come vedemmo, nel salotto dell'abitazione del principale.

Il signor Giacomo comprese tosto di quanto pericolo fosse per lui e per Francesco quell'aiuto, e pensò allontanare senza ritardo gli operai ammutinati, ordinando loro, pregandoli di rientrare nei laboratoi e star tranquilli. Si fece innanzi verso di loro con questo intendimento, ed avrebbe di certo ottenuto lo scopo, giacchè la sua parola era appo que' popolani autorevolissima, e massime sul capo e sul più furibondo di essi, il portinaio Bastiano; ma una imprudente bravata del brigadiere dei carabinieri venne a guastar tutto ed impedire ogni buon effetto. Quest'eccellente Corpo di truppe fu sempre il più zelante nel suo dovere, il più valoroso e disciplinato che sia stato mai: ma durante l'assolutismo, investito di poteri maggiori di quel che si doveva, quasi discrezionali, dotato di attribuzioni politiche e favorito di una privilegiata protezione in ogni suo fatto, in ogni urto eziandio che per ragione della sua eccessività nella sorveglianza politica gli avvenisse di avere, non che coi privati, ma colle autorità civili e giudiziarie altresì, era naturalissimo che trascendesse in una certa sicurezza di sè, la quale in alcuni suoi membri di carattere più violento, a qualunque grado della gerarchia appartenessero, dal generale comandante all'ultimo allievo, si scambiava in prepotenza. Il brigadiere che aveva accompagnato Barnaba in casa Benda era di questo genere. La senapa gli saliva presto al naso: ed abituato a vedere innanzi alla sua temuta divisa umiliarsi tutta la gente, credeva suo dovere mantenere ad ogni modo, in ogni occasione questo sovrano prestigio all'arma, colla minaccia e coll'impiego eziandio della forza, anche quando nè la prudenza, nè il bisogno non consigliavano l'uso di essa.

Egli per ciò stimò opportuno e facile domar quella riotta con un atto risoluto che subito ne imponesse ai tumultuanti. Il padre di Francesco, avanzatosi verso gli operai per sermocinarli come dissi, era passato fra Selva e i carabinieri; al brigadiere parve questo movimento inteso a sceverare da lui e dai suoi uomini l'arrestato, affine di impedire loro di seco menarnelo. Quindi, senza dar tempo al signor Benda di aprir bocca, aggiustatosi di nuovo al petto la tracolla della sciabola per un moto che gli era solito, fu in un passo al petto dell'industriale e colla voce più rozza e col tono più burbero che potè gridò:

— Alto là! Si crede forse qua di opporcisi nell'esercizio delle nostre funzioni? Di impedirci di fare il nostro dovere? Corpo del diavolo! La sbagliate di grosso. Voi altri (e accennava col dito teso in atto di comando agli operai) sgomberate più che in fretta; e Lei (e prese al petto il signor Benda) Lei se fa la menoma opposizione ai nostri comandi, lo arresto com'è vero Iddio!

E con violento sgarbo, rigettato di mezzo il padrone della fabbrica, il brigadiere andò a ghermire Giovanni, cui trascinò presso i carabinieri, i quali lo afferrarono e tennero alle braccia.

— E questo non ci scappa più, nè per Iddio, nè pel diavolo! Gridò il brigadiere con un tono di minaccia e di trionfo che era altresì una sprezzosa sfida a quegli uomini accorsi in aiuto del loro principale.

Molte volte avviene che un atto di coraggiosa, anzi di temeraria risoluzione ne imponga ad una folla; e qui, avrebbe forse la violenza del brigadiere ottenuto quest'effetto, se non ci fossero state due circostanze ad impedirlo: la prima che gli operai entrati in quella stanza erano dei più affezionati al principale, e il veder questo trattato a quel modo, troppo li sdegnava; la seconda che a loro capo c'era Bastiano, il quale per carattere non era alieno dalla violenza ancor esso quando la gli bolliva, ed aveva un coraggio da non lasciarsi così facilmente intimidire.

Vi fu un momento d'esitazione dopo quell'atto del brigadiere. La cosa stette in bilico un istante; ma Bastiano la fece traboccar tosto dalla parte della resistenza.

— Oh che, abbiamo da veder maltrattato il nostro buon padrone innanzi ai nostri occhi?

A quegli uomini parve quello allora un maltrattamento fatto a loro medesimi nella persona del loro principale; quella stessa violenta presa di Giovanni tornò loro come uno sfregio per essi; si strinsero minacciosi intorno a Bastiano che li dominava colla sua grande statura e mandarono voci e parole di assai minaccia.

— Sgombrar noi! Continuava Bastiano sempre più concitato. Sono questi brutti uccellacci che devono partirsene e senza tanti discorsi, lasciando in pace l'onesta gente. Fuori di qua subito! Fuori!

— Fuori! Urlarono gli operai che circondavano il portinaio.

— Fuori! Ripeterono i compagni, che dall'altra [59] camera facevano ressa alla porta per vedere e per intervenire in quella scena ancor essi.

E quella massa compatta fece un movimento per cacciarsi addosso agli agenti della forza pubblica.

— In difesa! Gridò il brigadiere, traendo egli rattamente di tasca una pistola. I suoi uomini e gli arcieri ne imitarono l'esempio; e dieci canne di pistola si volsero verso il gruppo degli operai che indietrò alquanto sovrappreso a quella vista.

— Figliuoli! Che fate? Per carità! Gridò il signor Giacomo volendosi slanciare in mezzo, ma trattenuto dalla moglie e dalla figliuola, le quali pallide come morte sclamavano con infinito spavento: — Misericordia!... Per amor di Dio!...

Bastiano era muso da non ispaventarsi punto alla vista di quelle pistole, e il suo esempio poteva sui suoi compagni; oltre ciò, tutti lo sanno, e quasi tutti lo hanno provato, quando il sangue è venuto in un certo eccitamento, la lotta e il pericolo medesimo di essa esercitano sull'uomo una tal quale attrazione, un fascino che gli travolge il cervello e molte volte fa un battagliero anche dell'uomo il più prudente e il più pacifico del mondo; aggiungete che quegli altri operai che si trovavano nella camera vicina, non posti menomamente in rispetto da quelle canne di pistola che non vedevano, seguitavano a gridare ed a spingere innanzi. Una collisione pareva imminente: le parole del signor Giacomo, nè le grida supplicanti delle donne non erano udite nemmanco, e quel salotto stava per diventar teatro d'una dolorosa tragedia, quando di botto là in mezzo suonò una voce fatta per essere ubbidita, e si drizzò in tutta la imponenza della sua virile bellezza, della sua forza giovanile, del suo indomabile coraggio la figura di Gian-Luigi.

— Abbasso quelle armi! Indietro voi altri! Intimò egli agli agenti della forza pubblica dall'una parte, agli operai dall'altra. Qui non è luogo di conflitto, e guai il primo che colla violenza fosse causa di spargere pure una goccia di sangue!

L'autorevolezza della voce, dell'aspetto, della mossa nobilissima era tanta che e i carabinieri e i birri, come gli artigiani, ne rimasero sovraccolti. Quelli che si trovavano a capo degli operai si allontanarono lentamente respingendo indietro il fiotto de' loro compagni che premevano alle loro spalle; gli agenti della forza pubblica chinarono a terra la bocca delle loro pistole.

Gian-Luigi era veramente fatto per dominare le turbe, coll'impronta d'una natura superiore che gli raggiava in sul volto, colla potenza della sua volontà che gli brillava nello sguardo, che gli fremeva nella sonorità della voce. Fece egli scorrere i suoi occhi neri come un carbone, profondi come un abisso, lucenti come un raggio di sole, sopra il crocchio confuso dei popolani, e soggiunse con un accento inesprimibile di efficacia, in cui all'autorità, quasi al comando, era unito, e si sentiva, avreste detto, come una carezza, un sentimento seduttivo di affettuoso interesse:

— Rientrate nei vostri opificii. Il passo che avete fatto vi onora di molto, ma è falso e non otterrebbe lo scopo che vi proponete; e inoltre non ha ragione di essere. Avete creduto minacciata la persona del vostro principale, e sprezzando ogni pericolo, sorpassando ogni considerazione di prudenza, da quei bravi, valorosi e affezionati operai che siete, non avete posto tempo in mezzo ad accorrere in sua difesa. Felice quel principale che ha cotali operai nelle sue officine!

Il popolo, la folla, è come le donne. Le adulatrici lusinghe ne guadagnan di colpo le grazie. Tutti quegli operai prestarono la più simpatica e la più deferente attenzione a quel bel giovane, che aveva sì autorevoli sembianze e che parlava così bene. Non ci fu che Bastiano, il quale, tenendo stretto stretto con tuttedue le mani il grosso bastone su cui si reggeva, tentennava il capo con aria poco persuasa.

Gian-Luigi continuava:

— Ma per fortuna i vostri timori non sono fondati; e nessuno minaccia il meno del mondo la libertà nè la persona del nostro caro signor Benda.

Un'esclamazione di soddisfacimento corse i ranghi degli operai che si trovavano nella sala.

— Che cosa c'è? Che cosa c'è? Si domandò dall'altra stanza, dove le parole di Gian-Luigi non erano giunte chiaramente intelligibili.

— Il principale è lasciato libero: dissero quelli che erano presso la porta; ed anche dagli operai raccolti nella camera vicina si mandò quella voce di soddisfazione per quel fatto che essi interpretavano quasi un loro trionfo.

Ma Bastiano non era uomo da contentare con tanta agevolezza.

— Che ci dia quest'assicurazione Lei, signore, che non conosco, va benissimo: così disse il portinaio; ma andrebbe meglio se ce la dessero quei signori là.

E col suo grosso bastone accennava al gruppo dei carabinieri e degli arcieri.

— Avete ragione, brav'uomo: disse Quercia col più lusinghiero de' suoi sorrisi. E quei signori ve la daranno tanto esplicita e compiuta quanto la potete desiderare.

Si accostò al brigadiere, e dissegli a mezza voce:

— Avete voi l'ordine di arrestare il sig. Benda?

Il brigadiere si strinse nelle spalle, poi si volse con muta interrogazione verso Barnaba, il quale scosse la testa in segno negativo.

— Pare di no: disse il brigadiere.

— Or bene: riprese a dire il dottor Quercia; non dovreste avere difficoltà nessuna a dichiarar ciò a questa brava gente.

— Uhm! Fece il carabiniere esitante.

— Date retta: soggiunse vivamente Gian-Luigi [60] con voce, accento e mossa che lo atteggiavano a dominatore della situazione; so che cosa debba essere la fermezza d'un militare, ma so eziandio che fra le virtù del vostro ufficio si deve pur contare la prudenza. Stimate voi prudente lo sfidare tutta questa baraonda d'operai che il pericolo del loro padrone mette in furore? Ne ammazzerete qualcheduno; ma badate al numero loro, e guardate che faccie risolute e che braccia d'atleta! Sarà una grande responsabilità quella che cadrà su chi sia stato cagione d'un conflitto. Pensate alle conseguenze. Tutte le famiglie di questa povera gente sarebbero ruinate; — e voi non uscireste vivi, neppur uno, da questa stanza. Non vi par egli adunque più saggio e conveniente, non dico il cedere, non dico il rinunziare al vostro dovere, ma di rinserrarne l'esecuzione in certi limiti e dare così alcuna soddisfazione a questi accalorati?

Quelle parole fecero un'evidente impressione sul brigadiere.

— Il giovane che abbiamo arrestato verrà con noi: disse egli quasi interrogando più che affermando.

— Sì certo. Nessuno pensa a torvelo di mano. Voi non avete che da rinunziare a molestare dell'altro questa famiglia....

— Diavolo! E la perquisizione?

— L'avete fatta nella camera che più importava; avete preso colui che fuggiva, certo colle cose appunto che si aveva interesse di sottrarvi, dunque...

— Gli è vero.

— Dunque, ripigliava Gian-Luigi, non avete che da dire a questa turba che voi ve ne andate senza altro.

Il brigadiere tornò a consultare con uno sguardo l'agente della polizia: e Barnaba, al quale ora per assai ragioni, a dir il vero, pareva mill'anni di essere fuori da quel ginepraio, fece di bel nuovo un cenno affermativo colla testa.

— Va benissimo: disse allora il carabiniere graduato, si farà come Lei dice...

— E andate là: soggiunse vivamente Gian-Luigi facendo scorrere uno sguardo verso l'agente poliziesco sempre imbacuccato; andate là che vi traggo fuori da certe belle peste!

Il brigadiere mosse d'un passo verso gli operai che stavano attendendo tuttavia in attitudine ancor minacciosa, e disse ad alta voce aggiustandosi al petto, secondo il suo solito, la tracolla della sciabola su cui brillava la piastra colle cifre dell'arma:

— No, non vogliamo arrestare il signor Benda. La nostra missione è compiuta, e se voi co' vostri atti non c'imponete nuovi obblighi, noi stiamo per ritirarci.

Quercia aggiunse del suo:

— Il che, tradotto in buon piemontese, vuol dire che rientrando voi pacificamente nei vostri laboratoi, questi signori si ritireranno da parte loro, lasciando liberi del vostro principale la casa, la famiglia e lui stesso.

— E ci renderanno anche l'avvocatino? Domandò con impeto Bastiano.

— Questo ve lo prometto io. Appena fuori di qui, correrò da chi fa bisogno, e non tarderete a riavere fra voi il mio buon amico Francesco.

Gli operai ruppero in uno scoppio d'applausi che si ripercosse nella camera vicina.

Gian-Luigi, con sempre maggiore quel tono di padronanza e di sicurezza, continuò:

— Ritornate adunque nell'ordine ed al lavoro. Il signor Benda vi è gratissimo del potente contrassegno d'affezione che gli avete dato, e vi è più grato ancora, se adesso, uniformandovi al suo desiderio, rientrerete tranquilli negli opifici.

Il signor Giacomo si accostò agli operai colle mani tese, con le lagrime agli occhi, veramente commosso.

— Sì, diss'egli, cari figliuoli, vi ringrazio..... vi ringrazio tanto..... Ma ora tornate al lavoro, vi prego.

E strinse le mani con forza a tutti coloro che erano in prima fila dell'assembramento.

— Viva il nostro principale! Gridarono gli operai. Viva il signor Benda e la sua famiglia!

E si ritrassero lentamente, come il fiotto del mare quando la marea s'abbassa.

Allora Barnaba per segni diè l'ordine di partirsi a' carabinieri e birri, e s'avviò egli primo verso la porta.

— Signore: disse Gian-Luigi accostandosi a Selva che i carabinieri conducevano via tenendolo in mezzo: non trascurerò di occuparmi eziandio di Lei, e spero, anzi son certo di ottenere colla liberazione dell'avvocato Benda, anche la sua.

— La ringrazio: disse Giovanni; ma quello che intanto vorrei, sarebbe che non avessi da passare in mezzo di Torino, scortato così come sono, a vista di tutta la gente.

— Ha ragione. Vorrei offrirle il mio legnetto se non che ne ho bisogno per correr tosto ad informare di ciò che qui accadde il conte di Staffarda, il marchesino di Baldissero e lo stesso conte Barranchi, perchè s'affrettino a farvi porre riparo nel modo il più completo. Ma il signor Benda potrà mettere a disposizione di questi signori una sua carrozza.....

— Subito: disse con premura il signor Giacomo. Do gli ordini e in pochi minuti....

Barnaba scosse la testa in segno negativo, e disse colla voce soffocata dalle pieghe del mantello:

— No. Poscia ai carabinieri, facendo loro un cenno imperioso del capo: Avanti!

Non ci valse parola. Giovanni fremente fu trascinato dai carabinieri e dalle guardie, a capo dei quali camminava l'agente di polizia. Questi l'aveva amarissima contro il giovane arrestato per la bruciata [61] carta, e si piacque di far contro di esso così bassa vendetta. Nè bastò. Appena fuor della casa, Barnaba, lasciando cader giù dal viso la falda del mantello e parlando colla sua voce naturale, poichè non aveva più da sottrarsi allo sguardo di Quercia, disse con accento di comando ai carabinieri:

— Ammanettatelo.

Giovanni si richiamò altamente, rosso di sdegno nel volto. Il brigadiere stesso esitò. L'agente di polizia ripetè seccamente l'ordine.

— Costui ci ha mostrato, soggiunse, quanta pervicacia sia la sua! Si merita questo ed altro: nè voglio che mi sfugga come avvenne d'altro rivoluzionario a Roma... Obbedite!

A Selva che dovette cedere alla forza, vennero per furore ardenti lagrime negli occhi; si morse le labbra fino al sangue, ma non aprì più bocca. Per un momento camminò a capo basso, vergognoso; poi scossa fieramente la testa, levò la fronte, e pallido, ma risoluto nel viso, seguitò la strada con quella fermezza e quella sicurtà che ha il martire d'un'idea perseguitata dalla forza. E così attraversò egli Torino in mezzo alla oltraggiosa curiosità dei passeggieri, deriso dal volgo, compassionato da alcuni, dignitoso sempre nella sua nobile calma. Quant'odio raccogliessero nelle anime oneste contro il Governo i suoi agenti con cotali atti è facile immaginare, e conveniva bene che in questa gioventù piemontese fosse forte e profondo il patrio affetto, perchè tutti i rancori, tutti i desiderii di vendetta suscitati per simili infami tratti svanissero quel giorno in cui quel Governo medesimo bandiva la politica nazionale e si sposava colla libertà.

Quercia intanto, partita la schiera poliziesca, erasi accostato premurosamente ai genitori di Francesco.

— Si rassicurino: aveva loro detto con quell'accento che sapeva rendere così simpatico ed insinuante. Io metterò in opera tutto il mio credito, tutte le mie influenze per restituir loro quanto prima il figliuolo.

C'era tanta sicurezza nelle parole e nell'aspetto di quel giovane che Giacomo e Teresa, e più ancora Maria, accolsero quella come una certa promessa.

— Dio la benedica! Esclamò la povera madre prendendo a Quercia una mano.

— Le saremo eternamente grati: soggiunse il signor Giacomo stringendo al giovane l'altra mano.

Maria, ella, venne innanzi al dottore e incrociando le sue manine in atto quasi di supplica, quasi di ammirazione, esclamò con voce impressa di tanto affetto:

— Oh sì! Le saremo eternamente grati.

E poscia arrossì fino sulla fronte sotto lo sguardo pieno di fuoco con cui il giovane le rispose.

— Ci conto su: disse Quercia mezzo sul serio, mezzo scherzosamente. Corro adunque senza perder tempo, e fra poco ne udranno le novelle.

Partì scambiando con quella affettuosa famiglia i più affettuosi saluti. Maria corse alla finestra per vederlo un'ultima volta mentre egli saliva in carrozza. Ed egli pure la vide; e i loro sguardi s'incontrarono come due raggi di luce. Era egli partito, e Maria rimaneva ancora immobile a quel posto, la candida fronte appoggiata ad una delle traverse dell'intelaiatura delle invetrate. Vedeva nel suo pensiero la bella figura di quel giovane ardimentoso nell'atto che affrontava con tanta sicurezza il pericolo, che dominava con tanta supremazia le turbe, che s'imponeva con tanta autorità a tutti, e il cui sguardo pur tuttavia era certe volte sì dolce!...

Povera Maria!

CAPITOLO XII.

Gian-Luigi, nel salire in carrozza, disse al cocchiere:

— A casa, di galoppo.

Cinque minuti dopo il legnetto entrava nel cortile della casa in cui abitava il dottor Quercia.

Questi scese sollecito e levandosi in punta di piedi, a bassa voce disse al cocchiere che si chinava verso di lui per udirne gli ordini:

— Andrai tosto ad avvertire i capisquadra della cocca che si radunino stassera alle sette nella taverna di Pelone.

Il cocchiere fece un cenno affermativo.

— Poi verrai qui e starai pronto ad ogni evento tu e la carrozza.

Detto questo corse su delle scale verso il suo quartiere. Quell'altra faccia sospetta che gli serviva da domestico gli venne incontro fino sull'uscio del pianerottolo.

— Ho udito la carrozza: gli disse, appena Gian-Luigi fu entrato; ed ho pensato che era Lei che tornava. Abbiamo qualche cosa di nuovo?

— Sì: rispose Gian-Luigi. Aspetta che ti do due lettere da portare.

Si mise al suo tavolino a scrivere di fretta. Un bigliettino vergò sopra un elegante fogliolino di carta lisciata, il quale diceva in lingua francese:

«Contessa. Due miei amici, due bravi giovani, gli avvocati Benda e Selva, furono arrestati per sospetti politici — affatto a torto, ve lo giuro. Bisogna che per mezzo del conte e di vostro padre mi aiutiate a farli rimettere in libertà. Fra due ore al più tardi sarò da voi a spiegarvi meglio la cosa, ma frattanto non perdete tempo e pregate il conte a parlare al generale Barranchi in favore de' miei protetti, e scrivete al barone La Cappa di volere interporre la sua valevole protezione presso il Governatore. Addio, vi bacio le mani e sono — quegli che vi ama alla follia — Luigi.»

Sopra un pezzettino di carta qualunque scrisse:

[62] «Seguite colui che vi presenterà queste parole di mio pugno. — Seguitelo subito. — Preme — Q.»

Diede i due scritti al domestico il quale con istrana famigliarità, di sopra la spalla del padrone, aveva letto tutto ciò che questi era venuto scrivendo.

— Questo, disse Quercia accennando il bigliettino, lo porterai...

E il domestico interrompendo con un insolente sogghigno:

— Alla contessa Staffarda ci s'intende... Ma dica un po', sor medichino, che cosa è l'arresto di questi due di cui fa cenno? Sono essi dei nostri?

— No: riprese Gian-Luigi crollando impazientemente le spalle.

— Be'... Io son di parere allora che la fa male Lei ad immischiarsene... La Polizia non bisogna toccarla, se non ci tocca... Lasci un po' che arresti chi vuole, quando la non ci viene a rompere le tasche a noi.

Il medichino si volse con tutta l'autorità e l'imponenza della sua supremazia.

— Olà! Mi pare che tu ti picchi di farmela da mentore eh?... Non tollero di queste seccaggini, io... fai quello che ti dico senza rompermi le tasche, ne prendo un altro a tua vece.

— Non parlo più: disse il domestico raumiliato. Mi pareva.... credevo bene.....

— Ti pareva falso e credevi male..... Stai certo che tutto ciò ch'io faccio gli è pel bene della cocca e non seccarmi altrimenti. Quest'altro fogliettino recherai in via porta..... nº..... piano terreno, uscio a dritta, appena nel vestibolo. Batterai nell'imposta sinistra due colpi, poi dopo un piccolo intervallo un altro, poi dopo altra pausa ancora tre; allora la porta ti si aprirà ed a chi ti verrà innanzi farai i segni dell'iniziazione massonica; quando ti avrà risposto, domanderai se esso è Medoro Bigonci..... Ricordati bene questo nome..... Alla risposta affermativa gli consegnerai quella carta, che ti farai restituire, ed appena sia pronto lo condurrai in Cafarnao, passando non per la bettola ma per la bottega di Baciccia. Io sarò là ad aspettarvi.

— In Cafarnao! Esclamò il domestico stupito all'estremo. Proprio in Cafarnao? Ripetè come se credesse di non aver capito.

— Sì: disse asciuttamente Gian-Luigi.

— Un estraneo?

— Egli è tale di cui si può fidare completamente, e le cose che abbiamo da dire, sono di natura da non esser dette che nel più segreto nascondiglio del mondo. D'altronde, giunto nella retrobottega di Baciccia gli benderai gli occhi e non gli leverai la benda finchè non sia penetrato fino nel mio gabinetto. Conducendolo fuori si farà lo stesso, così vedrà nulla di nulla. Ve l'ho già introdotto io altra volta di questa guisa ed ei non ha il menomo sentore della vera destinazione di quel nostro sotterraneo riparo.

Mandò un sospiro quasi di rimpianto e mormorò fra i denti:

— E se l'avesse, egli non ci metterebbe i piedi di certo. Hai capito? — Riprese parlando ad alta voce al domestico.

— Farò come la vuole.

— Benissimo. Vai e sollecita.

Il domestico si partì; Gian-Luigi si cambiò frettolosamente di abiti da capo a piedi ed avviluppatosi in un ferraiuolo uscì ancor egli e si diresse verso un'estremità della città, da quella parte precisamente in cui erano i quartieri più antichi e poveri, e in essi la taverna di mastro Pelone[4].

Eravi colà — ora non esiste più — un gran quadrato di case ammonticchiate l'una accosto all'altra in una massa compatta, traverso cui non passava nessuna via pubblica, ma si aprivano molti cortili e cortiletti la più parte umidi e sporchi, i quali, comunicando fra loro per anditi bassi e porte, formavano una specie di labirinto cui solo poteva percorrere senza smarrirsi chi ne avesse acquistato il filo colla pratica.

La bettolaccia di Pelone si apriva in questo quadrilatero dalla parte che costeggiava la viuzza di cui ho parlato nell'aprirsi di questo racconto: nel lato precisamente opposto, il quale si trovava allo estremo lembo delle abitazioni e quindi metteva sopra i viali, quasi all'altezza medesima della taverna, vedevasi un muro che separava da un tratto di terreno incolto, corrente presso le case fra queste ed il viale, un cortiletto in fondo a cui biancheggiava una casetta d'un piano, ristorata di fresco, la quale colla sua lindura e pulitezza faceva strano contrasto alla miseria delle casipole che la circondavano.

Quella casetta aveva una misteriosa storia cui raccontavano con mille varianti le comari del quartiere. Molti anni prima era di proprietà d'un vecchio misantropo che la fama diceva ricco assai e che viveva da povero, solo, senza servi, senza conoscenti, senz'attinenza nessuna di nessuna sorta. Le vecchie, che ricordavano averlo visto, dicevano che aveva la faccia d'un birbante: che pareva il delitto incarnato in un omiciattolo macilento, rugoso, sporco, scontroso e ributtante. Lo si accusava d'ogni più orribil fatto — e sopratutto di essere uno stregone. Dicevasi che la notte strani rumori si sentivano in quel locale, e che il diavolo ci doveva venire di sicuro a tener compagnia a quel solitario. La casa aveva il medesimo aspetto del padrone; le muraglie n'erano verdastre; i ragnateli pendevano [63] dapertutto, il tetto pareva minacciare rovina; la grondaia cascava staccata da una parte: gli scalini per cui si saliva al peristilio dell'unico ripiano erano disfatti e le lastre di pietra vacillavano sotto il piè vacillante di quel vecchio che solo varcava quella soglia. Era una casa che da lustri e lustri si lasciava andare in rovina.

Un giorno il vecchio misantropo non fu visto uscir più secondo che soleva tutte le mattine; le imposte delle finestre rimasero ermeticamente chiuse, e non fu udito più, nè visto colà dentro cenno di vita alcuno. Passarono e due e tre giorni di siffatta guisa, finchè la pubblica autorità, avvertita, penetrò di forza in quella casa, e trovò il vecchio appiccato per la gola ad un trave del soffitto. Non c'era traccia alcuna di violenza; nulla era derubato; si pensò che il vecchio medesimo, stanco di quella sua vita da orso, s'era ammazzato: si fece il suo bravo processo verbale e, dopo qualche giorno di chiacchere d'ogni fatta, la cosa fu posta in oblio. Il vecchio non lasciava eredi. Il fisco prese possesso di quella catapecchia, e la lasciò nello stato in cui si trovava, non sapendo che farne. Per molti anni essa rimase disabitata, e le comari del quartiere affermavano che la notte ci tornava lo spirito tormentato del vecchio omicida a farci chiasso. Finalmente quattro anni prima dell'epoca del nostro racconto, tutti i vicini stupirono nel vedere muratori e falegnami e poi tappezzieri all'opera a cambiare quelle luride muraglie in un'elegante dimora piena d'ogni ornamento e di ogni sontuosità che per comodo e per lo sfarzo della vita abbia saputo inventare la civiltà moderna.

Il dottor Quercia aveva comperato quella casa e la faceva con grande spesa ridurre a petite-maison per farne il nido de' suoi amori e delle sue avventure galanti.

Gli è verso questa sua casetta che Gian-Luigi diresse i suoi passi. Giuntovi, aprì la porta del muro che metteva nel cortile e la richiuse dietro sè appena entrato. Alla destra, addossato al muro, eravi all'interno un casotto da portinaio, ma la porticina e la finestra chiuse compiutamente anche alla luce dinotavano che non ci stava nessuno. Gian-Luigi traversò il cortile camminando sulla neve caduta, che nessuno aveva spazzato, e salito i tre scalini, che egli aveva fatto mettere di marmo e riparare da una piccola tettoia di ferro e cristalli (di quelle che diconsi marquises) aprì la porta di legno ben lavorato con ornamenti di bronzo, ed entrò, chiudendo anche qui studiosamente l'uscio dietro sè non solo con doppia mandata del serrame, ma con un forte paletto di ferro, che fece scorrere dall'una all'altra imposta.

Varcata la soglia eravi un breve andito a colonne che metteva in una sala piuttosto vasta, costrutta ed ornata secondo l'architettura ed il gusto dell'arte pompeiana. Il rumore dei passi era ammortato da uno spesso e ricco tappeto, e due bocche di calorifero alle due pareti laterali a chi entrasse mandavano un dolce tepore come di stufa per fiori. Senza deporre nè cappello nè ferraiuolo, Gian-Luigi traversò la sala ed entrò in una camera il cui uscio trovavasi precisamente in prospetto a quello d'entrata. Era un salotto ritirato, quieto, con tutte le delicature del lusso moderno, con diffusavi una luce semicrepuscolare che invitava l'anima al raccoglimento, i sensi all'abbandono, la voce a suonare sommesso. Sulle pareti era tesa una tappezzeria di seta gialla a fiorami d'ugual colore ma di tinta più scura; di seta gialla erano coperti il lettuccio da sedere, il sofà da starci due a discorrere, le seggiole a spalliera ricurva per accogliere comodamente la persona, le poltroncine, soffici tutti quanti, colle molle elastiche, e capitonati. Il legno dei mobili, degli usci, la cassa de' fiori presso la finestra in cui profumavano l'aere viole mammole, resedà e vaniglia, le cornici dei due alti specchi che si appoggiavano a due mensole elegantissime erano bianchi coi fregi e gli orli dorati. Un piccolo lustro dorato, di elegante forma, pendeva a metà dalla vôlta bellamente dipinta d'ornamenti architettonici e di vedute di paesi fra quelli inquadrate. Un più elegante tappeto copriva il pavimento e nel camino, tutto rivestito di marmo finissimo, ricco di belle scolture, dietro alari e paracenere elegantissimi di bronzo dorato ardeva un bel fuoco che una mano attenta doveva avere da poco tempo rianimato.

Gian-Luigi non si fermò neanche in questo salotto, aprì l'uscio che era alla sua destra e s'introdusse in una camera da letto che era tutto un'eleganza ed una gaiezza. Le tappezzerie, di seta altresì, erano di color celeste; di bianco e di celeste era incortinato il letto di legno di mogano, prezioso per egregio lavorio; dalla finestra per tendoline di seta rosea coperte di mussolina bianca si stacciava una luce a tinte soavi e calde che si rifletteva con effetto molto pittorico sugli orli dei mobili dorati; la vôlta formicolava di fiori e d'amorini sorridenti vagamente dipinti in ogni mossa; dal mezzo pendeva un canestrino indorato nel quale fioriva una di quelle strane piante erratiche a cui non è bisogno per germogliare e vivere la prosa della terra, ma che si alimentano poeticamente dell'aria, e in mezzo c'era luogo ad una lampada che dal cristallo opaco mandasse il suo lume travelato, non a rischiarare, ma ad assistere in quel tempio della voluttà ai dolci misteri della notte. Due specchiere alte da terra alla cimasa superiore della parete si facevan faccia dall'una all'altra parte della stanza, e il letto, posto in mezzo, era riflesso da ambedue all'infinito in una interminabile infilata.

Il giovane, entrato, chiuse studiosamente dietro sè la porta, come se temesse che alcun occhio profano avesse da vedere ciò ch'egli stava per fare, e non la chiuse soltanto colla stanghetta a molla, ma [64] diede colla chiave due mandate al serrame, quasi per esser sicuro che nessuno potesse venire a sorprenderlo. La precauzione poteva in vero dirsi soverchia, poichè aveva egli già serrato e il portone da via, e la porta d'ingresso della casina, e ben sapeva che nessuno aveva chiavi da penetrar colà dentro contro sua voglia o ad insaputa; ma il segreto che si celava in quella camera così elegante da parer fatta per gli amori soltanto, era pure di sì gran rilievo che per abitudine da non trascurarsi mai, egli s'era imposto ogni fatta di maggiori cautele cui potesse suggerire la più diffidente prudenza.

Gian-Luigi gettò uno sguardo sopra una mensola dove stava un gruppo di bronzo dorato in istile rococò, rappresentante con allusione mitologica varii amorini incatenatori del Tempo, il quale portava sulle sue spalle un orologio a pendolo.

— Di già le dieci ore!.... Come passa il tempo! Decisivamente la giornata è troppo corta per le tante cose che m'impone questo lavoro di Gigante assalitor dell'Olimpo..... Ah delle volte sono stanco!....

Vide in una delle specchiere, innanzi a cui si trovava, la sua faccia giovenile, impressa di tanta baldanza e risoluzione, e sorrise a sè stesso.

— Eh via! Sono troppo innanzi nel cammino per fermarmi..... E lo potrei d'altronde?.... Sono preso fra i rocchetti d'una macchina ch'io guido bensì, ma di cui sono schiavo insieme. Il giorno ch'io mi arrestassi o volessi ritrarmene sarei inevitabilmente schiacciato.

Le sue sopracciglia si aggrottarono un momento in fiera guisa.

— Io che voleva esser libero! Soggiunse con molta amarezza. Io che voleva dominare..... e che voglio!

Crollò le spalle e s'avviò senz'altro, con passo d'uomo che non ha esitanza di sorta, verso la specchiera che era in fondo alla camera. Si drizzò in punta di piedi, e trascelto in mezzo ai fiori scolpiti della cornice un bottoncino di rosa, cui nulla poteva far distinguere dai moltissimi altri che vi si ammassavano uniti ai fiori sbocciati, vi premette su lentamente col pollice inguantato, perchè l'azione della pelle non avesse da appannare la doratura. La specchiera girò adagio adagio sopra cardini invisibili, e lasciò scorgere un ambiente entro il muro in cui s'apriva nel suolo una scala a chiocciola che s'affondava tenebrosamente al di sotto.

Gian-Luigi accese una lampada a cristallo chiuso che trovavasi in una nicchia entro la parete di quello stretto stanzino intermurale, poi fatto ritornare a posto la specchiera, e rimasto egli così in una oscurità profondissima, si diede a scendere rischiarandosi del raggio che mandava innanzi a sè la lampa da minatore.

Discese per l'altezza di circa dieci metri e trovossi in un vano uguale a quello da cui dall'alto partiva la scaletta; fece cadere il raggio della lucerna sopra una porta di legno afforzata da lastre di ferro, nella quale presso il muro umidiccio, chiazzato di bianco qua e là per l'efflorescenza del nitro, aprivasi un bucherello in una lastra d'ottone fortemente, non che invitiata, incastrata nel legno. Era una di quelle serrature inglesi che si dicono a pompa che impossibile lo aprirle ad ogni grimaldello, impossibile quasi il romperle e scassinarle. Gian-Luigi trasse dal taschino del panciotto un anello d'acciaio in cui erano infilate parecchie piccole chiavi, e trasceltane una, l'ebbe appena introdotta in quel bucherello della toppa che la porta si aprì chetamente senza fare il menomo rumore. Un corridoio s'internava sottoterra e lasciava luccicare nella densa nebbia delle sue tenebre tratto tratto alcune fiammelle di lampa rischiaratrice che parevano chiazze sanguigne nel fondo nero di quell'oscurità. Un'aria fredda, umidiccia, pesante percoteva nel volto chi entrasse e gli si aggravava sulle spalle come un mantello di gelo che lo vestisse. Un silenzio sepolcrale ammoniva chi camminasse per quell'ombre visibili esser egli separato dal mondo dei viventi come se rinchiuso nella tomba. Qualche goccia di acqua infiltrata rompeva soltanto quella mutezza cascando tratto tratto con lieve rumore sul suolo. Gian-Luigi si avviluppò di meglio nel suo mantello e serrato anche qui alle sue spalle l'uscio pesante camminò innanzi di buon passo e coll'andatura di uomo pratico dei luoghi e della via.

A seconda che avanzava, il terreno che saliva si faceva più asciutto, e l'aria più libera e più mossa. Giunse così dopo un centinaio di passi ad una rotonda tutto murata, di cui il pavimento era composto di lastre irregolari di pietra e nella quale dall'alto pioveva per parecchi forami un po' di luce diurna ed aria esteriore. In quella rotonda facevano capo due altre gallerie cieche, uguali a quella che Gian-Luigi aveva allor allora percorso venendo dalla sua casina; di questi altri due condotti sotterranei uno metteva alla taverna di Pelone, l'altro alla retrobottega di quel Baciccia che abbiamo udito menzionare dal medichino, il quale la faceva da ferravecchi e mercante di mobili usati. Questi tre tunnels correvano sotto l'ammonticchiamento di quelle casaccie che ho detto, sino al centro di quell'isolato vasto e compatto dove quella rotonda trovavasi sotto un cortile interno il quale raramente o non mai veniva visitato da persona che non vi abitasse; e gli abitanti di quella miserrima casa erano la feccia morale e materiale della popolazione.

Ma la rotonda di cui ho detto, non era mica la meta dei passi di Gian-Luigi. Essa non era che il vestibolo del luogo a cui era diretto. Un uscio forte e grosso come quell'altro che era a capo del corridoio sotterraneo, apriva i due suoi battenti sopra uno scalino che lo rialzava dall'umidità del suolo, [65] su cui traverso i fori della vôlta era caduta e cadeva un po' di neve che veniva liquefacendosi tosto. Gian-Luigi trascelse un'altra di quelle chiavettine che aveva radunate a mazzo in quell'anello d'acciaio, cui l'abbiamo già visto trarre dal taschino del suo panciotto, ed aprì colla medesima guisa anche questo uscio.

Al di là di esso continuavasi a salire per cinque altri gradini, che si seguivano in un andito ascendente, accuratamente murato, colla calce lisciata e scialbata. Più asciutto si faceva l'ambiente, un'aria più pura si respirava; piccole aperture a mo' di feritoie, aperte qua e colà con arte che le dissimulava, servivano da sfiatatoi e facevano penetrare un certo dubbio chiarore crepuscolare, come servivano a rinnovar l'aria.

Gian-Luigi aveva già chiuso alle sue spalle anche quest'uscio della scala, quando, ravvisatosi, tornò ad aprirlo e lo lasciò rabbattuto. Poi salì i gradini; depose la lanterna sopra una panca che trovavasi in una specie d'anticamera in cui metteva la scaletta, e sospinse un uscio che trovò aperto innanzi a sè.

Entrò in una vasta cameraccia, aerata ancor essa, come la gabbia della scala e l'anticamera, mercè que' certi sfiatatoi che ho detto, i quali non bastando a gran pezza ad illuminarla, era mestieri di una lampada, che pendeva dalla vôlta continuamente accesa a rischiarare l'infinita, confusa, enorme, varietà di oggetti d'ogni fatta che facevano ingombro colà dentro, non lasciando libero di quell'ampio stanzone che uno spazio di circa due metri in metà.

Ogni cosa qualunque che possiate immaginare di quelle che servono all'uso dell'uomo, avreste potuto colà rinvenire: armi e vestiario, mobili ed utensili da lavoro, arnesi di cucina e suppellettili eleganti da salotto signorile, materassi e biancherie, quadri, bronzi e strumenti musicali, stoffe, tappeti, stipi, casse di ferro e stoviglie, oriuoli a pendolo e da tasca, gioiellerie, e cenci e cordami, perfino libri e quaderni di musica, perfino crocifissi e statue di Madonne di varia materia e lavoro, candelieri, vasi da chiesa, paramenta da altare e da sacerdote celebrante, argenteria da tavola, tabacchiere di preziosi metalli, decorazioni cavalleresche, bottiglie di vino, parrucche, barbe posticcie, pali di ferro, martelli, tanaglie, ascie, le più ignobili come le più sontuose cose del mondo. Se il signor Bancone, quel ricco banchiere che due notti innanzi era stato derubato, avesse mai potuto penetrare colà dentro, avrebbe riconosciuta la principale delle sue casse di ferro, nella forza e nel segreto congegno dei serrami della quale tanto confidava, rotta e sventrata giacente in un angolo.

A ragione questo celato riparo l'avevano battezzato col nome di Cafarnao. Ma aimè su molti di quegli oggetti — orrida vista! — c'erano macchie di sangue.....

Gian-Luigi s'inoltrò fra quel pandemonio e venne presso ad una tavola che stava nello spazio lasciato vuoto in metà. Su quella, al di sopra di una delle gambe che la reggevano, vedevasi un anelluccio attaccato ad un tondello di ottone; il medichino prese quest'anello e tirò su con forza un'asticina di ferro che entrava nella tavola, e la quale, per mezzo d'un filo metallico, metteva in moto nella bettola di Pelone un martello nascosto che batteva dei colpi contro l'interno della parete dietro il banco del taverniere medesimo. Diede tre strappate ad un piccolo intervallo l'una dall'altra, poi levatosi il cappello ed il ferraiuolo, fece per gettare l'uno e l'altro sopra un viluppo di materassi e di balle di lana che era alla sua destra. Ma là, sopra quell'ammasso di cui s'era fatto un comodo giaciglio, stava lungo e disteso un omiciattolo colla faccia sottile, col naso appuntato, il quale aveva aperto un occhio per guardare il medichino; un occhio vivo, irrequieto, malizioso, ironico ed impertinente.

— Sei tu, Graffigna? Disse Gian-Luigi deponendo altrove il mantello ed il cappello. Che cosa fai tu costì?

Graffigna tirò giù lentamente le gambe, l'una dopo l'altra, si drizzò in piedi, e rimanendo appoggiato allo stramazzo su cui poco prima giaceva, rispose colla sua voce esile da falsetto, che strideva come l'unghia d'un avaro sopra lastra di vetro:

— Dormivo. Si lavora tutta la notte di santa ragione da quel bravo Graffigna che si è, e un po' di riposo lungo il giorno vi ristora un uomo come una scodella di brodo con dentrovi un mezzetto di barbèra. Qui poi si può dormir tranquilli senza la paura della zampa del gatto. Pur tuttavia sono così avvezzo a non dormire che d'un occhio, che l'ho sentita venire, sor medichino.... ed ecco l'affare!

— Va bene... Non voglio disturbarti... Sta pure sdraiato a tua posta.

— La mi burla!... Conosciamo i nostri doveri verso i superiori, che diavolo!... La disciplina o che il boia m'impicchi... Non esco di lì, io... Ed a meno che Ella me ne dia espressamente l'ordine...

— Sì, proruppe il medichino con qualche impazienza. Sdraiati, ascolta soltanto due parole che ti ho da dire, e poi russa pure come quel maiale di Stracciaferro che allorchè dorme qui dentro fa tremar le vôlte.

Graffigna allungò di nuovo chetamente il suo corpo mingherlino e disse con voce più sottile che mai:

Che scusi, ma non son io che sarei capace di mancare alle convenienze come quell'animalaccio di Stracciaferro. Io mi rimetto a giacere per obbedirla, e son tutto orecchie ad ascoltare le sue parole; e poi quando Ella mi avrà dato i suoi ordini, se la mi permetterà, avrò anch'io da spifferarle quattro ragioni in croce.

[66] — Quel che t'ho da dir io, è detto in due motti. Primo, cercherai i quattro supremi consiglieri della cocca e loro comanderai a mio nome di trovarsi qui stassera alle sette. I capi-squadra sono avvisati di radunarsi nella bettola di Pelone.

Graffigna si levò su a sedere sul suo giaciglio con atto di molto interesse.

— Oh oh! Esclamò egli. Ci sono dunque grandi cose in aria?

Gian-Luigi chinò in segno affermativo la testa.

— Benone! Disse tutto lieto il galeotto mentre tornava a sdraiarsi.

— In secondo luogo, continuava il medichino, ho grande interesse di sapere chi sia quel poliziotto che stamattina si recò a fare una perquisizione in casa Benda. Ho chiamato Pelone appunto per averne alcuno schiarimento, che mi penso egli potrà darcene. In difetto, quand'egli non sappia o non voglia parlare...

— Eh eh! disse tranquillamente Graffigna: si potrebbe farlo cantare anche contro voglia.

— No: interruppe vivamente Gian-Luigi; nessuna violenza... D'altronde Pelone ci è troppo necessario per disgustarlo... e troppo pericoloso per farcelo diventar nemico. Quand'egli taccia, fa di scoprir tu con ogni mezzo che ti parrà migliore, e quando tu lo abbia conosciuto...

Il medichino parve esitare.

— Quando io lo abbia conosciuto? Ripetè Graffigna ficcando i suoi occhietti vivacissimi negli occhi di Gian-Luigi.

— Farai di modo da sapere eziandio le sue abitudini, e dove si possa cogliere solo, allo scarto...

— Ho capito..... È un impaccio?

— È un impaccio.

Quei due uomini, così diversi di sembianze e di natura e d'intimo valore, si guardarono un momento in silenzio e si compresero. Gian-Luigi sviò primo le sue brune pupille e si diede a passeggiare su e giù per quello spazio di pochi metri libero in mezzo al Cafarnao.

— Stia tranquillo sor medichino; fra un'ora mi metterò in campagna e spero poterle dire quanto prima che gli è un affar fatto.

Il medichino non rispose e seguitò a camminar con passo concitato e a capo chino. Dopo un poco si fermò presso la tavola, battè del piede sul pavimento con impazienza collerica e disse rabbiosamente:

— Quell'eterno lumacone di bettolier dell'inferno non viene. E sì che ho tirato di forza!

Riprese l'anelluccio della tavola e tornò a dare, ma con più violenza, tre strappate.

— Prenda pazienza: disse con vocina sempre più esile Graffigna seguitando il giovane col suo sguardo ironico e scrutatore: ci sarà gente nell'osteria e non potrà aprire la porta segreta; e poi quel benedett'uomo è così lento e lungo in ogni sua mossa!.... Frattanto se la mi permette dirò io a Lei qualche cosa che non manca neppure d'interesse.

— Parla! Disse vibratamente Gian-Luigi continuando a passeggiare in lungo e in largo.

— Prima di tutto ho una commissione da farle, una commissione importantissima, mi disse chi me la diede.

Il medichino si fermò in faccia a Graffigna di colpo.

— Chi?

— Ester, la bella figliuola di quel brutto scellerato di Macobaro.

Gian-Luigi crollò le spalle e si rimise a passeggiare.

— Dove l'hai tu vista?

— A casa sua. Sono andato ieri sera da quel sacco di tutte le malizie d'un vecchio ebreo per intenderci sulla compra di qualche masserizia fra tutta questa roba che ci ingombra maledettamente. Quell'avaraccio è indegno di appartenere alla cocca. Ha una indiscrezione di pretese che trarrebbe i calci dalle scarpe d'un santo; e non è mai quel cane da offrire pure una goccia di branda ad un amico..... Basta; a grande stento mi avanzò qualche miserabile spicciolo che mi disse avrebbe portato in conto.....

— E che tu ti sei affrettato di consumare in tanta acquarzente.

Cribbio! Come si fa? Con tante fatiche e con questa vitaccia che si mena, se non si tiene un po' su la macchina, vi casca l'asino di sotto..... Per farla breve, mentre quel vecchio schifoso, dopo mille storie, andò a prendere quei quattro miserabili soldi, Ester che era sempre stata immobile in un cantuccio, agucchiando certi panni al lume d'una lucernetta che pareva far la veglia ad un morto; Ester mi saltò innanzi con quella sua bella faccia d'alabastro, con quei suoi lucidi occhioni scuri, con quelle sue labbra rosse come il sangue che spiccia. «— Per l'anima vostra, mi susurrò all'orecchio con voce soffocata, in cui si sentiva che ella parlava da maledetto senno: date questo biglietto e il più sollecitamente possibile a Luigi: si tratta di vita o di morte.» E nel pormi in mano la cartolina ripiegata mi serrò con forza convulsa le dita fra le sue così esili e bianche, in quel momento gelate come il marmo. Si sentivano intanto trascinar le pianelle di quel vecchio esoso di suo padre, — come mai una sì bella creatura può essere nata da un mostro simile? — ed essa, lesta come uno scojattolo come un augellino, fu d'un salto seduta di bel nuovo al suo lavoro, che non pareva aver mosso pure la punta del dito mignolo; e guardandomi con un'espressione capace di rimescolar le budelle ad un vecchio peccatore, teneva l'indice della mano destra in croce sulle labbra a raccomandarmi il silenzio.

Gian-Luigi tornò ad arrestarsi presso il galeotto.

[67] — E quel biglietto, l'hai tu costì?

— Sì signore: rispose il mariuolo tirandolo fuori da una tasca e porgendolo.

Il medichino lo prese con isgarbo impaziente: si recò sotto la lampada che pendeva dalla vôlta, e rottone quasi disdegnoso il suggello lesse queste parole:

«In nome di Dio Eterno, bisogna che ci parliamo. Fa d'ingannare la sorveglianza sempre più sospettosa di mio padre, e vieni. Un tempo ne trovavi i modi e le ore. Il Signore ha — debbo dire benedetto o maledetto? — ha fatto fecondo il nostro amore. Sono madre. Mio padre mi ucciderà, se tu non mi salvi. Salvami, Luigi!»

Questi spiegazzò la carta nella mano in un moto vivace di contrarietà stizzosa: poi tornò a rispianarla e lesse un'altra volta il biglietto. Stette un po' immobile con quel foglio innanzi agli occhi, sotto ai raggi della lucerna come riflettendo: quindi stracciò in minutissimi pezzi la carta e riprese ad andare su e giù, gettando qua e colà gli squarci che teneva in mano, del modo che fa del frumento il seminatore nel campo.

Graffigna lo seguitava sempre con quel suo sguardo malizioso.

— Cattive nuove, eh? Diss'egli dopo un poco. Gelosie, rampogne, pianti e supplicazioni, ci scommetto. Ah quelle benedette donne ce ne dànno dei fastidii da portare! E dire che quando si è giovani non se ne sa star senza! Eh! eh! Ho avuto ancor io i miei grilli al mio tempo e so da che parte spuntano i corni della luna..... ed anche gli altri corni. Testè, quando ho acceso il fuoco nella casina, avevo pensato di mettere quel bigliettino sulla mensola del salotto, perchè Lei, venendo, lo vedesse di subito e lo prendesse: ma poi mi sono detto: no, Graffigna, non conviene; il medichino può venir qui accompagnato da qualche donnetta, oppure qualche sottanino può venirci anco prima di lui ad aspettarvelo..... Eh eh! si sa che gagliardo d'un mariuolo Ella è in punto a codesto...

Gian-Luigi che camminava sempre a capo chino e pareva non prestare la menoma attenzione al chiaccherio del suo compagno, ora, come infastidito d'un tratto da quella fluenza di parole, volse la faccia sdegnosa verso Graffigna, e gli disse imperiosamente:

— Taci!

— Non parlo più..... di tale argomento, perchè quanto al resto ho qualche cosa da dire di assai rilievo, e che la prego di ascoltare.

Il medichino sedette presso la tavola e tamburellando colle dita sul piano di questa disse:

— Allora parla, e fa presto.

— Il colpo che si è fatto nella banca l'altra notte fu un bel colpo, non c'è che dire, ma io ne ho in vista tre altri ugualmente e forse ancora più belli.

Graffigna tacque un istante come per aspettare una parola d'encomio o di curiosità o d'incoraggiamento a continuare, da parte del medichino; ma questi, appoggiato il gomito destro e sorreggendo la sua fronte alla palma della mano, rimaneva immobile, fisso lo sguardo ardente sulla figura da faina del galeotto. Questi continuava:

— Fra cotali tre colpi c'è da scegliere quello che più torna: io son d'avviso che conviene prenderli in considerazione tutti tre, prepararli bene e col dovuto intervallo farli l'uno dopo dell'altro. Il primo sarebbe contro il marchese di Baldissero. Si potrebbe scegliere una notte in cui i padroni fossero al ballo, come avvenne la notte scorsa: parte dei domestici profitta di quest'occasione per andarsela a godere; rimangono in casa ordinariamente due vecchi e le cameriere, gente di cui si può aver ragione con poca difficoltà. Introdursi là dentro è facilissimo pel cortile che, mercè le scuderie, comunica con un altro a cui si può aver accesso. La disposizione delle stanze nel quartiere del marchese possiamo conoscerla a puntino per mezzo di una donna che fu abbastanza lungo tempo al servizio di quella famiglia, la Gattona, ch'Ella avrà già udito a menzionare. Gli è vero che da venti e più anni la Gattona è uscita di là; ma la casa è pur rimasta tuttavia colle medesime disposizioni interne, e non c'è altro di mutato se non che nelle stanze dove stava ai tempi della Gattona l'antico marchese, ora abita l'attuale; ed è in queste stanze che giace il morto. Nell'attuale stagione si sono esatti gli affitti e delle case della città e delle campagne; e quel birbone d'un milionario di marchese deve avere in cassa parecchie buone migliaia di lire.

Graffigna fece di nuovo una pausa; Gian-Luigi non aprì bocca, nè si mosse, tenendo pur sempre gli occhi fissi sul suo interlocutore.

— E uno! Esclamò Graffigna poichè ebbe atteso un momento. Passiamo al secondo. Questo si dovrebbe fare dal signor Benda.

A questo nome Gian-Luigi si riscosse. Innanzi alla mente gli passò di botto leggera e graziosa l'immagine della giovane Maria.

— Codesto poi no: interrupp'egli con vivacità; al signor Benda non ci si ha da pensare.

— Perchè? Dimandò con accento mellifluo la voce squarrata di Graffigna. Quel bravo signore ha nei suoi scrigni qualche decina di mille lire.

— Quella casa è ben custodita....

— Peuh! Sclamò il galeotto alzando le spalle. Un tamburo maggiore per portinaio che con una succhiellatina bene aggiustata si fa azzittire per sempre; due cani che con un buon boccone si acchetano....

— Alcuni degli operai dormono colà.

— Sì, due capi-fabbrica. Be'! C'è modo di metterli anche loro alla ragione. Ma il fatto gli è che non si avrebbe bisogno di penetrare di soppiatto, la notte, per andare a portarne via colle scarpe di [68] feltro il gruzzolo; gli è di pien giorno alla chiara luce dei sole, se ci fosse il sole, che secondo il mio progetto si avrebbe da compier l'impresa. Dico mio progetto, così per dire, ma non sono così superbo da non confessare che il progetto è di Lei, sor medichino, e ch'io non faccio altro che applicarlo a quel caso particolare.

— Spiegati: disse Gian-Luigi sempre immobile in quel suo atteggio pensieroso.

— Ecco la cosa! Si fomenta un bel dì o per le paghe o per le ore di lavoro, o per questo o per quell'altro — e ce ne sono mille di possibili pretesti — una buona sommossa degli operai....

— Impossibile! Interruppe il medichino. Quegli operai amano moltissimo il loro principale che li tratta bene; sono stato poc'anzi stesso in caso di averne una irrefragabil prova.

— Eh via! Lo amano, ma quando loro si sapesse persuadere che levandogli la pelle acquistano un tanto nel borsellino, glie la leverebbero subito. Conosco gli uomini, io! Vi saranno delle eccezioni? Santa pazienza, ce ne sieno pure; ma noi non è colle eccezioni che abbiamo da fare. Le idee che Ella ci ha dato l'ordine di spargere hanno attecchito anche colà. Gli è così naturale! Chi non ha nulla troverà sempre un'ingiustizia che altri possieda e non egli; e il povero si lascierà sempre assai facilmente persuadere che è suo diritto pigliare al ricco... Breve; Marcaccio le potrà dire che anche in quegli opifici, come nel più degli altri, si sono fatti degli aderenti... Un bel giorno adunque, sapendo metterci a dovere il fuoco sotto, li faremo bollire a nostro vantaggio. Nato un tumulto, gli amici dell'ordine e del padrone, che sono sempre i più timidi e pacifici, si spaventano e se la sgusciano; noi aggiungiamo buona parte dei nostri uomini alle file dei riottosi; mentre quegli altri strepitano nella fabbrica, i nostri — e mi faccio una festa di esserne ancor io del numero — si insinuano nella casa; la polizia è lontana, e prima che arrivino soldati e carabinieri a metter l'ordine l'operazione è compiuta, gli amici hanno sgattaiolato, si arrestano alcuni de' più sori e dei più innocenti degli operai — e il giuoco è fatto...

— No: proruppe con forza Gian-Luigi; per ora non si ha da pensare a codesto.

— Perchè? Tornò a domandare Graffigna col medesimo accento di prima.

Il medichino alzò la fronte dalla palma della mano, e saettando d'uno de' suoi sguardi più risoluti il mariuolo che gli stava dinanzi, disse con accento che non ammetteva più nè risposta, nè osservazione:

— Perchè non voglio!

Graffigna curvò il capo in segno di ubbidiente rassegnazione.

— Passiamo al terzo — forse il migliore; riprese egli a dire dopo brevissima pausa. Qui trattasi d'un colpo cui da lungo tempo vengo pensando e studiandone il modo. Sarebbe quello di far ballare i tanti gialletti che ammuffiscono nelle casse di Nariccia.

— Ah ah! Esclamò Gian-Luigi con un'espressione che era un incoraggiamento a continuare.

— Sicuro! Qui l'affare è semplicissimo. Quel vecchio birbante di usuraio è solo con quella sua vecchia sgualdrina di serva. Le muraglie di quel suo alloggio sono sorde come il cuore del padrone, e non lasciano passar grido, nè rumore di sorta. Basta intromettersi colà dentro in tre o quattro, e il conto di ambedue que' squarquoi è bello ed aggiustato.

Gian-Luigi abbassò la faccia e mormorò con accento di ripugnanza:

— Ah sangue! Sempre sangue!....

— Il difficile sta nel penetrare in quelle stanze, chiuse con tanto lusso di serrami da disgradarne qualunque prigione; ebbene quest'unica difficoltà spero che potremo superarla. Occorre un buon ferraio che dalle impronte di cera sappia trar fuori a dovere le chiavi che ci vanno. Queste impronte è tanto facile ottenerle che le ho già prese io medesimo andando sotto varii pretesti nell'antro di quel succiadenaro. La cocca oggidì manca pur troppo di un operaio così abile da far simili chiavi complicate, pulite in modo, che senza bisogno di ritocco facciano a prima prova l'ufficio loro. Avevamo quel povero Topaccio, ma la scellerata d'una giustizia ce l'ha spedito a dar calci all'aria.....

Mandò un sospiro di profondo rimpianto.

— Quella è stata una perdita!... Non l'abbiamo mai più potuto rimpiazzare a dovere, e gli è gran danno alla nostra associazione. Ora mi dice Marcaccio che quel suo amico Andrea, frequentatore ancor esso della bettola di Pelone, è l'uomo fatto apposta, che un più abile e destro di lui in tal mestiere non è da trovarsi in Torino, e che non ci sarebbe segreto di serratura che a lui non bastasse l'animo d'indovinare. Sinora gli è ancora irretito da qualche scrupolo di quella che chiamano onestà, ma le parole di Marcaccio cominciano a scuoterlo, e la miseria che gli monta sui talloni lo caccia verso di noi. Fra pochi giorni l'avremo nelle nostre file; egli fabbricherà bravamente le false chiavi che andranno chete chete come olio, ed ecco messo il becco all'oca.

Quando Graffigna si fu taciuto, successe un silenzio di qualche minuto. Gian-Luigi pareva assorto in tutt'altri pensieri che quelli onde lo aveva intrattenuto il suo tristo compagno. Ad un tratto però, sollevò il capo che aveva tenuto basso sino allora e disse come parlando a se stesso:

— Nariccia se lo merita. Spogliarlo, lui, non è che pretta giustizia.

— Certo! Esclamò Graffigna.

— La sua ricchezza è infame, infamemente acquistata.

[69] — Infamissima.

— Mille volte è più scellerato di noi, egli che sgozza i poveri coll'usura ed assassina le famiglie colla miseria.

— Eh! noi siamo angeli in paragone.

— Di quante lagrime non è fatto il suo oro! Di quante brutture non è sporco!...

— Noi lo purificheremo appropriandocelo... Eh! eh! ce ne sarà per delle migliaia e migliaia di marenghini.

— La società tollera queste turpitudini e queste sconcie arpie; e non solo le tollera, ma le protegge!... Bene; è giustizia il punirle noi.....

— Sicuro! Noi siamo gli esecutori di quest'altra giustizia senza sciocchezze di tribunali.

Il medichino saettò d'uno sguardo severo la faccia ironica di Graffigna.

— Non hai tu più nulla da dirmi?

— Nulla.

— Allora dormi a tua posta e risparmiami le tue osservazioni.

Il mariuolo si voltò dall'altra parte e parve in un attimo ingolfato nel sonno il più profondo.

Gian-Luigi appoggiò tutti e due i gomiti alla tavola e nascose tra le mani la faccia. Pensava. Era egli stato fatto per quella parte che intanto sosteneva con tutto il suo impegno? La natura — non diceva la Provvidenza, perchè non credeva più in essa — aveva ella datogli quelle facoltà, quelle potenze che ei possedeva, per farne un tal uso? Come mai nessun'altra strada erasi dischiusa alla sua intelligente attività? Qui ricordava tutto il concatenamento dei casi che di grado in grado l'avevano menato a quel punto in cui si trovava; come la ricchezza agognata e i piaceri mondani a cui anelava gli sfuggissero innanzi con ironica schifiltà, a seconda ch'egli voleva con mezzi onesti arrivarli; come su loro avesse potuto mettere primamente le mani, quando era entrato nella via del delitto. Vedremo un giorno per quali circostanze fosse stata preparata ed affrettata la sua caduta; ma ora intanto, di pieno affondato nell'ambiente il più criminoso dell'elemento sociale più basso ed in rivolta permanente contro l'ordine vigente, contro la legge, contro la proprietà; ora egli si domandava se quell'appagamento cui godeva di parecchi suoi desiderii ed istinti bastava a soddisfargliene l'anima, se quella era la sorte ch'egli aveva nei sogni dell'adolescenza vagheggiato.

Gli anni primi della sua vita gli sfilarono innanzi al pensiero, inquadrati nella scena del villaggio, e in essi principale la figura di Maurilio, che aveva ritrovato la sera innanzi. Maurilio era sempre povero, sempre ignoto, egli di cui Gian-Luigi riconosceva l'intelligenza superiore anco alla sua! Rimanendo onesto ancor esso adunque sarebbe a quel punto? Pure c'era in fondo all'animo di questo troppo traviato giovane alcuna cosa che lo ammoniva non essere impossibile per altra strada giungere di meglio a quel fastigio a cui anelava. E forse quest'altra strada l'ingegno potente di Maurilio glie l'avrebbe saputa additare. Se alla intelligenza straordinaria del suo compagno d'infanzia si unisse in un'opera comune la risolutezza, l'attività, la forza di lui, che cosa non potrebbe ottenersi da siffatta consociazione? La sera innanzi Gian-Luigi aveva detto a Maurilio che sarebbe recatosi da lui a parlargli di rilevantissime cose; ora determinò più fermamente di far ciò, appena avesse un momento di libero.

Allora si ricordò che stava aspettando da più di un quarto d'ora Pelone, a cui aveva comunicato per mezzo della corda di ferro il cenno di accorrere; e con maggiore impazienza di prima tornò a dare tre più forti strappate all'anello della tavola.

In quella il suo sguardo cadde sopra uno di quei pezzettini di carta ch'egli aveva gettato qua e là, lacerata la lettera di Ester. Per atto quasi irriflessivo, prese quel minuzzolo e lo accostò agli occhi. V'era scritta su una parola intiera, la parola madre.

Questa sola parola staccata, che il caso gli faceva comparire innanzi a quel modo, turbò il giovane più che non avesse fatto la lettura dell'intiero biglietto della povera Ester.

— Madre? Diss'egli fra sè, e un tremito interno gli scuoteva le viscere. È la prima volta che ciò mi avviene; la prima volta che una donna mi dice: sono madre per te. Gli uomini si rallegrano di questo annunzio. Per me gli è un nuovo cumulo di fastidi. Oh che, avevo bisogno giusto adesso mi venisse sopra quest'altro imbroglio!.... Mi dice ch'io la salvi. Eh! che cosa ho da far mai, e in fin dei conti a me che cosa importa di lei e del suo bambino?

Ma questa crudeltà d'indifferenza che il suo fiero egoismo gli suggeriva era troppa, perchè a lui medesimo non ripugnasse.

— Ah suo padre, quel vecchio scellerato d'ebreo è capace dassenno d'ogni peggior eccesso per vendicare l'onta della sua figliuola, e siccome il vile non è feroce che coi deboli, ed io sono forte, gli è certo contro la infelice Ester ch'egli vorrà infierire.... Povera giovanetta! Ella m'ama pur tanto!...

A un tratto una nuova idea gli balzò improvvisa in mezzo al cervello fra dolorosa e piacevole:

E il bambino?... Ah! di quello posso bene esser sicuro che gli è mio sangue.... Che sarà di lui?

Pensò che egli pure era nato probabilmente di quella guisa, che la sorte a lui toccata avrebbe avuto quell'essere che accennava volersi affacciare alla vita, che a quell'innocente avrebbe toccato eziandio aprirsi una strada in mezzo al mondo ostile e rassegnarsi od a giacere nell'oscura povertà od a conquistare col dolore e col travaglio del corpo, del cuore e dell'intelletto ogni menomo vantaggio sociale, assai probabilmente a precipitare, se maschio, [70] nella strada del delitto, se femmina, in quella della vergogna.

Una nuova, non anco provata tenerezza, di botto lo assalse al pensiero di quel bambino. I suoi occhi che raro o non mai brillavano per una espressione di dolcezza e di sensibilità, parvero inumidirsi e a mezza voce, come per farsi un promessa, come per impegnarsi innanzi a se medesimo, pronunziò le seguenti parole:

— La salverò... Oh sì, la salverò, lei e suo figlio... e mio figlio!

Chi può spiegare il misterioso procedere del nostro pensiero? Aveva egli appena pronunziato queste ultime parole «mio figlio» che la sua fantasia tolta di subito alle immagini che la occupavano in quell'istante, era gettata in una sfera tutto novella, in cui forse, e senza forse, non che soffermatasi, non era penetrata ancora mai. Pensò alle gioie paterne ed alle miti felicità della famiglia a lui isconosciute affatto e che in quel momento gli apparivano con tutta la loro soavità leggiadra. Si rivide innanzi la gioia serena di sposi novelli, la superba dolcezza di genitori bacianti il frutto delle loro viscere; gioia e dolcezza a cui appena aveva badato per lo addietro, cui aveva fors'anco disprezzato e deriso, che in quell'istante gli apparivano inaspettatamente — quali sono — le migliori cose del mondo.

E perchè non cercherebbe colà il suo bene, egli pure? Si immaginò di colpo circondato dal caro ambiente d'una famiglia — sua — e in questo ambiente, luce e profumo la virtuosa modesta bellezza d'una donna affettuosa. Anzi questa vagheggiata beltà gli apparve personificata in forme reali, e vedute poc'anzi — non quelle della misera Ester da lui sedotta — ma quelle della graziosa Maria. Si compiacque un istante di questi pensieri e di queste immagini. Sorse in piedi e si pose di nuovo a passeggiar su e giù, le braccia incrociate al petto e il capo chino.

Quella stanchezza della sua opera infame, quel fastidio de' fatti suoi, che vedemmo averlo assalito poc'anzi, lo presero più forte. Egli conosceva abbastanza la sua potenza per credere che dove avesse voluto sarebbe entrato vincitore nel cuore della fanciulla, era abbastanza pratico di codesto per esser certo senza fatuità che una prima favorevole impressione egli l'aveva già in Maria prodotta: sapeva d'altronde che dalla famiglia era quella giovane amata cotanto da non voler contrastare ad una passione che la dominasse sovrana, e che insoddisfatta la renderebbe infelice. Egli adoperandosi fruttuosamente — e di ciò era certo — per restituire a quegli afflitti e sgomentati genitori il figliuolo avrebbe acquistato da quelle anime generose tanta gratitudine quanta sarebbe stata a sufficienza per coadiuvare all'amore di Maria per lui affine di ottenerlo a sposo. Egli si scioglierebbe dall'infamia, si allontanerebbe; la famiglia Benda era ricca, e la dote data alla figliuola sarebbe stata tale da bastare a vivere agiatamente....

Ma qui l'idea del denaro che s'intromise in quel romanzo morale cui la sua fantasia stava facendo, ne corruppe tutta la composizione, tolse lo spirito di Gian-Luigi a quel puro ambiente in cui era disavvezzo pur troppo e lo ricacciò nelle fangose peste dove soleva dibattersi. La cosa non gli apparve più che come un affare di guadagno, di cui da discutersi se più o meno il vantaggio. Una modesta agiatezza era quella che sarebbe bastata per lui? E dove ne andavano tutti i profondi e complicati disegni ch'egli aveva fatto per isconvolgere la società e vincere in quella guerra all'ordine costituito, la quale, da sorda, bassa e criminosa, doveva un giorno nel suo concetto scoppiare aperta e potente alla luce del sole per far lui primo e glorioso, e dominatore? Quelle acri ambizioni, quei feroci istinti insaziabili che lo tormentavano, oh come avrebbero taciuto di subito? E non sarebbe stato segno d'impotenza la rinuncia? No no; egli si ripeteva che era preso, da non potersene sceverare più, per le ruote dentate di quella macchina ch'egli stesso metteva in moto. Non c'era da illudersi con altre idee. Egli doveva in quella strada continuare per giungere alla meta o soccombere.

— E quel birbante di Pelone non viene! Disse egli ad un tratto, ritornando collo spirito alle cose presenti ed al bisogno che aveva di parlare col bettoliere.

In quella ecco un leggier fruscio sentirsi verso l'entrata e Gian-Luigi che si volse vide venir sollecita con un bel sorriso tutto amoroso Maddalena, la serva dell'osteria.

Ma il sorriso della giovane si agghiacciò sulle sue labbra al vedere la fronte corrugata e l'aspetto corruccioso del medichino.

— Che cos'è codesto? Gridò egli con quell'accento che faceva tremare. Gli è mezz'ora che aspetto; e poi non ho chiamato te, ma ho chiamato Pelone.

Maddalena, tutto mortificata, rispose coll'accento di chi si difende ingiustamente accusato:

— C'era gente nell'osteria....

— E perchè non è venuto Pelone?

— Gli è dietro a trattare di certi suoi negozi coll'ebreo Macobaro.

— Ah ah! Sclamò Gian-Luigi con istrana espressione: gli è costì quel vecchio strozzino? Affè che fra lui e Pelone fanno il paio.

— L'oste sa che io ho e che mi merito tutta la tua fiducia: continuava la giovane moineggiando: e non ha pensato farti cosa disgradita mandando me in sua vece a vederti.

Ed accostatasi presso presso a lui, gli pose sotto gli occhi la sua faccia volgare, ma fiorente di gioventù, e gli fece balenare innanzi il suo sguardo procace pieno di sensualità.

[71] Sulla bocca del medichino passò un'ombra di sorriso; e Maddalena, tornata nella sua naturale audacia, ne prese incoraggiamento a gettargli le braccia al collo e ad appiccicare le sue labbra carnose su quelle di lui, in un amplesso pieno di voluttuoso ardore.

Ma egli si sciolse dalle braccia della donna e la respinse alquanto bruscamente da sè:

— Stai ferma: le disse severamente. Ve' che c'è alcuno.

Maddalena, volgendosi, vide nell'ombra d'un angolo dello stanzone luccicare la pupilla maliziosa di Graffigna che teneva un occhio aperto e l'altro chiuso.

— To' Graffigna!

— Non vi disturbate: disse costui col suo tono di affettata bonarietà beffarda: io dormo, amorini miei, e non vedo nulla.

— Senti, Maddalena: proruppe Gian-Luigi senza badar punto a Graffigna ed alle sue parole; ciò di cui volevo interrogare Pelone, me lo puoi dire anche tu, e quello che con esso lui volevo combinare, possiamo aggiustarlo eziandio fra noi due. Varii agenti di Polizia frequentano la taverna, non è vero?

— Sì.

— Rispondimi sull'anima tua, rispondimi la verità per quanto hai di più caro, e se ci tieni all'amor mio.

— Ci tengo come alla mia vita e non puoi dubitar punto nè della sincerità, nè della verità delle mie parole.

— Qualcheduno di questi poliziotti travestiti mi ha visto nella bettola o poco o assai?

— Giurerei di no. Quando ce n'entra qualcuno, siam lesti ad avvisartene e tu t'affretti a sparire. Ieri sera non aveva ancora messo il muso nella prima stanza quello che mi pare il più accorto ed il più autorevole di quei birboni, che io già ti avevo fatto avvertito...

— Come si chiama questo tale?

— Barnaba.

Gian-Luigi si rivolse a Graffigna.

— Dà retta tu, e tieni bene a mente questo nome.

— Non dubiti: rispose quell'altro aprendo di nuovo un occhio solo. Me lo stampo qui nel comprendonio e non va via più.

Il medichino continuava parlando a Maddalena:

— In quel momento che attirato dal rumore della rissa di Marcaccio ho commesso l'imprudenza di venir fuori nella stanza comune, eravi forse colà uno di quei segugi del Commissario?

— No: rispose la fante. Ti dico che appena spunta il grifo di uno di codestoro, non manco mai di porti in sull'avviso.

— Ma li conosci tutti tu?

— Certo che sì... Pelone, come tu glie ne hai ordinato, me li ha fatti conoscere dal primo all'ultimo.

— Ed abbiamo proprio da fidarci che quel vecchio carcame di Pelone non abbia celato nulla?

— Pelone non avrebbe nessun interesse a ingannarci; guadagna troppo ad esserti fedele, e ti teme troppo — te ed i tuoi — per pensar pure a tradirti. Del resto, ancorchè egli volesse tenermi nascosto qualche cosa di ciò, io ho abbastanza buon naso per iscoprire da me dove c'è del losco. Scommetto che se una nuova spia si presenta, fosse pure fra cinquanta, al primo acchito la riconosco per quello che è.

— Va benissimo. Or dunque ascolta ciò che voglio da te e da Pelone. Troverete modo che io, nascosto dietro l'usciolo segreto, veda il muso, un per uno, di tutti quei poliziotti che ci favoriscono. Hai capito?

— Sì, e nulla è di più facile. Pelone ha mille pretesti per radunarli nella camera dell'impiallacciatura; per esempio quello di denunziare qualche miserello di ladruncolo da due quattrini. Ciò giova a mantener la benda sugli occhi della Polizia. Tu, avvertito, sarai a tuo posto a guardare traverso i bucherelli.

— Hai ragione. Avvisane adunque Pelone, e più sollecitamente ciò si faccia meglio sarà. Ora vattene pure alle tue bisogne, Maddalena, e di' a Macobaro, se gli è ancora costì, di venire da me che ho giusto piacere di parlargli.

Ciò detto si avviò ad un usciolo che si trovava in prospetto a quello d'ingresso, e con un'altra di quelle chiavettine radunate a mazzo nell'anello d'acciaio, lo aprì.

Ma la fante non era partita; essa guardava il giovane con occhi che parevano una fiamma viva; e quando egli stava per entrare in quello che era il suo gabinetto riposto, ella gli fu accosto colla sua petulanza sempre più procace, e gli disse col suo sorriso da cortigiana:

— Mi mandi via così? Non hai più bisogno di me?

Il medichino la guardò con una fredda fissità.

— Accendimi il lume nel gabinetto, e vai a chiamarmi Macobaro.

Maddalena in un momento ebbe accesa la lampada in quel riposto stanzino, Gian-Luigi era entrato e gettatosi a sedere sopra un seggiolone dinnanzi ad una scrivania ingombra di carte; aveva appoggiato al bracciuolo il gomito destro, sorreggeva alla palma della mano la sua fronte e pareva lontano col pensiero le mille miglia dalla donna che non si risolveva a partirsi.

Passarono alcuni minuti di questa guisa, egli immobile nella poltrona, ella coprendolo di quel suo sguardo acceso, in cui l'ardenza del desiderio pareva congiungersi al dispetto; poscia Maddalena si accostò pianamente a lui, si appoggiò alla spalliera del seggiolone e curvandosi sopra il giovane susurrò con voce sommessa e quasi tremante:

[72] — Luigi!

Egli alzò vivamente il capo ed aggrottò le sopracciglia.

— Che è codesto? Vi dissi di partire, e voi?...

Maddalena gli si abbandonò addosso con tutta la persona, abbracciandolo e baciandolo con passione.

— Ah! Luigi, tu non mi vuoi più bene..... Ed io che te ne voglio tanto, tanto, e sempre di più!... Una volta non mi avresti trattata così.

Gian-Luigi prese le braccia della giovane e togliendosele di sopra le spalle serrò i due polsi nella sua destra piccola, fina e bianca, ma forte come tenaglia: allontanò da sè la persona di Maddalena, senza sgarbo e senza violenza, ma con una certa bruschezza che dinotava un principio d'impazienza, e disse col suo tono da gran signore:

— Olà! Vogliamo noi per caso introdurre delle novità? Oseresti far delle scene o tentar dei rimbrotti? Eh via! Maddalena, o non mi conosci ancora, od oblii chi sono.

— E tu dimentichi che una donna come son io non si può rassegnare a tanta trascuranza, a tanta indifferenza... Ho bisogno di vederti io, ho bisogno d'esser tua, ho bisogno di te.

Abbassò la voce, e le parole passarono fischiando fra i denti stretti cui le labbra contratte scoprivano sino alle gengive:

— Sono gelosa!... Tremendamente gelosa!... Oh! le tue belle signore, come le odio! Esse vesti di velluto e di seta, ed ori e gioielli intorno nei saloni eleganti... E le ti piacciono per questo... Io, povera, poveramente vestita, in un'umile taverna, serva degli avventori e di che avventori!...

Sulla faccia del medichino si dileguò quell'espressione d'impazienza che incominciava ad accostarsi alla collera; una specie d'interesse simpatico vi si sostituì; gli era sempre quella terribile questione dei ricchi e dei poveri che gli veniva dinanzi; era quell'ambizione e quell'invidia che lui tormentavano, le quali apparivano ancor esse nella passione di Maddalena; egli la guardò seriamente e quasi con pietà.

— Lena, le disse, tu potresti avere e belle vesti ed ogni cosa che hanno le ricche, e potrei procurartene io stesso; ma tu sai che mi sei utile rimanendo in queste umili condizioni in cui ti ho trovata. Ho bisogno di un'anima fidata come sei tu...

— E s'io ti sono utile, proruppe la donna, e se io sono pronta a dare anche il mio sangue per te, perchè mi ami tu meno di quelle tue schifiltose poppatole delle sale, che, dove sapessero il vero esser tuo, ti sprezzerebbero e si vergognerebbero di averti conosciuto?

Una fiamma di rossore passò sulla faccia di Gian-Luigi.

— Ah! se mi trovassi mai una volta muso a muso con una di quelle smorfiose! Sclamò Maddalena con represso furore, digrignando i suoi denti da jena. Che sì che mi piacerebbe disfarle quel mostaccio imbellettato.

Il medichino si alzò.

— Oh basta: diss'egli severamente. Che diritto hai tu sopra di me? Che promesse ti ho io fatte di cui tu possa invocare il mantenimento?

Maddalena liberò le sue mani dalla stretta di quella di Gian-Luigi e si contorse le braccia in atto di disperazione.

— Sì, gli è vero! Esclamò essa con accento tronco e doloroso, che pareva interrotto dal singhiozzo. Sì, che cosa sono io? Un nulla, una povera stracciona a cui tu hai fatto un grande onore prendendola, di passata, per un passatempo, o meglio per incatenarla di più a te, affine di servirtene mediante un'elemosina di amore. È vero: io non ho chiesto nulla, e tu non mi hai nulla promesso. Con che fronte avrei io domandato? Ma la mia cieca devozione, ma il mio sconfinato abbandono, ma l'aver io tutto lasciato del mio passato, non meritano forse da te alcun riguardo?

— Lo meritano e lo hanno: disse Gian-Luigi colla calma d'un superiore che si piace d'accondiscendere alle preghiere d'un subalterno; e passando carezzevolmente la mano sui capelli della giovane, soggiunse con alcuna tenerezza nell'accento: — Non ti ho io introdotta nei misteri della mia vita; non sei tu conscia di me come l'anima mia? Oh va che nessun'altra può competer teco a questo riguardo. Non cerco io da te altresì delle dolci ore d'oblìo?...

— Ah! troppo poche e troppo di raro: interruppe sfacciatamente Maddalena.

Il medichino sorrise e poi soggiunse fra severo e scherzevole:

— Indiscreta!..... Ma nè il mio umore, nè i miei sensi sono fatti per essere incatenati a servitù di sorta.

Si udì uno stropiccio di passi nello stanzone che precedeva il gabinetto.

— Zitto! Disse Gian-Luigi, abbassando la voce: qui v'è gente che aspetto. Va, Maddalena, e di' a Macobaro che fra un'ora venga a parlarmi qui dove l'attenderò..... Te poi... te attenderò questa sera, dopo chiusa l'osteria, a mezzanotte.

Maddalena mostrò i suoi bianchi denti in un sorriso di tutta gioia e sparì. Nello scuriccio dello stanzone detto Cafarnao si avanzavano due uomini, di cui uno aveva gli occhi bendati. Erano il domestico di Gian-Luigi e Mario Tiburzio.

CAPITOLO XIII.

Prima di assistere all'importante abboccamento che sta per aver luogo fra Gian-Luigi e Mario Tiburzio, l'ordine cronologico degli avvenimenti vuole che vediamo ciò che succedesse in casa del pittore Vanardi in quel frattempo in cui avvenivano le [73] scene ond'erano teatro l'abitazione e la fabbrica dei Benda.

Dal quartiere in cui dimoravano i giovani amici, Mario Tiburzio era partito prima ancora dell'alba, Giovanni Selva erasi allontanato poco dopo per correre dove abbiam visto, e Romualdo un po' più tardi era uscito per le sue faccende: non rimanevano adunque che Vanardi e Maurilio, e Rosina la moglie del primo. Mentre la donna, con quell'alacrità da buona massaia che era una delle sue principali virtù, si dava intorno ad ordinare la casa, Vanardi che aveva litigato fin tardi nella notte colla curiosità della moglie e Maurilio che fino al mattino era stato raccontando i casi suoi a Giovanni, dormivano tuttavia, quando una scampanellata fece accorrere all'uscio del ripiano la Rosina impazientita che si venisse a disturbarla a quell'ora mattutina. Vedendosi innanzi una brutta vecchia in luridi panni che teneva per mano un fanciullo cencioso, la moglie del pittore credette le si venisse a domandar l'elemosina, e senza aspettare altro disse sollecita:

— Andate, andate con Dio, buona donna, qui non si ha nulla da darvi.

Ma la vecchia, facendosi innanzi a tenere il battente che Rosina voleva di presente richiudere, si affrettò a dire:

— Noi non siamo mica ciò che Lei crede, madama. Siamo aspettati in questa casa, dove ci abbiamo a che fare.

La Rosina spalancò tanto d'occhi.

— Siete aspettati? Avete da che fare qui dentro? Oh bella! Che cosa mai ci avete da fare e chi siete?

Quella brutta vecchia contrappose a quelle una sua richiesta:

— Gli è ben qui che abita il signor Maurilio Nulla?

— Sì, che gli è qui.

— Suo marito forse?

— No, non è mio marito, nè mio parente nemmanco di nessuna maniera, ma e' sta qui. Gli è con lui che avete qualche cosa da spartire?

— È stato lui che ci ha detto di venire e che ci aspetta. Faccia un po' grazia di dirgliene: che c'è la Gattona col Gognino, e vedrà.

A Rosina l'aspetto di quei due ispirava poca fiducia.

— Va bene: rispos'ella. Aspettate un momento che vado ad avvertirne Maurilio.

E senza punto cerimonie chiuse l'uscio sul naso adunco della Gattona.

Maurilio dormiva gettatosi tutto vestito sul letto. Il freddo che lo aveva colto gli allividiva le guancie e le mani da fargliele sembrare mani e guancie di cadavere. Rosina, che pure aveva poca simpatia per l'aspetto tenebroso e l'umore cupamente taciturno di quel giovane, nel vedere profondo il segno d'un'intima sofferenza sui lineamenti di lui addormentato, sentì un senso di compassione.

— Povero giovane! Esclamò ella. E' par morto addirittura.

E ne toccò lievemente la fronte che trovò fredda come marmo; ma a quel tocco Maurilio si destò in sussulto.

— Che cosa c'è? Domandò egli sorgendo a sedere. Ah! la è Lei Rosina....

— C'è qui fuori una vecchia che dice che Lei l'aspetta e che si chiama la Gattona.

— La Gattona? Ripetè meravigliato Maurilio, il quale non ricordava punto in tal momento quel nome, nè l'avventura capitatagli la sera innanzi.

— Ha seco un bardotto alto così, cui dà nome di Gognino.

— Ah sì, sì: esclamò allora Maurilio, a cui tornò la memoria di tutto; e saltò in piedi giù del letto.

— Li ho dunque da introdurre? Disse Rosina.

— Sì, faccia il piacere; ho veramente detto loro di venire.

La vecchia e il fanciullo furono fatti entrare in quella stanza in cui la notte avevan tenuto consiglio i congiurati.

— Eccoci qui, ad accettare la sua tanta carità: disse a Maurilio col suo accento melato da volgare baciapile la Gattona, che intanto faceva girare tutto intorno i suoi occhi cisposi per esaminare ogni cosa di quella stanza. — Levati il berretto di capo, tu: soggiunse dando uno scapellotto al ragazzo che stava lì colla sua aria di malavoglia; e domanda al tuo benefattore se ha dormito bene.

Gognino per tutta risposta si nascose dimenando le spalle dietro le sottane della vecchia.

— Animo, su, non fare lo scimunito: insisteva la nonna, volendolo trarre a forza di dietro a sè per farlo avanzare verso Maurilio; non mostrarti più male educato di quello che sei. Santa Madonna del Carmine! Se sapesse madama (e si rivolgeva a Rosina la quale assisteva curiosamente a quella scena), se sapesse le fatiche e i mali di stomaco che mi costa questo benedetto sbarazzino... senza contare i denari! Gli è un umorino che non ha il suo compagno, glie lo assicuro io... testardo come un mulo, e malizioso come il fistolo... Io faccio di tutto per ispirargli i sentimenti del timor di Dio e della buona creanza... Eh sì! Gli è come lavar la testa all'asino... Dunque (e riparlava al marmocchio a cui dava potenti strappate al braccio per tirarlo avanti) vuoi venir fuori sì o no a fare il tuo dovere col signore?...

— Lasciatelo stare; interruppe Maurilio seccamente. Quando saremo soli ce la diremo di sicuro fra di noi. Prendete i vostri dieci soldi voi, e andatevene con Dio.

La vecchia prese i denari che Maurilio gli porgeva e torcendo il collo da una parte, volgendo gli occhi in su, biascicò una litania di ringraziamenti.

— Che il Signore e la Madonna e i Santi tutti del Paradiso la benedicano. Io vado difilato al Carmine [74] a pregare per Lei... o alla Consolata se le piace di meglio...

— Pregate per voi o per chi altri vi aggrada. Io non cerco preghiere da nessuno.

— Gesummaria! Disse fra sè la Gattona. Padre Bonaventura ha ragione: è un eretico e miscredente.

— Oh sante piaghe! Soggiunse ella poi ad alta voce: le preghiere non fanno mai male a nessuno. Però come la vuole. Lascio dunque Gognino presso di Lei. E quando uscirai (disse al fanciullo levando l'indice per fargliene notar di meglio l'intimazione) vieni tosto a raggiungermi sulla porta del Carmine, e non baloccarti per istrada siccome è tuo uso, neh? Monsù e Madama li riverisco.

Fece una profonda riverenza, che avrebbe contentato un maestro di ballo, ed uscì, accompagnata sino all'uscio dalla moglie del pittore.

Questa non capiva bene l'atto di Maurilio, ed era ben lontana dall'approvarlo. Fare la carità, anche la buona Rosina trovava una bellissima cosa, ma quando se ne avesse i mezzi; e di Maurilio ella sapeva come, coll'esercizio del suo povero mestiere, guadagnasse tanto appena da bastare ai più stretti bisogni suoi. E poi che cosa voleva egli fare di questo bambino che si faceva condurre in casa? Forse mantenerlo? Oh sì ch'ella voleva quella giunta di carico alle gravezze famigliari! Accompagnando la vecchia, Rosina, che era la più curiosa delle donne, interrogò, e la Gattona, che era la più ciarliera, contò tutto quello che era intravvenuto fra lei, suo nipote e Maurilio.

— Gli è matto per davvero: conchiuse la moglie di Vanardi, tornando indietro dalla porta, dopo partita la vecchia. S'ei si mette in capo di insegnare a leggere e scrivere a tutti gli straccioni che non lo sanno, sì che mi sta fresco!

Maurilio aveva preso il fanciullo per mano e se l'era condotto seco nella vicina stanza, dove ci aveva il suo letto. Rosina cedette alla tentazione della sua irrefrenabile curiosità; si accostò pianamente all'uscio, e messo l'occhio al buco della toppa, si diede ad ascoltare e guardare.

Maurilio s'era seduto presso la finestra e teneva il fanciullo innanzi a sè, passandogli carezzevolmente una mano sugl'ispidi, scarmigliati capelli. L'espressione della sua faccia era quale Rosina non gli aveva mai vista. Una nuova affettuosità raggiava dai suoi lineamenti strani ed originali, una luce di tenerezza brillava ne' suoi occhi affondati. Pareva che la sua fisionomia avesse deposto il velo scuro che l'appannava per mostrare una espansività fino allora contenuta e dissimulata. Quella faccia irregolare in tal momento pareva quasi leggiadra.

— Mi riconosci ancora? Domandava egli al ragazzo con voce diversa dall'usata ancor essa, e soave.

— Sì: gli è Lei che mi ha pagato da cena ieri sera.

— E ti ha egli fatto piacere che io ti abbia procurato una buona satolla?

— Oh sì... Mi avviene così di rado..... Mi tocca sempre rosicchiare un pezzo di pan nero e non altro.

— Dà retta, Luca, per qual ragione pare a te che io t'abbia fatto quel piacere?

Il fanciullo levò i suoi occhioni larghi e sgranati in volto a Maurilio e li fissò fra interrogatori, fra stupiti in quelli di lui, che in quel punto, brillanti d'un sentimento d'ineffabile affetto, parevano anche alla Rosina i più belli occhi del mondo. Da quello sguardo Luca non sentiva nessuna soggezione, ma invece un'aggradevole sensazione inesplicabile: ei non era mai stato guardato di quella maniera; gli sembrava che una specie di calore gliene penetrasse nelle vene a riconfortarlo; la figura di solito diffidente e maliziosa del ragazzo si aprì ancor essa ad un'espressione più mite ed espansiva, quasi di fiducia; non rispose nulla il meschinello, ma come se volesse con un atto manifestare la nuova confidenza che nasceva in lui per quell'uomo tuttavia sconosciuto, ei si fece più presso a Maurilio e gli pose una mano sopra il ginocchio, tenendo sempre il suo sguardo affondato, per così dire, in quello di lui.

Maurilio ripetè la sua domanda accarezzando al bambino con più tenerezza le chiome.

— Ma... non saprei... per farmi piacere; rispose esitando Gognino.

— Sì; perchè ho provato per te un sentimento d'interesse che mi ha spinto a farti del bene... Gli è quello appunto che si chiama voler bene; nella qual cosa vi sono varii gradi, a cominciare da un interessamento lieve e passeggero andando poi fino all'affetto profondo e che dura sempre. Capisci quello che voglio dire?

— Capisco: disse lentamente Gognino; e ne' suoi occhi sempre fissi a quel modo in chi gli parlava, passavano davvero certi lampi d'intelligenza che erano come il risveglio dell'anima pensante. Capisco... A me fino adesso nessuno ha voluto bene.

— E la nonna? Domandò Maurilio.

Il piccino scosse melanconicamente il capo senza pronunziare parola.

— Se tu te lo meriterai, te ne vorrò io del bene, e te ne vorrò sempre più, a seconda che corrisponderai alle mie cure ed ai miei desiderii. Quello stesso sentimento d'interesse che mi ha fatto darti da cena ieri sera che avevi fame mi ha indotto a prenderti qui meco per farti un bene ancora maggiore di quello che sia il saziarti di cibo. Il dar da mangiare, vedi, è un benefizio a questo che si chiama corpo, che è quel che si tocca e che si vede di noi; ma noi tutti abbiamo dentro una cosa che nè si vede, nè si tocca, ma che è la miglior parte di noi, che anzi è proprio ciò che fa noi stessi, ed è quella cosa che pensa e che vuole.

[75] Gognino allargava sempre più gli occhi.

— E questa cosa dentro c'è l'ho ancor io? Domandò egli con una serietà che dinotava l'effetto che facevano in lui le parole di Maurilio così nuove alle sue orecchie.

— Sì certo: rispondeva Maurilio. Tutti quanti gli uomini l'hanno del pari, uguale se non nelle qualità, nella sostanza. Non hai tu mai sentito a parlare dell'anima?

— Oh sì. La nonna mi conduce tutte le mattine in chiesa a sentir la messa di padre Bonaventura e dice che gli è per salvar l'anima; ma io non ho mai capito che cosa fosse.

— Senti! Ti avviene egli mai di ricordare qualche cosa che ti è avvenuto nei giorni che sono passati? Oppure non ti avviene egli di desiderare alcune volte di essere in qualche luogo o di far qualche cosa e benchè tu sia, per esempio, in casa tua, non ti par egli di esser qua o colà coi tuoi compagni?

— Oh sì! Esclamò il ragazzo nelle cui pupille correvano sempre più vivi i lampi dell'intelligenza. Certe volte, seduto sulla cenere del camino nella soffitta della nonna, mi piacerebbe essere sulla piazza a guizzare sulle sgusciarole cogli altri, e gli è proprio come se ce li vedessi; ed altre volte mi ricordo del bel verde che avevano la state gli alberi dei viali e vorrei correrci sotto.

— Bene. Fa attenzione, Luca; in quei momenti tu non sei mica col tuo corpo nè sulla piazza nè tampoco sui viali che a questa stagione sono tutt'altro che verdi. Tu vedi quelle cose perchè le pensi. Gli è col pensiero che sei colà, mentre il corpo sta nella soffitta: ora il pensiero è la facoltà di quella parte interna di noi che si chiama l'anima, ed è il modo con cui la si manifesta. Se io, saziando ieri sera la tua fame, ho procacciato un bene al tuo corpo, facendoti venir qui ad imparare ciò che sto per insegnarti voglio procacciare un bene all'anima tua; e questo bene è assai più prezioso del primo, perchè anzi tutto è duraturo, mentre quello è passeggero, e poi perchè ogni miglioria dell'anima è quella in realtà che innalza l'uomo in raffronto ai suoi simili e in cospetto di Dio.

— Ah! Esclamò il piccino, il quale si vedeva che cominciava a comprendere in nube, entrando la sua intelligenza in una sfera tutto novella, a cui non s'era ancora nemmanco affacciata.

— Che razza di discorsi gli va facendo? pensava intanto la Rosina. E' mi pare sarebbe meglio ch'e' desse mano addirittura al catechismo.

— Or dunque, continuava Maurilio, s'io ti vorrò bene e se ti farò del bene, non domando altro in compenso da te se non che tu pure abbia poi per me alcuna affezione. Tu dici che nessuno ancora ti ha amato. Povero bambino! Io pure passai una infanzia pari se non peggiore della tua; io più che ogni altro posso capire la tua disgrazia e compassionarla a dovere. Noi ci ameremo. Vien qui, dimmi tutto di te. Quanti anni hai?

— La nonna dice che ne ho dieci; ma nessuno vuol crederlo e dicono tutti che all'aspetto ne mostro sette od otto.

— Tu non hai conosciuta tua madre?

Il piccino scosse gravemente la testa in segno negativo.

— Poveretto! Esclamò Maurilio con voce in cui vibrava una profonda emozione. E ne hai tu qualche memoria, alcuna reliquia?

Luca seguitò a scuoter la testa di quel modo.

— Ci pensi tu qualche volta a tua madre?

— Sì: rispose il ragazzo quasi esitando: quando la nonna me ne parla.

— Almeno tu hai qualcheduno che l'ha conosciuta, che le appartenne e che può parlarti di lei!... Io no.... E che cosa te ne dice la nonna?

— Dice che la è stata la sua sciagura e che la era una sgualdrina.

Gli occhi di Maurilio balenarono di sdegno.

— La disgraziata! Gridò egli. Oh non crederle, sai, Luca alla nonna; non crederle queste cose di tua madre. La donna che ci ha dato la vita è per noi sempre, dev'essere la più santa creatura dello universo. Fosse pur anco la più vile e colpevole, il sublime ufficio della maternità la nobilita innanzi ad ogni animo ammodo, per noi, a cui ella ha dato colla sostanza delle sue vene la esistenza, la rende mediatrice fra la nostra anima e Dio. Un santissimo vincolo è quello che lega e stringe la madre alla sua creatura. Nel nostro cuore palpita il cuore della madre, nell'anima di essa si appunta e vive, direi quasi, l'anima nostra. Nè questo vincolo si rompe pur colla morte!...

Sollevò il capo e guardò innanzi a sè con occhio che brillava d'una fiamma pressochè sovrumana.

— No, non si rompe! L'anima della madre è così congiunta, così intrecciata con quella del figlio, cotanto l'avvolge e la compenetra, che nemmanco la tomba non può separarnela del tutto. Ella — l'anima amorosa materna — ci segue, ci sta presso, ci veglia, e se non può materialmente farcisi scorgere, e se non può sfogare cogli amplessi terreni l'affetto, forse, e senza forse, è quella che ne ispira i nostri buoni pensieri, che ne infonde nei dolori calma e coraggio, che ci fa entrare nell'animo la dolcezza tante volte di un misterioso inesplicabil conforto.

Prese il ragazzo alle braccia e traendolo a sè, lo abbracciò con più viva espansione d'affetto.

— Senti, Luca, seguitava egli con voce sempre più soavemente commossa e dolcemente vibrante; non ti avvenne egli mai di vedere nelle visioni del tuo sonno una pietosa figura di donna che ti sorridesse? Nelle ombre della sera non hai mai visto disegnarsi innanzi a te, come in un chiarore nebbioso, una vaga, aerea immagine? Non hai tu mai [76] sentito qui nel tuo capo come un susurro di parole amorose, qui entro il tuo petto come il tepore di una mano che ti carezzasse il cuore?

Il bambino continuava a guardare co' suoi occhi sbarrati quell'uomo che gli parlava sì nuove e per lui strane parole. Di certo egli non le capiva bene e intieramente; ma pur tuttavia dallo sguardo scintillante di Maurilio, dall'amplesso di lui, da quell'accento grave, tenero e commosso, sentiva penetrare entro sè un ignoto influsso che glie ne serpeva non senza gradevolezza nell'intimo, e suscitavagli non ancora provati sentimenti nell'animo. Chinò il capo tacitamente in segno affermativo, e il suo sguardo infantile e il suo viso patito e smunto erano tutto pensosi.

— Ebbene, ripigliava con calore Maurilio, in quei momenti comunicava col tuo spirito rinchiuso in questa tua carne lo spirito di tua madre. Se l'esserci incontrati noi due ieri sera nel fango di quella ignobile strada dove tu piangevi, potrà esserti un giovamento nella vita, siccome io spero, tu ne dovrai ringraziare l'anima di tua madre. Essa fu che ti pose sui miei passi, come la ignota madre mia mi condusse un giorno dinanzi quel generoso che doveva destare alla vita la mia intelligenza: e forse in questo istante le due anime pietose delle madri nostre sono qui stesso che ci guardano, che ispirano in me l'affetto che mi detta queste parole, in te quella commozione che t'impallidisce le guancie.

E l'occhio lucente di Maurilio si levava in alto, come a mirarvi i due spiriti delle morte donne che aleggiassero sopra di loro; e le pupille dilatate del fanciullo guardavano ancor esse fisse nello spazio incerte ed immote, quasi vedessero anche loro aperto innanzi a sè il mondo delle visioni ultraterrene.

— Luca: soggiunse con inesprimibile efficacia nell'accento il nostro protagonista; io t'insegnerò per prima cosa quello che è uno dei principali tuoi doveri: rispettare ed amare la memoria di tua madre. T'insegnerò a pregare per lei, ed a pregar lei che t'assista. Le preghiere dei sopravvivi giovano ai morti, e le preghiere della madre morta placano la ferocità del destino pei figli, ottengono alla loro anima la forza e la virtù. Forse ti avranno insegnato a pregare i santi, perchè essi intercedano fra le nostre miserie e la grandezza di Dio; il migliore di siffatti intercessori è l'anima di nostra madre.

In questo punto l'uscio si aprì vivamente ed entrò la Rosina, commossa, cogli occhi inumiditi da due lagrimette. Ella era madre, la sua natura era la più amorevole e pietosa; come avrebb'ella potuto ascoltare i discorsi di Maurilio senza commoversi?

Ebbe rimorso della poca simpatia che aveva provato sino allora per quel giovane melanconico e taciturno; e sentì quasi l'obbligo di farne subita e manifesta ammenda. Senza curarsi punto di rivelare l'indiscrezione da lei commessa nell'ascoltare dietro l'uscio, Rosina irruppe nella stanza colla mano tesa verso Maurilio attonito a quella brusca interruzione.

— Bravo! Esclamò essa. Bravissimo! Queste sono belle parole e questi sono bellissimi atti. La sua è una santa opera, e il buon Dio ne la ricompenserà di sicuro.

Ed ecco che essa non aveva ancora finito di parlare quando sopravvenne un fatto che pareva volerla pienamente contraddire, chi volesse cercare negli avvenimenti immediati della vita terrena l'azione della giustizia divina.

Una forte scampanellata data con mano robusta e che annunziava la maggior premura del mondo, fece accorrere Rosina all'uscio del quartiere. Vide affacciarsi un uomo a faccia sospetta e dietrogli nel pianerottolo quattro altri individui con faccia non meno sospetta di lui.

— Che cosa cercano? Domandò Rosina con aria niente affatto incoraggiante, mettendosi fra i due battenti ad impedire il passo a chicchessia, e pronta a richiuder bruscamente l'uscio sul muso a chi si volesse avanzare.

— Cerchiamo tante cose: rispose con un dubbio sogghigno l'uomo che veniva il primo; ma perchè le possiamo trovare, conviene che Ella ci lasci venir dentro.

La moglie di Vanardi, che era la più coraggiosa donna del mondo, scosse fieramente la testa.

— No signore. Non li lascierò entrare finchè non mi avranno detto chi cercano e che cosa vogliono.

— Bene: rispose di nuovo quel medesimo che aveva parlato prima; abbiamo da parlare ai signori Bigonci e Nulla, e quello che vogliamo lo diremo loro.

Ma la donna inesorabile:

— Il signor Bigonci non c'è; il signor Nulla è occupato; mi dicano chi essi sono e allora.....

— Oh quante ciancie! Esclamò quell'uomo impazientito. Ci lasci entrare in nome del Re! Io sono impiegato di Polizia, e questi sono carabinieri travestiti.

La Rosina, che si aspettava tanto a siffatta risposta, quanto a vedersi cascare il fulmine tra' piedi, gettò un grido di meraviglia e si fece indietro di un passo spaventata.

Poliziotto e carabinieri entrarono.

Antonio Vanardi che si stirava tranquillamente le braccia, destatosi allor'allora dal sonno con cui aveva compensalo le ore perdute nella notte, vide ad un punto entrargli in camera la moglie esterrefatta dicendogli con voce tremante: — C'è la Polizia, ci sono i carabinieri.... Cercano di Maurilio e del cantante.... Vieni presto di là....

Il buon pittore fece un sobbalzo nel letto e divenne più bianco delle sue lenzuola e più tremante di sua moglie.

[77] — La Polizia! Balbettò egli. Misericordia! Sono venuti per arrestarci.... Ah! lo sapevo che la doveva finire a questo modo.

— O Santo Dio! Sclamava la Rosina, giungendo le mani. Che cosa avete dunque fatto?... Mi pareva bene che le vostre misteriose combriccole avevano qualche cosa di losco....

— Zitto! Zitto!... Hanno dimandato anche di me?

— No, finora.

Vanardi mandò un respiro e si cacciò ben bene sotto le coltri.

— Se ne domandano, di' loro che son malato, molto ammalato.... Io frattanto non mi muovo di qua.

Il poliziotto e i carabinieri s'erano messi a frugare e rifrugare dappertutto, cominciando dalle robe di Medoro Bigonci che s'erano fatte rammostrare per prime; ma il baule del povero cantante era il più innocente che si potesse trovare, e non la menoma carta sospetta, nè il più piccolo libro proibito compensò i carabinieri della loro fatica. Passarono quindi alle cose che appartenevano agli altri giovani amici, ma la prudenza li aveva consigliati opportunamente a non custodire presso di sè nessun documento, nè oggetto qualsiasi pericoloso, e i carabinieri non poterono sequestrare che lettere indifferenti e manoscritti di tentativi ed abbozzi letterari.

Vennero poscia allo stipo in cui Maurilio aveva riposte le poche sue robe.

— La chiave di questa serratura? Domandò imperiosamente l'agente di Polizia.

Maurilio assisteva a quell'avvenimento con una impressione d'allarme che non sapeva e non cercava nemmanco dissimulare. Il suo era chiaro e netto un contegno da colpevole; ed un birro qualunque, per poco fosse pratico del mestiere, lo avrebbe arrestato anche senza nessun ordine in proposito, solamente al vederne la faccia turbata e l'occhio smarrito. Innanzi a quella forza materiale rivestita dell'autorità della legge, cui gli rappresentavano gli agenti della Sicurezza Pubblica, la sua debolezza fisica si sentiva profondamente sgomenta. E poi, di botto s'era ridestata in lui l'idea del carcere quale lo aveva sofferto un tempo in compagnia de' più tristi mariuoli del mondo, di Stracciaferro e di Graffigna; ed egli rivedendosi in quell'infame purgatorio, sentina d'ogni scelleratezza, sentiva un profondo tremore scuotergli le più intime fibre. Che cosa non avrebbe dato, che non avrebbe fatto per salvarsi da quell'orrida prospettiva che gli si parava dinanzi? La personalità di questo infelice, come già ho cercato di far comprendere, componevasi quasi di due, l'una dall'altra grandemente distinta e così diversa che per poco non dico opposta. Dove si trattasse di contrasto di idee, di lotta morale, la forza intellettiva che era in lui destava e faceva adergersi una individualità risoluta, potente, ardimentosa nella volontà e nella parola: quando fossero in giuoco le forze brutali della materia, nell'uomo s'incontrassero, o nella natura, o nelle istituzioni sociali, la debolezza dei nervi e dei muscoli nel suo corpo fin dall'infanzia immiserito dalle privazioni, dai maltrattamenti, dalle sofferenze d'ogni sorta, non lasciava più essere in lui che una individualità timida, umile, pieghevole, conscia troppo della sua inferiorità e del suo nulla. Impressionabile qual era la sua natura sotto questo rispetto, siccome egli poteva da un subito sdegno attingere la fiamma fugace d'un impeto momentaneo di coraggio, così troppo miseramente s'abbandonava all'accasciamento, quasi direi, alla viltà del timore. In quest'istante era il timor solo che lo dominava. Se alcuno de' suoi amici fosse stato presente, avrebbe potuto col suo risoluto contegno infondere un poco di fermezza anche in lui: ma solo, in presenza delle faccie torve e delle parole minacciose degli agenti della forza pubblica, il povero e debole trovatello non aveva che soggezione, abbattimento e paura.

Alla richiesta che il poliziotto fece della chiave dello stipo, Maurilio si riscosse e si accostò tremando.

— L'ho io: balbettò egli colle labbra spallidite: quella roba è mia.

— Tanto meglio! Disse con accento ancora più ruvido l'agente di polizia, il quale, come suole di siffatta gente, di tanto si faceva più grossolano e prepotente di quanto trovava maggiore innanzi a sè la cedevolezza. — Gli è giusto quello che vogliamo vedere: qui subito quella chiave.

Il giovane glie la diede. Lo stipo fu aperto, i panni sciorinati, ogni cosa frugata, sequestrato lo scartafaccio in cui Maurilio soleva scrivere in pagine che nessuno aveva visto, nè secondo il suo concetto doveva veder mai, il più recondito dei suoi pensieri; scartafaccio su cui egli stesso aveva scritto la parola farragine. Fra i varii oggetti cadde eziandio in mano al poliziotto l'involto in cui erano contenuti il rosario, il bottone da livrea e la lettera che erano stati trovati addosso all'infante abbandonato sulla strada.

Maurilio, che aveva visto con immensa pena afferrato, brancicato e sequestrato il suo manoscritto dall'agente di polizia, e non aveva pur osato far motto, ora vedendo quell'involto per lui sacro nelle mani profane d'un carabiniere, ebbe il coraggio di prorompere supplicando:

— Ah no, codesto! Non mi tolgano codesto, per carità!

Siffatta supplicazione era acconcia ad accrescere ancora la voglia di vedere che cosa quell'involto contenesse; ma nello spiegar la carta, la mano grossolana del carabiniere lasciò cader per terra il bottone d'argento, il quale andò a rotolare tra i piedi di Gognino, che era stato lì interito a mirare quella scena, senza quasi trarre nè anco il fiato. Il nipote [78] della Gattona raccolse quell'oggetto luccicante, lo guardò e disse non senza meraviglia:

— To' to', il bottone della nonna!

Benchè turbatissimo fosse in quel momento Maurilio, le parole di Gognino gli fecero una profonda impressione: fu d'un balzo presso al ragazzo, e prendendogli il bottone di mano, lo interrogò con voce soffocata per emozione:

— Che dici tu? Che cosa vuoi tu significare? Come questa cosa potrebb'ella essere della tua nonna?

— Io voglio dire, rispose il fanciullo, che la nonna ha un bottone tale e quale come questo, e che la lo tien prezioso per non so che memoria.

Maurilio divenne infuocato in volto pel subito, tumultuoso precipitarsi del sangue commosso al cervello. Le orecchie gli tintinnirono, gli occhi ebbero dinanzi uno scintillio; mille idee gl'invasero confuse e disordinate la mente: il cuore sentì mancarsi il battito in uno spasimo di subita passione, gli parve che la mano del destino gli comparisse d'un tratto davanti ad aprirgli il mistero della sua vita.

Le seguenti supposizioni ed induzioni si urtarono e s'intrecciarono nel suo capo: — Che un legame esista fra me e quell'orrida vecchia di vita infame!... Cielo! ch'ella fosse mia madre!... La subita compassione da me provata per questo bambino e il proposito fatto di venire in suo soccorso, altro non sono forse che l'effetto d'un vincolo di sangue onde siamo uniti... Quella sarebbe la mia famiglia?...

Provò un sentimento d'orrore e di ripugnanza indicibile. Ad aumentarglielo si affacciò alla sua mente il pensiero della beltà aristocratica di madamigella Virginia, da lui segretamente adorata. Qual nuovo abisso si scavava egli mai fra lui e l'idolo del cuor suo! Oh meglio esser figliuolo di nessuno che il figlio d'una donna infame!...

Tutto questo rovinìo di dolorosi pensieri era passato nel suo cervello colla rapidità del baleno, e gli aveva lasciato nell'anima l'ansietà d'una inquietudine insopportabile.

— Vieni: diss'egli a Gognino prendendolo per mano; conducimi tosto dalla tua nonna. Bisogna ch'io le parli.

— Piano! Gridò il poliziotto mettendoglisi dinanzi. Di qua, signor mio, non s'esce che per venire con noi, perchè Lei è in arresto.

L'esaltazione di Maurilio cadde di botto. Vide innanzi a sè, come una voragine spalancata ad ingoiarlo, la carcere e la infamia del nome; si lasciò cader seduto, fattosi pallido come un cadavere, e desiderò realmente in quell'istante morire.

Antonio Vanardi ne andò immune per quella volta colla sola paura; ma questa fu tale che in quel momento egli si promise di rinunziare affatto al poco fruttuoso mestiere di congiurato. Maurilio supplicò dal delegato di polizia che quegli oggetti che erano per lui un tesoro ed una reliquia non fossero presi cogli altri di cui i carabinieri avevan fatto bottino; e il delegato che giudicò a nulla importare per nessun verso quelle poche robe, acconsentì. Maurilio partendo consegnò l'involto alla Rosina, pregandola di custodirglielo.

Dieci minuti dopo il nostro protagonista, condotto ancor egli al Palazzo Madama, come già era avvenuto a Benda e Selva, trovavasi innanzi alla faccia burbera, villana, prepotente e terribile a chicchessia del signor commissario Tofi.

Gognino intanto, uscito di casa il pittore, s'era affrettato a recarsi alla chiesa del Carmine, dove la nonna aveva detto di aspettarlo.

La Gattona si stupì di veder giungere così presto il ragazzo, e questi raccontò quello che era avvenuto. Colle sue interrogazioni la vecchia spillò dal nipote ogni cosa e parola che là si fosse fatta o detta.

— Che balordaggini, che eresie son queste onde ti vuole empire il capo! Esclamava la donna indegnata. Dire che non bisogna pregare i santi, ma pregare l'anima della madre! Ce n'è tanto da andare all'inferno diritto come un fuso. Vedi mo' se Padre Bonaventura non aveva ragione a giudicar male di codestui! E bisognerà ripetere esattamente al buon padre gesuita quanto hai visto ed udito. Lo hanno arrestato? Ben gli sta! Chi sa che orrori avrà commesso! Già quella gente lì, senza religione, sono capaci di tutto.

Per ultimo Gognino contò l'affare del bottone, come un episodio senza nessuna importanza; ma non lo giudicò tale la Gattona, che parve invece molto interessarsene.

— Che? Davvero? Tu l'hai proprio visto bene?

— Sì.

— Ed è proprio uguale a quello che tengo io?

— Precisamente.

— Questa è strana! Un simile oggetto in suo potere, e quel nome di Maurilio... Oh bisogna che io glie ne parli subito subito a Padre Bonaventura.

E recossi diffatti senza indugio in sacristia a far chiedere del frate, col quale ebbe un lungo e segretissimo colloquio, a cui noi non assisteremo per seguitare invece il povero Maurilio innanzi al Commissario, un debole passero negli artigli d'un girifalco.

Il commissario Tofi era d'un umore feroce; aveva bisogno di qualche agnellino di suddito senz'autorità, da mettere sotto i suoi denti da lupo di poliziotto. I dialoghi che aveva avuti con Benda e con Selva l'avevano profondamente irritato. Benda aveva mostrato della dignità, Selva un'audacia d'indignazione che era tornata al bravo sor Commissario insopportabilmente temeraria. Le sue minaccie e le sue prepotenze si erano spuntate contro il fermo viso di due giovani che non avevano paura: egli [79] era arrabbiato come un attore a cui è mancato il successo. Ah! se gli si fosse presentata l'occasione di ricattarsene! La sua buona sorte glie la menò innanzi, quest'occasione, colla povera figura impaurita del povero Maurilio.

Pel signor Tofi tutta l'umanità si divideva in tre categorie: la prima quella che bisognava rispettare: i nobili, i preti, i militari e gli alti impiegati dello Stato; per costoro consentiva a piegare la sua rigida persona, li trattava col lustrissimo e ringuainava innanzi a loro le sue villanie; l'ultima invece era quella della gente da nulla, dei maltrattabili e strapazzabili a talento, a cui poteva dare del tu e del voi a seconda, chiamarli canaglia, e mettere i pugni sotto il naso; innanzi a costoro egli sfolgorava in tutta l'imponenza della sua terribilità, e faceva sulle curve cervici rombare il tuono delle sue minaccie di forca e di galera. Fra queste due classi tramezzava una terza, a suo senno, ibrida e spuria, che non aveva l'autorità della prima nè la umiltà e la malleabilità della terza, che non poteva imporre il rispetto e pur si ribellava ai sergozzoni morali e fisici dell'arbitrio poliziesco; la borghesia in una parola, cui il commissario Tofi odiava appunto con tutto l'animo, perchè non aveva da temerla, e non poteva vedersela così rassegnata come avrebbe voluto all'onore che il Governo le faceva di calpestarla, ed egli di svillaneggiarla all'occorrenza.

In fondo, in fondo, la sua predilezione era per l'ultima di quelle tre classi — la plebe — verso cui pure egli si dava il gusto di una vera orgia di prepotenze. E questa era una appunto delle ragioni della sua preferenza. Un povero plebeo egli lo poteva fare arrestare, spaventare, maltrattare, tenere un po' di giorni a pane ed acqua nei fossi del Palazzo Madama, poi mandarlo con Dio, senza che alcuno si pensasse mai di muoverne il menomo richiamo; e il poveretto liberato veniva ancora a ringraziare il Commissario, che lo congedava fieramente accigliato con un'ultima benedizione di tremende minaccie. Oltre ciò, egli, il Commissario, usciva da quella classe, e nelle sue vene gli era il sangue plebeo che animava la sua popolana prepotenza; l'influsso della razza esercitava il suo effetto su ciò che potevano dirsi le sue affezioni. Dalla olimpica schiatta dei potenti e dei superiori non era stato che, durante la sua carriera, Tofi non ricevesse qualche ingiustizia e qualche sopruso; ei si curvava innanzi a tutto; la sua devozione monarchica e governativa non n'era punto sminuita, ma che non restasse nulla nulla in lui di amarezza, sarebbe stato un pretender troppo.

Cogli straccioni poi la sua villania era piena di franchezza e di libertà, frammista qualche volta ad una famigliarità confidente, quasi affettuosa. Preferiva d'aver da fare con un ladro da trivio o con un assassino di strade che colla superbia pervicace d'un avvocato liberale. Un buon delitto, ben combinato, egli lo trovava interessante; le opinioni di chi avrebbe voluto essere governato diversamente, non le comprendeva e giudicava qualche cosa d'assurdo e di perfido.

Appena gli fu condotto innanzi Maurilio, il Commissario stimò che questi era precisamente della razza degli umili, a cui monsignore il lupo en les croquant fa un insigne onore, e il suo animo irritato ne provò un intimo soddisfacimento. Tofi passeggiava secondo il solito in lungo e in largo per la stanza in cui l'abbiamo visto interrogare Francesco Benda; aveva sempre il suo cappellone piantato fin sugli occhi e le manaccie affondate nelle grosse tasche del suo lungo soprabito; le sue folte sopracciglia si toccavano e facevano una riga sola al di sopra delle sue pupille feroci, tanto era aggrottata la fronte; le linee della bocca parevano un arco teso per saettare la minaccia.

Allo sdegno suscitato nel Commissario dalla risolutezza di Benda e di Selva, s'aggiungeva quello che gli cagionò la novella non essersi potuto trovare in nessun luogo quel tale Medoro Bigonci. Tofi aveva davvero bisogno di uno sfogo. Esaminò un istante la faccia turbata e i panni logori del giovane, e seppe che cosa pensare sul conto di lui. Lo trattò in conseguenza; e la fiera severità del Commissario si ripercoteva sulle faccie burbere dei carabinieri che accompagnavano Maurilio, sul muso sbarbato dello scrivano seduto al tavolino. L'arrestato non vedeva intorno a sè che espressioni di condanna, presagi per lui della peggior sorte. Tofi lo sottopose ad una vera tortura morale colle minaccie d'una prigionia perpetua e peggio; e l'animo del giovane, per quanto gli era successo quella mattina, era così sconvolto che avrebbe forse lasciato sfuggire il capitale segreto, quando per fortuna si venne a chiamare il Commissario da parte del conte Barranchi, il quale ordinava si recasse da lui senza il menomo indugio.

Tofi comandò che Maurilio fosse rinchiuso in una delle carceri del medesimo Palazzo Madama e s'affrettò di ubbidire al cenno del capo supremo della Polizia.

Maurilio fu tratto in una delle stanze sotterranee del castello; ma colà dentro udì suonare una voce amica, una mano benevola si porse verso di lui, ed egli si trovò fra le braccia di Giovanni Selva. La sua anima, subitamente riconfortata, al contatto di quell'indole coraggiosa e forte era salva da ogni pericolo di debolezza e di viltà.

CAPITOLO XIV.

Mario Tiburzio, introdotto, come abbiamo visto, nello stanzino sotterraneo cogli occhi fasciati, aveva udito il susurrio di parole sommessamente scambiate, poi il rumore di passi che s'allontanavano e [80] quello d'un uscio che si richiudeva, quindi una voce giovanile e risoluta, la voce di Luigi Quercia, dirgli:

— Levatevi la benda.

Egli così aveva fatto, e s'era trovato in quella cameretta dove il medichino lo aveva già introdotto altre volte colle medesime precauzioni egli stesso. Il luogo era illuminato da una lampada posta sopra la scrivania a cui sedeva Gian-Luigi. Mario sedette sopra una seggiola posta vicino alla scrivania medesima cui Quercia gli additò con cenno da gentiluomo che riceve nel suo salotto; ed appoggiato il braccio alla tavola chinò il corpo innanzi verso il suo compagno, fissando i suoi occhi in quelli di lui. Per un osservatore era degno di nota l'esaminare quelle due teste giovanili con espressione risoluta, audace, ardente, in cui appariva la forza di due robusti voleri, l'intensità di due accese passioni, il concentramento in un'opera delle migliori doti che all'animo ed all'ingegno dell'uomo accordar possa la natura. Ma le passioni che dominavano questi due uomini com'erano diverse e l'una dall'altra distante! In Mario Tiburzio era quella nobilissima dell'amore della patria, in Luigi Quercia era una smodata ambizione di vanità personale, era una sregolata smania di possedere tutti i piaceri terreni. Quella si era messa e si metteva in urto contro le leggi della tirannia, ma esercitando le più nobili virtù del cuore, il sacrificio di sè, il coraggio disinteressato, l'amore dei nostri simili; la scellerata passione del capo supremo della cocca lo faceva infrangere ogni legge di giustizia sociale e di umanità per cercare soddisfazione ad empi istinti con iniqui fatti. Questa differenza fondamentale si manifestava spiccatamente allora appunto che, sovreccitate da qualche circostanza, quelle passioni stampavano sulla fisionomia dei due giovani la loro impronta. La nobile figura di Mario s'illuminava, direi quasi, d'una luce superiore, ed impossibile vederla senza rimanerne ammirati: la bellezza di Gian-Luigi invece, per quanta essa fosse, si deturpava in quei momenti per una trista, feroce espressione, di cui carattere principale era quella ruga che veniva a solcargli la pallida fronte.

Or dunque stettero un poco guardandosi i due giovani senz'altro, come studiando ciascuno fra sè a cui toccasse parlar primo; poscia Quercia trasse di tasca il suo elegante astuccio di sigari, ed apertolo ne offerse a Tiburzio; questi prese un avana e lo fece accendersi sopra il tubo di vetro della lampada; il medichino scelse colla solita cura un sigaro per sè, richiuse e ripose in tasca l'astuccio ed accese a sua volta il sigaro alla lampada. Per alcuni istanti ancora e l'uno e l'altro parvero occupati unicamente di fumare con voluttà i loro sigari eccellenti che profumavano l'aere dell'odore finissimo del più squisito tabacco del mondo: poscia Mario si decise a parlare esso per il primo.

— La vostra chiamata, signor Quercia, diss'egli, venne per me questa mattina più opportuna che mai. Io stava appunto cercando il modo di avere sollecitamente un colloquio con voi, perchè ho gravi novelle ad apprendervi, gravi comunicazioni da farvi e gravissime cose onde richiedervi. E tutto ciò colla massima premura. Pel vostro biglietto ho arguito che voi pure aveste cose d'assai rilievo da dirmi.

Gian-Luigi accennò col capo che così era veramente.

— A voi il decidere, continuava Mario, se volete parlare od ascoltar primo.

Il medichino abbassò con atto di elegante cortesia la sua destra aristocratica verso il suo interlocutore, e disse con avvenevole grazia:

— Parlate voi, vi prego.

Mario appoggiò alla scrivania tutti e due i gomiti e posando il mento sopra le sue mani insieme intrecciate, cominciò con tutta semplicità:

— Abbiamo deciso ieri sera di dar fuoco alla mina. Questa mattina medesima, per mezzi sicurissimi, sono partiti i cenni agli altri centri d'insurrezione. Ad un giorno posto la striscia di polvere s'incendierà producendo dappertutto lo scoppio.

— Se le polveri non si troveranno qua o colà e fors'anco in ogni dove bagnate: disse sorridendo Gian-Luigi.

— No: proruppe con forza Mario Tiburzio. Siamo sicuri de' nostri congiurati.

— Ah! non bisogna mai essere sicuri degli uomini, se non si è saputo destarne l'interesse. Tutti codestoro su cui contate, hanno eglino interesse preciso e sufficiente per affrontare le forche in nome dell'Italia?

Tiburzio rispose alla spartana:

— Tutti amano la patria, e tutti hanno giurato.

Luigi s'inchinò, ma il suo sorriso diventò ironico.

— E voi siete sicuro?

— Sicurissimo.

— Sta bene. E volete da me?

— Che voi manteniate la vostra parola, che voi facciate ciò che mi fu detto e che voi stesso mi confermaste di poter fare, che ci procuriate il concorso della plebe.

— Un istante! Esclamò Quercia. La mia parola non è impegnata che subordinatamente...

— Le condizioni che avete poste furono da me accettate, e saranno tutte lealmente eseguite.

— Chi me ne assicura?

Mario arrossì.

— La mia parola: diss'egli con vivacità.

— E se voi morite?

Tiburzio tacque un istante, riflettendo.

— Avete ragione: diss'egli poi. Redigete voi stesso uno scritto in cui sieno contenute tutte le disposizioni onde convenimmo, che riguardano voi personalmente e la classe che rappresentate; sotto [81] questo scritto, con solenne promessa di effettuarne fedelmente il contenuto, ci firmeremo io e tutti i capi del movimento insurrezionale.

Il medichino tornò ad inchinarsi per mostrare che quello spediente lo soddisfaceva abbastanza: poi arrovesciatosi sulla spalliera mandò al vôlto lentamente una boccata di fumo bianchiccio dell'avana, compiacendosi a guardarne le spire.

— Insomma, riprese egli dopo un istante, voi state per giuocare la vostra testa, e volete che anch'io... e quelli che da me dipendono ci accordiamo il divertimento di questo giuoco. Sia pure; ma almanco abbiamo il diritto di conoscere le probabilità della partita e sapere le carte che si tiene in mano. Voi mi direte come debba aver luogo il moto, con quali elementi di successo, qual parte ci avete assegnata, e tutte insomma le più segrete risoluzioni che avete prese.

Mario esitò un momento.

— Ah mio caro signore: soggiunse vivamente Luigi: o la più compiuta fiducia o niente di fatto.

— Vi dirò tutto: disse ad un tratto Tiburzio.

Gian-Luigi si chinò con interesse verso di lui.

— Fra una settimana è la fine del carnevale: così parlò allora l'emigrato romano. Tutta la gente pensa a darsi sollazzo, e pare impossibile benanco a ciascheduno che vi sieno chi nutrano gravi propositi e vogliano tentare gravissimi fatti; la stessa Polizia, se deve acuire il suo sguardo sui ladroncelli, crede in quest'occasione poter rimettere della sua vigilanza intorno agli umori politici. Inoltre l'accorrere di forestieri nella città rende più facile il nascondere e legittimar l'arrivo di nostri aderenti indettati....

— Insomma: interruppe il medichino che pareva impaziente di venirne alla conclusione; avete fissato per gli ultimi giorni del carnevale lo scoppio della rivolta.

— Precisamente.

— Questo quanto al tempo; e il modo?

— Eccolo. In ogni città ogni capo della società segreta avvisa i sottocapi a tenersi pronti e ad eseguire le avute istruzioni al momento determinato. Queste istruzioni, diverse in ogni città ed adattate alle particolari circostanze di ciascheduna, sono combinate dal supremo Consiglio dei congiurati in ogni località. I sottocapi trasmettono gli ordini e quanto è indispensabile solamente di queste istruzioni a quaranta uomini ciascuno, che altrettanti ne tengono sotto di sè. Codesto forma in ogni città principale un nucleo forte, risoluto, compatto da seicento a mille uomini a seconda: e quanto possano un migliaio di coraggiosi in un assalto inopinato voi certo non lo disconoscete.

Quercia chinò leggermente la testa.

— Intorno a questo nucleo inoltre, continuava Mario, non può mancare di radunarsi tutta quella vivace e generosa parte della gioventù italiana che è insofferente dell'attuale ignominiosa servitù....

— E tutti coloro che amano pescar nel torbido: soggiunse Gian-Luigi.

— Non basta. Anche fra coloro che vestono l'assisa del soldato in Piemonte, in Toscana, in Napoli, vi hanno petti in cui batte un cuore d'Italiano. Contiamo parecchi fra i militari di vario grado nel numero dei nostri congiurati; ne contiamo eziandio nelle file degli Italiani che servono l'Austria. Per codestoro avverrà che parecchie compagnie ed anco battaglioni non combatteranno con molto vigore contro gl'insorti, e non pochi fors'anco passeranno dalla parte di questi. Di più non credo affatto vana illusione la lusinga che i moschetti di soldati italiani non vogliano rivolgersi senza esitanza contro chi alzerà il grido della libertà e dell'indipendenza dallo straniero.

Quercia scosse il capo.

— Se siete forti abbastanza da vincere, diss'egli, avverrà così; ma se i Principi hanno essi le probabilità di schiacciarvi, i moschetti dei soldati italiani vi fucileranno con tutta tranquillità e precisione.

— Ma noi vinceremo: proruppe colla forza d'una vera convinzione il congiurato. Il potere dei Principi italiani posa sopra fondamento più labile che l'arena, poichè ha di sotto il meritato odio dei popoli.....

— E l'Austria?

— L'Austria sarà occupata dalla contemporanea insurrezione delle proprie provincie, e non potrà accorrere in difesa dei tirannelli nazionali..... Pogniam pure che essa riesca poscia a domare colle truppe delle altre parti dell'impero la rivolta italiana; ma ciò intanto non avverrà prima che la nostra rivoluzione sia vincitrice, e quando l'Austria crederà poter camminare sulla nuova Italia costituitasi, la troverà riunita dal pericolo comune, forte del suo recente trionfo, e della nuova libertà, infiammata dal desiderio d'emanciparsi per sempre dalla tutela straniera. La rivoluzione interna si cambierà in guerra nazionale; e quanto irresistibil forza abbiano i popoli che combattono tal guerra, ve lo dica la storia di Francia della fine del secolo scorso.

— Sia pure: disse accondiscendendo il medichino; ma per far tutto ciò occorrono delle armi...

— Le avremo; ne abbiamo già un buon dato. Varie casse sono penetrate nell'Italia media ed inferiore; parecchie eziandio in Piemonte; molte più sono in Isvizzera preparate e saranno introdotte questa settimana con mezzi sicurissimi. Quante ne vorremo poi, ce le procureranno gli arsenali stessi dei Governi che combattiamo...

— Sì! Bisognerà prenderli questi arsenali...

— E li prenderemo. Il popolo parigino ha ben preso la Bastiglia!...

— Qui, per la nostra Torino, qual è il piano di battaglia?

— La rivoluzione comincierà domenica sera, e sarò io che dal palco scenico del Teatro Regio, a metà dello spettacolo ne darò il segnale.

[82] Luigi Quercia si appoggiò ancor esso con tutte due le braccia alla scrivania ed appressò maggiormente il suo capo a quello di Mario.

— Oh come? Domandò egli con molto interesse.

E Tiburzio continuando colla medesima semplicità con cui avrebbe parlato delle cose le più indifferenti del mondo:

— Lungo il giorno molti congiurati verranno in città ad accrescer le file; la sera saranno raccolti alle varie porte in armi per precipitarsi e sorprendere tutti i corpi di guardia, appena scocchino le ore nove, che è il momento fissato; due schiere più numerose assaliranno le due caserme e facilmente se ne impadroniranno, poichè quella sera saranno deserte di soldati, ai quali per la ragione che è l'ultima domenica di carnovale sarà concessa licenza fino alle ore dieci.

— È giusto.

— E nelle caserme piglieremo subito buon numero d'armi e alquanto di munizioni da guerra. Nello stesso momento una schiera di più risoluti invaderà in quella medesima guisa l'arsenale, dove non abbiamo da temer resistenza. Quando gli artiglieri verranno per rientrare, troveranno le porte chiuse e i nostri in sulla difesa. I cannoni non potranno così tuonare contro gl'insorti.

— E la cittadella?

— Ancor essa si tenterà di sorprendere in ugual modo; ma quand'anche non ci si riesca, la cittadella potrà far poco a nostro danno, perchè la maggior parte dei soldati sarà in giro per la città, e sarà agevol cosa lo averli prigioni, od almeno lo impedir loro di raccogliersi dietro i bastioni della rocca. Mi pare che in un istante noi abbiamo da essere padroni della città; siccome le stesse probabilità ci sono per le altre sommosse che in pari tempo scoppieranno nelle località principali, così puossi avere fondata speranza che in quella sera la rivoluzione trionfi per tutta Italia. Ma bisogna pensare anche al domani, bisogna pensare anche al caso di qualche insuccesso parziale.... — Se l'insuccesso è generale, allora noi rechiamo la nostra testa in mano al boia, e non ce n'è più da discorrere. — La tirannia, se le si lascia il capo, tenterà la sua rivincita, e siccome ha tanti mezzi in suo potere, potrà riuscire alla guerra civile, indebolirà, se non altro, colla lotta interna la nazione in faccia dell'Austria quando questa possa intervenire; occorre quindi togliere a quest'idra della tirannia le sue molteplici teste. Voi avete già capito quali sieno queste teste: sono i regnanti d'Italia: re, granduchi, duchi, principi e principini. La parte più importante del nostro disegno, quella in cui abbiamo posta la maggior cura e pogniamo la maggiore speranza di buon esito, consiste nell'impadronirsi quella sera medesima, non che delle persone dei singoli regnanti, ma di tutte le loro famiglie.

— Cospetto! Esclamò Gian-Luigi. Questo sarebbe daddovero un bel colpo!

— Per la famiglia regnante di Torino, sono poco meno che sicuro della riuscita. Vi dissi che io stesso dal palco scenico del teatro Regio avrei dato il segnale della rivoluzione....

— Comincio a capire: interruppe vivamente Gian-Luigi, abbassando la voce quasi avesse paura che in quella solitudine sotterranea altro orecchio pur tuttavia potesse intendere le sue parole. Il Re con tutta la sua famiglia, quella sera assisterà allo spettacolo in pompa solenne nel gran palco della Corona.

Mario Tiburzio fece gravemente un segno affermativo col capo. Tacquero un istante tutti e due, guardandosi fiso, come per leggersi entro l'animo a vicenda; poi l'emigrato romano disse lentamente, e con voce più sommessa ancor egli:

— Quando suoneranno le nove io mi avanzerò alla ribalta, e in faccia al Re, ai Principi ed a tutta la Corte, griderò alto, snudando la mia spada da teatro: Viva l'Italia! Abbasso l'Austria e i Principi suoi vassalli! Il fondo della platea e l'atrio delle scale saranno occupati dai nostri; a questo mio grido irromperanno nella loggia reale, superando le Guardie di Palazzo e le Guardie del Corpo; tutta Casa Savoia sarà nostra prigioniera.

— E?... Domandò Luigi.

— E i successivi avvenimenti, soggiunse Mario, decideranno della sua sorte.

Successe un nuovo silenzio; cui ruppe dopo alcuni minuti il medichino.

— In complesso la cosa non è mal combinata; e in tutto codesto quale la mia parte?

— Far concorrere la plebe al movimento; persuaderla che le mutazioni politiche da noi tentate andranno in util suo, staccarla dalla devozione alla monarchia per consecrarla alla devozione alla patria.

— Va benissimo. E le mutazioni di Governo, quando eseguite lealmente le condizioni da me poste, andranno in effetto a vantaggio del povero proletario.... Io posso aiutarvi più forse che non crediate. Quella sera medesima dello scoppio della rivoluzione, a sviare la Polizia, a disperderne le forze, io sono in grado di far prorompere in varie parti della città moti popolari che abbiano puramente sembianza... dirò così... economica. La miseria è grande in questa stagione, e io posso slanciare su per le strade delle turbe che tumultuino ad un grido ancora più efficace che quello della patria e della libertà, al grido di Abbiamo fame e vogliamo del pane. Le due insurrezioni si daranno la mano sulla rovina della monarchia. Ma il nerbo d'ogni guerra è il denaro. Ne avete voi del denaro?

— Quanto occorre per le meditate imprese.

— E per noi? Datemi un milione ed io metto in campo trentamila insorti.

[83] — Questo non possiamo assolutamente.

— Se non darcelo prima, almeno assicurarcelo pel poi. La rivoluzione vincitrice avrà in suo possesso le casse pubbliche; ne vogliamo la nostra parte.

— Ah! Disse Mario Tiburzio con subita freddezza, quasi con sospetto, tirandosi indietro sulla seggiola.

— Voi esitate?

— Quei denari dovranno essere sacrosanti perchè destinati alle necessità della patria.

— E la patria non la salverete senza saper usare di quei denari ammodo. Gli uomini ond'io dispongo non si fanno sgozzare per una parola — chiamatela pure un'idea; e senza di me — ve lo dico chiaro e tondo — voi non riuscirete in nulla.

Tacque un istante, e poi abbassandosi di nuovo verso il suo interlocutore, soggiunse vibratamente:

— Questa mattina — e gli è per avvisarvene ch'io vi ho mandato a chiamare — questa mattina furono arrestati Francesco Benda e Giovanni Selva.

Mario Tiburzio fece un soprassalto e mandò una esclamazione.

— Furano arrestati, continuava Gian-Luigi; e nella casa di Benda ebbe lungo una perquisizione, la quale son persuaso si sarà fatta del pari nell'alloggio di Selva.

— Nè presso l'uno, nè presso dell'altro possono aver trovato cosa che riveli in alcun modo il complotto.

— Ma questo arresto non può egli essere indizio che si ha sentore del medesimo e che se ne vanno ricercando le fila?

Mario Tiburzio, per quanto fosse padrone di sè medesimo, impallidì.

— Impossibile! Esclamò egli. Converrebbe che alcuno dei più fidati capi dell'impresa ci avesse traditi.

Tacque un istante, e poi domandò a Quercia lentamente, guardandolo fiso:

— Ma voi, come sapete che que' due giovani furono arrestati e come ch'essi sieno della congiura?

Quercia sorrise.

— Vi ho detto che tengo ancor io la mia Polizia segreta, e potrei farmi onore della medesima che mi avesse informato; ma preferisco dirvi la verità qual essa è.

Raccontò le scene a cui aveva assistito quella mattina, come avesse arguito che quei giovani dovessero aver parte nell'impresa ch'egli sapeva iniziata da Mario, e fosse stato chiaro di ciò dalla risposta che Giovanni Selva aveva data alla interrogazione da lui mossagliene in fretta nel momento della irruzione degli operai nella sala della famiglia Benda.

Gli avvenuti arresti, soggiunse, potevan essere o l'effetto di dubbi senza fondamento soltanto, ed allora non avevano altro danno che di togliere all'opera due complici, od erano cagionati da qualche positiva conoscenza della congiura, ed allora era gravissimo il caso: nell'una e nell'altra supposizione egli domandava a Mario che cosa avrebbe determinato di fare.

Tiburzio tornò ad appoggiare i gomiti alla scrivania, riaccostando il suo al volto del medichino.

— Prima di tutto ho bisogno di sapere esattamente da quali ragioni sieno stati determinati questi arresti.

Fece una pausa, come attendendo dall'interlocutore risposta. Gian-Luigi non si mosse.

— Se la congiura non è conosciuta, l'arresto di Selva e di Benda sarà pur sempre un danno grave, perchè essi sono due de' più risoluti capi e che abbiano una parte principale nell'impresa. Converrebbe adunque tentar di tutto per liberarneli.

Nuova pausa di Tiburzio; nuovo silenzio di Quercia che parve tutto preso dall'attenzione con cui fumava l'ultimo pezzo del suo sigaro.

— Se poi la congiura è davvero scoperta in tal caso...

Mario s'interruppe e fece un cenno di eroica rassegnazione che voleva significare: «Allora ci tocca morire ed io son pronto.»

Quercia disse allora:

— Quando una congiura è scoperta non rimangono che due partiti: o precipitarne lo scoppio, quando ella sia matura, od aggiornarlo indefinitamente, sciogliersi i congiurati e fare scomparire ogni traccia del complotto.

— Il primo da noi non si può, e il secondo troppo ci rincresce farlo senza un'assoluta necessità che lo comandi. Piuttosto, anche colla certezza di soccombere, si lotti....

— Pazzie! Interruppe Luigi crollando le spalle. Qui non si tratta d'esser martiri, si tratta di riuscire. Orsù date retta, e non sciupiamo tempo e parole. Io, quest'io che guardate con tanto d'occhi, vi saprò dire che cosa sa o non sa la Polizia; se non si tratta che di sospetti in aria, io vi farò aver liberi i due arrestati, al momento della pugna io getterò nella strada una turba terribile per impeto e per furore che non solo paralizzerà ma distrurrà la forza pubblica. Ma oltre i patti già da voi consentiti occorre ancora una cosa: che voi sin d'ora assicuriate l'impunità a qualche eccesso di saccheggio che si commetta nella foga della riotta, che del pubblico tesoro, mi lasciate subito prendere quanto mi occorrerà per assoldare e contenere questi che saranno i nostri pretoriani della rivolta.

Mario Tiburzio per la prima volta travide in qual baratro quel pericoloso alleato voleva trascinarlo.

— Ma noi, esclamò egli, non vogliamo di questi pretoriani, noi non vogliamo eccessi....

Gian-Luigi si levò con impeto, sfavillante lo sguardo di potente ironia.

— Voi non volete? Voi non volete? Ma che concetto [84] vi siete dunque fatto dell'opera vostra e delle condizioni sociali, da credere possibile una rivoluzione all'acqua di rosa, che finisca in canzoni e serenate? Chi vuole il fine deve volere i mezzi, e credete voi possibile arrovesciare il mondo senza che venga al di sopra ciò che sta di sotto, senza che si levino in bollore gli strati inferiori del mondo sociale, e con questo bollore salga alla cima del fiotto la schiuma? Il vostro, signori patrioti, è un liberalismo all'antica, sullo stampo greco o romano, che vede nella massa da una parte una casta di cittadini a cui concedere i diritti politici e rispettatissimo il diritto di proprietà, e dall'altra parte una turba di iloti e di schiavi a cui lasciare in retaggio la miseria e il freno crudele delle leggi penali. Se voi poteste trionfare da soli, passi: al dispotismo della monarchia oligarchica sostituireste addosso al proletario quello d'una borghesia mercantile, industriale ed avara; e il proletario non cambierebbe che di stromento della sua schiavitù economica e civile; ma, il vostro liberalismo più potente di frasi rettoriche che di braccia e di coraggio, ha bisogno del proletariato, ed avendo compreso questa verità è venuto a cercarne l'alleanza. Io, che rappresento la plebe, sono pronto a stringere quest'alleanza; ma voglio per Dio che a questa povera plebe, sia concessa alfine la libertà....

Mario sorse in piedi ancor egli, e interruppe parlando eziandio di forza:

— Sì la libertà, ma non la libertà del delitto. Sì la plebe la vogliamo emancipata anche noi, emancipata dalla miseria e dall'ignoranza, che è la peggiore delle miserie, ma non emancipata dal freno delle leggi del giusto e dell'onesto, che sono la salvaguardia d'ogni società. Voi, dottor Quercia, confondete colla plebe quella vil feccia che pur troppo esce in maggior numero dalle più povere classi sociali per arrabattarsi nel fango dell'infamia e della colpa. Con questa non transigiamo, non facciamo alleanza: essa non ha che la nostra compassione talvolta, sovente il nostro disprezzo.

Gian-Luigi impallidì e si morse le labbra, ma tacque.

Tiburzio continuava:

— Una rivoluzione che saccheggi si disonora; se noi trionferemo, sarà nostra cura far appendere alle forche qualunque che faccia onta al nostro successo con un latrocinio.

La fronte del medichino si corrugò un istante, e i suoi occhi lampeggiarono molto minacciosi; ma fu un lampo daddovero; innanzi alla serena, fiera, nobile guardatura di Mario, egli riprese tantosto l'amenità della sua fisionomia da elegante frequentatore di aristocratici salotti.

— Il gran punto, caro mio, sta adunque nel trionfare. Del resto voi non mi avete capito, e non voglio che ci guastiamo per un malinteso. Siamo più d'accordo di quel che vi paia, e quando gli avvenimenti avranno volto a seconda dei nostri desiderii, vi accorgerete voi stesso che l'assolutezza del vostro puritanismo dovrà transigere colle necessità del momento. Per assicurare la vostra rivoluzione medesima sarete obbligato a compensare del perduto lavoro infinito numero di plebei che il movimento avrà gettati sulla strada.... Gli è di questi che intendevo parlare.

— Ed a costoro provvederemo.... Agli onesti.

— Eh! Disse Gian-Luigi levando le spalle. Ne avranno ancora maggior bisogno e saranno più pericolosi gli altri... Ma il tempo passa....

Trasse dal taschino del panciotto un prezioso oriuolo d'oro.

— È oramai da un'ora che noi stiamo qui discorrendo, e ci siamo detto tutto quanto pel momento occorre. Separiamoci. Appena avrò appreso alcun che ve lo comunicherò tosto; così voi a me se alcun nuovo fatto intravviene. E frattanto disporremo tutto, ciascuno da parte sua, per la domenica ventura. Ora abbiale la compiacenza di lasciarvi rimettere la fascia sugli occhi.

Glie la pose egli stesso, poi aprì la porta dello stanzino. Il mariuolo che gli faceva da domestico era là che aspettava come una sentinella. Il medichino gli disse all'orecchio:

— Conduci fuori costui per la taverna di Pelone. Se Macobaro è ancora costì mandamelo qui subito.

Mentre Mario cogli occhi bendati era condotto via dal tristo che serviva da domestico a Gian-Luigi, questi gli tenne dietro collo sguardo, finchè spari del tutto nella tenebra della galleria che conduceva alla taverna.

— Un nobile carattere, sì: diceva egli fra sè: un'anima generosissima in cui albergano i più elevati sentimenti; ma conosce egli, codestui, gli uomini ed il mondo? Ma con tanta riguardosa coscienza, a che si riesce?

Crollò le spalle e fece il suo sogghigno più ironico e più scettico.

— Stolti! Soggiunse il capo della cocca. Stolti che vengono da noi, che chiamano il nostro aiuto e credono, a battaglia vinta, misurarci la parte della torta. Ma per Iddio! se vinceremo, i padroni saremo noi... sarò io!!

Si drizzò della persona e gettò nello spazio quello sguardo di dominazione che Maurilio al villaggio gli aveva già visto gettare sulla lontana città, quando s'apprestava a venire in essa per conquistarsi la supremazia sociale.

Stette alquanto così, in quell'attitudine fiera e superba: poi si riscosse e volse gli occhi fiammanti verso la galleria per cui era partilo Mario Tiburzio; un passo trascinante vi si fece sentire e nella penombra del Cafarnao apparve il profilo asciutto e la persona curva di Jacob Arom, il vecchio rigattiere ebreo.

Era il ritratto dell'avarizia e della viltà, colle sembianze [85] d'una sordida miseria. In forme e panni maschili, l'accompagnatura della schifosa figura della Gattona. Il naso adunco in quel volto osseo e magro, a zigomi sporgenti ed occhi incassati, ricordava il becco d'un uccello da rapina; la bocca sdentata rientrava nelle mascelle incavando ai due lati della faccia un avvallamento pieno di rughe; piccolo, a spalle strette, a petto incurvato, a membra gracili, Jacob camminava a corti passi, senza far rumore, guardando in terra dove sembrava sempre cercar qualche cosa, respirando in modo particolare, quasi affannoso, tra il sospiro ed il gemito. Parlando aveva la voce debole e rauca e quell'accento tra gutturale e nasale che è carattere del popolo israelita, esagerato nella feccia di quella povera razza dispersa. Sopra una spalla portava accavallati due o tre abiti logori; in mano un ombrello di stoffa di cotone.

Appena lo vide, Quercia gli gridò col tono d'un padrone non benigno ad un cane in disgrazia:

— Avanzati un po' qua, vecchio scellerato, apri le orecchie, e sta pronto a dir sì, senza tanti discorsi, chè tu sai come a me non piacciano gl'indugi delle parole inutili, e ti avviso inoltre che al presente ho molta fretta.

Jacob tirò giù il suo cappello frusto, unto e bisunto, tutto bozze ed ammaccature, e scoprì un capo arruffato con foltissimi capelli corti, ricciuti, che parevano, per forma e per colore, la lana delle pecore in montagna, quando la piova da lungo tempo non è più venuta a lavarla.

— Eccomi agli ordini suoi: diss'egli con tono tutto raumiliato, avanzandosi proprio coll'andatura del can barbone che teme le botte. Mi comandi, e se la è cosa ch'io possa fare, si accerti....

Il medichino lo interruppe bruscamente:

— Mi bisognano fra due giorni cinquanta mila lire in denaro sonante, e tu me le hai da dare....

— Dio d'Abramo! Esclamò Jacob alzando le mani alla vôlta con espressione quasi di spavento, e lasciando per la soverchia sovrappresa cadere in terra il suo cappello frusto. E come vuole che io possa procurarle una somma sì enorme?

— Pigliandola dove ce l'hai; nelle tue casse, nei tuoi nascondigli in cantina, vecchio avaro.

— Per l'anima di Melchisedech! Ancor Ella crede le fole che i piacevoloni si divertono a spacciare sul mio conto? Che io nuoto nell'oro, ed ho tutti i tesori del re Salomone nelle mie cantine. Ma Lei che è un uomo superiore, come può dar retta a simili cantafère? La vede bene che vita miserabile è quella ch'io meno....

Luigi nuovamente lo interruppe con quel suo accento a cui pochi erano tanto arditi da ribatter parola:

— Ti dico che ho bisogno di quella somma, e che la voglio. Risparmia adunque tutte le tue ciancie con cui suoli sgozzare altrui nel tuo mestiere da usuraio, degno emulo di quello scellerato Nariccia. Come tu abbia da fare per procurarmi quel valsente io non lo voglio nemmanco sapere, ma ciò che voglio si è che fra due giorni al più tardi esso trovisi in mio potere. Tu mi conosci qual sono; e regolati in conseguenza.

Il ferravecchio raccolse da terra il suo cappello e per un poco parve tutto intento a lisciarlo e rilevarne la ammaccature. Pareva rannicchiatosi di corpo da essere diventato più piccolo; aveva saputo accrescere l'umiltà, la miserevolezza, la debiltà di quel suo aspetto che era sempre debolissimo, miserrimo ed umilissimo.

— Come mai, diss'egli di poi con timidezza, può esservi bisogno di un tanto capitale? Le casse della cocca dovrebbero essere ripiene; ogni giorno le si vengono rifornendo con qualche nuovo versamento: l'altro dì ancora le ventimila lire di Bancone....

Quercia crollò le spalle con atto disdegnoso.

— Peuh! Esclamò. Una secchia d'acqua nel letto d'un fiume. Le spese sono molte; abbiamo un esercito di miserabili a cui, poca o assai, ci vuole la sua parte; dei valori non monetati tu e Pelone, birbanti tuttedue, ce ne rubacchiate la buona metà del prezzo....

Jacob Arem protestò con un'esclamazione a cui il medichino non diede retta.

— E poi, continuava egli, la impresa per cui li domando questi denari è tale che assorbe al di là dei mezzi pecuniari che può avere accumulati la nostra associazione....

Gian-Luigi s'interruppe con un sorriso pieno di superbia.

— Ma che sto io rendendoti tutti questi conti? Ti dico che ne ho bisogno e basta; ti dico che li voglio, e tu non uscirai di qua senza avermi fatta la promessa solenne di darmi que' denari, per la tua legge e pei tuoi profeti. Hai capito?

Il giudeo guardò intorno con aria profondamente sgomentata. Quercia gli si accostò vieppiù ed appoggiandosi con una mano alla tavola soggiunse a bassa voce, chinando la sua alta persona verso il miseruzzo vecchio:

— Qui siamo affatto soli. (E in realtà Graffigna erasi partito durante il colloquio tra il medichino e Mario: e il domestico era andato a guidar fuori quest'ultimo, e poi ad eseguire le altre incombenze dategli da Quercia). Siamo affatto soli, quasi nelle viscere della terra, e nessuno fra i viventi può udire o veder quello che qui succede....

I lineamenti del vecchio Jacob si alterarono in modo eccessivo: si ritrasse vivamente dal suo interlocutore e disse con voce balzellante pel tremito:

— In nome dell'Eterno! Avrebbe Ella il coraggio di far violenza ad un povero vecchio?

Il medichino ruppe in una risata.

— Di che hai paura? Che io voglia far male a quel tuo vecchio carcame? Se l'oro che possiedi, [86] tu lo portassi come sangue nelle vene, potrei metterti sotto allo strettoio per fartelo sudar fuori. Rassicurati e riavvicinati. Credi tu ch'io sia tale da non averti saputo leggere nell'anima? Io ho penetrato dentro quel vecchio tuo cranio e ci ho visto l'idea fissa che lo domina, io ho sentito le passioni scellerate che fanno battere quel tuo vecchio cuore inaridito.

Jacob sollevò sul viso di Quercia il suo sguardo umile e peritoso, e disse con voce più debole che mai:

— Che passioni? Per la pietra di Oreb!....

— Vuoi che le le dica? Tu ami assai tua figlia....

— La mia Ester! Esclamò l'ebreo facendo scintillare alcun poco i suoi occhi, fissi ancora sul volto di Gian-Luigi. Oh sì! È il fiore sbocciato sul vecchio tronco percosso dal fulmine, è il sorriso della primavera che rallegra il mio inverno, è la mite luce del mio vespro.

— Ma più di tua figlia, continuò il medichino interrompendo, assai più di tua figlia, ami il tuo denaro...e quello altrui.

Arom chinò il capo, abbassò gli occhi, e biascicò con voce più gutturale del solito:

— Sono un pover uomo che ha tanto appena che basti per campar la vita....

— Ma più forte dell'amor che hai per tua figlia, più forte ancora dell'amore che hai pel denaro, sta nel tuo cuore un odio feroce, accanito, profondo, che si è fatto tua natura, che ti guida in ogni atto, che presiede ad ogni tuo proposito: l'odio contro i cristiani, l'odio contro quelli che dominano, che trionfano, che brillano....

— Oh! che cosa dic'Ella mai? Esclamò l'ebreo, tenendo sempre più bassi gli occhi e la faccia. Io pensare ad odiare ciò a cui devo sommissione e rispetto! Un verme come sono io si lascia schiacciare ma non ha la temerità d'aver nemmanco l'ombra d'un rancore contro il piede potente che lo preme.

— Il verme dove potesse scavare una fossa sotto al gigante il cui piè lo calpesta, per farnelo rovinare da tutta la sua altezza, lo farebbe molto volentieri. Tu hai visto che altri, con o senza coscienza dell'opera loro, si adoperavano a scavar sotterraneamente questa fossa, e ti sei giunto a loro ed hai posto al travaglio la mano. Tu al minuto sgozzi coll'usura i cristiani che ti capitano sotto le unghie, collettivamente, all'ingrosso, ti adoperi a spingere le passioni e le miserie che arruolano alla cocca tanti soldati, alla rovina di quello stato sociale che fa alla tua razza una così trista condizione, che dà alla tua persona una parte così umile, così soggetta e così precaria.

L'israelita sollevò un istante le sue palpebre floscie e rugose onde copriva i suoi occhi tenuti fino allora volti alla terra, e lanciò verso il suo interlocutore uno sguardo che era una fiamma viva; ma richinate tosto le pupille si tacque nè si mosse altrimenti come se le parole del medichino non producessero in lui effetto di sorta.

Gian-Luigi continuava:

— Ti ho conosciuto per quello che eri fin dalla prima volta che ti vidi. Io ti venni innanzi allora tratto per forza dalla mano del bisogno....

— Sì; disse allora Jacob facendo sgusciare di nuovo uno sguardo sulla faccia del medichino e parlando più umilmente colla sua voce più nasale che mai. Ella non aveva ancora imparato ad avere una rivalsa sicura nelle carte da giuoco.

Quercia fece un moto di contrarietà come quegli a cui si ricorda cosa che non gli talenta udire accennata.

— Non aveva tuttavia, seguitava l'ebreo, alcuna attinenza colla nostra associazione; ma possedeva le tante buone qualità che la fanno ora capo così degno, così operoso e così intelligente della cocca, risuscitata a nuova, più vasta e più fruttuosa esistenza, e chiamata, appunto per l'iniziativa di Lei a maggiori destini. Ed io mi rallegro e mi inorgoglisco nel mio nulla d'essere stato cagione di sì prezioso acquisto, di sì meritata esaltazione di vostra signoria.

— Come io nel tuo, tu eziandio mi hai letto nell'animo. Hai capito che quell'associazione di malfattori..... di ribelli alla legge sociale..... così estesa e bene ordinata, poteva essere uno stromento efficace, un'arma potentissima per abbattere il presente, per vendicare il passato, quando la dirigessero una mano robusta, una ferrea volontà, una intelligenza solerte, ardimentosa e feconda. Siffatte qualità le hai presentite in me; le passioni che dovevano farmi voglioso dell'opera le hai indovinate nella mia giovinezza irrequieta. In quel primo colloquio il tuo sguardo non restò chinato alla terra, come sempre di poi, come anco al presente; ma per gli occhi mi si affondò nell'animo, a scrutare di me, come dice la tua Bibbia, il cuore e le reni. Si era nello stanzone terreno della tua dimora: un antro oscuro come il covo d'una belva; e in un angolo della stanza raggiava la precoce bellezza di tua figlia, ancora quasi bambina....

Jacob Arom aveva levato non che gli occhi, ma la testa e la persona, e guardava con inusata sicurezza e sorrideva con famigliarità compiacente. Alle ultime parole di Gian-Luigi osò interrompere quasi rimbrottando:

— Ah! lasciamo stare mia figlia, la prego.

Gian-Luigi che parve non badare per nulla a quella interruzione, continuava:

— Tu mi prendesti per la mano — la tua destra fredda come un pezzo di ghiaccio e adunca come l'artiglio d'un falco da preda, s'intrecciò colla mia, quasi a stringere un tacito patto solenne. Tu mi sorridesti colla tua bocca sdentata, tu mi facesti balenare dinanzi il cupo splendore della sciagurata sovranità che ora possiedo, tu, senza dirmene apertamente, [87] mi lasciasti travedere lo scopo immenso della nostra opera tenebrosa, che sfugge alla intelligenza ristretta dei nostri consoci, lieti di poco danaro guadagnato col delitto.... Mi rammento eziandio il momento in cui tu sapesti il felice successo della prima di quelle audacissime imprese da me immaginate e condotte che scoppiano come fulmini a ciel sereno nella calma di questa città a spaventare i cittadini colla loro terribilità misteriosa. Tu mi stringesti il braccio con mani che tremavano e mi dicesti susurrando all'orecchio: «Bravo! Bene! Oh! io aveva conosciuto l'uomo che era in Lei. Avanti, avanti! Faccia a que' scellerati d'onest'uomini il maggior male che si possa....»

L'ebreo stava tuttavia col suo corpo dritto e la faccia levata: lo sguardo che non s'era ancora abbassato secondo suo costume scintillava stranamente sotto la fronte proeminente.

— Essi a noi ne fanno tanto del male! Diss'egli colle labbra strette e la voce soffocata nella gola. Se io mi rallegro del danno cagionato a quella gente, chi può darmi torto? È una tirannica persecuzione di secoli che si aggrava sulla dispersa stirpe d'Israele. I padri di codestoro ci abbruciavano vivi; in questa età più mite, ma non più giusta nè onesta, ci si misura la vita col disprezzo e colla prepotenza. Dall'illustre cavaliere che ci tratta collo scudiscio al biricchino di piazza che ci trae dietro al nostro passaggio le immondezze del suolo pubblico, è una gara a chi più ci oltraggi e ci danneggi. Ognuno di noi, fin da bambino, è la mira delle arroganze di tutti. Non v'è debole e meschino fra i cristiani che in faccia ad un israelita non abbia sempre la ragione del più forte. Noi cresciamo in mezzo ad un ambiente di odio comune, isolati e maledetti come i leprosi al bando di ogni vantaggio sociale; a cui non si concede aver possessi, nè cariche, nè onori, neanco una patria, appena se la famiglia. L'altro dì, il nobile conte di San-Luca, col suo carrozzino rovesciava a terra e faceva rompere il capo ad un povero vecchio precisamente innanzi al caffè Fiorio. La folla si raccoglieva pietosa intorno al caduto; ma visto appena chi fosse costui la indignazione contro il giovine conte sfumava. Era un mio compagno di mestiere e di religione. — «Ah! non è che un ebreo:» si esclamò con indifferenza, ed appena fu se alcuno volle porger la mano ad alzare quel miserabile. Il conte seguitò imperturbato il suo cammino, e non ebbe nemmanco un rimprovero. Ogni giorno, ogni ora vede alcun sopruso fatto ad alcuno di noi. Quante volte non ne fui vittima io stesso! Un figliuolo di famiglia nobile, viene a farsi imprestare da me del danaro, quel sacrosanto danaro che io mi guadagno con sì penoso ed incessante lavoro; poscia trova più comodo non pagarmi i pattuiti frutti; il padre titolato e potente ne dice un motto al Comandante della Polizia: il commissario Tofi mi manda a chiamare e mi impone di contentarmi di prendere indietro il mio povero capitale, perdendoci tutti gl'interessi di vedermi imprigionato come usuraio. Non è questo un latrocinio? Ultimamente, sotto il nome di un cristiano che la faceva da mio uomo di paglia, prendo una considerevole impresa nelle forniture militari, dalla quale impresa avrei potuto avere assai buoni guadagni. La cosa mi era stata aggiudicata, era mia, e sotto un Governo onesto in una società costituita secondo i dettami di giustizia, nissuna autorità avrebbe avuto potere più di levarmela; ma qui e dai cristiani quale rispetto si ha egli pel giusto? Il conte Barranchi aveva da favorire un suo protetto non arrivato a tempo per concorrere all'appalto, si scopre che il vero accollatario dell'impresa è un ebreo: che bel pretesto! Il solito commissario Tofi mi fa venire innanzi a sè: ordine di S. E. di abbandonare l'impresa o di assaggiare del pan muffato della prigione colla bietta di concussionario. Bisogna curvare il capo e tacere.... E si vuole che questa iniqua società, la quale ci fa una così bella sorte si ami, se ne desideri il prosperare e se ne rispettino le leggi?[5]

Il vecchio ebreo non aveva mai parlato cotanto, nè con tanto calore. Quell'anima chiusa continuamente, alle parole di Gian-Luigi s'era aperta un istante ed aveva lasciato sfuggire uno sprazzo di quel segreto livore che vi sobbolliva costretto per entro.

— Tu hai ragione: disse a sua volta il medichino. Ed io pure odio questa società e questo mondo che non mi volle fare quel luogo ch'io sento di meritarmi; e di odiarli ci ho a mille doppi più ragione di te. Te opprime l'assetto sociale; ma fra noi qual può esservi paragone? Te la sorte medesima ha condannato. Sei nato in una razza maledetta, e la natura ti ha fatto debole, ti ha impresso lo stampo degli umili per imbrancarti nella schiera dei sottomessi. Ma io?.... Io mi sento della razza dei leoni; e perchè una colpa o una sventura de' miei genitori mi ha gettato in mezzo agli uomini senza nome e senza ricchezze, ho da vedermi chiuso ogni accesso agli onori ed ai diletti del mondo? No, no per Dio! Io ho nelle vene il sangue degli Erostrati. Il mondo non mi vuol far luogo ed io mi apro la strada coll'incendio e colle rovine. Erostrato si contentò di ardere un tempio per conquistare una dubbia fama: io metterò sossopra tutto un paese, tutta una epoca per conquistare autorità, ricchezza [88] e gloria imperitura, sia pur anco spaventosa ed orribile.

Jacob era tornato in tutta la umiltà del suo contegno ordinario.

— È vero, diss'egli più rimessamente che mai. Io sono un povero ebreo che non è nulla e non potrebbe esser mai nulla; ma Lei!.... Oh da bravo! Vinca ed abbatta questo tirannico assurdo sociale che s'impone colla legge, colla Polizia, colla carcere e colla forca. Tutti i deboli la applaudiranno. Avrà per sè tutti gli oppressi e tutte le vittime, che sono il maggior numero.

— Or bene, dà retta a quel che ti dico, Jacob, così ripigliava a parlare Gian-Luigi. Io sono alla vigilia d'ottenere il mio intento. Fra pochi dì — forse — avrà principio e conclusione in lotta tremenda la vendetta dei miserabili; lo straccione, il disprezzato, chi ha fame piglierà la sua rivincita sui fortunati, sugli onorati, sui graduati del mondo. Sarà una frana che si precipiterà irresistibile a tutto schiacciare e sconvolgere. Ma perchè questa massa lentamente preparata e raccolta si stacchi e rovini occorre una forza potente d'impulso. Questa forza è il denaro. Mi bisogna una vistosa somma, per comporre la quale ho fatto calcolo sopra ogni qualunque mezzo che sia all'arrivo della mia mano. Tutti quelli onde può disporre la cocca, e parecchi altri che gli è inutile il dire: fra questi tu ci entri per quelle cinquanta mila che ti ho domandato.

L'ebreo si pose a far girare tra le mani il suo cappello frusto.

— La ringrazio molto del contrassegno di fiducia: diss'egli con ironia appena se velata; ma per la grandezza dell'Eterno! cinquanta mila lire non sono mica una bazzecola, e per averle e snocciolarle fuori ci vuol altro che buona volontà... Io di certo do al suo progetto — che voglio creder vero, serio e reale — tutta la mia simpatia.

Il medichino lo interruppe con violenza:

— Insolente! Avresti l'audacia di non credere alle mie parole?

— Non ho quest'audacia. Dico appunto che ci credo per l'affatto. Se non si trattasse di Lei si potrebbe aver bensì il sospetto che ciò fosse un pretesto affine di raccogliere nella propria mano un considerevole capitale con cui partirsene quatto quatto per andarselo a godere in santa pace lontano, abbandonando per sempre una vita piena di agitazione ed un'impresa piena di rischi.

Il medichino arrossì per l'ira che gli fece lampeggiare tremendamente lo sguardo e corrugare la fronte.

— Miserabile! Esclamò egli. Tu mi credi capace?...

— No, no: si affrettò a gridare l'ebreo, tirandosi in là di alcuni passi. Ella non farebbe mai una cosa simile... E poi la cocca ha le braccia lunghe e raggiungerebbe un traditore anche in capo al mondo. Le muraglie dell'elegante casino di vossignoria qui presso, se potessero parlare, le conterebbero una storia che può essere d'ammonimento a chicchessia.

— È inutile che me la contino, disse Gian-Luigi tornato in una calma disdegnosa; poichè la so. Il capo di allora della cocca fuggì coi fondi della società, ed alfine di mettersi al riparo da ogni vendetta denunziò alla Polizia i principali autori di parecchi delitti, che erano gl'individui da cui egli soltanto poteva temere la sua punizione. Furono presi tutti, e la cocca per allora rimase dispersa. Due salirono sul patibolo, gli altri furono condannati alla galera in vita. Il traditore pareva dover essere sicuro, e talmente si credette tale che commise l'imprudenza di venire dopo molti e molti anni ad abitare, sotto altro nome è vero, quella medesima casetta che come capo della cocca aveva avuto in suo possesso. Chi pareva ancora ricordarsi di lui? Viveva solo, chiuso in casa, senza relazioni nessuna col mondo. Or bene, una sera ci vide aprirsi l'usciolo nascosto che metteva nel passaggio segreto, il quale allora non comunicava punto colle botteghe che tengono attualmente Baciccia e Pelone, ma si fermava al pozzo cieco del cortile; ed ecco entrargli in casa Marullo, che era fuggito dalla galera a cui era condannato per la vita. Due giorni dopo il vecchio scellerato fu trovato morto.

— Sì, questa è la storia testuale. Marullo fu quegli che di poi riordinò la cocca, la quale ora è in così florida condizione sotto la savia direzione di Vossignoria.

— Ma lasciamo questi discorsi: disse Gian-Luigi e torniamo a quelle cinquanta mila lire che tu mi devi dare ad ogni modo. Tu hai fatto troppi guadagni sulla cocca, perchè ora che questa ha bisogno del tuo concorso, tu vi ti rifiuti.

— Un concorso di cinquanta mila lire!....

— Che te ne renderanno centomila.

— Oh oh! Esclamò Jacob sollevando la testa. Come mai?

— Non è un dono che ti domando, è un imprestito. Quando avremo vinto te ne rimborserai da te stesso nella divisione della torta.

— E se non vinciamo?

— Ti compenseremo sui guadagni delle future operazioni della cocca.

L'ebreo scosse la testa.

— Se avviene uno scoppio simile e il Governo ci schiaccia, la cocca è bella e spacciata per un pezzo... Senta, signor Quercia: ci sarebbe forse un mezzo di aggiustar tutto... Ella è troppo ragionevole per voler rovinare un povero padre di famiglia esponendolo al rischio di perdere così da un momento all'altro una somma di tanto riguardo...

— Sentiamo questo mezzo: interruppe ruvidamente il medichino.

— Mi faccia un pagherò a mio ordine per cinquantadue mila lire...

— Subito: disse Gian-Luigi.

[89] — Ma, soggiunse Jacob col tono d'un pezzente che domanda l'elemosina, vorrei colla sua un'altra firma.

Quercia si riscosse.

— Qual firma? Domandò egli aggrottando le sopracciglia.

E l'ebreo con voce più umile e sottomessa che mai:

— Quella della contessa di Staffarda...

Non aggiunse più sillaba, impaurito dallo sguardo e dall'espressione del volto di Gian-Luigi.

Questi però si tacque per un poco; incrociò le braccia al petto e parve meditare profondamente.

— L'avrai: diss'egli dopo alcuni minuti.

Un quarto d'ora più tardi, Jacob, uscito dalla bettola di Pelone, rientrava a casa sua; e Gian-Luigi, venuto fuori per la casina del viale, s'affrettava verso il palazzo Langosco. Seguitiamo per ora il vecchio israelita nel suo quartiere entro la parte più sporca del lurido ghetto, e colà conosceremo la bella Ester, di cui il biglietto scritto a Gian-Luigi già ci apprese la colpa e la sventura.

CAPITOLO XV.

Jacob Arom camminava più lesto che potesse coi suoi passetti corti, facendosi riparare la neve che continuava a cadere dalla sua ombrella di cotone che non aveva più nissun colore. Una maligna gioia raggiava dal suo sguardo, e la preoccupazione del suo animo era tanta ch'egli dimenticava di mandare per le strade il solito grido di nen da vend. Giunto a quel grande agglomerato di case che forma il ghetto, penetrò nel più interno cortile, dove l'apparenza della maggior miseria si univa colla realtà della massima sporcizia a ferire la vista, l'odorato ed anche l'animo di qualunque estraneo vi si intromettesse. Era un quadrato di muraglie che conteneva un immondezzaio: spazzature, ossa rosicchiate, avanzi di erbaggi marci, gusci d'uova, torsoli e cocci rotti. La neve pareva disdegnare di coprire col suo mantello bianco tanto sudiciume, e fondendosi lo accresceva colla melma del terreno nemmanco selciato. Su questo marciume s'aprivano a pian terreno parecchie porticine con imposte d'usci forti, grosse e chiovate di ferro, e ai piani superiori alcune finestre difese da robuste inferriate a inginocchiatoio. Non si vedeva anima viva colà dentro; nissun naso d'inquilino compariva fra le barre di quelle inferriate, nissun occhio curioso di donna brillava in mezzo alle tendoline affumicate e impolverate delle varie finestre dietro i cristalli poco meno che opachi per la lunga mancanza di lavatura. Avreste detto quel luogo affatto deserto, se non ci avessero suonato gli strilli di qualche bambino piangente e il miagolare di qualche gatto affamato.

Il nostro vecchio ebreo andò ad una di quelle porticine che ho detto, la quale introduceva a casa sua, e ci picchiò dentro col pugno. Egli non usava mai portar seco la chiave di casa, perchè poteva esservi il pericolo di perderla o che gli venisse sottratta. Dopo un poco s'apri un finestruolo al di sopra della porta e vi comparve la faccia d'una vecchia degna d'esser compagna alla faccia di Jacob, degna di trovarsi in mezzo a quel lurido luogo.

— Chi è? Domandò la vecchia con voce tremolante e nasale.

Jacob tirò giù l'ombrella e levò in alto il suo becco da uccello di rapina.

— Apri. Debora, sono io.

— Vengo subito: rispose la vecchia ritraendosi dal finestrino e richiudendo l'invetrata.

Questo subito, però, si protrasse oltre a cinque minuti, così che il padrone di casa, impaziente, tornò a rinnovare la sua picchiata nell'uscio.

— Eccomi, eccomi: disse la vecchia Debora facendo scorrere i catenacci e stridere la serratura che assicuravano le imposte e mostrando finalmente il suo volto scarno fra i battenti, aperti tanto appena che una persona potesse passare.

Jacob entrò e dietro di sè richiuse egli stesso accuratamente la porta.

Entrando, uno si trovava in una stanza abbastanza vasta ma bassa di soffitto, la quale era tutta ingombra dei vari e molteplici oggetti che formavano materia dell'indefinibile commercio del vecchio ebreo. A destra una botola nel pavimento, aprendosi metteva in una scala che s'affondava sotto terra; a sinistra una scala a chiocciola saliva alla stanza superiore; in fondo una finestra con forte inferriata ancor essa, per una tenda color di polvere tirata davanti lasciava penetrare una luce grigiastra; in un angolo certi panni frusti composti di varie stoffe cucite insieme, rappezzati a mille colori, tesi sopra una corda per far da cortina, riparavano dietro sè lo strammazzo che serviva da letto alla Debora. Regnava colà dentro un'afa di rinchiuso e di stantìo che vi pigliava alla gola, congiunta in questo momento all'odore particolare mandato dai cavoli cuocendo, odore che emanava da un pentolino che si sentiva bollire e si vedeva fumare traverso il coperchio sopra un fornello portatile che faceva brillare modestamente i pochi suoi carboni accesi quasi in mezzo la stanza.

Ma chi fosse entrato dietro i passi di Jacob, avrebb'egli potuto prestare attenzione ai miseri particolari che ho appena accennato, mentre avrebbe visto di mezzo ad un viluppo di panni intorno a cui stava cucendo, non lungi dal fornello, levarsi una giovane figura di donna splendidamente bella, più che umana parola possa dire?

Era Ester, la quale venne incontro a suo padre con un sorriso un po' forzato sulle sue labbra di corallo, e pose sotto le vizze labbra di lui la sua candida fronte di così elegante e nobile forma che [90] nulla più. Ella aveva tutte le bellezze — e le bellezze soltanto — dell'originale tipo giudaico. La sua svelta e graziosa persona il poeta l'avrebbe potuta giustamente paragonare al tronco d'una giovane palma. L'occhio nero possedeva tutta la gamma, per così dire, delle espressioni che può avere un occhio umano, dallo sguardo carezzevole, vellutato, soave, ardente d'amore, al baleno dell'odio. Il naso leggermente arcuato dava a quella dolce fisionomia un carattere di forza e palpitava nelle nari all'influsso della passione. I denti candidissimi erano fatti per illuminare il sorriso e parevano acconci eziandio a mordere e dilaniare. Da tutto quel capolavoro di forme leggiadre raggiava una gioventù potente nell'efflorescenza del suo sviluppo, benchè ora apparisse che la mestizia vi aveva gettato sopra un suo velo.

Jacob l'abbracciò con affetto di padre, e la guardò coll'ammirazione dell'avaro pel suo tesoro.

— Tu sei pallida, Ester. Che cos'hai?

Bastarono queste poche parole di suo padre perchè la giovane arrossisse fino alla radice dei capelli.

Debora intervenne.

— La sta sempre chiusa qui dentro fra queste quattro muraglie, diss'ella; vi pare, padrone, che ci si possa pigliare i bei colori?

Il vecchio fece una brutta smorfia che mostrava quanto queste parole gli spiacessero.

— Uhm! Uhm! Diss'egli bofonchiando. La sta rinchiusa! Per la pietra di Oreb, dove la avrebbe da andare? Questa è casa sua; e non c'è altro luogo da starci una ragazza. La faccia di mia figlia, della mia Ester, del gioiello della mia vecchiaia, l'occhio del mondo non l'ha manco da vedere..... Certe cose non le dovresti dire tu, Debora, che sei vecchia e la gente la dovresti conoscere. Sai quanto il mondo è cattivo, e sai che cosa sono i cristiani. Giusto, e' si vorrebbe che qualche sciagurato di quell'empia razza tendesse le reti a questa mia colomba. Pel Dio d'Abramo, piuttosto vorrei!.... La figliuola d'un ebreo? Che sì che ci metterebbero dei riguardi a rapirmela! Sarebbe una festa per essi; e il povero padre non potrebbe nemmanco ottenere giustizia, nè procurarsi vendetta.

Debora non aggiunse parola; Ester tornò a sedersi in mezzo al viluppo dei panni e, chinato il capo, sembrò tutta intenta al suo lavoro che riprese con mano sollecita ma un pochino tremante; Jacob allargò di nuovo l'ombrella e la depose spiegata sul pavimento presso al fornello perchè vi si rasciugasse, gettò sopra un cassone gli abiti frusti che aveva sulla spalla, vi mise su il suo cappello, e poi riappiccando il discorso, domandò alla serva con accento che aveva un'ombra di sospetto:

— Perchè hai tu tardato cotanto a venirmi ad aprire? Visto ch'ero io, non c'era più da indugiarsi.

E il suo occhio intanto scorreva tutta la stanza intorno come per vedere se ci fosse qualche cosa di nuovo che gli svelasse la causa del ritardo.

Debora rispose:

— Eh! non mi sono indugiata per nulla, ma colle mie gambe di quasi settant'anni, capite anche voi che non si può volare... E poi la marmitta bolliva di troppo e mi sono fermata un momento a gettare un po' di cenere sulla bragia.

Jacob non disse più nulla. Si accostò al fornello ancor egli e tese al disopra del coperchio della marmitta le sue mani scarne, annerite e tremanti, per iscaldarsele. La sua preoccupazione lo aveva ripreso, e quella certa gioia maligna che ho detto tornava a scintillare ne' suoi occhietti infossati. Dopo un poco egli si levò di lì, e fregandosi le mani salì per la scala a chiocciola al piano superiore. Le due donne si guardarono con aria di segreta intelligenza e mandarono un sospiro di sollievo.

La risposta che Debora aveva fatta al padrone intorno al suo ritardo ad aprire conteneva tutt'altro che la verità. Il picchiare di Jacob aveva interrotto un interessante colloquio fra le due donne, il quale s'aggirava sulle condizioni, sui timori, sull'avvenire della povera Ester. Questa non confidava più, non isperava più che in Luigi. Ch'egli la facesse fuggir seco, ch'egli la trafugasse, purchè la togliesse all'ira ed alla vendetta del padre, che sarebbero state tremendissime quando avesse scoperto il vero, ella si sarebbe rassegnata a tutto. Ma da tanti giorni il suo seduttore non si lasciava più vedere; ed ora sarebb'egli venuto all'appello fattogli pervenire per mezzo di Graffigna? Senza essere in chiaro di tutta la verità, Ester era abbastanza addentro nei segreti di suo padre per sapere come Luigi fosse a capo d'una schiera, tra i più fidati della quale era Graffigna, non dubitava punto per ciò che la sua lettera sarebbe giunta nelle mani del suo amante, e con ansia si domandava s'egli l'amasse ancora cotanto da mettere innanzi ad ogni altra bisogna questa che riguardava la sorte di lei. Un tristo presentimento la faceva pur troppo proclive più al timore che alla speranza; e Debora, cui le larghezze di Gian-Luigi e le preghiere di Ester avevano fatta complice ed aiutrice del loro intrigo, tradendo così la fiducia del vecchio Jacob, Debora si sforzava di rassicurare alquanto l'animo abbattuto della giovinetta che s'era abbandonata ad uno sfogo di pianto.

I colpi battuti all'uscio le avevano fatte sussultare ambedue. Quella non era l'ora in cui solesse tornare a casa il padre. Un raggio di speranza balenò negli occhi pregni di pianto di Ester.

— Ch'e' sia lui! Esclamò ella gittando via i panni che teneva sulle ginocchia e levandosi per correre alla porta.

Ma Debora la trattenne.

— Può essere benissimo il signor Quercia: disse la vecchia; ma non conviene aprire senza prima [91] vedere chi è, e tanto meno conviene che siate voi ad aprire. Sapete quanto sieno formali e rigorosi gli ordini del padrone a questo riguardo... Lasciate ch'io vada di sopra a guardare dalla finestra.

— Fa presto, fa presto, Debora: disse con accento di preghiera la giovane, e si appoggiò palpitante alla sbarra della scala ad aspettare, mentre la vecchia, quanto poteva più sollecita, saliva al piano superiore.

L'attesa della povera Ester non fu lunga. Udì fuor della porta la voce di suo padre e tosto dopo Debora, affrettandosi giù della scala, dicevale sommesso:

— Vedete se non la facevate grossa ad aprire voi stessa la porta! Qui bisogna tornare a vostro posto e star lì come se di nulla fosse stato... E bisogna rasciugare ben bene quegli occhi perchè non si possa vedere che avete pianto.... Il padrone è malizioso come l'angelo delle tenebre; e se mai pel menomo giunto s'insinua in lui la menoma ombra di sospetto, noi siamo belle e fritte.

Fece seder di nuovo la giovane dove si trovava prima, le raggiustò intorno i panni a cui doveva figurare d'aver lavorato pacificamente sino allora, le rasciugò ella stessa con molta cura gli occhi e fattole ancora alcune raccomandazioni in proposito, andò poi ad aprire come vedemmo.

Quella che possedeva il vecchio israelita era proprio una lieta preoccupazione. Quando egli fu solo nella sua camera al piano superiore, gli occhietti gli brillarono ancora più vivamente, più spiccato gli si fece il sorriso sulle labbra avvizzite, ed e' si diede con più forza a soffregar l'una contro l'altra le sue mani macilente.

Lo stanzone che corrispondeva a quello del piano terreno era diviso in due per un trammezzo; la prima metà, quella in cui immetteva il capo della scala a chiocciola, era la stanza del padre; la seconda metà, a cui non si poteva accedere che passando per quella del vecchio, era la camera di Ester. In quest'ultimo locale Jacob teneva eziandio una specie di grosso armadio di legno di noce, il quale nel suo interno albergava e nascondeva una cassa di ferro. Colà dentro giaceva una parte di quei tanti denari cui l'universale, questo mostro a mille teste e mille lingue il quale sa tutto e indovina tutto, diceva dal vecchio ebreo raccolti, rammontati e posseduti. L'altra parte la più considerevole, era sotterrata in cantina.

In quella seconda camera, e lo diceva egli stesso alla figliuola, e' teneva i suoi due tesori: l'oro che trafficava coll'usura e la sua Ester. La notte, egli ne chiudeva la porta, poi tirava innanzi a questa il suo giaciglio e vi si coricava, così che non altrimenti sarebbesi potuto penetrare in quella seconda stanza se non passando sul corpo del vecchio.

Jacob passeggiò un istante per la sua camera, poi aprì l'uscio di quella di sua figlia e stando in sulla soglia guardò amorosamente il grosso armadio. Le più strane idee parevano passare per la sua mente, poichè le più originali espressioni, riflesso delle medesime, si avvicendavano su quella faccia caratteristica. Avvicinatosi alla botola, si chinò giù verso la stanza di sotto e gridò alla vecchia serva:

— Debora, se mai viene qualcheduno a picchiare non ti muovere: guarderò io chi sia.

E chiuse accuratamente la botola. Poi si guardò dintorno come per timore che tuttavia fossevi alcuno sguardo che lo potesse vedere; aggiustò le sporche cortine alle finestre, prima della sua, poi della camera di Ester, affine di ripararsi di meglio da ogni occhio profano, e camminò sollecito verso lo spento focolare del camino che si vedeva da infinito tempo non aver avuto attinenza più nè con le bragie, nè con la fiamma; mise la mano su della cappa e tastando vi trovò nella muraglia un'apertura entro cui prese quattro chiavi legate insieme da uno spago. Andò con esse all'armadio e colla più piccola ne aprì lo spesso battente, di dentro fasciato di ferro; le tre altre aprirono la cassa di ferro le cui serrature non cedevano che a chi ne conoscesse il segreto. La cassa dividevasi in quattro scompartimenti: uno conteneva le monete d'oro, l'altro quelle d'argento, il terzo gli spiccioli di rame ed erosomisti, il quarto era occupato da carte di valore e da oggetti preziosi. Quando quegli scompartimenti, che pure erano capacissimi, si trovavano ingombri di troppo, Jacob allontanava di casa Debora con un pretesto qualunque, ed aiutato da Ester portava una buona parte di quei valori a congiungersi cogli altri che li avevano preceduti in cantina.

Egli aprì dunque la cassa e stette un momento a contemplare con occhio soddisfatto la vista per lui gradevolissima di tutti quei sacchetti bene ordinati, ben legati, colla sua scritterella ciascuno. Trasse dal fondo delle lunghe tasche dei suoi calzoni una borsa di pelle sudicia da fare schifo e ne versò il contenuto sopra un tavolino da lavoro lì presso. Era il guadagno che gli avevano fruttato certe ultime operazioni fatte in società col bettoliere Pelone, col quale quella mattina avevano aggiustati i conti. Tre napoleoni d'oro luccicavano in mezzo ad una dozzina di scudi d'argento. Arom pose da una parte le monete d'oro, dall'altra gli scudi; poi dalle tasche del suo panciotto trasse una manciata di soldini e soldoni e di monete erosomiste da 40 e da 20 centesimi, quelle che da poco tempo soltanto furono tolte dal pubblico mercato. Separò le une dalle altre monete, le contò tutte, fece mentalmente i suoi calcoli, e parve più contento di prima.

— Sia ringraziato l'Eterno! Diss'egli. La sua mano benedice il mio traffico e non mai volsero così prospere le mie cose.

Diede un'occhiata all'ammasso di sacchetti che riempiva la cassa, e se li mostrò a sè stesso con un gesto di compiacenza.

[92] — Ecco lì! C'è tanto denaro da comprare la coscienza e l'onore di migliaia e di migliaia di cristiani; ce n'è tanto da farmi strisciare dinanzi il più superbo di essi. Certo che sì. Dov'io dicessi: adoratemi e quelle ricchezze sono vostre, quale di quei codardi arroganti si rimarrebbe dal gettarsi in ginocchio ai piedi del vecchio ebreo che disprezzano?.... Ma io li disprezzo tutti più che essi non facciano di me. Non darei un centesimo per avere la loro stima, razza di vipere. Il debole e schernito giudeo ha quanto basta da pagare financo la bellezza delle loro donne; in questa umiltà, in questa vergogna, c'è una ricchezza a cui agognano invano; molti di loro io tengo afferrati nel mio artiglio, e li scuoto, e li torturo a mio talento; e ciò mi basta!

Mandò uno di quei suoi rifiati che trammezzavano fra il sospiro ed il gemito, e stette un poco immobile a capo chino, come se assaporasse fra sè la dolcezza delle idee che aveva rideste colle pronunciate parole.

— Gustoso in vero è il piacere della vendetta: riprese egli dopo un istante. Io me lo regalo a piccoli sorsi; e i figliuoli di famiglia scapestrati, e i padri giuocatori o libertini, e i ladri della cocca, sono quelli che me lo forniscono. Meglio certo se potessi inebriarmi in una compiuta rovina dei nemici della mia razza. Il medichino me lo promette; ma mi promette una cosa impossibile. E poi, vincessero ben anco i miserabili, sono ancor essi cristiani!.... Ciò nulla meno lo aiuterò molto volentieri. Sarà pur sempre tanto di male arrecato a quella gente..... e il rimborso dei miei denari (soggiunse con un sogghigno pieno di malizia) mi sarà assicurato dalla firma della contessa di Staffarda.

— Ah ah quel medichino (continuava egli con una certa ammirazione) è davvero un essere meraviglioso, ed io lo aveva fin dalle prime giudicato a dovere. Che audacia di concepimenti! che prepotenza di volontà! che coraggio di propositi! Ha una impudente ambizione ed un arrogante orgoglio come non vidi mai gli uguali. Di certo egli finirà per soccombere; ma meriterebbe trionfare. In lui riconosco una vera grandezza, una vera superiorità che me ne impone... Ah! s'egli fosse nato di stirpe giudea!... Se in beneficio del riscatto del popolo d'Israele egli quindi mettesse le potenti qualità del suo animo e del suo ingegno, come lo obbedirei, come lo amerei! Lo amerei come un figlio, l'obbedirei come l'atteso Messia del sangue di David.

Si coprì colle scarne mani la faccia e stette un istante pensoso; poi si riscosse e passandosi la destra sulla fronte bassa ma quadrata, disse a se stesso quasi rampognando:

— Eh via! Che cosa ti perdi, Jacob, in sogni di vaneggiamenti impossibili? Pensa intanto ai casi tuoi.

Prese dall'interno della cassa un sacchetto non ancora pieno del tutto di quelli che contenevano l'oro, e ci pose dentro i tre napoleoni; in un altro, non colmo del pari, dello scompartimento dell'argento, serrò gli scudi; le monete erosomiste per la metà del valore che si trovava sulla tavola, ripose in un sacco uguale, di quelli destinati agli spiccioli, l'altra metà mise in una tasca di cuoio che andò a prendere in uno stipo che aveva nella sua stanza, nella qual tasca fece affondarsi anche i soldi e soldoni.

— Ora conviene scrivere tosto questi guadagni nella partita dell'avere, soggiunse Jacob, e sulla polizzina dei sacchetti la nuova cifra del contenuto. Chiamerò Ester... Ah perchè non so scrivere io!... A me non occorrerebbe in verità nemmanco lo averle scritte sulla carta quelle cifre: le ho stampate tutte una per una qui (e si batteva le protuberanze della fronte); ma gli è per mia figlia. Se io mancassi, voglio ch'ella abbia presente in ogni suo particolare tutta la ricchezza ch'io le lascio.... sì una vera ricchezza.... colle istruzioni intorno al modo di usarne che le ho fatte scrivere da lei medesima. Se io mancassi?... Ah! il Dio d'Abramo tenga lontana cotanta sciagura!... No, no, non mancherò sul migliore delle mie fortune.

Prese nella cassa di ferro medesima due libri e ne scartabellò i fogli gremiti di cifre schierate in colonna.

— Come scrive bene la mia Ester!.... Il padre è un ignorantone; sì, appena è se di tutti questi segni ne sa capire qualche cosa; ma la sua figlia volle che imparasse tutto quello che può convenire alla più ricca e nobil giovane. Le sue mani hanno dita incantate, che fanno tutto ciò che vogliono, e la sua mente è ricca di tutte le più utili cognizioni del mondo.... Ed è ricca! Oh oh ricca più di quanto si credono gl'imbecilli che gridano dietro a me: al vecchio avaro, al sordido usuraio; quell'ignorantone di suo padre ha saputo agglomerare dei milioni....

Pronunziò quest'ultima parola con voce più sommessa, quasi temendo che anima viva la udisse.

— Sissignori, dei milioni: ripetè come per convincere l'incredulità di qualcheduno.

Si fregò di nuovo con vivo soddisfacimento le mani, poi fattosi alla botola ed apertala chiamò sua figlia.

— Ester, vieni qui sopra, subito.

La fanciulla non tardò a mostrare la sua bella faccia melanconica nella camera di suo padre. Questi che l'attendeva in capo alla scala, tornò a chiudere con attenzione la botola, poi prese per mano la figliuola e la trasse con sè nell'altra stanza. Colla mestizia della giovane faceva strano contrasto la lieta animazione che regnava sulla asciutta fisionomia del vecchio.

— Vieni: diss'egli, conducendo Ester innanzi alla cassi aperta; vieni, riconfortati, rallegrati anche tu, figliuola mia, delizia mia, nella vista delle mie ricchezze,.... [93] delle nostre ricchezze. Occhio umano fuori che il mio ed il tuo non le vede, e spero che non le vedrà mai. Gli sciocchi fanno ad indovinare: «Oh il vecchio Jacob ha un buon gruzzolo di denari, ha un tesoro nascosto nella cantina.» Stupidoni! Sì, che c'è; e nascosto così bene che nessuno lo saprà mai trovare; ed il mio gruzzolo ed il mio tesoro sono tali, che voi non v'immaginate pure la metà.... Ah ah! Gli è un bel gusto invero sapere che si è più ricchi di tutti que' superbi che vi pongono il piede sul collo; e quando vi oltraggiano, e quando vi fanno un sopruso, dirsi qui, nel fondo del cuore: «Animale che sei, mi leccheresti la suola delle scarpe se ti aprissi il mio scrigno; ma di tutto il mio denaro tu non avrai nulla, e nessuno avrà nulla, no, neppure un centesimo, ed io invece seguiterò a succiarne da tutti....» Mi chiamano appunto vecchia sanguisuga d'un usuraio. (Ruppe in una secca risata). E mi chiamano a dovere! Vorrei succhiarli tutti fino all'ultimo quattrino. Essi ci hanno proibito di acquistare e di possedere. Mentre per gli altri il lavoro, mercè il risparmio, genera la proprietà; per noi nulla, a loro concetto, avrebbe dovuto farci uscire dalla classe dei proletarii. Hanno creduto così rinserrarci a perpetuità nell'inferno della miseria. Stolti! Stolti! Mille volte stolti! La ricchezza essi la vedevano soltanto consolidata nella proprietà immobiliare; e noi ne abbiamo creata un'altra più maneggevole, più potente, e — merito maggiore — che si nasconde, che scappa alla loro avidità, che s'insinua dapertutto, che per mezzo del più ratto soddisfacimento delle passioni dominerà quanto prima il mondo e loro stessi... e già li domina senza che se ne avvedano. Invano tentarono privarcene colle confische, colle pressioni, cogli esigli, colle torture. Noi la portammo nascosta con noi dovunque, come portavamo la nostra legge, lo spirito della nostra razza, e la speranza dell'avvenire assicuratoci dai nostri profeti. Della miseria a cui ci volevano condannare, noi ritenemmo le apparenze, la resistenza alle privazioni, la tenacia, l'odio rivestito d'umiltà; e ne fummo forti al doppio. L'oro, la leva dell'universo, è in mano d'Israele! Ci trasmettiamo di generazione in generazione i tesori e il còmpito avviluppando lentamente il mondo nelle maglie d'una rete che nulla potrà rompere. Un giorno saremo padroni del credito, saremo padroni del mercato, saremo padroni della società. A me mio padre lasciò un tesoro che basterebbe a comprare i più bei palazzi di Torino; io questo tesoro l'ho raddoppiato...

Si tacque un istante e mandò quel suo soffio affannoso che gli era solito.

Ester ascoltava tutte queste parole colla testa china, senza dare il menomo segno d'interessamento. Jacob le prese il mento fra il pollice e l'indice della sua mano destra e le fece sollevare il viso.

— Ebbene, soggiunse, che cosa ne dici, Esteruccia mia? E perchè non ti rallegri? Hai capito quel che ti ho detto? Sei pur capace di apprezzare le mie parole tu?

La fanciulla rivolse il suo sguardo alquanto peritoso sul padre e disse esitando:

— Pensavo una cosa.

— Che cosa?

— Quelle ricchezze così sotterrate a che cosa servono? Anche per chi le possiede, se non ne trae utilità di sorta, non sono elleno come se non esistessero?

Jacob arretrò d'un passo coll'aspetto d'uno spiacevole stupore.

— Ecchè? Sei tu, figliuola mia, che mi parli in questo modo? A che cosa servono? Dio d'Abramo! Servono ad averle; servono a farcene beare colla loro vista, a darcene il diletto di maneggiarle in segreto, di vedersele aumentare giorno per giorno; servono che ciò che abbiamo in nostro potere noi, siamo certi che è tanto di sottratto agli altri... Oh che non sei del mio sangue se non capisci codesto!.... Per la pietra di Oreb! Oh sentiamo un po' a che cosa pensi tu ch'esse avrebbero da servire?

Ester, in presenza della faccia eccitata di suo padre, non si sentì il coraggio di parlare.

— Di' su, di' su: comandò il vecchio.

— Pare a me: disse allora la giovane timidamente: che il denaro non sia che la rappresentazione dei beni e dei diletti del mondo, un mezzo per procurarseli....

— E vorresti procurarteli, privandoti del denaro? Proruppe Jacob, lo sguardo sfavillante di sdegno. Ma, per la grandezza dell'Eterno! chi ha potuto far penetrare in te queste false idee speciose?

La prese per un braccio e glie lo serrò con una forza di che non si sarebbe creduto capace il suo piccolo corpo.

— Con chi hai parlato?

— Con nessuno, con nessuno: rispose affrettatamente Ester atterrita.

Il padre ne lasciò il braccio e disse coll'accento d'una vera emozione:

— Tu non sai qual dispiacere mi hai dato con queste poche tue parole. Non pronunziarne di simili mai più!.... Voglio sperare — sì, lo credo anzi — che tu non sei conscia della loro importanza e le hai dette per giovanile leggerezza soltanto; ma esse mi hanno fatto travedere un pericolo, cui non ho creduto possibile sinora, ma il quale, se esistesse, guai!.... il pericolo che, spento me, i miei tesori possano andar dispersi, che tu non che continuare l'opera mia, quando io non sia più, empiamente la distrugga. Se ciò avesse da essere, Ester, guarda! preferirei gettare i miei tesori nel più profondo abisso..... e quanto a te, preferirei che tu non fossi nata.....

— Padre! Esclamò la fanciulla tendendo le braccia supplichevoli.

[94] Arom prese un accento dolcereccio e che voleva essere affettuosamente persuasivo:

— Tu non le dirai mai più queste cose, non è vero? E ti guarderai ben bene eziandio dal pensarle, neh Esteruccia mia? Sai se ti voglio bene! Sei la pupilla degli occhi miei. Anche per te io mi sono rallegrato molte volte di avere raccolto tanto tesoro. Tutto questo, mi sono detto, rimarrà a mia figlia. Te — te sola al mondo — ho fatto partecipe di tutti i miei segreti; ti ho aperta sempre l'anima mia dinanzi — come il mio scrigno — e ti ho lasciato vedere per entro. Ho voluto che fin da giovanetta tu gustassi l'impareggiabile diletto di possedere e di saper di possedere. Ho sperato, anzi ho creduto che le mie idee passassero in te, che la mia anima informasse al suo stampo la tua. Tu sei il sangue dei mio sangue, sei la carne della mia carne; devi continuare tuo padre nell'esistenza terrena, come io ho continuato il mio, il quale aveva già dal suo attinto propositi e carattere, e così via via, per generazioni e generazioni. Ma se tu mancassi alla mia speranza, se tu mancassi al tuo dovere; oh te lo affermo, io ti strapperei dal mio cuore, come si strappa un membro guasto dal corpo, io riconoscerei che tu non sei generata dall'anima mia, non ti avrei più qual figlia; e quand'anche fossi morto, la mia maledizione, che affido nelle mani dell'Eterno, ti colpirebbe come ingrata e spergiura.....

— Oh! non dite così, padre: tornò ad esclamare la giovane, più pallida e più turbata di prima. Non badate a quelle mie parole... Dissi a caso... senza rifletterci.....

— Va bene, va bene: continuava il padre; ti credo, mi piace crederti. Mia figlia non può nutrire colpevoli desiderii... Ad ogni modo ascoltami. Se sei degna di me, mi comprenderai. Vi hanno per l'uomo godimenti materiali e godimenti ideali. Quelli soddisfano il corpo, questi lo spirito; i primi sono volgari, son bassi, son vili; gli altri son nobili, sono i soli degni di esseri eletti. La nostra razza, prima e più nobile di tutte, manifesta la sua supremazia nel suo idealismo... Ora anche nel godimento del denaro vi è questa distinzione, e non si contentano della parte migliore quelli che hanno scelto le soddisfazioni materiali. Spendendo il denaro, io non posso avere che questo o quel diletto particolare, concreto, transitorio, consumato il quale nulla più mi resta in mano; conservandomi l'oro invece, appunto perchè esso è la rappresentazione di tutti i beni del mondo, io continuo a possedere in potenza tutte le cose rappresentate, ogni delizia dell'universo; non lo immaterializzo, non lo impiccolisco in cosa particolare, ma ne godo in modo ineffabile, astrattamente, idealmente, perpetuamente, senza soluzione di continuità.

I suoi occhi brillavano per una strana voluttà, le sue mani tremavano per commozione. Ester rimaneva immobile, il capo chino, pallida e muta.

Povera Ester! Come diversamente intonata da quella del padre era in quel tempo l'anima sua!

Fino ad una data epoca, ella aveva vissuto della vita di suo padre, aveva pensato, voluto, desiderato col pensiero, colla volontà, coi desiderii di lui. Il sangue che le correva nelle vene si commuoveva, come quello di chi glie l'aveva dato, allo aspetto dell'oro; aveva ella udito, fin da quando primamente potè intendere parola, magnificar sempre e tanto quella ricchezza di cui sì accuratamente si nascondeva il possedimento che, senza comprendere ben bene che cosa essa fosse, senza domandarsi menomamente allora a che cosa servisse, aveva posto ancor ella nel denaro un culto devoto. Jacob aveva avuto allora nell'anima della figlia un'appendice, per così dire, della propria. Quindi non esitava punto, innanzi ad essa, a manifestare il suo pensiero ed a ricorrere le proprie azioni ed a ripetere i proprii disegni, come fa l'uomo che parla a se stesso e con sè. Le orecchie della giovinetta avevano udito quello che nissuna creatura vivente non aveva dovuto e non dovrebbe saper mai.

Allevata in mezzo alle privazioni poco men che della miseria, sapendo ciò nulla meno che il suo piede calpestava immensi tesori che sarebbero stati, che eran suoi, Ester aveva accresciuta da ciò quella forza di volontà che già aveva recata dalla natura, aveva concentrato e rinvigorito ancora un carattere ardente e risoluto, a cui dava novello rincalzo la dissimulazione, ed aveva acquistata una certa persuasione di potere quasi di sicuro conseguire ciò che volesse, quel dì che potentemente volesse.

Un giorno era avvenuto, nella monotonia invariabile della sua esistenza, un fatto semplicissimo che pure aveva posto in lei il germe d'una interna, compiuta rivoluzione. Un nuovo elemento era entrato nell'anima sua, il quale doveva svolgersi a poco a poco, ingrandirsi, diventar predominante e passar quindi sopra ed innanzi a quegli altri pochi ed aridi affetti che la occupavano dapprima. La sua esistenza erane stata come divisa in due. Il primo periodo tutto silenzio e tenebre; un'indifferenza accompagnata da un assopimento dell'anima. Il secondo un risveglio, una luce nella notte interiore, la rivelazione d'un Dio sopra un misterioso Sinai dell'affetto e del pensiero; l'accensione d'una lava che si comprimeva sotto le sembianze dell'antica apatia.

Questo fatto così fatalmente efficace era stata la comparsa in quella stanza terrena dove Ester soleva lavorare, di Gian-Luigi.

La figliuola di Jacob non aveva allora che quattordici anni, e fino a quel punto l'assopimento dell'anima e del corpo l'avevano mantenuta in una apatia che non era, ma quasi poteva uguagliare la innocenza che ignora. Però sotto quell'indifferenza il precoce sviluppo del fisico e l'audace natura dell'intelletto [95] preparavano celatamente le materie infiammabili della passione. Nel suo sangue era il germe dell'ardore orientale della sua razza. Nella sua bellezza come nella sua natura c'era la tremenda potenza di voluttà della Sunamite.

La bellezza non era ancora apparsa agli occhi suoi sopra nessun volto d'uomo, da nessun occhio di giovane aveva visto raggiare quel baleno di sguardo che penetra nell'anima; una lusinga, una provocazione, una fiamma. Gian-Luigi aveva nella persona la venustà d'una statua greca, nella fierezza del sembiante l'autorità d'una supremazia data dalla natura, nei modi l'agiatezza elegante del gran signore, negli occhi neri il fascino seduttivo di cui Mefistofele aveva armato Fausto contro la povera Margherita. Quella prima volta, Ester non l'aveva visto che pochi minuti, poichè il padre erasi affrettato ad allontanarla; ma l'impressione era tuttavia stata in essa viva e profonda. Più tardi, frequenti volte era avvenuto che il giovane comparisse in quella squallida dimora; e lo faceva con quell'aria di padronanza che a lui era naturale e cui, verso il vecchio ebreo, erano tante le ragioni a giustamente attribuirgli. Ester, partendo, mandata di sopra dal padre sempre sospettoso, scambiava con lui uno sguardo; e quello sguardo era una confessione, era poco meno che una promessa, cui Gian-Luigi non era tale da lasciar cadere inefficace.

Un giorno, parecchi mesi prima dell'epoca in cui si svolge il nostro racconto, Jacob aveva dovuto recarsi a Genova per gli affari suoi, e Gian-Luigi lo sapeva. Il vecchio ebreo contava sulla fedeltà di Debora, obliando come l'oro vinca fedeltà ben più salde che non quella d'una vecchia fante, specialmente di tale che era invecchiata in mezzo a gente che avaramente idoleggia il denaro. Gian-Luigi comprò la serva e fu l'amante di Ester. Da quel giorno, per costei cominciò una esistenza di tormenti indicibili. Ella sapeva quanta ferocia si nascondesse sotto la finta mansuetudine di suo padre; ella conosceva l'odio accanito contro i cristiani che contenevasi nella debolezza di quel vecchio; — e il suo amante era un cristiano! Nessuna speranza adunque di lieta conclusione all'amor suo, fuorchè in una sventura, il pensare soltanto alla quale, non che desiderarla, era una colpa: voglio dire la morte del padre. Questi le aveva detto infinite volte la onnipotenza della ricchezza; ed Ester si sapeva assai ricca. Quella tanta quantità di oro accumulato avrebbe potuto far superare ogni ostacolo. Sì; ma fra quell'oro e lei c'era il padre... Ella scacciava con raccapriccio siffatte idee, e si abbandonava alla fiducia dell'ignoto. Una fiata un leggier barlume di speranza era balenato alla misera fanciulla. Jacob, secondo che soleva di frequente, magnificandole quelle ricchezze che aveva raccolte e la potenza loro, era uscito in queste parole:

— Tutto questo sarà tuo... Bisogna cercarla col lanternino una principessa che ne abbia altrettanto. Tu potresti volere a tuo sposo non so chi, che l'avresti vinta.

— E voi, padre: diss'ella palpitando: voi mi lasciereste sposare quell'uomo che desidererei?

— Certo che sì: rispose il padre colla sua finta bonarietà.

L'anima della giovane si allargò nella subita invasione d'una speranza piena di gioia.

— Perchè, soggiungeva il vecchio, sono più che persuaso come tu non desidereresti se non tale che a te ed a me convenisse pienamente. Voglio dire un israelita del mio stampo, che la pensi come penso io, che sia capace di fare quel che faccio io, e che sapendo continuare la mia opera, sia degno effettivamente di diventarmi figliuolo.

Ester chinò il capo e non parlò più.

Dal momento poi in cui si era accorta d'esser madre, per la figliuola di Jacob s'accrebbero a mille doppi i tormenti, le paure, le angoscie crudeli dell'animo. Gian-Luigi inoltre aveva di molto diminuita la frequenza delle visite che le faceva nelle assenze del padre; e la infelice ragazza s'accorgeva pur troppo che questa era una diminuzione d'amore; se pure mai aveva meritato questo nome sublime, il sentimento che aveva tratto quel seduttore ad abusare dell'imprudente abbandono di Ester.

— Tu mi hai capito bene, figliuola mia, non è vero? Dopo una pausa riprendeva Jacob in quel colloquio con sua figlia, il quale aveva luogo innanzi alle ricchezze della cassa di ferro spalancata. Tu, per essere degna figliuola di tuo padre, per corrispondere al tanto affetto ch'e' ti porta, tu amerai l'oro di quel vero amore con cui deve essere amato, con quel giusto amore che si merita; tu odierai i cristiani con quel vero e giusto odio che si meritano.

Ester si riscosse, impallidì e tacque.

— Un giorno penserò a darti un compagno che corrisponda alle ragionevoli esigenze tue e mie; un compagno che s'immedesimi in noi e nei nostri disegni e propositi, che mi aiuti quando io sia stanco affatto e impotente..... Oh! non sarà tanto presto. Io mi sento forte e robusto, e qui dentro ho un vigore nella volontà, che non accenna a venir manco. Tu altresì sei tanto giovane ancora!.... D'altronde non sarà mica il primo venuto a cui vorrò dare questo tesoro di bellezza, di istruzione e di virtù.....

Accarezzò il mento della figliuola che rimase impassibile e fredda come una statua.

— Il più bel fiore d'Israele, senza contare le sue ricchezze. Voglio che sia un israelita su cui si compiaccia l'occhio dell'Eterno e lo spirito dei nostri padri.... e che conosca per bene le ragioni del nostro commercio.

Ester, come fastidiata da siffatto discorso, interruppe:

[96] — Devo dunque scrivere sul libro dell'avere questi guadagni del giorno? Diss'ella.

— Sì, e scrivi le nuove cifre sulle polizze dei sacchetti.

La giovane si pose all'opera; il padre, guardando di sopra la spalla di lei seduta seguitò cogli occhi la penna che rapidamente tracciò quelle cifre che occorrevano; poscia libri e sacchetti furono riposti nella cassa, questa venne chiusa accuratamente, e le chiavi nascoste dove erano prima.

— Ah! Esclamò allora Jacob soffregandosi di nuovo le mani: ecco una mattinata che è andata bene. Mi sento appetito. Andiamo a mangiare la minestra che ci ha preparato Debora.

CAPITOLO XVI.

Il dottor Quercia era aspettato dalla contessa di Staffarda e i domestici senza indugio gli aprirono le porte che conducevano nel riposto gabinetto di lei.

Candida lo accolse con un freddo saluto, fece affrettarsi la cameriera che finiva la delicata ed importante opera della pettinatura e la congedò sollecitamente.

— Voi avete ricevuto il mio biglietto, contessa? Domandò il giovane appena fu solo con lei.

— Sì: rispose la donna con asciutto contegno; ma il laconismo di esso mi ha spiegato poco e mi ha fatto pensar molto. Spero che voi ora mi chiarirete di tutto.

— Certo! Son persuaso che voi tuttavia avrete fatto ciò di cui vi pregavo.

— Esattamente. Ho parlato a mio marito ed ho scritto a mio padre.

— Che cosa disse il conte?

— Che si sarebbe recato subito dal generale Barranchi.

— Bravo conte! E il barone La Cappa?

— Mi rispose questo bigliettino.

Prese sopra la tavoletta una cartolina ripiegata e la porse a Luigi.

Questi lesse le parole seguenti:

«Qual interessamento prendi tu per quei due giovani scapati? Io li conosco di nome e so che appartengono a quella impertinente razza di liberali che non è male corregger di quando in quando con qualche buona strigliatina. Lascia un poco che la Polizia tenga per alcuni giorni a temperare all'ombra il cervello esaltato di questi giovinotti, e non vi sarà male nessuno. Prima di recarmi a disturbare S. E. il Governatore, aspetto che tu insista, se lo crederai opportuno, nella tua domanda.»

Un amaro sogghigno si dipingeva sul volto di Luigi mentr'egli veniva leggendo la letterina del padre di Candida.

Questa intanto con uno sguardo fisso che avreste detto corrucciato, quasi ostile, esaminava la fisionomia del giovane. La pallidezza delle guancie, la livida riga che ne disegnava le occhiaie, l'espressione di abbattimento doloroso che aveva il suo volto, dinotavano come non fossero state ore di riposo per lei quelle che avevano tramezzato fra il ballo della notte e quell'abboccamento.

— Cospetto! Disse Luigi con ironia, quando ebbe finito di leggere. Il signor barone, vostro padre, è più realista del Re e più poliziesco della Polizia.....

— Signor Dottore: interruppe seccamente la contessa: vi prego di non dimenticare che parlate a me, di mio padre.

Luigi alzò vivamente il capo a guardare in viso la donna, come stupito e dell'osservazione e dell'accento con cui era fatta. Vide quella certa ostilità a suo riguardo, che ho detto, negli occhi di lei, e ne cercò fra sè la possibil cagione. Le pupille dei due giovani stettero un istante fisse le une nelle altre; poi, come sempre le avveniva, come avveniva a tutti, la donna dovette abbassare le sue innanzi al bagliore di quelle di lui. Egli intanto aveva trovato la ragione del segreto corruccio di Candida; s'era ricordato del dialogo che aveva avuto con essa la notte, in quel salotto dell'Accademia Filarmonica, dove la marchesa di Baldissero aveva poi superbamente e indirettamente ripigliata e sermoneggiata la contessa Langosco. Sorrise: studiò un momento qual mezzo avesse da prendere per vincere siffatta ostilità, e decise attenersi alla dolcezza, perchè, rifacendosi a parlare, scelse nella sua voce le note più soavi e simpatiche onde tanta efficacia egli poteva avere sul cuore altrui.

— Ah! io sono ben lontano dal voler dir cosa che possa offendere tuo padre, e dispiacere a te: diss'egli prendendo alla contessa una mano e baciandogliela con amoroso ardore.

Quella voce, alla povera donna innamorata, fu come una tenera carezza in sull'anima; a quel bacio sulla destra un brivido di sensazione dolcissima le corse tutti i nervi. Pure levò via la sua mano di mezzo a quelle e di sotto le labbra di Luigi.

— Che cosa credete dunque che io debba fare? Domandò la contessa.

— Insistere, per Dio! Rispose vivamente Quercia. Insistere in quel modo che tu sai, al quale non v'è resistenza possibile.

Candida sorrise con dolorosa amarezza.

— Risparmiatemi queste assurde adulazioni. Troppo vi siete adoperalo voi stesso a provarmene la falsità col fatto vostro. Ho insistito una volta sola presso di voi — questa notte — e il mio successo fu tale da non insuperbirmi.

Luigi non seguitò la donna su questo nuovo campo ch'ella apriva al discorso. Egli si fece più presso ancora alla contessa, tornò a prenderle quella mano ch'ella gli aveva tolta, e coll'accento più persuasivo e più insinuante ond'egli fosse capace, soggiunse:

— E non è più per lettera che tu insisterai [97] presso tuo padre. Quattro pagine di scritto non hanno l'efficacia di due parole di viva voce dette da quelle labbra di corallo. Tu darai ordine di attelare i cavalli, passerai tu stessa dal barone e non lo lascierai più finchè non esca teco; lo condurrai colla tua carrozza medesima alla porta del Governatore; ed ecco fatto tutto.

La contessa guardava con una specie di meraviglia quell'uomo che con tanta sicurezza disponeva di lei.

— Sapete che voi siete un uomo sorprendente davvero!

— Io! Perchè?

— Voi credete di potere in ogni modo e sempre far di me quel che vi piace.

— Io credo poter fare a fidanza colla vostra generosa bontà.

Candida cedendo all'impeto dei sentimenti che la dominavano, proruppe con accalorato accento:

— Ieri sera io vi ho implorato in nome del nostro amore, quasi colle lagrime, coll'oblio certamente della mia stessa dignità...

— Ah! non dite così, contessa.

— Voi foste irremovibile. Voi vedeste il mio dolore e la mia umiliazione, e nulla potè ispirarvi nemmanco una parola di promessa. Voi sapeste che mi lasciavate ad una notte di angoscia, ma il vostro egoismo non se ne diede per inteso...

— Permettete, contessa...

— Questa mattina ricevo un vostro biglietto..... Ho avuta l'ingenuità d'illudermi un istante. Egli mi scrive, pensai, per temperare con parole d'affetto la sua cruda ripulsa di ieri sera; forse per promettere al mio amore quel lieve sacrificio che gli domandò la mia gelosia. Aprii palpitando quella carta... Ah! non parlava in essa menomamente l'amore.

— Parlava l'amicizia che ho per quei due giovani, i quali hanno bisogno del nostro intervento. Quando io amo — uomini o donne — amo con ardore; e quelli per cui vi scrissi mi sono molto cari.

All'udire fatto cenno da Luigi della sua ardenza nell'amare, Candida atteggiò le sue labbra alla tacita protesta d'un amaro sogghigno. Ora ella volle parlare, ma il giovane non glie ne lasciò tempo, e prendendole anche l'altra mano per istringerla insieme con quella che già teneva fra le sue, continuò egli a parlare sempre più insinuante, più affettuoso, più seduttivo:

— Ascoltami, Candida, per l'amor del cielo, che io t'ami, e come, hai tu bisogno ancora d'udirmele a dire ed a giurartelo sull'anima mia? Non vedi che tutti gli atti della mia vita ad altro non sono intesi fuorchè a questo unico scopo: vederti, esserti presso, vivere in quell'ambiente in cui tu vivi, seguirti in quelle splendide sfere che tu, astro brillante e benigno percorri? L'udire da te manifestato pure un sospetto sulla intensità e sulla fedeltà dell'amor mio, è per me un oltraggio che mi offende, e innanzi a cui s'inalbera e riagisce — troppo forse anco — l'orgoglio della mia natura, la coscienza di non meritarlo. Ecco perchè ieri sera alla tua domanda opposi forse troppo aspro il diniego...

Serrò con una sola delle sue le piccole mani di Candida, e si passò la destra sulla fronte e sugli occhi, mandando un profondo sospiro, come uomo assalito da una delle più penose sensazioni.

— Ieri sera, inoltre, io mi trovava, come mi trovo tuttora, sotto la più trista impressione d'una delle maggiori disdette che mi sieno toccate.

La contessa vide la bella faccia di Luigi, così abile ad esprimere ogni fatta sentimenti, dipingersi di tanto cordoglio ed abbattimento che ne sentì tosto e profondo tocca la sua anima pietosa di donna innamorata.

— Che cosa t'avvenne? Domandò essa vivamente chinandosi verso di lui.

— Nulla, nulla. Non parliamo di ciò...

— Parliamone invece. Tutto ciò che riguarda te, non tocca me pure?... Dimmi la verità, Luigi.

— Perchè amareggiarti inutilmente?... Volevo che tu nulla riuscissi nemmanco a sospettare, e ier sera nascosi tanto bene la mia passione, che tu hai piuttosto accusato l'amor mio che indovinata la mia sciagura. La necessità di combattere i tuoi sospetti, che troppo sono dolorosi al mio cuore, mi fece ora sfuggire dalle labbra quelle parole. Ti bastino per ispiegare il mio contegno, e non voler sapere di più.

— Sì, voglio, e ci ho diritto..... Perchè sarebbe inutilmente ch'io apprenderei questa tua nuova traversìa? Chi sa ch'io non possa venirti in aiuto!...

— No: prorruppe con impeto Luigi: questo poi no. Troppo già mi adonto di quello che hai fatto per lo addietro a mio vantaggio. Non voglio più nulla da te.

Candida così era chiara di che si trattava. Guardò un istante Luigi che teneva gli occhi volti alla terra e poi disse:

— Tu hai bisogno di denaro.

Quercia chinò la testa.

— Di molto?

— Moltissimo: rispos'egli a voce bassa.

— Quanto?

— Cinquanta mila lire.

Tacquero un istante tuttedue.

— Oh! come procurarsele? Disse poi la contessa.

Luigi scosse la sua testa leggiadra.

— A questo penserò io; tu intanto, dolce amor mio, non crucciartene. Ho ancora nel mondo abbastanza amici che, pregati, si faranno premura di sovvenirmi... Ah! gli è codesto che ripugna al mio orgoglio: pregare altrui!... Al postutto questa somma non ho bisogno di torla ad imprestito che per pochi giorni. La settimana ventura io sarò in condizioni tali da poterla rimborsar tosto... C'è bensì [98] una persona alla quale non avrei che da dire una parola, perchè mettesse a mia disposizione tutti gli ori e le gemme che possiede...

Candida impallidì, e i suoi occhi lampeggiarono.

— Ah! Esclamò essa. So a chi volete alludere.

— Ma questa parola, soggiunse affrettatamente Luigi, non la dirò a niun conto.

Successe un silenzio. Candida pareva riflettere profondamente.

— No: proruppe ella ad un tratto; tu non avrai da ricorrere ad altri... Hai detto che di questa somma hai bisogno per pochi giorni?

— Pochissimi.

— Ti do i miei diamanti... Essi valgono il doppio... Impegnali e serviti dei denari...

Luigi si gittò ginocchioni a' piedi della contessa e ne abbracciò il corpo con braccia che si sarebbero potute dire frementi di passione.

— Oh Candida! Esclamò con espressione indicibile di riconoscenza e d'amore.

— Ma io questi diamanti, ripigliava la contessa, bisogna assolutamente che li riabbia lunedì. Quella sera c'è ballo a Corte; io non ci posso mancare, e non voglio comparirci senza i miei diamanti.

— Ed io solennemente ti prometto, sull'onor mio, che lunedì mattina, senza fallo, li riavrai.

La contessa, senza aggiunger parola si alzò, aprì il suo stipo e mise in mano di Luigi le buste dei suoi diamanti.

Quercia la ricompensò con parole e carezze di tanta ardenza che la misera donna ne fu tutta beata.

— Luigi! Disse poi con languido abbandono la contessa, posato il capo sul petto di lui. Non c'è sacrifizio ch'io lieta non facessi per te. E tu, a tua volta, non vorresti soddisfare al mio desiderio in quella sì poca cosa che ti domando?

Gli occhi e la fronte di Quercia si oscurarono, per così dire, in un'espressione di fastidio e di contrarietà, mentre le labbra continuavano tuttavia a sorridere con amorosa dolcezza.

— Diletta mia, rispose egli, non voler ora parlar di codesto. Già ti ho detto più volte come certe mie ragioni particolari mi obbligassero ad andare in quella casa. Ti giuro che io per quella donna non ho il menomo sentimento che ti possa dar ombra, che non si scambia fra noi la menoma parola che possa dirsi d'amore. Ciò non ti basta?

Candida scosse il capo con leggiadra ostinazione, ma il suo amante le chiuse le labbra che stavano per parlare con un bacio.

— Taci, amor mio dolce, e lascia ch'io ti rammenti i miei due amici arrestati. Si tratta d'un'opera di carità. Se tu avessi visto la desolazione dei poveri genitori di Benda, ne avresti avuta commossa oltre ogni dire la tua bell'anima.

Le raccontò tutto quanto era occorso nella mattinata, e poi soggiunse:

— Bisogna che tu faccia comprendere a tuo padre, perchè lo ripeta al suo amico il Governatore, che con questi eccessi il Governo altro non ottiene che di far nascere a suo danno, e di far crescere nelle classi colte un odio il quale potrà riuscire a dilungo a indebolirlo ed a preparargli serii impacci. Aggiungi che questi atti meno lodevoli e giustificabili, sono sempre il fatto di agenti subalterni che vanno al di là delle intenzioni dei superiori, sui quali poi tuttavia ricasca la responsabilità e l'odiosità degli atti medesimi; puoi sopratutto citare quello stesso agente che procedette all'arresto de' miei amici ed alla perquisizione in casa Benda, un certo Barnaba... E ti prego anzi d'insistere su questo punto, perchè se non viene dall'alto un cenno a mettere le pastoie allo zelo di questo poliziotto, siamo noi pure che corriamo un rischio, per evitare il quale farei non so che cosa.

— Oh come? Domandò la contessa. Che rischio possiamo correr noi?

— L'esser io amico di quei due giovani, il mio carattere indipendente e la franchezza della mia parola hanno di certo già tratta l'attenzione della Polizia su di me. Se si lascia procedere per la strada intrapresa, quel cotal Barnaba è capace di venire a perquisire anche il mio domicilio, e la riposta casetta, così tranquillo asilo all'amor nostro. Ora io ho una cosa sola cui ci tengo a nascondere all'occhio di qualunque — le tue lettere; e prima di lasciarle cadere in mano di chicchesiasi, mi farei uccidere.....

— Hai ragione: disse la contessa spaventata all'idea che le sue lettere d'amore potessero venire in possesso d'altri che colui al quale erano scritte, spaventata ancora di più al pensiero del pericolo a cui si sarebbe esposto il suo amante nel volerla difendere. Hai ragione, e bisogna assolutamente che ciò non avvenga.

— E questo può ottenere tuo padre per mezzo del Governatore, e tu devi fare in modo che l'ottenga.

— Lo farò.

— Una buona lezione a quel Barnaba metterà un freno allo zelo e di lui e degli altri.

— Egli avrà questa lezione... Barnaba è il suo nome?

— Sì: lo ricorderai?

— Sta tranquillo. Vado subito da mio padre.

Dieci minuti dopo la carrozza era pronta, e la contessa di Staffarda, vestitasi in tutta fretta, si faceva condurre al palazzo del barone La Cappa.

Gian-Luigi intanto, colle buste dei diamanti avuti da Candida, dirigevasi verso l'alloggio di messer Nariccia.

L'illustrissimo signor barone Anatolio La Cappa aveva comperato lo stupendo palazzo monumentale dell'antica famiglia — ora estinta — dei conti De Meyrat, e l'aveva fatto ristaurare a nuovo, e rindorare, come si suol dire, su tutte le costure. Nel [99] frontone del palazzo, in luogo di quello della stirpe savoina che prima lo aveva posseduto, si pavoneggiava, alto di due metri, lo stemma inventato da qualche araldista nel 1814 per l'illustre prosapia dei La Cappa, sormontato dalla corona baronale; nella traversa su cui si rabbattevano le due larghe imposte del portone da via, di legno riccamente scolpito, brillava nella sua fresca indoratura il blasone dei La Cappa con sopravi la sua brava corona da barone; le colonne di pietra del Malanaggio che sostenevano la vôlta dell'atrio, erano ornate a metà dall'inevitabile corona baronale, sotto cui pendeva lo stemma; nei pilastrini della balaustra di marmo che accompagnava la scala, facevano bella mostra di sè altrettanti blasoncini colla corona baronale ancor essi; questa eterna corona e questo eterno blasone la sfoggiavano sulle livree gallonate dei domestici, sulle cassapanche dell'anticamera, sulle spalliere scolpite delle seggiole nella camera da pranzo, su quelle indorate delle poltroncine nella sala di ricevimento, sulle cornici dei quadri nella famosa galleria degli antenati comperati dal rigattiere, sulle tappezzerie delle muraglie, sulle biancherie da tavola, sulle argenterie d'ogni fatta e sul collare del can griffone, delizia ed oramai unica compagnia in quel vasto palazzo del signor barone.

In mezzo a tutti questi stemmi il padre della contessa di Staffarda, ricco di denari e di superbia, s'annoiava tremendamente col titolo, il grado e la pensione di riposo d'intendente generale — che oggi direbbesi prefetto. A fare un po' di variazione alla noia arrivavano di quando in quando i dolori della gotta, cui un tempo così efficacemente giovava ad allenire la presenza della figliuola. Le chiacchere serali al caffè Fiorio, le visite al suo eccellentissimo amico il Governatore, la partita a whist nel club dei nobili, la lettura della Gazzetta Ufficiale occupavano alcune ore della giornata del signor barone; il resto lo possedeva padrone assoluto — meno nel tempo de' pasti — lo sbadiglio.

Mai non vi fu uomo che più felicemente giungesse al compimento de' suoi desiderii, e che dopo ciò fosse più profondamente stufo ed annoiato. La sua ambizione era giunta ad uno dei primi gradi nelle dignità amministrative: la sua vanità era soddisfatta di un grandissimo numero di croci che gli decoravano il petto: il suo amore della ricchezza aveva visto raddoppiarsi il vistoso patrimonio lasciatogli dal padre; la sua smania di aristocrazia andava soddisfatta per vedere imbrancata alla nobilissima e storica famiglia dei Langosco di Staffarda la sua unica figliuola.

Eppure s'annoiava — tremendamente, profondamente, irrimediabilmente. Finchè Candida era rimasta con lui, molte delle ore della sua giornata avevano una sicura piacevolezza nella compagnia che gli faceva la figliuola; la presenza di quest'essa bastava da sola a spandere un non so che di aggradevole nei vasti ambienti del vasto palazzo; la vita del padre pareva avere in lei incarnato dinanzi lo scopo e la occupazione che le spettavano. Sparita la giovane, quel palazzo divenne silenzioso come un convento di trappisti e deserto come una rovina. Il vecchio barone s'aggirava per le sontuosità di quelle sale come un'anima in pena condannata al domicilio coatto in un luogo abbandonato. Da principio Candida ci tornava di frequente a fare splendere, in mezzo alle dorature del palazzo paterno, la sua fresca bellezza: e avreste detto che quello sfarzo pesante ne rimanesse per un poco rallegrato, come avveniva all'animo del padrone; ma la contessa di Staffarda non recò a gran pezza colà il primitivo suo buonumore di ragazza. La noia che attingeva essa stessa nel palazzo e nella convivenza maritale, la portava seco, tradotta in taciturnità dì parole, in pallidezza di guancie, in espressione di malavoglia nella fisionomia. Il padre si stancava a domandare alla figliuola: «Che cos'hai?» ed ella s'impazientava a rispondere sempre, invariabilmente: «Non ho nulla.» Poscia venne il periodo in cui Candida s'abbandonò pazzamente alla agitazione febbrile della vita mondana, faticosa per incessanti divertimenti, per vertiginoso avvicendare di toilettes e di feste. Colle giornate prese dalla sarta, dalla crestaia, dal negoziante di mode, dalla pettinatrice, fra il riposo della tarda mattina, e il ricevimento del salotto nel pomeriggio, e il teatro la sera, e poscia i balli la notte, la contessa non ebbe più tempo da recarsi da suo padre; e a non molto andare la non ci pensò più nemmanco; le sue visite al palazzo La Cappa non ebbero più altra ricorrenza che quella delle occasioni solenni.

Più tardi sopravvenne ancora la sua fatale passione, che a Candida fece obliare poco meno che il resto dell'universo. Il barone Anatolio fu più trascurato che mai. Egli non osava lamentarsene, e nemmeno dar torto fra sè alla figliuola: una contessa Langosco era al di là dell'arrivo d'ogni rimprovero; ma sentiva ogni giorno più uggiosa la solitudine in cui veniva abbandonato. Le graziosità e il dimenar della coda del suo prediletto cagnuolo non lo consolavano che mediocremente; nemmeno l'umiltà impertinente del servitorame e le corone baronali de' suoi stemmi con tanta larghezza profusi non pervenivano più a temperargli il fastidio accarezzandone la boria. Il peggio era quando quella sfacciata d'una gotta aveva la temerità di assalire le nobili giunture delle sue gambe baronali. Come allora si faceva avvertire la mancanza della mano carezzevole, della voce confortatrice, delle cure sollecite, amorose ed intelligenti della figliuola! Alle sue scampanellate colleriche, il barone non vedeva accorrere che le faccie impassibili dei domestici, i quali nel rispettoso loro contegno di servi di nobil casa mandavano il padrone ai cento mila diavoli; ai suoi lamenti e ai gridi di dolore, egli non udiva [100] rispondere che il silenzio indifferente di chi se ne impipa.

Quel giorno adunque che la contessa aderendo alle brame di Gian-Luigi, recossi in casa del padre, fu per costui la più inaspettata e più gradevol sorpresa del mondo. Non avendo ricevuto controrisposta al suo bigliettino, egli aveva creduto che la figliuola avesse di piano rinunziato alla raccomandazione che gli aveva mandata quella mattina per lettera, e mai più non avrebbe sognato che essa medesima sarebbe venuta da lui in persona.

Quando si venne ad annunziare al barone che la carrozza della contessa era entrata nel cortile e che la contessa medesima saliva le scale, egli che sbadigliava innanzi al fuoco, studiosamente avvolto nella sua veste da camera di seta e di velluto, fece un sobbalzo sopra la sua poltrona. Si fece ripetere l'annunzio, quasi temesse di non aver ben capito; non pensò il meno del mondo ch'ella venisse per quei due borghesucci di cui gli aveva scritto alcune ore innanzi, e di cui egli non si ricordava più nemmanco; ma pensando che di questa straordinaria venuta doveva esserci uno straordinario motivo, s'affrettò a muovere incontro alla figliuola che già calpestava il ricco tappeto della sala vicina.

— Che? Sei tu per davvero, mia cara contessa! Esclamò il barone, tendendo verso sua figlia le maniche di seta lucicchianti della sua veste da camera, nelle quali si agitavano le sue braccia. Che buon vento ti mena così di mattina da me? Hai tu forse bisogno di qualche cosa?

Candida, che sapeva il facil modo onde avere a sua discrezione l'anima del padre, gli gittò le braccia al collo e gli fece due baci sonori sulle guancie accuratamente rase di fresco.

— Sì, papà: rispos'ella. Ho precisamente bisogno di te, e son venuta a parlarti.

Il barone la prese per mano e disse con tutta sollecitudine:

— Vieni, vieni nel mio gabinetto. Ehi! Comandò al domestico che aveva introdotta la contessa e che stava ancora dritto impalato sul passo della porta: chiunque venga a cercarmi, gli direte che non ricevo.... Sono tutto tutto per mia figlia.

— To', una bella idea! Soggiunse il barone. Tu starai qui a farmi compagnia al déjeuner. Manderemo ad avvertire il conte ch'e' non t'aspetti.... E se vuol venire ancor egli a far da terzo alla nostra tavola, ma foi! ci sarà il benvenuto.

Il barone aveva creduto bene di prendere ancor egli il vezzo aristocratico di frammischiare nel suo linguaggio parole e locuzioni francesi.

— Grazie, papà: rispose Candida. Accetto il tuo invito...

Il volto del padre raggiò di gioia.

— Oh brava!...

— Ma ad un patto, soggiunse vivamente la contessa... anzi due.

— Sentiamo questi due patti... I quali sono già consentiti d'avance.

— Il primo che non disturberemo per nulla il conte a farlo venir qui terzo incomodo fra di noi...

— Va bene: non disturberemo il signor conte.

— L'altro patto è che tu mi prometta di fare, e subito subito ciò di cui sto per pregarti.

Corbleu! Gli è dunque un affare che ti sta a cuore?

— Assai.

— Eh eh! Sarebbe un compromettersi l'impegnarsi così alla cieca ad accontentare un desiderio non ancora conosciuto d'una giovine donna, ma bah! con te, figliuola mia, mi posso avventurare... Accordato anche questo! Farò quel che tu vuoi.

Si volse al lacchè, il quale attendeva sempre gli ordini nella postura del soldato senz'armi innanzi al suo superiore:

— Rinviate la carrozza della contessa, dite allo staffiere annunzi al conte di Staffarda che la contessa non rientrerà per il déjeuner e prevenite il maggiordomo che la contessa farà il déjeuner con me.

Poscia, accompagnandola con tutta galanteria, egli introdusse sua figlia nel camerino in cui stava annoiandosi dapprima, e dispose per lei egli stesso una poltroncina vicino al fuoco, dirimpetto a quella cui tornò ad occupare colla sua importante persona.

Candida, colle aggraziate movenze che le erano proprie, si levò cappello e mantiglia, gettò questa e quello sopra un sofà, e venne a sedersi in faccia a suo padre che ne seguitava ogni movimento con uno sguardo che si sarebbe potuto paragonare a quello d'un ghiottone che comincia a divorare cogli occhi la leccornia che si appresta a divorar colla bocca.

Quando la figliuola gli si fu seduta dinanzi, l'illustre barone si rassettò di meglio tra le braccia soffici della poltrona, e mandò un sorriso di beatitudine che significava: — Oh bene! Ora ce l'ho, e per un poco la non mi scappa più.

— Dunque a noi! Diss'egli incrociando le mani sulle lucide falde della guarnacca, che gli coprivano l'addome. Exposez votre requête, madame la comtesse, ed io sto qui pronto a non altro che a dir sì..... Già m'immagino che non sia nulla di grave. Non è con quel visino sorridente lì che si viene a parlare di cose gravi..... A proposito, sai che ti trovo buonissimo aspetto! L'espressione animata, l'occhio brillante..... Sei un po' pallida è vero; ma ci scommetto che gli è la fatica dei balli. Quasi ogni giorno una festa; e sono persuaso che la notte scorsa, all'Accademia, avrai ballato fin presso al mattino. Io me ne sono ritirato poco dopo la venuta della Corte. Appena S. M. mi ebbe fatto l'onore di rivolgermi la parola e di ricevere il mio ossequio, quatto quatto io me ne sono partito. Eh! la mia età e la mia gotta non si accomodano più di queste nuits blanches.

[101] Il bravo barone si affrettava a spacciar subito subito un poco di quell'arretrato di ciance, cui la solitudine della sua vita non gli lasciava più smaltire periodicamente. La figliuola lo ascoltava con un sorriso compiacente a fior di labbro, ma senza prestargli attenzione, e la sua mente era lontana, era nell'elegante casina di Luigi, dove poteva avvenire da un momento all'altro che una mano profana si impadronisse delle sue lettere d'amore.

Ella interruppe adunque suo padre.

— Ciò che son venuta a domandarti, lo sai già; te l'ho scritto poc'anzi in una lettera.

— Che? che? Si tratterebbe di quei due giovani avvocatuzzi che tu mi hai appreso essere arrestati?

Candida fece un segno affermativo colla testa.

— Tu insisti adunque, perchè io mi adoperi in loro vantaggio presso il Governatore?

La contessa ripetè più vivamente i suoi segni di affermazione.

— E sei venuta qui da me a bella posta?

— Precisamente.

— Ma che interesse pigli tu in codesto? Che attinenze hai tu con siffatta gente?

— So che non meritano la brutta misura onde furono fatti segno. M'interesso per una buona e brava famiglia, la quale è nella desolazione.

La faccia del barone mostrò che la commissione datagli dalla figliuola non gli andava troppo a genio.

— Uhm! Diss'egli di mala voglia; poichè tu insisti, poichè tu la prendi sì calda.....

— E tu hai promesso di accontentarmi.....

— Poichè te l'ho promesso, farò a tuo senno. Scriverò, dunque un bigliettino a S. E.

Candida si ricordò delle parole che aveva dette a lei medesima Gian-Luigi.

— Ah no, un bigliettino. Hanno più efficacia quattro frasi dette a viva voce che non quattro pagine di scritto per quanto eloquentissime.

Corbleu! Vuoi dunque che mi rechi io stesso dal Governatore, in persona?

La contessa regalò a suo padre uno de' più seducenti sorrisi onde fosse capace la sua bellezza.

— Sì, papà. Perchè si tratta non solamente di rimediare ad un mal fatto....

— Mal fatto! mal fatto.... Io trovo che si fece benissimo ad arrestarli.

— Arrestare degl'innocenti è sempre male, e non serve ad altro che a creare nemici al Governo, che commette di questi falli.

Il barone inarcò le sopracciglia e arrotondò la bocca in una esclamazione di stupore.

— Cospetto! Tu mi fai della politica.

Candida fece vezzosamente un cenno affermativo, continuando nella malìa di quel suo sorriso.

— Stavo appunto per soggiungere che si tratta inoltre di dare un savio consiglio al governatore; consiglio cui nessuno può suggerire con tanta autorità al pari di te, che hai tenuto sì alte cariche nell'amministrazione e con sì buon successo.

La Cappa si rimpettì e sorrise con compiacenza.

— Certo che nella mia carriera ho mostrato di valerne bene un altro; e se in tante cose mi avessero dato retta, ma foi!.... Ma sentiamo un poco questo consiglio che tu vorresti suggerito.

— Gli è di rendere la polizia meno vessatoria, perchè non infastidisca e non perseguiti cotanto i tranquilli cittadini.

Il padre di Candida fece un leggero sobbalzo per meraviglia.

— Sei tu, contessa, che mi parli de cette façon?

Ed ella, come se non avesse avuto luogo l'interruzione, con crescente calore continuava:

— Il torto di questi eccessi non è da accagionarsi ai capi, ma agli agenti subalterni. Sono essi che, non frenati, abusano di quell'arbitrio cui loro dànno le proprie funzioni. L'arresto, per esempio, di questi due giovani e la perquisizione sono dovuti ad uno di tali impiegati secondarii, un certo Barnaba, il quale mi si dice essere appunto di quelli che si piacciono nell'insolentire contro i cittadini quanto più sono onesti e pacifici.

— Ma dove hai tu appreso tutto questo?

A Candida soccorse il rimedio d'una bugia e non si arretrò innanzi ad esso.

— Da mio marito: rispos'ella. Il conte s'interessa molto ancor egli per quei due giovani.....

— Ah sì?

— Ed anzi recossi egli stesso dal conte Barranchi.

— Oh allora quasi non occorre più ch'io mi muova.

— Da parte di mio marito medesimo ti prego eziandio di far questo passo presso il Governatore. Il fatto di questa mattina ha gettato necessariamente un allarme in tutta la popolazione colta della città. Se un giovane il quale non si occupa che di far l'elegante, come l'avvocato Benda, può essere arrestato e subire una perquisizione in casa, chi è più sicuro?..... Una perquisizione domiciliare può mettere in luce, o quanto meno alla discrezione di gente che non è fior di roba, tanti segreti famigliari che non riguardano in nessun modo il Governo e la cui divolgazione può essere fatalissima... Tutti gli amici e conoscenti degli arrestati a questa ora sono in pena per la propria sorte... Mio marito, per esempio ha molto timore.....

— Egli! Interruppe il barone con incredula vivacità. Il conte di Staffarda non ha da avere nessuna di queste paure....

— Non per sè: soggiunse la contessa; ma per un suo amico.

Esitò un momentino, e poi, volgendo un po' in là il viso mentre un lievissimo rossore le correva alle guancie, pronunziò il nome:

— Il dottor Quercia.

— Ho udito parlare di questo signorino. Un giovane [102] che non pensa ad altro che a darsi buon tempo. Non so come si possa avere alcuna inquietudine a questo riguardo.

— Per causa dell'amicizia che esso ha col Benda.

— Bene, bene; di' pure al conte che j'en toucherai deux mots col Governatore: e che il suo amico non avrà più ragione alcuna d'inquietudine.

Candida, in un èmpito di contentezza, prese la mano del padre e la serrò forte colle sue.

— Oh grazie! diss'ella con vivacità.

Il barone la guardò stupito.

— Anche tu prendi interesse a questo signor dottore?

— Sì: rispose Candida volgendo di nuovo la testa in là, poi si affrettò a soggiungere: or dunque, papà, da bravo non perder più tempo, va subito dal Governatore; raccomandagli la liberazione degli avvocati Benda e Selva, raccomandagli non s'inquieti in niuna maniera il dottore Quercia, e che si ponga freno alla prepotenza di quel Barnaba.

— Farò tutto quello che vuoi.

— Suono perchè venga il cameriere a vestirti!

— Suona pure.

— Io ti attenderò qui colla risposta.

— E sarò sollecito a venire. Facendo déjeuner ti ripeterò il colloquio che avrò avuto col Governatore.

Il Governatore accolse il barone La Cappa con tutta la urbanità d'un gentiluomo per un altro; ma quando il padre di Candida ebbe finito di esporre le ragioni della sua venuta, S. E. rispose tentennando il capo:

— Duolmi, caro barone, non potervi accontentare; ma vi sono delle circostanze, da voi probabilmente ignorate, le quali me lo impediscono.

Prese sopra la scrivania un foglio di carta e lo porse al barone.

— Ecco qui un rapporto su questo proposito di quell'agente medesimo di cui voi mi denunziaste lo zelo come eccessivo. Datevi la pena di scorrerlo cogli occhi un momento, e vedrete come stieno diversamente le cose da quello che voi credete.

Mentre il barone stava esaminando il rapporto di Barnaba, il Governatore veniva via esprimendone per sommi capi le risultanze e le conclusioni.

— Voi vedete! Quel cotal Benda ha osato venirne a vie di fatto contro il figliuolo del marchese di Baldissero nel palazzo dell'Accademia Filarmonica, mentre era onorato dalla presenza di S. M. È un crimenlese che da solo richiede l'arresto, il processo e la condanna. Non basta! Quell'avvocatuzzo sfida a duello il marchese di Baldissero figlio, e questa mattina s'incontrano presso il camposanto affine di battersi. S. M. si è degnata di pubblicare un codice penale dove c'è un articolo — non so quale — che parla chiaro a questo riguardo. Reato positivo previsto dalla legge. Nella perquisizione che ha luogo in casa dei Benda, che cosa succede? Quell'altro, che è evidentemente un complice, l'avvocato Selva, cerca scappare portando seco i libri i più sovversivi e rivoluzionari che sieno al mondo posseduti dal Benda, ed un manoscritto che riesce a distrurre, ma cui perciò questo fatto medesimo denunzia come criminoso all'estremo. Così stando le cose, era un assoluto dovere il procedere all'arresto anche del Selva. Io avrei approvato che si fosse fatto il medesimo eziandio per quel signore cui mi venite a raccomandare, il dottor Quercia. Il suo contegno in quelle circostanze fu tale da fortemente indiziarlo per partecipe alle mene di quegli altri malintenzionati; e secondo il rapporto di Barnaba, egli sarebbe concorso efficacemente a render possibile a Selva la distruzione di quella carta, il cui possesso ci avrebbe forse svelato il segreto di quei cospiratori....

— Cospiratori! Esclamò il barone La Cappa sussultando. Che? Voi credete che quei giovani...

— Cospirano contro il legittimo governo di S. M., ne sono persuaso.

Corbleu! Se io avessi mai sospettato una cosa simile, vi prego bene di credere, Eccellenza, che non avrei voluto dire nè anco una mezza parola in favor loro.

— Ne sono persuaso; ma perchè siate chiaro di tutto, vi dirò che quel Barnaba medesimo, uno dei più accorti ed intelligenti impiegati di Polizia che abbiamo, denunzia certe segrete conventicole solite a tenersi in casa del Selva, nelle quali avrebbe parte un agente mazziniano venuto qui di celato sotto sembianze d'un artista di canto.

Je tombe des nues.

— L'audacia di quei rivoluzionarii è incredibile.

Mostrò al barone sconcertato un grosso manoscritto, che era lo zibaldone in cui il povero Maurilio soleva effondere gli affetti della sua anima e far concreti i pensieri più riposti dal suo intelletto.

— Questo scartafaccio, soggiunse, fu sequestrato nella perquisizione che si fece in casa del nominato Selva. È l'opera d'un da nulla, un giovinastro senza famiglia e senza nome che lì dentro inneggia alla libertà de' popoli....

— Oh! Esclamò Anatolio La Cappa, levando indignato le mani al cielo.

— E si arroga niente meno che di scombiccherare un progetto di riforma della società..... Fra parentesi vi dirò che vuole abolito ogni diritto di privilegio nelle classi superiori; e da questo giudicate dello spirito che ne informa lo scritto!....

— È un demagogo! Gridò ancor più indignato il bravo barone.

— E non è tutto! Il medesimo progetto riforma, rinnovella, o per dir meglio rivoluziona anche il Governo.

— Ah! c'est trop fort!

[103] — Vi dico che se leggeste codesta roba, inorridireste....

— Inorridisco anche senza leggerla.

— Comprenderete quindi anche voi che, malgrado la vostra raccomandazione di cui tengo il massimo conto, non posso promettervi.....

— Comprendo, comprendo: s'affrettò a sclamare il barone, il quale fra sè intanto borbottava: dans quel guêpier mi ha mandato a me fourrer quella matta di mia figlia!

— E circa il signor Benda, continuava il Governatore, ho inoltre verso il marchese di Baldissero mio buon amico qualche debito di riguardo che mi impone di esaminare con assai ponderazione il suo caso. Quell'avvocatuzzo ha insultato, minacciato, sfidato a duello il figliuolo del marchese, di uno dei più alti personaggi dello Stato. Che cosa non avrebbe ragione di dire Baldissero, che cosa non direbbe S. M. medesima, se io così tosto mettessi in libertà chi si è fatto reo di tale eccesso, ancorchè non ci fosse altra ragione nessuna da tenerlo custodito in cittadella?

— È giusto, è giusto: disse il barone approvando col capo e colla mano.

— Quindi non posso nè anche accogliere le vostre osservazioni intorno ai diportamenti della nostra polizia. Essa è affidata ad un uomo fedelissimo ed intelligente del suo mestiere, senza del quale io non so come il conte Barranchi ed io stesso potremmo bastare all'ufficio. Voi capite ch'io intendo parlare del commissario Tofi. Esso ha tutta la mia fiducia e quella del Generale dei carabinieri; e finchè io avrò l'alto onore di godere la fiducia di S. M. e di coprire questa carica, nè quell'uomo, nè il sistema di polizia attualmente in vigore non saranno punto cambiati.

Il padre di Candida tornò ad inchinarsi tra mortificato e confuso.

— Quanto a quell'agente subalterno, di cui mi avete parlato, a quel Barnaba, io sono d'avviso che egli si è regolato affatto bene, e invece che censura merita lodi e ricompensa.

— Voi avete ragione... Ero mal informato.... Vi prego a non dare al passo che ho fatto presso di voi altra importanza che quella di amichevoli chiacchere in aria.

Il Governatore fece un sorriso protettore d'annuenza.

— Se mi permettete, continuava il barone, vi farò soltanto ancora un'interrogazione.

— Fate, fate pure, caro La Cappa.

— In codeste mene rivoluzionarie voi credete compromesso quel tal dottor Quercia?

— Come vi ho detto, il suo contegno nella circostanza della perquisizione in casa Benda me ne fa sospettar forte..... Ma non voglio precipitare il giudizio, lo faremo sorvegliare.

— Vi spiego la cagione dell'interessamento che prendo per lui. Quel giovinotto ha molta attinenza con mio genero, il conte di Staffarda.

— Lo so: disse il Governatore con un certo sorriso di cui il barone non notò la malizia.

— Capite che un uomo onorato della intimità del conte Langosco non è presumibile sia un rivoluzionario.

— Certamente io ho la maggior stima pel conte di Staffarda.....

— Ed è a nome appunto del conte che vi prego di avere alcun riguardo per quell'individuo, e di non farlo segno di nessuna misura di polizia, prima che sia accertata la sua colpa.

— Terrò conto della vostra raccomandazione, caro Intendente..... in quanto sarà compatibile coll'esigenza de' miei doveri.

Il padre di Candida capì che non avrebbe ottenuto altro miglior risultamento; e stava per torre commiato, quando si annunziò nel gabinetto del Governatore S. E. il marchese di Baldissero, ministro di Stato.

— Avanti, avanti: disse con premura il Governatore, alzandosi da sedere.

— Sono certo, soggiunse parlando al barone, che il marchese viene appunto per questo affare medesimo.

E fece quello che non aveva fatto all'ingresso del barone; andò sino alla soglia dell'uscio del gabinetto a ricevere colla mano tesa il signor di Baldissero che vi compariva colla sua grave ed imponente fisionomia da vero gentiluomo.

CAPITOLO XVII.

Ettore di Baldissero, figliuolo del marchese, era tornato a casa sua disgustato, mortificato, corrucciato dell'arresto di Benda, mercè cui non aveva potuto aver luogo il duello tra essi indetto. Indignati del pari n'erano i padrini del marchesino.

— Se sapessi a cui attribuire questo mauvais tour, sclamava Ettore scalpitando con rabbia la neve nella camminata a piedi che col conte San-Luca e coll'altro suo compagno dovette fare per restituirsi in città, affè che gli vorrei mostrare il modo di regolarsi!...

— Certo e' ti fu reso con ciò un cattivo servizio: disse San-Luca; e se fosse tuo padre che avesse avuto questa infelice idea....

— Non è mio padre: interruppe seccamente il marchesino.

— Eh! chi sa? I padri, quando si tratta di salvare da un pericolo che li minaccia i loro figliuoli, hanno la smania di non arrestarsi innanzi a nessun'altra considerazione.... Tu poi in qualità di primogenito, hai per tuo padre una esistenza ancor più preziosa....

Ettore proruppe ancora più secco di prima:

— Ti dico che non è mio padre, il quale possa [104] nemmanco pensare soltanto cosa che non sia secondo i più rigorosi dettami delle più strette obbligazioni d'onore. Tu San-Luca dovresti conoscerlo abbastanza per non farle neppure queste supposizioni ch'io a mia volta poi non posso e non voglio ascoltare.

San-Luca parve comprendere che aveva torto e chinò il capo senza aggiunger parola.

— Sai tu chi sia il colpevole? Soggiunse il marchesino ad un tratto, come illuminato da una subita idea. Gli è piuttosto tuo zio il Generale.

— Barranchi? Esclamò San-Luca levando vivamente la testa. Certo che sì. L'hai indovinata appuntino di sicuro. Gli è il suo genere. «Arrestatemi quell'uomo» è il suo motto d'ordine universale.

— Egli mi sentirà! Che modo gli è questo di venirmisi ad attraversare nelle mie contese d'onore? L'avesse fatto arrestare dopo il duello, non ci avrei nulla da ridire. Intanto bisogna ad ogni modo che egli mi restituisca il mio avversario per lasciarmi dar esito alla mia faccenda. Adesso adesso corro da lui e non lo lascio in pace più finchè non me l'abbia posto in libertà.

Il nipote del Generale fece un atto d'incredulità.

— Uhm! Diss'egli. Mio zio non è così facile ad abbandonare la preda....

— Tu mi ci aiuterai: soggiunse Ettore con vivacità. Sei il suo beniamino tu, sarai il suo erede; ti fa delle ramanzine e ti paga i debiti; gli tieni luogo di figliuolo.

San-Luca continuò a scuoter la testa.

— Si, mi vuol molto bene; ma quanto all'indursi a fare qualche cosa che non gli piaccia solamente pei miei belli occhi, è un altro paio di maniche. S'egli ha fisso il chiodo di voler fare ammuffire quell'avvocatino in cittadella, non saranno nè i tuoi rimproveri, nè le mie ragioni che ne lo smuoveranno.... Ci vorranno argomenti di maggior peso.... Sai chi potrebbe ottenere questo risultamento? Tuo padre.

— Mio padre? Ripetè il marchesino con una certa esitazione. Ah tu credi?....

— Oltre l'autorità che dànno al marchese il suo grado, i suoi titoli e i suoi meriti, presso mio zio avrà molto effetto quella deferenza ch'esso ha per lui. Se tuo padre si reca egli stesso dal Generale a pregarlo di liberare il signor Benda, è quasi certo che ci riuscirà. Fa a modo mio, parlane col marchese, ed invoca il suo intervento.

Ettore parve accogliere questo consiglio con mediocrissima soddisfazione.

— Desidererei non immischiare in codeste cose mio padre: diss'egli. Proverò dapprima di agire io stesso direttamente presso tuo zio; e se poi non ne otterrò nulla, allora manderò da lui mio padre.

Con questi discorsi erano giunti nella città, e ciascuno dei giovani si diresse alla propria casa alfine di cambiarsi abiti e calzamenta immollati dalla neve.

Il marchesino di Baldissero entrando nelle stanze a lui destinate nell'antico, grandioso palazzo avito della sua famiglia, trovò il cameriere specialmente addetto alla sua persona, il quale lo aspettava nella camera che precedeva quella da letto.

— S. E., disse il domestico inchinandosi, ha mandato a vedere se Ella era in casa.

Ettore fece un legger moto di contrarietà.

— È molto tempo? Domandò egli.

— Sarà mezz'ora.

— E mandò detto qualche cosa?

— Nulla. Michele (era il cameriere del marchese) non fece altro che domandare d'ordine di S. E. se V. S. era in casa. Udito che no, se ne partì senza soggiunger parola.

— Sta bene. Portatemi biancherie, abiti e calzature da cambiarmi.

Entrò nella sua camera preoccupato, coll'aspetto d'uomo scontento di sè e delle cose sue, pieno di malavoglia e incerto di quello che debba o non debba fare. Si domandava se aveva da recarsi presso suo padre a dirgliene come fosse tornato, ad udire se alcuna cosa volesse da lui. Ben gli diceva una intima voce che questo era il dover suo: ma a compirlo sentiva una ripugnanza poco meno che invincibile. Dopo lo scandalo avvenuto la sera innanzi all'Accademia filarmonica e da lui promosso, Ettore non aveva più visto suo padre, di cui conosceva troppo l'indole e i pensamenti, per non essere sicuro di averne la maggior disapprovazione e per non temerne quei severi rimbrotti che tanto erano più efficaci quanto erano più parchi sulle labbra sdegnose del vecchio gentiluomo. Ora poi a quel timore si aggiungeva una specie di vergogna che aveva di dovergli narrare la strana maniera con cui si era conchiuso l'intimato duello, per la quale maniera, benchè egli non ci avesse colpa, sembravagli tuttavia che una qualche offesa ne risultasse a quella suscettiva delicatezza dell'onore che era quasi una seconda religione per suo padre, e che in verità era carissima a lui pure, comechè per tanti rispetti diverso dal padre suo. E poi era egli ben vero che nell'arresto di Benda, Ettore non ci avesse nessuna colpa? Si ricordava come il suo amico San-Luca, lui presente e non dissenziente, avesse raccontato al conte Barranchi la scena intravvenuta, e raccontatala non in modo affatto imparziale. Non era suo debito allora imporre all'amico di non dir nulla al comandante della Polizia, di contestare la verità della cosa come veniva esposta, di protestare al Generale dei Carabinieri che nulla era successo per cui egli avesse diritto di immischiarvi comecchessia la sua autorità? E se il padre gli avesse domandato se così avesse fatto, che cosa avrebbe dovuto rispondere Ettore, il quale, per quanto fosse lontano dalla vera nobiltà d'animo di [105] suo padre, non era pur tuttavia così oblioso della sua dignità e del suo sangue da mentire sfacciatamente?

Cominciò per abbigliarsi, rimandando al poi ogni decisione.

— Non c'è stato nulla di nuovo in casa? Domandò egli al domestico che lo vestiva, come per isviare la mente da quelli che la occupavano ad altri pensieri.

— Nulla: rispose il servo: eccetto che la contessina di Castelletto è uscita colla sua governante e con Giacomo saranno venti minuti e non è ancora tornata.

— Oh oh! Esclamò il giovane con qualche interesse: che passeggiata mattiniera!... e per questo tempo!

Il cameriere prese un'aria umilmente insinuante e piena di zelo, e soggiunse a mezza voce:

— Se sor marchesino lo desidera, io farò di sapergli dire dove la contessina siasi recata.

Ettore non rispose, e il domestico interpretò quel silenzio per un assentimento. Il moderno servitorame è di regola generale un parassita che sfrutta e svolge i difetti e le triste passioni dei ricchi. Quel servo aveva indovinato — e qual segreto si può egli nascondere all'occhio del proprio cameriere? — come il suo padroncino non fosse niente affatto indifferente alla bellezza della sua cugina, madamigella Virginia, la quale teneva verso di Ettore un contegno che nella sua gentile famigliarità era tale pur tuttavia da non incoraggiare in lui nessuna speranza.

Per un momento il pensiero del marchesino, obliando ogni altra cura, corse in traccia della leggiadra giovane. Che Francesco Benda amasse Virginia, Ettore aveva facilmente scoperto. Vi è un istinto nell'animo di ciascheduno che gli fa indovinare per quanto si celi, il suo rivale in amore; e Francesco amava troppo appassionatamente per saperlo con arte nascondere. Codesto amore di un borghese per sua cugina, il superbo primogenito di Baldissero aveva naturalmente trovato una impertinenza degna di qualche buona lezione ch'egli stesso si prometteva e si augurava di dare a quell'avvocatuzzo alla prima occasione; e l'accorto lettore ha già indovinalo che tale era stata la prima e principalissima cagione del suo villano diportarsi verso Francesco nella festa da ballo. Ma ciò ch'egli ignorava si era con qual disposizione d'animo Virginia accogliesse il sentimento del giovane borghese, sentimento cui certo ella non aveva mancato di scorgere. Ch'ella potesse corrispondere a cotale affetto, Ettore credeva non fosse nemmanco da pensarsi, come non era supponibile che una fanciulla di sì nobile prosapia si abbandonasse alla vergogna d'un fallo disonorevole. Ella sapeva, ella doveva ben sapere che fra lei e quell'uomo da nulla vi era una distanza ed una barriera assolutamente insuperabili; egli stimava sua cugina di tanto da crederla incapace di pur pensare ad un eccesso di degradazione, come sarebbe quello di diventar moglie d'un non nobile — che per lui era poco meno che sinonimo d'ignobile. E dunque?... Ma ciò non ostante la sua gelosia gli aveva fatto giudicare che in quella gentilezza con cui Virginia accoglieva il modesto, timido, rispettoso omaggio di Francesco, c'era qualche cosa di più che non nella cortesia abituale ond'ella soleva trattare con tutti; c'era un non so che di nascosto, d'indefinibile, quasi una tinta di simpatia; e di questo suo sospetto il marchesino aveva una rabbia che s'accresceva ancora, appunto perchè doveva dissimularla, e perchè non avrebbe voluto a nessun costo che uomo al mondo ne avesse sentore.

In questo istante in cui il domestico stava abbigliandolo, Ettore si rammentò appunto dello sguardo di rimprovero che la sera innanzi Virginia gli aveva slanciato, quando egli aveva provocata quella scena scandalosa; sguardo che diceva più di molte parole; e ricordò eziandio le poche, asciutte parole ch'essa gli aveva rivolte quando l'aveva accostata di poi.

— Ettore, gli aveva essa detto, hai tu perduto il senno? Ora ti prego di lasciarmi, il meglio che tu abbia da fare è lo startene lontano.

Ed aveva tanto pregato la zia che ne aveva ottenuto di esserne tosto ricondotta a casa.

Il marchesino pensava come la cugina lo avrebbe accolto nel primo loro rivedersi; e tanto più grave riuscivagli l'affrontarne la presenza, ora che il duello dal suo oltraggio reso necessario non aveva potuto aver luogo e il suo avversario per la piega presa dagli avvenimenti compariva sempre meglio nella simpatica figura di vittima — e di vittima coraggiosa.

— Le donne, diceva fra sè il giovane contrariato, hanno un così dilicato sentire in queste faccende!.... Certe volte un sentire strano e quasi matto..... Che cosa dirà ella, che apprezzamento sarà il suo, di tutto codesto?

Ma qui gli tornò in mente che aveva da affrontare un altro giudizio ancora più difficile e più momentoso di quello della fanciulla: il giudizio di suo padre.

Era vestito di tutto punto e il domestico gli aveva domandato se doveva porgergli il pastrano e il cappello.

— Sì: rispose asciuttamente il padrone.

Quando fu pronto per uscire e' si disse:

— Meglio ch'io vada subito da mio padre. Una volta scoppiato il fulmine la paura è passata; ed egli poi in realtà saprà darmi quel buon consiglio che mi ci vuole ed aiutarmi presso Barranchi.

S'avviò con passo risoluto, attraversò la camera che precedeva, passò per quella in cui accoglieva gli amici a discorrere e fumare, percorse una specie [106] di galleria che metteva nella gran sala, ed entrato in questa si diresse verso il quartiere che tradizionalmente era sempre occupato dal capo della famiglia.

Ma se nei primi passi la sua andatura era stata risoluta, in seguito era essa venuta rallentandosi a seconda che egli avvicinavasi all'appartamento di suo padre; fu esitando che attraversò la gran sala, fu con mano peritosa che aprì l'uscio di questa sala che metteva nell'andito per cui si accedeva al gabinetto di lavoro del marchese, fu in punta di piedi che si avanzò nell'andito per fermarsi innanzi all'uscio serrato dello studio di suo padre. Due volte alzò la mano per porla sulla maniglia della serratura, e due volte la lasciò ricadere. Finalmente scosse le spalle, come impazientito di se medesimo e si disse rampognante:

— Sono un ragazzo..... Andrò prima da Barranchi, e parlerò dopo, se farà bisogno, con mio padre.

E si allontanò da quell'uscio più lesto di quel che ci fosse venuto.

Da poco tempo il marchesino erasi dipartito dal palazzo, quando vi rientrava madamigella Virginia. L'agitazione dell'animo nella pietosa fanciulla non era punto scemata, ma invece accresciutasi dopo il colloquio avuto con Maria nel misero abituro di Paolina. Appena giunta nella sua camera, Virginia aveva mandate a domandare novelle del cugino Ettore. Il domestico che aveva accompagnata la ragazza nella sua gita ebbe col cameriere del marchesino una interessantissima conferenza, nella quale il servo di Ettore apprese dove fosse andata madamigella, chi colà avesse incontrato, che cosa vi si fosse detto e fatto, e lo staffiere mandato da Virginia seppe che il signor Ettore era venuto a casa con aspetto molto cupo e quasi contraffatto, che aveva mostrato un certo turbamento nell'udire come suo padre avesse mandato cercando di lui, che, cambiatosi gli abiti bagnati e i calzari inzaccherati, come se fosse stato a girare per istrade di campagna, egli era uscito di nuovo, dopo aver mostrato di voler andare dal padre e fuggito poi dalle stanze di lui, come uomo a cui non regga il cuore d'entrarvi.

Queste informazioni fedelmente riportate a Virginia ne accrebbero l'inquietudine; anzi questa convertirono in una dolorosa certezza di sventura toccata a Francesco. Se il duello aveva avuto luogo, come essa non aveva ragione alcuna di dubitare che non fosse, l'essere tornato Ettore sano e salvo, non era egli indizio manifesto che l'avversario di lui era soggiaciuto? Se alcun dubbio poteva conservarsi a tal riguardo, non lo toglievano essi per l'affatto i contegni del marchesino di cui tanto s'era stupito ed affermava essersi sgomentato il cameriere del giovane?

Virginia volle essere compiutamente chiarita della verità, ed al medesimo domestico il quale esponevale quanto aveva appreso dal cameriere del marchesino impose si recasse sollecitamente, senza il menomo ritardo, alla casa dei Benda con una letterina ch'ella scrisse in tutta fretta per Maria domandandole informazione delle cose avvenute.

Il domestico giunse alla fabbrica quando, non che cessata, non era neanco diminuita nella povera famiglia di Francesco la profonda emozione per l'arresto del giovane e per la fatta perquisizione. Maria, rispondendo all'affettuoso biglietto di Virginia, narrò tutto l'avvenuto e caldamente la pregò a volere adoperarsi ancor essa in favore di suo fratello. Virginia non istette a pensarci dell'altro, ma con quella lettera in mano corse nel gabinetto dello zio, il marchese di Baldissero padre.

Precediamo la nobile ragazza nello studio del signor marchese.

Era un ambiente di pochi metri quadrati; in faccia all'uscio per cui s'entrava era l'unica finestra per cui veniva illuminato: una finestra alta e larga innanzi a cui cascavano cortine di seta damascata di color tanè, e tende candidissime di rensa finissima. Presso alla finestra stava una larga scrivania sul cui piano molte carte in disordine. Tutto intorno alla parete correvano eleganti scancìe di legno d'ebano scolpito e intarsiato negli spigoli d'avorio e madreperla, chiuse da invetrate, traverso i cui tersi cristalli si vedevano schierati sui varii piani i libri adorni di legatura d'una severa eleganza. Le scancìe erano interrotte là, dove a mezzo della parete si apriva l'ampio camino adorno di mensola e di stipiti di marmo nero d'un classico disegno architettonico. Sopra il camino attraeva l'attenzione una gran croce di legno d'ebano, su cui tendeva le braccia un Cristo d'avorio, oggetto artistico di molto valore. Al di sotto di questo gran crocifisso pendevano due cornici ovali di ebano ancor esse, entro cui i busti dipinti a olio d'un uomo e di una donna colle foggie di pettinatura e di abiti della fine del secolo scorso. Erano i ritratti del padre e della madre del marchese. A dare a quella stanza un aspetto maggiore di severità, di raccoglimento, di solenne mestizia, concorreva la tappezzeria di cuoio cordovano di color tanè, fissata alla parete nelle due estremità superiore ed inferiore da una filza di borchie d'acciaio ossidato. Di legno d'ebano intarsiato, come le scancìe, nelle spalliere, erano le poltrone e le seggiole. Un grande stipo di legno uguale ed ugualmente lavorato s'innalzava innanzi al camino. Una lampada di bronzo calava dal soffitto a metà della stanza, e un soffice tappeto a lana lunga e di colore scuro copriva il pavimento.

Il marchese stava seduto innanzi al camino, in una mossa che avreste detta afflitta, sostenendo il gomito destro al bracciuolo del seggiolone e la fronte alla palma della mano. Il suo occhio guardava il fuoco che gli ardeva dinanzi fra gli alari [107] di bronzo artisticamente lavorati, e pareva seguitare con interesse i varii guizzi della fiamma; in realtà esso seguitava le diverse immagini che passavano nella sua fantasia in una dolorosa meditazione.

Era un uomo di circa cinquant'anni, sui lineamenti del quale scorgevasi la vita non essere passata per esso senza lotte, senza emozioni e senza travagli, e l'esperienza del mondo non essere via trascorsa come acqua corrente su pietra, senza aver lasciato in quell'anima la amara dottrina delle cose terrene e la più amara conoscenza degli uomini e delle loro passioni. Una ragguardevole fisionomia la sua, nella quale i resti d'una rara avvenenza virile preparavano la imponente bellezza d'una nobile vecchiaia. Aveva il profilo caratteristico d'un cammeo romano e la guardatura speciale dell'uomo avvezzo al comando. L'espressione precipua del suo volto, con cui sempre e naturalmente si armonizzavano i suoi contegni, le mosse del suo corpo così come la voce e la sostanza delle parole, era l'espressione d'una dignità ognora presente a sè stessa. Si sarebbe potuto dire ch'egli aveva preso fin dalla sua giovinezza a sostenere una parte — la parte dell'uomo superiore agli altri uomini, ed agli avvenimenti ed alla fortuna — ma che questa parte non la sosteneva pel pubblico, ed innanzi a lui, per lasciar la maschera, quando faccia a faccia con sè solo, sì invece la aveva assunta e voleva sostenerla per sè e innanzi a sè, di guisa da sopravvegliar continuo sopra ogni sua cosa, affine di non mancarci mai, e quindi agire, volere, pensare sempre in modo coerente alla nobiltà di quel personaggio. Era un orgoglio accompagnato dal sentimento incessante d'un incessante dovere; non era una superbia cagionata da impertinente concetto di sè e disprezzo d'altrui. Era l'incarnazione di quel bellissimo motto francese: noblesse oblige.

Gli abiti onde vestiva erano mirabilmente assortiti alla severità di quel gabinetto ed alla gravità della sua figura. Un soprabito nero abbottonato alla militare sul petto avvolgeva la sua alta e ben complessa persona: pantaloni neri cascavano sui suoi piedi veramente aristocratici per piccolezza e per forma: un'alta cravatta bianca sosteneva il suo mento, non colpevole mai d'una barba da radere.

Quella mattina, in cui per la prima volta noi facciamo la personale conoscenza del marchese, era egli assorto, come già dissi, in una meditazione, che pareva dolorosa. La sera innanzi aveva appreso la condotta di suo figlio verso quel giovane borghese, cui egli stesso onorava d'un amichevole saluto, e di ciò era egli stato dolentissimo, come di cosa affatto indegna d'un vero gentiluomo e del nome del loro casato. Non aveva però voluto far parola nessuna intorno a questo argomento con suo figlio, perchè ben supponeva che un duello sarebbe intravvenuto, e credeva maggior convenienza lo aspettare a rivolgere i dovuti rimproveri al figliuolo dopo l'esito dello scontro. Era nelle sue idee che egli dovesse non darsi per inteso di nulla fino a cose compiute, perchè sapendo del duello, lo avrebbe dovuto impedire, e il concetto ch'egli aveva dell'onore lo distoglieva assolutamente dallo stornare comecchessiasi il figliuolo dal battersi.

Ma si ha bello essere tutto invasato da queste false idee di suscettività d'onore che non permettono all'ingiusto oltraggiatore di riparare all'oltraggio, e gli comandano invece di andare ad ammazzare l'uomo oltraggiato; quando si è padre non può essere con indifferenza che si passa la notte, finita la quale si sa che il proprio figliuolo si esporrà a pericolo di morte; non può essere con calma che si attendono le notizie dello scontro dal quale il proprio figlio può essere trasportato indietro cadavere. Questo basti per farci sapere quale fosse stata la notte, qual fosse attualmente la condizione dell'anima del marchese. Fra lui e il suo primogenito non correva attinenza di molto affetto, non quella fiducia e quell'abbandono che procura fra due anime compagne e degne l'una dell'altra, tanto stretto vincolo di sangue; la severa dignità del padre impacciava l'indiscreta tracotanza del figliuolo, e le sregolatezze di condotta come le impertinenze di modi in quest'ultimo, offendevano il dilicatissimo sentimento del dovere che governava l'animo del marchese. Ma ciò nulla meno spenta non era nel padre quella potente affezione che fa dell'esistenza dei figli l'esistenza dei genitori; e il suo spirito aristocratico, per quanto elevato, non andava esente da quel pregiudizio nobiliare trasmesso nel sangue traverso tante generazioni, che dava un pregio maggiore alla vita del primogenito che non a quella degli altri figliuoli. In realtà al suo cuore erano più cari i due altri suoi nati che si preparavano alle spalline da ufficiale nell'Accademia militare, e specialmente il secondogenito nel quale pareva al padre, ed era in fatto, che maggiormente rivivessero le qualità del suo animo e del suo spirito, come più esattamente si riproducevano le sembianze del viso; ma tuttavia — tanta è la potenza dei pregiudizi, anche nelle anime elette! — se il marchese fosse stato posto nel dolorosissimo caso di dover sacrificare la vita d'un suo figlio ed a lui fosse stata la scelta del capo da immolarsi, ne avrebbe avuto infranto il cuore, ma avrebbe salvato il primogenito a costo del sangue degli altri due.

Oltre ciò una ragione speciale affatto gli faceva più penosa, più paurosa l'idea del duello che doveva compiersi, che stava per aver luogo, che forse già era avvenuto; e questa ragione era una tristissima memoria d'un orribile dramma successo nella sua vita, egli attore principale. Molti e molti anni erano passati dopo quell'avvenimento: ma il ricordo erane fresco ancora nell'anima del marchese, come con raccapriccio parevagli che fresco ancora stesse sulla sua spada, perfino sulle sue mani il [108] sangue ch'egli — uomo di anima benigna e di pietoso cuore — fatalmente aveva dovuto versare.

Ma di codesto tremendo segreto della sua vita, di cui la gente conosceva appena un'ombra, e la famiglia, val quanto dire la moglie sua, i figli e la nipote non avevano il menomo sentore: di questo segreto apprenderemo forse alcuna cosa, ascoltando il soliloquio con cui il padre del marchesino manifesta le intime sensazioni che gli si avvicendano nell'anima.

Tutta notte quell'incessante pensiero aveva travagliato l'animo del marchese: al mattino, affrettatosi, come vedemmo, a mandare a chiedere di suo figlio, dalla assenza di lui così mattiniera, aveva arguito la certezza che in quel punto medesimo avveniva il duello.

Nell'atteggiamento che ho detto, il capo sostenuto colla mano, egli così pensava:

— In questo istante che sarà di lui? Ho io ancora il figliuolo mio primogenito? Oh! se dovessi vedermelo a recare in casa esanime e sanguinoso, morto senza più vedermi, morto senza l'ultimo mio amplesso, morto senza la mia benedizione.... Ed egli non ha cercato punto punto di vedermi, nè ier sera, nè questa mattina! Forse il suo cuore non glie ne ha fatto un bisogno: forse non ha sentito il dovere nè il desiderio di udire ancora la mia voce, di chiedere almeno al mio affetto un addio ed un perdono.... e per tante cose ha egli bisogno di perdono, pur troppo!... Oh forse temette le mie rampogne e ch'io potessi impedirgli di battersi; no, non glie ne avrei mosso di rimproveri a quel momento solenne, non avrei tentato in niun modo di trattenerlo, e s'egli codesto ha temuto, è nuovo segno che non conosce per nulla suo padre. Non gli avrei fatto che una raccomandazione sola: «Guardati dall'uccidere il tuo avversario, se puoi salvare senza la sua morte, la tua vita! La memoria d'un uomo ucciso di nostra mano, sia pur anche in duello, si incastra tremendamente nel nostro pensiero e non si diparte più e nulla val più a cancellarla, e per quanto sia onesta la vostra vita, vi fa provare la puntura sciagurata del rimorso.»

Si passò la mano sulla fronte e mandò un profondo sospiro.

— Questo, io lo so per prova, continuò egli; siffatto tormento, negl'intimi penetrali della coscienza, fu ed è il mio.... Quando son solo, ed anco talvolta in mezzo al rumor gaio delle feste, fra i più gravi discorsi delle cose più importanti, nelle domestiche riunioni, io vedo drizzarmisi innanzi il fantasma sanguinante di quel povero Maurilio Valpetrosa; lo rivedo guardarmi cogli occhi sbarrati come mi guardò in quel terribil momento in cui lo sostenni colla mia spada che gli attraversava il corpo; lo rivedo agitare convulsamente le labbra macchiate di schiuma sanguigna, come per mandare un grido, una parola, e non poterlo, e cadere lungo e disteso come cadavere. Egli aveva una madre che lo attendeva, una madre cui era unico amore e conforto; aveva una sposa..... e quale!..... a me così strettamente per sangue congiunta!... che stava per renderlo padre... E sposa e madre dovettero vederselo recare morente...

Si tacque un istante e si serrò con ambedue le mani la faccia, cresciuta l'angoscia dall'orrido pensiero che gli sopravvenne.

— E se Dio per punirmi riserbasse a me quella vista, e mio figlio, oggi, fra pochi minuti, mi fosse portato innanzi a quel modo, esanime, per morirmi nelle braccia?

Raccapricciò, come scosso da un brivido di febbre violenta.

— Punirmi! E perchè vorrebbe Iddio punirmi? Non mi dettarono quella mia condotta le più sacre leggi dell'onore? Non me la dettò la stessa autorità paterna? E se pur sempre vi ha colpa nello spargere il sangue umano, le circostanze che a ciò mi spinsero non devono esse avermelo fatto perdonare? Padre Bonaventura ben me ne affermò colla sua autorità di sacerdote; ma s'io me ne confessassi a don Venanzio, direbb'egli eziandio il medesimo? E fra questi due, quale il più degno ed autorevole intermediario fra il peccatore e Dio?

Sollevò lo sguardo al Cristo d'avorio appeso alla croce d'ebano.

— Sono io stato colpevole, o Dio? E se sì, non mi hai tu ancora perdonato?.... Ad ogni modo, deh! non volermi colpire nei figliuoli miei!....

I suoi occhi scorsero sul ritratto del padre che stava presso la croce. Era una imponente e leggiadra figura d'uomo anche quella, ma in cui l'orgoglio aveva qualche cosa di aggressivo, e la fierezza aveva una tinta di crudele. A quelle sembianze dipinte rassomigliavano di più le fattezze del marchesino nipote che non quelle del marchese, figliuolo al personaggio ritratto. Il marchese si levò da sedere e ponendo il suo volto presso a quello dipinto di suo padre, i cui occhi, pur dalla tela luccichiavano d'una indomabile superbia, soggiunse:

— E voi, padre mio, chè non trovate un modo da parlare alla coscienza di vostro figlio? Da lungo tempo voi siete passato in quella regione, dove si deve scorgere il vero; colà come ravvisate voi l'opera mia?.... l'opera nostra, poichè voi mi avete chiamato, mi avete spinto a compirla. Conservate voi ancora gli stessi odii, le stesse opinioni? Se adesso una simile avventura si presentasse alla vostra famiglia, e voi poteste consigliarmi, da quel mondo ove siete, mi dareste lo stesso comando?... E l'anima della mia vittima, l'avete voi incontrata in quel regno delle ombre?.... E se sì, qual contegno potè essere il vostro?

Pose i due gomiti sulla mensola di marmo del camino e nascose il volto tra le mani, assorbito in un inesprimibile tumulto di pensieri e di sentimenti. [109] Venne a riscoterlo una mano che bruscamente, vibratamente, quasi sarebbesi detto con premura affannosa, batteva all'uscio del gabinetto.

Il marchese fece un soprassalto, e le sue guancie impallidirono.

— Ah! pensò egli: qui è la trista novella che batte alla porta.

Fermò il viso, si volse verso l'uscio, prendendo la mossa dignitosa d'un uomo di coraggio superiore che è preparato a tutto, e disse con voce che non tremava punto punto:

— Avanti.

L'uscio si aprì di scatto ed entrò Virginia colla lettera di Maria in mano.

La bella giovane era dilettissima a suo zio. Rimasta orfana, egli l'aveva amata d'un affetto più che di padre; aveva trovato per lei nella sua natura severa, riserbata e un po' asciutta da gentiluomo delle tenerezze di madre amorosa, onde Virginia aveva preso nei rapporti con esso una più espansiva e domestica affettuosità ch'ella non avesse con altri, e sopratutto colla superba sicumèra della zia, una famigliarità gentile di tratti cui nessun altro osava ed avrebbe osato mai avere col signor marchese.

Questi nel vedersi entrare in quel momento la nipote nello studiolo, rasserenò d'un lieve sorriso la faccia, e sentì di botto tranquillarglisi l'anima. Credeva impossibile che una sventura potesse prendere per messaggiera quella bella ed adorabile persona.

— Ah sei tu, Virginia, figliuola mia? Le disse con molto affetto tendendole la mano. Sii la benvenuta nel recarmi il tuo saluto mattinale.

Per la mano che Virginia pose in quella da lui tesa, lo zio trasse a sè la fanciulla e le diede un tenero bacio sulla bella fronte. Ma vide allora il turbamento delle sembianze della donzella, e tutto il suo primitivo timore lo riassalì.

— Tu hai qualche cosa? Diss'egli nascondendo pur tuttavia lo spasimo dell'ansietà ond'era travaglialo. Parla senza ambagi, qualunque avvenimento esso sia che tu abbia ad apprendermi.

— Sì zio: rispose la fanciulla: sono venuta da Lei a bella posta perchè sapesse tutto e provvedesse a tutto.

Il marchese sedette sul suo seggiolone, mantenendo sempre ferma la dignità del suo contegno, e fe' cenno alla nipote sedesse anch'ella in prospetto; poi appoggiato il mento alla sua destra, sostenendo colla mano sinistra il gomito, guardando verso la fiamma stette, impassibile in apparenza, ad ascoltare.

Virginia trasse una lunga aspirazione come per prender fiato, e in vero il cuor palpitante le agitava il respiro; poi narrò per disteso tutto ciò che ella sapeva avvenuto fra il cugino Ettore e l'avvocato Benda, dall'oltraggio della sera innanzi all'arresto di quest'ultimo certificato dalla lettera di Maria.

Il calore posto da Virginia nella sua narrazione, e quello soprattutto della perorazione finale con cui supplicava il marchese a voler far restituire alla famiglia il giovane arrestato, erano tali da essere notati dallo zio, e diffatti ne fu esso colpito, ma non ebbe campo la sua mente a soffermarsi su di ciò per la quantità e la natura de' nuovi pensieri che le cose udite fecero nascere in lui.

Di quante maniere avess'egli saputo immaginare in cui avrebbe potuto aver termine la contesa di suo figlio col giovane borghese, questa che gli si narrava, non era mai nè anco apparsa al suo pensiero; e se non fosse stato della lettera della sorella di Francesco, certo non vi avrebbe creduto così di piano. Non dubitò neppure che in questo fatto avesse alcuna colpa il figliuol suo, poichè, conoscendo pur troppo tutti i difetti di lui, sapeva pur tuttavia che non mancava in esso il valore; ma ciò nullameno provò una grandissima dispiacenza di codesto avvenimento. Senza manco parlare suonò vivamente un campanello, di cui pendeva il cordone presso il camino.

— Mio figlio è rientrato? Domandò al domestico che si affacciò per ricevere gli ordini.

— Signor sì: rispose il servo. È tornato adesso adesso.

— Ditegli che venga qui, da me, tosto.

Il domestico si partì dopo un inchino.

— E tu vanne, soggiunse il marchese alla nipote, voglio parlare con Ettore da solo a solo.

Virginia si alzò e camminò verso l'uscio; ma quando fu sulla soglia, quando già aveva aperto il battente, si fermò e rivoltasi verso lo zio, disse con accento di tutta grazia e di supplicazione amorevole:

— Ella renderà quel giovane alla sua povera famiglia, non è vero?

Il marchese fece un segno di condiscendenza col capo e parve in sull'atto di voler muovere qualche parola; ma in quella s'affacciò all'uscio medesimo in cui stava Virginia la figura orgogliosa, in questo momento un po' turbatella, del giovane Ettore. La fanciulla sgusciò via lesta; e padre e figlio rimasero soli.

CAPITOLO XVIII.

Ettore aveva udite le ultime parole dette da Virginia al marchese; mentre la fanciulla gli scivolò daccanto nel partirsi, egli la saettò d'uno sguardo che era tutt'insieme un'indagine osservatrice, una interrogazione ed uno sfogo di sdegno. Tornato a casa dopo il suo colloquio col Generale dei carabinieri, il marchesino aveva appreso dal suo cameriere dove la cugina si fosse recata nella sua gita mattiniera, chi avesse colà incontrato e i discorsi che erano passati fra Virginia e Maria, secondo che lo staffiere aveva esattamente riferito; epperò udendo [110] le parole dalla cugina pronunciate non ebbe il menomo dubbio che le riguardassero il suo avversario e rivale.

In verità non era senza qualche apprensione che il giovane, ubbedendo sollecito alla chiamata paterna, presentavasi nel gabinetto del marchese. A dispetto della sua leggerezza orgogliosa e della irriverente petulanza del suo carattere, egli provava alcun impaccio a comparire innanzi alla conosciuta severità di suo padre, dopo tal fatto in cui sentiva istintivamente di non aver egli la più bella parte.

Stette egli un poco sulla soglia, e padre e figlio si guardarono un istante in silenzio. Gli occhi di Ettore si chinarono innanzi a quelli del marchese. In quello sguardo erasi compreso con meravigliosa sintesi tutto ciò che si sarebbe detto a parole, tutto ciò che era negli animi loro: di qua un'amara scontentezza, di là una pervicacia inflessibile, ravvolta nelle forme d'una subordinazione, da cui era escluso l'affetto.

Fu il figliuolo che ruppe primo il silenzio.

— Di che giovane parlò ella Virginia? Posso io domandarle, padre mio, chi si tratta di restituire alla propria famiglia?

Il marchese accennò al figlio la seggiola che aveva innanzi a sè, e da cui s'era alzata poc'anzi la nipote.

— Venite innanzi, Ettore, diss'egli, e sedete. Vi permetto giustamente la domanda che mi fate, perchè ha riguardo appunto a ciò di cui debbo parlarvi, e per cui vi ho fatto venire.

Ettore si avanzò lentamente, pose una mano sulla spalliera della seggiola che gli aveva additata suo padre, e in quell'attitudine disse con disinvoltura, prima di sedersi:

— Ah! L'ho dunque indovinata. Ella vuol parlarmi dello stranissimo incidente che mi capita. Sta bene; al momento che il suo cameriere venne a recarmi l'imbasciata, io stavo appunto per mandare da Lei a chiedere se mi avesse voluto favorire dieci minuti di colloquio.

Chi non l'avesse saputo, non avrebbe indovinato mai che padre e figlio erano que' due, al vederne i contegni, all'udirne l'accento delle parole. Il giovane sedette, prese l'atteggiamento d'un uomo sicuro d'ogni sua cosa, e continuò a dire:

— Mi permette Ella che parli io per primo?

Il marchese fece un cenno di consentimento, e disse asciuttamente:

— Parlate.

Ettore in poche parole espose a modo suo i fatti che noi conosciamo; poscia soggiunse:

— Sono corso dal generale Barranchi (e ne torno adess'adesso) per ottenerne che il signor Benda fosse posto sollecitamente in libertà. Barranchi da principio si mostrò assai disposto a contentarmi, e già era sul punto di dar gli ordini opportuni, quando ravvisatosi, mi disse che v'era una circostanza, cui non aveva di subito ricordata, e la quale impediva si ottemperasse alla mia richiesta. Questa stessa mattina, per tempo, diceva egli, il commissario Tofi erasi recato da lui a prevenirlo essere necessario procedere all'arresto di quel cotale e di parecchi altri per cagione di certe mene politiche ond'eran rei; che quindi essendo il Benda sotto la grave accusa d'un delitto di Stato, egli non poteva prendersi l'arbitrio di mandarnelo sciolto così senz'altro. Io insistetti con tutto il calore di cui sono capace. Mi restituisse almanco per ventiquattr'ore il mio avversario, e poi ne facesse quel che più gli talentava: dovermi assolutamente siffatta riparazione pel torto che mi aveva fatto, chè da gentiluomo e da buon amico, quale egli ha sempre voluto essere con noi, non avrebbe dovuto fare intravvenire la sua polizia fin dopo che fosse stata vidée fra di noi la contesa d'onore ed avrebbe dovuto ignorare assolutamente che avesse luogo il nostro duello. Gli ricordai il tempo della sua gioventù: che cosa non avrebbe fatto e detto quando era luogotenente nelle Guardie d'onore, se alcuno fosse venuto a levargliene così dinanzi l'uomo con cui doveva battersi? Che non direbbe e non farebbe anche adesso, se mai potesse trovarsi in una simile occasione? Se un disappunto uguale fosse accaduto al suo nipote San Luca, non si adoprerebbe ancor egli a far sì che in alcun modo non patisse pure un appannamento la lucentezza dell'onor suo? Insomma, perorai tanto che il conte mezzo scosso venne in questo temperamento: di mandar subito a chiamare il Commissario e di consultare con esso lui intorno a codesto; se appena appena, senza pericolo della sicurezza pubblica, dello Stato, e che so io, si potesse accondiscendere al mio desiderio, allora io non avrei preso commiato senza udire spiccato l'ordine di rilascio del Benda. Il Commissario venne sollecito[6]; e venne portando seco un fascio di libri e di carte, cui disse testè sequestrati nelle perquisizioni fatte in casa di Benda e di non so bene quali amici suoi. Da codeste carte e da codesti libri, affermò apparire più chiara che mai e più grave che non si credesse la colpa di quei signori; non potersi pensare assolutamente a nulla di simile a ciò che accennava il generale; si compiacesse quest'ultimo di gettare soltanto gli occhi sui titoli dei volumi e su alcune pagine d'un manoscritto che gli additava, e vedrebbe tosto di quale importanza fossero quegli arresti ch'egli si vantava d'aver consigliati. Il Generale guardò quei libri, fece scorrere gli occhi su quelle pagine, e vidi la sua fronte corrugarsi e i suoi baffi fremere d'indignazione.

«— Corpo d'una bomba! Esclamò colla sua voce tonante. Se mai vi fu gente degna d'esser mandata [111] a Fenestrelle, si è quest'essa. Io mi felicito assai d'aver avuta la buona idea di dar l'ordine che fossero arrestati. Abbia pazienza, marchese, soggiunse volgendosi a me, io vorrei di gran cuore poterla contentare; ma i diritti di S. M. innanzi ad ogni cosa; noi teniamo alcuni birbanti rei di crimenlese, e non possiamo lasciarli andar più neppure per un momento. Trasmetterò tosto tosto questi documenti e i rapporti che li accompagnano al Governatore, e chiederò senza ritardo un'udienza a S. M. per renderla informata di tutto.

Tentai tuttavia insistere, ma per quanto dicessi tutto fu nulla. Allora tornai a casa avendo in animo di pregar Lei, la cui parola è più autorevole, di voler interporsi affine di ottenermi soddisfatto quello che mi pare legittimo mio desiderio.»

Il marchese aveva ascoltato suo figlio, sempre nel medesimo atteggiamento, silenzioso ed immobile, ed alle sembianze mal si sarebbe potuto scorgere quale impressione fosse la sua; quando Ettore ebbe finito, il padre si tacque ancora per un po', quasi riflettendo seco stesso sulle cose udite, poscia, levando lentamente il viso e fissando sul volto del giovane uno sguardo severo, imponente e dignitosamente corrucciato, egli disse:

— Ettore, molte cose vostre mi dispiacquero e mi tornarono indegne di voi e del nome che avete l'onore di portare; quest'ultima più di tutte mi spiace e la trovo indegnissima del vostro titolo, del vostro casato.

Il figliuolo fece un trasalto sulla sua seggiola, le guance gli arrossarono, si morse le labbra, e facendo forza per contenersi, proruppe tuttavia con voce resa balzellante dall'emozione:

— Le sue parole sono severe, padre mio, e mi pare che posso dire troppo severe. Ho il diritto di domandarle come mi può colpire di così tristo giudizio, ch'io ho la coscienza di non aver meritato.

Il padre lo guardò più severo di prima. Innanzi a quella grave fisionomia non ci sarebbe stato individualità, per quanto audace, che non si fosse sentita alcuna soggezione, come d'inferiore appetto ad un dappiù.

— La vostra coscienza v'inganna: diss'egli con voce lenta, contenuta, ma piena d'autorità e di forza. Pensate bene ai fatti vostri; voi, ieri sera, avete mancato inescusabilmente a quel debito d'urbanità, a quelle nobili maniere che per noi — per noi: ripetè battendo sulla parola — sono una legge nelle attinenze verso chicchessia...

Ettore interruppe vivamente, come uomo in cui la passione trabocca:

— Ecchè? Ella vuol darmi sì brutto carico per un po' di lezione data alla tracotanza d'un borghesuccio...

Il marchese guardò suo figlio aggrottando la fronte ed alzò una mano ad imporgli silenzio.

— Voi vi permettete d'interrompermi: diss'egli con fiera freddezza.

Il giovane si tacque.

— La tracotanza, continuava il padre, non fu per nulla da parte altrui. E voi dovreste sapere che ad un Baldissero si spetta dar lezioni di gentilezza come di generosità, di tratti squisiti come di valore; che abbandonarsi a certi atti plebei gli è un discendere noi stessi al grado della bassa gentuccia che li usa; che codesti atti in uomo della nostra sfera imprimono una macchia più a chi li adopera che a colui contro il quale sono adoperati. Ciò voi dimenticaste, e questa dimenticanza merita la condanna che vi ho espresso.

Ettore masticava i suoi baffetti in una contrarietà profonda e vivace, cui si sforzava a contenere perchè non prorompesse in isdegno. Suo padre essendosi taciuto, credette di poter a sua volta parlare senza incorrere in altra censura.

— Ella non conosce le nuove temerità di questa nuova borghesia che vien su colla ricchezza, aiutata colla stupidità dell'uguaglianza civile accordatale dall'improvvido codice, parodia delle leggi francesi. Ella giudica le cose colla norma del tempo della sua giovinezza, dopo avvenuta la ristaurazione, quando leggi e costumi concedevano efficacemente alla nobiltà quel posto che le compete. Ma ora non è più così. Le leggi, per deplorevole errore della Monarchia, ci vengono spogliando di quei diritti che i nostri nemici chiamano privilegi e che sono necessarii a costituire una vera ed efficace aristocrazia, senza la quale, Ella sa meglio di me non potervi essere mai un sodo e conveniente organamento della società. I costumi seguitano pur troppo lo esempio delle leggi, e gl'interessi contrarii delle classi inferiori, contenuti un tempo, ora trovando in quelle infauste leggi un appoggio, spingono al di là e fanno a soverchiarci se noi, tutti d'accordo e con ogni mezzo, non siamo pronti e risoluti al riparo. Que' riguardi che si avevano un tempo e che si devono avere alla nobiltà, ora diminuiscono nel popolo con sempre crescente proporzione. È molto scemato quel senso di rispetto che in presenza di un nostro pari faceva chinare le teste del volgo. I borghesi, col mezzo degli studi dell'Università, si vedono aperta la carriera delle alte cariche, quasi come noi: con troppo scandaloso eccesso, noi vediamo della gente da nulla oggidì, la cui plebea natura mal riesce larvata da un titolo recente, nei primi posti della magistratura e dell'amministrazione. Non c'è che l'esercito e la diplomazia che rimangano immuni ancora da questa vergogna. Mercè le industrie, delle quali il Governo ha la stoltezza di proteggere e favorire lo sviluppo, i plebei arrivano alla ricchezza, cui le disposizioni legislative non assicurano più bastantemente in possesso all'aristocrazia: e da ciò pigliano audaci pretese di farla alla pari, di stare a tu per tu con noi. Guai alla nobiltà se essa risolutamente, violentemente non rigetta col suo contegno in quel basso loco che le spetta la [112] classe inferiore e impertinente dei borghesi! Bisogna camminarle addosso e schiacciarla, prima che ci soprammonti. Ecco le mie idee! Questo signor Benda, ricco figliuolo d'un fabbricante, conta fra' primi di quelli che si chiamano liberali, val quanto dire dei più impertinenti e de' maggiori nostri nemici. Percotendolo col mio guanto sulla guancia io ho schiaffeggiato quella sciagurataccia di moderna invenzione rivoluzionaria che chiamasi democrazia.

— Non si tratta di schiaffeggiarla questa democrazia: rispose colla medesima severità il marchese: si tratta di vincerla e di renderla impotente; epperò occorre che l'aristocrazia in ciascuno dei suoi membri — se fosse possibile — nei principali almanco, sia superiore in tutto e per tutto, passi innanzi per ogni modo, virtù, talenti, operosità, benemerenza di qualunque sorta, ai campioni delle nuove popolaresche pretese. Iddio ci ha fatta la grazia di metterci nelle prime file dell'umanità, sui gradini superiori della scala sociale; noi dobbiamo coi nostri atti renderci e mostrarci degni di tanto favore. Noi dobbiamo per nostro onore e per nostro dovere mantenerci in quell'alto grado in cui ci volle la Provvidenza; ma per ciò equivalenti ed acconci bisogna pur che ne sieno i mezzi. Abbiamo nel passato la regola della nostra condotta nel presente e nell'avvenire. Come si formò ella l'aristocrazia moderna nello scombuiamento prodotto dal rovinìo dell'antica società? Emersero fra le predestinate razze invaditrici quelli che avevano più forza e più valore individuale, la cui personalità meglio spiccata e robusta aveva intorno a sè maggior potenza d'influsso e quindi autorità meno contestata d'impero. Allora erano tempi e circostanze, in cui dominava quasi sola e doveva dominare la forza: gli è con questa che s'imposero ai popoli per diritto di conquista le aristocrazie d'Europa. La potenza del pensiero, allora menoma, era tutta raccolta e rappresentata nel clero cristiano; e l'aristocrazia da poco convertita ebbe la saviezza di fare bentosto alleanza col clero medesimo e prevalersi per ciò anche dell'autorità morale e intellettiva. Nel nostro tempo le condizioni sono mutate. La forza materiale del braccio e del valore non tiene più il primo posto nella schiera degli elementi di dominio; vi sono successe due altre forze: quella della ricchezza e quella dell'ingegno e della dottrina, la quale, nemmanco, non è più esclusiva dote del clero. Bisogna che l'aristocrazia, per conservare il suo primato s'impadronisca dell'una e dell'altra e ne usi a beneficio dell'intiera associazione. Quanto alla ricchezza, lamento al pari di voi quelle disposizioni legislative che conducendo al frazionamento obbligatorio delle grandi proprietà ed allo svincolo di esse, ne tolgono la sicura, continuata e irrevocabile possessione nelle nostre famiglie; ma Carlo Alberto si è arrestato a mezzo dell'opera e non gli è bastato il cuore di segnare il decadimento compiuto della nobiltà. Conservando i maggioraschi, egli ci ha lasciato un mezzo di riparare in parte al danno delle innovazioni introdotte nel diritto di successione; al resto occorre che ripari la nostra prudente attività, la quale, prendendo esempio dalla savia nobiltà inglese, domandi ai perfezionamenti dell'agricoltura, ai miglioramenti delle proprietà un aumento di rendite.

Ettore non potè tanto contenersi che una smorfia ironicamente significativa non manifestasse quanto poco fosse a suo genio codesto mezzo di rivalsa.

Il marchese padre si accorse del sentimento nato nel giovane, e interrompendo lo svolgersi del suo primo discorso, gli disse con vivacità:

— Avesse l'aristocrazia del nostro paese, al pari di quella dell'Inghilterra, prescelto codesta via e codesti mezzi allo accorrere sui gradini del trono, alle pericolose carezze della monarchia, per abbassarsi agli uffici di cortigiani! Oggi noi, non per cagione del regio favore, ma per necessità delle cose, per libero consentimento universale, saremmo a capo senza contrasto, senza minaccie, senza odii, di tutta la popolazione, come rappresentanti naturali e necessari d'ogni vitalità del paese.

Il figliuolo chinò il capo come chi non vuole discutere, ma che non è persuaso.

Ripigliando il suo dir primitivo, il marchese continuava:

— Quanto all'intelligenza, al pensiero, alla dottrina, pur troppo molti dei nostri (e, duolmi dirlo, voi stesso Ettore, siete fra quelli) molti pur troppo si lasciano passare innanzi i borghesi; e non è coll'arroganza, non è colla ragione dei duelli che si possa conservar più una supremazia di cui non siasi capaci. La scienza tiene e terrà sempre più il campo, e chi la possederà sarà il padrone della terra.

— Perdoni, padre mio, disse Ettore con accento in cui non mancava il rispetto, ma apparivano il fastidio di siffatta discussione e il suo pieno dissentire dalle idee manifestate dal padre. Noi ci siamo ingolfati in troppa metafisica di considerazioni. Confesso che in codesto io non ci valgo niente. Ho sempre creduto che appunto la Provvidenza mi avesse fatto nascere in questo alto grado per esentarmi dai bassi lavori e dagli studi cui è condannata la borghesia. Pensare a migliorare l'agricoltura, a far progredire la scienza, è opera che si confà alle classi inferiori. Me Dio ha posto, senza tanti discorsi, al di sopra degli altri; e quel grado, pur ch'io sappia mantenermelo colla spada, come con essa lo acquistarono gli antichissimi miei maggiori! Ecco la filosofia civile che mi suggerisce il mio buon senso, e non ne cerco altra. Ma scendendo da cotanta generalità al mio caso particolare, le dico appunto che la suscettività impostami dal mio grado esigeva che ad una parola impertinente di quel da nulla io rispondessi come ho risposto. Capisco che con questa maledetta invasione di pretese uguagliatrici, [113] io del mio atto, quantunque contro uno così da meno di me, debbo esser pronto a dargliene ragione colle armi: e non ho esitato menomamente ad accordargli codest'onore, e credo far tutto ciò che mi detta il più scrupoloso sentimento di delicatezza adoperandomi perch'egli sia sollecitamente posto in condizione da ricevere da me quella soddisfazione di che mi ha mandato a richiedere.

— Ed oramai codesto non basta: disse col suo più autorevol tono di voce il marchese.

— Come! Esclamò Ettore con un sussulto.

— Non basta: continuò collo stesso accento il padre. Voi aveste torto nella contesa che faceste nascere con quel giovane.....

— Sa Ella al giusto come si passarono le cose per potermi dar torto?

— Lo so..... e da Virginia medesima.

— Ah Virginia.....

Ettore voleva soggiungere della parzialità che sospettava in sua cugina a favore del giovane borghese, ma si tacque, contentandosi di atteggiare le labbra superbe ad un sorriso ironico.

— Questo contrattempo della Polizia concorre sventuratamente ad accrescere il vostro torto: seguitava il padre. Per ripararlo, io otterrò la sollecita liberazione di quel giovane, e voi andrete primo a tendergli la mano.

Ettore sorse in piedi come spinto da una molla.

— Oh codesto, prorupp'egli, io non farò mai. Gli manderò a dire che mi rimetto a sua disposizione per un altro convegno; ed ecco tutto. Non posso far di più che accordargli l'onore di battermi.

— Batterti! Esclamò una donna a faccia orgogliosa, che era entrata in quel punto e s'avanzava con mossa superba. Ti vuoi battere con quel borghese di ieri sera. L'ho capita. Mon Dieu! è egli possibile che t'entrino in testa siffatte idee? Un Baldissero si batte con un suo eguale, ma non con un plebeo.

Era la marchesa, la donna la più infatuata della sua nobiltà che potesse esser mai; era un rinforzo che arrivava al figliuolo per la sua resistenza alle generose idee del padre.

Se il marchese nella sua gioventù aveva nel matrimonio vagheggiato il bene d'una compagna amorevole, degna, capace e desiosa d'essere una confidente, una confortatrice, un consiglio: che del marito facesse suoi travagli e piaceri, propositi e speranze; la signora marchesa eragli stata compiutamente una delusione. Era essa la vanità personificata. Nulla arrivava a toccarle l'anima che l'omaggio reso ai quarti del suo blasone; al suo cervello essa non lasciava giungere che il profumo delle adulazioni; il suo cuore non palpitava che per le emozioni dell'orgoglio. A farla consentire con premurosa voglia alle nozze col marchese, non era stata la fama di valore di costui, la bella sua presenza, che ne faceva uno dei più eleganti cavalieri del suo tempo, l'ingegno e la leggiadria delle maniere, era stata soltanto la purezza nobiliare del suo stemma portato dai suoi maggiori alle crociate. Quindi non gli aveva ella recato nella vita comune nè vero amore, nè l'abbandono fiducioso onde si assembra e si fa quasi una sola l'esistenza di due vite, ma soltanto un esagerato concetto della dignità e della grandezza aristocratica del nome. Quante volte il bisogno d'affetto, cui pure possedeva potente l'animo del marchese, non gli fu amaramente propulsato dall'aridità di quel cuore di donna! Come spesso l'animo del gentiluomo si sentì ferito e dolorò nel trovarsi ad ogni occasione daccanto il freddo contatto d'un'anima che non capiva ragione d'affetto, che non aveva per nessuna guisa quello che Dante chiama intelletto d'amore? Aveva egli sperato, l'anima compagna e temprata al medesimo sentire, in cui quindi potesse effondersi, trovarla poi nel figliuolo; e fu invano anche questo. Nel figliuolo primogenito si ritrovava esatta la riproduzione dell'asciutta, fredda, vanitosa, arrogante anima materna. La famiglia del marchese era spoglia di ciò che ne fa la maggiore dolcezza e il pregio invidiabile; egli stava sopra di essa come un capo riconosciuto ma non amato, come un superiore innanzi a cui si cede, ma sotto il rispetto pel quale c'è l'indifferenza. Se non fosse stato della amorevole e riconoscente Virginia, il marchese non avrebbe saputo più che cosa fosse la tenerezza di un affetto. In questa solitudine del cuore le triste memorie del passato, di cui abbiamo avuto già un cenno, lo angustiavano con segreto, incomunicato e tanto più fiero tormento.

E il falso giudizio del mondo lo invidiava come uno dei più felici della terra: lui ricco, lui nobilissimo, lui dei primi dello Stato, lui padre di prospera prole!

— Madre mia: rispose Ettore alle parole pronunziate dalla marchesa entrando; avrei forse potuto esimermi con ragione dall'onorare di tanto quel cotale, ma un Baldissero quando si tratta di battersi non la guarda più così pel sottile, ed ora che ho accettato la partita, non è più il caso di discutere su questo punto. Avvenne inoltre tal fatto per cui mi trovo posto nella più strana e spiacevol condizione che potessi immaginare.....

E narrò in breve alla madre dell'arresto di Francesco.

Mais c'est très-bien! Esclamò la marchesa con piena soddisfazione. Ecco le cose perfettamente aggiustate! Barranchi si è regolato proprio da quell'uomo di senno che è; gli scrivo un bigliettino per dirgli bravo e per raccomandargli che tenga un po' più a lungo al fresco quel cervellino bruciato.

Il marchese si alzò e col viso accigliato, colla voce ferma che dinota la volontà più risoluta, disse alla moglie:

— Voi non farete nulla di tutto ciò; ed io in questo [114] momento stesso vado ad adoperarmi per far riporre quel giovane in libertà.

La marchesa fece un atto di profondo stupore.

— Voi farete codesto?

— Sì: rispose asciuttamente il marchese.

Mentre la moglie pareva voler formolare alcuna obiezione, si battè leggermente alla porta, e il marchese avendo detto s'entrasse, comparve Michele il domestico, che venne ad annunziare come il signor Giacomo Benda chiedesse di parlarne con S. E.

— Gli è il padre di quel giovane; disse vivamente la marchesa. Che viene egli a fare? Pensate voi di riceverlo?

Il marchese non rispose che con un chinar del capo, e rivolto al cameriere ordinò s'introducesse il signor Benda.

— Lasciatemi: soggiunse alla moglie ed al figliuolo quando il domestico fu uscito. Conviene che io lo riceva da solo.

La marchesa incominciò qualche osservazione contro il partito di ricevere quel cotale; ma il marito la interruppe bruscamente:

— Gli è a me che spetta decidere ciò che si debba o non si debba fare: diss'egli con forza. Prego tutti a ricordarlo.

La marchesa e il figliuolo si partirono di là senza altro; un momento dopo il padre dell'oltraggiato si trovava in presenza del padre dell'oltraggiatore.

Giacomo Benda l'industriale era stato allevato in un'epoca in cui il rispetto alla nobiltà e la persuasione della naturale e legittima superiorità di essa erano sentimenti comuni alla borghesia, massime a quella così detta piccola, a cui apparteneva per nascita egli stesso, la quale appena erasi levata da poco, mercè il lavoro ed il risparmio, fuori del gran serbatoio della plebe. Di credersi uguale ad un titolato non gli era mai passato in mente, e per quanto fosse venuta aumentandosi la sua ricchezza, mai non aveva sognato che ciò lo raccostasse alla schiera de' Semidei per cui fin da giovinetto aveva visto serbate, e credeva giusto che fossero, le grandezze e le distinzioni sociali. Di prepotenze il suo carattere ardito, fermo e leale non era acconcio a sopportarne da nessuno; ma era ben lungi dal creder tali quei privilegi, che erano concessi alla nobiltà e ch'ella stessa si arrogava così risolutamente, per cui, in competenza con un plebeo, il nobile dovesse sempre passare innanzi. In fondo egli aveva l'animo d'un libero cittadino, ma nei tratti della vita aveva le abitudini d'un vassallo. In qualità di commerciante egli aveva dovuto e doveva essere a contatto con varia gente dei varii ceti ed aveva trovato nei clienti più nobili, in generale, più generosa facilità degli altri nell'accondiscendere ai prezzi, la qual cosa era fatta, com'è facile ad intendere, per accrescere in lui quella deferenza che già nutriva per la classe privilegiata. Di questa da lungo tempo aveva imparato a stimare fra i più degni di riverenza il marchese di Baldissero e in occasione ordinaria sarebbe stato coi più umili — non però servili — contrassegni di sommesso ossequio che il padre di Francesco si sarebbe presentato innanzi a lui. Ora però, a farnelo avanzare con più eretta fronte in cospetto del polente titolato, a dargli un contegno di più libera risoluzione, da cui non era tuttavia escluso il rispetto, concorrevano lo sdegno, il timore, la passione che gli avevano suscitato nell'animo l'arresto del figliuolo, la perquisizione fatta in casa sua, la notizia dell'oltraggio inflitto a Francesco dal marchesino e la susseguente sfida a duello.

Nel primo momento, dopo la partenza dell'agente di polizia, delle guardie e dei carabinieri che conducevano arrestato Giovanni Selva, la mente confusa non aveva saputo suggerire nissun partito da abbracciarsi per venire in soccorso di Francesco nè anche al padre di quest'esso. Quell'angustiata famiglia erasi raccomandata alla protezione del dottor Quercia che le era apparso in tale occasione rivestito d'una certa autorevolezza, e che aveva manifestato di potere sovvenirli; ed aveva per allora in codesto solo un barlume di speranza. Ma quando Virginia ebbe mandata pel valletto la sua lettera a Maria, e questa, per subita ispirazione, determinò rispondendole invocare la protezione di lei; fu tal fatto narrato dalla figliuola a Giacomo quasi una rivelazione di quello che gli tornava di fare: ricorrere cioè al marchese di Baldissero. Sor Giacomo non dubitava punto che l'arresto di suo figlio non fosse opera di questo illustre e potente personaggio; e che unica ragione avesse a darsene alla scena avvenuta la sera innanzi al ballo, la quale gli era poi stata raccontata. Al suo dolore si aggiunse quindi una indignazione più che legittima; e tutta la sua ordinaria reverenza per l'aristocrazia non impedì che trovasse quello un sopruso bello e buono da farne i più alti e calorosi richiami. Si decise recarsi dal marchese e farsene sentire; ma la moglie, a cui comunicò questo partito e che l'approvò molto ed anzi lo spinse ad effettuarlo sollecitamente, cominciò per ammorzare alquanto colle sue osservazioni e preghiere le fiamme dello sdegno nell'animo di Giacomo: «pensasse, diss'ella, che si trattava di riaver presto e salvo il figliuolo, e che tutto il resto era nulla, ch'egli aveva da parlare ad un potente il quale teneva in mano la sorte di Francesco; guai ad irritarlo! Sapeva bene come sono i grandi della terra, che la verità non la vogliono sentire e che si lascian vincere, più che da ogni altra cosa, dalla umiltà delle supplicazioni. Il recriminare, l'inveire sarebbe stato inutile a rimediare a ciò che era avvenuto, ed avrebbe invece compromesso il presente. Esser sempre vera la favola del vaso di terra e di quello di ferro; il primo aversi da guardar ben bene dall'urtar nel secondo, altrimenti ne andrebbe senza fallo in frantumi ad ogni volta.»

[115] Giacomo trovò questi ammonimenti della moglie dettati dal buon senso e promise conformarsi ad essi.

— E oltre il resto, soggiunse la signora Teresa, ricordati di parlare anche di quell'orribile cosa che è la sfida..... Gesummaria! che nulla di simile abbia più ad aver luogo! Il marchese può impedirlo, e tu l'hai da pregare per le sante piaghe.....

— Sì, sì, sta tranquilla; rispose il marito. Gli parlerò anche di codesto, e non avremo più ragione veruna di stare in transito.

La moglie lo fece vestire cogli abiti da rispetto; e lo accompagnò fin sotto l'atrio, fino a che fu salito nella carrozza, seguitando a consigliarlo e sollecitarlo, quantunque egli non ne avesse bisogno il meno del mondo.

Quando adunque Giacomo venne introdotto in presenza del marchese, la sua anima, era occupata e turbata da parecchi sentimenti che si oppugnavano: la indignazione che, quanto più egli pensava al fatto successo, tanto più trovava giusto motivo di crescere; la persuasione della necessità in cui si trovava di non fare inalberare l'orgoglio del marchese, ma di commuoverlo; la soggezione naturale in lui, che si credeva in una condizione subalterna, di dover presentarsi, e come richiamante, innanzi ad uno dei primi personaggi dello Stato. Pur tuttavia, entrò, come dissi, con una certa risolutezza nel gabinetto, predominandolo in quel punto la coscienza dell'aver ragione e il risentimento del torto sofferto; ma nel trovarsi in cospetto a quella imponente figura d'uomo, avvezzo a vedersi dinanzi umili cervici, il quale dritto presso il camino, rispondeva con un lieve cenno di capo protettore e cortesemente incoraggiante agli inchini di lui, Giacomo sentì pigliare il sopravvento tutta la sua primitiva soggezione.

— Signor marchese, cominciò egli con voce che non era affatto sicura e rivelava la profonda emozione. Eccellenza..... io vengo..... mi perdoni se vengo a disturbarla..... Ella mi vede tutto commosso..... E ne capirà la ragione, e indovinerà fors'anche il motivo della mia venuta, quando le avrò detto ch'io sono il padre di quel giovane che ieri sera con suo figlio..... di quel povero giovane che fu arrestato questa mattina.

Il marchese fece un nuovo cenno pieno di cortesia e rispose con voce affatto benigna:

— Lo so; come conosco gli avvenimenti che pur troppo successero.

Giacomo, incoraggiato da quell'accento come dall'espressione di fisionomia del marchese, fece vivamente un passo verso di lui.

— Ah signor marchese, che le dirò io adunque di più?... Ella è padre... Ella deve conoscere le angustie di un cuore di padre... Io non ho che quello di maschi... Ah per carità mi salvi, mi renda mio figlio!

E siccome in quell'istante la sua commozione fu tale che superò ogni altro riguardo, il povero padre strinse le mani in atto supplichevole, e due lagrime gli vennero agli occhi.

Quelle poche parole, quell'atto, quelle lagrime fecero sull'animo generoso del marchese maggior effetto di qualunque più eloquente discorso. Chiunque poteva scorgere a prima veduta che quell'uomo d'aspetto robusto e di forme piene di forza, non doveva avere molta facilità a quell'espressione di debolezza che è il pianto, come la sua voce rude non aveva pratica all'accento della supplicazione; ed ora sentire quest'ultimo su quelle labbra inavvezze, vedere le lagrime colare su quel volto abbronzato d'uomo che ha praticato fin da giovane colla fatica, che ha combattuta e vinta la fortuna, era la prova più spiccata e solenne del profondo dolore, dell'ineffabile passione che lo opprimeva.

Il marchese fece un passo verso il fabbricante, gli tese con atto cordiale la mano, e serrando amichevolmente quella che il borghese pose con timidità nella sua, disse con vera espansione e con interessamento:

— Si rassicuri signor Benda. Sì, due padri sono assai presso a comprendersi anche senza tante parole. E le dirò tosto che in questo stesso momento in cui Ella mi venne annunziata io era sulle mosse per recarmi dal Comandante generale della Polizia a parlare in favore di suo figlio.

Giacomo rasserenò la sua faccia, e i suoi occhi brillarono d'una luce di speranza, che era quasi la gioia d'una certezza. Strinse con emozione la mano aristocratica, che stava ancora congiunta alla sua tozza e grossolana di plebeo, ed esclamò con espressione di riconoscenza infinita:

— Oh mi basta e non occorr'altro.... Sia Ella benedetta, sig. marchese.... Eccellenza voglio dire... Posso senza più correre a tranquillare quella povera anima di madre — mia moglie — che sta là nell'angoscia che io le lascio pensare.... La buona donna ama quel ragazzo cento mila volte più che la pupilla de' suoi occhi..... Vado a dirle: sta lieta che domani, che oggi stesso Francesco ci sarà restituito.

— Piano: disse il marchese con un leggero sorriso levando la sua destra da quella dell'industriale. Non bisogna credere che il mio potere sia perfettamente uguale alla mia buona volontà. Ci porrò tutto il mio impegno, glielo prometto; ma potrebbe anche darsi che non riuscissi così bene come Ella ed io desideriamo....

— O che? Interruppe bruscamente Giacomo. La mi canzona? Quando quegli stesso che ha fatto eseguire l'arresto....

Il marchese si dirizzò della persona in tutta l'imponenza della sua alta statura, e prendendo una mossa più dignitosa e solenne, disse con accento più imperioso che non avesse ancora usato:

[116] — Crederebbe Ella che io abbia avuto alcuna ingerenza in codesto?

Il padre di Francesco capì che aveva detto ciò che non conveniva e commesso uno sproposito.

— No, s'affrettò a soggiungere, non voglio dir ciò: ma in fatti gli è per riguardo a S. E. che....

— Niente affatto: interruppe di nuovo e con più asciuttezza il marchese. Fu creduto che suo figlio avesse mancato alla riverenza dovuta a S. M. in un luogo che questa onorava della sua presenza.

Giacomo ebbe un subitaneo impeto d'impazienza cui non valse a frenare.

— E perchè fu creduto codesto di mio figlio, mentre non si credette del suo, il quale infliggeva al mio Francesco tale insulto cui un uomo non può tollerare a niun modo?

Ma appena pronunziate siffatte parole, il padre di Francesco ne capì tutta la gravità, e temette essere andato fuor di strada ed aver compromesso l'esito del suo ricorso al marchese.

— Ah! mi perdoni: s'affrettò egli a soggiungere. Io sono così commosso.... Ella lo vede.... Non so bene quel che mi dica..... Si compiaccia figurarsi un momento in che stato si trova l'anima mia..... Ero così tranquillo, così felice colla mia famiglia, ieri soltanto!... Ancora questa mattina io mi sono alzato senza il menomo presentimento del guaio che già m'era piombato addosso e di quello che minacciava. Noi ci amiamo di tutto cuore; siam fatti così; padre e madre e figli siamo sempre vissuti insieme l'uno accosto all'altro; gli è come se le nostre esistenze fossero intrecciate in una.... Dia retta! Le dirò questo per esempio. M'è venuta un giorno la falsa idea di mettere la mia figliuola.... (ho anche una figliuola).... in collegio. Mi pareva che poichè ero ricco dovessi farle dare una educazione, come si suol dire, più brillante in qualche istituto di primissimo ordine. Scelsi addirittura quello del Sacro cuore.... e fu colà che mia figlia fece colla signorina di Castelletto una conoscenza che la nobile damigella volle gentilmente rinnovata questa mattina..... Ebbi torto: il buon senso di mia moglie vi si era opposto, ma io aveva persistito. Ebbi torto per due ragioni: prima perchè quel collegio frequentato dalle zitelle delle più nobili famiglie non era luogo adatto alla figliuola d'un fabbricante; poi, perchè avevo pensato che noi in casa si potrebbe avvezzarci alla mancanza di quel caro folletto d'una ragazza. Breve! Dopo alcuni mesi mia moglie non poteva più resistere, ed io meno di lei; ed andammo a levar la nostra Maria dal collegio per riaverla di nuovo con noi, sotto i nostri occhi, sempre.... Perdoni se io abuso della sua bontà... Gli è per dirle come ci sia impossibile viver separati dai nostri figli, come sia troppo, veramente troppo per noi il vederceli tolti. Ora che cosa ci avviene? Ad un tratto apprendo che mio figlio, il quale non fo per dire, ma è pure urbano ed educato quant'altri mai, venne pubblicamente svillaneggiato ieri sera nell'iniquo modo ch'Ella sa... Scusi: non vorrei dir nulla che offendesse il signor marchesino suo figlio; voglio anche ammettere che un qualche torto sia da parte del mio Francesco; ma per carità di Dio, Eccellenza, si metta nei panni di un giovane oltraggiato a quel modo, di me povero padre e non troverà forse eccessive le mie parole...

Il marchese dignitoso sempre, fece un atto colla mano che pareva dire:

— È giusto; continuate pure.

E il padre di Francesco, in cui l'èmpito dei sentimenti aveva superato oramai ogni barriera di soggezione, continuò con maggior calore:

— Che gli sia venuta al mio Francesco l'idea di domandare una riparazione, chi l'oserà biasimare? Se la legge, se il Governo, se i tribunali o che so io ce la dessero questa riparazione, allora si avrebbe torto a ricorrere ad altri mezzi. Ma sì: quale di noi borghesi potrebbe ottener fatto un processo al figliuolo d'un'Eccellenza? La cosa si metterebbe in tacere, e addosso al povero borghese cascherebbero ancora le sprezzanti risate del bel mondo... Ah! io non voglio mica lamentarmi nè far la critica al nostro buon Governo; Dio mi guardi! Ricordo soltanto le cose come sono per iscusare un po' la temerità che ebbe mio figlio di sfidare a duello il suo... Il duello, un'assurdità che non può entrare nella mia testa grossa. Se a me fosse capitata una cosa simile, quando ero giovane, ed anche adesso che non son più giovane, giurabacco! non avrei ricordato altro in quel momento se non che la Provvidenza mi ha dato a capo di queste braccia robuste certe mani che non sono di pan cotto per farmi rispettare da chicchessia..... Ma io sono ancora un rozzo uomo del popolo, e certamente avrei torto marcio eziandio. Mio figlio è più incivilito..... Basta; crede Ella un bel gusto quello d'un padre a cui viene annunziato che il figliuolo dopo aver ricevuto il più fiero insulto, corre pericolo di essere ammazzato in paga dall'insultatore, che certo è più destro nelle armi di lui?.... Non è tutto. Ecco che questo povero giovane oltraggiato vien preso dagli sgherri e tratto in prigione come un malfattore, violato il suo domicilio e manomesse le cose sue; mentre il suo competitore, quegli che ha veramente il torto (perdoni, voglio dire che ha una parte di torto anche lui), se ne rimane tuttavia tranquillo come se di nulla fosse..... Domando io se questo è giusto!.... Io mi sono detto che ciò non potrebbe piacere nè anco a V. E., e che per ottenere rimediato un torto così grande, non avrei dovuto far di meglio che ricorrere a Lei medesima. Ella mi ha già detto che nostro figlio ci sarebbe restituito; Ella mi ha accolto con una bontà che mi ha dato ansa a sfogare fin troppo — e glie ne domando ancora perdono — tutto ciò che mi bolliva qua dentro; una bontà che mi dà ansa a chiedere e sperare da Lei ancora qualche cosa di più.

[117] Il padre del marchesino aveva ascoltato con una benignità veramente incoraggiatrice. A queste ultime parole di Giacomo non espresse una domanda, ma diresse al suo interlocutore uno sguardo che era un punto d'interrogazione.

Benda rispose sollecito:

— Ella nel suo retto senso di giustizia, non può negare che al mio figliuolo spetti una riparazione.

Il marchese fece francamente un segno affermativo colla testa.

— Ma questa riparazione avrebbe da essere quella barbara d'un duello?... Ah no! Gli è come padre... no, gli è a nome di qualche cosa di più sacro ancora, per la povera anima d'una madre che morrebbe della morte di suo figlio, ch'io la prego a fare che un duello non abbia luogo.

— Si tranquilli: disse il marchese con quella sua parola grave e l'atto solenne. Lo impedirò.

— Ma una riparazione?...

— L'avrà tuttavia, e tale che nulla gli lascierà a desiderare. L'avrà da mio figlio, l'avrà da me stesso, glie lo prometto.

Giacomo, in un impeto di riconoscenza, prese la mano del marchese e glie la baciò:

— Signor marchese, Ella avrà le benedizioni di un padre e d'una madre che le saranno riconoscenti sino alla morte... Noi siam nulla appetto a Lei; ma se mai per caso potessimo in alcun modo servirla, Ella non avrà sempre mai che a farci un cenno, e la famiglia Benda si metterà nel fuoco per Lei.

Il marchese liberò adagio la sua mano e disse con un nobile sorriso:

— Loro signori non mi dovranno riconoscenza nessuna. Io non farò altro che ciò di cui sono in debito.

Partito Giacomo, il marchese si affrettò a recarsi dal generale Barranchi.

Questi lo ricevette meglio di quello che si riceve un superiore: lo ricevette come si usa fare ad un uomo dal quale si può sperare qualche vantaggio e temer qualche danno. Si disse troppo onorato che il marchese avesse voluto recarsi da lui; lo avesse mandato a chiamare, ed egli, il generale, sarebbesi affrettato ad accorrere a sentire gli ordini di S. E.; si protestò disposto a far tutto quello che stesse in lui per contentare i desiderii del marchese, per obbedirne ogni menomo cenno.

Ma quando il padre di Ettore gli ebbe manifestato lo scopo della sua venuta, il generale con mille espressioni di rincrescimento gli fece la medesima risposta che aveva finito per fare al figliuolo: trattarsi d'un affar di Stato, essersi posto la mano sopra un vero nido di rivoluzionari, essere state sequestrate delle carte che manifestavano i rei propositi di tutta quella gente, il Benda trovarsi in tutto ciò fortemente compromesso, non dipender più dalla sua autorità l'assecondare il desiderio del marchese, ed ancora che dipendesse, non lo potrebbe far tuttavia, ed il marchese medesimo, chiaritosi del come stessero le cose, lo avrebbe condannato se avesse interrotto il corso alla giustizia del Re.

— Certo che sì: rispose con calma il marchese. Quando fossero in giuoco gl'interessi ch'Ella dice, io mi guarderei bene dall'insistere, ma la pregherei a non tacciarmi d'indiscreto, se le domando di vedere queste carte compromettenti e i rapporti degli agenti di polizia che certificano la colpevolezza di questi giovani. A dirla qui fra noi, la nostra polizia,... quella subalterna (aggiunse di fretta con un sorriso, per non ferire le suscettività del generale) è un po' ombrosa e non delle più oculate. Ella sa quante volte già ha in codesto ecceduto per isbaglio, per zelo fuor di posto, e S. M. ne fu assai malcontenta.

Il generale dei carabinieri fece irti i suoi baffi in una smorfia e si agitò sulla sua seggiola in una specie di malessere. Le parole del marchese gli ricordavano i rimproveri del Re, e l'ammonimento datogliene ancora il giorno innanzi.

— Ad evitare ogni inconveniente ed ogni maggior dispiacere per tutti, soggiunse il marchese dando alla sua voce tutto il tono d'autorità onde pel grado, pel sangue, pel reale favore poteva giovarsi, io desidero appunto vedere quei documenti affine di farmi un esatto concetto della cosa e sapermi regolare in conseguenza.

— Io glie li sottoporrei senza ritardo: rispose con premura Barranchi: se fossero ancora in mio potere; ma la cosa era troppo grave perchè io tardassi ad informarne chi di dovere, e mandai tutto al Governatore.

Il marchese si alzò sollecito senza attendere altro.

— Andrò adunque dal Governatore.

Il generale lo accompagnò fino all'uscio dell'anticamera con ogni contrassegno di riverenza; e il padre di Ettore si affrettò a recarsi dal Governatore, dove, alla fine del capitolo XVI, l'abbiamo visto arrivare mentre nel gabinetto di questa superiore autorità si trovava ancora il barone La Cappa.

CAPITOLO XIX.

Il Governatore mosse incontro al marchese con una premura non solamente rispettosa, ma eziandio amorevole. Erano amici di lunga data, e al tempo in cui era successo il dramma le cui memorie tormentavano ancora il cuore e la coscienza di Baldissero, l'attuale Governatore, che era soltanto capitano nelle Guardie, aveva partecipato a que' luttuosi avvenimenti facendo da testimonio al marchese nel duello che abbiamo già appreso aver avuto così tristo esito per l'avversario del marchese medesimo.

Questi fatti nella vita stabiliscono fra coloro che vi ebbero parte una meglio stretta attinenza che più [118] non si scioglie. Il Governatore ed il marchese non si vedevano di frequente, separati dalle loro occupazioni e dal loro genere di vita, rarissimo era che si trovassero da soli e non iscambiavano che gl'indifferenti discorsi usi a tenersi in presenza del mondo; anche quando potevansi parlare liberamente non era mai che dalle loro labbra uscisse la menoma parola che avesse rapporto a quel lontano passato, e se ne guardava scrupolosamente sopratutto il Governatore, che sapeva come con ciò avrebbe toccato poco pietosamente all'amico una di quelle ferite interne che non si saldan mai; ma ad ogni volta che si trovassero, i due antichi amici si davano una stretta di mano più vigorosa che non solessero con altri, in cui c'era come una muta, convenzionale intelligenza d'un segreto comune.

— Eh buon giorno! Esclamò adunque il Governatore andando a ricevere il marchese alla soglia e porgendogli tuttedue le mani. Tu arrivi proprio a proposito. Si discorreva appunto di cosa che alquanto ti riguarda.

Baldissero fece scorrere nel gabinetto il suo sguardo improntato di supremazia, e vide il barone La Cappa che gli si profondava dinanzi in un umilissimo inchino.

— Ah sì? Diss'egli rispondendo cortesemente al saluto del barone. Tanto meglio! Io vengo appunto per ciò di cui forse stavate discorrendo.

Il barone La Cappa credette avere un lampo di ispirazione del genio diplomatico.

— Egli è certo, pensò, che il Governatore dirà al marchese ch'io sono venuto per parlare in favore dell'avversario di suo figlio, e ciò può mettermi in mala vista presso di lui. È meglio che glie ne dica subito io stesso e ripari tosto tosto alla cattiva impressione ch'egli potrebbe averne.

Il Governatore aveva fatto sedere il marchese vicino al fuoco e abbandonando egli stesso il suo solito posto presso la scrivania era venuto porglisi daccanto. La Cappa rispettosamente si accostò in faccia a Baldissero e disse coll'accento espressivo di un uomo che vuol far credere di manifestare proprio il fondo del suo pensiero:

— Sì, Eccellenza, parlavamo di cosa che la riguarda, ed io apprendeva dal signor Governatore com'Ella fosse interessata in certo avvenimento successo ieri sera al ballo dell'Accademia. Prendo parte grandissima, caro signor marchese, alla contrarietà, allo sdegno, dirò quasi, che Ella dovette provarne, e deploro quant'altri mai la tracotanza di quell'avvocatuzzo. Io era allo scuro affatto della verità della cosa, ed ho hasardè une démarche presso il nostro caro Governatore, di cui non avrei nemmeno concepito il pensiero se fossi stato ben renseigné. Ero venuto niente meno che a raccomandare quel cotal avvocato e quel suo amico perchè fossero posti in libertà.

Il bravo barone diceva codesto con un certo sorriso di compassione verso sè stesso che voleva significare: «Ve' s'io ne faceva innocentemente una grossa!»

Il marchese lo ascoltava con una faccia seria e grave come quella d'un magistrato che non lascia scorgere sulla sua fisionomia impressione alcuna che gli faccia la difesa d'un imputato. A quelle ultime parole di La Cappa alzò gli occhi e mosse le rughe del volto come se stesse per parlare. Bastò codesto perchè il barone s'interrompesse e si atteggiasse alla mossa d'un riverente ascoltatore.

— Ho molto piacere, disse il marchese, ch'Ella abbia fatta questa démarche, perchè siccome identico affatto è il motivo della mia venuta, spero che in due riusciremo di meglio a convincere il nostro amico il Governatore, di arrendersi al nostro desiderio.

La Cappa rimase attonito che nulla più. Temette un istante che quella fosse una canzonatura; ma il carattere del marchese non permetteva di fare una simile supposizione, e l'aspetto della sua fisionomia la escludeva senz'altro. Il barone volle esclamare, volle mostrare il suo stupore, ma ebbe timore di far peggio e non seppe che tacere.

Il Governatore fu egli a parlare:

— Che? Diss'egli. Vieni anche tu per farmi lasciar andare quei due miseruzzi di liberali? Ma tu non sai che essi hanno sul loro conto ben peggio dello scandalo di ieri sera.....

— So tutto: riprese Baldissero. Vengo adess'adesso da Barranchi, il quale mi ha detto ogni cosa....

— E non ostante ciò tu vorresti?

— Io vorrei esaminar teco se ci sieno proprio gli elementi di una colpabilità che meriti trarre alla rovina due giovani ed alla disperazione le loro famiglie. Che se non ci fossero, vorrei persuaderti, e son certo verresti da te medesimo in questa persuasione, essere il meglio, ammonitili, rimandarli senz'altro alle case loro.

Il barone, al trovare un così potente ausiliario alla missione che gli aveva data sua figlia cui gli stava pur tanto a cuore di contentare, si rallegrò tutto.

— S. E. parla proprio da quell'uomo che è: diss'egli con un'ammirazione non scevra di piacenteria. Io sono perfettamente del suo avviso. Una buona lavata di testa, come si suol dire, a quei capi scarichi, la minaccia che se ci ricascano, vedranno il sole di Fenestrelle e les renvoyer... Ecco tutto!.... E mi pare superfluo procedere a nuovi arresti, gettare altre inquietudini nella città....

Baldissero si volse al Governatore domandando:

— Si tratterebbe forse di arrestare ancora degli altri?

— V'è un certo medico, rispose il Governatore, che mi pare molto impeciato in tutto codesto, quel cotal dottor Quercia che dicono la coqueluche delle [119] signore..... Qui il barone La Cappa s'interessa molto per lui.....

— Mi consta, disse vivamente il padre di Candida, che gli è un buonissimo suddito di S. M. ed affezionato al Governo..... Mio genero il conte di Staffarda ne può far fede.

Il Governatore tornò a sogghignare a fior di labbra; ma il marchese con quella serietà che gli era abituale disse al barone:

— Stia tranquillo La Cappa. Io spero, anzi credo che non sarà il caso d'altri arresti nè di simili altri provvedimenti qualunque. Non è vero?

Il Governatore, a cui era diretta quest'ultima domanda, chinò il capo e fece spalluccie.

— Non desidero di meglio, rispose, ma l'affare mi par più serio di quello che tu creda. E se ti piace gettar gli occhi su queste prove.....

Accennava egli colla mano i libri sequestrati a Francesco, le carte trovate nello stipo di Maurilio, e i rapporti dei delegati della polizia.

— Volentieri: disse il marchese alzandosi da sedere per avvicinarsi allo scrittoio sul cui piano erano le carte additale.

La Cappa avvisò che non gli restava altro da fare che andarsene. Aveva ricevuto la quasi sicurezza che il dottor Quercia non sarebbe stato inquietato, e gli tardava recare alla figliuola la notizia del suo successo diplomatico. Prese commiato; nessuno disse pure una parola per trattenerlo, ed egli si partì.

— Eccoti prima di tutto il rapporto di un agente che è fra i più zelanti ed accorti, un certo Barnaba: così disse il Governatore, porgendo una carta al marchese, il quale si diede a leggerla con ogni attenzione.

In quel rapporto erano esposti i fatti che abbiamo visto svolgersi, ed esposti colle tinte più scure che potessero aggravarne il significato. Il principale argomento per la colpabilità dei giovani incriminati, la prova più significante era l'allegata identità del cantante Medoro Bigonci col rivoluzionario ed esule romano Mario Tiburzio.

Quando ebbe letto, il marchese rimase un poco riflettendo, mentre il Governatore lo stava guardando con una cert'aria interrogativa che pareva dire:

— Eh? che ne dici? Ho io ragione sì o no?

Il marchese ripiegò lentamente il rapporto di Barnaba, e porgendolo all'amico, disse con posata gravità:

— Sì certo, questo può esser molto..... e può esser nulla. Provato che quel Bigonci sia un segreto agente del partito rivoluzionario, le attinenze di quei giovani ed i loro convegni con esso acquistano una grave presunzione di colpa; ma ciò rimane egli provato? Vi ha qualche cosa che lo dimostri oltre l'allegazione di questo agente?

— A dire il vero, rispose il Governatore, finora una prova positiva non si ha tuttavia.... ma si avrà. Quel cotale non si è ancora potuto arrestare.... ma lo arresteremo; ed allora....

— Intanto si è fatta la perquisizione nell'alloggio di questo Bigonci e dei suoi compagni, non è vero?

— Sì: ed ecco il rapporto dell'altro agente detto il Rosso.

— Presso il signor Benda non fu trovato nulla di veramente grave....

— Che? Mi burli? E questi libri incendiari? E quella carta che il Selva con tanta arte ed audacia giunse a distruggere? Non sono tutte queste cose l'indizio dei mali propositi di codesta gente?

— Sì, ma non una prova d'una congiura, d'un vero cominciamento di atti criminosi. Di quella carta, poichè fu distrutta, non possiamo al giusto misurare il valore, e sopra semplici congetture io sento che si deve andare adagio a procurar la rovina di tanti poveri giovani e delle loro famiglie. Nella supposizione di quel Barnaba, d'una vera cospirazione, qualche cosa che la riguardasse, corrispondenze od altro, avrebbe dovuto trovarsi presso i supposti congiurati; ebbene quali documenti furono sequestrati che valgano a fondare l'accusa?

— Documenti positivi... veramente no; ma quanto basta per rivelare le tendenze, i concetti e la temerità di quella si può dire congrega. Da questo scartafaccio (e pose la mano sopra il manoscritto di Maurilio) apparisce come l'ispiratore di questa gente abbia da dirsi un certo giovinastro senza nome e senza famiglia, un antico vaccaro inurbatosi non so come, che ha studiato a casaccio non so dove nè per che mezzi, ed ha manifestato in questo zibaldone un amalgama di teorie audacissime e di dottrine sovversive, di tentativi letterari e di aspirazioni politiche, di versi e di prose, un piccolo Rousseau in erba o qualche cosa di simile con declamazioni alla Mazzini. Tofi ha avuto la buona ispirazione di far arrestare anche questo Maurilio...

Siffatto nome fece dare in un sussulto il marchese di Baldissero.

— Maurilio! Esclamò egli con voce non priva di emozione. E' si chiama con questo nome?

Tutta notte era stato presente alla sua memoria quel funesto caso della sua vita, in cui un Maurilio era stato vittima della sua spada; l'immagine di quest'uomo ucciso dalla sua mano, gli era comparsa più viva e spiccata del solito nelle tristi fantasticaggini della sua veglia; quel nome gli aveva suonato come una rampogna sotto la volta del cranio pronunziato dalla sua coscienza; ed ora egli, questo nome non comune, mai più trovato riunito alla personalità d'un uomo vivente, lo udiva frammisto a quel viluppo d'incidenti a cui la tracotanza di suo figlio obbligava lui stesso a prender parte. Una specie di superstiziosa emozione lo prese, quasi un presentimento: che non a caso, che non invano quel nome suonasse al suo orecchio in tal circostanza, [120] e l'individuo che lo portava gli si parasse innanzi nel suo cammino.

— Parlami di costui: soggiunse egli vivamente. Chi è questo Maurilio? Donde viene? Che fa? Quale il nome del suo casato?

Il Governatore aveva notato la viva impressione provata dal suo amico, ed a questo affollarsi di vivaci domande piene di curioso interesse, rispose non senza stupore:

— Che ardore metti tu per questo cotale? Che cosa ti può interessare in quel miserabile plebeo?...

Il marchese con un turbamento nei tratti del volto, tanto più notabile, quanto più era ordinariamente composta ad impassibile dignità la sua fisionomia; il marchese pose una mano sul braccio dell'amico e disse a voce bassa ma improntata di profonda emozione:

— Ah! quel nome!..... Maurilio!..... Tu non lo ricordi quel nome?.... A me si è impresso con incancellabili caratteri nel mio cervello, e non vi sarà obliterato che dalla morte.... E ancora!....

Il Governatore guardava il suo compagno coll'aria stupita di chi a mezzo un grave discorso ode proporsi ad un tratto il rompitesta d'un enimma; stava per interrogare sè stesso, se il marchese non avesse dato di volta.

Baldissero gli strinse più forte il braccio e continuò col medesimo, anzi con più turbato accento:

— Era una mattina d'inverno anche quella.... Non la ricordi?.... Eravamo giunti a Milano la sera prima, tu, Castelletto ed io; tu e Castelletto foste a cercarlo...

Il Governatore si percotè colla mano la fronte.

— Ah! mi ricordo: esclamò egli, come si fa quando le parole vi sfuggono di forza dalle labbra: quel povero Valpetrosa.....

Baldissero proseguiva:

— Ci scontrammo fuori Porta Romana; la neve copriva tutta la campagna.... come oggi.... Egli si avanzò verso di noi, e non disse che queste parole: «Se mi uccidete, vi raccomando mia moglie, — poichè ella è mia moglie! — ed il mio figliuolo che sta per nascere...»

Il Governatore lo interruppe:

— Via, via, non è il caso di andare a rivangare tutte queste dolorose memorie. Tu non hai da farti il menomo rimprovero. Ti sei regolato come ogni uomo d'onore avrebbe fatto in tua vece, e tuo padre te ne ha benedetto. Sua moglie l'hai tutt'altro che dimenticata ed essa ti ha perdonato.....

— Ciò forse le ha accorciata la vita.....

— Eh no, per Dio!... Basta non pensiamo a codesto.....

— E il figlio?

— Il figlio di quell'infelice mi hai detto tu stesso che è morto appena nato, quando tu eri già tornato in Ispagna.....

— Così mi disse mio padre.

— E quello che tuo padre ti disse ti conviene crederlo..... E poi non ci fu frammischiato in quell'affare quel vostro intendente o segretario, Nariccia?

— Sì.

— E non ti affermò ancor egli la morte del neonato?

— Pienamente.

— Dunque tu non avevi altri obblighi verso la memoria di quell'uomo..... Capisco che l'udir questo nome il quale nei nostri paesi è affatto raro, possa evocarti quei certi ricordi, ma non è neppure da pensarsi che il presente Maurilio abbia alcuna attinenza con quello là. Maurilio Valpetrosa apparteneva ad una famiglia di Milano, e questo è un misero trovatello dei nostri campi.

— Un trovatello? Esclamò con qualche interesse il marchese.

— Sì: da se stesso egli si denominò per Maurilio Nulla. To', dà un'occhiata a questa specie di professione con cui egli cominciò questo quaderno di suoi scarabocchi, e vedrai.

Il marchese tolse in mano lo scartafaccio e lesse, scritte sulla prima pagina, le parole seguenti:

«Chi sono io? Non so. Che cosa io pensi, che cosa io voglia, a che cosa tenda l'agitazione di anima e di spirito che sì spesso mi domina e mi sprona e mi tormenta, non so nemmanco.

Se la sapienza dell'uomo, come dissero i Greci, pone la sua prima base nel conoscer se medesimo, oh quanto sono io lontano pur dal cominciamento di essa!

Tuttavia havvi in me, sento in me, alcuna cosa che, quantunque non sappia definirla, mi pare la parte migliore di me. È desso il mio pensiero? È la intelligenza? È qualche cosa di comune a tutti gli altri? oppure è speciale all'esser mio?

Sento così di frequente un bisogno immenso, irrefrenabile di effonder l'anima mia!.... A chi? A nessuno che mi si presenti colle sembianze d'uomo. In faccia ad un mio simile il mio labbro si rinserra sdegnosamente muto, e mi pare che una mano di gelo si imponga come coperchio a rinchiudere il cuore tumultuante.

Nella campagna solitaria ove conducevo al pascolo la giovenca, parlavo alla natura, e la natura parlava a me; sentivo la sua gran voce, ora soave come la carezza del zeffiro, che mi aleggiava sulla fronte, ora terribile come il muggito della bufera che scuoteva le quercie... Qui in città la gran voce tace per lasciar cinguettare il brulichio degli uomini.

Conviene ch'io parli a me stesso. Uscendo dall'interna chiostra formolate in parole, le audacie del mio pensiero, i sogni della mia fantasia, per fermarsi su questo pezzo di carta, sarà come se i lineamenti dell'anima ad uno ad uno venissero a riflettersi in uno specchio che ne conservasse l'impronta. [121] A poco a poco i tratti si aggiungeranno ai tratti, l'immagine — forse — ne riuscirà discernibile, e l'anima riconoscerà se stessa.

«Chi sono io? Mi ridomando. È il gran problema che incombe sulla vita di tutti gli uomini. Per me si è fatto più crudo, più spiccato, più imminente, direi, avendo voluto... (chi? Debbo dire il caso? o la Provvidenza? o la malvagità degli uomini?)... avendo voluto la mia sorte ch'io qui sulla terra fossi, in mezzo ad una razza umana organata a famiglie, senza famiglia, senza legami di sangue, senza protezione di parentela e di nome.

«La prima volta che mi ferì il nome di bastardo sputatomi sulla faccia dalla Giovanna incollerita, non capii che cosa volesse dire quella parola, ma sentii che era un termine d'ignominia ond'era espressa cosa cui la gente faceva mia vergogna. Non mi sdegnai, non risposi, fuggii a nascondermi.

«Ora ch'io incomincio a gettar giù queste parole sulla carta, colla mano tremante, colla testa in tumulto, colla dolce e profonda emozione con cui si deve parlar d'amore la prima volta, con cui si inizia una segreta corrispondenza con cara persona a cui tutto si crede dovere e poter dire di noi; ora io conto intorno a diciott'anni di vita... Ah non so nemmanco di sicuro da quanto tempo il destino mi ha balestrato a soffrir sulla terra! Sono diciott'anni che un uomo mi raccolse abbandonato; ma quanti giorni avessi allora di esistenza — forse mesi, forse già un anno — non mi si disse mai, non lo seppe neanco chi non mi lasciò morir sulla via.

«In questi diciott'anni, dolorosissimi avvenimenti avvicendarono la mia combattuta esistenza: ma più gravi e più numerosi travagli e mutazioni si fecero nell'anima mia, in quell'essere interno che non so definire, dove tante idee s'intralciano e tanti diversi affetti si scambiano. Gli è i risultamenti di questo interno travaglio che io qui voglio registrare, per me — per me solo — a dar conto a me stesso dell'uso del mio ingegno, della mia volontà, dell'effetto di quegli studi saltuarii, abborracciati, ma cui è pur gran ventura che la sorte mi abbia concesso e mi conceda tuttavia di fare.

«Le leggi del mondo fisico e quelle del mondo morale; le leggi dell'organismo sociale come quelle dell'organismo del corpo umano; la vita della terra che ci sostiene, ugualmente che la vita della schiatta umana, delle masse dei popoli e degl'individui mi sembrano concentrarsi e concertarsi in una grande unità, di cui la mia mente troppo debole, e i miei studi troppo incompiuti, non possono darmi tuttavia la forza di abbracciare il complesso, ma che travedo, trasento e perseguo, quasi per istinto, traverso tutti i fatti dell'esistenza, dai moti della mia anima rinchiusa nella carcere del corpo a quelli dei mondi nello spazio infinito.

«Di questo travaglio analitico dell'intelligenza che si affanna alla ricerca della gran sintesi, scriverò le espressioni e le fasi in queste carte per conchiuderle il giorno in cui la morte mi faccia immota la mano, o per troncarle il dì, in cui un diverso apprezzamento me le faccia conoscere inutili e forse anco puerili.»

Il marchese lesse queste pagine con attenzione e non senza meraviglia.

— Un giovane in quelle condizioni, a quell'età, che scrive e pensa di tali cose, diss'egli, non è fatto ordinario. È in lui la stoffa d'un uomo di vaglia.

— Per ora, disse il Governatore, c'è un demagogo. Leggi qui a questo punto ed a quest'altro..... se pure hai pazienza, e vedrai quali idee sovversive della società e fin anco della religione bollano in quel cervello esaltato.

Baldissero scorse cogli occhi le pagine che gli additava il suo interlocutore e che erano state segnate colla matita rossa dal Commissario di polizia.

— Leggerò molto volentieri, rispose di poi, queste cose che assai m'interessano; vuoi tu lasciarmi recar meco per ciò questo scartafaccio?

— A piacer tuo: disse il Governatore chinando la testa con moto di gentile condiscendenza.

In quella fu recato al Governatore un biglietto del conte Barranchi.

— Aspetta, disse il Governatore, dissuggellando la carta, a Baldissero che pareva apprestarsi a partire: questa lettera ha forse riguardo al caso di cui tu t'interessi.

— Ed è così infatti; soggiunse dopo letto quanto scriveva il comandante della polizia; odi ciò che dice Barranchi:

«Caro Governatore,

«Quel tal Medoro Bigonci venne arrestato ancor egli; ma l'impresario del Teatro Regio protesta che, essendosi ammalato il primo baritono, se lo si priva ancora di codestui, egli non potrà più tenere aperto il teatro, e quindi nemmanco darci la solenne rappresentazione di domenica sera, a cui deve intervenire S. M. colla Corte in gala.

«Mio nipote San-Luca che conosce tutta la gente teatrale, è venuto qui ad assicurarmi che questo Bigonci è nient'altro che un artista di canto che sarà vittima d'una somiglianza, ma che egli metterebbe pegno qualunque cosa che pensa tanto alla politica quanto al Gran Turco.

«Il Commissario mi riferisce che nelle sue risposte quel Bigonci si contenne in modo — naturalmente negativo — da non poter nulla dedurne a suo carico, e che mostrò certe lettere e certi ricapiti onde sarebbe provata la sua vera identità come cantante.

«Le scrivo subito queste cose, caro Governatore, perchè sapendo come i Baldissero padre e figlio [122] desiderino la sollecita liberazione di uno dei compromessi, Ella veda se vi ha modo di contentarli. Io non oserei prendere su di me tanta risponsabilità; ma se V. E. mi vi incoraggia con una sola parola, io darò senza ritardo gli ordini di rilascio per quel Benda, a favore del quale anche a Lei sarà andato a parlare il marchese di Baldissero.

«Mi creda, ecc.»

— Ebbene? interrogò il marchese quando ebbe udito la lettura di questo biglietto. Che cosa conti di fare?

Il Governatore esitò un momentino.

— Primo impulso, e quello che seguirei più volentieri, sarebbe di contentarti senza ritardo; ma tu capirai le considerazioni che me ne trattengono.... Il ministero dell'interno è in una specie di gara con noi militari. Se diamo passata a certe cose, farà comparire agli occhi di S. M. che noi non siamo abbastanza vigilanti od abbastanza oculati. Abbiamo ancora la disgrazia che il marchese di Villamarina passa colla nomèa di velleità liberali, ed essendo egli ministro della guerra, si crede che i militari per andargli a genio sieno più disposti a tolleranza di quel che converrebbe... Certo io non posso essere sospetto, ma pure....

Baldissero lo interruppe con un grave sorriso:

— No, il menomo dubbio non può nascere sul tuo conto di tepidezza nell'affetto alla monarchia e nello zelo del tuo ufficio, e spero che un sospetto di simil natura non debba nemmeno poter colpire me stesso. Comprendo la forza delle considerazioni che ti trattengono, e non cerco altrimenti di smuoverti dalla tua determinazione. Esaminerò io stesso di meglio la cosa, poichè tu me lo concedi, e quando io mi confermi nella mia persuasione che non vi sia in tutto codesto che imprudenza giovenile, sfogo di liberalismo rettorico e nissun vero attentato contro il legittimo Governo, allora ne parlerò io stesso di proposito al Re.

— E sarà il meglio che potrai fare: disse il Governatore.

Tese a Baldissero la destra e soggiunse:

— Spero che tu non l'avrai meco per ciò?

Il marchese gli strinse la mano con amichevole effusione.

— Che dici? Potresti pur pensare una cosa simile? A luogo tuo, io non avrei fatto diversamente da quello che tu.

Baldissero si partì dal Governatore, accompagnato da quest'esso sino all'anticamera.

A muovere San-Luca a recarsi da suo zio il generale dei Carabinieri per testimoniare in favore di Bigonci era stato quell'amico e compagno di Maurilio e di Selva, che chiamavasi Romualdo.

Assente per sua fortuna nel momento in cui facevasi la perquisizione ed arrestavasi Maurilio nella casa del pittore Vanardi, Romualdo, rientrando, vedeva scolpito sulla faccia spaventata di Antonio l'annunzio che gravi novità erano intravvenute, ed udiva dalle vivaci, colorite ed interminabili chiacchere della signora Rosa tutti i particolari dell'avvenimento.

Romualdo avvertiva tosto tutta la rilevanza di questo fatto; il ritardo di Selva nel tornare a casa gli faceva inoltre temere che ancor egli fosse caduto negli artigli della Polizia, e capiva abbastanza che alcun sospetto era nato intorno alla congiura — e fosse pure soltanto un sospetto! — e che l'arresto di Mario, quando foss'egli conosciuto per chi era realmente, importava la rovina di tutti i loro audaci disegni patriotici, la perdita della libertà, e fors'anco della vita, per i coraggiosi giovani cospiratori. Le fucilazioni d'Alessandria non erano ancora tanto lontane che la loro memoria non legittimasse il timore di nuove condanne a morte.

Metteva quindi il cervello alla tortura per cercar modo di trovare, se non un mezzo di salute, uno spediente che riparasse almeno in parte la minacciata rovina. Vanardi, sgomentito sino nell'imo fondo dell'anima, proponeva scappar subito così lontano che non si potesse veder più spuntare da nessuna parte sull'orizzonte il pennacchio prepotente e il candido budriere d'un carabiniere del re di Sardegna; col qual mezzo egli faceva anche quest'altro guadagno di mettere la salvaguardia d'una distanza non facilmente superabile fra sè e i suoi creditori, che incominciavano a tormentarlo.

Ma Romualdo non era a salvar sè che pensava soltanto, gli era a salvar gli amici e l'impresa. Non potendo fermare la sua risoluzione su partito alcuno, al buio com'egli si trovava delle circostanze che avevano cagionato l'arresto, Romualdo determinò di andare attorno per la città in busca di informazioni dalla voce pubblica, e di cercare intanto sollecitamente di Mario, del quale importava saper le novelle e col quale urgeva massimamente concertare il modo di governarsi.

Questi arresti e la perquisizione erano evidentemente dei fatti che si attaccavano alla comparsa nella sera precedente di quel personaggio sospetto cui Mario venendo aveva trovato nel camerino della portinaia e dal quale il congiurato s'era accorto essere stato seguito cautamente su delle scale. Sarebbe stato assai bene avere dalla portinaia alcuna informazione in proposito, e Romualdo pensò che niuno era al mondo più atto a codesto che la moglie di Antonio, la buona, vivace e ciarliera signora Rosa; ma, come un'idea ne mena un'altra, questo gli fece avvisare come fosse assai probabile che alle ciarle appunto della signora Rosa con madama la portinaia si andasse debitore dei sospetti e della visita della Polizia.

Romualdo parlò di proposito, a questo riguardo, alla brava donna, mettendole innanzi tutto il danno che ciarle imprudenti potrebbero cagionare; Antonio, [123] il marito di lei, rincarò la dose, strepitò che la era stata di certo quella benedetta linguaccia a comprometterli nei suoi eterni pissi pissi, or con questa, or con quella delle donnacole della casa, che intanto la Rosa poteva andar lieta e superba che aveva messo in sull'orlo dell'abisso suo marito e la famiglia e gli amici del marito, e chi sa ancora se poteva evitarsi il capitombolo nel precipizio! e certo se una sola ciarlatina veniva tuttavia ad accrescere l'imprudente, involontaria delazione, la era una spinta da non potersi più parare in nessun modo dalla catastrofe.

La Rosa rimase a tutta prima sbalordita; ma la non era donna da abbandonarsi così agevolmente per vinta. Protestò fermo e forte che Ella non aveva detto nulla, non aveva scoperto nulla di nulla, perchè di fatto non la sapeva neppure una briciola di quanto e' venivano maneggiando nei loro segreti convegni; che ad ogni modo le sue ciarle erano sempre le più innocenti del mondo, perchè la era donna abbastanza di senno per sapere quello che si ha da dire e quello che si ha da fare e che non sarebbe stato per suo fatto mai che nè la concordia d'una casa, nè la pace d'una famiglia, nè la sicurezza di nessuno avrebbe da rimanere compromessa; e qui, scambiando parte ed eloquenza, passava da difenditrice di sè medesima ad accusatrice d'altrui: e che gli era un grave torto far di questi nasconderelli ad una moglie che, come lei, si meritava stima e fiducia dal marito; e che la testa sulle spalle la aveva ancor essa e dentrovi due dita di cervello, forse più che non altri; e che a dare un consiglio ci valeva tanto bene che, forse e senza forse, s'ella avesse saputo di che si trattava e le avessero dato retta, non si troverebbero ora in quel bello spineto; e qui voltando, come dice Dante, il discorso per punta a suo marito, soggiunse: che gli era in lui un gravissimo torto, come padre di famiglia, quello di cacciarsi in queste mattane, e per delle bubbole d'idee sconclusionate rovinare in un amenne moglie e figli e tutta la baracca.

Antonio era così avvilito dell'animo che non aveva più bastante vigore da contrapporsi alle invettive ed alle conclusioni della moglie, alla quale in cuore la paura gli faceva dar la ragione; Romualdo giudicò rettamente che per finirla bisognava dar passata a quello sfogo e non contrastar menomamente alle concitate di lei deduzioni.

— Mia cara signora Rosa, diss'egli: tutto questo sta bene, ma ora, a pigliarla comunque, gli è di quel senno di poi di cui sa che son piene le fosse e che serve ad un bel niente. Lasciamo stare quello che è stato e pensiamo a quello che è. S'Ella ci sa spillar fuori dalla portinaia alcuni particolari sull'uomo di ieri sera, la ci può giovar molto.

La Rosa si acquetò di subito. La cosa era troppo grave e la toccava troppo da vicino, perchè non le dèsse tutta l'importanza; ella era poi di cuore inclinata a fare il maggior bene che potesse anche a chi gli era indifferente, figuriamoci poi ora che erano in ballo così ponderosi suoi interessi! Inoltre la buona donna aveva sì fatto la brava in presenza del marito e di Romualdo che la rimproveravano, ma in fondo della sua coscienza c'era pure una vocina che le veniva dicendo come tanto tanto innocenti non fossero di questi effetti le chiacchere tenute colla portinaia, e il rimorso ch'ella ne sentiva si aggiungeva a stimolarne lo zelo.

— Lasciate fare a me: diss'ella racconciandosi un poco e in fretta in fretta i panni dattorno. In due salti sono giù dalla portinaia, e non sono chi sono se in cinque minuti non le ho tratto il filo della camicia.

Entrò pochi secondi dopo nel camerino della portinaia, dove le comari del quartiere erano in numero completo e vivissimamente impegnate in ciarle che s'incrociavano senza soluzione di continuità sull'importante argomento dei fatti straordinarii avvenuti quella mattina nella casa. Era colà la gran cuffiona della comare Marta, la lingua più affilata e meno temperante — a detta di monna Ghita, che pure non si lasciava passare nessuna davanti in codesto, — di tutto il quartiere; c'era la bocca sdentata e il mento lanuginoso della Polonia, la rivenditrice di pignatte e di pentole che stava di faccia: chi non c'era delle brave pettegole del pian terreno di quella strada? Le dicerie che avevano corso in quello scambio di supposizioni e di fiabe erano d'una fenomenale assurdità. I giovani erano stati arrestati tutti; le cagioni del fatto erano variamente allegate, ma tutte gravissime: nella casa loro la Polizia aveva trovato cose! cose da fare orrore! La supposizione che Barnaba la sera innanzi aveva fatta sorridendo alla portinaia, tanto per ispillarne la verità, che cioè in casa il pittore si fabbricassero monete false, era per alcune diventata una realtà luminosamente stabilita; altre che si pretendevano meglio informate volevano che quei giovani fossero stati scoperti gli autori dei misteriosi delitti che da qualche tempo avvenivano, e fra gli altri del furto negli uffizi di banca del signor Bancone, di cui da due giorni discorrevasi per tutta Torino; e ve n'erano anche di quelle che pronunziavano la misteriosa parola di politica, ed affermavano sotto voce che gli arrestati erano frammassoni, gente che rinnega Dio e la Chiesa, che commette mille orribili sacrilegi e nefandità, nascosta nelle cantine, e che costoro, fra gli altri, avevano giurato di dar fuoco ai quattro canti della città e sgozzare tutti i preti e far perire tutta la povera gente.

In verità quella rispettabile assemblea di vecchie ciane, per dirla alla fiorentina, mostravasi assai poco propensa alla causa degli arrestati; non c'era che la portinaia, la quale credevasi in dovere di recare in mezzo alcune parole in loro difesa; ma aimè! la era quella una difesa assai poco abile ed [124] efficace, perchè si limitava a dire che vedendoli, quegli individui, nessuno mai più si sarebbe aspettato che avessero qualche cosa da spartire colle manette della Polizia e colla paglia del carcere.

L'entrata di Rosa in mezzo a questo sinedrio di cuffie, produsse, come si suol dire, una viva sensazione. Le ciarle inaridirono un momento sulle bocche ancora aperte, gli occhi lanciarono una mitraglia di punti interrogativi con una curiosità elevata alla quinta potenza: le pettegole si serrarono intorno alla nuova venuta come in una rocca cinta d'assedio si stringe intorno ad un convoglio di viveri la guarnigione affamata.

Rosa non ebbe da interrogare, chè le richieste delle altre le fioccarono addosso come gragnuola; non ebbe da usare arte nessuna a trar fuori da monna Ghita il racconto della visita dello sconosciuto, la sera precedente, perchè di proprio impulso la portinaia afferrò quella propizia occasione per narrare la ventesima o la trentesima volta tutti i particolari, tutte le parole, tutti gli atti che avvennero, ed anche alcuni che non avvennero in quel famoso abboccamento coll'uomo il quale rassomigliava da sbagliarlo, a detta sua, col fumista di via Santa Teresa; abboccamento cui l'acuta penetrazione e l'infallibile giudizio della moglie di Bastiano le avevano fatto ritenere come strettamente collegato cogli strepitosi avvenimenti della mattina che aveva susseguito.

Rosa, quando ebbe saputo ciò che le importava, fece il miracolo di sbrigarsi dalle ciarle interrogative e dalle mani adunche di quell'onorevole congrega, e corse ad informarne Romualdo, il quale, provvisto di quelle nozioni, s'affrettò ad andare in traccia di Mario.

Non avendolo trovato nell'altro suo riposto alloggio, Romualdo pensò che non avrebbe potuto coglierlo altrove che al teatro, dove si sarebbe recato alle prove ch'egli era obbligato di farci per sostituire il primo baritono ammalato; e delle quali prove s'avvicinava l'ora. Diffatti al teatro Medoro Bigonci non era ancora venuto; ma Romualdo camminando lentamente sotto i portici in quella direzione per cui supponeva che l'amico sarebbe sopraggiunto, lo incontrava poco stante sulla cantonata fra piazza Castello e via di Po.

Mario, visto appena da lungi Romualdo, gli fece un cenno impercettibile perchè lo seguitasse, e col passo tranquillo d'uno che passeggia per suo diletto, cambiato il cammino, si avviò verso il mezzo della piazza deserta di passeggeri, dove si rammontava la neve che seguitava a fioccare.

Romualdo fu lesto a raggiungerlo.

— Qui, gli disse di subito Mario, con questo tempaccio, saremo osservati di meno e certo non ascoltati da nessuno, quantunque lì presso (ed additava le torri scure del palazzo Madama) abbiamo il covo della fiera belva della Polizia..... Selva e Benda sono arrestati e tu vieni per avvisarmene.

— Selva e Benda? Esclamò Romualdo che non potè frenare un moto di sgomento. Ne sei sicuro?

Mario chinò il capo in segno affermativo.

— Allora tutto è scoperto: continuò Romualdo. Sono venuti a casa nostra a fare la perquisizione cercando di te, ed hanno arrestato Maurilio.

E qui di fretta, nelle meno parole che si poteva, ripetè all'amico quanto era avvenuto e quanto per mezzo di Rosa erasi appreso di poi dalle ciarle della portinaia.

Il cospiratore tacque un istante, quando Romualdo ebbe finito, aggrottando le sopracciglia nella contenzione del suo cervello per meditare.

— Sono sospetti che si hanno soltanto oppur delle prove a nostro danno? Diss'egli di poi, parlando sotto voce, quantunque nella vastità della piazza, in cui si trovavano i due amici, non ci fosse che un deserto di neve. Voglio sperare che sieno sospetti soltanto, ed a noi che dobbiamo lottare, tocca il trovar modo da distrurli..... Ragioniamo un po'. Se prove realmente ci fossero, avrebbero proceduto agli arresti in più larghe proporzioni. Selva alla prima volta fu lasciato libero, e non fu preso che in casa Benda per un avvenutovi episodio; Vanardi stesso non sarebbe stato lasciato tranquillo. D'altronde si potrebbe supporre che la congiura fosse da qualche traditore svelata alla Polizia; ma come immaginare che fossero denunziati i nostri nomi che ignorano tutti, fuorchè pochi dei capi, fra cui impossibile un tradimento?... Sono le ciarle della portinaia a quella spia poliziesca di ieri sera che hanno data la sveglia. Ma come, e per qual caso quella spia si è ella cacciata là dentro, evidentemente a nostra intenzione, forse forse più specialmente per me?

Si fermò un istante assorto in più profonda riflessione.

— Sì per me: ripetè egli. Il modo con cui mi ha guardato, l'essermi venuto dietro di quella guisa...

Fece un movimento quasi contratto, come di chi vede apparirsi alla mente un'idea ancora fuggitiva in cui si contiene la verità, e per afferrarla fa un atto anche colle membra, come se ciò ne l'avesse da aiutare.

— Ma la figura di quell'uomo io l'ho vista altra volta, in altri tempi, in altri luoghi... Dove? Dove?

Si volse di scatto a Romualdo.

— Sai tu s'egli sia piemontese quel cotale?

— Non so... ma probabilmente sì... anzi certo, perchè se fosse altrimenti, monna Ghita non avrebbe taciuto la circostanza importante ch'egli parlasse in modo diverso da noi.

— Io in Piemonte è la prima volta che ci vengo. Dunque se l'ho veduto... e più ci penso e più mi persuado che gli è così..... l'ho veduto in altro paese... In Francia? No, non mi pare... In Roma?...

Ebbe come un lampo di visione nella memoria.

[125] — Sì, in Roma... Aspetta ch'io raccolga le mie idee. Un poliziotto!... Quel pane d'infamia si comincia a mangiarlo di buon'ora, chi ha l'anima vile; ed in Roma ho avuto appunto di che spartire con quella scellerata Polizia...

Mandò un gridolino, che soffocò tosto, di sorpresa e di soddisfazione.

— L'ho trovato!... Mi ricordo che il Delegato di polizia che procedette al mio interrogatorio in Roma e mi tenne il linguaggio più burbero e più minaccioso che seppe non aveva l'accento romano. Stemmo in faccia l'uno all'altro quasi mezz'ora, e i miei lineamenti dovettero imprimersi nella sua memoria come i suoi si stamparono nella mia... Quel Delegato, ne metterei pegno la mano, è l'uomo di ieri sera.

— Ma allora, disse Romualdo profondamente turbato, egli conosce appuntino l'esser tuo...

— Non basta ch'egli lo conosca, interruppe Mario vivamente: bisogna che lo provi. Per ciò non potrà allegare altro che la sua affermazione. Questa basterà ed anche troppo, quando non vi sia nissun argomento in contrario a mia difesa; ma se troviam modo — e bisogna cercarlo assolutamente — di recare in appoggio della mia identità innocente con Medoro Bigonci qualche altra affermazione autorevole, si metterà la denunzia del poliziotto in conto d'uno sbaglio dovuto ad una rassomiglianza, e il pericolo potrà essere superato.

— Dove trovare quest'affermazione autorevole? Domandò Romualdo sempre turbato quel medesimo.

E Mario sempre calmo, con tutta libertà di mente:

— C'è qualcheduno che può procurartela. Aspetta.

Trasse di tasca un taccuino, vi stracciò un foglio e vi scrisse su poche parole colla matita.

— Gli è certo, diss'egli poi, che adess'adesso sarò arrestato in teatro, dove i birri già m'aspetteranno; appena ciò sia, tu corri dal dottor Quercia a casa sua, di cui ti scrivo qui sopra l'indirizzo; narragli l'accaduto senz'altro ed esponigli di che si ha bisogno. Gli è quell'uomo, a cui vi ho detto ieri sera che dovremo il concorso della plebe: egli può molto, e vuole, e sa!.... Non dubito ch'egli ci trarrà d'ogni impaccio.

— Sta bene: rispose Romualdo, riponendo accuratamente in un portafogli la cartolina datagli da Mario.

— Ed ora, disse questi sorridendo, vado a farmi arrestare.

Si diresse di buon passo, traverso la piazza, alla volta del teatro, dove giuntovi appena, la sua previsione fu pienamente effettuata.

— Gli è Lei il signor Bigonci? Gli domandò un uomo d'ignobil sembiante.

— Io in persona.

— Si compiaccia venir con noi (erano in due) al Palazzo Madama, dove il signor Commissario lo aspetta.

— Il signor Commissario? Esclamò Mario con uno stupore che niun valente comico avrebbe saputo finger di meglio. Non so che cosa abbia da fare con me il signor Commissario.

— La lo saprà, quando gli sarà venuta dinanzi.

— È giusto. Andiamo pure.

Ma qui il povero impresario, che era già in una maledetta bizza pel ritardo di Bigonci nel venire alle prove; l'impresario saltò in mezzo esterrefatto.

— Come! Gridò egli. Me lo conducete via? E le prove?

— Che cosa importa a noi delle vostre prove? Ci fu dato ordine di portarlo dal Commissario appena lo trovassimo, e ce lo portiamo.

— Ma almanco lo si lascierà venir tosto a far queste benedette prove, senza cui non posso andar avanti.

— Sì, bravo, contateci su: risposero i birri ridendo ironicamente. E' ci vorrà un poco prima che costui ne abbia gli occhi netti.

— Oh povero me! Esclamava l'impresario. Ma io sono un uomo rovinato..... Io protesto.

Come è facile immaginare, tutte le esclamazioni e tutte le proteste del pover'uomo non giovarono a nulla, e Medoro Bigonci fu tratto in arresto.

Mentre l'impresario si disperava della più bella, nell'emozione che questo fatto aveva destato in mezzo a tutti gli artisti colà radunati, Romualdo si accostò chetamente all'impresario medesimo e presolo ad un braccio per chiamarne a sè l'attenzione, gli disse:

— Senta un po' qua signore.

Romualdo, che pochi anni addietro aveva dato fondo al suo patrimonio scialandola da giovane elegante, era stato frequentatore assiduo di spettacoli e conoscente famigliarissimo del mondo teatrale[7]; l'impresario non avevalo ancora dimenticato e volentieri si rese all'invito di lui, appartandosi alquanto dagli altri.

— Oh sor avvocato: cominciò senz'altro l'impresario colla passione d'un uomo che vede recarglisi un grave danno irreparabile: a me le mi toccano proprio tutte! Questa, le dico io, che mi rovina senz'altro. La stagione è già andata fin adesso zoppicando, e quest'ultimo colpo mi rovescia colle gambe in aria. Senza Bigonci io non ho più uno spettacolo tollerabile da mettere in iscena, e mi conviene chiudere il teatro. Si figuri il mio danno! Ho l'ultimo quartale da pagare. In quest'ultima settimana di carnevale avrei fatto i migliori introiti di tutta la stagione, che mi avrebbero alquanto rimpannucciato. Che! Non posso nemmanco dar la rappresentazione [126] di domenica per la venuta della Corte!!

Si cacciò le mani ne' capelli come chi è cascato in un abisso di desolazione, da cui non vede mezzo di uscire.

— Dia retta: gli disse Romualdo: forse c'è ancora un mezzo di scampo.

— Sì? Esclamò il pover'uomo. S'Ella mi procurasse questo mezzo, sor avvocato, mi renderebbe un servizio de' più fioriti che si possano.

— Ricorra alla nobile Direzione dei teatri. Sono tutti personaggi titolati e potenti che possono efficacemente adoperarsi a far liberare Bigonci.

— La dice bene, ci ho già pensato, ma Ella sa pure che il Commissario Tofi, quando ha qualcuno nelle unghie, a lasciarlo andare.... Converrebbe almeno sapere che cosa ha dato motivo all'arresto di Bigonci.

— Credo d'averlo indovinato. Bigonci ha la disgrazia di somigliare moltissimo ad un certo rivoluzionario romano che è al bando di tutte le polizie, e lo si sarà scambiato per quello. Io li ho conosciuti ambedue, e davvero che c'è da sbagliare. Se qualcheduno testimoniasse di codesta cosa...

E l'impresario sollecito:

— Questo qualcheduno può essere Lei....

— Molto volentieri; ma io essendo amico di Bigonci e coabitando con esso lui, la mia parola non può avere tutta quell'autorità che si vorrebbe quando non sia confermata da quella d'un altro.

— Senta, caro avvocato, andiamo insieme dalla Direzione teatrale. Ella, che sa parlar meglio di me — un avvocato è fatto apposta — esponga le cose a mio nome; e se ciò non basterà ancora, allora vedremo qual altra pedina sia il caso di muovere.

Così fecero. La Direzione teatrale, composta a quel tempo di titolati del più puro sangue aristocratico, si commosse assai all'affermazione che, mancando Bigonci, la rappresentazione dell'ultima domenica del carnovale non avrebbe potuto aver luogo; e promise pigliar interesse per questa faccenda. Ad un punto interrogò, com'era naturale, se l'impresario conoscesse le ragioni dell'arresto di quel cantante, e Romualdo senza esitare ripetè ciò che aveva già detto all'impresario, e poi con tutta sicurezza soggiunse:

— Ma io e qui l'impresario possiamo far fede che questo è realmente un mero errore materiale, frutto di quella straordinaria rassomiglianza. Gli è da cinque o sei anni che noi conosciamo Bigonci; e sempre l'abbiamo conosciuto per artista di canto e sotto il suo nome, e ne possiamo rispondere.

— Gli è vero? Domandò il presidente della Direzione all'impresario.

Questi non osò negare, nè contraddire menomamente il suo compagno; ma non osò neppure dir franco di sì; curvò il capo in una mossa dubbia, che gli altri presero per affermativa. Il presidente della Direzione scrisse senza ritardo una lettera di ufficio al generale Barranchi, nella quale, appoggiandosi sulla testimonianza dell'impresario, si negava l'identità dell'arrestato col rivoluzionario Mario Tiburzio e si faceva un pressante richiamo per la pronta liberazione del baritono Bigonci, la cui presenza era necessaria al buon andamento degli spettacoli nel teatro di S. M.

Mentre uscivano dall'ufficio della nobile Direzione teatrale Romualdo e l'impresario ebbero la fortuna d'incontrare il conte San-Luca il quale recavasi alla sua solita stazione al caffè Fiorio.

Nel tempo della sua vita spendiosa ed elegante, Romualdo era stato per due carnovali di seguito vicino di sedia chiusa al teatro Regio col conte San-Luca, ed aveva avviata con esso una certa amichevole relazione che s'era stretta ancora di vantaggio nelle frequenti volte che si erano trovati di compagnia nella casa d'una celebre prima donna cui proteggevano ambedue ed in certe cene che regalavano di conserva all'appetito delle corifee del Corpo di ballo. Benchè Romualdo, ridotto al verde, avesse cessato da un po' di tempo quel genere di vita, tuttavia il conte San-Luca degnavasi ancora rispondere con garbo al saluto che il giovane borghese gli dirigeva, trovandolo per istrada, così bene che per le attinenze del passato, Romualdo si credette in facoltà di fermare il nobile zerbino per informarlo della grave disgrazia che aveva colpito l'impresario e minacciava far sospendere il corso delle rappresentazioni del massimo teatro torinese.

A San-Luca parve cotesta una cosa tutt'altro che da prendersi a gabbo, e quel passo che alle istanze del marchesino di Baldissero aveva rifiutato di fare presso suo zio, si decise di farlo ora che vide minacciata di un'immatura fine la serie de' suoi divertimenti. Corse adunque dal conte Barranchi, e tanto disse e tanto fece, affermando, testimoniando, giurando l'innocenza dell'incriminato baritono, che ne ottenne quella lettera che abbiamo vista scritta dal comandante della Polizia al Governatore della città.

A ciò venne ad aggiungersi la pratica iniziata dalla nobile Direzione teatrale, la quale avendo dato luogo ad uno scambio sollecito di dispacci dall'una parte e dall'altra di quella stessa giornata, ebbe per risultamento un compromesso mercè cui la Polizia consentiva a ciò che il sig. Bigonci andasse in teatro lungo il giorno alle prove e la sera alla rappresentazione, ma ci andasse accompagnato da due arcieri travestiti che sempre lo custodissero a vista, e finita la sua parte lo rimenassero nella carcere assegnatagli al Palazzo Madama: frattanto si appurerebbero di meglio le cose per prendere poi a questo riguardo una risoluzione definitiva.

Ma Romualdo non si contentò d'essersi adoperato in questo modo e d'aver ottenuto codesto. Avendo poscia appreso tutto ciò che era capitato, assai gli [127] doleva e della pena in cui era la famiglia Benda, e del modo barbaro e villano in cui Selva era stato trattato nel suo arresto, e del pericolo gravissimo che incombeva sui tre carcerati amicissimi suoi, Maurilio, Francesco e Giovanni, e sul buon Vanardi stesso e la sua famiglia, e su se medesimo. Pensando e ripensando quali modi possibili gli si presentassero mai da tentare per ottenere alcun riparo all'avvenuto danno ed a quelli più gravi minacciati, dopo averne immaginato di mille guise spedienti gli uni meno accettabili degli altri, si fermò ad un tratto sopra un proposito che era strano, quasi temerario, ma che gli sembrò presentare alcuna probabilità di successo.

Aveva udito la sera innanzi narrato da Mario Tiburzio un suo colloquio con Massimo d'Azeglio venuto di quei giorni in Torino, a detta di tutti, non senza intendimenti politici; aveva udito come questo patriota che disposava insieme nel suo liberalismo le delicature dei modi aristocratici coll'amore della democrazia e della libertà, nutriva molte speranze per la causa italiana nei generosi e nazionali, ancora segreti sentimenti del re; come appartenente egli stesso a quel ceto nobiliare che teneva in Piemonte l'assoluto sopravvento, benchè per opinioni da' suoi pari disgiunto, Romualdo supponeva che alcun influsso di protettorato potesse esercitare colla sua parola Massimo D'Azeglio, il quale d'altronde conosceva, stimava ed amava l'animo forte, le convinzioni profonde e l'onestissima operosità patriotica di Mario Tiburzio. L'amico di Mario e di Selva sapeva d'altronde che gli uomini di superiore intelligenza non amano stare e non istanno soggetti alla volgare tirannia di quelle regole delle forme sociali, per cui i rapporti fra persona e persona ricevono limiti ed ostacoli spesso impacciosi; e dagli scritti del nobile piemontese e da quanto conosceva della vita di lui, Romualdo era chiarito della superiorità dell'intelligenza di Massimo; poteva quindi esser quasi certo che presentandosi a lui, benchè ignoto affatto e di persona e di nome, ma presentandosi con fare appello alla generosità di quel carattere, ne sarebbe stato accolto ed ascoltato senza fallo.

Romualdo non lasciò raffreddare in sè il calore di quella risoluzione; si avvide che, indugiando, ne avrebbe perduto il coraggio, e si diresse senz'altro verso la locanda d'Europa, allora chiamata albergo Trombetta, dove sapeva alloggiato il D'Azeglio.

Entrò sotto quel portone, salì quelle scale fino al pianerottolo dell'uffizio della locanda col cuore che a dire la verità gli palpitava un pochino. Si trattava di comparire innanzi ad un uomo cui la gloria già acquistatasi dava una imponenza maggiore che non faccia l'autorità ufficiale d'una carica governativa. Al primo garzone che gli venne incontro, Romualdo colla faccia sicura d'un uomo che domanda la più semplice cosa del mondo, chiese:

— Massimo d'Azeglio c'è?

A Romualdo pareva che questo nome bastava da sè, e non aveva punto bisogno d'essere scortato da nessun titolo; ma così non parve al cameriere. Questi guardò bene dall'alto in basso il giovane che lo aveva interrogato, poi rispose con tono che mostrava codesto esame non avergli ispirato molta deferenza pel visitatore:

— Mi par bene che il marchese d'Azeglio non sia ancora uscito.

E voltosi ad un uomo attempato che sedeva dietro un tavolino nell'uffizio, domandò a sua volta:

— N. 87 c'è?

L'uomo del tavolino si volse a guardare un gran quadro di legno nero in cui erano schierati in file regolari i numeri di tutte le camere dell'albergo con un gancino a cui si appiccava la chiave di quelle non occupate o di cui l'occupante fosse uscito.

— C'è: rispose come uno Spartano l'uomo attempato.

— Sa Ella dove sia il numero 87? Domandò il cameriere a Romualdo.

— No: rispose questi che ignorava compiutamente la geografia di quella principale fra le locande torinesi.

— Su, all'ultimo piano: disse il garzone, e mentre Romualdo cominciò a salire, fattosi alla ringhiera della scala tirò una corda che fece suonare un campanello nella stanza di passaggio dell'ultimo ripiano.

Il nostro giovane continuò a scalpitare, salendo, la lista di tappeto che copriva il mezzo dello scalone di marmo, e poscia la stuoia più democratica che dal secondo piano in su sostituiva il tappeto, e quando giunse proprio in alto della casa, trovò dritto sull'ultimo scalino un altro cameriere che era postato là come un punto interrogativo.

— Cerco il numero 87: disse Romualdo senza aspettar altro.

Ma l'Azeglio, avvezzo ad essere disturbato da mille fastidiosi inutilmente, aveva dato ordini opportuni in proposito.

— Mi dica il suo nome: ribattè il cameriere, sul quale l'aspetto del giovane non pareva aver fatto una impressione diversa da quella del suo compagno al primo piano; ed io andrò ad annunziarlo.

Romualdo trasse di tasca un suo taccuino e sopra un foglio che ne stracciò scrisse il suo nome e sottovi queste parole: «Le sono affatto sconosciuto, ma vengo a chiederle un grandissimo favore per quattro giovani patrioti.»

Il cameriere prese la carta e sparì voltando in un corridoio. Il battere del cuore di Romualdo non cessò in quei pochi momenti che stette aspettando; e quei momenti furono pochi davvero. Il garzone ricomparve all'angolo del corridoio e disse al giovane che aspettava:

— Mi segua.

Camminarono un tratto e poi si fermarono ad [128] una porta sopra cui era scritto il numero 87, e nella toppa della cui serratura stava ficcata la chiave.

Il cameriere battè leggermente nell'uscio colla nocca delle dita.

— Avanti: disse dall'interno della stanza una voce velata, un po' debole, quasi stanca, ma gentile e piacevole.

L'uscio fu aperto, il garzone si trasse in disparte, Romualdo entrò e si trovò faccia a faccia coll'alta e spigliata persona di Massimo d'Azeglio.

— Venga avanti: disse l'illustre scrittore, aguzzando gli occhi, col serrar delle ciglia, per un vezzo che era abituale alla sua miopia, verso il giovane che entrava inchinandosi.

Era l'Azeglio avviluppato in una vestaccia di lana bianca che dimezzava di forma fra la zimarra e l'antico lucco fiorentino, con un capuccio che cascava dietro le spalle, e colle mani se ne teneva egli serrate al corpo le falde, mentre drizzatosi in piedi faceva un passo nella direzione della porta ad incontrare chi entrava.

Era quella dall'Azeglio occupata una piccola e modesta cameretta, con una semplice tappezzeria di color chiaro appiccata alle pareti, con un piccolo letto senza cortinaggio, con pochi mobili di semplice legno verniciato, con una modesta valigia in un angolo, con un piccolo caminetto alla Franklin, in cui ardeva un fuoco niente superbo. Quella stanza non rispondeva alla dignità del titolo marchionale e dell'aristocratico lignaggio, ma all'umiltà ed alle mediocri fortune dell'artista, del letterato e del secondogenito di nobil famiglia.

La finestra si apriva nella parte esterna della casa e si vedeva, precisamente di faccia, al fondo della piazza reale, sorgere la massa imponente del palazzo regio, dimora di Carlo Alberto. Presso ai vetri della finestra era un piccolo tavolino con sopravi alcuni fogli, di cui uno scritto a metà, e la penna, tuttavia bagnata d'inchiostro, posatavi daccanto; si vedeva che l'Azeglio era stato interrotto mentre scriveva e s'era tolto pur allora da quel tavolino, traendo indietro per alzarsi la poltrona che gli stava dinanzi. La cominciata scrittura, a cui Massimo stava lavorando, era il famoso opuscolo, che tanto utile effetto doveva produrre in Italia col titolo: Gli ultimi casi di Romagna.

Romualdo non seppe a tutta prima che inchinarsi, come ho detto, pronunziare le usate parole di saluto e guardare con intentiva, ma rispettosa attenzione quella simpatica figura sorridente, illustrata dalla fama.

— Lei dunque è il signor Romualdo, incominciò l'autore d'Ettore Fieramosca, guardando sul fogliolino che il giovane avevagli mandato, e ch'egli teneva ancora in mano; e viene da me per un favore?

— Signor sì: rispose il giovane: ed Ella comprenderà meglio la ragione della mia temeraria venuta, quando le avrò detto che uno di quei patrioti per cui vengo ad interessare la sua generosa bontà, è Mario Tiburzio.

Massimo d'Azeglio sogguardò un istante il suo interlocutore con acuità di sguardo profondamente scrutativa. La missione politica cui l'illustre scrittore aveva assunta non era ignota al partito assolutista che teneva allora l'impero in Piemonte, e ben sapeva l'Azeglio di essere osservato, spiato, e circondato di tranelli e d'insidie, affine di coglierlo in fallo ed aver un pretesto d'ordinargli lo sfratto dagli Stati del re, a dispetto delle sue aderenze e del suo nome. E che questo avvenisse prima ch'egli avesse potuto, non che compiere ma tentare l'opera per cui era venuto, sommamente avrebbe doluto all'Azeglio; quindi senza nascondersi per nulla, senza infingersi menomamente, stava egli in sulle guardie con quella finezza di discernimento che non poteva dirsi furberia, la quale troppo spesso confina coll'inganno e colla mala fede, ma che era una prudente avvedutezza naturale al suo ingegno, onde governava i suoi atti e parole.

Il fatto d'uno sconosciuto che gli si presentava senza ricapiti di sorta, e di colpo veniva a gettargli innanzi il nome di uno dei più esaltati tra i rivoluzionari italiani, era tale da far nascere sospetto anche nel più confidente e nel meno avvisato degli uomini; laonde Massimo stette un momento prima di rispondere, e affondò quel suo sguardo limpido e sereno negli occhi di Romualdo. Ma fu un istante. Osservatore acuto ed esercitato degli uomini e delle cose, il nobile patriota non tardò a leggere sulla fisionomia di chi gli era venuto innanzi l'onestà, la sincerità e insieme quella ammirazione per colui che veniva a supplicare, la quale, anche all'animo degli uomini superiori, è la dolcezza d'un omaggio non disgradito. Fece seder Romualdo innanzi a sè, e con piglio pieno di fiducioso abbandono e tale da ispirare la più compiuta fiducia, disse a sua volta:

— Ella conosce Mario Tiburzio?

Romualdo sentì l'obbligo di spiegare le relazioni che passavano fra lui e l'emigrato Romano, e di narrare il modo onde avevano avuto principio; poi finì per esporre come Mario fosse stato arrestato e al pari di lui tre altri giovani suoi amici, ne disse il modo e raccontò eziandio quanto era stato combinato fra lui e Mario, e quanto egli aveva già incominciato ad operare affine di ottenere distrutti i sospetti della Polizia e liberati i quattro giovani.

D'Azeglio lo ascoltò in silenzio, molto attento e con evidentissimo interesse. Poscia manifestò il più gran rincrescimento delle cose avvenute e il suo grandissimo desiderio che le cattive conseguenze di tali arresti si potessero impedire. Taciutosi un momento, recandosi sopra sè, si volse quindi con vivacità al suo interlocutore, dicendogli:

[129] — È Ella venuta per caso affine di avere in me un altro testimonio da escludere l'identità di Mario?

— No, signore: rispose Romualdo con accento pieno di sincerità. A codesto non avevo nemmanco pensato.

— Tanto meglio!... Per quell'opera avrebbe trovato in me uno stromento affatto inefficace. Io non sono buono a mentire. Non è mica un elogio che mi faccio; è un fatto che espongo. La mia natura è così: a dire il contrario del vero non ci ho gamba, e le parole, se il voglio fare, mi si strozzano nella gola. Tutt'al più posso tacere il vero.

— Io ho pensato che Ella potrebbe aiutarci: disse allora Romualdo: il come, non l'ho nemmeno cercato. Mi sono detto fra me e me: quando egli sappia come stanno le cose non negherà di accordarci il suo patrocinio, e il modo di questo Massimo d'Azeglio saprà trovarlo assai più facilmente e meglio acconcio di quello che io gli saprei suggerire. Non sono stato a riflettere dell'altro, e sono venuto.

D'Azeglio sorrise, stette un poco assorto in sè, guardando traverso la piazza tutto bianca di neve, le brune muraglie del castello, la neve che continuava a fioccare con denso turbinar su se medesima, e in fondo alla scena, per così dire, il severo palazzo reale; poi disse ad un tratto, come cedendo ad un interno sentimento che prorompa:

— Ebbene sia: Ella ha ragione d'esser venuto. Tenterò la salvezza di quei poveri giovani, e con ciò tenterò eziandio qualche cosa di maggiore pel bene d'Italia.

Si tacque un momento quasi cercando le parole con cui aveva da esprimersi; poi crollando lievemente la testa con atto pieno di grazia e d'abbandono e sorridendo di quella sua guisa gentile ed amichevole, soggiunse:

— Io non ho autorità nè influsso di sorta presso nessuno degli alti funzionari che regolano a lor posta lo Stato, anzi sono loro grandemente in uggia ed in sospetto, e una parola mia farebbe peggio; non è quindi a nessuno di essi che penso indirizzarmi. Dacchè sono in Torino, quest'ultima volta, ho sempre pensato di domandare un'udienza al Re; ora le cose sono ad un punto che la desidero e la stimo necessaria più che mai. Domanderò sollecitamente questa udienza, e per essere sicuro del fatto mio, la domanderò per mezzo del marchese di Baldissero, il quale, benchè di opinioni affatto contrarie alle mie, mi stima, e cui io stimo oltre ogni dire. Al Re francamente, insieme con tutte le altre cose che voglio dire, parlerò dei suoi amici, signor Romualdo, e spero di ottenere dal cuore di Carlo Alberto la più clemente risposta.

— E non si può dubitare dell'esito: proruppe Romualdo con un calore contenuto che era un entusiasmo di buona lega frammisto a riconoscenza. Ella avrà tolto dalle angustie la famiglia di Benda, avrà salvata quella di Vanardi; avrà conservato all'Italia dei giovani che son pronti a dare per essa, quandocchessia la vita....

Qui si fermò ad un tratto, e chinò gli occhi con aspetto dubbioso ed esitante, come chi vede affacciarglisi ad un tratto una difficoltà od uno scrupolo di molta rilevanza.

— Ma, soggiuns'egli tosto di poi con accento privo della foga di poc'anzi, ma non di una certa dignitosa sincerità, sollevando di nuovo gli occhi sull'Azeglio che lo guardava sempre con quella sua attenzione benignamente osservativa: ma supplicare di grazia Carlo Alberto, noi... imperocchè gli è come se noi medesimi lo supplicassimo.... noi che in realtà congiuriamo a suo danno e vogliamo abbattuto il suo governo che stimiamo avverso ai destini ed ai diritti della nostra patria!... Lo dobbiamo noi? Lo possiamo in coscienza?...

Massimo d'Azeglio prese vivamente la mano del giovane e la strinse nella sua.

— Bravo! Esclamò. Ecco uno scrupolo che mi piace.

— E poi, continuava Romualdo, l'avere dal Re una grazia anco a quel modo ottenuta, non implicherebbe un tacito impegno da parte nostra di rinunziare ai nostri propositi e disegni? E noi ciò non possiamo fare a niun modo. Un giuramento solenne, e più ancora le nostre convinzioni non ce lo permettono. Fino alla morte, con ogni mezzo che ci si presenti, noi dobbiamo e vogliamo adoperarci per la libertà e per l'indipendenza d'Italia....

— E va benissimo: interruppe con vivacità l'autore di Niccolò de Lapi. E ciò dovete fare, e farete, ci conto su. Ma la questione sta nei modi di questo adoperarvi per la santa causa della patria. Certo riavendo da Carlo Alberto la libertà tolta loro dalla sua Polizia, i vostri amici non dovrebbero più vagheggiare nè tentare impresa nessuna che fosse contro la persona o lo scettro di quel Re... Io non voglio saper nulla dei vostri attuali progetti; ma conosco abbastanza le follie e le illusioni di quel partito a cui in disperazione d'altro mezzo avete dato il nome, per esser certo che voi scambiate per attuabili delle chimere impossibili. Non vi domando in nessuna guisa una promessa di rinunziare a quei pazzi disegni di cui le circostanze medesime vi mostreranno l'assoluta vanità. Sono sicuro che a quei propositi vi siete appigliati perchè non vedevate altro modo di agire in pro della libertà: quando io stesso vi possa additare un mezzo più sicuro e più leale da ciò, confido che voi l'adotterete eziandio, rinunciando alle tenebrose congiure.

— Questo mezzo, disse allora Romualdo, è certo quello di cui Ella ha già tenuto discorso a Mario: procedere verso l'indipendenza d'accordo coi Principi, ottenendo da loro medesimi a spizzichi la libertà.

Azeglio fece un cenno affermativo.

— Gli è quello, rispose, e primo fra i Principi [130] in questa strada spero si possa ottenere Carlo Alberto.

— Ma chi si fida di lui? Chi può credere in esso?

— Vi domanderò di credere non alle sue parole, ma alle sue opere..... Senta, signor Romualdo: nell'abboccamento ch'io avrò col Re, il primo argomento del mio discorso non sarà quello dell'arresto de' suoi amici; gli parlerò delle condizioni, dei bisogni, dei desiderii d'Italia, delle speranze e delle aspirazioni di quel gran complesso di spiriti liberali che si viene formando per tutta la penisola, il quale non è più una congiura che si nasconda, non è più una setta, nè manco un partito, ma può dirsi ed è la opinione pubblica, che dalla sua universalità, dalla più chiaramente acquistata coscienza dei suoi diritti, viene prendendo il coraggio di manifestarsi all'aperta luce del giorno. Gli è di questo coraggio che abbiamo bisogno in Italia, più che di quello di cimentare la libertà ed anco la vita in cospirazioni segrete, cui forse la pura ed assoluta morale non approva nemmeno; gli è questa massa di tranquilli patrioti palesi che dobbiamo adoperarci ad accrescere con una legale ed onesta propaganda negli scritti, nei discorsi, in ogni attinenza nostra; perchè accrescendo questa massa aumenteremo sempre più la forza che ha da spingere sulla strada del patriotismo i Principi colle loro forze già belle e ordinate, senza bisogno di convulsioni, di guerra civile e di danni di nessuna specie. Parlerò adunque di codesto al Re, e lo metterò, come si suol dire, fra l'uscio e il muro, per non uscire di là, altrimenti che con una parola definitiva. Se questa sarà qual'io la desidero, e la spero, allora ogni opera di congiura sarà non che inutile, dannosa; e credo abbastanza nel vostro patriotismo per essere certo non la vorrete proseguire; allora non esiterò a chiedere a Carlo Alberto di rimandar liberi que' giovani che domani avrà di certo suoi soldati nella lotta dell'indipendenza. Se invece dalle risposte del Re non avrò la certezza della sua compiuta adesione al nuovo programma nazionale che io gli esporrò in tutti i suoi particolari, allora taccio affatto de' suoi amici e lascierò le cose alla salvaguardia della Provvidenza. Questo proposito le va?

— Compiutamente: rispose Romualdo con accento in cui erano riconoscenza insieme ed ammirativa adesione. Guardi, signor marchese.....

Azeglio lo interruppe sorridendo:

— Ah! lasci stare il marchese, la prego. I miei buoni amici, i popolani di Roma, mi chiamavano sor Massimo; è il modo con cui mi piace di meglio sentirmi a chiamare.

Romualdo s'inchinò.

— Quando Ella ci dica: sul mio onore potete fidarvi di Carlo Alberto, noi ci fideremo.

Massimo rimase un istante in silenzio, quasi come se fosse perplesso. Poi scosse la testa, si alzò e recossi alla finestra, dove si pose a guardare fiso verso il palazzo reale.

— Potrò io darvi quest'assicurazione? Là dentro, fra quelle muraglie laggiù, alberga una sfinge che tiene in pugno i destini d'Italia. Varrò io ad esserne l'Edipo? Uscirà essa, questa sfinge, dal suo cupo silenzio o dal dubbio linguaggio?... Vedremo. Ad ogni modo una cosa posso accertarle: ed è che non sarò ingannatore altrui che ingannato io stesso... ed ho già visto abbastanza di cose e conosciuto di uomini al mondo, per non lasciarmi così agevolmente ingannare.

Romualdo, dopo molti altri discorsi coll'illustre cittadino, uscì da quella modesta camera di locanda più ammiratore e più fiducioso che mai dell'intelligenza, del cuore e del carattere di Massimo d'Azeglio.

CAPITOLO XX.

Il medichino, colle buste dei diamanti della contessa di Staffarda sotto il suo mantello, era giunto all'uscio chiovato di ferro dell'abitazione di Nariccia. Giusto che stava per suonare il campanello, un battente dell'uscio si socchiuse e comparvero in quella penombra la faccia pienotta, rubiconda ed ilare di Padre Bonaventura che usciva, e quella terrea, umile e scura del padrone di casa che lo accompagnava fin sul pianerottolo della casa.

Essi continuavano un discorso che all'accento delle loro voci ed all'espressione degli sguardi onde lo accompagnavano doveva dirsi per loro interessantissimo, e Gian-Luigi potè udire le seguenti parole pronunziate dall'usuraio al frate:

— Sì, reverendo. Ella ha dato alla Gattona il miglior consiglio che sia del caso.... Io non penso che quel giovane abbia ad essere ciò che il suo nome e quell'oggetto farebbero sospettare..... Ho delle buone ragioni per credere che quello là non esiste più.... Ma non importa: è meglio cercare di saperne alcun che di preciso, tanto più per riguardo di me che ci ho, più che interesse, alcun rischio da correre.... Dunque la ringrazio ad esser venuto subito a pormene in sull'avviso e accetto affatto il suo suggerimento: non dir nulla e far agire con prudenza la Gattona, per aspettare di poi a prendere una risoluzione a cose meglio chiarite. Chi sa che non ci sia poi in codesto qualche buon mezzo di nostro vantaggio!...

Vide in quella nello scuriccio del pianerottolo staccarsi dal fondo nero della scala che si affondava al di sotto la figura d'un uomo che s'accostava.

S'interruppe sollecitamente, dicendo:

— Ah c'è qualcheduno qui; ed aguzzò i suoi occhietti birci per conoscere chi fosse il nuovo venuto.

— Buon giorno, Nariccia: disse Gian-Luigi, abbassando [131] la falda del mantello onde si copriva la parte inferiore del volto: sono io.

— Ah ah! siete voi, dottore: esclamò Nariccia. Gli è di me che cercate?

— Appunto. Ho bisogno di parlarvi.

— Io vi lascio colla buona ventura; disse colla voce melliflua che gli era abituale il gesuita; e Dio vi tenga nella sua santa grazia.

Amen: rispose tutto compunto l'usuraio torcendo il collo: mi raccomando alle sue preghiere, reverendo.

Padre Bonaventura fece un movimento colla mano che tramezzava fra un segno d'addio ed un atto di benedizione sacerdotale, e s'avviò senz'altro giù della scala.

— Venite avanti, dottore: disse allora Nariccia a Quercia, levandosi di mezzo ai battenti per lasciarlo passare, ma rimanendo lì presso l'uscio colla mano sulla serratura per esser egli a chiudere l'imposta quando l'altro fosse entrato. È forse cosa di premura quella che mi avete da dire?

— Sì, piuttosto: rispose Gian-Luigi penetrato nello scuro andito che conduceva alle diverse stanze del quartiere.

— Allora, soggiunse Nariccia, il quale chiudeva intanto la serratura colla chiave a doppia mandata, e faceva scorrere un paletto dall'una all'altra imposta dell'uscio; allora vi darò udienza subito.

— Mi farete piacere.

In quella, Nariccia che aveva finito di serrare, si voltò verso l'interno dell'appartamento; ma in quel moto fatto un po' in fretta, sembrò che un capogiro lo prendesse; gli occhi gli si appannarono, le gambe parvero mancargli sotto, le guancie gli si arrossarono e poi impallidirono subitamente, ed egli si tenne al muro del corridoio quasi temendo cadere.

— Che cosa avete? Gli domandò Quercia che vide codesto.

L'usuraio si era già compiutamente rimesso.

— Nulla, nulla, rispose. Gli è da qualche giorno che mi piglian così delle vampe al capo, e mi sento come a girare il cervello.

— Uhm! disse Quercia esaminandolo, alla vostra età, colla vostra complessione, codeste non son cose da non farci attenzione. Sono venuto a trovarvi come avventore; ma credo che fareste assai bene ad accettarmi anche come medico.....

Nariccia ebbe di subito paura che Gian-Luigi colle sue cure da medico intendesse ripagato di poi quel servizio che veniva a domandargli; e siccome ciò non gli piaceva niente affatto, fu lesto a rispondere:

— Vi dico che non è nulla e ch'io non ho bisogno di nessun medico.

— Tanto meglio!

Quercia era giunto all'uscio che metteva nello studiolo dell'usuraio, ed alzò la mano alla gruccia della serratura per aprirlo.

— No lì: disse sollecitamente Nariccia, trattenendolo. Costì c'è un altro che è venuto testè per parlarmi eziandio, ed è affatto inutile che vi vediate reciprocamente.

Gian-Luigi si ritrasse con premura da quell'uscio ed abbassò la voce di cui sino allora aveva usato nel suo tono naturale.

— Avete ragione, disse, m'è più caro non esser visto.

— Venite dunque nella mia camera: soggiunse l'usuraio, e poichè mi dite che sono cose di premura quelle onde volete discorrermi e siete un vecchio amico, darò a voi la precedenza, e farò ancora aspettare quell'altro.

Introdusse il medichino nella sua fredda camera in cui non una favilla di fuoco a temperarne la gelata atmosfera; gli additò per sedere una semplice seggiola col piano poveramente impagliato, e presane una pari sedette egli stesso in faccia al suo visitatore.

Alla luce, che era maggiore in quella stanza che non nel corridoio, Gian-Luigi vide nel volto di Nariccia certi indizi che, per quanto poco foss'egli addentratosi nello studio della medicina, eragli facile conoscere come sintomi di un male minacciante.

— Nariccia, diss'egli osservandolo bene, la vostra indisposizione non è poi tanto quel nulla che voi credete. Se voi mi date retta vi farete fare qualche cosa.

L'usuraio fece un sogghigno che voleva essere malizioso, e crollò le spalle.

— Ecco lì! I medici vogliono sempre trovar dei malati, come gli avvocati vogliono farvi litigare.

— Rassicuratevi: disse Quercia che comprese il segreto sentimento del suo interlocutore. In me vedete tutt'altro che un medico in cerca d'un cliente. Sapete bene ch'io non esercito la professione. Posso dar qualche consiglio gratuitamente (e pesò sulla parola) ad un amico, ma non mando mai nessuna lista di visite a chi abbia avuto tanta fiducia in me da consultarmi.

Nariccia accostò la sua seggiola al dottore.

— Bravo! Diss'egli. È quello che ci vuole per me. Io non sono mica — grazie a Dio ed alla Madonna della Consolata — così malato da aver bisogno d'un medico; ma tuttavia il vero è che da un po' di tempo mi sento così, tutto stonato, e che qualche buon consiglio d'uno che se ne intenda mi può venire molto a taglio.

Gian-Luigi prese il polso dell'avaro, ne esaminò la lingua, gli fece trarre il respiro con forza, e poi gli disse freddamente:

— Mio caro, voi siete minacciato niente meno che d'un colpo apoplettico.

L'usuraio fece un sobbalzo sulla seggiola e il volto gli s'impallidì sotto la tinta terrea della sua carnagione.

— Un colpo apoplettico! Esclamò egli con voce [132] mal ferma..... La Santa Madonna del Carmine mi tenga lontana una tanta disgrazia!..... Dite voi per davvero?

— Davverissimo! Voi avete dalla natura le più belle disposizioni del mondo per avere un accidente, e la vita che fate è adatta a bella posta per aiutare quelle disposizioni...

— Come! La vita che faccio? A me par tutt'altro. I colpi apoplettici vengono a quelli che si nutriscono di robe grasse e sostanziose, che son ghiotti! ed io invece non uso che i più frugali cibi.....

— Sì, delle porcherie, le quali non vi procurano altro che cattive digestioni, e queste son quelle che vi giuocheranno un giorno o l'altro qualche brutto tiro. Tutti gli eccessi non valgono nulla per la salute, e se i ghiotti si rovinano per eccesso di cose nutritive, voi vi rovinate per l'eccesso contrario, caricando il ventricolo d'una massa di alimenti poco acconci ad una buona e normale nutrizione. E poi, vi par egli alla vostra età di dover aver così poco riguardo a voi stesso? Siete sempre chiuso in questo antro mefitico, e qui dentro, affè di Dio, vi si gela come in una ghiacciaia....

— Io non patisco il freddo: perchè avrei da gettare via i denari per abbruciar della legna?

— Non patite il freddo! Bravo! Ma intanto questa temperatura da Siberia vi restringe di troppo il sistema venoso, la circolazione del sangue si fa impacciatamente, e nulla favorisce di più le congestioni. Voi siete minacciato da un travaso nel cervello.

— Misericordia!.... E che cosa fare per antivenirlo?

— La miglior cosa sarebbero due buoni salassi, quanto meno un'abbondante operazione di mignatte.

Nariccia scosse la testa con risoluta negazione.

— Siete pazzo? Mettermi a letto e starci parecchi giorni in questa fine del carnovale, in cui c'è tanto da fare e c'è il mezzo di guadagnare qualche cosa... Ditemi qualche altro rimedio più conveniente ai miei interessi.

— Ah! se preferite gl'interessi alla salute....

— Che? Non ci sarebbe un altro mezzo?

— Così sicuro, no; ma tuttavia una certa diversione potrebbero farla degli attivi purganti.

— A questo posso acconsentire. Sì.... scrivetemi voi una brava ricetta che mi faccia proprio bene... S'intende che la scrivete come amico, non è vero?

— Sì, sì, state tranquillo; rispose Quercia ridendo; non manderò per essere pagato.

Si alzò, depose sopra un tavolino le buste che teneva sotto il mantello e scrisse un'ordinazione. Gli occhi di Nariccia si posarono curiosi ed interrogativi su quelle buste coperte di marocchino rosso ornato di filetti d'oro con impressovi in oro eziandio uno stemma ed una corona comitale.

La sua curiosità non potè frenarsi: tese egli una mano con una mossa avida e riguardosa nello stesso tempo, da paragonarsi a quella del gatto che colla zampina cerca levare il marrone dal fuoco, afferrò la più grossa di quelle buste e l'aprì. Una voce di stupore e d'ammirazione uscì dal suo petto quasi involontariamente.

— Che magnifici diamanti! Esclamò egli mentre i suoi occhi scintillavano come se la luce di quegli stupendi brillanti si ripercotesse nelle sue pupille.

Gian-Luigi alzò con calma il capo, guardò freddamente Nariccia e disse col più semplice tono di voce:

— Gli è appunto di ciò che son venuto a parlarvi.

E continuò a scrivere la ricetta. Quando ebbe finito la porse all'usuraio dicendogli:

— Prendete subito questa roba, oggi stesso, e spero ne avrete giovamento.

— Sì, grazie: rispose Nariccia, prendendo la carta dalle mani del medichino; ma i suoi occhi birci erano sempre fissi sul luccicar dei diamanti, e la sua salute in quel momento gli era quello a cui pensava di meno.

— Non è vero che sono stupendi? Disse Quercia con tutta indifferenza.

Ma sul primo effetto, cui non era stato capace di padroneggiare, Nariccia aveva già fatta prevalere la riflessione. Il medichino gli aveva detto che di ciò appunto era venuto a parlargli. Certo trattavasi di qualche transazione in proposito. Il mercatante, no, dirò meglio l'usuraio, aveva già preso il sopravvento, e fu con tono reso affatto impassibile che Nariccia rispose:

— Mi par veramente che sieno belli, ma questa non è la mia partita: io non me ne intendo di molto, e non potrei portarne un giudicio proprio esatto.

— Lasciate un po'; voi ve ne intendete benissimo, e siete maestro anche in questa come in tante altre materie.... Aprite, aprite tutte quelle buste, contemplatene a vostro agio il contenuto, e quando vi sarete fatta un'idea del valore di questo tesoro che vi ho recato, allora vi esporrò la proposta che sono venuto per farvi.

Nariccia, ora compiutamente padrone di sè e in sull'avviso per dissimulare le impressioni che la vista di sì ricchi brillanti produceva in lui, aprì con calma gli astucci e guardò con freddezza tutti quei diamanti che luccicavano di mille fuochi anco nella penombra di quella stanza a stento illuminata dalla luce grigiastra della giornata nevosa.

— Che cosa ne dite? Domandò di poi il medichino che teneva i suoi occhi ardenti fissi sul volto impassibile dell'usuraio. Che valore assegnereste a questo tesoro?

— Ma! Esclamò Nariccia facendo spalluccie. Se fossero tutti veri....

— Ne dubitereste?

— Allora potrebbero benissimo valere parecchie decine di mila lire....

[133] — Delle decine! Proruppe Quercia con voce concitata. Siete proprio sempre quel medesimo!... Dite delle centinaia...

— Oh oh! delle centinaia... Non esagerate.

— Vi dico di sì... Non c'è manco la regina che ne abbia dei più belli.

— Uhm!... Ma veniamo a noi... Qual è questa proposta che siete venuto a farmi?

— Ho bisogno urgente di cinquanta mila lire.

A queste parole l'usuraio cristiano fece il medesimo sobbalzo quasi spaventato che aveva fatto l'usuraio ebreo.

— Dio buono! Cinquanta mila lire!...

— Solamente per pochi giorni... Voi ci metterete il tasso che più vi piace e vi lascierò in pegno questi diamanti.

— Per quanti giorni?

— Fino a lunedì mattina... Allora verrò infallantemente a riprenderli e a riportarvi il vostro denaro.

— Cinquanta mila lire, affè, sono troppe... Ve ne darò trenta mila coll'interesse di 50 lire per giorno.

— Ne ho bisogno di cinquanta mila.

Nariccia prese di nuovo in mano una busta dopo l'altra ed esaminò attentamente i gioielli.

— Ve ne do quaranta mila.

— No: disse allora seccamente il medichino alzandosi. Se non volete far voi questo affare, ne troverò millanta altri che vi acconsentiranno con premura.

E tese una mano come per serrare gli astucci e riprenderli.

— Un momento! S'affrettò a dire Nariccia. Gli è solamente fino a lunedì che me li lasciereste in pegno?

— Sì.

— E mi paghereste 100 lire al giorno d'interesse?

Gian-Luigi fece un sogghigno di disprezzo e mormorò in mezzo ai denti:

— Ladro!

Ma Nariccia mostrò di non aver udito.

— Ve li pagherò; disse di poi Quercia con brusco accento.

— S'intende che dopo il lunedì, se tardate a venirmi a restituire la somma e pagare il totale degli interessi, ad ogni giorno che passerà, saranno altre 100 lire che s'aggiungeranno al vostro debito.

Il medichino fece con impazienza un cenno affermativo.

— Ed io non vi ritornerò neanche il menomo di questi astucci, finchè non mi avrete pagato in totalità capitale ed accessorii.

— Ma sì, ma sì.... Finiamola per amor del cielo!....

— Va bene, va bene... Vo di là un momento e torno subito.

Nariccia prese il maggiore degli astucci che conteneva un bellissimo diadema e si mosse per uscire; ma Gian-Luigi l'arrestò per un braccio.

— Dove portate voi quella busta?

— Di là..... un momento: rispose l'usuraio, facendo guizzare a destra e a sinistra i suoi occhietti balusanti.

— Per che cosa farne? Tornò a domandar Quercia non lasciandogli libero il braccio.

— Così..... per osservarli meglio, da me solo.... a un'altra luce.....

— Voi volete farli vedere a qualcheduno?

Nariccia esitò un momentino, e poi credette più spediente il confessare il vero.

— Ebben sì..... Ve l'ho già detto ch'io non mi intendo abbastanza di queste cose..... E capirete che per avventurare una somma simile, ho piacere di essere completamente assicurato sul valore del pegno che mi viene offerto. Per fortuna quell'altra persona che mi attende di là, è appunto uomo competentissimo in siffatta materia.....

Quercia lo interruppe con molta vivacità.

— Ma io non voglio che nessuno li veda fuori di voi.....

— No? Disse lentamente e con sospetto Nariccia, deponendo sulla tavola l'astuccio. Riconoscete che questo vostro desiderio non è fatto per rassicurarmi di molto. Nella nostra professione, mio caro, la prudenza non è mai troppa, e se voi non acconsentite a codesto, vi dico in verità che non vi ha nulla di fatto.

Gian-Luigi lasciò scorgere qualche esitazione.

— Se questi diamanti sono davvero quel che voi dite, io vi porterò subito di qua le 50 mila lire: soggiunse Nariccia con tono insinuante.

Quercia diede una scrollatina di spalle che mostrava i suoi scrupoli essere passati.

— Va bene: finì egli per dire. Non temo nulla dall'esame di chicchessiasi; ma soltanto vi prego di levarli dalla busta; non c'è nessuna necessità che si veda questo stemma e s'indovini a chi appartengono.

— Avete ragione.

Nariccia levò dagli astucci i pezzi principali e li recò nel suo studio, dove stava aspettando quell'altra persona ch'egli aveva detto.

Il caso aveva voluto che quello fosse appunto un gioielliere, il sig. X, il quale da canto suo, trovandosi in urgente bisogno di denaro, era venuto da Nariccia per un'operazione uguale a quella che ci aveva condotto il medichino, recando egli eziandio da sua parte per pegno alcuni gioielli del suo fondaco.

L'usuraio pose sotto gli occhi del gioielliere i diamanti che aveva recato, e domandogli bruscamente:

— Che cosa ne dite di questa roba?

Il sig. X fece un atto di meraviglia:

— Cospetto! Quei diamanti li riconosco; sono quelli della contessa di Staffarda.

[134] — Ah sì?

— Di certo. Sono il suo gioielliere io, e non è guari ch'ella me li ha dati tutti a ripulire e riattare.

— Benone! Allora voi sapete appuntino quanti astucci ella ne abbia e di quanti pezzi consti tutto il corredo completo.

— Perfettamente.

— Ditemeli un po'.

Il gioielliere fece l'enumerazione e la descrizione di tutti i pezzi, e Nariccia fu chiaro che Quercia glie li aveva recati tutti per davvero.

— E il valore complessivo di tutto quel corredo quale pensate voi che possa essere?

— Affè! se lo si volesse vendere, e ch'io ne avessi i denari, non esiterei a darne duecento mila lire, sicuro di fare un buon contratto.

Nariccia non potè contenere un sorriso.

— Eh eh! si lasciò scappar detto. Io l'avrò forse ad un quarto soltanto di questa somma.

— Come! Si decidono a venderlo per sole 50 mila lire?

— A venderlo no: me lo danno in pegno soltanto; ma prima che chi mi reca questo pegno abbia in suo potere una somma sufficiente da ripagarmi capitale ed interessi, son certo che ce ne passerà dell'acqua sotto il ponte di Po.

— Ho capito.... E chi vi ha recato questo pegno è il dottor Quercia.

— Siete un bravo indovino!

— Ci ho poco merito. Ne ho udita la voce testè quando si è accostato alla porta di questa camera... E le sue intime relazioni con quella povera contessa, tutti le sanno.

— Non occorre, spero, che vi raccomandi il segreto.

— Figuratevi!

Nariccia tornò presso Gian-Luigi colle cinquanta mila lire in denaro sonante.

Abbiamo visto come l'usuraio faceva i suoi conti che quegli stupendi diamanti mai più gli si sarebbero potuti levar dalle unghie: da parte sua il medichino, uscendo di quella casa colle tasche piene d'oro, così la pensava seco stesso:

— Domenica sarà il giorno della gran crisi. La mi va bene, ed allora Candida non avrà più bisogno de' suoi diamanti pel ballo di Corte, e Nariccia avrò mezzo di fargli rendere quel tesoro e imporgli silenzio senz'altro per tema di peggio; o la mi va male, ed allora, allora affè un'oncia di piombo nella testa, e buona notte ai suonatori. S'aggiusti chi resta.

Recossi in casa di fretta per riporvi i denari; e là trovò Romualdo, il quale, dopo l'abboccamento con Massimo d'Azeglio, secondo le istruzioni avute da Mario, era venuto a cercare di lui e impazientemente stava aspettandolo.

Gian-Luigi lesse le poche parole scritte dall'emigrato romano, udì la narrazione dell'arresto avvenuto di quest'ultimo fatta da Romualdo, e in brevi detti promise si sarebbe adoperato a vantaggio dell'arrestato, ed avrebbe di sicuro ottenuto non fosse provata la sua identità.

Romualdo partissi; Quercia ripose i denari avuti da Nariccia in un cassettino segreto del suo stipo, trasse da quel luogo medesimo un involto di letterine profumate, la cui calligrafia rivelava la mano d'una donna, e con esse s'avviò alla casa della Leggiera.

La cortigiana era scesa allor'allora da letto ed avvolta in una magnifica veste di lana di Persia ovattata e foderata di seta color di rosa, stava sdraiata mollemente nella calda e voluttuosa atmosfera dello stanzino riposto, dove non accoglieva che gl'intimi amici.

Noi sappiamo già che un alto personaggio era stato a toglierla dal dorso nudo del cavallo nel circo per allogarla in quella sontuosità di appartamento nell'onorevole qualità di sua mantenuta. Questo alto ma poco stimabile personaggio era un Principe appartenente ad una famiglia regnante in Italia, il quale viveva allora alla Corte del Re di Sardegna, seminando di tollerati scandali il severo e bigotto ambiente della Reggia di Carlo Alberto; Principe di animo poco nobile e di costumi corrottissimi, che traditore alla causa della patria ed a Carlo Alberto suo benefattore nel tempo della guerra dell'indipendenza, messo di poi sopra un trono grande come un guscio di castagna dalla riazione del 1849, si divertiva a far da piccolo Tiberio, o meglio da Alessandro Farnese sui suoi sudditi, finchè cadde estinto senza lagrime di nessuno sotto il coltello di un regicida.

Non era lungo tempo che l'augusto e spregevole personaggio erasi partito dall'alcova della cortigiana, quando il medichino, del quale i servi conoscevano i privilegi, era lasciato entrare liberamente nel gabinetto dell'antica amazzone da circo equestre.

Al vedere il giovane, la donna mandò un gridolino di gioia e si sollevò alquanto sui cuscini con cui rifiancava la sua abbandonata persona sopra il sofà.

— Ma bravo, ma bravissimo! Esclamò essa battendo insieme le mani. T'è proprio nata un'idea felice a venir qui in questo momento... Ho avuto una lunga conferenza, troppo lunga, col Prince charmant (così chiamava essa il Duca che sciupava intorno a lei i denari dei contribuenti), e mi ha stanca colla sua nullità principesca. Ho le ganascie che mi dolgono dagli sbadigli rientrati; mi sento bisogno di rifarmi un poco lo spirito, l'umore..... e il resto: e tu sei l'uomo apposta.

Lo sguardo provocatore e il sorriso procace accompagnavano acconciamente le folli parole.

Ma l'aria preoccupata di Gian-Luigi e la sua seria risposta non si acconciarono al tono con cui la Leggera aveva incominciato il colloquio.

[135] — Mia cara, diss'egli colle sopracciglia aggrottate: io mi trovo in gravissime circostanze, in cui si decide o la mia perdita assoluta, od uno splendido trionfo... E tu puoi aiutarmi.

Zoe sorse di scatto, e fu presso a lui, fattasi seria essa pure, mettendogli una mano sulla spalla e fissandolo coll'ardente pupilla del suo occhio d'un grigio verzigno.

— Si tratta di quell'impresa, di cui tu mi hai confidato i propositi e mi hai divisato in nube le fila?

— Sì.

Gli occhi della donna s'illuminarono d'una strana fiamma, vivace ed intensa.

— Tu sai che per essa io sono pronta a dare tutto che posseggo e tutta me stessa... Tu sai che gli è appunto per quei tuoi disegni che tu piacesti supremamente all'anima mia, che vincesti il mio fiero disprezzo degli uomini, che mi hai legata a te corpo ed anima, e per sempre; tu sai che per ciò, più che per ogni altra cosa, io che non ho amato mai nulla, ti ho amato e ti amo..... Parla, comandami, ed io farò tutto quello che vuoi.

— La Polizia pare aver avuto qualche sentore dell'opera nostra; ha posto gli artigli sopra alcuni che senza saperlo lavorano pel nostro successo, me stesso circonda di certe fila di cui sembrami tenti farmi intorno una rete da impigliarmivi. Qualche sospetto incomincia ad esser nato che il misterioso capo di quella schiera di ribelli alla società onde si spaventano i sonni dei felici gaudenti dell'oggi, possa esser io, perchè un accorto esploratore viene frequentando la taverna di Pelone, e quel medesimo, ne son certo, ha proceduto all'arresto di coloro che t'ho detto, e tutt'oggi me lo trovo pertinace seguitatore tra i piedi. Venendo da te, qui sotto le tue finestre, l'ho trovato ancora, come segugio che attende la cacciagione alla posta. Tutto m'indica, e più d'ogni altra cosa l'istinto, che quello è un pericoloso e risoluto nemico di cui bisogna sbarazzarci.

Gian-Luigi s'accostò alla finestra e rimosse la tendolina per guardare nella strada sottoposta.

— Ed eccolo ancora là, soggiunse, i suoi occhi grifagni fissi precisamente sulle tue finestre.

Zoe accorse ancor ella presso i vetri ed appoggiandosi con mossa amorosa a Gian-Luigi, guardò nella strada di sopra la spalla di lui. Vide la tenebrosa figura di Barnaba che sotto la tesa del cappello saettava quelle finestre di occhiate sinistramente espressive.

Nel vedersi guardato dai due giovani, l'agente poliziesco sussultò, abbassò gli occhi e la testa, e lentamente si mosse come per allontanarsi di là.

Ma la Leggera nel vedere quell'uomo aveva fatto un certo moto ancor essa che non isfuggì all'acume osservativo del medichino.

— Che fu? Diss'egli, piantando i suoi occhi in quelli della donna. Tu conosci quel cotale? Zoe ruppe in una risatina che era perfettamente naturale e sincera.

— No: diss'ella; ma la mia vanità femminile ha or ora ricevuto un buffetto. Quello che tu mi riveli per un poliziotto io l'ho preso per un innamorato, vedendolo da parecchi giorni girarmi intorno alla lontana e covare con isguardi accesi la mia dimora.

— Da parecchi giorni tu dici? domandò Quercia.

— Sì, forse un mese... L'ho creduto un adoratore cui le povere fortune fanno timido... E poi quella figura, a dirti tutto, mi metteva in un certo pensiero, non so perchè. Non mi ricordo aver avuto nulla mai da spartire con un simile individuo, eppure le sue sembianze non mi riescon nuove. Occupavo alcuni momenti delle mie ore più noiose a cercare di scavar fuori dalla massa dei tanti ricordi del mio passato, se, come, quando e dove avessi visto codestui o qualcuno che gli rassomigliasse; non ci sono mai riuscita, e certo per la buona ragione che di sicuro non ho mai avuto la menoma attinenza con lui. Ora tu hai soffiato sopra tutti i miei castelli di carte. È un poliziotto che ci fa da esploratore. Il malanno lo colga...

— Sì; e bisogna che noi aiutiamo il malanno a far quest'opera buona... Sediamo, Zoe, ed ascoltami.

La Leggera tornò a sdraiarsi abbandonatamente sul lettuccio da sedere; Gian-Luigi si gettò sopra una poltrona che era lì presso; ma si ridrizzò tosto con un brusco movimento nel sentire un oggetto sopra le molle elastiche del seggiolone; si volse a guardare, vide una cosa lucicchiante e la prese in mano.

— Che cos'è codesto? Diss'egli, sollevando un collare che brillava di diamanti. Cospetto! Il gran collare dell'Ordine dell'Annunziata in casa tua!

Zoe ruppe in una gran risata.

— Gli è il mio Prince charmant che ne fa sempre qualcuna delle sue con quella testuccia che ha un cervello da passerotto. Ieri sera è venuto qui dopo il ballo dell'Accademia in tutta l'imponenza della sua tenuta di gala, per abbacinarmi collo sbarbaglio della sua montura e delle sue decorazioni; e partendo ha dimenticato il collare[8].

— Va benissimo: disse allora Gian-Luigi che si compiaceva a fare mandar riflessi sotto la luce dalle gemme e dall'oro di quel collare ch'egli maneggiava con un sogghigno sulle labbra tra di scherno, tra di cupidigia, tra di disprezzo. Ecco un bellissimo pretesto che ci porge il caso, mercè la augusta smemorataggine di quella meschinissima Altezza Reale, perchè tu abbia quanto prima un nuovo colloquio con lui. Puoi fargli domandare un momento d'udienza, e portandogli il suo collare.....

La Leggera interruppe crollando le spalle con una [136] mossa molto irriverente pel suo principesco amante.

— Che io mi scomodi per andare da quel capo d'assiuolo?... Mai più!... Gli scriverò che venga di nuovo, e subito a casa mia per udire urgentissime cose che ho da dirgli, e il babbuino sarà felice di avere da me un secondo abboccamento... Non gli dirò che trattasi di riprendere quel giocattolo, perchè sarebbe capace di mandarmi qualcheduno de' suoi ufficiali a ritirarlo, o di lasciarmelo qui senza crucciarsene dell'altro.

Il medichino seguitava a maneggiare quella collana colla medesima espressione che ho detto poc'anzi nella sua fisionomia.

— Sì, un giocattolo; diss'egli come parlando a sè stesso; ma un giocattolo che rappresenta la potenza, la dignità, l'autorità nell'ordine com'è oggidì organato della gerarchia nella società umana. Derisione della sorte, e ingiustizia dell'assetto presente delle cose! Queste supreme insegne a cui cadono in preda per favore della nascita e per privilegio di sangue? Ad un miseruzzo dall'anima imbelle e dalla mente pusilla, che è una caricatura d'uomo ed una parodia di essere ragionevole! Guardatelo da lontano quel mannechino nella pompa della sua divisa ricamata e degli abbaglianti ordini cavallereschi che gl'ingemmano il petto, vi parrà qualche cosa di degno della riverenza umana; avvicinatelo e superate per esaminarne il valore quella suggezione che ispira, per l'abitudine tiranna della ragione, l'altezza del grado, vedrete sotto la pelle del leone la natura del somaro; grattate quella vernice lucente onde si ammanta e troverete sotto di essa l'ignobile ceppo di legno innalzato dallo scherno oltraggioso del caso sui gradini del trono all'ammirazione della gente.... E intanto in quella massa di esseri pensanti che sta umile, povera e soggetta, che vive nel nulla, cui ingoia il nulla, e viene e passa e si discioglie come la goccia d'acqua nell'immenso mare, fra quegli esseri oppressi sempre, condannati sempre, che hanno torto sempre, per cui esiste il dovere soltanto, e il diritto non mai, quanti per cuore, per animo, per intelletto, più degni e capaci!....

Palleggiò ancora un istante nella mano quel gingillo d'oro tempestato di gemme, come se lo volesse soppesare, e poi lo gettò sopra un vicino tavolo con atto tra d'impazienza e tra di disdegno.

— Bah! non pensiamo a codeste miserie... Ecco ciò di cui ho bisogno tu discorra ed ottenga promessa dal tuo scimmiotto di Principe che faccia sollecitamente.

Come avete indovinato, quello di cui intendeva Gian-Luigi era la liberazione di Maurilio, Giovanni e Francesco, e l'affermazione che Medoro Bigonci non aveva nulla di comune con Mario Tiburzio.

— Non basta, soggiunse di poi il medichino, bisogna che S. A. ci tolga eziandio dai piedi l'inciampo di quel poliziotto. Io costui l'ho già raccomandato ad uno de' miei uomini, ed alla prima occasione avrà il fatto suo; ma egli mi par furbo, sta sulle guardie, ed ha molti modi da sfuggire alle mani di Graffigna che può agire soltanto con assai prudenza. Un giorno o l'altro quel demonio di Graffigna saprà pur coglierlo; ma frattanto sarebbe utilissimo che un comando dall'alto, una disposizione d'uffizio lo scartasse dai nostri piedi. Tu mi capisci? Il tuo Principe può valerci anche a codesto.

— Capisco: disse la cortigiana con atto e sembiante molto riflessivi; ma gli è il modo di entrare in codesto discorso che non so trovare, e la ragione per interessare a far ciò l'indolenza di quell'egoista.

— Il modo?.... Una bella donna ha da essere imbarazzata per la guisa di far cascare il suo discorso saltuario più qua o più là?.... La ragione?... Un tuo capriccio è la migliore di tutte; e la minaccia d'un temporaneo ostracismo dal tuo boudoir lo renderà invincibile.

Zoe percosse le mani una coll'altra in aria di trionfo.

— Ho trovato di meglio, e son sicura del fatto mio. Il Prince charmant si è lamentato meco più volte che al Re fossero state narrate certe sue più impertinenti scappatelle e le relazioni che ha meco, per cui il Re gli viene regalando di tanto in tanto qualche buona ripassata. Dirò che il rivelatore di cotali segreti è questo poliziotto.... come si chiama?

— Barnaba.

— Il quale da parecchi dì sta spiando intorno alla mia casa. Sii pur certo che il Principe non glie la perdonerà, maligno com'è sotto la sua leggerezza e nullaggine, e saprà aggiustarlo egli per le feste.

— Sta bene. L'hai pensata proprio a dovere. Allora scrivi subito e sollecita la venuta del tuo Principotto.

La Leggera si fece accostare un tavolierino su cui era un elegante buvard con elegantissimo calamaio, e scrisse di fretta alcune righe sopra un fogliolino di carta profumato.

Quand'ebbe finito, disse a Gian-Luigi suonasse il campanello, ed alla cameriera che si presentò diede ordine il bigliettino scritto allor'allora fosse tosto recato al suo indirizzo.

— Levatemi di qui questo tavolino: soggiunse ella di poi alla cameriera che stava per partire.

— No: disse Gian-Luigi, il quale, mentre Zoe scriveva, era stato dietro di lei guardando con una strana espressione di curiosità la mano della donna a tracciare le parole sulla carta: no, lasciate pur lì quel tavolino e ritiratevi.

La cameriera uscì e Zoe levò sul volto del medichino uno sguardo interrogativo.

— Ho bisogno che tu mi scriva ancora due parole: un nome, al basso d'un pezzo di carta.

[137] Zoe sollevò vivamente la testa e guardò entro gli occhi il suo compagno — il suo complice.

— Un nome! Diss'ella. Il mio?... Che cosa vuoi tu fare del mio nome?

Gian-Luigi atteggiò le labbra ad un diabolico sogghigno.

— Non è il tuo: rispose. Hai tu un nome, povera creatura che appartieni al par di me alla schiera dei derelitti?... Il tuo è un nome d'accatto, simile a quello che si dà al cane od al cavallo dal padrone che l'ha comperato, e cui domani il capriccio d'un altro padrone può cambiare.... Io intendo un vero nome, reale, autorevole, cui la sciocchezza comune è usa di rispettare, con cui si possono coprire onte, vizi e magagne maggiori di quelli a cagion de' quali affettano i sedicenti onesti del mondo di avere a schifo la povera plebe.

— Qual nome? Domandò con sollecita curiosità la cortigiana.

— Quello della contessa di Staffarda.

La Leggera mandò un'esclamazione e stette lì mirando intentivamente nel volto Gian-Luigi. Questi trasse da un portafogli un quadrilatero oblungo di carta e mettendolo spiegato innanzi alla donna, soggiunse accennando col dito l'angolo a destra del foglio:

— Qui scriverai queste parole: Candida Langosco contessa di Staffarda, nata La Cappa.

Zoe appoggiò i due gomiti al tavolino che aveva dinanzi, e sostenendo alle mani il suo mento, disse con voce quasi sommessa e lentamente pronunziando:

— Questo pezzo di carta ha da servire per una cambiale?

— Per un pagherò che devo dare a Macobaro.

— E la firma della contessa?...

— Deve starci a rincalzo della mia.

— Perchè non l'hai domandata alla contessa medesima?

— Perchè il suo concorso l'ho già ottenuto in altro modo, e conosco il proverbio che troppo tirando si strappa.

— Ma io non ho la scrittura uguale a quella della contessa.

— Tu hai una calligrafia che molto facilmente può imitare quella di qualsiasi altra donna; e tanto più la scrittura della contessa. Ti osservavo poc'anzi appunto mentre scrivevi e mi son venuto confermando appieno in quella opinione che avevo venendo qui, che cioè tu valessi a rendermi molto bene questo servizio.

— Ancora, per imitare quel modo di scrivere, converrebbe avessi sotto gli occhi un esemplare...

— L'ho recato. Eccoti, le lettere della contessa. E trasse fuor di tasca l'involto che aveva preso nel segreto cassettino del suo stipo.

La Leggera afferrò avidamente quel pacco, lo sciolse e, presa a caso una lettera, si diede a leggerla con un impertinente sorriso sulle labbra.

Povera Candida! Se essa avesse saputo mai in quel momento che le segrete espansioni dell'amor suo confidate in una carta che avrebbe dovuto esser sacra al suo indegno amante, che le più calde manifestazioni della sua sciagurata passione, erano abbandonate in preda allo scherno profanatore d'una cortigiana!

— Anzi, continuava quello sciagurato giovane in cui le sfrenate passioni avevano oramai cancellata ogni delicatezza del senso morale, queste lettere fo conto di lasciarle in deposito presso di te. Possono avvenire molte circostanze in cui elleno diventino un'arma atta a salvarmi da qualche precipizio, entro il quale mi capiti di cadere, e di cui essendo io posto nell'impossibilità di servirmi, tu dovresti valerti a mio vantaggio..... In altro momento ti spiegherò più particolarmente la cosa..... Ora veniamo a quei che più preme..... Questa tua firma mi deve ottenere cinquanta mila lire.

Zoe lasciò andare di mano la lettera della contessa e riprendendo quella mossa che aveva poco anzi, tornando a fissare il suo acuto nel cupo sguardo di Gian-Luigi, disse, pesando bene sulle parole:

— Ma questo è un falso che mi domandi?

Il medichino crollò impazientemente le spalle:

— Ebbene sì: diss'egli con ruvido accento: è un falso..... Hai tu paura?

La cortigiana stette immobile e silenziosa, guardando fisso il giovane nella stessa maniera.

— Ne prendo io tutto il carico: soggiunse Gian-Luigi. Se anco la cosa venisse scoperta, chi mai giungerebbe a pur sospettare che tu sei stata a scrivere quel nome? Io ti giuro che non parlerò.

Zoe non disse molto, ma staccò dal mento, cui sosteneva con ambe le mani, la destra, e presa la penna intinta d'inchiostro, sopra un foglio di carta, che aveva vicino, si pose sbadatamente a tracciar dei caratteri, come fa chi prova una penna prima di accingersi a scrivere.

CAPITOLO XXI.

Il signor Nariccia quella mattina si sentiva male per davvero. Partitosi da lui Gian-Luigi, conchiuso l'altro contratto per cui era venuto il gioielliere X, rimasto solo, l'usuraio aveva proprio capito che il medichino gli aveva parlato da maledetto senno, e che la sua salute era, se non già colpita, seriamente minacciata da un grave malore. Volle riconfortarsi l'animo di quel modo con cui soleva eziandio rallegrarsi il cuore il vecchio Arom, come sogliono fare tutti questi avidamente cupidi dell'oro, posseduti dall'accanita ed implacabile ed insaziabile passione dell'avarizia: nel riporre entro il suo forziere i diamanti recatigli da Gian-Luigi e i gioielli del signor X, dopo essersi chiuso ben bene a chiave nella sua camera, si compiacque a vagheggiare i [138] mucchi d'oro lucente monetato che dormiva serrato in sacchetti a tiro della sua mano.

Un sorriso di trionfante soddisfazione veniva alle labbra anche a lui, nel rivedere e ricorrere le sue ricchezze; ma tratto tratto una stretta del malanno che si veniva preparando nel suo organismo lo faceva star lì, gli mandava una rapida vicenda di caldo e di gelo per tutto il corpo, gl'impediva il rifiato e gli copriva d'una pallidezza cadaverica le guancie. E' si appoggiava con una mano allo scrigno aperto, coll'altra si premeva il cuore che o sospendeva o raddoppiava il battito, e lasciava svanire la vampa non senza un vivo sgomento nell'animo pauroso e codardo.

— Davvero che ci ho qualche cosa che non ho avuto mai: diceva egli a sè stesso. Il dottor Quercia ha ragione, e farei molto bene a dargli retta.... Salassi e sanguette no: codesto costa subito un occhio della testa; ci vogliono chirurgo, flebotomo e che so io..... E poi quanto tempo mi ruba, condannandomi ad ammuffire in letto! No, no, non se ne fa nulla; ma quella medicina che mi ha scritto il dottore?.... Se non costasse di molto.... Potrei provarla; tanto più che la non mi toglie ai miei affari; ma quei maledetti speziali fanno pagare così caro le loro droghe!.... E poi; che abbia proprio da diventare malato, io che sono sempre stato bene?.... Non mi sento più così forte e robusto come un tempo, è naturale; ma sono ancora in buona età; vivo parcamente, non ho vizi di sorta: e perchè avrei da ammalarmi?

Parve restar persuaso da queste buone ragioni che una malattia per lui era impossibile; e si mise con più alacrità a maneggiare il suo denaro.

— Quest'anno i miei guadagni furono ancora maggiori degli anni scorsi, ma non sono tuttavia quello che possono essere, quello che vorrei... Ho camminato bene, sono giunto ad un bel risultamento, gli è vero: quando penso che sono venuto a Torino, or sono trent'anni, misero, scalzo, con trenta soldi in saccoccia, sapendo appena leggere, scrivere e far di conti, ed ora!....

Diede un'occhiata al suo scrigno e sorrise.

— Sì ora sono padrone di una bella sostanza; ma non mi basta ancora. Ci ha tuttavia di quelli che ne possedono di più di me, e vorrei essere innanzi a tutti. Ah se tutti i giorni facessi i guadagni che ho fatto questa mattina! Con cinquanta mila lire avere un valore di 200 mila!... Perchè l'ho, questo valore, l'ho nelle mani e son certo — quasi certo almeno — che non mi si toglie più. Che bravo Quercia! come il Signore mi ha favorito a voler che io conoscessi quello sciupadenari che sa così bene spennare le sue ricche amanti... a mio profitto! Mai più, mai più egli avrà cinquanta mila lire da restituirmi alla ventura settimana; e se la famiglia della contessa vorrà riavere i suoi diamanti, oh oh la discorreremo...

Prese un libro di sue ragioni in cui soleva scrivere le sue partite del dare e dell'avere, e fra le somme sborsate registrò quella delle 50 mila lire date a Gian-Luigi. Nel tracciare questa cifra, pareva colpito da una nuova e bizzarra idea.

— La somma di 50 mila lire, diss'egli, mi è sempre stata favorevole e di buon augurio. I miei primi guadagni che mi apersero la strada della fortuna, quali furono? Le cinquanta mila lire che mi diede quel povero Maurilio Valpetrosa per suo figlio e le altre cinquanta mila che mi diede il vecchio marchese di Baldissero per farlo scomparire; e se la mi andava bene ne avrei preso altre cinquanta mila dalla contessa di Castelletto per ritrovarlo di nuovo....

A questo punto s'interruppe e diede in una scossa.

— Ritrovarlo!... E se fosse ora ritrovato in quel giovane in cui s'incontrò la Gattona?

Appoggiò il gomito al forziere che aveva tuttavia aperto dinanzi e sostenne la fronte colla mano in una profonda meditazione.

— Oibò! Diss'egli poscia crollando le spalle. Codesto è quasi impossibile. Quel bambino fu smarrito senza che mai nessuno pensasse a battezzarlo col nome di suo padre, e quanto a quel bottone di livrea che potrebbe essere stato di Stracciaferro, esso indicherebbe piuttosto che si tratta dell'altro ragazzo... E poi perchè alcun altro non potrebbe avere un simile bottone? Bisognerà che parli ancor io colla Gattona per averne il cuor netto.

Fu interrotto in questi suoi pensamenti che molto lo preoccupavano da un pugno che senza riguardi e con violenza impaziente percoteva nell'uscio richiuso.

— Ehi signor Nariccia; gridava traverso la porta la voce aspra di Dorotea. La viene o non viene a far colazione? È passata l'ora da più di venti minuti.

— Vado, vado: rispose l'avaro affrettandosi a chiudere con ogni cura il suo forziere: e poscia, aperto l'uscio della camera, si recò nella cucina dov'egli soleva fare i suoi pasti, senz'altro bisogno di stanza apposita da pranzo.

A capo d'una lunga tavola presso l'affumicata parete era posta una tovaglia che un tempo si poteva supporre essere stata bianca, ma che ora aveva un colore indefinibile, ornata di grossolani rammendamenti ed anche di qualche strappo non ancora rappezzato: sopravi erano posti un tondo della più infima maiolica sverniciato, incrinato e scrostato, una servietta del colore della tovaglia, rotolata e legata da una cordellina, una fetta larga due dita di pane da soldato, un bicchiere dal vetro opaco, una caraffa con acqua d'un vetro ugualmente sporco, una forchetta di ferro con un coltello dal manico di legno rozzo, senza vernice ed una saliera di vetro rotta da una parte.

Appena vide entrare nella cucina il suo padrone, [139] Dorotea prese in una credenza un piatto di terra grossolana, lo scoperchiò d'un altro piattello che ci stava sopra e lo pose in mezzo la tavola: era un'insalata di radiche.

Nariccia sedette sopra una seggiola dal piano di legno, innanzi al desco, spiegò sulle sue ginocchia la servietta sporca, fece il segno della croce e borbottò alcune parole di preghiera, poi prese il piatto di terra, e colla forchetta si fece calare nel tondo che aveva dinanzi un poco di quelle radiche in insalata.

— Mentre la mangia codesto, disse Dorotea, io le farò cuocere l'uovo.

L'usuraio fece un cenno affermativo colla testa.

Sul focolare, in mezzo ad un mucchietto di cenere, stavano quattro carboni accesi, con sopravi due piccoli bastoni i cui capi non si toccavano e che facevano salir su una riga sottile di fumo leggero leggero. Al di sopra pendeva per la catena un ramino con dell'acqua. Dorotea raccostò alquanto i due pezzi di legna, ci soffiò sopra e mise dentro l'acqua un uovo.

Nariccia frattanto aveva ritagliato in tante liste la fetta di pan nero, e poi, preso colla forchetta un pizzico di quelle radiche, aveva provato a mangiare. Ma il boccone gli pareva insipido e sentiva una ripugnanza ad inghiottire che nulla più. Tentò ancora una volta, e poi lasciata andare la forchetta sulla tovaglia, tirò in là dinanzi a se il piatto, e disse con voce dolente e piagnolosa:

— Questa roba non mi va giù. E sì che le radiche mi piacciono più d'ogni altra cosa; e mi fanno anche bene alla salute.....

Sentì il rumore del soffietto, con cui Dorotea cercava di rianimare il fuoco.

— Che cosa fate? Domandò egli ritrovando nuovamente di botto la voce e l'accento che gli eran soliti.

— La vede bene: rispose Dorotea, senza nemmanco voltarsi; le faccio cuocere il suo uovo.

— Disgraziata! Non posso trangugiare nemmanco un boccone, e voi mi sciupate la legna a farmi cuocer l'uovo! Toglietelo subito dal fuoco.

— Ma ora non gli è nè cotto nè crudo, questo uovo.....

— Non importa. Finirete di farlo cuocere un'altra volta e sarà buonissimo la stessa cosa..... Ma non tenete acceso un momento di più quel fuoco, oggi che la legna è così cara.

La fantesca, borbottando fra i denti, fece a senno del padrone. Questi colla sua forchetta rimise nel piatto di terra le poche radiche onde s'era servito; poi s'alzò da sedere per tornare nella sua stanza; ma nel muovere il primo passo un capogiro lo assalì di nuovo, e dovette tenersi alla tavola, chè gli pareva di dover cadere.

Allora tornò a ricordarsi della ricetta che gli aveva scritto il dottor Quercia.

— Bisognerà proprio che mi decida a prendere quella medicina..... Purchè non costi tanto caro!... Dorotea, soggiunse ad alta voce, venite qui meco che voglio mandarvi a fare una commissione.

— Eh! un momento: rispose brusco la vecchia serva: io non ho da mangiare? Mi si misura già tanto a spilluzzico questo gramo nutrimento; vorrebbe adesso addirittura che ne facessi senza?

Nariccia non rispose nulla; andò verso l'uscio e quando fu per uscire si rivolse indietro a dire con tono quasi raumiliato:

— Bene! Quando avrete mangiato, Dorotea, verrete di là da me... Ma guardate di non mangiar troppo di quelle radiche: le sono indigeste e vi potrebbero far male: e l'uovo lasciatelo per mio pranzo.

— Sì sì, lascierò stare il suo uovo; borbottò la serva dietro l'usuraio che usciva: mangerò pan nero asciutto asciutto, che il fistolo lo colga!

Nariccia era appena fuor della soglia della cucina, quando si sentì il suono del campanello dell'uscio che metteva sul pianerottolo.

— Un'altra seccatura: disse col suo tono burbero la vecchia fante gettando dispettosamente sulla tavola le liste di pan nero, tagliate dal padrone, e ch'essa erasi recata in mano per mangiarsele: non mi lascieranno mai tranquilla un momento questa mattina.

Ma l'avaro, voltandosi indietro a parlarle dal corridoio, disse col suo tono untuoso da impostore:

— Non vi disturbate pure Dorotea. Fate in pace il vostro asciolvere, e vado io stesso a veder chi è.

Dorotea riprese il suo pane, borbottando fra sè più burbera e più bisbetica che mai:

— Chi è? chi è?.... Lo so già fin da prima chi è: un qualche povero diavolo che viene a farsi sgozzare qui in questa caverna d'usuraio.... Uhm! Questo vecchio senza cuore diventa ogni giorno più avaro e più tristo. Non mi pare poi d'avere un'anima tenerella, ma se non ci fossi abituata da tanto tempo, credo che ora non ci potrei resister più. Colle sue madonne, e coi suoi santi, e colle sue giaculatorie questo vecchio esoso non ha nè fede, nè legge.... È impossibile che il Signore tolleri uno scellerato che profana così il suo nome e la religione.... Ho il presentimento che qui deve precipitare qualche gran disgrazia, e che l'ha da coglierci me pure.... Ah! se non fossi così vecchia, gli è ben vero che me ne andrei lontano lontano; ma sì, dove potrei cacciarmi ora per vivere? e coi pochi salari che questo birbante mi ha sempre pagato non ho manco potuto mettere insieme quattro pochi di soldi per assicurarmi la vecchiaia. E certo se un bel giorno divento malata, o quando sarò tanto innanzi negli anni da non poter più servire, questo cane d'un impostore è capace di gettarmi fuor di casa come un cencio frusto....

[140] Intanto che Dorotea prevedeva a quel modo il tristo avvenire che l'aspettava, Nariccia, aperto colle solite precauzioni l'uscio d'entrata nell'alloggio, aveva visto che il sopravvenuto era il portinaio, ch'egli quella mattina stessa aveva fatto avvertire passasse da lui a pigliarne certi ordini. Questi ordini, che Nariccia si affrettò a dare al portinaio, uomo rozzo, d'anima come di corpo grossolano, riguardavano la povera famiglia d'Andrea e di Paolina. Il portinaio doveva salire alla soffitta da loro abitata e farsi subito pagare del dovuto affitto: se si rifiutavano di pagare, senza remissione, il portinaio doveva discendere nella strada la loro poca roba, prenderli per un braccio tutti e metterli fuori, chiudere la soffitta, recarne la chiave al padrone ed appiccare al portone da via il cartellino dell'appigionasi.

— Va bene: disse il portinaio che nella bassa e crudele anima sua, degno servitore dell'usuraio, non vedeva punto la bruttezza di quest'azione spietata. Per fortuna appunto, Andrea non c'è, chè l'ho visto uscir io poc'anzi insieme con un suo compagno che è solito a ricondurlo a casa ubbriaco la sera, e molto probabilmente non tornerà più a casa fino a notte con una delle sue sbornie famose; abbiamo tutto il tempo di fare l'operazione senza impacci e resistenza, che quella miseruzza di Paolina e i suoi tisichelli di bambini non sapranno farne altra che di lagrime e di strilli. Quando Andrea torni, troverà lo sgombero compiuto e non gli resterà che stridere: chè invece s'egli fosse in casa, gnaffe! l'affare sarebbe un po' serio; ha un certo umore e certi pugni a capo di certe braccia!.....

— E dunque andateci subito e sollecitate: disse Nariccia impaziente. Stamattina ci vennero delle signore in carrozza a visitare que' spiantati; certo hanno loro dato denari, e possono pagarmi..... e sarà tanto di meglio, ch'io riacquisti quel poco che mi viene, che da sì lungo tempo mi si fa aspettare, e che temevo perduto..... Che se non pagano, non si meritano sicuramente nessuna pietà..... Andate.

Il portinaio, con tutta indifferenza, salì zufolando le scale e in breve tempo giunse alla porta della soffitta di Paolina.

— Si può? Diss'egli rozzamente urtando col piede nelle imposte chiuse dell'uscio.

— Chi è? Domandò di dentro la voce debole e quasi soffocata di Paolina.

— Sono io, il portinaio.

— Ah! Vi faccio aprir subito.

S'udì il passo lieve d'un bambino che veniva verso la porta, e questa fu aperta dal più grandicello dei figli della misera donna.

Il portinaio entrò colla sua faccia da villano che ha una gran villania da fare.

Paolina giaceva in letto oppressa dal suo malanno: affannoso ne era il rifiato, profonda e dolorosa la tosse, ma pure nell'anima sua era entrata una certa dolcezza, che sembrava quasi una speranza. L'accoglimento che le era stato fatto e le dolci parole dettele in casa della buona signora Teresa l'avevano alquanto riconfortata, più ancora le avevano recato del bene la presenza nel suo tugurio di quei due angeli di carità, che erano le signorine Maria Benda e Virginia di Castelletto, i soccorsi recatile onde i bambini suoi avevano potuto aver cibo, e i denari lasciatile per cui potevasi dalla miserrima famiglia pagare l'affitto al padrone di casa ed avere ancora tanto in serbo da campar tutti per parecchi giorni.

Andrea aveva inoltre rinnovate coi più solenni giuramenti le sue promesse di rammendarsi; e la sventurata Paolina aveva tuttavia la debolezza di credergli; ora, giacendo in letto, le si presentava alla mente, come possibile in un prossimo avvenire, la chimera di nuovi giorni di pace e di letizia, uguali a quelli che erano trascorsi un tempo, quando Andrea, innamorato di lei, savio e laborioso, l'avea sposata e mandava innanzi a meraviglia la fondata e crescente famigliuola. Era essa in queste dolci immagini, quando il portinaio, colla feroce commissione datagli da Nariccia, venne a battere all'uscio della soffitta.

— Sora Paolina, disse di botto il portinaio, gli è il padrone che mi manda a vedere se finalmente avete preparato i denari della pigione da dargli.

La povera donna si sollevò sul suo strammazzo puntando il gomito e disse con meraviglia, in cui c'era pure una tema crudele che subitamente l'assalse:

— Come la pigione?.... Se mio marito è sceso giù, non è più d'un'ora, per andarla a pagare.....

Il portinaio ruppe in una grossolana risata:

— Sì, pagare quello lì: prima che egli faccia un miracolo simile mi cascherà il naso.

— Ve lo dico in verità: insistette Paolina in cui però la paura della nuova disavventura cresceva nel cuore.

— Ed io vi dico in verità ancora più vera che il padrone di casa, del vostro uomo, non ha visto manco l'ombra, e che di denari non ne ha avuto neppure un quattrino.

— O mio Dio! mio Dio! Esclamò con istraziante dolore la povera donna, che incominciava ad esser chiara di un nuovo fatalissimo fallo di suo marito. Eppure mio marito ha preso seco i denari per andarlo a pagar subito, il padron di casa..... L'ho visto io..... perchè grazie alla Provvidenza ed alla carità di due brave signorine, questi denari ce li abbiamo.....

— Non dubito punto che vostro marito sia uscito coi denari che dite: interruppe ruvidamente l'uomo di Nariccia; ma ciò di cui sono certo, si è che invece di soddisfare al suo debito col padrone di casa, è andato secondo il solito a consumarseli all'osteria. L'ho visto io giustamente venir fuori del [141] portone a braccetto con quel suo ordinario compagno da bettola, quel grande, grosso, dal pelo rosso.....

— Marcaccio? Pronunziò Paolina con voce che era un gemito.

— Appunto! Credo bene che si chiami così.

La moglie d'Andrea cadde riversa nel suo giaciglio come se fosse stata colpita al petto da un urto simile a quello che la sera innanzi nella taverna di Pelone le aveva dato la mano del marito ubbriaco; due lagrime, due sole, ma cocenti, le spuntarono nelle scarne occhiaie, e sulle labbra livide si disegnò un movimento, un tremore che quasi poteva dirsi un sogghigno, ma pieno di disperazione. Ogni accarezzata lusinga della sua fantasia, ogni illusione del suo povero cuore era di colpo distrutta! Pure, pensando ai suoi bambini e parendole troppo terribile la sorte loro e troppo ingiusta verso di essi la Provvidenza, se vero fosse ciò che paventava, la misera volle tuttavia appigliarsi ad un ultimo ramo di speranza.

— Aspettate: diss'ella al portinaio: forse ho sbagliato; mio marito non avrà preso seco i denari... Forse sono ancora costì, e ve li do subito a voi medesimo.

Si gettò addosso comecchessiasi la sua stracciata vestaccia e saltò giù dal letto con vivacità datale dalla passione di quel crudele momento. Corse a quel tréspolo azzoppato che serviva loro da tavolino e cercò con mano avida in una scatola senza coperchio che vi era su, entro la quale ella stessa aveva posto le monete datele dalla carità quella mattina. La scatola era vuota. Non solo mancavano i denari che si erano messi in gruppetto separato per pagare la pigione, ma erano spariti anche gli altri, mercè cui la infelice donna aveva calcolato d'avere il pane della famiglia per molti giorni.

Alla debolezza di Paolina affranta di anima e di corpo, quel colpo fu troppo grave. Si abbandonò sulla più vicina seggiola, pallida come una morta, e non ebbe più forza nè di parlare, nè manco di pensare, nè di volere cosa nessuna. Un'atonia dolorosa la invase: il suo stato poteva rassomigliarsi a quello d'un caduto in acqua vorticosa, che lotta finchè gli bastan le forze contro la corrente, e poi ad un tratto sente mancarsi ogni vigore, capisce che nulla può salvarlo più, chiude gli occhi e s'abbandona al suo destino.

— Ah ah! diceva con sciocco e crudele trionfo il portinaio. Voi vedete se c'era da credere che Andrea lasciasse manco la croce d'un centesimo. E' vi ha fatto un repulisti completo. Eh! lo conosco per bene io, quel buon soggetto. Avesse delle migliaia di lire, che è capace di fonder tutto alle carte e bevazzando qui da compare Pelone. Dunque non c'è più caso di star lì a fare altre considerazioni. Il padrone ve l'ha detto e ridetto che non vuole più avere dei pigionali della vostra risma. Potrebbe farvi staggire tutta questa poca roba..... ma siccome non c'è manco tanto che basti a pagar le spese di giustizia, così ve le lascia portar via, al diavolo, dove volete..... Ma vuole aver subito libera questa soffitta. Avete capito?

Paolina, mezzo dissensata, sollevò la testa e guardò il portinaio con aria così smarrita che mostrava non aver ella proprio compreso.

Il portinaio ripetè in tono ancora più chiaro le sue parole, e le conchiuse con una dichiarazione tanto esplicita da non lasciar più dubbio nessuno.

— Io, dunque, disse, prendo questi vostri quattro stracci, ve li calo giù nel cortile, e voi fateveli portare poi dove vi piace.

E siccome pose tosto mano all'opera, Paolina, per quanto offuscata dal dolore avesse la mente, dovette andar persuasa che quello non era un sogno crudele, ma una tristissima realtà.

La disperazione le ridonò ancora alcun po' di vigore per rivolgere alcune preghiere al cuore indurito di quel degno agente dell'usuraio; soggiunse, Andrea sarebbe forse venuto più tardi a pagare, si aspettasse almeno un giorno o due ch'ella avesse potuto trovare un ricovero a' suoi figli. Niente affatto! Il portinaio fu inesorabile; e venti minuti dopo la poca e povera roba di quella disgraziata famiglia era giù nel cortile in un piccolo mucchio, e sopra di essa stavano accoccolati i bambini piangenti e la madre che non piangeva più, che aveva nelle membra il tremore, e negli occhi l'ardore della febbre.

Sul loro capo calava la neve che seguitava sempre a fioccare.

Ma non era passato molto tempo che in quel cortile, intorno alle masserizie ed alle persone della povera famiglia s'era formato un capannello, in cui le parole che suonavano nei vivaci discorsi non erano d'elogio al padrone di casa. Erano popolani abitanti di quel miserabile quartiere che imprecavano e maledivano alla barbarie di messer Nariccia e si sfogavano in minaccie contro di lui, che si sarebbero tradotte in fatti niente graziosi per esso, quando fosse comparsa a vista di quegl'indignati la faccia ipocrita di quello scellerato usuraio. Dorotea medesima corse rischio di passarla brutta, avendo voluto ficcare il naso là in mezzo, tiratavi dalla curiosità, mentre andava dallo speziale a procurarsi la medicina di cui Quercia aveva scritto la ricetta e che Nariccia s'era deciso di prendere. Le imprecazioni contro il padrone ebbero una tal recrudescenza e presero un dato momento una direzione così personale per la vecchia fantesca, ch'ella stimò bene allontanarsi più che in fretta. Ritornata a casa Dorotea raccontò a Nariccia quello che accadeva nel cortile, e l'usuraio, spaventato, non si credette sicuro se non mettevasi sotto la salvaguardia della polizia, inviò pertanto il portinaio al Comando di piazza, e due veterani non tardarono ad arrivare per [142] porre l'ordine in quel cortile col loro bastone e colla loro autorità.

Ma che cosa fare di quella donna e di quei bambini? Il quesito sarebbe stato di ardua soluzione, se l'intromissione d'un personaggio, che al suo primo comparire si dimostrava fatto per comandare, non ci avesse provvisto. Questo personaggio era il dott. Quercia medesimo, il quale, terminata la sua segreta conferenza colla Leggera, passava di là, non a caso, ma per recarsi in quella sua casina sul viale dove l'abbiamo già accompagnato una volta, essendo quella strada la più breve per arrivarci.

Gian-Luigi ordinò che la donna, in cui il male era oramai precipitato in uno stadio gravissimo, fosse trasportata all'ospedale, i bambini fossero condotti in un vicino asilo, dov'egli pagando li ottenne subito ricoverati. Quando egli aveva finito di disporre pel compimento di quest'opera buona, al mormorio lusinghiero della gente colà raccolta, un omicciattolo s'accostò pianamente al dottore, e gli disse sotto voce:

— Questo fatto veramente provvidenziale darà alla cocca il fabbricatore di chiavi false che ci abbisogna.

Il medichino riconobbe Graffigna, che s'era così bene camuffato, da sembrare affatto un'altra persona, gli fece un lieve cenno d'intelligenza e si allontanò. Graffigna disse allora a sè stesso:

— Andiamo a cercare di Marcaccio e di Andrea; costui adesso non ci scapperà più di sicuro.

E si diresse verso la taverna di Pelone. Vedremo più tardi quali tristi effetti avesse sulla sorte di Andrea e su quella medesima di Nariccia la crudele determinazione di quest'ultimo, che scacciava di casa sua la donna malata e i bambini dell'artefice ferraio.

CAPITOLO XXII.

La stanza in cui erano rinchiusi Maurilio e Selva nelle parti inferiori del castello, era fredda, piccola, umida, scura, selciata di mattoni la cui polvere non mai spazzata, in quel momento, trovavasi ridotta ad una specie di motriglia dall'umidità che ci entrava traverso le grosse inferriate e la fitta graticola vestita di ragnateli della finestrucola che in alto presso il soffitto si apriva nei fossi delle due torri, e le cui imposte ned erano chiuse nè potevansi chiudere neppure, per la semplice ragione che mancavano affatto.

In quella stanza di prigione i mobili non facevano ingombro. Da una parte eravi un tavolato infisso al pavimento, per servire da letto; dall'altra parte una brocca di terra cotta piena d'acqua, e un bigonciuolo che serviva ad usi meno nobili ma necessari. Ecco tutto.

Maurilio, venendo dalle stanze superiori dove c'era maggior luce, al suo entrare colà dentro non vide nulla che una chiazza bianchiccia in alto della parete di faccia alla porta, ed era la finestrina per cui penetrava un poco di barlume. Il secondino che dietro il cenno del Commissario lo aveva accompagnato a quella carcere, tirato ch'ebbe i chiavistelli, girato la chiave nella serratura, aperto il grosso battente dell'uscio cigolante sui cardini, senza tante cerimonie diede uno spintone per le spalle a Maurilio, affine di cacciarlo dentro, e col medesimo rumore che aveva fatto testè ad aprire, richiuse sollecitamente dietro di lui la pesantissima porta.

Maurilio vide l'ombra d'un uomo che pareva sorger da terra, agitarsi innanzi a lui e slanciarsi verso di esso con una esclamazione; ricordò il suo ingresso nelle carceri del palazzo chiamato ancora oggidì il correzionale, e si trasse indietro vivamente con raccapriccio di timore e di ripugnanza.

Ma Giovanni, le cui pupille s'erano già temperate alla poca luce di quell'ambiente, aveva di botto riconosciuto in chi entrava l'amico suo, epperò si era affrettato al suo incontro.

— Maurilio: diss'egli con un'intonazione di lieta sorpresa nella sua voce vivace e francamente sonora: poichè anche tu avevi ad essere uccello di gabbia, benedetto l'azzardo che ci congiunge: dico l'azzardo perchè ho troppa stima del signor Commissario per supporre solamente che questo possa esser l'effetto d'un gentile riguardo che ci abbia voluto usare.

— Che? Esclamò Maurilio rassicurato e sentendosi rinfrancare di botto alla voce, alla presenza, alla stretta di mano, all'abbraccio dell'affettuoso amico. Sei tu, Giovanni? Arrestato anche tu!.... Oh! come mi fa piacere il trovarti.

— Birbone! Disse Giovanni ridendo. Ti fa piacere vedermi in gattabuia!

— Eh! no di certo. Voglio dire.....

— So bene quello che vuoi dire: interruppe col suo riso schietto ed aperto Giovanni Selva. Ma qui, tocca a me, che ci sono entrato alquanto prima, il far gli onori dell'appartamento. Se non ci vedi ancora abbastanza, dammi la mano e lasciati guidare.

Lo condusse al tavolato.

— Qui, continuò, è il sofà; egli è vero che questo è anche il letto, e può, anzi deve servire eziandio da tavola. Semplificazione veramente ammirevole!..... To', imita il mio esempio, e siedi sulla sponda di questo tavolo-sofà-letto. Che bel vocabolo!... Non temere di guastarne la spiumacciatura pei tuoi sonni della notte, sibarita che tu sei. La sofficità di questi materassi non ci può patire. Non è qui che potrà darti fastidio la foglia di rosa male ripiegata sotto la tua schiena, te lo assicuro io. È presumibile che avremo delle belle ore innanzi a noi da guardare quel «breve pertugio» lassù, che ci lascia venire tropp'aria, troppo freddo e per compenso troppo scarsa la luce; per fortuna abbiamo più [143] sacca da vuotare a vicenda. Io ti dirò l'iliade del mio arresto, tu mi conterai l'eneide del tuo, e poi terminerai di espormi l'odissea delle avventure della tua vita. Oggi sono classico come il prof. Paravia e parlo come un'appendice di Romani. Possa quest'omaggio alla letteratura officiale rendermi benigni i Dei infernali di queste bolgie governative! Queste chiacchere non ci scalderanno, ma ci faranno passare il tempo. Siccome spero che non saremo condannati alla sorte del conte Ugolino, spero bene che finirà per venirci qualcheduno, da cui, mercè il sacrifizio dei pochi denari che ci hanno levato di tasca, potremo ottenere una coperta per non gelare come sorbetti e qualche mezzina di vino per non lasciare intorpidirsi, come già mi sento le mani, anche il cervello.

Il programma di Giovanni fu seguìto appuntino. Dopo che l'uno e l'altro ebbero narrato a vicenda come avesse avuto luogo il loro arresto, dopo discorso non senza gravi apprensioni dei pericoli che sovrastavano a loro, agli amici ed all'impresa, Maurilio, pregatone di nuovo dal compagno, riprese il racconto della sua vita, interrotto all'alba di quella stessa mattina, quando Selva aveva dovuto correre da Francesco Benda per accompagnarlo in qualità di padrino al duello col marchese Ettore di Baldissero.

— I giorni che passarono, poichè ebbi la fortuna di incontrarmi col signor Defasi; così incominciò a raccontare Maurilio, recatosi prima alquanto sopra sè come per evocare più nette innanzi alla mente le sue memorie: quei giorni furono i più lieti e tranquilli che io abbia passato ancora mai su questa terra. Quella buona e pietosa famiglia mi pose un vero affetto. I miei studi interessarono il capo di casa e i progressi del mio intelletto lo stupirono di molto. Ebbe di me stima assai più ch'io non meritassi, e quasi ammirazione. Volle che con lui e con i suoi, fossi non più nelle attinenze d'un inferiore, ma in quelle d'un uguale. Spinse al punto il suo affetto e l'estimazione per me che mi lasciò comprendere un giorno come non avrebbe disdegnato, me povero e senza famiglia, accogliere come figliuolo concedendomi la mano d'una delle sue ragazze.

— Ed ecco entrare finalmente in campo la molla o segreta o palese, ma universale, delle azioni umane: la donna! Così disse Giovanni. Tu mi hai detto già che una violenta passione era venuta a impadronirsi del tuo cuore e darci fuoco a quella provvista di poesia che vi giaceva latente; questa passione era ella appunto per la figliuola del tuo principale?

Maurilio scosse la testa con atto di negazione desolata.

— No; rispose. Ah! fosse stato così! Avrei svelato al signor Defasi tutta la verità sul mio conto; ed egli così generoso verso tutti, così ammirato di me, avrebbe tuttavia concessomi l'onore della sua alleanza. La donna che avrei amata sarebbe stata mia. Ma il mio cuore invece — lo sciagurato ch'io sono! — non fu tocco dalle domestiche virtù e dalla modesta leggiadria delle figliuole del libraio; fu ad un punto acceso dalla fiera bellezza, dalle superbe grazie di tale, appetto a cui il povero trovatello è come innanzi alla gemma che orna il diadema d'una regina, il verme della terra.

S'interruppe manifestamente esitante ancora innanzi alla rivelazione del suo segreto.

Giovanni gli prese una mano e lo incoraggiò con una stretta, senza parole, e con uno sguardo affettuoso.

Maurilio disse affrettatamente ed a voce bassa:

— Amo la contessina Virginia di Castelletto, cugina del marchese Ettore di Baldissero.

E poi, come uomo che ha detto una sua gran vergogna, nascose la faccia sconvolta nelle grosse mani.

— Cospetto! Esclamò Giovanni con accento tra di meraviglia, tra di compassione. Per te questo amore è un terreno arido in cui non può nascere il menomo fiore d'una speranza. Tanto varrebbe esserti innamorato della luna! Valla ad arrivare! Mio caro, allorchè di queste passioni impossibili entrano nel cuore d'un uomo, conviene strapparle subito, ad ogni costo, anche portandosi via un pezzetto del proprio cuore, chi abbia senno, risoluzione e coraggio d'uomo siccome hai tu.

— Eh! che cosa non ho io fatto per ciò? Proruppe Maurilio con impeto. Non ci ho potuto riuscire a niun modo. Questa fatale passione si è tenacemente impigliata al più intimo dell'esser mio, ha gettato le radici profonde nel substrato della mia natura, s'è fatta il sangue che palpita nel mio cuore, s'è insinuata in ogni circonvoluzione ove sta lo strumento del pensiero nel mio cervello, s'è fatta l'anima mia. Da questo miserabil corpo non si può togliere più che colla vita: dallo spirito forse mai più!... Forse l'ho già portata meco da esistenze anteriori, e seguiterò ad averla connaturata colla mia essenza individuale negli stadii infiniti della mia immortalità, aspirazione fors'anco ad una meta di felicità non arrivabile nel tempo, punizione e spasimo frattanto nella relatività delle vite incarnate.

Agitò la sua testa grossa ed arruffata, lanciò dai suoi occhi profondi delle fiamme di sguardi: il sangue concitato gli colorò un istante i pomelli delle guancie e la vastissima fronte parve in quella accarezzata da una luce fosforica che la circondasse. La bruttezza delle sue corporee sembianze scomparve un istante sotto il fugace rivelarsi della luminosa natura dell'anima là dentro costretta. Una donna d'intelligenza l'avrebbe trovato in quel punto meglio che leggiadro, imponente e sublime.

Sì: continuò egli lasciando vibrare la sua voce, che acquistò ancor essa un'insolita ed efficace armonia: [144] questa passione, che fa da veste di Nesso all'anima mia, l'ho portata meco da altre vite, da altri mondi. Che cos'era quella indefinita ed incompresa aspirazione all'ideale che affannava fin dai primi anni l'inconscia mia natura? Che cos'era quell'ardore di innalzare nella schiera gerarchica delle intelligenze il mio spirito audace ed ambizioso, mercè lo studio ed il sapere? Che cosa quei tumulti inesplicabili che mi sobbollivano in petto, che mi facevano fra mille temerarie idee dibattersi la ragione, come nave senza governo in mar tempestoso? Che cosa quelle ineffabili chimere con sorrisi di donna e con isguardi d'angelo che passavano lucenti frammezzo alle mie fantasticaggini, adombrandomi un bene sconosciuto e cui non sapevo definire? La prima volta che io l'ebbi veduta, lei, appena fu comparsa a questi occhi, compresi tutto. La passione d'amore era lo svolgimento dell'anima umana, essa era la legge suprema del mondo morale come in quello fisico l'attrazione; e l'anima mia, fatalmente, per ignota necessità, era avvinta a quell'anima che mi si rivelava con tanto sfolgoramento di bellezza, oscuro pianeta di quell'astro lucente. Oh! come lo ricordo quel momento in cui la prima volta quella beltà raggiò nella penombra della mia esistenza! Se chiudo gli occhi, rivedo tal quale il luogo, il tempo, e lei, e me, ed ogni oggetto circostante.

Chiuse diffatti gli occhi, e sulle sue pallide labbra si disegnò un ineffabile sorriso, da potersi paragonare a quello del Joghi, indiano, che nelle sue mistiche contemplazioni vaneggia di giungere al proprio assorbimento in Brama.

E stette un poco, tacendo, in quella mossa prima di riprendere il suo dire.

— Era una bella giornata di primavera; così riprese Maurilio di poi; un lieto raggio di sole entrava nella bottega dei signor Defasi e faceva ballare allegramente traverso il suo splendore i minutissimi atomi della polvere. Il principale era seduto ad una sua piccola scrivania esaminando i libri delle ragioni; io, assorto in una meditazione indefinita e indefinibile, guardavo la danza di que' minuzzoli di materia che turbinavano, all'aria che filtrava dall'uscio, entro quello sprazzo di luce.

«Ad un punto una sfarzosa carrozza con due cavalli di prezzo si fermò innanzi alla bottega; un domestico in livrea disceso dal seggio del cocchiere ne venne ad aprire l'usciolo, e due donne uscite dalla carrozza si diressero verso il fondaco, di cui il domestico s'affrettò a spalancare l'uscio a vetri perchè potessero entrarci.

«Di quelle donne io vidi una soltanto. La sua testa mi apparve in mezzo allo splendore del sole, più splendida ancora nello sguardo angelico, nel sorriso divino. Sopra i suoi capelli color d'oro la luce faceva come un'aureola di fuoco; la sua bellezza verginale spiccava su quel fondo ardente come una sublime figura del Beato Angelico sull'oro della sua tavola. S'avanzò con graziosa mossa verso il banco ingombro di libri; il lieve rumore del suo passo, il fruscio delle sue vesti mi parve un'armonia. La guardavo con occhi sbarrati, immobile, fiso, rapito, non più presente a me stesso, non più sulla terra, non più conscio di nulla che quella celestiale bellezza non fosse. Palpitavo e tremavo; sentivo un ghiaccio corrermi nelle vene e una vampa di fuoco precipitarmisi nel cervello. Credo che se avessi visto precipitare in quel punto sul mio capo un colpo della falce della morte, non avrei manco potuto muovermi a schivarlo, così ero impietrito. Era una visione beata che avrei voluto durasse una eternità. Ella parlò. Che cosa dicesse non so, non capii, ma bevvi avidamente coll'anima quella voce soave. Il padrone s'era alzato dal suo posto ed era venuto riverente incontro alle due donne. Egli rispose alcun che. Vidi che quella divina figura sorrideva, udii ancora una volta la melodia di quella voce; poi l'apparizione scomparve, la carrozza ripartì e mi sembrò che quella bellezza allontanandosi, seco portasse lo splendor del sole, che miravo con sì gaio e intento sguardo poc'anzi.

«Allora essa trovavasi al primo sbocciare della sua giovinezza, quasi non uscita tuttavia dall'infanzia, eppure già donna per la imponenza dello sguardo, pel sentimento alto e profondo che si manifestava nelle sue sembianze, nel suo contegno, nel suo sorriso.

«Apprendere chi ella fosse lo desideravo colla più intensa vivacità del mio volere, ma domandarlo non avrei osato mai. Il signor Defasi mi soddisfece dicendo egli stesso, non richiesto, appena ella fu partita:

«— Che cara, bella e buona ragazza è questa mai! Essa è la contessina di Castelletto; e da qualche anno la è una delle migliori avventrici del mio fondaco. L'ho conosciuta che la era ancora una bambina, ed era già così affabile e graziosa come adesso, con una certa dignità fin d'allora, che era una meraviglia. Converrà mandarle subito questi libri che ha domandato.

«Io sorsi di scatto dal mio cantuccio.

«— Vado io stesso all'istante, signor Defasi: dissi vivamente parendomi un gran che il potere far subito alcuna cosa che lei in qualche modo riguardasse.

«— Oh non c'è poi tutta questa premura: rispose affettuosamente il principale, che postomi, come ti ho detto, molta stima ed affezione ed innalzatomi, col migliorare delle sue fortune, al grado di suo primo commesso, scambiava quel mio ardore per zelo di volerlo contentare. Non occorre che vi scomodiate voi stesso, appena venga il galoppino lo faremo trottar lui.

«— Oh no, caro padrone: io dissi quasi supplicando: lasciatemi andar me, subito.

[145] «M'accorsi alla guisa con cui il signor Defasi mi guardava, ch'e' molto stupivasi di quella mia insistenza, di cui non sapeva darsi ragione; sentii salirmi il rossore alle guancie come se vedessi scoperto quel mio segreto nato pur allora, e che già tanto m'era caro.

«— Ho bisogno di uscire, balbettai, di prender aria, di fare un po' di moto. Ho il sangue al capo. Questo mi servirà di passeggio.

«— Andateci pure allora: disse il principale colla sua solita bontà: e passeggiate quanto vi bisogna. Voi veramente state di troppo chiuso fra le pareti e fermo al lavoro. Ve l'ho detto tante volte che il vostro indefesso studiare vi farebbe male. La gioventù ha mestieri di aria libera e di moto. Nè dovete prendervi la menoma soggezione di me, perchè sapete bene ch'io sono disposto a darvi tutte quelle ore ed anco tutti quei giorni di vacanza che desideriate. Dunque to'; eccovi l'involto di libri che recherete al palazzo di Baldissero, e poi non vi aspetto più a casa che per l'ora di pranzo. Siamo intesi così?

«Io lo ringraziai, presi il mio cappello, e coll'involto dei libri sotto il braccio via di corsa verso l'indicatomi palazzo.

«Lungo la strada che avevo da percorrere, tenevo quell'involto con mani quasi tremanti, come per un tesoro che portassi. Ella quei libri li aveva già toccati, li avrebbe tenuti colle sue manine, avrebbeli introdotti nel santuario dei suoi appartamenti, posatili sul guanciale per leggerli la sera, avutili per delle ore sotto gli occhi. Li accarezzavo collo sguardo, li invidiavo coll'anima: li stringevo al cuore, come una cosa diletta. Mi pareva che essi dalle mie mani, passando nelle sue, dovessero stabilire una specie di legame segreto fra me e lei!...

«Giunto alla soglia del portone, la voce del custode mi ridestò dai miei sogni di pazzo:

«— Dove andate giovinotto? Mi domandò egli.

«Quelle parole mi arrestarono con un sussulto, come se fossero le più inaspettate e strane, mi trovarono sprovveduto affatto di risposta da fare. Ristetti confuso e balbettante.

«— Ebbene? Ripetè il portinaio. Siete sordo, o non sapete dove avete da andare?

«In quella una carrozza soprarrivava di trotto serrato, e voltando rattamente sotto il portone, poco mancava che mi schiacciasse, interito e sbalordito com'ero.

«Il portinaio che si spaventò forte del mio pericolo, mi prese ad un braccio e mi tirò con violenza in là, gridando metà con rampogna e metà con interesse:

«— Siete proprio sordo, chè non sentite le carrozze che vi vengono addosso?

«Una testolina dai capelli d'oro comparve alla portiera, ed una voce d'argento dimandò:

«— Che cos'è stato?

«Era lei! Io risentii il palpito nel cuore e la tenzone del sangue nel capo, di poco prima.

«Il portinaio rispose; poi, siccome io continuava a tacere, vedutomi l'involto tra mano, il portinaio medesimo me lo prese, ne lesse la soprascritta, e disse alla signorina che io portava quella roba per lei.

«Ella avvisò tosto che cosa fosse.

«— Ah! i miei libri che mi manda il signor Defasi?

«— Sì... sì signora: ebbi pur finalmente la forza di balbettare con voce che mi era strozzata nella gola e con labbra che mi tremavano dall'emozione.

«Ella lasciò cadere su di me un suo sguardo benigno — su di me povero, oscuro, miseramente vestito, in così umile condizione sociale; — e disse con quell'accento la cui dolcezza al mondo nulla può eguagliare:

«— Vi ringrazio.

«Essa colla sua compagna salirono lo scalone: il domestico che era con loro prese dal portinaio l'involto e le seguì: io sentiva sempre nel mio orecchio l'eco di quella voce, il suono di quelle due parole.

«Approfittai della licenza datami dal principale e corsi ad accarezzare le mie fantasticaggini nella solitudine dei viali. Di botto una crudele vergogna m'assalse. In quali miserabili forme ero io comparso innanzi a lei! Quasi avessi uno specchio davanti agli occhi la mia bruttezza e la mia povertà mi risaltavano visibili e spiccate alla mente che a forza doveva paragonarle alla beltà ed alla ricchezza di quell'angelica creatura. Oh! s'ella avesse saputo che da quel meschinello disprezzato e disprezzevole osava innalzarsi sino a lei la temerità d'un amore! Pensai a Quasimodo il mostro creato da Victor Hugo nella Notre Dame de Paris, che ama supremamente la bellezza femminea incarnata nella grazia di Esmeralda. Ma in me c'era qualche cosa di più che non ci fosse in quell'embrione abortito d'uomo; ma il mio affetto era immensamente più nobile di quanto fosse la passione tra sensuale e canina di quell'essere mantenuto dall'organismo nella zona inferiore dell'animalità; ma in essa eziandio lo sguardo affermava che c'era qualche cosa di più della pura bellezza fisica. Se questa mia veste di carne troppo misera e disgraziata era indegna di rivolgere pure un desio a quella perfezione di forme, non erano in me l'anima e l'intelletto capaci di levarsi all'altezza e di parlare alla pari con quell'intelletto e con quell'anima? Superbamente mi dicevo che sì; un orgoglio immenso m'invadeva, e nella febbre di quell'agitazione pareva anche a me di aver nella volontà e nel pensiero una forza da sollevare il mondo, purchè trovassi il punto d'appoggio.

«Come fare per poter comparire agli occhi suoi in quel modo che indegno non mi facesse della nobiltà non del suo blasone, ma della sua natura? Questo [146] pensiero si piantò fisso e potente nel mio cervello a regolare a suo capriccio tutti gli altri a lui subordinati. Ne immaginai mille di cose, tutte folli ed impossibili. Alla gloria fino allora non avevo pensato mai. Non mi era nata mai la speranza, nè il desiderio, nè manco l'idea che questa meschina personalità potesse innalzarsi al di sopra delle altre per essere ammirata dalla nullità comune. Allora, di colpo, vagheggiai la corona della gloria come un bene fra i più eccelsi; mi parve anche, nell'intensità febbrile del mio pensiero, un diritto della mia intelligenza. Oh! se avessi potuto recarle innanzi nella polvere calpesta da' suoi piedi una fronte cinta del diadema che dà la sovranità della mente riconosciuta e consecrata dalla fama! Ella avrebbe apprezzata questa grandezza; ella non avrebbe più guardato all'infelice viluppo, per accogliere quale sorella l'anima grande che si era manifestata, come quella Principessa che baciava amorosamente le labbra del deforme Alano Chartrain addormentato, per gli splendidi versi e pei sublimi concetti che uscivano da quelle labbra.

«La gloria! la gloria. La mi abbisognava, la volevo. Essa mi appariva più splendida nel guerriero e nel poeta. Sognai di diventar Napoleone; sognai di esser Dante. Un Napoleone italico che combattesse le battaglie della liberazione della patria, e poscia, acclamato da tutta una nazione redenta e fatta potente, venisse a prostrarsi innanzi a lei per dirle: «La mia grandezza è opera tua, la mia gloria sei tu; vieni a circondarti tu pure di questa infuocata aureola che illumina il mio capo al di sopra del comune livello dell'umanità.» Un Dante, rincalzato da tutto il tesoro della scienza moderna, che gettasse di nuovo nel crogiuolo della sua fantasia tutti gli elementi della vita, del pensiero e dell'affetto, per trarne fuori l'enciclopedia del secolo travagliato, in un altro splendido poema che comprendesse l'universo.

«Nemmeno pel pranzo non rientrai più in casa del signor Defasi. Mi ridussi nella mia cameretta, mi vi chiusi dentro e su quello scartafaccio su cui avevo cominciato a scrivere le emozioni dell'anima mia, le lotte e i conquisti della mia intelligenza, su quelle pagine scarabocchiai con mano febbrile i primi versi d'amore che erompessero dal mio cervello. Quell'immagine giovanile mi stava sempre dinanzi. Io le parlava come a persona viva che fosse presente e mi potesse ascoltare. Una folle illusione mi faceva quasi sperare che la intensità del mio desiderio e la forza delle mie preghiere varrebbero a comunicare, non ostante ogni distanza ed ogni separazione, all'anima di lei l'omaggio ed i tumulti dell'anima mia.

«Avrei voluto sapere di essa il nome di battesimo; quel nome con cui l'aveva chiamata sua madre, col quale avrebbe avuto diritto di chiamarla l'uomo a cui ella avesse dato l'amor suo. Conoscevo dell'idolo mio la luminosa esistenza, non la voce con cui invocarlo ed evocarlo, non la parola sotto cui volgerle la mia adorazione. Mi pareva che sapendo questo nome era un raccostarmi di più a lei, era quasi un intromettermi nel santuario della sua esistenza, era una maggiore rivelazione del Dio a me suo adoratore. Come fare per giungere a questo scopo? Per un altro sarebbe stata la cosa più semplice di questo mondo: interrogar qualcheduno; forse lo stesso Defasi avrebbe potuto soddisfare alla mia richiesta; ma io non avrei voluto a niun conto parlare di lei ad anima viva. E tu se' il primo a cui ne tengo parola. Mi pareva una profanazione; mi pareva che qualunque a cui mi rivolgessi avrebbe sentito nel mio accento, avrebbe letto nel mio volto il mio caro segreto cui con infinito pudore volevo a tutti nascosto.

«Una strana idea m'assalse. Mi ricordai ad un tratto di quell'aerea forma che fino dall'infanzia a lunghi intervalli era comparsa ai miei occhi, aveva parlato alla mia mente, confortatrice, consigliera, amorevole protettrice. Da lungo tempo ella non si era mostra più, ed io caduto, per conseguenza di alcune letture, in un nuovo scetticismo — e ti parlerò eziandio, se non l'hai discaro, di questi travagli dell'anima mia — io mi era sforzato a persuadermi che quelle apparizioni erano stati null'altro che fantasimi del mio cervello ed a ritenerle come illusioni morbose della mia immaginativa. L'amore che mi doveva ridonare la fede — la nuova fede su cui ora fonda il mio spirito l'edifizio delle sue convinzioni, dell'enciclopedia umana e delle conoscenze che è giunto e giungerà mai ad acquistare — la fede nel mondo superiore, senza cui manca all'essere uomo un elemento essenzialissimo pel suo proprio svolgimento e perfezionamento — l'amore che doveva ridonarmi questa fede, cominciò per farmi creder di nuovo alla realtà dell'esistenza e dell'intromissione nella mia vita di quello spirito incorporeo che mi era apparso in vaporose sembianze sotto forma di giovane donna.

«Siccome mi era dolce pensare che fosse mia madre a visitarmi pietosa dal misterioso mondo di là della tomba; siccome non dubitavo che gli oggetti postimi addosso nell'abbandonarmi infante non appartenessero a mia madre, e specialmente quel rosario; io presi quest'ultimo dal luogo riposto in cui gelosamente lo custodivo, lo strinsi con passione fra le mie mani, me lo serrai sul cuore che palpitava concitato e con un'aspirazione indefinita, inesprimibile dell'anima, pregai:

«— Madre mia, o qualunque tu sia, spirito mio benigno, vedi il mio desiderio e soddisfalo tu, se puoi. Spirito immateriale, tu devi leggere entro il pensiero, tu devi scorgere entro i segreti ripostigli dell'anima. Vieni pietosa a parlarmi di lei, vieni a darmi quella forza e quel merito che mi possano accostare all'altezza di quella creatura, vieni a svelarmi, [147] sia pur anche il più infelice, l'avvenire di quest'amore che sento, che conosco essersi fatto la ragione e la sostanza della mia esistenza.

«Stetti quasi tremante, con un palpito pieno di dolcezza, con un'intima emozione che mi faceva correre lievi brividi per le vene, stetti, nella mia cameretta invasa dalle ombre della sera, aspettando quell'aura leggerissima d'alito che mi pareva soffiarmi in fronte all'apparizione del fantasma, quell'opalino chiarore in mezzo a cui soleva disegnarmisi innanzi l'incorporea forma.

«Aspettai vanamente.....»

— Ah! Esclamò Giovanni, del quale lo pseudorazionalismo, rincalzato da un po' d'umore beffardo alla Voltaire si ribellava contro la secondo lui puerile credenza nelle apparizioni di esseri estraumani. La tua mente, rinforzata pel crescer cogli anni delle forze fisiche, rinvigorita per gli studi maggiori e più assennati, non era più capace di quelle fantasmagorie a cui si prestava nella puerizia e nella prima adolescenza.

Maurilio fece un lieve sorriso scuotendo la testa.

— Aspetta, aspetta: diss'egli. Tu ti affretti di troppo ad imbrancarmi nel gregge degli uomini positivi che credono soltanto a quell'universo di cui le parti si possono misurare col bilancino e scomporre nella storta del chimico. Ho passato per quello stadio ancor io: fu una crisi cui attraversò fra le tante, quest'anima; come già ti ho detto, l'amore me ne trasse, e l'apparizione dall'amore invocata ed evocata, fu il primo atto che mi riscattò dalla schiavitù in cui ero caduto del materialismo.

— Dunque la tua apparizione ebbe luogo? Domandò Giovanni con più interesse di quanto la sua incredulità avrebbe fatto supporre.

— Sì..... Attesala invano in quell'ora mesta e soave del crepuscolo, che era pure stata quella in cui mi si era presentata la prima volta, io tornai a discredere, e indispettito meco stesso, proverbiandomi della debolezza che mi dicevo esser cagione di cotali vane e sragionate lusinghe, uscii nuovamente di casa per tornare a dare sfogo almeno col moto del corpo, al tumulto dell'anima, all'agitarsi del pensiero.

«Dove mi recassero le gambe, anche senza preciso comando della mia volontà, è facile indovinare. Uscii, riscotendomi, dalla riflessione in cui ero assorto, quando mi ritrovai in faccia al portone del suo palazzo. Mi fu impossibile strapparmi di là. Una forza centuplicata d'attrazione pareva inchiodarmi i piedi sopra i sassi di quel selciato. Il cuore mi batteva, mi batteva; la testa mi era rintronata; gli occhi non vedevano distintamente; i lumi che apparivano dalle finestre mi parevano mandare non raggi ma mille sprazzi di scintille che turbinavano come un fuoco d'artifizio; i rumori mi giungevano al cervello ora come lontani e traverso una tramezzatura soppannata, ora come accresciuti a cento doppi di forza da quasi indolorirmene.

«Stetti colà, di questo modo, non so quanto tempo. La mia mente intanto sognava. Quest'io che s'agita in me vestiva nuove forme e conquistava nuovi destini. Il materialismo che aveva confuso e identificato me spirito a questa miserabil carne che mi circonda, che disconoscendo l'essere intimo e superiore mi aveva fatto credere che intelligenza, volontà e pensiero non erano che risultamenti della materia organata; questo crudele, empio e sofistico filosofismo cedeva di botto le armi all'invasione d'un amore che nulla aveva di sensuale ed aleggiava purissimo nelle sfere della spiritualità. Senza più contrasto riconobbi possibile che quella parte essenziale di me a cui la potenza appartiene di volere e di pensare, fosse di altre forme vestita, più nobili, più acconcie e leggiadre. Sentii nel carcere delle disadatte membra incatenata l'anima: ed è quest'anima cui riconobbi non indegna di amare a quel modo quella tanta idealità incarnata in tanta bellezza.

«La nobile fanciulla rappresentava per me tutto quello che vi ha di superiore negli affetti e nella capacità intellettiva della natura umana. Fin da bambino l'anima mia, inconsciamente, aveva anelato a quel mondo superiore dell'idealismo, dove le deficienze della creazione inferiore nella grossolanità della materia non alterano, non avviliscono, non contraffanno l'archetipo dell'idea divina; il non aver mai potuto attingere colle mie aspirazioni pure un adombramento di quella suprema bellezza, i duri attriti della vita sociale in mezzo alle cui più grosse difficoltà il destino mi aveva balestrato, una scienza insufficiente, carpita, per così dire, a casaccio in mal digeste letture, mi avevano fatto disperare di giungere non fosse che alla soglia di quel mondo superiore, mi avevano fatto negare che quel mondo esistesse. Ad un tratto la luce di quella regione celeste mi raggiava di pieno negli occhi con quella verginale beltà. Io era forse indegno di arrivarlo; ma l'ideale esisteva e la perfezione di forme illuminata dall'idea in quell'essere di fanciulla n'era un'incarnazione sublime.

«Perchè la mia anima non aveva ella vestite delle sembianze che stessero a paro con quelle di lei? Era ella una condanna, od una mia colpa od un'ingiustizia? Era codesto un segno dell'inferiorità essenziale dello spirito mio? Ma se nella chiostra del mio pensiero sentivo una forza che abbracciava i mondi, e più audace che non avessi trovato in altrui, si elevava a battere alla porta dei misteri della creazione! E questo era un mistero terribile e impenetrabile eziandio; ma era: che due anime, forse pari e degne l'una dell'altra per loro intima natura, si potevano trovare quaggiù separate per la disparità delle forme, per la distanza delle condizioni sociali, a distribuire le quali cose è forse una legge eziandio, ma a noi cotanto ignota che la chiamiamo caso. Ora l'opera di questo caso o legge [148] misteriosa potrebbe la volontà umana, collo sforzo portentoso del suo travaglio, distruggere, riparare, sconvolgere? In altri e più speciali termini, il povero trovatello, miserabile, brutto, disprezzato, reietto avrebbe potuto coll'intelligenza, colla virtù, colla grandezza dell'opera sua elevarsi sino alla superba fanciulla, bella, nobile e ricca, che a lui appariva nell'orizzonte della vita come all'umile pastore delle montagne la splendida luce della stella del mattino?

«Ecco il quesito che già mi poneva dinanzi inesorabilmente, come l'enimma della sfinge, la febbre della passione.

«Fino a quando sarei rimasto colà inchiodato a quei ciottoli della strada noi saprei dire; ma un avvenimento me ne venne a strappare. Quella medesima carrozza che la mattina era venuta alla porta del fondaco, uscì di sotto il portone del palazzo. Come un lampo mi passò davanti la visione di quella bellezza colla sua aureola di capelli d'oro. Non deliberai, non pensai, non seppi nemmeno quel che facessi; ma d'un balzo mi trovai seduto sulla predella di dietro della carrozza. Più volte mi avvenne poi di fare quel medesimo; ed ancora ieri sera di questa guisa l'accompagnai al ballo dell'Accademia. La carrozza si fermò alla porta del Teatro D'Angennes. Vidi lei discendere ed entrare colà dentro. Rimasi alcuni minuti perplesso. Non ero ancora entrato mai in nessun teatro: non osavo avventurarmi in quel luogo di cui non avevo la menoma idea; non sapevo come fare; ed una irresistibile forza mi traeva a seguitarla. Cedetti e di slancio m'introdussi nella stanza d'entrata come farebbe chi si gettasse in una voragine di fuoco. Il portinaio mi arrestò domandandomi il biglietto. Arrossito sino alla radice dei capelli, confuso, balbettante, mi feci spiegare che cosa fosse, come avessi da fare per procurarmelo, e mi affrettai a seguire le datemi indicazioni. Pagai ventiquattro soldi, che per me rappresentavano anche allora una somma di qualche rilievo, e seguii i passi di alcuni che entravano eziandio in quel momento.

«Era già tardi: lo spettacolo incominciato e la folla in platea tale che ai nuovi venuti non era possibile più lo entrarvi. Dal di là della soglia nel vestibolo, di sopra le spalle e le teste di coloro che mi erano davanti, vidi un ambiente pieno di luce con in mezzo un lampadario ad innumerevoli fiammelle. I suoni dell'orchestra e i canti degli artisti lo riempivano d'armonia, e le onde sonore di quella musica venivano a percuotermi travelate e ad intermittenze la testa.

«Dello spettacolo mi curavo poco; ma volevo vederla — lei!

«Udii due de' miei vicini che si dicevano: — qui non si può veder nulla. Andiamo su in paradiso, chè qualche cantuccio da allogarci ce lo troveremo.

«S'avviarono di fretta su per le scale, ed io li seguii.

«Quando fui al secondo pianerottolo uno di quei tanti usci che erano nei corridoi, l'uscio appunto che si trovava precisamente in faccia a chi finiva di salire quella branca di scala, si aprì. Ne venne fuori un giovane, il quale avendo ancora da dire qualche parola a quelli che eran dentro, tenne un istante, standovi sulla soglia, mezzo aperta la porta. Rimasi piantato là innanzi. Il mio sguardo penetrato là dentro aveva visto disegnarsi sul fondo luminoso del teatro il divino profilo di lei. Ella teneva il gomito appoggiato al parapetto e la testa un po' reclinata posando lievemente sulla mano la guancia; ascoltava più che attentamente con emozione la musica, e la sua mossa naturale, abbandonata, di cui ben vedevasi ella non esser conscia per nulla, era la più graziosa, la più avvenente, la più adorabile ch'esser possa mai.

«Ma ratto la visione fu tolta agli occhi miei. L'uscio s'era richiuso, il giovane era partito senza punto badare a me; io mi ritrovava più impacciato che prima di quel che dovessi fare. Essa era là, così vicino a me, separata soltanto da un uscio e da pochi passi. Ma codesto non mi bastava: gli era vederla ch'io voleva, di ciò avevo bisogno; l'ardente desiderio di contemplarla era insaziato in me e da non saziarsi. Salii di volo le scale che ancor rimanevano; giunsi nel loggione, e capii tosto che doveva esserci colà un punto da cui avrei potuto vederla. Corsi sollecito all'estremità verso il proscenio dalla parte opposta a quella dove avevo visto ch'essa si trovava; dall'ultima apertura d'onde non si può vedere sul palco scenico che da chi si trova in prima linea, ed ancora stentatamente, trovai modo di gettare uno sguardo nel sottoposto teatro. La vidi; e ciò mi bastò. Mi appoggiai colle spalle alla parete, e stetti senza più muovermi, senza più batter palpebra, cogli occhi fissi su quell'adorata visione.

«Come già ti dissi, non ero stato mai in nessun teatro; quel caldo, quell'afa, quel rumore mai non mi avevano avvolto; era un tutto nuovo ambiente per me in cui non sapevo ancora, direi quasi, respirare, e per cui opprimendomisi il petto mi veniva impacciata la circolazione del sangue e procurato di questo un ingombro al cervello. Continuavano per me le percezioni ad essere confuse, pressochè senza giusta misura, ora troppo vive, ora troppo smussate, or tarde, or lente, uno stranissimo complesso che non sapevo più se era vita o fantasmagorìa, se realtà o sogno.

«Musica teatrale e canto drammatico non avevo udito mai. Conoscevo solamente i canti di chiesa e il suon dell'organo che nella mia infanzia al villaggio m'intenerivano l'anima, senza pur ch'io ne sapessi e cercassi sapere il perchè. Di poi, dacchè ero a Torino avevo sentito scuotermisi le fibre e [149] sussultare i nervi a qualche marcia concitata suonata dai corpi di musica della guarnigione. Non conoscevo con linguaggio di melodia che due sole espressioni, la religiosa e la guerresca: tutto il resto degli umani affetti e delle passioni del cuore che trova una voce così efficace nell'infinito degli accordi musicali, era ancora libro chiuso per me. Ero in condizioni tali da rendermi le prime impressioni che ne ricevevo, le più forti e profonde che mai: quelle prime impressioni che in cuor giovenile hanno pur sempre intensità ed efficacia cotanta. Al momento in cui ero giunto ad allogarmi in quel cantuccio del loggione, suonavano pel teatro due voci, una d'uomo e l'altra di donna, due voci soavi che s'accordavano insieme a meraviglia in una melodia piena di passione e d'incanto. Aveva incominciato la voce di tenore, poi quella di donna aveva risposto e per ultimo si assembravano insieme con islancio d'inesprimibile effetto. Cantavan d'amore; si davano un addio, separati quali dovevano essere dalla sorte; si scambiavano un pegno del mutuo affetto che li stringeva, e si giuravano eterna la fede.»

— Buono! Interruppe Giovanni: gli è la Lucia di Lammermoor che tu hai udito.

— Non so, rispose Maurilio, non avevo guardato i cartelloni, non li guardai nè anche di poi, non me ne venne pure il pensiero. Le parole non potevo capir bene, ma capivo a meraviglia la musica, e ne capivo ancora di più il significato e la bellezza, vedendone le emozioni dipingersi sulle sembianze di lei..... Quelle medesime emozioni che provavo io, nascosto nel mio cantuccio, compiutamente ignorato. Ella stava immobile, tutto tutto attenta alla scena, non prestando il menomo ascolto alle chiacchere che colla signora ond'era accompagnata facevano parecchi giovani civili e militari che si scambiavano e succedevano in quella loggia. Io ne vedeva di tre quarti il viso leggiadro, e il puro ovale delle sue guancie spiccava a meraviglia sul fondo rosso della tappezzeria; i suoi occhi di colore indefinito, ora verdi come il mare, ora azzurri come il cielo, ora scuri come una perla nera, limpidi sempre come la stella del mattino, i suoi occhi strani di cui non v'ha pari, di inesplicabile, ma sublime, ma inarrivabile bellezza.....

— Un momento: interruppe di nuovo Giovanni Selva. Sì, gli è vero che gli occhi di quella ragazza sono veramente straordinarii ed hanno una certa segreta malìa che non si può definire; ve ne hanno pochi in verità di tali occhi, ma per bacco non sono i soli, e un paio di simili ce l'hai tu stesso, Maurilio.

— Io? Esclamò il povero innamorato arrossendo sino alla fronte.

— Tu, in verità. Sicuro! Più ci penso e più ci trovo una gran rassomiglianza fra questi tuoi che lucicchiano qui in queste tenebre come quelli d'un gatto e gli occhi di quella nobile donzella. Ma continuiamo il tuo racconto. Che cosa facevano quegli occhi ammirabili ed ammirati?

— I suoi occhi si lumeggiavano così bene delle interne emozioni dell'anima che a me le rivelavano più chiaramente che non avrebbe potuto fare la parola. La tenerezza, la pietà, il nobile diletto delle generose commozioni apparivano nei raggi di quegli sguardi sicuri e modesti, non cercatori nè pur curanti dell'omaggio ammirativo d'altrui, e nella loro indifferenza della gente non disdegnosi nemmanco nè oltraggiosamente superbi. Si vedeva che in quell'anima risiedevano, come in loro proprio luogo, tutti i più degni affetti ed i più nobili sentimenti, i quali in quel punto, suscitati dalla malìa di quella musica, attestavano collo splendore dell'esterna bellezza la loro divina presenza. Oh! come sentii che era capace di sublimissimo amore quell'essere che m'accorsi palpitare com'io palpitava, a quelle onde di meravigliosa armonia! Oh come avvisai che felicissimo sarebbe l'uomo il quale potesse porre una mano su quel cuore e sentirlo battere per lui! A me il solo provare insieme con lei le emozioni di quei momenti, tornava un massimo diletto, pareva una ventura che alcun poco ci raccostasse. Quanti altri erano colà ad udire i medesimi suoni e partecipar quindi delle emozioni medesime! Eppure mi pareva che dalla massa comune noi due soli, ella ed io, ci separassimo per provare più veramente e più altamente quelle sensazioni che il genio del musico aveva voluto suscitare, e percepire più chiaro, più giusto, più completo l'ideale della sua creazione. Non ero geloso di tutti gli altri che dividevano meco la felicità di respirare nel medesimo ambiente di lei, di commuoversi delle medesime dolcezze; nessuno di certo sapeva innalzarsi alla altezza delle sensazioni di quell'angelica creatura; io superbamente mi dicevo che coll'ardore dell'amor mio ci arrivavo. Non ero geloso il meno del mondo di quegli eleganti che nel suo palchetto ciarlavano e ridevano con zazzere arricciate, con baffi incerati, con guanti bianchi alle mani e la lente nell'occhiaia, azzimati, ornati, studiati nell'acconciatura e nelle mosse, leggiadrissimi di bellezze da figurino, ameni fors'anco ed ingegnosi ed arguti nella conversazione e nel motteggio, ma senza un lampo nella fronte e negli occhi d'una superiorità qualsiasi dell'anima o dell'ingegno. Perchè esserne geloso? Ella se ne curava così poco!...

«Lo spettacolo dopo quel canto a due fu interrotto, e grandi applausi suonarono per tutto il teatro durante più d'un quarto d'ora. Capii di poi che un atto era finito. Quel fracasso, a cui non ero abituato, mi rintronava fieramente con dolorosa vivezza entro la testa. Mi serrai al petto le braccia e chiusi gli occhi come se isolandomi per la vista, potessi anche sceverarmi dal baccano di quella folla strepitante in quella gran sala, che si apriva come [150] un vasto pozzo luminoso al di sotto di me, entro il quale mi pareva rimuggisse il demoniaco tumulto dell'inferno di Dante.

«Mi pareva così di rientrare alquanto in me stesso, e ne avevo immenso bisogno. Quel giorno era troppo ricco d'emozioni per l'anima mia. Due tremende rivelazioni mi si erano fatte: quella dell'amore e quella d'un nuovo mondo nell'arte. L'intelligenza vacillava abbracciata tenacemente dalla passione, e sentiva che da questa stretta, fatale come la lotta di Giacobbe coll'angelo, doveva uscirne o ringagliardita con più forti ali al volo, o spossata ed impotente. L'idea vedeva squarciarsi dinanzi un velo, e il suo sguardo penetrava nella zona senza limiti e misure del sentimento dalle forme indefinite, e capiva che scorrendo in quel campo od avrebbe attinto nuova grazia alle sue creazioni, o si sarebbe smarrita nelle incertezze di contorni sfumati d'una sentimentalità senza sostanza. E l'amore intanto mi stringeva come con una tanaglia il cuore, mentre mi cantava sotto il cranio la melodia di quell'ultimo accento d'addio dei due amanti.

«Le palpebre abbassate non mi precludevano così bene l'adito alle pupille della luce ond'era invaso il teatro, che nel campo scuro innanzi ai miei occhi non tardasse ad aprirsi come un cerchio rossigno, il quale allargandosi occupò tutto lo spazio indefinito della mia visione, e nel centro, frammezzo ad un'aureola più luminosa, mi apparve la figura di lei, quale avevo vista testè, quale non avevo che ad aprire gli occhi per vedere viva e reale.

«La contemplai meco stesso, come un'immagine stampata nella mia mente. Intorno alla seria e dolce sua fisionomia aleggiavano, per così dire, le note melodiose di quel canto d'amore onde l'anima mia s'era impregnata; i suoi sguardi lampeggiavano di una luce sovrumana e mi parevano fissi su me raggiandomi addosso un soave calore. Ebbi di botto il bisogno di vedere la realtà di quell'immagine. Aprii gli occhi. Aimè! Essa era volta verso l'interno della loggia e non mi presentava più che le ricche ed abbondanti treccie dei suoi capelli dorati raccolte in un voluminoso ammasso sopra della sua nuca.

«Ricominciarono i suoni ed i canti. Non ti dirò tutte le sensazioni che passarono nell'anima mia, perchè non la finirei più. Era un sogno, un mirabile succedersi di fantasie, di visioni impossibili, di chimere ineffabili. Non vivevo più della vita terrena; ero trasportato come in un'esistenza superiore, con altri sensi, con altre percezioni; ero nel delirio della pazzia o del genio: non mi riconoscevo più me stesso; non sentivo più di me che il mio amore in un turbine d'emozioni inesprimibili.

«Il dramma musicale seguitava la sua splendida evoluzione di melodie. Udii i gemiti della fanciulla innamorata cui sacrificavano all'interesse in un matrimonio abborrito, imponendole un tradimento alla sua fede; udii i canti di festa per le infaustissime nozze; udii la voce di dolor disperato e il grido di maledizione che mandò l'amante tradito, tornato giusto a tempo per assistere all'irrevocabil sanzione di quell'infame patto che gli toglieva l'amor suo per sempre. Rabbrividii, raccapricciai, riarsi. Vissi della vita immaginata di quell'infelice, sentii me stesso trasportato in quegli avvenimenti ed io parte principale; soffrii del dolore di quella musica che piangeva, che minacciava, che supplicava, che malediva. Il concerto sublime, affatto nuovo per me, di suoni e di voci in quel grandioso finale che svolgeva la sua imponente frase solenne, mi produsse un magico effetto. Parevami di sentirmi capace di qualunque maggior virtù, di qualunque eroismo, di qualunque sacrifizio. Per lei, innanzi a lei, avrei incontrato felice la morte del martire....

«Ella pure era trasportata e commossa.... Sì, certo; non era una folle superbia la mia, le nostre due anime si incontravano nei sentimenti medesimi.....

«Come passarono rapidi quei momenti i quali pur tuttavia furono occupati da tanta immensità di pensieri e di sensazioni!.. Ella, prima che lo spettacolo terminasse, si partì. Non potei più rimanere colà neppur io. Feci il possibile per affrettarmi a venir fuori da poterla ancora vedere prima che salisse nella carrozza; ma la troppa gente che era stipata nel loggione, e traverso cui dovetti aprirmi il passaggio, mi ritardò talmente che quando fui alla porta del teatro, la carrozza da cui ella era trasportata più non poteva non che raggiungersi, vedersi nell'oscurità della notte.

«Girai lungamente per le strade e le piazze di Torino, senza direzione, senza pensieri ben precisi nella testa, con tutto un caos di idee indiscernibili e di inesprimibili affetti. Batteva la più limpida luna che esser possa. Quei concenti musicali mi ronzavano dentro il capo, confusi l'uno coll'altro, vaghe reminiscenze che non potevo afferrare e far concrete. Pensavo a lei, pensavo al mio avvenire; poi ad un tratto mi ricordavo del villaggio e della mia infanzia, dei maltrattamenti della Margherita e delle soavi parole e della fisionomia amorevole di don Venanzio; di colpo tutto quel mulinìo di pensieri cessava e svaniva, e mi trovavo colla testa vuota, con una smemorataggine strana e che mi stupiva, con non altra sensazione più che una specie d'indolorimento nel cervello affaticato. I piedi mi si piantavano di per sè a quel punto dove mi trovavo; guardavo stupito o meglio stupidito intorno a me; fissavo la luna, le stelle, l'ombra scura delle case allungata nelle vie, il rossigno chiarore oscillante dei lampioni alle cantonate. Mi riscuotevo in sussulto ed un nuovo èmpito di pugnaci pensieri m'invadeva il cervello.

«Corsi a casa e mi rinchiusi nella mia povera soffitta, entro cui guardava con quella specie di suo [151] calmo sorriso la sembianza di volto della luna. Aprii le invetrate, e la fronte esposta all'aria fresca della notte mi appoggiai coi gomiti al davanzale e stetti là continuando quella corsa matta del mio cervello fra le più strane immagini alla più impossibile chimera.

«La luna venne calando mano a mano, e poi sparì; mi rimanevano dinanzi le stelle tremolanti che mi parevano uno scintillìo di sguardi che mi osservassero dal fondo dall'infinito.

«— Che cosa siete voi, esseri misteriosi dello spazio interminato? Esclamai tendendo loro le braccia con aspirazione dissensata. Soli di mondi innumerevoli, vedete voi travagliarsi nelle vostre sfere l'intelligenza? lottare la vita? palpitare l'amore? Vivete voi? Soffrite voi? Amate voi?.... E perchè? A quale conclusione camminate voi o mondi nell'eterno avvolgimento delle orbite vostre?.... La spiegazione di tutto l'universo è il nulla, il risultamento di tutto il lavoro della immensa natura è una cieca necessità senza ragione che in un momento può distrursi da sè stessa e ripiombare la materia nella fusione primitiva, e noi intelligenze che possiamo apprendere al nostro passaggio un lembo, un adombramento della verità, dobbiamo disfarci e disperderci nel nulla, perchè questa verità intiera non sia mai da nessuna intelligenza, da consciente volontà abbracciata? Perchè avremmo adunque l'idea dell'infinito? Perchè allora quest'amore che mi pare coesista eterno nell'anima mia e debba accompagnarmi nell'eternità del futuro?.... Oh amore! Sei tu dunque l'ultima ragion delle cose?.... Sei tu il centro di attrazione dell'universo? Sei tu il Dio supremo dell'esistente?

«Un fiotto di fede e di poesia invase l'anima mia, su cui era passato l'amaro soffio della negazione. I versi e le immagini sobbollirono nel mio cervello. Mi slanciai al mio tavolino, accesi la mia lucernetta e con mano convulsa sotto l'impeto della pressante ispirazione, indirizzai a quella sublime bellezza che mi era apparsa nella vita, un secondo inno d'amore.

«La testa mi abbruciava, il cervello mi doleva come se la fronte fosse un cerchio di ferro che soverchiamente stringesse l'intelligenza; il mio cranio pareva un letto di Procuste all'espansione del mio spirito; il sangue mi si affoltava nei polsi con penosa violenza. Mi parve ad un punto che il mio collo era troppo debole a sostenere il mio capo invaso e saturo da un mondo d'idee; posai le braccia sul piano della tavola e sopra di esse reclinai la testa occupata da tanta tenzone. Non mi parve chiudessi gli occhi, ma pure innanzi alle mie pupille la fiammella della lucerna si affievolì, si scemò, si ridusse ad un punto impercettibile che pareva una di quelle stelle di menoma grandezza che mi apparivano poc'anzi nell'abisso de' cieli. Dalla finestra che avevo lasciata aperta, entrò un fresco alito di vento che corse ne' miei capelli come la carezza leggiera d'una mano amorosa, che mi temperò l'ardor della fronte sfiorandola come il soffio d'un bacio soave. Nella mia stanza non era tenebra, e non vi era tuttavia luce terrena. Un indescrivibile chiarore pallido, azzurrigno, mite come il riflesso d'una perla, era diffuso intorno a me quasi una nebbia leggiera; somigliava alla luce delle nebulose, cui travede nelle incalcolabili distanze dello spazio il telescopio dell'astronomo. Era un sopore il mio? No. Ero tolto al movimento della vita, alle impressioni più grossolane dei sensi corporei, ma perdurava in me la coscienza di me stesso. Vi ha una razza d'insetti, i cui figli, appena sbocciati vermiciattoli, hanno mestieri di cibarsi del corpo vivo d'un'altra specie di animaletti. I genitori di questi crudeli vermi, i genitori che muoiono tosto dopo allogate nel nido le uova che saranno i loro figli cui essi non vedranno mai; i genitori, dico, per ammirabile guida di quell'istinto che è uno dei più grandi misteri della natura, vanno alla caccia di quegli animaluncoli della cui carne i loro nati avranno bisogno di pascersi, e poichè occorre che questa carne sia viva tuttavia, presili, col loro pungiglione li feriscono in guisa che la vita permane in essi, ma ogni possibilità di movimento è loro tolta da poter difendersi dal morso dei neonati e nemmanco fuggirlo.

«Io era press'a poco in quella condizione. Vivevo e sentivo di vivere, ma nello stesso tempo era come dire sospeso il giuoco per cui la volontà trasmette i suoi cenni ai muscoli per via dei nervi, pareva fra la parte di me che determina e quella che obbedisce, sciolto momentaneamente il legame.

«Tra la luce della lucerna offuscatasi e me, parvemi veder sorgere come un fumo biancolastro, come un vapore, una forma diafana che s'atteggiò a sembianze di donna. Un'intima contentezza mi nacque nel cuore e si dilatò per tutto l'esser mio. Era la mia visione che da tanto tempo mi aveva abbandonato: era dessa che tornava a visitarmi. La medesima incertezza sfumata di sembianze, ma in essa pure il medesimo adombramento di quel soave ed amoroso sorriso. La salutai con un'aspirazione del cuore entro il mio corpo immobile come un cadavere. Ella mi rispose con un moto avvenente del capo, poi si chinò verso di me; udii intorno a me suonare come un lieve susurro; parevami fosse quel venticello della finestra che murmurasse entro i miei capelli. Ma questo susurro, ma questo mormorio parlava. Capii le seguenti parole:

«— Ella si chiama Virginia!

«Virginia! Questo nome si ripetè come da un'eco sotto la volta del mio cranio, penetrò come una dolcezza sino al mio cuore, si stampò nella mia memoria per non iscancellarsene mai più. Intorno ad esso mi parvero raggrupparsi tutte le armonie [152] che avevo udite quella sera o che mi risuonavano ancora in tumulto entro la testa. Mi parve che in vero non altro nome poteva essere il suo fuor di codesto; che dovevo saperlo e che l'avevo dimenticato; che invocandola con questo dolcissimo nome verginale doveva al mio rispondere il suo pensiero.

— E questo, in realtà, è egli il nome di quella ragazza? Domandò Giovanni Selva.

— Lo è: rispose Maurilio. Il mio spirito benigno non mi ha mai ingannato.

— Senti: disse allora Giovanni con serio accento ponendo amorevolmente la destra sulle mani che Maurilio teneva intrecciate sulle sue ginocchia. Io non voglio contraddire per vaghezza di discussione le tue credenze a questo riguardo; ma in faccia ad avvenimenti che escono dalla cerchia comune dei fatti terreni, consentimi, ed anzi deve essere tuo desiderio eziandio, che tali avvenimenti si cimentino alla critica della ragione, e se si potrà trovare ad essi una spiegazione che non esca dai limiti della natura....

Maurilio interruppe vivamente:

— Ma nulla di quanto accade nell'universo mondo, non esce mai dai limiti della natura. Perchè l'uomo non ha tuttavia certificati con una scienza che ha la vista corta alcuni fenomeni cui trova più comodo negare; perchè non ha scoperto ancora le leggi onde questi fenomeni hanno origine e regola, superbamente afferma che quei fenomeni non sono nella natura, e che questa non ha leggi per essi. Ma la diva natura, che è la volontà e la logica di Dio, abbraccia tutto, tutto, tutto, l'esistente ed il possibile, il sensibile e il sovrasensibile; ed è uno strano e temerario rimpicciolirla il volerla rinserrare negli angusti termini dell'intelligibile e dell'apprensibile umano. Per me non vi ha nè sopranaturale, nè oltrenaturale; vi ha una immensa natura di cui l'uomo non apprende che una menoma parte: quella più direttamente in contatto con esso, della quale ha già ampliata colla scienza di molto la cognizione e l'amplierà ancora in avvenire, ma per non giunger mai in questa vita terrena ad abbracciarne pur l'idea del complesso. La chimica e la fisica hanno allargato di molto alla cognizione umana il campo della scienza della natura: le meraviglie dell'elettrico e del magnetismo afferrate dallo studio di questo secolo sarebbero parse cosa sopranaturale alla poca scienza dei nostri padri; la poca scienza di noi rigetta ancora fra le favole e le illusioni fenomeni cui non solo crederà ma spiegherà, come ha spiegato la legge dell'attrazione, la scienza dell'avvenire. Nulla dunque di sopranaturale, bensì di sottratto alla volgarità comune dei sensi dell'uomo...

— Come vuoi: soggiunse Giovanni: ma pur tuttavia mi ammetterai che questi sensi, per quanto volgari, sono dati all'uomo perchè, mercè l'aiuto della ragione, colla potenza riflessiva e critica, e' si faccia capace di tutta quella verità cui possa arrivare. Quando la immensa maggioranza degli uomini, e con a capo di questa alcuni eminenti per ingegno e per istudio, affermano che certi fenomeni sono tutt'altro che esistenti nella realtà naturale delle cose, noi abbiamo un elemento di giudizio irrefragabile per credere piuttosto che la verità è dalla parte di codestoro. Tu mi dirai: sono invece i pochi dall'altra parte che, avendo una organizzazione speciale e più eletta, vedono e sentono meglio e più in là della grossolanità sensitiva della comune degli uomini. Ma chi ci può affidare della verità di siffatta ipotesi? È pur cosa posta in sodo che il cervello umano è, in parecchi individui ed in parecchi casi, soggetto all'allucinazione; nè tu vorrai darmi per apprensioni di alcuna parte di vero i delirii della febbre e della pazzìa, le chimere d'un fantasticante, le immagini dei sogni.

— Chi sa? Ve ne possono essere dell'una e dell'altra sorte: fallacie del senso intimo e fugaci visioni guaste dal mezzo ambiente o dallo stromento apprensivo.

— Ma quale allora la stregua a misurare il grado di attendibilità di queste manifestazioni e sceverarne i vaneggiamenti dalle realtà?

— Quale? Quella ragione che tu invocavi poc'anzi colla sua critica riflessiva.

— Ma la ragione comincia per dire a me che tutto questo è un assurdo.....

— Ciò non è la ragione che lo dice; è un pregiudizio. Se tu, a mezzo del secolo scorso, avessi detto all'uomo più colto di quel tempo di criticismo e di acume osservativo, avessi affermato ad un enciclopedista che sapevi un mezzo di dar moto e spasimi ad un cadavere, il tuo ascoltatore, che voleva appunto mettere in seggie la natura e gettare abbasso tutto ciò che credeva all'infuori di lei; egli che non aveva ancora il menomo sentore del galvanismo, ti avrebbe risposto crollando le spalle che la sua ragione gli diceva la tua assertiva essere un assurdo.

— La ragione, se non altro, mi dice fondatamente che quando d'un fenomeno si può dar la spiegazione che entra nei limiti delle leggi e delle regole conosciute, è pericoloso e nocivo, o quanto meno, è vano andar cercandone di strane spiegazioni che turbano ad ogni modo la logica di quel complesso di regole e di fatti cui comprende l'uomo sotto nome di natura...

— Ne turbano il falso e ristretto concetto; si armonizzano invece in una più ampia apprensione dell'opera di Dio... E quando poi la ragione ti dicesse che colla spiegazione dei tuoi limiti e regole conosciute non si spiega niente?...

— Aspetterei allora a pormene il quesito; e prima di ammettere che la scienza positiva ha torto, vorrei anzi ammettere che la mia intelligenza o il mio organismo sono in difetto. Del resto io vado molto guardingo nel riconoscere la realtà di questi [153] fatti non ispiegabili colle norme della nostra conoscenza scientifica moderna. Il più delle volte tali avvenimenti non sono niente affatto certificati. Ora qui, nel caso nostro, mi trovo a fronte una tua affermazione, a cui mi piace e devo prestare ogni credenza. Ma del fatto così provato nella sua materialità, lasciami cercare la ragione in quei fenomeni che per me sono naturali, non in quelli che eccedono la comprensione ch'io posso avere della natura. Se questa ragione la trovo in tal modo, perchè non mi vi acqueterei più volentieri che non in un ordine nuovo di fenomeni e di leggi a cui ripugna il mio intelletto, e di cui la scienza non mi dà la menoma prova?

— Udiamo adunque la tua spiegazione materialista: disse Maurilio col suo strano sorriso.

— Eccola. Lungo tutta la giornata la tua mente era rimasta fissa in un solo pensiero, la tua anima ferma in un solo desiderio: il pensiero di lei, il desiderio di saperne il nome. La passione, fattasi, appena sorta, gigante nel tuo cuore, la tensione continua della facoltà pensativa, l'effetto straordinario e profondo che fecero sulla tua natura impressionabile una stupenda musica primamente udita, un nuovo spettacolo non visto mai, cagionarono in te quel certo eccitamento nell'organo cerebrale, cui produce con più o meno differenza ed intensità la ebbrezza dei vapori alcoolici, il delirio della febbre, il misterioso fenomeno del sogno, quello stato speciale morboso della parte intellettiva pel quale certe fantasmagorie soggettive prendono proporzioni e natura di cose estrinseche, oggettive e reali. Tu non avevi pensato ad altro di tutto il giorno; era naturale che sognassi di codesto; il tuo organismo è disposto a queste astrazioni della fantasia ed a far concreti questi fantasmi del tuo cervello; nulla di più naturale che ciò succedesse in siffatta occasione e con tanto maggior potenza di verosimiglianza. Tu non hai visto che le idee del tuo cervello prender corpo apparentemente all'infuori di te nella lanterna magica d'un sogno, riflessione anormale ed inconscia del tuo pensiero.

Maurilio scosse la testa, sorridendo ancora a quel modo.

— E come va che questo sogno, che questa riflessione anormale, che questa fantasmagoria morbosa, o come vuoi chiamarla, mi apprese una verità che ignoravo? Poichè il fatto è che quel nome erami del tutto ignoto, e quello dettomi dall'apparizione fu il vero.

Giovanni esitò un poco per cercare una ragione.

— È un indovinamento, disse poi, che forse non si deve che al caso.

— Ah! il caso? Esclamò Maurilio con accento di trionfo. Questa sì che è la spiegazione per cui non si spiega niente: questo sì che è il comodo mezzo d'uscir d'impiccio in ogni più grave quesito che vi affacci la natura e l'anima umana. La creazione? Il caso. L'armonia infrangibile di essa? Il caso. La presenza e la comparsa dell'intelligenza in mezzo al mondo della materia? Il caso..... No: questo cieco Dio, cui crea la cecità dell'uomo, non ispiega nulla. A seconda che sminuisce l'ignoranza umana si restringe l'azione e la potenza di questo nume senza ragione. Noi chiamiamo caso il risultamento di leggi che ci sono ignote così da non averne sospettato pure l'esistenza. Se l'umanità potrà progredire di tanto che legga in tutte le pagine del gran libro di Dio, il regno dell'azzardo, che mano a mano si rimpicciolisce, sarà del tutto scomparso.

Fece una pausa di pochi minuti, recandosi sovra se stesso e stringendosi colle sue grosse mani la fronte vastissima, come per raccogliervi ed ordinare le idee che vi si agitavano per entro. Poscia ad un tratto risollevò il capo e riprese a parlare con più forza, e direi quasi con più autorità:

— Ma non fu questo del nome di lei il solo vero che il mio benigno spirito in quella notte memoranda mi apprese. Ti ho detto che sotto all'influsso di quell'eccelso amore, già la fede aveva ripreso a picchiare alle porte della mia intelligenza per abbattervi la negazione trincieratavisi col sofisma, già aveva invaso l'anima mia colla ineffabile forza dell'affetto; ma difettava tuttavia la ragione logica e suprema che coordinasse gli elementi sparsi, che chiarisse i confusi, che assodasse i dubbi di quel sistema completo di credenze onde si compone la scienza prima dell'uomo: quella di Dio, dell'essere dell'anima nostra e del suo destino. L'amoroso spirito delle mie visioni mi formolò nella parola umana la verità apprensibile dal nostro limitatissimo intelletto dell'essere e della ragion delle cose. Vuoi tu udirla o Giovanni?

— Sì, sì, con molto piacere: esclamò Selva che, non ostante la sua sino allora conservata indifferenza e quasi dovrebbe dirsi ripugnanza a tutto ciò che sapeva di metafisica, di superiore cioè alla ristretta materialità della creazione, sentivasi pur tuttavia vivamente interessato come da una nuova curiosità che ne avesse assalito lo spirito. Parla, chè io ti ascolto con ogni attenzione, non rinunciando certo al diritto di critica della mia ragione, ma non disdegnando a priori le allegazioni e gli argomenti della tua credenza.

Maurilio, senza prepararvisi dell'altro, cominciò a parlare.

CAPITOLO XXIII.

Fra i lettori di romanzi una buona parte non cerca che l'interesse il quale nasce dalla combinazione degli avvenimenti e dalle manifestazioni della passione; codestoro trovano superfluo e fuor di luogo, in un lavoro d'immaginazione come in opera d'arte, tutto ciò che ha la pretesa di toccare gli alti quesiti della filosofia, della scienza, della politica [154] e dell'economia pubblica; impazienti di arrivare allo scioglimento del nodo bene o male raggruppato che si trovano presentato dinanzi dalla favola del racconto, dispettano ogni indugio che nel cammino venga frapposto da considerazioni o da esposizioni che non sieno azione di dramma. Per questi cotali non è scritto il presente capitolo: e siccome all'intelligibilità dell'intreccio drammatico ed alla conoscenza dello svolgimento dei fatti non nuocerà per nulla affatto l'ometterne la lettura; così io consiglio senz'altro chi non si piace di queste cui giudica vane fisime e inutili sopraccapi di filosofia, di saltare a pie' pari l'intiero capitolo e ricominciare al XXIV, dove si riprenderà la catena della narrazione.

Avendo poi in animo di scrivere in questo lavoro la storia non solo dei fatti materiali della vita, ma dell'anima di certe individualità, in cui rappresentate intiere classi, non mi parve potere a meno che affrontare eziandio il gravissimo quesito dell'essere, della natura, del destino oltre questa terra dell'anima umana: quesito che comprende la quistione della coesistenza del bene e del male e quella della divinità. Qual è l'uomo che pensa, il quale, anche quando si tenga attaccato alla fede impostagli autorevolmente nell'infanzia dall'affermazione presentatagli come indiscutibile dei maggiori, pur tuttavia non si trovi in dati momenti faccia a faccia con questi terribili enimmi gettatigli innanzi di forza dalla sfinge della vita? In quest'epoca in cui ogni credenza vacilla e la crosta esteriore, per così dire, di tutto il mondo sociale è una strana miscela di scetticismo indifferente e di audaci negazioni rincalzate da vantati progressi di scienze positive, con qualche chiazza qua e là di vernice d'ipocrisia, a mio avviso, nel substrato dell'umanità, nelle viscere di essa e forse appunto in quelle classi inferiori non abbastanza apprezzate e curate fin qui, di cui tuttavia non si dà abbastanza pensiero la parte gaudente del genere umano; in quelle classi di cui è intenzione del presente lavoro tracciare i principali elementi; in quelle classi che, come già pel passato emanarono dal loro seno il ceto medio, dovranno nell'avvenire dar la materia d'una società diversamente atteggiata e d'una civiltà novella; in quelle classi dico, serpe, e si agita, e fa suo cammino inconsciamente un bisogno di fede nuova, più pura di pregiudizi, meno materiale, più logica, se così posso dire, almanco nella sua estrinseca forma. È inutile il dissimularselo. Le agitazioni politiche, le quali dalla caduta del colosso napoleonico fino ad ora — e non accennano cessare — hanno scombuiato il mondo, non sono che i prodromi d'una rivoluzione sociale; ma questa, come quella politica, non sono che un rimutamento esteriore dell'umanità, il quale avendo luogo nella materia, implica, ed è manifestazione ed effetto d'un rimutamento necessario avvenuto o da avvenire contemporaneamente nello spirito. L'idea domina il mondo: lo spirito regge l'uomo; avete bel decretare con impotenti aforismi materialistici che lo spirito non esiste e che l'idea è una creazione della sostanza cerebrale; sarà sempre la modificazione della parte immateriale dell'uomo che cagionerà e guiderà i mutamenti e i progressi de' suoi fatti esteriori e de' suoi istituti. Perciò voi vedete la quistione religiosa far capolino da per tutto sotto quella politica. Invano la volete escludere; invano volete rimandarla al di poi; riuscirete forse a ritardarne l'aperto scendere in campo; ma, dopo avere assalito l'intelligenza dei pensatori nelle loro veglie travagliose, dopo avere lottato nell'arena scientifica coi crogiuoli del chimico, lo scalpello dell'anatomico e le deduzioni sperimentali del fisiologo, lotta che ne acuisce come cote le armi, e la purga da molti elementi d'errore; dopo avere oscuramente, confusamente agitate le coscienze delle plebi, un giorno scoppierà nelle manifestazioni della vita sociale, non colla violenza materiale, speriamo, ma con quella ancora più irresistibile d'una nuova evoluzione della mente umana che ha bisogno di trovare la sua forma, d'una necessità del progresso.

Io qui non sono nè propagatore di nuove dottrine, nè ambizioso cercator di proseliti; sono espositore soltanto d'un complesso di pensieri a tal riguardo, nel qual complesso mi pare scorgere che s'acquetino le aspirazioni superiori dell'anima, le esigenze della ragione e i dati positivi della scienza moderna.

Ciò detto, l'autore, si rintana nella sua parte passiva, e lascia parlare i suoi personaggi.


— Io t'ho già detto, così parlò Maurilio, che fin da bambino la mia mente era stata assalita dal tremendo quesito delle origini e del fine dell'uomo, che le mie audaci interrogazioni spaventavano la fede tranquilla ed umilmente rassegnata del buon Don Venanzio, e che questa fede medesima cui quel vecchio, virtuoso sacerdote aveva fatto ogni sforzo per radicarmi nel cuore, era venuta meno in me, innanzi all'ardita analisi della mia ragione. L'edifizio scavato a poco a poco sotto le fondamenta da questa potenza d'analisi, a un dato punto crollò per intiero, ed io mi trovai in mezzo alle rovine di esso, innanzi ancora d'aver letto Descartes nella condizione che questi assegna per primo elemento, per punto di partenza all'acquisto della cognizione, con un compiuto scancellamento dalla tavola dell'intelligenza d'ogni affermazione a priori.

«La quistione del male aveva chiamata la mia attenzione da molto tempo. Senza aver letto Bayle, che ne ha dato la formola, già sgomentavo e confondevo la ortodossia del buon parroco del villaggio colla obiezione di questo inesorabil dilemma: «Se il male esiste, o gli è per volontà di Dio, o contro questa volontà. Ammettendo il primo, Dio non è nè giusto, nè buono; non questo, perchè è l'autore [155] del male, la qual cosa nessuno potrà dire essere bontà; non quello, perchè punisce l'uomo d'aver fatto quel male ch'egli Dio ha creato, a cui perciò ha concorso o cui almanco ha permesso. Se Dio avesse escluso dalla sua creazione il male, l'uomo non l'avrebbe commesso: e una bontà onnipotente non doveva ella far così? Oppure si ammette che il male esiste contro la volontà di Dio, ed allora questi non è più onnipotente, e vi è in questo universo, che voi dite creato da Dio dal niente, qualcheduno o qualche cosa più potente di lui, valendo ad agire contro la volontà di esso, ed è l'autore del male.» A questo argomento il buon Don Venanzio, scandolezzato, tirava in campo le vecchie armi della sua teologia, colle quali la scolastica ortodossa non valse pur mai a rispondere vittoriosamente; e battuto passo passo dall'incalzare del mio raziocinio, si ritirava nell'ultima rocca del credo quia absurdum, fulminando colla scomunica le audacie investigatrici della ragione umana.

«La Chiesa diffatti, innanzi a questo che fu sempre il più gran quesito della filosofia, non ebbe mai una risposta trionfante, fuor quella dell'anatema e dell'inquisizione. Anzi, nel suo formarsi traverso lo scombuiamento delle prime età medievali, patteggiò, direi quasi, coll'obiezione, ed amalgamando le superstizioni popolari, alcune reliquie della parte più bassa del culto pagano, le filtrazioni di una diversa teogonia dall'Oriente, costituì al Satana del volgo una potenza per poco non pari a quella del Creatore, e consacrando coll'autorità religiosa le tradizioni e le leggende, fece passare nell'ortodossia l'idea eterodossa d'un semidualismo nel governo dell'Universo.

«La filosofia pagana non s'era volta di proposito a cotal ponderosa quistione. Appena se l'aveva toccata passando; e Platone medesimo, l'idealista, ed Aristotile avevano ammesso una specie di dualismo fra due Eterni: lo spirito regolatore e governatore, e la materia increata, ma da quello regolata e diretta. La società pagana tutta rivolta al bello artistico, in certe circostanze e forme di sua costituzione che escludevano gran parte di quel male fisico che assalse le plebi di poi nel rovinìo di quella civiltà, aveva dirette le sue speculazioni al bene, e non aveva mirato che sotto colori gai, poetici e ridenti i grandi soggetti che s'impongono alla nostra mente: Dio, l'uomo ed il creato. Ma all'infelice vivente nel medio evo, flagellato da mali d'ogni sorta e da miserie incomportabili, questi oggetti sono apparsi in tutt'altra guisa, traverso i suoi dolori e la sua disperazione. Il male lo stringeva da ogni parte e sotto ogni forma, oppressione delle anime ed oppressione dei corpi, servitù più dura che la schiavitù antica, perchè sopportata più impazientemente, mentre la nuova religione e il progresso dell'umanità avevano già fatto entrar nell'animo la coscienza dei diritti individuali e la lusinghiera idea dell'uguaglianza giuridica; violenze inaudite, guerre continue, pestilenze, carestie, tutti i flagelli riuniti.

«Come non credere alla potenza di questo male? Com'era egli venuto al mondo? Avrebb'egli avuto fine?

«Satana, il Dio del male, s'impianta e sovraneggia sempre più nel mondo, anche secondo la dottrina cattolica. Il dualismo, che è base alle cosmogonie asiatiche ed al gnosticismo alessandrino, si insinua nella metafisica, nella morale, per non dire nel dogma della nuova religione, aggiunta nociva all'opera divina del Nazareno. La Chiesa ammette il principio cattivo e lo riveste d'una esistenza reale, che s'impone alla fantasia sotto mille forme mostruose, che riempie di sua potenza la natura fisica con tutti i fenomeni inesplicati dalla scienza bambina, e la natura morale con tutti i giuochi delle passioni non disaminate dalla psicologia in fascie.

«Sulle concessioni fatte al sentimento comune dall'ortodossia cattolica esagera e travalica l'immaginativa popolare, la febbre dello sgomento, l'ebbra cecità dell'ignoranza. Sempre udendosi dai loro sacerdoti minacciare di questa misteriosa potenza, le masse ignoranti finirono per dirsi che ella potrebbe forse con un culto disarmarsi e rendersi loro propizia[9]. L'idea demoniaca favorita dalla Chiesa che credette trarne profitto per sè, si volse in molte parti contro la medesima e suscitò le follie morbose della stregoneria e passò all'eresia, aggiustando per le credenze dell'Occidente una parafrasi del Manicheismo orientale. Satana divenne creatore ancor egli; il mondo visibile è opera sua, cattiva al pari di lui; i monarchi della terra sono necessariamente suoi ministri; le potenze lo servono e la maggiore di tutte, la Chiesa Romana, è la più efficace produttrice del male. Era nata l'eresia degli Albigesi cui dovevano reprimere con tanta crudeltà i roghi dell'Inquisizione.

«Con l'amalgama confuso e soverchio delle letture ch'io aveva fatto, in mezzo alle mie meditazioni io mi travagliava inutilmente e penosamente a stringere il vero traverso il combattersi e l'urtarsi, il turbinare di mille diversi, opposti argomenti. La Chiesa cattolica non aveva saputo darne alcuna logica soluzione, ma il cristianesimo — che è cosa ben differente dalla Chiesa — ne aveva pur data una sublime. «Il male — dice in sostanza la vera religione di Cristo — è entrato nel mondo per fatto d'una volontà intelligente, creata libera di scegliere il bene; imperocchè Dio essendo la suprema libertà, ha fatto la creatura ad immagine sua, cioè libera nelle sue determinazioni, epperò risponsabile.»

«Il medio-evo non aveva potuto comprendere questa magnifica risposta, egli che non poteva farsi [156] il menomo concetto della libertà, oppresso com'era e servo in tutto e per tutto, lo spirito ed il corpo. Non potevo allora nemmanco comprenderla io che mi credevo in balìa alla cieca forza della fatalità nemica d'ogni libero arbitrio. E poi mi rispondeva il sofisma: «Se Dio ha creato l'uomo, egli l'ha fatto con tutte le sue facoltà ed attributi, tale e quale. Tutto dunque nell'uomo proviene da Dio, non c'è nulla di possibile in lui che non vi sia per espresso volere di Colui che l'ha tratto dal nulla. Checchè faccia l'uomo, qualunque partito abbracci, egli non si può muovere che in un cerchio designato ed in condizioni già precedentemente stabilite; come dunque, se fa il male può dirsi ch'egli ne sia l'autore, e l'autore a dispetto di Dio?

«A conservarmi nelle opinioni spiritualiste, malgrado le letture cui già m'era avvenuto di fare, fino ad una certa età avevano giovato le apparizioni di quell'essere immateriale alla cui realtà avevo fermamente creduto; cessando queste apparizioni, il dubbio anche sulla verità delle medesime era entrato nell'animo mio. In quella mi cadde tra mano il Système de la nature del barone d'Holbach. L'apparenza scientifica di quel dettato, la logica sofistica delle sue deduzioni, il calore stesso di alcune sue pagine in cui vi par di sentire, traverso la convinzione personale, la voce della verità, mi produssero una grandissima impressione: a ciò si aggiunsero i trattati di Cabanis e di Destutt de Tracy, e persino uno di Broussais che divorai coll'ardore con cui una giovine donna dimentica il volo del tempo nella lettura d'un romanzo. Credetti posto in sodo dalla filosofia, la scienza del ragionamento, e dalla fisiologia, la scienza dell'osservazione, ambe d'accordo, che in noi, che nei fenomeni della vita, che nel mondo universo non v'era che materia, la quale, per necessità di leggi ad essa medesima inerenti, doveva atteggiarsi a quelle varie forme ed a quei varii fenomeni.

«Spogliai l'uomo dello spirito immortale. Non vidi più in esso coi miei autori, che un tutto di organi corporei e di funzioni proprie di questi organi; l'io, la personalità umana non fu più un essere, un ente da sè; non fu altro che un fatto, un prodotto dovuto a questa o quest'altra disposizione delle molecole materiali. L'intelligenza e la sensibilità non furono altro più che funzioni dell'apparecchio nervoso, come la trasformazione degli alimenti in chilo ed in sangue, è una funzione dell'apparecchio digestivo e di quello respiratorio. Il pensiero fu una secrezione del cervello, come la bile è una secrezione del fegato e l'orina delle reni. L'esistenza dell'anima non fu più che un'ipotesi, a cui nessuna osservazione non dà fondamento, cui nessun ragionamento rincalza, un'ipotesi gratuita, ed anzi un'idea priva di significato.

«Codeste opinioni mi angustiavano l'anima. Un profondo scoraggiamento, un'apatìa, un intimo sdegno delle cose e di me, un abbassamento nella forza del pensiero ed anco nella nobiltà dei sentimenti, n'erano l'effetto. In me, contro quell'errore del mio intelletto, protestava mutamente la coscienza: ma forse non avrei avuta la forza di scuotere quel dannoso e torpido giogo del sofisma, se l'amore non fosse venuto ad incitarmi l'anima, se nella crisi della suscitata passione non si fossero con più vigore rideste le facoltà del mio spirito.

«E fu a questo mio spirito già scosso entro la mia carne, che venne a favellare il vero lo spirito etereo delle mie visioni.

«Poichè mi ebbe detto il nome della donna all'anima della quale era irrevocabilmente consecrata oramai l'anima mia, la soave apparizione mi guardò un istante immobile, in silenzio, ma con dolcissimo lampeggiar di tenerezza non dagli occhi soltanto, ma da tutta quella vaporosa forma di contorni vaghi e sfumati: quindi non alle mie orecchie, ma proprio sotto il mio cranio, direttamente al mio cervello, non per ondulazioni sonore, ma per immediata comunicazione d'idee, udii suonare con ben altra efficacia, con ben altra eloquenza ch'io non sappia tradurre in parole la sostanza dei concetti seguenti.

«— Tu sei poeta: il pensiero sotto l'impulso dell'affetto si traduce in te facilmente coll'armonia del verso; ma la forma in te, bada che non pigli sopravvento sull'idea e non sciupi in lavoro di espressione la forza che, concentrata, darebbe potenza e virtù al pensiero. Poeta è lo spirito di tanto progredito nella evoluzione della sua esistenza immortale, che può cogliere nei campi dell'eterno vero più chiare apprensioni dell'assoluto, e queste tradurre in opere ed in linguaggio umano a beneficio dell'umanità. Il tempo in cui all'orecchio dell'uomo suonava più gradito e riusciva più fruttuoso il concento melodico dei versi è passato. La fantasia lascia parlare oggidì la ragione; la poesia — l'apprensione del vero — si deve fare oramai colla scienza. Lascia gl'inni, i cantici d'amore, le odi: agisci e parla come uomo che ha uno scopo, che lo vede, e che vuol camminare determinatamente verso di esso, traverso tutti gli ostacoli e i labirinti della via. Quale lo scopo? Migliorar sè e concorrere al miglioramento della famiglia umana a cui la vita terrena t'imbranca: scoprire colla tensione dello spirito, collo sforzo della volontà, collo studio tuo particolare, che si connette e si addenta, come ruota piccolissima in una gran macchina, collo studio della umanità che fu e che è, e di quella eziandio che sarà, complesso meraviglioso di tanti minuti sforzi individuali che forma il progresso del mondo umano; scoprire una maggior parte di vero, e questa diffondere e comunicare ed applicare, se possibile, a vantaggio di tutti.

«Tu ami. — Che cosa t'impone quest'amore? — Farti degno di lei. — Potrai tu giungere sino ad essa in questa corta evoluzione di esistenza che ha [157] luogo sulla terra? — Forse no. — Che importa? — Bisogna lavorare per avvicinarvisi almanco. Non è sospirando inutili versi amorosi che tu riuscirai a spingerti verso di lei nè socialmente, nè moralmente, nè intellettualmente. Consulta l'intima voce del tuo cuore, ed odi ciò ch'essa ti dice. Excelsior! Più su! Più su! nell'immensa catena degli esseri.

«Come per pareggiarne la condizione umana ti conviene salire dagli infimi gradi della scala sociale; così per avvicinarsi alla sublimità angelica di una anima, è forza appurare ed affinare la propria. Il tuo ingegno ti rivela parte dei bisogni dell'umanità presente, la tua esperienza te ne mostra le miserie: applica quella potenza di pensiero cui già raggiunse il tuo spirito ai fruttuosi travagli della scienza sociale, aumenta in te i tesori d'una dottrina il cui complesso e risultamento sia la conoscenza delle leggi che applicate possono migliorare lo stato interno e quello esterno dell'uomo, la morale e la economia pubblica, e quando tu così sarai in possesso d'un barlume di più della verità, fallo splendere agli occhi degli uomini intorno a te. Meriterai di questa guisa innalzarti nella gerarchia sociale: potrai provare che nell'umile corteccia di rovere si trova la verga d'oro; e s'anco l'ingiustizia umana ti lascia cadere e passare ignorato nel mondo, sarà, al chiudersi di quest'episodio terreno della sua esistenza immortale, migliorato il tuo spirito: il tuo spirito, a cui, ora, esso stesso, da false apparenze traviato, ha l'audace stoltezza di non credere!

«Drizza a ciò ch'io ti comunico tutta la tua attenzione: continuava in quella stessa maniera ma con più autorità ancora a susurrarmi entro il cervello la fantastica forma muliebre. Per me è lo spirito di verità e di carità che ti parla. Questo non è senno mio, non è scienza mia, è un raggio del sole dell'intelletto che da me, per divina provvidenza, viene riflesso nell'anima tua. Alle illazioni della tua falsa scienza, alle temerarie conclusioni di un'osservazione parziale che non abbraccia più di un lato meschino della verità, odi ciò che risponde quella cognizion delle cose che, innalzatasi su poggio più elevato, corre col suo sguardo una maggiore estensione di vero.

«Tu ti affanni e bestemmi nell'argomentare intorno alla quistione del male. Or sappi che il senso assoluto che si dà a questi due termini bene e male, secondo il dogma dell'antichità, non è esatto. Queste due parole, come tutte quelle che esprimono l'esistenza e i suoi modi, non hanno significazione immutabile nel regno del relativo che è la terra, e pigliano un senso nuovo ad ogni volta che l'umanità concepisce una nuova dottrina generale. In faccia alla verità assoluta non esiste che il bene; il male si risolve in nient'altro che in una negazione maggiore o minore del bene, la totale assenza di questo sarebbe il male assoluto; e questa totale assenza nel mondo è impossibile. Il male quindi non è cosa reale ed esistente per sè, è una cosa negativa, è una privazione, e va cessando a seconda che nel suo cammino fatale — o per dir meglio provvidenziale — l'umanità, come tutta la creazione, si viene raccostando sempre più al bene assoluto. Ciò dà essenzialmente, necessariamente il suo carattere di relatività al male. Nessuna potenza rivale di Dio l'ha creato. Si crea da sè temporariamente, per mancanza di bene. La legge dell'esistenza è il meglio[10], val quanto dire l'indefinito, continuato, progressivo perfezionamento. Il male ed il bene da noi percepiti non sono che due aspetti che ci presentano le cose: considerate sotto il rispetto della morale pel bene e male morale; considerate sotto quello del danno e dell'utile pel bene e male fisico; considerate sotto quello dell'ignoranza o della conoscenza pel bene o male intellettuale.

«Il bene d'oggi sarà male domani, perchè domani l'umanità sarà migliore: il bene di ieri è già male al giorno d'oggi; ma mentre il bene diventa male, mai quello che l'umanità ha già giudicato male non ridiventa bene. Adunque il male assoluto, che sarebbe la negazione dell'essere, non esiste; esiste il male relativamente ma di meno in meno, tendendo gradatamente a scomparire: e questo è il progresso, la ragione suprema dell'evoluzione universale. Bene e male sono luce e tenebre. Quello che esiste è la luce; l'ombra non è cosa che esista, è la privazione della luce.

«La legge di camminare verso il meglio è una legge che regola tutta la creazione: all'uomo essa costituisce la sua legge morale. Guarda soltanto la tua meschinissima terra, che è un punto meno che impercettibile nell'infinito numero dei mondi nello infinito spazio: l'evoluzione cosmica nelle fasi della sua esistenza è un incessante travaglio di progressione verso il successivo miglioramento. La geologia ti parla di questi immensi scambiamenti di forme e di condizioni, in cui ti pare la natura siasi provata in vari saggi a raggiungere i tipi della creazione attuale. Non erano tentativi, non erano abbozzi; erano tipi compiuti e i più perfetti possibili nelle condizioni d'esistenza di quei periodi; a voi viventi nell'epoca attuale una maggior perfezione relativa conseguita fa sembrar quelli poco meno che aborti, come fra migliaia di secoli le creature più perfette che abiteranno il vostro globo, troveranno voi imperfettissimi accenni delle loro forme, delle loro facoltà, della loro intelligenza. Del progressivo sviluppo delle facoltà umane ti parlano con linguaggio irrepugnabile l'archeologia, la storia, la legislazione.

«La stessa forza di progressione che ha plasmato e plasma successivamente in tipi sempre più perfetti le forme degli esseri sulla crosta della tua terra, ha dunque regolato il nuovo conquisto d'idee e del successivo [158] più ampio lume di verità nel mondo intellettivo e morale del genere umano. Ma questa è ella una forza, cieca, senza ragione, inerente fatalmente alla materia medesima? No. Questa è la forza dello spirito della vita; questa è la manifestazione mediata nella materia della volontà creativa.

«Ma perchè, potrebbe dirsi, questo lento e travaglioso trascinarsi verso il meglio? Dio, poichè si afferma la sua esistenza, non avrebbe potuto e dovuto far addirittura la creazione perfetta, e così rendere impossibile sempre ogni negazione di bene?

«Ma come volete voi, intelligenze limitatissime, poste appena sul limitare del tempio della verità e della luce, conoscere e giudicare le ragioni dell'intelligenza infinita che è luce e verità assoluta? Anco la luce fisica che vi abbellisce il mondo corporeo avrebbe potuto esser creata di guisa che tutto e sempre ne fosse inondato senza ripari lo spazio; e l'armonia delle cose avrebbe dovuto esser diversa. La creazione diversamente atteggiata avrebbe risposto ad un diverso concetto; ma quello che è nella mente di Dio non può essere che il concetto migliore.

«L'universo non doveva essere pari con Dio; la perfezione nelle intelligenze create, era un fare degli esemplari dell'intelligenza infinita e del bene assoluto: era un assurdo anche per la vostra logica. Lo spirito creatore, essenzialmente ed assolutamente libero, creò spiriti in una relativa libertà contingente, da cui potesse nascere la rispettiva imputabilità, ed aver luogo il rispettivo travaglio provvidenzialmente volontario del proprio immegliamento.

«Gli spiriti innumeri che animano la creazione tutta nell'universo infinito, e che si manifestano col fenomeno della vita prima inconsciente, poi conscia; gli spiriti tutti furono creati semplici colla virtù di svolgere le proprie facoltà apprensive traverso le varie esistenze e colla forza di volontà di determinarsi, forza adattata alle diverse circostanze delle loro condizioni successive. Essi possono così volgersi al bene come da questo astenersi — il che costituisce relativamente il male, e questo graduato secondo la minore o maggiore astensione dal bene. — L'ampiezza, la misura, il carattere di questo bene possibile allo spirito sono diversi, secondo le varie esistenze dello spirito medesimo, diverse fra di loro eziandio per le capacità maggiori, che nelle successive sue evoluzioni, esso viene acquistando. Se quest'individualità di essere volente che chiamiamo spirito od anima, ha nella sua transitoria esistenza conseguito una maggior parte di quel miglioramento che era la relativa perfezione in quel periodo di vita assegnatagli, e' si presenterà alla soglia del periodo successivo — un gradino più elevato nell'infinita scala che ha da percorrere — meglio dotato di qualità, più capace ancora di progresso e di bene: se invece le sue opere furono da quel suo bene possibile più o meno lontane, esso si troverà di tanto meno progredito di quanto fu maggiore o minore in lui la negazione del bene....»

Giovanni Selva, che ascoltava con maggior attenzione e longanimità di quanto si sarebbe potuto aspettare dalla sua spigliata ed impaziente natura, interruppe a questo punto:

— Ma questa è nè più nè meno che la teoria di Dante di cui mi piace, se mi concedi, ripeter qui i versi.

— Dilli pure: soggiunse Maurilio. So a quali vuoi alludere, ma non dispiacerà anche a me il riudirli.

— Eccoli qua:

Voi che vivete, ogni cagion recate

Pur suso al Ciel, così, come se tutto

Movesse seco di necessitate.

Se così fosse, in voi fora distrutto

Libero arbitrio, e non fora giustizia

Per ben letizia, e per male aver lutto.

Lo Cielo i vostri movimenti inizia,

Non dico tutti; ma posto ch'io 'l dica,

Lume v'è dato a bene, ed a malizia

E libero voler: che se fatica

Nelle prime battaglie del ciel dura,

Poi vince tutto, se ben si nutrica.

A maggior forza ed a miglior natura

Liberi soggiacete, e quella cria

La mente in voi, che 'l Ciel non ha in sua cura,

Però se 'l mondo presente disvia,

In voi è la cagione, in voi si cheggia,

Ed io te ne sarò or vera spia.

Esce di mano a lui che la vagheggia,

Prima che sïa, a guisa di fanciulla,

Che piangendo e ridendo pargoleggia,

L'anima semplicetta, che sa nulla;

Salvo che mossa da lieto fattore,

Volentier torna a ciò che la trastulla.

Di picciol bene in pria sente sapore;

Quivi s'inganna, e dietro ad esso corre,

Se guida o fren non torce suo amore[11].

— Sì: riprese a dire Maurilio: Dante colla potenza del suo genio ha travisto la verità. Ma quella libera scelta ch'egli sembra rinserrare nella cerchia della vita umana dello spirito ha da aver luogo in tutte le sue vite, anche in quelle che si passano prima che arrivi al grado pur tuttavia sì infimo dell'umanità nel nostro pianeta.

— Tu dunque, interrogò Giovanni, ammetti per la nostra anima delle esistenze anteriori alla presente come di quelle posteriori?...

— All'infinito, proruppe con impeto Maurilio; all'infinito e le une e le altre. Me lo disse il mio benigno spirito. Da qualunque parte si volga, qualunque cosa consideri l'uomo, si trova in mezzo a due infiniti, o per dir meglio, egli, nella sua vita contingente [159] e temporaria è sempre avvolto, compreso, perduto nell'infinito. Quando incominciarono ad esistere gli spiriti intelligenti e volenti? Vi fu ella prima una materia senza intelligenze che la guidassero e se ne servissero? La forza necessariamente coesistente alla materia non fu ella sempre l'attributo di un volere che capisce? Il mondo e le intelligenze speciali che gli danno ragione di essere, e l'intelligenza assoluta e prima non coesistettero ab eterno? Ma l'infinito mondo spirituale non ha mandato e non manda che a fiotti su su nella via ascendente del progresso verso l'assoluto forse da non arrivarsi mai, il suo popolo di anime immortali che iniziano la loro carriera dagli ultimi gradi della vitalità nei varii globi dello spazio interminato. L'immensa folla si intorpidisce in quelle dense aure della materialità più crassa e non comincia ad affinarsi che dopo un lungo periodo di tempo, e s'affina così lentamente che lunghe sono le sue stazioni nei mondi e nei gradi inferiori: noi viventi su questo pugno di terra all'epoca presente con tante deficienze tuttavia, siamo spiriti attardatici dall'eternità nel cammino delle esistenze e non pervenuti ancora che a questo misero e debol grado di miglioramento dell'umanità terrestre.

Poichè Maurilio qui si tacque un momento, il suo ascoltatore ne prese occasione per dire:

— Tutto questo è poetico in sommo grado, e non nego che ha del grandioso ed alcun che di logico, onde rimane colpita la mia ragione; ma vi è una quistione precedente ed affatto pregiudiciale, e si è quella dell'esistenza dell'anima immortale. I Francesi sogliono dire che per fare un civet de lièvre, conviene prima di tutto avere questo povero diavolo di lepre. Per far passare quest'anima traverso le esistenze come uno scolaro per varii anni del corso universitario, affine di arrivare alla laurea della perfezione, bisognerebbe anzi tutto mettere in sodo che quest'anima esiste. Non è già ch'io voglia sostenerne la non esistenza, ma poichè tu dagli argomenti dei materialisti t'eri lasciato sedurre a credere quell'esistenza una ipotesi non giustificata, bramerei un po' sapere se il tuo spirito ha combattuti quegli argomenti, e come ha fatto per di nuovo radicarti nella credenza contraria.

— Sì, lo spirito combattè il mio errore, e ti dirò in breve le sue ragioni.

«Primo torto dei materialisti è quello di voler applicare le scienze positive, l'astronomia, la chimica, la fisica, la fisiologia a risolvere dei problemi che non sono di loro competenza, e per cui quindi esse non hanno mezzi acconci e sufficienti. La scienza non si occupa immediatamente del problema di Dio e dell'anima; pur tuttavia, considerata senza sistematico preconcetto, quando a tali problemi si vogliano applicare le conoscenze scientifiche attuali, lungi dal favorire la negazione, esse affermano al contrario l'intelligenza e la sapienza delle leggi che regolano la natura e l'esistenza nell'uomo eziandio di qualche cosa che è estraneo e superiore alla materia.

«La scienza certamente ha distrutto l'idea meschina ed affatto umana che di Dio s'era fatta l'antichità. In ogni epoca l'uomo concepisce siffatta idea in armonia col grado di sviluppo del suo sapere e della sua intelligenza. Al Dio vendicativo, appassionato, antropomorfo dei dogmi dell'antichità, il genere umano più illuminato ha da sostituire e viene sostituendo una concezione di Dio che più s'accosta a quell'assoluto cui pure mente umana non potrà mai comprendere; ma l'affermazione dell'intelligenza suprema dirigente si snebbierà sempre più luminosamente, mercè la scienza più vasta, innanzi agli uomini fatti più dotti.

«I materialisti, ridotte al sommo tutte le loro argomentazioni, fondano il proprio sistema su questa affermazione: che le forze onde viene diretto l'universo, non lo dirigono punto, che queste forze non sono le guidatrici della materia, ma ne sono anzi le schiave, e che gli è la materia inerte, cieca, sprovvista d'intelligenza che per forza propria, presa non si sa d'onde, si dirige mercè delle leggi di cui ella è incapace ad ogni modo di apprezzare l'essenza e l'efficacia.

«Questa temeraria affermazione rincalzano essi con ragionamenti che si possono ridurre alla seguente formola: «La forza è una proprietà della materia; ora una proprietà della materia non può essere considerata come superiore, creatrice ed ordinatrice della materia medesima; dunque l'idea di qualche cosa di estraneo alla materia è un concetto assurdo.» Ma essi pongono per prima cosa, come aforisma, ciò appunto di cui è da discutersi, che la forza sia una proprietà della materia: chiamati su questo terreno a provare tale loro asserto, essi non hanno che questo ragionamento: «S'incontrano sempre insieme la forza e la materia: dunque la prima è una qualità della seconda.»

«Ma tutto nell'universo dimostra che la materia è soggetta alla forza. Invano i materialisti si sforzano con delle false deduzioni da false esperienze a provare il contrario. Guardate il mondo inorganico. Tutto in esso è regolato dalla legge. Numerus regit mundum. Questa legge si traduce, si rappresenta allo spirito umano colle cifre d'un numero. Tutto è armonia, e l'armonia è composizione di numeri: il suono, il colore, la forma medesima appartengono al numero, perchè ogni figura è determinata dalla cifra. L'ordine numerico regna dappertutto. Il fatto meno significante in apparenza è il risultamento di certe leggi tanto quanto l'avvenimento di maggiore importanza. Di che cosa è capace la materia sola? Che diverrà un atomo d'ossigeno o di carbonio se voi lo immaginate all'infuori d'ogni legge? Supponiamo un istante che questa legge del numero non esiste, noi avremo distrutte [160] tutte le armonie dell'universo. Ora, la facoltà matematica può essa appartenere alla materia? No, poichè gli è la legge che presiede alle combinazioni della materia medesima, che quindi è ad essa superiore e la governa. L'esperimentazione vi dice che il suono, la luce, il magnetismo non sono materia, ma diversi modi di movimento. Ora chi ha ordinato questo modo pel suono e quest'altro per la luce? Chi regola quelle forze? Evidentemente sono quelle forze medesime, od una forza superiore che tutte le abbraccia. La materia non è in tutti questi movimenti che il soggetto passivo.

«Questo pel mondo inorganico; ma se noi passiamo al mondo organico la evidenza d'una forza estranea e superiore alla materia ci si fa più e più sempre luminosa. Dal primo istante in cui si manifesta la vita nei più bassi ordini della medesima, sia vegetale che animale, noi ci troviamo tosto a fronte una forza o legge direttrice che sceglie per ciascuna individualità esistente nel gran serbatoio della natura quegli elementi che sono necessari e li coordina nel modo che occorre per formare e mantenere il tipo della specie a cui quell'individualità appartiene. A chi non appare questa forza organica particolare anche nel regno vegetale, che si potrebbe chiamare lo spirito delle piante, per cui si manifesta un essere virtuale che fa obbedire alla sua esplicazione la materia di cui si giova? Il fatto della scelta degli elementi costitutivi del proprio tipo è un fatto intelligente; ma la materia per sè può dirsi intelligente e capace di scegliere? Essa è puramente passiva, dotata di certe proprietà che la rendono suscettiva di obbedire alle leggi; conviene che queste intervengano per regolarla, ordinarla, informarla. Come potrebbe essa la materia avere un disegno e tendere ad uno scopo? Come, senza intelligenza, produrre degli esseri intelligenti? E come, se si nega lo scopo nelle parti e nel tutto dell'universo, questa materia pur tuttavia agirebbe con risultamenti d'una innegabile utilità finale?

«Dal mondo vegetale passando a quello animale l'evidenza della forza intima che informa gli esseri e ne crea l'individualità, si fa sempre maggiore. È apparso un fatto capitale: la presenza del sistema nervoso che produce e forse direbbesi più giusto perfeziona ed estrinseca la sensibilità (poichè io non vorrei negare che nessuna sensibilità affatto appartenga all'essere pianta) e si fa mezzo e stromento dell'intelligenza. Dallo stato rudimental in cui si trova nei zoofiti sino al suo più compiuto sviluppo nella specie umana, il sistema nervoso è il segno dell'animalità e presiede a dei fenomeni immateriali. L'essere, salendo su per la scala dell'organismo dal vegetale all'animale, acquista via via coscienza di sè, la sensazione, poi la riflessione delle sensazioni, l'intelligenza. Ad ogni grado del suo stato, quella forza intima che è in lui e che lo costituisce si forma intorno colla materia che lo circonda, quegli organi che gli sono adatti e che rispondono alla sua presente condizione virtuale. Gli elementi sono sempre i medesimi, pescati da tutti nel medesimo serbatoio; ma come si farebbe che questa molecola di ferro, che ora fa parte d'un uomo, appartenne ieri ad un altro animale, ad un vegetale, era poc'anzi nel suolo della terra, e tornerà nel suo giro infinito a passare da questi a quelli? Perchè questi medesimi atomi costituiscono ora un corpo, ora un altro, vestono ora una forma, ora un'altra? La materia è sempre la medesima: e s'ella fosse tutt'insieme materia e forza, e se la forza è unica, come può avvenire che produca fenomeni così distinti? La forma degli esseri organici dipende adunque dallo spirito che sta in essi e che si riveste a seconda di materiali elementi. Tutti sono costituiti delle medesime molecole, e non una di essa appartiene in proprio all'individuo che temporaneamente la possiede, ma con vicenda incessante passano tutte dagli uni agli altri. Quando l'essere vivente muore, che cosa succede? Nulla è distrutto, nulla cambiato nella materia; essa è imperitura; non è che la forma la quale si disfaccia: è cessata quella forza intima che disponeva gli elementi materiali in quella certa guisa e li obbligava a regolarsi secondo leggi speciali che son quelle della vita, e con una fenomenìa alquanto diversa secondo la diversità della specie di quell'essere organico: gli atomi tornano esclusivamente sotto la direzione generale delle altre leggi universali della natura. Lo spirito che è stato quello che ha plasmato quella forma, si è ritirato da essa e la lascia cadere e disfarsi.

«Nel corpo umano in un dato tempo non si ha più una sola molecola di quelle che v'erano dapprima[12]; eppure chi oserebbe dire che l'uomo è cambiato? Chi non sa che la medesima volontà, che la medesima intelligenza continuano? Chi non conosce il fenomeno della memoria, il quale se fosse cosa inerente alla materia, questa per intiero scambiandosi, dovrebbe con essa dileguarsi?

«Ma quest'essere che nell'uomo acquista la più spiccata personalità sulla terra mediante la più libera facoltà di volere, la più ampia facoltà di comprendere; quest'essere onde viene, qual'è il suo fine passando traverso questa vita, a qual destino è chiamato quando si sciolga dal presente involucro di carne e lasci disfarsi quella forma che la sua forza intima gli ha radunato dintorno?

«Collo studio dell'embriologia fu dimostrato che l'embrione umano passa per differenti fasi, in cui si [161] possono vedere adombrate le fasi diverse corrispondenti per cui nei tempi anteriori ha dovuto passare l'umanità, prima di arrivare alla forma presente. I vertebrati superiori rivestono successivamente, come in abbozzo, i principali caratteri delle quattro grandi classi del loro tipo. In codesto molti videro un'immagine delle fasi cui nel corso delle età antichissime la medesima classe d'animali ha successivamente attraversate, progredendo nella scala degli esseri. Nel vedere la rassomiglianza che l'embrione umano offre successivamente cogli embrioni delle tre classi dei vertebrati inferiori a quella dei mammiferi; si è domandato se lo stato presente non sia un risultamento delle evoluzioni passate e quella una traccia delle evoluzioni medesime.

Or bene, queste che paiono — e forse sono — rivelazioni del passato di questa nostra forma materiale onde siamo rivestiti, dànno eziandio un adombramento del passato che dovette percorrere il nostro spirito prima di diventar degno di circondarsi della forma d'uomo e di costituire quest'essere che nel basso mondo terreno tiene il primato dell'intelligenza.»

— Capisco tutta la tua teoria: interruppe Giovanni. Lo spirito comincia la sua esistenza dai più infimi gradi della manifestazione della vita e traversa tutti questi gradi acquistando sempre nella coscienza e nella volontà, finchè giunge all'essere uomo, ultimo grado.....

— Su questa terra! Aggiunse impetuosamente Maurilio. Qui o in mondi pari a questo avrà più o meno esistenze secondo che più o meno saprà trar profitto della sua incarnazione umana; ma quando di tanto si sarà appurato da poter varcare a mondi superiori, allora prenderà il volo per gli spazi eterei ad arrivare più benedette e più luminose sfere, in cui ad esso maggiormente risplenda il sole della verità e dell'intelligenza. E tutto questo movimento del mondo spirituale frammischiato e serventesi e informatore del mondo materiale: quest'ascensione infinita ed eterna degli spiriti verso l'assoluto che non arriveranno mai, traverso gli spazii dell'infinito, in tutti i mondi che lo popolano, nell'eternità del tempo!... L'uomo ed ogni spirito in qualunque corpo racchiuso, in qualunque mondo vivente, è di questa guisa quale esso stesso si è fatto. Come la sua intima virtualità gli raduna intorno gli organi e le forme che corrispondono alle sue facoltà; così il suo destino, la sua condizione temporaria nelle varie vite gli sono assegnati, per una legge direi così di equilibrio che è la volontà e la giustizia di Dio, dalle condizioni e dallo stato della sua anima...

— E ciò vuol dire: interruppe di nuovo Giovanni: che chi soffre in questa vita gli è per iscontare il difetto di merito che non s'è procurato nelle vite anteriori?

— Vuol dir questo, ma non esclusivamente. Lo spirito fra una ed altra incarnazione riacquista più o meno chiara la coscienza delle esistenze del suo passato, e può abbracciare con uno sguardo più o meno apprensivo, più o meno intelligente, a seconda del grado di elevazione a cui è giunto, il complesso dell'opera sua. Gli è allora che giudica sè stesso, gli è allora che si conosce, che apprezza quanto s'è allontanato relativamente dal bene, gli è allora che quanto più la sua volontà si è predisposta al progresso verso il meglio si pente e si propone correggersi. La sua libera scelta allora può fargli accettare nuove esistenze incarnate in misere condizioni da dover soffrire e lottare, perchè le sofferenze affinano appunto l'anima, per dirla con Dante, ed ogni lotta vinta è un passo stampato innanzi nella via del perfezionamento. Sotto l'impero di questo dogma tutti — tutti senza eccezione — sono vocati, e tutti riusciranno eletti; ma successivamente. La vita eterna è per ciascheduno e per tutti una eterna e solidaria educazione. Il destino dell'uomo — che è il destino d'ogni spirito — non è più quello di andarsi ad annientare nel torpore d'una beatitudine eternamente immobile, ma di camminare senza posa nella strada dell'infinito alla ricerca ed alla pratica del meglio.

Qui Maurilio si tacque. Gli occhi splendevano sotto le sue sopracciglia sporgenti, come carboni accesi nelle tenebre d'una stanza la sera; dal pallore del suo fronte pareva raggiare una lieve aureola come pallido chiaror fosforico: la voce, l'accento, l'eloquenza delle parole, che qui troppo male si seppe tradurre nel freddo linguaggio scritto, avevano un calore, un'efficacia, una forza inesplicabile di persuasione onde tutto fu penetrato l'animo di Giovanni.

Questi, commosso, senza poterne dire chiaramente il perchè, strinse con forza la mano dell'amico e si tacque ancor esso; ed ambidue si guardarono un poco in silenzio, le pupille fisse nelle pupille, una corrente di elettricità scambiantesi con soave fremito dall'uno all'altro.

CAPITOLO XXIV.

Fu Maurilio che ruppe di nuovo il silenzio continuando nel suo racconto.

— Io era sempre rimasto in quella specie di torpore che ti ho detto. Nel mio intelletto pareva intanto farsi l'ordine e penetrare la luce; travedevo la ragione dell'esistenza e vi si acquetava l'ansiosa sollecitudine della mia curiosità; ma mi premeva il bisogno che mi venisse parlato di lei! Non ebbi da formolare il mio desiderio in linguaggio di parole; lo spirito me lo lesse entro il cervello.

«— Una legge del mondo morale, così mi disse, che può paragonarsi a quella dell'attrazione e della affinità nel mondo fisico-chimico, governa i rapporti delle anime fra di loro. Te questa misteriosa e potente legge, ordinatrice di altissimi effetti nell'universo [162] spirituale, te attrae con tutta forza verso l'anima incarnata in quella beltà di sembianze. Ch'ella ti corrisponda forse non hai neppur da sperarlo: essa è uno splendido sole, tu un oscuro pianeta soltanto; ma quest'attrazione ti farà aggirarti nell'orbita della luce. Amala, ma santamente, respingendo con ogni maggior tua possa gl'impuri elementi che al nobile affetto vorrà congiungere pur troppo il materiale influsso della carne; amala come l'ideale dell'archetipo cui fa presentire al tuo spirito la favilla di poesia che lo riscalda; amala come la rappresentazione nel bello della forma umana di una maggior quantità di bene; e con siffatto amore il suo pensiero ti sia feconda ispirazione di forti meditamenti e di generosi propositi.

«La forma nebulosa del fantasima si fece allora più e più leggiera; poi svanì del tutto; la fiamma della lucerna mandò un chiarore rossigno più vivo e si spense; io rimasi nelle tenebre e in quel punto mi riscossi tendendo le braccia con ineffabile desiderio verso quella parte in cui era stato e donde era sparito lo spirito, come se lo potessi afferrare e trattenere tuttavia.

«La notte era inoltrata; dalla finestra aperta entrava un'aria fredda che tutto mi aveva intirizzito: mi alzai col capo che mi pesava, la mente quasi direi indolorita, le membra stanche, e mi recai barcollante a chiudere le invetrate. Le stelle scintillavano ancora nella medesima guisa sul fondo oscuro del cielo. Le guardai con pari intentività, ma con più amore ancora di prima. Sentivo me, la mia piccolezza, la mia nullità legata solidariamente a quell'infinita corrente di esistenza svolgentesi per l'infinito. Atomo intelligente e soffrente, mi sentivo abbracciato dalla fraternità universale degli spiriti che amano perchè vivono e comprendono; la vita essendo intelligenza ed amore.

«— Ora vi conosco, esclamai, meravigliosi vascelli che sotto l'impero della legge eterna portate l'esistenza e l'intelligenza traverso l'oceano dell'infinito. Su voi si travaglia e segue il suo destino la gran famiglia degli esseri. Non siete all'infuori di noi, nè astronomicamente, nè spiritualmente, ma con voi il nostro mondo, coi vostri spiriti i nostri siamo parte integrante del gran tutto nell'unità della creazione di Dio.

«Sentii un bisogno immenso di riposo, tanto pel corpo che parevami affranto da non so qual fatica, quanto per la mente che si trovava come dopo lo studio sforzato e la riflessione troppo prolungata di molte ore. Mi coricai e caddi tosto in un sonno profondo e contro ogni mia previsione, senza sogni di sorta. Quando mi svegliai alla mattina, il sole era già alto sull'orizzonte e picchiava allegramente entro i cristalli della finestra. La prima cosa che venne presente al mio pensiero fu la visione della veglia. Ogni incidente della medesima, ogni concetto manifestatomi avevo così chiaro impressi in mente che mi pareva come se me li leggessi stampati in un libro aperto dinanzi. Mi proposi dare ai miei studi, fino allora disordinati, un più preciso, nobile ed utile scopo. Volli con essi conquistare, non la gloria, ma la elevazione morale dell'esser mio..... Aimè! Tutte le risultanze di questi studi ho consegnate in uno scartafaccio che era, come dire, la riproduzione scritta delle vicende, dei travagli e dei progressi del mio intelletto e del mio cuore; e questo confidente, questa espansione del mio intimo me, cadde questa mattina nelle mani della Polizia, per essere profanato dagli sguardi vili di quella vil razza di gente..... Ma di codesto, del complesso di opinioni ch'io mi son venuto facendo intorno alle cose politiche e sociali dell'umanità presente, non ora mi sento disposto a parlare. Un giorno, se quelle infelici a me preziose carte torneranno in mio potere, io ti farò leggere in esse l'intiero animo mio; adesso lascia ch'io brevemente compia il racconto delle poche ma sfortunate vicende che mi hanno condotto a quell'accesso di disperazione in cui tu mi hai trovato e da cui mi hai salvo.

«L'amore mi dominava talmente che io quasi avevo perso del tutto l'impero di me stesso. Parco di parole sempre, ero diventato ora d'una profonda taciturnità senza eccezione. Riflessivo sempre, ora avevo la mente perduta in continua astrazione. Un pensiero solo mi occupava: quello di lei. Tutti gli altri erano un nonnulla che non meritavano la menoma attenzione. Ai doveri del mio ufficio badavo svogliatamente, con isforzo non sempre felice, avvicendato da soverchie dimenticanze. Ogni qual volta potessi, scappavo per andare ad aggirarmi sotto le finestre del palazzo di lei, per andarmi ad appostare là dove sapevo, dove presumevo, dove indovinavo ch'ella avrebbe dovuto passare. La miravo fugacemente, un fugace istante, trascorrere come un baleno innanzi ai miei occhi abbagliati, alla corsa dei suoi cavalli, e ne portavo per tutto il dì uno splendore raggiante nel cuore, come chi ha osato fissare il sole e ne va per un poco abbagliato con uno scintillìo di raggi nella retina. Quante altre volte la volli rivedere a teatro! I miei pochi risparmi che avevo potuto fare sul tenue stipendio, li spesi tutti a questo modo. Venuto l'inverno di poi gli era al teatro Regio che accorrevo per passare tutta una sera in contemplazione di quelle sembianze celesti. La somma di spasimi e di diletti, cari quasi del paro e gli uni e gli altri, ch'io provai, parola umana non saprebbe nemmanco adombrare... Nella state, quando ella era partita per la campagna, io era rimasto come privo della miglior parte dell'anima mia... Avevo finito per iscoprire dove fosse la sua villeggiatura; lontano delle miglia parecchie. Sortivo di notte a piedi, per arrivare il mattino in vista del bianco muro che cingeva il vasto giardino; mi arrampicavo sopra un albero [163] per poter gettare uno sguardo sulle finestre del castello indorato dal sole dell'oriente, sulle verdi tratte d'erba, sui viali insabbiati che vi si aggiravano trammezzo per andarsi a nascondere nei meandri d'un folto boschetto; qualche volta avevo la cara fortuna di vederla lei, scorrere con vezzo infantile frammezzo ai fiori, oppure affacciarsi soltanto ad una finestra, quella della sua stanza, e salutare con un sorriso il sereno del cielo, la bellezza d'una giornata splendida come la sua giovinezza. Allora me ne tornavo in città con una provvista di benessere d'intima gioia che rinchiudevo con gelosa cura in me stesso, e che mi rendeva sempre più indifferente a tutto il resto del mondo esteriore.

«Il buon signor Defasi affliggevasi del cambiamento in me avvenuto. Parecchie volte prese ad interrogarmi, a volermi confortare, anco a rampognarmi, ma con affettuosa sollecitudine sempre. Io non risposi che con un impaziente silenzio, o con tronche parole più impazienti ancora. Al mio ufficio non bastavo più. I miei fatti e contegni prendevano il carattere d'ingratitudine verso colui che mi aveva largito i suoi soccorsi non solo, ma la sua fiducia ed il suo affetto. Me ne accorgevo, me ne rimproveravo aspramente meco stesso, ma non potevo far diverso.

«Un anno e più era passato. Si appressava la nuova state, ed ella erasi ripartita per la campagna. Ricominciarono le mie gite, da cui tornavo stanco, affaticato, quasi incapace di stare in piedi, e tardi troppo più che non bisognasse per gli affari del fondaco. Il mio principale aveva cessato di tentare la scoperta del mio segreto, ed anco di farmi delle ammonizioni o dei rimproveri. Mi guardava di quando in quando coll'aria di compassione che si ha per un malato del quale bisogna aspettare dal tempo soltanto la guarigione. Il suo generoso affetto per me non pareva svanito, allorchè ad un tratto le sue maniere cambiarono per l'affatto, ed io m'accorsi che in lui, come in tutta la sua famiglia, ai primi sentimenti a mio riguardo erano sottentrati la diffidenza ed il sospetto.

«Un giorno ch'io era stato alla mia solita gita rientrai più tardi ancora dell'usato in città. Quel dì recavo meco l'anima lieta, perchè avevo potuto lungamente veder lei, non visto, entro il suo giardino. Ma al mio ingresso nel fondaco vidi ad accogliermi nel signor Defasi e ne' figli suoi non solamente la diffidente e severa freddezza dei giorni innanzi, ma un aperto disprezzo ed una contenuta indignazione.

«— Ah siete qui ancora voi! Proruppe il primogenito dei figliuoli. Come osate tuttavia presentarvi in questo luogo?

«Io rimasi in asso e senza parola.

«— Sta, sta: disse il padre accennando colla mano al giovane di contenersi: ora parlo io a codestui. — Venite qua meco, Maurilio (soggiunse volgendosi a me con aspetto di grave corruccio), ho alcune cose da dirvi.

Passò nello stanzino che v'era dietro la bottega, ed io ve lo seguii, confuso ed attonito, non sapendo ancora quel che mi dovessi aspettare, ma temendo che la mancanza ai miei doveri avesse stanco il mio benefattore e mi valesse la perdita dell'impiego.

Il signor Defasi cominciò tosto senz'altri preamboli:

— Da qualche tempo io sono istrutto del vostro passato che mi avete così ben nascosto.

Io diedi in un sussulto e non potei frenare una esclamazione.

— Il signor Nariccia che vi ha visto per caso nel mio fondaco (seguitò il libraio) credette obbligo di coscienza venirmi a contar tutto quello che conosce dei fatti vostri.

Qui parlò più lentamente, pesando su ciascuna parola.

— Tutto! Ripetè. Quello che vi avvenne prima che foste da lui; ciò che faceste in casa sua.

Mi sentii mancare ogni coraggio; una vergogna dei fatti miei tale mi assalse che non potei far altro che curvare il capo, mentre il rossore m'invadeva la faccia fino alla radice dei capelli, in aspetto propriamente di un colpevole senza difesa.

Defasi tacque un istante, come per lasciarmi di meglio in preda a quella confusione: poscia ripigliò a dire:

— Appena fui chiaro di codesto, la più volgare prudenza mi avrebbe consigliato a liberare di voi la mia casa...

Io l'interruppi con un'esclamazione che pareva un gemito.

— Lasciatemi dire: continuava egli. Ciò avrei dovuto fare tanto più che da molto tempo la vostra condotta non è quale io aveva diritto di aspettare in voi, non dico dalla vostra gratitudine, ma dal sentimento più volgare dell'assunto dovere. Confesso la mia debolezza. Non ebbi il coraggio di rimettervi sulla strada a cercarvi in altro modo i mezzi dell'esistenza. Pensai che la tentazione vi avrebbe potuto far ricadere, e che qui, dove con tanto amore e con tanta fiducia foste accolto, un riguardo almeno, un accenno di riconoscenza, vi avrebbe impedito di macchiarvi, più scelleratamente che altrove, di una nuova colpa. E per mio dolore vedo che mi sono ingannato.

A questo punto levai vivamente la testa.

— Ingannato! Esclamai. Oh come! Oh che vuol Ella dire?

— Eh! Ben lo dovete sapere. Mancano da ieri cinquecento lire nel cassetto del mio banco; e niun altro le può aver prese fuori di voi.

A quell'accusa ch'io era così lungi dall'aspettarmi, rimasi attonito di guisa che le mie sembianze non presero nemmanco l'aspetto dell'indignazione naturale all'innocenza calunniata.

[164] — Io? Esclamai balbettando. Ella accusa me? È ciò possibile?

— Vorrei che non fosse: rispose ancora più severo il principale; ma non c'è altra spiegazione da potersi dare a quella mancanza che un furto, e non c'è altri qui da potersi sospettare con fondamento che voi.

Io mi sentii occupare tutto e di botto da un tale abbattimento, da una tale vergogna, che ogni vigore mi sfuggì così dall'animo, come dalla volontà, come dal sembiante. Tu non fosti mai in questo orribil caso di venire accusato d'una sì bassa colpa; e venirne accusato da colui che ha su di voi una legittima autorità, a cui siete legati per tanto debito di riconoscenza; ed avere nel proprio passato, in realtà innocente, le apparenze d'una colpabilità che rincalza anco nel presente l'accusa! Forse per alcuni il sentimento della propria innocenza può far in loro scattar con forza l'indignazione dall'animo e trovare accento e parole da mostrare il vero; per me non fu così. Mi parve scorgere una nuova persecuzione della fatalità che guidava gli avvenimenti della mia esistenza; mi invase la mente lo scoraggiante pensiero che ogni mia protesta, ogni mio fatto sarebbe stato inutile, che non avevo altro più che da curvar la testa.

Il signor Defasi mi guardava e pareva aspettare ch'io mi difendessi, ch'io pronunziassi non fosse che un motto il quale mi dimostrasse innocente. Conobbi che alcuna cosa mi toccava pur dire; non avevo la menoma idea nel cervello confuso; non la menoma parola che venisse alle labbra balbettanti.

— Sono innocente: non seppi altro che dire: glie lo giuro!

Il mio contegno dovette sembrare al buon signor Defasi una conferma anzi che altro della mia colpa. Volse in là il volto con evidente ripugnanza e disse asciuttamente:

— Abbreviamo questo discorso che per me è penosissimo. Io non voglio perdervi affatto. Forse anco in ciò fallisco al vero debito che mi toccherebbe come cittadino e parte di quell'associazione cui dovrei far guarentire dal pericolo che lascio in essa con voi di nuove colpe, ma non posso tanto dimenticare che voi avete mangiato il mio pane e posseduto il mio affetto poco meno che figliale, da abbandonarvi ai rigori della giustizia terrena. Vi abbandono al rimorso della vostra coscienza, la quale vi dirà come la vostra colpa sia di tanto peggiore e più condannevole quanto maggiore era nella famiglia che vi aveva accolto la fiducia, e in voi verso di essa l'obbligo della gratitudine. Uscite dal mio fondaco e di casa mia; non vi domando altro, non vi punisco in altro modo; e non comparite mai più innanzi ai miei occhi.

Volli di nuovo tentar di parlare, e di nuovo la lingua mi stette aderente al palato come assecchitasi e di nuovo un'idea non nacque nel mio cervello di ciò che avessi da dire. Impallidii vieppiù, mi parve che il fiato mi mancasse, girai intorno gli occhi come spauriti; non potevo credere alla realtà di quel che mi capitava; non sapevo che cosa avessi da farmi; rimanevo là interito, senza muovermi, senza parole, senza propositi. Il principale mi prese per un braccio e mi trasse verso la bottega, e da questa verso la porta d'uscita; mi lasciai condurre come un automa, e sul mio passaggio vidi che i figliuoli del signor Defasi e l'altro commesso volgevano in là il capo a sviare i loro sguardi da me, come da oggetto di disprezzo e disgusto. Non ne provavo nemmeno indignazione, ma un'afflizione profonda, un'amarezza incomportabile. Il padrone aprì l'uscio a vetri e mi spinse fuori nella strada, senza violenza, ma con mano ferma e robusta.

— Andate! mi disse laconicamente senza più: e l'uscio fu richiuso alle mie spalle.

Quando mi trovai così, scacciato, sul pavimento della strada, mi riscossi. Una folata di pensieri e di propositi confusamente mi si precipitò allora nel cervello; mi parve che avessi mille cose da dire e da fare; mi rivolsi verso il fondaco, e posi la mano sulla maniglia della serratura per riaprire ed entrare. Ma di dietro ai cristalli stava la onesta, severa figura del signor Defasi, del mio benefattore, che con mossa d'inesorabil fermezza, il braccio levato, il dito indice teso, m'intimava d'allontanarmi. Obbedii. Feci un bel tratto di strada senza pur sapere da che parte avessi diretto i miei passi. Ero come sbalordito e non avevo chiara e netta la coscienza delle condizioni in cui mi trovavo. In piazza San Carlo, mi ricordo che c'era un gran cerchio di persone intorno ad una quattrina di musici ambulanti che cantavano una canzone popolare coll'aria più allegra che si possa dir mai. Ristetti ancor io ad ascoltare, come se nulla avessi in mente da occupare il mio pensiero. Ma a breve andare la volgare allegria di quella musica sembrò offendermi la suscettività nervosa; mi destò un'irritazione pungente che era quasi un dolore di fibre; ad un tratto chiaro mi comparì innanzi lo stato in cui ero ridotto. Ero di nuovo solo — più solo che mai — sulla terra. Quel soave legame d'affetto che la fortuna mi aveva concesso di stringere coll'umana razza, colla società, per mezzo di quell'amorevole famiglia che sì generosamente mi aveva accolto, quel legame era spezzato bruscamente, dolorosamente e per sempre! Non avevo più nessuno sulla terra che mi volesse un po' di bene: da que' pochi che me ne avevan voluto testè ero disprezzato e maledetto. Oh come ripiombino crudeli, desolanti sull'animo siffatti pensieri, tu non sai, tu non puoi immaginare, può sapere soltanto chi fu nella trista condizione di provarli. Un impeto di cordoglio disperato subitamente mi assalse; provai uno spasimo che mi serrava la gola e stava per iscoppiare in singhiozzo; sentii le lagrime che stavano per prorompere in [165] pianto dirotto dagli occhi; fuggii per non essere visto in quella esplosione di dolore.

Solo, solo al mondo, odiato, disprezzato e maledetto! Ecco adunque a che cosa avrebbe fatto capo soltanto ogni atto della mia vita! Era la sentenza irrevocabile del mio destino che coll'infelicità della nascita aveva pregiudicata e predisposta tutta la mia vita. Le inique parole di Graffigna mi tornarono presenti, e con una maggiore e più barbara efficacia che mai. Inutile il lottare, inutile il volersi sottrarre alla propria sorte: respinto dagli uomini, in sospetto e in odio alla società, avrei dovuto ad ogni modo gettarmi fra i ribelli alla medesima. La mia innocenza a che cosa mi aveva servito? Già due volte le più scellerate accuse mi avevano raggiunto. Ero predestinato a quello che gli uomini chiamano colpa. Nel mio cervello si era fatta come una tenebra in cui si aggiravano tumultuariamente le più fosche immagini. Mi domandavo se virtù ed innocenza non erano frasi d'inganno trovate da' furbi per irretire i credenzoni. Che cosa mi serviva essere onesto? Avevo il disprezzo e il danno della colpa, senza averne avuto i guadagni che ad essa sollecitano. Ora che cosa sarebbe avvenuto di me nel mondo? Ricordavo che tutti i miei risparmi avevo consumati; dove avrei trovato un guadagno, dove un pane da sostentarmi? Nelle mie veglie avevo meditato sui problemi più ardui della società umana; avevo posto alla tortura il cervello per abbozzarne delle soluzioni che la scienza accumulata di secoli, l'osservazione, il buon senso, la possibilità attuale delle cose non condannassero. Che cosa mi serviva tutto codesto? Non avrebbe ritardato d'un giorno ch'io morissi di fame. Nel mio intelletto offuscato, tutta la potenza consolante delle teorie a cui avevo dato la mia fede, non aveva più azione di sorta. La nebbia della passione mi velava ogni luce dello spirito. Bestemmiai coll'angoscia della disperazione. Il mal fisico di quella infermità che già mi aveva condotto presso a morte quando ebbi a sopportare l'ignominia del carcere, che mi assalì eziandio allorchè tu mi avesti salvo dalla pazzia del suicidio; infermità di cui le sofferenze della vita svilupparono il germe posto dalla natura nel mio organismo, e la quale anche ora cova e progredisce latente in questo miserabile mio corpo; quel mal fisico che già preparava il suo scoppio nei travagli della passione, nelle fatiche d'un lavoro mentale esagerato e d'un'agitazione di nervi senza riposo, conferiva col febbrile dissesto della circolazione dei sangui a turbarmi le funzioni intellettive eziandio. Non discernevo più le cose del mondo esteriore che traverso l'esaltazione morale d'un immenso dolore e le sensazioni contrafatte dalla febbre delle vene, dallo spasimo dei nervi, dal fremito morboso di tutte le fibre.

Ma nel mio accesso angoscioso, venne di colpo a presentarsi benefica e soave l'immagine di lei. Fu come il sollievo d'un fresco alito sopra una fronte ardente; fu come un balsamo sopra una piaga inasprita. Allora quasi mi rallegrai di non aver più catena nessuna di doveri e di lavori da compiere. Potevo esser tutto all'amor mio: i pensieri come gli atti, la fantasia come il tempo. Tutto, tutto potevo consecrare esclusivamente a quel fatto dominante, supremo nella mia vita.....

Un crudele problema, però, mi teneva afferrato fra le sue morse inesorabili: quello di procurarmi il pane. Presentare la mia fronte ad alcuno per domandare occupazione non osavo più. Mi avrebbero chiesto del mio passato, e come dir loro perchè avevo dovuto dare addio alla bottega del signor Defasi? Un mezzo di guadagno qualsiasi io non lo sapeva scorgere: per quegli umili uffizii faticosi, da cui trae il più spesso il sostentamento la plebe, e pei quali non occorre ispirar fiducia nessuna a chi ve li commette, a me mancavano le forze fisiche. Mi pareva di portare un mondo di pensieri nella testa, e le mie mani non erano capaci di nessuna opera meccanica. Incominciai per vendere i pochi oggetti che mi appartenevano, i mobili, il vestiario, poi anco, — e fu penosissimo sacrifizio — i libri che possedevo, quei soli eccettuatine che recai meco nella vostra dimora, quando tu Giovanni m'accogliesti.

Fu allora ch'io, fatto uno sforzo violento alla mia peritanza, osai presentarmi a casa vostra domandando lavoro: avevo udito di te e di Romualdo come cultori delle lettere e giovani scrittori che si preparavano ad esprimere della loro generazione la voce e il pensiero coll'opera della penna: e pensai che avrei potuto associarmi a voi come copiatore, compilatore, e quando mi avreste di meglio conosciuto, come pensatore fors'anco. Mi presentai tremante, osando per sola raccomandazione allegare la mia miseria...»

— E noi, interruppe Giovanni con una specie di rabbia contro sè stesso, noi ti abbiamo disconosciuto al punto da mandarti a spasso, come facevamo d'ordinario e facciamo tuttavia ai tanti che vengono a cercare se la letteratura non sia un ospizio di carità pei fannulloni, e se noi non siamo per caso i custodi da aprirne loro la porta.

— Voi avevate ragione: soggiunse Maurilio. Che cosa infatti v'era in me che mi distinguesse da quei buoni da nulla?... Avevo tentato quella prova quasi per ultima, spintovi dalla disperazione. Era da due giorni che uno scarso cibo non mi riparava più dai tormenti della fame — dalla vera fame. Avevo venduto tutto quello che potevo vendere.... Avevo perfino pensato, in un momento di maggiore angoscia del mio ventricolo, vendere il rosario, unica eredità dei miei sconosciuti parenti.... ma non avevo tardato a respingere con orrore questa tentazione che non doveva riassalirmi mai più. Il padrone della soffitta cui abitavo, accortosi della condizione in [166] cui ero caduto, vistomi denudato di tutto, mi fece sapere che fra pochi giorni, finito il mese, avessi a cercarmi altro quartiere. La malattia di cui quelle privazioni e quegli spasimi favorivano lo sviluppo, cominciava a turbarmi profondamente tutte le funzioni vitali e quelle del cervello specialmente. Non avevo più nè delle cose fisiche, nè delle morali un'esatta percezione. Mi dissi: «la natura e la Provvidenza ti hanno condannato a morire senza manco nessuno. Perchè non ti affretteresti tu a porre in atto questa condanna?» L'idea sempre maniaca, a mio senno, del suicidio, cominciò a piantarsi e dilatarsi nella mia mente. Il giorno in cui dovrò abbandonare questo tetto, determinai, e non avrò più riparo nessuno al mio capo sventurato, cercherò asilo al corpo entro la tomba, nuove venture all'anima nel mondo degli spiriti!

«Quel giorno venne. La mia ragione vacillava sempre più, mentre la fame mi rodeva con asprissimo dente le viscere. Provavo di quando in quando delle soffocazioni onde mi pareva dover rimanere strozzato; tratto tratto erano folate di sangue che mi si precipitavano alla testa e mi davano il capogiro. Ero calmo, ma tutto soffriva in me, senza che pure avessi saputo dire con precisione dove avessi male e qual fosse. Presi meco quei pochi oggetti di mia spettanza che mi rimanevano ancora: sul cuore le reliquie trovatemi nelle fascie, sotto il braccio i libri e il quaderno delle confidenze dell'anima mia. Mi trovai sul selciato della strada colla voglia di arrestare tutti quelli che passavano, per dir loro: «Questo è l'ultimo giorno della mia vita, pregate per me.» In fondo ella confusione penosa delle mie idee c'era pur tuttavia sempre il pensiero di lei!

— Vederla ancora: mi dissi; vederla e poi morire.

Mi avviai alla volta della sua villa. Come vi potessi giungere non so. Del cammino che ho fatto non mi ricordo più di nulla, eccetto che un incessante ritmo di versi e di rime mi martellava nella testa, ed io tratto tratto ero costretto a fermarmi e ripetere ad alta voce quei versi spropositati, agli alberi, ai sassi, al rigagnolo della strada.

Giunsi finalmente, chi sa dopo quante ore, ch'io l'idea del tempo non l'avevo più, in vista del muro che cingeva il giardino di lei stendendosi in una bianca lista nel verde della campagna. A quella veduta un po' di ragione rientrò in me. Dentro il cranio mi parve sentir risuonare come un'eco la dolce melodia di quel duetto amoroso che avevo udito, lei presente, a teatro la sera di quel primo giorno in cui m'era avvenuto di vederla. Mi trovai dinanzi una porticina del muro, di cui il battente dell'uscio era socchiuso. Ebbi la temerità di sospingerlo e di entrare.

Quella porticina metteva in quella parte del giardino che era coltivata a frutta: alberi carichi di ciliegie parevano tendere alla mano avida del passeggiero le loro ciocche di frutta rosse come le labbra d'un bambino; arbusti tenuti a spalliera mostravano tra il verde delle foglie l'incarnatino di stupende albicocche. In quel momento, più d'ogni altra cosa potè in me l'impulso fisico, bestiale della fame. Senza che intravvenisse atto nessuno di ragionamento, determinazione veruna di volontà, io mi gettai coll'avido furore dell'affamato sopra quelle frutta e le abbrancai con mano agitata da fremito spasmodico; ma avevo appena morso in una delle colte albicocche, che un pugno robusto e violento mi afferrava al bavero del vestito e mi scuoteva con forza, mentre una voce aspra ed incollerita mi gridava alle orecchie:

— Ah! ti ho colto pur finalmente, miserabile ladroncello. Anche di giorno tu osi venire a servirti delle mie frutta, eh? Che sì che adesso, poichè ci sei cascato, l'hai da pagare per tutto quello che mi hai già portato via, mariuolo di tre cotte.

Il giardiniere che così mi aveva sorpreso, veniva crollandomi senza misericordia, mentre parlava, ed io, debole com'ero, a quelle scosse ed a quella nuova accusa, mi sentii tanto smarrito che credetti perdere i sensi. Mi lasciai cadere a terra, mentre le labbra mormoravano con voce appena se intelligibile:

— Perdono!... È la prima volta che qui vengo... Non mi perdete...

— Ah! la prima volta: urlava il giardiniere che dalla mia debolezza pareva vieppiù infierito. Come se non ti avessi visto io stesso a girare qui intorno a mo' della volpe intorno al pollaio!... Ah la prima volta, mentre ogni mattina quasi mi trovo il frutteto saccheggiato della più bella frutta!... Te la darò io la prima volta...

Mi veniva addosso più minaccioso che mai, e chi sa a che maltrattamento avrei dovuto sottostare, se in quella una voce soavissima non avesse suonato alle spalle di lui, dicendo con accento autorevole:

— Tonio che cosa fate?

Il giardiniere si fermò e si volse indietro con tutte le mostre del più profondo rispetto; io che giaceva in terra, mi sollevai sopra un gomito a guardare. Ella ci stava dinanzi. Era vestita di bianco ed un nastro cilestrino le svolazzava alla cintura; un altro nastro di ugual colore s'intrecciava sopra la sua fronte all'oro splendido de' suoi capelli. L'avresti detta una apparizione come quella del poema di Ossian.

— Che è stato? Ridomandò essa facendo scorrere quel suo sguardo divino da me che mi sforzavo a rialzarmi da terra e il giardiniere che levatosi il cappello lo faceva girare fra le sue mani, in mossa di tutta soggezione.

— Gli è stato: rispondeva quest'ultimo: che da molto tempo, appena sono mature, le albicocche e [167] le ciliegie, ed anco le fragole, mi spariscono come se il diavolo venisse a beccarsele; e che finalmente adesso adesso ho colto qui questo bel capo nell'atto appunto che le rubava.

«Ella mi rivolse uno sguardo in cui si notava non isdegno, non disprezzo, ma compassione. Io mi sentiva per lo spasimo un sudor freddo spuntare a goccie sulla fronte; avrei voluto la terra mi si aprisse sotto i piedi ad ingoiare la mia vergogna.

— Lasciatelo andare pei fatti suoi: disse quella voce così soavemente armoniosa. Sono persuasa che egli non ci tornerà più.

Il giardiniere non pose tempo in mezzo; mi prese per le spalle, mi fece girare sui talloni e mi cacciò fuori della porticina in men che non si dica. Mi ritrovai nella campagna sbalordito, senza punto consiglio. Quella fatalità che mi perseguitava, ancora una volta mi aveva voluto fare apparire vergognosamente colpevole, e codesto in presenza di lei! Mentre io aveva tante cose immaginato e tanti studii intrapreso affine di spingermi su nel mondo da avvicinarla, ecco che la prima comparsa al suo cospetto doveva essere quella d'un ladroncello!...

Qui la mia testa si confuse dolorosamente in modo che io da quel punto non ho più memoria esatta di quello che avvenisse. Come fossi ritornato a Torino, come mi ritrovassi a quell'ora in cui tu m'hai incontrato sulle sponde del Po per affogarmivi non ho mai saputo. Tu mi salvasti allora la vita; ed accogliendomi con voi fraternamente, tu e gli amici tuoi mi aiutaste l'anima a rientrare in quella calma ed in quella fermezza onde abbisogna l'uomo a sostener nobilmente le sventure della vita.

Quando fui risanato dopo la violenta malattia che mi condusse vicino a morte e nella quale voi tutti e la buona moglie di Vanardi aveste tante amorose cure per me, l'amor mio non era punto scemato, ma s'era, per così dire, ritratto nel più intimo penetrale dell'anima, spogliatosi di ogni illusione di possibil ventura.

— Mai, mai, e poi mai, in questa esistenza il mio spirito arriverà all'altezza di quello di lei; ma tuttavia l'immagine sua starà in me come quella di un ideale non arrivabile, d'un bene cui giova desiare e vagheggiare anche senza poter conseguire, come la personificazione della virtù, del bello e del buono.

E così fu; e così sarà fino alla morte... Molte sofferenze mi ha costato questo amore; ma è valso a tenermi sollevata l'anima dalle bassezze. Io ne ho quindi avuto tutto ciò che posso pretenderne. Sento che albergandolo in me, sì puro affetto, io mi tengo ad una maggiore altezza morale; sento che non lascierò mai che l'anima in cui esso è entrato e sta, si macchi d'un'ignominia...

Ti ho detto che mi ha costato dei dolori: uno recente e nuovo, l'ho avuto ieri sera... Lo confido alla tua amicizia, perchè mi sono proposto di farti leggere compiutamente dentro di me... E fors'anco non sarà disutile che tu lo sappia..... Ieri sera ho visto insieme lei e Francesco Benda: la penetrazione dell'amor mio, mi rivelò al primo sguardo una fatale verità: Francesco ama ancor egli quella fanciulla; ed io,..... io che di tanto vo debitore a quel generoso giovane, io che non ho pure nessuna speranza per me di poterla ottener mai, io ho sentito un impeto di odio entrarmi nell'animo contro Francesco; ho sentito ch'egli, ricco, bello, brioso, ammesso in quella sfera sociale ov'essa brilla, avrebbe potuto esserne corrisposto, e una tremenda invidia, una gelosia infernale mi assalse..... Ah no, io non potrò possedere mai quella tanta fortuna; ma che almeno Francesco neppur l'ottenga... No, no, non egli, non egli!»

L'espressione della faccia di Maurilio divenne così trista e feroce che Giovanni n'ebbe una viva impressione come di spavento.

— Maurilio, diss'egli, questa gelosia e questo pensiero sono indegni di te. Francesco, tu sai pure qual anima elevata e quale indole virtuosa possegga. S'egli fosse amato, ben sarebb'egli meritevole della sua fortuna....

— Oh vederli insieme! Interruppe con voce fremente il misero giovane: oh vedere un altro felice di quella felicità che io non posso arrivare!.... E quest'altro è un mio amico!... Ah! mi sento capace d'ogni più fiero proposito....

— Ma allora tu cadresti da quell'altezza morale a cui ti rallegravi testè che questo amore ti abbia sollevato....

Queste parole fecero una grandissima impressione in Maurilio. Stette un istante come sovra sè stesso, poi ad un tratto, gettate le braccia al collo dell'amico, abbandonò la testa sulla spalla di lui e rompendo in pianto disse affannosamente:

— Compatiscimi, compatiscimi.... Ma io l'amo tanto!

CAPITOLO XXV.

Andrea aveva preso i denari che la generosità della signora Virginia aveva lasciato alla povera famiglia, ed era uscito dalla soffitta colla più ferma intenzione di recarsi a pagare tosto il padron di casa. Era venuto infatti sino all'uscio chiovato di ferro che metteva nel quartiere di messer Nariccia e già aveva steso la mano per prendere il capo della corda che suonava il campanello, quando un malcapitato pensiero lo arrestò.

— Portare a quello scellerato tutti questi bei scudi d'argento!... E noi, poveri diavoli, stentiamo dei mesi e dei mesi per vederne il segno!... Nariccia, tutti lo sanno, ne ha dei monti e dei monti di monete, e questo di più o di meno non fa più effetto [168] che un bicchier d'acqua nel Po... Io invece, se mi potessi giovare di questa somma, quante cose non potrei procurarmi?... A quella povera donna di mia moglie, a quei miseruzzi di figli miei che vivono un'eterna quaresima?... Se prima di pagare il padron di casa, andassi a comprar qualche cosa per la famiglia? Certo questo preme più di tutto... Il medico ha detto tante volte che Paolina bisogna sostenerla con del buon brodo e della buona carne e dei buoni cordiali... Farei molto bene a correre lì da Pelone, a prendere un po' di quel che ci vuole per la mia donna, e quel brutto Nariccia pagarlo poi al ritorno...

Aveva lasciato andare il cordone del campanello, e rimaneva colà perplesso. Gli era quanto meno un sentimento di giusto affetto verso i suoi che si univa ad una ripugnanza istintiva di spogliarsi di quel danaro, per farlo esitare. Ma poi pensò alle tante raccomandazioni di Paolina, alle promesse che testè egli le aveva fatte, al piacere ch'ella avrebbe provato, quando il marito fosse stato di ritorno dicendole: possiamo star tranquilli fra queste quattro squallide pareti, ed elle sono casa nostra perchè abbiam pagata la pigione; piacere che avrebbe prodotto esso stesso l'effetto del miglior cordiale del mondo; e si decise a non aver più indugi di sorta. Aveva di nuovo afferrata la corda e stava per dare una tirata, quando sventuratamente suonò alle sue spalle una ben nota voce, la voce del suo genio malefico, quella di Marcaccio.

— Eh! che cosa fai tu costì, Andrea? Vuoi andare a far visita a quella buona gioia di messer Nariccia?

Andrea si volse verso il nuovo venuto, e l'aspetto con cui l'accolse, e la voce con cui gli parlò non dinotavano che gli facesse molto piacere la vista del suo compagno.

— E tu, diss'egli, che cosa vieni a far qui?

Si ricordava egli in nube quello che era avvenuto la sera innanzi; aveva un'ombra di rimorso di avere maltrattato sua moglie, e mentre scusavasi col dirsi che gli era in causa e per istigazione di codestui, sentiva un certo rancore contro di esso; quando si trovava in sentore, non poteva dissimularsi che i consigli e gli esempi di Marcaccio erano stati quelli che l'avevan tratto a quel brutto punto in cui era precipitato; aveva inoltre dato alla moglie una nuova promessa di sfuggire questo fatale amico, e questa promessa — come tutte le altre volte eziandio — l'aveva data con animo sincero e con voglia ferma di mantenerla; ma ora, di fronte a quest'uomo che aveva preso una tanta influenza sull'anima di lui, Andrea si sentiva impacciatissimo a porre in atto la sua risoluzione e manifestargli che l'avesse a lasciar tranquillo, e provava nello stesso tempo una specie di irritazione contro Marcaccio che così presto fosse venuto a porlo nel caso di dovere o mancare alla sua promessa o fare un atto per cui non si sentiva tutto il coraggio necessario.

Alla domanda di Andrea, Marcaccio diede in una risata.

— Che cosa vengo a far qui?.... Oh bella! Gli è davvero molto difficile da indovinarsi..... Vengo a vederti ed a prenderti meco per condurti a far colazione.

E tese una mano per pigliar l'amico sotto il braccio; ma Andrea si trasse indietro e si schermì da quell'atto.

— Lasciami stare: disse bruscamente: io non vado a far colazione con te.

— No? Esclamò Marcaccio, mostrando un grandissimo stupore. E perchè?

— Perchè.....

Andrea cominciò con molta risoluzione la sua risposta, ma non ebbe appena detta la prima parola, che quella risoluzione gli venne meno.

— Perchè non vado, ecco!

— Questa non è una ragione.

— Ho da andare a pagar l'affitto a messer Nariccia.

Marcaccio inarcò le sopracciglia in un crescente stupore.

— Pagar Nariccia!.... Ma tu hai dunque dei denari?

— Sì: rispose Andrea a fior di labbra: una pietosa famiglia ci ha soccorsi.....

— Benone!.... E tu non sai farne altro buon uso che gettarli in gola a quel mostro succhiasangue del povero, di Nariccia?....

— Bisogna bene...

— Bisogna un corno!... Quell'avaraccio scellerato è ricco da non saper più nemmanco lui quanto possiede. È tanto ricco di denari, quanto di malizia e di scelleraggine, che è tutto dire... E tu appena ci hai qualche coserella da poter passare un paio di giorni allegramente, vai a sciuparla in questo modo per rimanere tu a becco asciutto, e tirare il diavolo per la coda come prima?

— Se non pago e' mi caccia sulla strada tutta la famiglia.

— Eh! baie. Non avrà tanto fegato da farne una sì grossa. Gli è già odiato come il brutto male in tutta la città e peggio in questo quartiere; se facesse una cosa simile, le pietre stesse del selciato si leverebbero di per sè per lapidarlo.

Andrea guardò con sospetto più spiccato di prima il suo interlocutore.

— Insomma, diss'egli, tu vuoi condurmi all'osteria per mangiarmi tu questi denari?

Marcaccio protestò colla faccia più indignata che seppe fare.

— Io mangiarti i denari?!..... Se fosse un altro che m'avesse detto di simili parole, che sì che gli farei assaggiare un po' di questi argomenti.

E mostrava il suo pugno grosso, nodoso, duro come una mazza di ferro.

[169] — Ma te ti perdono; perchè ti voglio bene, e perchè da un po' di tempo hai debole il cervello...

— Io ho debole il cervello?

— Sicuro! Coi tuoi scrupoli, coi tuoi timori, colle tue peritanze, tu m'hai l'aria non più d'un uomo, ma di un bambino o di una femminetta. Veniamo a noi, e dà un po' retta. Chi è che da settimane parecchie ti conduce all'osteria e ti fa le spese?

— Tu, non lo nego.

— Manco male!

— Ma prima, quando io aveva ancora dei denari in riserva, quando ne guadagnavo tuttavia col mio lavoro, eri tu che vivevi alle mie spalle, e che colle carte in mano trovavi sempre modo di farmi pulite le scarselle.

— Eh! lasciamo stare questo passato, che è così lontano da non doversene più ricordare.... Vedi un po'! Io non sapeva mica che tu oggi avessi avuto de' soccorsi: avevo ogni ragione di crederti spiantato più di ieri; ebbene, — guarda se non è amicizia codesta! — sono venuto per toglierti al crepacuore delle tue miserie, dei guai e delle lamentazioni di famiglia e farti passare la giornata allegramente come ieri... Dunque, bando a tutte queste seccaggini, e vieni.

Andrea si tirò di nuovo indietro, e disse:

— No, non vado. Ieri ho fatto male, e non voglio più far male oggi, nè domani, nè mai....

— Oh oh! Esclamò Marcaccio con ammirazione schernitiva: scommetto che indovino donde ti vengono queste belle parlate. Qui c'è lo zampino della moglie.

Il marito di Paolina, che sentiva mancarsi la risoluzione, proruppe con impazienza sdegnosa:

— Che moglie o non moglie? Son io che lo dico, son io che lo voglio..., e basta.

— Vedi se non è vero ciò ch'io ti ho detto testè!

— Che cosa?

— Che tu hai il cervello debole.

— Oh giuraddio!....

— Non istrepitare; ma bada un po'. Tu ripeti come un papagallo tutto ciò che la moglie ti ha soffiato nell'orecchio...

— Non è vero.

— È vero! Figurati se io non me ne accorgo di queste cose!...

— Ti dico...

— Tu dici delle buggere. Ti dico io che chi si lascia mettere il piede sul collo dalle donne è bello e spacciato, e può vestirsi le sottane egli stesso, che d'uom non ha più nulla... E tu sei presto a quel punto.

— Io?...

— Sì, tu. È inutile farmi quei brutti occhiacci. È così, e te lo sostengo. Tua moglie ti ha messo il piè sul collo...

— No...

— Sì. Gli è dessa che ti gonfia con tutte quelle fatuità che fanno di te un pulcin bagnato, il quale avrebbe la fortuna ad arrivo di mano e non sa pigliarla. Oh! non ha avuto ieri sera l'audacia di proibirmi, a me, al migliore amico che tu abbia, di venire in casa tua? E gli è anche per ciò che stamattina mi sono affrettato di venirci: volevo un po' vedere se tu avevi lo stomaco di mettermi alla porta. In poche parole, tua moglie ti mena pel naso, e non osi più venire all'osteria con me, perchè essa te lo ha proibito.

— Paolina non mi ha proibito niente... Non sono tale da lasciarmi comandare io... Non vado perchè non voglio andarci, perchè ho capito che non ci dovevo andare e nient'altro.

— Senti, Andrea: io ti devo parlare a lungo, di cose importanti e che non si possono discorrere nè a casa tua, nè per la strada, nè qui sul pianerottolo della scala. Gli è per questo che ti propongo di accompagnarmi all'osteria. Se ci hai degli scrupoli, non mangerai, non beverai, non farai altro che ascoltarmi, ed io ti parlerò facendo colazione. Non si tratta di giuggiole: si tratta di farci ricchi tutti e due...

— Ah! le tue parole le conosco...

— No, che non le conosci... È tutt'altra cosa da quella che t'immagini... Tu non avresti da correr rischio nessuno... te l'assicuro... Infine poi non ti domando che di ascoltarmi... Hai forse bisogno di chiedere anche per ciò licenza alla moglie?

— Io non ho bisogno di chieder licenza da nessuno e per nulla: rispose Andrea imbizzarrito.

— Dunque animo, e fa a mio modo.

Questa volta il tristo potè prendere Andrea pel braccio, e mezzo riluttante lo trasse con sè giù delle scale e fuor del portone.

Quando furono nella strada, Marcaccio, che aveva già il suo disegno bello e fissato in mente, adocchiò una bottega di liquorista che era lì presso.

— Vieni costì: diss'egli al compagno. Stamattina fa un freddo così indemoniato che non ci posso regger proprio senza almanco un bicchierino di acquarzente.

E frattanto aveva trascinato Andrea fino sulla porta del fondaco di liquori.

— Se volesti accettarne uno anche tu, soggiunse Marcaccio, io te l'offro di buon cuore.

Aprì la porta e l'odore delle varie sorte di liquori che si spacciavan là dentro venne a percuotere l'olfatto del povero Andrea.

— No, no, grazie; ebbe questi pur tuttavia la forza di rispondere, mentre in realtà mandava giù la saliva.

— Come vuoi; ma almeno vieni dentro, chè vuoi stare a gelare lì fuori?.... Ti scalderai una mano al braciere.

Andrea entrò.

— Un bicchierino di cognac: domandò Marcaccio, [170] avanzandosi verso il banco, mentre il suo compagno si teneva con aria quasi peritosa presso la porta.

— Uno solo? disse il garzone che aveva visto gli entrati esser due.

— Sì, uno..... per cominciare: rispose Marcaccio.

Il liquorista gli mescette, ed egli tracannò d'un fiato tutto il contenuto del bicchierino.

— Buono! diss'egli poi, facendo scoppiar la lingua contro il palato. Questo sì che mette l'anima in corpo. E' dà proprio la vita ad un galantuomo.

Tese il bicchierino al garzone.

— Ancora uno: soggiunse. Eh eh non abbia riguardo a riempirlo..... Che? Teme forse ch'io ne lasci spandere? Ho la mano ferma, giurabacco!.... Così, va bene.

Questo secondo si pose a centellinarlo con voluttà.

— E' potrebbe anco essere più forte che non sarebbe male; ma via, tal quale si trova, è pur già la ottima cosa. — Andrea?

Il marito di Paolina, per cui la tentazione era troppo forte, s'era volto in là verso la strada nella quale pareva guardare traverso i vetri.

— Che cosa vuoi? diss'egli, quando così interpellato dal suo compagno, senza pur tuttavia muoversi menomamente.

— Voltati in qua; accostati un poco, che diavolo!

— Perchè?

— Vien qui, ti dico.

Andrea s'accostava con apparente malavoglia. Marcaccio gli pose il bicchierino sotto il naso.

— To'; assaggia almanco un gocciolino di questa roba.

Andrea si tirò indietro vivamente.

— No, no, non ne voglio.

— Uh! l'ostinato!.... Un gocciolino, ti dico, nel mio bicchiere stesso... Ciò non conta; e non fai lo sgarbo di rifiutare ad un amico.

— Per farti piacere.... disse Andrea esitando.

Marcaccio gli pose in mano il bicchierino.

— Sì, sì, me ne terrei offeso se non l'assaggiassi.

Andrea bevette un sorso.

— Sì, gli è buono.... veramente buono: esclamò cogli occhi in cui brillava il desiderio eccitato, non soddisfatto.

Le sue labbra si attaccarono di nuovo all'orlo del bicchiere, e non poterono spiccarsene più finchè vi rimase una goccia di liquore.

— Grazie: diss'egli poi volendo rendere il bicchiere.

— Questo poco non t'ha forse fatto bene?

— Sì.

— Dunque vedi che avevi torto a non volerlo... Ma intanto tieni il bicchiere che ne vogliamo prendere ancora un altro: quello non era che il sorso d'un canarino e tu sei un uomo.

Andrea non tentò nemmanco più di schermirsi: il secondo bicchierino fu bevuto da lui con pieno abbandono; e quando i due compagni uscirono da quel fondaco, l'effetto dell'acquarzente, su cui aveva calcolato Marcaccio, era già ottenuto; ciò era che nel marito di Paolina era quasi svanita del tutto quella diffidenza ostile, quella riservatezza, quello stare in sulle guardie, con cui da principio aveva egli accolto il suo perfido amico tentatore. Furono adunque obliati e la moglie e i figliuoli; e il disgraziato, preso a braccetto da Marcaccio, entrava poco stante nella taverna di Pelone.

Gli era giusto il momento in cui il bettoliere stava aggiustando alcune sue ragioni col vecchio Jacob Arom, e Maddalena, la serva dell'osteria, si era recata nel Cafarnao alla chiama del medichino. Rimaneva a servir gli avventori quell'imbecille di Meo, il quale colla faccia più melensa che mai, gli occhi che parevan di cristallo fuor della testa, sapeva anche meno del solito che cosa si pescasse ed era nelle sue mosse impacciato, lento e disadatto più ancora che non solesse.

Marcaccio si gettò a sedere sopra una panca presso al muro, dietro la tavola che si trovava più prossima al braciere semispento, il quale consumava i suoi pochi carboni dentro un ammasso di cenere, in faccia all'uscio a vetri colle tendoline rosse che metteva nella stanza vicina, dove stavano discorrendo Pelone ed Arom; e percotendo colla palma della mano sopra la tavola, gridò a Meo che s'avvicinava di mala voglia:

— Vogliamo far colazione, e una buona colazione; ma tu, addormentato da due quattrini, non sei quello che fai per noi. Va a chiamare la Maddalena e mandacela.

Meo guardò fisso chi gli parlava, coi suoi occhi senza espressione, e rispose coll'accento d'un bambino che faccia greppo per piangere:

— La Maddalena in questo momento non c'è.

— Come! non c'è? esclamò Marcaccio di cattivo umore. Questa la è strana davvero; ogni qual volta io vengo ed ho bisogno di essere servito, quella schizzinosa la non si lascia vedere. La mette su delle arie adesso, con noi che l'abbiamo vista, corpo d'una botte, più misera d'un verme; la protezione del medichino la inorgoglisce. Che sì che io son quell'uomo un giorno o l'altro da farle passare i fumi e la voglia di far delle preferenze.

All'allusione che fece Marcaccio delle attinenze che passavano fra il medichino e la Maddalena, nelle pallottole vitree degli occhi di Meo, si sarebbe potuto scorgere qualche cosa come un lampo di sdegno.

— Io ci scommetto, continuava Marcaccio, che quella smorfiosa è laggiù in cucina a scaldarsi, o costà in questa stanza e non la si vuole scomodare per sì poca cosa come siam noi. Valla a chiamare, Meo, giuraddio! e che la venga, o ch'io faccio un chiasso dell'inferno.

[171] E per mostrare la verità di codesta sua intenzione, scaraventò un pugno sulla tavola che la fece trabalzare, e in quello stanzone lungo e basso, suonò come un colpo d'arma da fuoco.

L'uscio a vetri della stanza vicina si aprì vivamente, e comparvero il naso madornale, la berretta unta e la faccia cadaverica di mastro Pelone.

— Che cos'è? Domandò questi colla sua voce cavernosa. Ah! siete voi Marcaccio? Perchè tanto fracasso? Qual tafano vi punge?

— Il diavolo che vi porti anche voi, vecchio catarro!... Voglio essere servito dalla Maddalena.

L'oste fece colla squarciatura che gli serviva di bocca una smorfia che nel suo repertorio significava un amichevole sorriso, ed accostandosi con quel suo passo senza rumore al desco dove sedevano i due amici, rispose:

— La Maddalena non può proprio venire; la è occupata altrove, in parola d'onore...

— Dove? Domandò Marcaccio con tono d'incredulità e di minaccia.

Pelone puntò alla tavola una e poi l'altra delle sue mani da scheletro lunghe mezzo metro e curvò la sua lunga persona verso l'interrogatore, come per fargli una confidenza. Meo che non s'era ancora mosso di lì, allungò il collo e tese le orecchie per udire anche lui; ma il padrone se ne accorse.

— Che cosa fai tu costì, figliuolo di mala femmina, brutto impiastro di martuffo? Gli disse con accento degno delle parole. Vai a prendere subito una pinta di vino, pane e salame per questa brava gente... che poi diranno quello che occorre loro di vantaggio.

Meo non aspettò altri complimenti e sparì per la botola onde si scendeva nella cantina e nella cucina sotterranee.

Allora l'oste pronunziò all'orecchio di Marcaccio alcune parole che ebbero la virtù di subitamente acchetarlo.

— Va bene: diss'egli. Ebbene sentite, Pelone, oltre il salame che verrà, fateci preparare una buona frittata colle cipolle, un quarto d'agnello arrostito, e mandateci eziandio di quei peperoni gialli d'Asti all'aceto che brucian la lingua e raschiano la gola.

— Sarete serviti in un amen: rispose l'oste, ridrizzando lentamente la sua lunga persona allampanata, e muovendosi con quella tardità pesante di membra che gli era abituale.

Andò egli dapprima all'uscio de' vetri, e semiapertolo cacciò dentro queste parole:

— Aspettate un poco, Macobaro, che vengo subito.

— Che? Esclamò Marcaccio. C'è costì quel vecchio birbone d'un ebreo?

Pelone fece un cenno affermativo. Marcaccio si alzò di fretta e s'avviò verso quella stanza.

— Non ve ne fa mica nulla che andiamo ad assettarci nel gabinetto? Ho molte cose da dire a questo mio amico, ed ho piacere che Macobaro prenda parte al discorso, uomo di buon consiglio qual è.

Ma Pelone con una vivacità di mosse maggiore di quella che si sarebbe potuta aspettare, si cacciò innanzi a Marcaccio, fra l'uscio e lui.

— No: diss'egli a voce bassa che Andrea non potesse udire; se foste voi solo, ma con quell'altro lì che non appartiene alla cocca...

— Si tratta appunto di farvelo entrare: rispose sommessamente del pari Marcaccio. Se ne ha bisogno, e Graffigna mi ha detto di sollecitare più che si possa. Lo tengo già per una buona falda, se Macobaro mi aiuta, con qualche pinta, lo abbranchiamo del tutto.

— Benone; ma frattanto egli non c'è ancora, e non possiamo mica scoprirgli il segreto passaggio di cui nemmanco un terzo di quei della cocca conosce l'esistenza. Ed ora che il medichino è in Cafarnao e c'è con esso la Maddalena, da un momento all'altro possiamo aver motivo d'aprire...

— È giusto. Staremo dunque dove siamo; ma se poteste far venire con noi Macobaro, questo sì che ci aiuterebbe nell'opera.

— È subito fatta. Macobaro ed io abbiamo bello e finito; gli dico di venir qua con voi che gli offrite da colazione.

— Ebbene chiamatelo.

Pelone tornò ad aprire l'uscio a vetri.

— Venite un po' qua: diss'egli al personaggio che si trovava in quella stanza. C'è qui due buoni amici che vi offrono da colazione pel piacere d'avere la vostra compagnia.

La faccia da uccello di rapina di Jacob non tardò a comparire nello stanzone.

— Chi è che mi chiama? Diss'egli... Ah siete voi Marcaccio? Ed anche voi Andrea? Godo di vedervi tuttidue in buona salute. Siete voi che avete qualche cosa da dire a questo povero vecchio?

— Niente altro, rispose Marcaccio, che desideriamo di mangiare un boccone in compagnia con voi..... Sedetevi qua, e faremo quattro ciarle senza conseguenze.

Arom girò intorno il suo sguardo d'avoltoio sulla faccia dell'oste, poi su quella di Marcaccio, poi su quella d'Andrea: i due primi gli fecero un leggerissimo cenno d'intelligenza, cui afferrò tosto l'occhio esercitato del ferravecchio; Andrea aveva volto in là il viso con una certa ripugnanza. Gli era capitato pur troppo di dover passare per le unghie di quel vecchio scorticatore, e la compagnia di lui non era tale da tornargli piacevole il meno del mondo. Già si pentiva d'essersi lasciato tirare là dentro, e se l'avesse osato se ne sarebbe partito senz'altro.

Macobaro, che aveva capito press'a poco ciò che si voleva da lui, rispose colla solita umiltà bassa e codarda del suo contegno e della sua voce:

— Vi ringrazio molto, padroni miei, della vostra bontà, della vostra generosità. Un pover'uomo, un [172] vecchio da nulla come sono io è troppo onorato da sì gentile invito; ma... mi rincresce... mi rincresce profondamente... di non potere accettare. Le mie abitudini... io non bevo mai vino... la mia cagionevole salute... io non posso mangiar mai altro che certe minestre cui sa prepararmi soltanto la mia vecchia Debora... la mia religione... siamo in certe epoche in cui ci viene imposta una rigorosa astinenza... tutto ciò mi impedisce di accettare; ma non ne sono meno riconoscente: e se la mia povera compagnia non vi torna affatto disgradita, ebbene io mi onorerò di sedermi qui al vostro desco e di assistere alla vostra colazione...

— Come volete: interruppe Marcaccio. A voi Pelone, sollecitate, e intanto svegliate un po' quel Meo che arrivi col salame e col vino.

Jacob sedette in faccia ai due operai, ed appoggiando sulla tavola i suoi gomiti stette lì cogli occhi bassi ad aspettare che gli si volgesse il discorso.

Meo sopraggiunse col vino e col salame. Marcaccio pose in mano d'Andrea per prima cosa un buon bicchiere pieno colmo.

— Bevi codesto, e alla nostra salute; anche alla vostra, Macobaro.

— Grazie, grazie mille. Vi restituisco a cento doppi gli augurii. Che voi possiate essere felici, sani e contenti, e con in tasca di buoni denari che non finiscano mai più, che la è poi la cosa principale in questo mondo.

I due operai avevano urtato insieme i loro bicchieri e tracannatone il contenuto d'un fiato.

— Voi dite proprio bene, Macobaro: soggiunse Marcaccio deponendo il bicchier vuoto sulla tavola e dando mano al tondo del salame di cui una mezza dozzina di fette fece cadere sul piatto del compagno. Voi dite bene. Aver denari in tasca, ecco il punto.... Quanto a me non mi lamento. Ho ben trovato io il modo di ricavarmela bene, senza farmi più a correggiuole la pelle, come facevo un tempo, quando ero uno sciocco qual sei tu Andrea, quando sgobbavo da mattina a sera e mangiavo pan secco... Ma gli è qui questo buon figliuolaccio d'Andrea che tira maledettamente il diavolo per la coda, e non glie ne resta mai manco un pelo tra mano... Bevi, Andrea.

E gli mesceva un altro colmo bicchier di vino.

— Io m'interesso a questo brav'uomo ed alla sua famiglia: continuava Marcaccio parlando a Jacob ed additando Andrea: io mi c'interesso con tutta l'anima. Vero come questo salame di maiale è fatto con carne di maledetta rozza!

— Ciò vi fa molto onore: disse col suo accento di piacenteria il ferravecchi; ciò mostra il vostro buon cuore.

— Sì, io ho un gran buon cuore.

Si rivolse al compagno, nel quale i bicchieri bevuti avevano già dileguata alquanto quella ripugnanza che aveva provato da principio.

— Vedi, Andrea, io vorrei vederti nelle mie stesse condizioni.... E se tu m'avessi ascoltato, a quest'ora saresti in ben altri panni da quelli in cui ora ti trovi.

— Oh sì: disse Macobaro: bisogna ascoltarlo, Marcaccio; esso è uomo che sa, che è pratico del mondo e che come si è aggiustato per bene le cose sue saprebbe aggiustar benissimo anche quelle degli amici.

Andrea, al quale il vino bevuto cominciava a dar maggiore comunicativa e più facile abbandono, scosse la testa e interruppe:

— Sì, sì: egli si è saputo aggiustar bene; ma la sua fortuna durerà finchè durerà.... Gli è per una strada che può da un momento all'altro rintopparsi coi carabinieri.

Marcaccio e Macobaro si guardarono con un ammicco di soddisfazione. Quando una coscienza, che si vuol corrompere, non ha più per tenersi nella strada della virtù la paura di fallire all'onestà, ma quella soltanto della repressione sociale, questa coscienza è molto presso a capitolare. E diffatti Andrea, che a mente tranquilla sentiva tuttavia un grande orrore alla sola idea di poter essere colpevole, quando i fumi dell'ebbrezza cominciavano ad offuscargli la mente, non discerneva più le cose sotto l'aspetto di prima e le proporzioni maggiori di ostacolo al male, le prendevano non le ragioni della virtù, ma quelle del timore del carcere.

— I carabinieri! Esclamava Marcaccio crollando la spalle; ma buonuomo che sei! si rintoppano in essi soltanto i minchioni e gli imprudenti; ora io non ti dico mica di essere nè l'uno, nè l'altro. E finchè ascolterai me, va là che non correrai nessuno di questi pericoli.

Pelone veniva loro innanzi coi piatti fumanti che Marcaccio aveva ordinati.

— Cominciamo per far ragione di questa buona roba che ci porta il nostro bravo ostiere. To', prendi e mangia e prestaci soltanto un poco di orecchia a Macobaro ed a me, che ti dimostreremo facilmente la cosa.

Pose sul piatto di Andrea un'enorme porzione e mentre il marito di Paolina si metteva ad ingollare grossi bocconi, Marcaccio continuava:

— Vedi mo, se io ho mai avuto il menomo imbroglio coi cagnotti della polizia... E Macobaro?

— Io sono un onest'uomo: esclamò con indignazione il ferravecchi.

— Ed ancor io son tale! disse Marcaccio con pari accento; e vorrei vedere chi mi venisse a sostenere il contrario.

— Siamo onesti uomini tuttidue: soggiunse Jacob con voce più insinuante che mai.

— E seguirai ad esserlo tu pure: continuò il tentatore. Insomma, te l'ho già detto tante volte e te lo ripeto: è disonesto chi leva un fazzoletto di tasca all'uomo che passa e si lascia cogliere dall'orciere; [173] ma Nariccia, per esempio, il quale ha raccolto dei milioni strozzando il suo prossimo, è onestissimo: perchè non faremmo noi i Nariccia in piccolo secondo le nostre possibilità?

Jacob Arom si chinò sul desco verso Andrea e disse a sua volta:

— Sicuro, sicuro. Il sistema di Nariccia è il vero. Non vi consiglierei mai cosa diversa. Eh corpo di bacco: tutti hanno il diritto di sfruttare le loro capacità e la loro abilità..... Voi, Andrea, per esempio, valete più d'ogni altro in una cosa.....

— Sì, nell'opera del ferraio: soggiunse Marcaccio. Non c'è chi ti bagni il naso, Andrea, nel far, per esempio, una chiave, nell'aprire una serratura.

— Bene, ripigliava il ferravecchi. Voi fate parte d'una frotta di amici che si dividono il lavoro; voi fate una chiave, non sapete nemmanco a che cosa servirà, a che serratura andrà, ma sapete che verrà utile a quei vostri amici, con cui vi siete collegato. Questi vostri amici ve ne ricompensano con una parte che vi danno od in numerario, od anco in oggetti..... Il numerario, bene: ve lo mettete in tasca, gli oggetti, vi recate per esempio da me, per venderli; io ve ne do tutto quello che si può dare onestamente di denaro — sono segreto come una tomba — mai più nessuno non saprà niente.

Andrea che cominciava già a sentirsi il cervello in ciampanelle per le frequenti libazioni a cui lo aveva sollecitato Marcaccio, pur tuttavia scosse ancora la testa.

— Nessuno saprà niente, ma lo saprò io..... E come oserei ancora sollevare lo sguardo in faccia a mia moglie?

— Ci siamo colla moglie adesso! esclamò Marcaccio con ischerno. Vuoi che ti ripeta anche una volta che sei un bambolone che ti lasci menar pel naso dalla donna.

Ma il ferravecchi colla sua voce insinuante e piaggiatrice entrò in mezzo.

— Il buon Andrea ha ragione. La buona moglie, lo dicono i proverbi di Salomone, è una ricchezza che vi concede l'Eterno. Nessuno più di me apprezza e rispetta la vita della famiglia..... Aimè! Mi ricordo come ho vissuto in pace, concordia ed amore colla mia Giuditta che mi ha fatto felice per tanto tempo, e mi ha lasciato morendo il prezioso regalo d'una figliuola, un tardo fiore nella mia vecchiaia. Ma come la donna deve essere sottoposta all'uomo, e Dio l'ha creata da una costola d'Adamo appunto per indicare insieme e che ci deva essere cara come cosa nostra, e che ci è dipendente ed inferiore; così la donna, dei consigli e delle opere dell'uomo deve sapere quel tanto solamente che alla prudenza dell'uomo apparisca opportuno di dirle. La moglie ha il governo delle cose domestiche, ma subordinato all'alta direzione del marito. Ella spendere e provvedere per la famiglia; lui procurargliene i mezzi e non lasciare che i dispendi eccedano. Ma quando l'uomo dia alla massaia i mezzi necessarii e non lasciandole mancar nulla di quanto occorre, secondo i proprii bisogni e condizioni, la donna non ha diritto di saper di più d'onde questi mezzi egli li tragga, e l'uomo farà benissimo a tacerli; quando il parlare possa nuocere o soltanto destare in qualche modo susurri in casa.

Jacob venne interrotto da Maddalena, la quale ad un tratto venne fuori dalla stanza dell'uscio a vetri.

— Ah ah! sei qui furfantella: esclamò Marcaccio tra scherzoso e tra irritato. Oramai ti fai più preziosa tu d'una regina, principessa da lavandino... Vieni a sederti qui presso a noi, biricchina, ed onoraci col bere un gotto di vino in nostra compagnia.

Maddalena crollò le spalle con atto d'impertinente impazienza.

— Voi mi seccate, Marcaccio. Ho altro da fare che andarmi a sedere vicino a voi, e bere in vostra compagnia non ne ho punto voglia il meno del mondo.

— Oh superbiaccia d'una superbiaccia! Rimbeccò il compagno d'Andrea. Tu ti abusi della protezione di quel tale. Ma per la barba di mastro Impicca, un giorno o l'altro egli ti darà un calcio e ti manderà fuor de' suoi piedi come uno straccio frusto, ed allora vedremo che cosa avrai fatto della tua superbia, e se darai ancora di queste risposte alla brava gente che ti ripagherà del tuo presente orgoglio.

La fante volse a Marcaccio uno sguardo ed un sogghigno pieni di fiele:

— Vorreste che ripetessi le vostre parole a quel tale?

— Ripetile al diavolo che ti porti: gridò in furia Marcaccio.

Pelone, che era presente, intromise la sua parola e disse colla solita voce cavernosa:

— Lasciamo questi inutili discorsi..... Tu Maddalena va alle tue bisogne, e voi Marcaccio non fatemi arrabbiare questa brava giovane che non conviene nè a voi, nè a me.

Marcaccio, come per mandar giù la bizza, bevette di un tratto un colmo bicchier di vino e poi riprese a masticare con furore i grossi bocconi.

Macobaro, disse Maddalena, toccando sulla spalla il vecchio ebreo, udite un po' qua una parola.

Jacob si alzò con premura, e fattosi in là di alcuni passi colla giovane, udì da questa che il medichino lo aspettava in Cafarnao fra un'ora.

— Va bene, rispose, non mi muovo più di qua, e quando sia tempo ci sarò senza fallo.

La fante scese giù per la botola nelle stanze sotterranee; colà trovò Meo coi suoi occhi di vetro fuori della testa più ancora del solito.

— Maddalena, Maddalena: diss'egli tremando [174] della voce e di tutte le membra: io vi voglio..... sì vi voglio bene..... un gran bene, e voi.....

La figura del bietolone apparve alla giovane, ed era così ridicola, che ella ruppe in una gran risata.

— Ah Meo! esclamò essa fra gli scoppi di risa. Se vedeste come siete bello in questo momento!

Il povero sciocco si pose a tremare più ancora di prima; agitò le labbra come per parlare, ma non seppe farne uscire suono nessuno; si sferrò dal luogo in cui era, e salì la scala a chiocciola inciampando nei gradini come uomo ebbro.

— Ah quel medichino! Diceva egli fra sè. Potessi vederlo impiccato! Potessi vederlo impiccato!

CAPITOLO XXVI.

Frattanto Jacob Arom era tornato a sedersi al desco a cui mangiavano Andrea e Marcaccio, Pelone s'era posto ancor egli poco lontano come un uditore disinteressato, e il discorso di prima aveva ripreso il suo cammino.

— Tu dunque, diceva Marcaccio, continui sempre nella pazza idea di poter trovare del lavoro che basti alla tua famiglia? Bel gusto quello di frustarsi la pelle per avere un pane stentato; ma via passi ancora, se ciò fosse possibile. Ma il lavoro è cosa troppo incerta; oggi v'è e domani non v'è più: e poi quando si è entrati una volta in quella strada in cui ci troviamo noi, cioè quando uno si è fatto cacciare di qua e di là per buona o cattiva ragione, non importa, e' non ne trova più di lavoro, o non lo trova per lungo tempo. Hai già provato a cercarne?

— Sì.... Anche stamattina mia moglie ne ha domandato all'officina Benda.

— E si rispose?

— Un corno.

— Vedi!

— Ah! il signor Benda non doveva far così: proruppe con ira Andrea vieppiù sempre eccitato dalla crescente ebbrezza. Egli mi ha conosciuto buon operaio, esso doveva credere ch'io sarei tornato quel di prima, egli avrebbe dovuto aver compassione di me.

— Compassione!... Forse che quella gente sa che cosa sia aver compassione pel povero operaio? I padroni sono tutti birboni che sfruttano i lavoranti, che levan loro la pelle, e quando torna li gettano nella miseria a crepare, mentre essi coi sudori di questi sciocchi si sono arricchiti.... Sì, sciocchi, perchè siamo noi che rimanendo straccioni li facciamo andar loro in carrozza. Ma pel signor Benda e pei pari suoi, verrà fors'anco il giorno di farla pagare: e tu potrai avere eziandio questo gusto.... Il vero è che tutti i ricchi si sono fatti tali col sudore e col sangue del povero; il vero è che tutto ciò che possedono essi di troppo lo hanno rubato a noi che manchiamo del necessario; il vero è che noi prendendone a loro non facciamo che ricuperare una menoma parte di quello che ci viene.

— È giusto, è giusto: appoggiava Macobaro.

— Oh! i ricchi, io li odio tutti: esclamava con feroce esplosione Marcaccio. Sono tutti birboni. Tutti quelli che stanno al di sopra di noi vorrei vederli gettati nel fango al di sotto ancora dei nostri piedi....

— Avete ragione: diceva il vecchio ebreo, i cui occhi lucevano d'una fiamma d'odio pari a quella che accresceva il bagliore dell'ebbrezza nello sguardo sanguinario di Marcaccio.

Ma il prudente Pelone credette opportuno di mettere un po' d'acqua su quelle fiamme.

— Ssst! Diss'egli. Queste cose non si devono blaterare.... e sopratutto così forte! Se qualcheduno vi udisse!...

— Eh! qui non vi è nessuno di troppo, mi pare.

Andrea protestò a sua volta.

— Non è vero che tutti i ricchi sieno birboni... Il marchese di Baldissero e la sua nipote sono fior di persone caritatevoli. Ella stessa, la marchesina, è venuta questa mane da noi a recarci soccorsi... Ed anco la famiglia Benda... non dico di lui, del principale... Egli è sempre stato un galantuomo, non lo nego, ma a non volermi più ammettere nei suoi laboratorii me ne ha fatto una grossa... lui, ve l'abbandono, via... ciò non toglie che sua moglie e sua figlia sieno brave persone con tanto di cuore... Insomma fra gli uni e gli altri, me quest'oggi hanno rifornito di denaro così bene che potrò pagare l'affitto e vivere un po' di tempo. Intanto il lavoro verrà...

— Illusioni, illusioni! esclamò Marcaccio. Il lavoro ti ho già detto che non lo troverai; finito quel poco di denaro sarai alla disperazione come prima, e credi tu che vi saranno sempre i generosi che te ne vogliano dare dell'altro per la tua bella cera?

— Gli è ben meglio procurarcelo da noi con una piccola opera: disse Macobaro con voce tanto bassa che pareva un susurro: l'opera, per esempio, di fare un paio di chiavi sull'impronta della cera.

Andrea guardò il vecchio con occhi stralunati.

— E questa impronta? Diss'egli quasi involontariamente, quasi non sapendo che cosa dicesse.

— Ah! non avreste da procurarvela voi nemmanco: soggiunse vivamente il ferravecchi. Vi sarebbe fornita da altri.

Andrea appoggiò i due gomiti sulla tavola e sostenne colle mani la faccia. Sentiva la testa girargli sempre più.

— E le chiavi ch'io farei aprirebbero i forzieri di Nariccia? Domandò egli.

— Questo voi non avreste manco da saperlo: disse Jacob.

[175] Ma il compagno d'Andrea con brusca uscita:

— Ebben sì, proruppe, a che nascondergli la verità? Si tratta di aprire i forzieri di quello scellerato.

Si curvò sulla tavola ed abbassò la voce. Le teste di quei tre uomini chine al di sopra delle vivande consumate si toccavano quasi.

— E' son pieni riboccanti di oro! Pensa Andrea!... I marenghini a sacchi!!... Tutta quella roba nostra; tutta poterla afferrare colle nostre mani!... Mai più miseria, mai più freddo, mai più fame!... Si prende tutto e si scappa...

— Si scappa: ripetè Andrea con voce bassa ugualmente: e la famiglia?

— Si scappa anche con lei.

Il marito di Paolina pose la testa nelle mani e stette un poco tenendovela così stretta con forza: il suo buon genio la vinse ancora in quella lotta della tentazione.

— No, no: proruppe egli tentennando violentemente la testa. Non sarò io mai che farò una cosa simile.

Un lampo d'ira vivissima passò negli occhi di Marcaccio.

— Uh! l'imbecille: gridò egli serrando il pugno.

Ma Jacob gli pose pianamente una mano sul braccio a contenerlo:

— Udite una parola: diss'egli alzandosi.

Marcaccio s'alzò egli pure e tenne dietro al ferravecchi nel mazzo della stanza.

— Conviene ch'io vada dal medichino che m'aspetta: disse Macobaro; ma voi ponete in pratica questo consiglio; bisogna spogliare fin dell'ultimo soldo che ha questo babbeo. Quando sarà di nuovo all'asciutto darà più facilmente retta alle vostre parole... E per sciugargli in un momento le tasche non avete bisogno che d'una pinta di più e di un mazzo di carte.

— Avete ragione: rispose Marcaccio. Andate là che fra un'ora io l'ho pelato di tutto.

Macobaro sgusciò nel camerino, Marcaccio tornò alla tavola a cui seduto Andrea continuava a tenersi stretta colle mani la testa.

— Ebbene, disse Marcaccio ad Andrea sedutogli presso di nuovo, a che cosa pensi?

— Penso che se potessi diventar ricco onestamente, sì che lo farei volentieri.

— Sei un ragazzo. Quando si è ricchi che sì che ci fa il modo con cui si è diventato tale!... E poi che cos'è la ricchezza guadagnata onestamente? Sai tu dirmelo?

— Per Dio! È la ricchezza che si acquista col proprio lavoro.

— Baje! Nariccia facendo lo strozzino ha pur lavorato; chi può dire quella di lui una ricchezza onesta? Lavora anche colui che avventura la vita e la libertà per iscassinare una porta e giunger là dove c'è quel denaro che egli non può procurarsi, che a lui non danno ereditate fortune. E il giuoco? È esso un lavoro? No, eppure se uno guadagna un quaterno al lotto o si fa ricco mercè vincite alle carte, non ci si ha da ridire.

Prese nelle sue tasche una manciata di monete e la pose sulla tavola.

— To': qui in mezzo a noi due io metto un mucchio di questi rotondini che dànno a chi li possiede ogni ben di Dio: tu ne metti altrettanto: e diciamo fra noi che prenderà il mucchio intiero quello che sarà favorito dalla fortuna delle carte. Tu vinci; intaschi tutto, raddoppii il tuo denaro, e se alcuno viene a dirti che quel denaro non è tuo onestamente, tu gli dài il togliti di lì con un manrovescio che gli fa veder le stelle; ed hai tutte le ragioni del mondo.

Andrea guardava con occhio che cominciava ad essere cupido le monete che il suo compagno aveva poste sul desco e che si compiaceva di maneggiare e di far suonare.

— Il giuoco: diceva egli frattanto con voce ed aspetto sempre più da ebbro. Ah! il giuoco è un traditore anche lui. Vi lusinga, v'invita, vi adesca... e poi ad un tratto, patatrach, vi atterra colle tasche asciutte.

— Eh via! Tu lo calunnii. Uno dei giuocatori bisogna pur sempre che guadagni... Perchè non avresti ad esser tu quel desso?

— Io no. Conviene essere fortunati; ed io non ho fortuna di sorta. Ho la disgrazia che mi perseguita, come se fossi figliuolo della versiera.

— Codeste sono bambinate, son pregiudizi che bisogna lasciare alle femminelle. Un uomo come sei tu, corpo del diavolo non dovrebbe manco dirle tali cose... Dà retta. Giusto per passare un po' di tempo... E dove si avrebbe da andare? Nevica, fa freddo, e battere il selciato delle strade è un misero divertimento...

— Dovrei andare a casa: mormorò sommessamente il disgraziato.

— A casa? Rimbeccò il birbo compagno. Se non ne sei venuto via che adesso! Vuoi piantarti colà, sempre cucito alle sottane di tua moglie? Qui stiamo al caldo e senza seccature. Ci facciamo portare ancora una pinta da mastro Pelone... — Ehi? Avete udito compare? Un'altra pinta di questo.

— Subito: disse Pelone alzandosi e movendo colla sua solita andatura verso il banco, dove erano schierate parecchie bottiglie della misura domandata.

— E ci date anche le carte: soggiunse Marcaccio.

— Va bene: rispose l'oste.

— No, no: disse Andrea, ma con una riluttanza debole e rimessa: non voglio giuocare.

— Lascia un po'. Giuocheremo una cosa da nulla, tanto per passare il tempo... Tu oggi mi hai tutta l'aria di essere in vena di guadagno.

— Io? Non lo sono mai.

— Ebben vediamo.

[176] L'oste, aiutato dal garzone, sbarazzò la tavola dei resti della loro colazione, stese su di essa uno sporco tappeto e depose al capo del desco verso la parete il fiasco, in mezzo un mazzo di carte unte e bisunte come il tappeto.

Cominciarono a giuocare di poco, e le carte non per l'opera della fortuna, ma per l'abilità di Marcaccio furono favorevolissime ad Andrea. La pinta intanto veniva consumandosi, e l'ebbrezza, aumentando nel marito di Paolina, ne riscaldava vieppiù la suscitata passione del giuoco. Si accrebbero le poste, e Marcaccio, simulando il rabbioso ed il disperato, aveva già perso cotanto che s'era proprio raddoppiato il peculio del suo avversario. Ma ad un punto, ecco che la fortuna comincia a girare. Qualche piccola perdita s'avvicenda ai successi di Andrea: le perdite spesseggiano e le vincite diminuiscono; poi queste cessano del tutto. La vicenda è perfettamente scambiata. Marcaccio guadagna ogni giuocata e Andrea le perde tutte; tanto bene che dopo due ore egli si trova senza nemmeno più un quattrino nelle tasche.

A questo punto, quando con una fiera bestemmia egli inveiva contro Marcaccio che l'aveva ridotto a tale, entrò opportuno Graffigna che aveva visto la moglie e i figli d'Andrea cacciati nella strada alla neve che cadeva, al gelo che assiderava.

Graffigna non conosceva di persona il marito di Paolina, come non n'era conosciuto; ma dietro le informazioni di Marcaccio, avendo egli commesso a quest'ultimo che quella stessa mattina cercasse di vincere le ripugnanze del fabbro ferraio, non dubitò punto che il compagno di Marcaccio non fosse l'uomo in quistione. Andò egli a sedere al tavolino più prossimo a quello occupato dai due giuocatori, e contentatosi di fare un saluto indifferente al compagno di Andrea, disse all'oste:

— Compare Pelone, portatemi un quartino di buona barbèra, che mi rimetta un po' lo stomaco. Ho assistito adess'adesso venendo qui ad un fatto che mi ha stretto il cuore e rovesciata l'anima.

— Che fatto? Domandò Marcaccio.

Graffigna raccontò semplicemente ciò che aveva visto nella casa di Nariccia.

Andrea sorse di scatto, tremante tutte le membra, gli occhi che schizzavan fuoco.

— Nella casa di Nariccia! Esclamò egli con un ruggito. Una donna malata! Quattro bambini!... E non sapete voi il loro nome?...

— Non so bene: rispose tutto pacato Graffigna. Ho sentito dire che il padre di quei poveretti era un fabbro ferraio, un certo Andrea....

Questi urlò una tremenda maledizione.

— Mia moglie!... I miei figli!...

Il colpo fu tanto forte che cadde sulla panca quasi esanime. Marcaccio gli fu intorno con un bicchiere di vino per riconfortarlo.

— Lasciami, lasciami: disse il povero ebbro allontanando da sè il bicchiere. Oh! lo scellerato; oh! l'infame. I miei figli, la mia donna malata, egli ha avuto cuore.... Ma l'ucciderò quell'uomo, sì l'ucciderò quel mostro, con queste mani....

— No, no, non dir codesto: susurrava Marcaccio con falsa pietà.

— Sì, sì, urlava più forte il disgraziato. Voglio vendicarmi. Oh credi tu che non mi abbia da vendicare?

— Sì, certo; e voglio anzi aiutarti nell'impresa.

Graffigna venne a ficcare in mezzo il suo muso appuntato da faina.

— Questo è un amico, innanzi a cui possiamo discorrere: soggiunse Marcaccio per rassicurare Andrea, il quale nella passione dell'animo in cui era, non pensava nemmanco a diffidar di nessuno. — Or bene, ti dico che ci abbiamo un modo assai più acconcio di vendicarti di quel birbante che ti assassina la famiglia.

— Che modo?

— Entrargli in casa e portargli via tutti i suoi tesori.

Andrea parve riflettere un momento; si passò due o tre volte la destra sulla fronte, poi proruppe con impeto:

— Ebben sì... Sono il vostro uomo... Voi avete le impronte di cera delle serrature?

— Le abbiamo: disse sollecito e piano Graffigna colla sua voce sottile.

— Avete un luogo dov'io potrei lavorare?

— Un luogo segretissimo; rispose ancora Graffigna, dove v'introdurremo cogli occhi bendati.

— Io vi farò le chiavi... E le adopreremo?

— Fra pochi giorni.

— Va bene... Ei l'ha voluto!... Ora lasciatemi correre da mia moglie e dai figli miei.

— Un generoso signore che io conosco — disse Graffigna — ha fatto ricoverar la donna all'ospedale e i bambini all'asilo.... Marcaccio, tu accompagna il nostro buon Andrea, e quando avrà visto moglie e figli, conducilo ove tu sai per la bottega di Baciccia. Io sarò là ad aspettarvi.

Andrea, penetrato nell'ospedale, trovò la moglie in preda al delirio, la quale perciò non potè riconoscerlo; trovò i bambini sbalorditi, spaurati, piangenti. Quando raggiunse Marcaccio, che lo attendeva fuor della porta dell'asilo, la fisionomia di Andrea era più cupa che mai; la fiera risoluzione nell'animo suo era irrevocabile.

Quella stessa sera la cocca possedeva un addetto di più ed aveva in suo potere le chiavi che aprivano la porta d'ingresso e gli usci interni del quartiere di Nariccia.

Fine della 2ª Parte

NOTE:

1.  Vedi I Derelitti, capitolo VII.

2.  Vedi la prima parte, capitolo IX.

3.  Di questo ferravecchi ebreo, del quale alcuni dei miei lettori meno giovani ricorderanno forse la figura originale e la tragica fine, il vero nome era Jacob Aron; ma il popolo torinese, per somiglianza di suono, usava scherzevolmente chiamarlo Macobaro, che nel dialetto piemontese significa quell'insetto coleottero lungicorne che manda odor di rosa. Nen-da-vend (niente da vendere) è il grido usato dai ferravecchi ebrei; e il popolo ne ha fatto il nome di que' mestieranti.

4.  Nella descrizione di codesti luoghi non sarò molto preciso per evitare che si attribuisca a questa od a quella casa il teatro delle scene che sto per narrare: — vere pur troppo in gran parte.

5.  Credo superfluo notare che l'epoca di questo racconto è antecedente alla così detta emancipazione degli ebrei, allora quando l'ingiusto rigore delle disposizioni legislative s'univa coi rancori popolari e coi pregiudizi religiosi a fare agli israeliti una esistenza quasi in balìa dell'arbitrio amministrativo e della prepotenza dei privati. Dopo il 1818 nel nostro Piemonte, fatte giuste a tal riguardo le leggi, scomparvero del tutto anche le ingiustizie e i pregiudizi del volgo.

6.  Abbiam visto che questa era stata causa, onde Tofi interrompesse l'interrogatorio di Maurilio.

7.  Le avventure di Romualdo ho narrate nel Novelliere Contemporaneo.

8.  Quest'episodio è affatto storico. Buona parte dei miei lettori lo ricorderà tuttavia.

9.  Bellissimo è a leggersi in proposito il libro di Michelet La Strega.

10.  Ciò disse il Leibnitz.

11.  Dante, Purg., c. XVI.

12.  È credenza oramai volgare che il corpo umano si rinnovelli affatto nel periodo di sette anni; ma recenti lavori di accurati fisiologisti hanno considerevolmente accorciato questo periodo. Secondo Moleschott, ed altri, il corpo rinnova la maggior parte della sua sostanza in uno spazio di tempo da 20 a 30 giorni.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (oblio/oblìo, San Luca/San-Luca e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.