Title: Donne, salotti e costumi
Author: Ferdinando Martini
Release date: July 9, 2013 [eBook #43173]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
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LA
VITA ITALIANA
DURANTE LA
Rivoluzione francese e l'Impero
Conferenze tenute a Firenze nel 1896
DA
Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1897.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
Una sera del maggio 1810, Alfonso di Lamartine, appena diciannovenne, in una diligenza sconquassata e seduto accanto al cocchiere, entrava per la porta San Gallo in Firenze. Poco innanzi, sua madre assestando la camera di lui aveva trovato una rosa appassita, delicatamente avvolta in un pezzo di mussolina, e dei versi:
Ah! repose à jamais dans ce sein qui t'abrite
Rose, qui mourus sous ses pas,
Et compte sur ce cœur combien de fois palpite
Un rêve qui ne mourra pas!
Un sogno che non morrà! Esperta che a' sogni di quella specie, in quell'età vaticinati immortali, è quasi sempre, invece, micidiale il mutamento di clima, la signora di Lamartine mandò sogno e figliuolo a viaggiare per l'Italia; il figliuolo si fece più sano e robusto che mai, il sogno lo uccisero le prime acute brezze dell'Alpi; ora per gli orti fiorenti sulle estreme pendici dell'Appennino, inutilmente le rose sporgevano di là dalle siepi le corolle fragranti: nello approssimarsi alla città di Dante e di Michelangelo il giovinetto poeta non cercava col guardo, non vedeva più che gli [340] allori. Andava fresco della lettura dei grandissimi fra' nostri scrittori, nella città che era già per lui la città degli incanti e delle memorie; vi andava con fantasia accesa così, che nel tragitto dalla porta San Gallo alla locanda di Parione ove lo condusse il suo automedonte, si figurò scorgere fontane zampillanti che non ci sono mai state; e perchè tra le fandonie di non so qual libro di viaggi aveva imparata anche questa: che i soffitti delle case a Firenze si costruiscono con legno di cedro, gli parve olezzassero del profumo dei cedri tutte quante le strade.
Que' miraggi vanirono; ma innanzi agli occhi stupefatti, sfolgorarono in splendori sempre più fulgidi le luci della storia e dell'arte. Il Lamartine era partito dalla Francia con molte e ragguardevoli commendatizie; dopo brevi ore di soggiorno a Firenze, deliberato a vivere co' morti soltanto, s'era proposto di non recapitarne veruna. Se non che, letto sul sepolcro dell'Alfieri innanzi al quale, secondo egli scrive, sentì sorgere nell'anima il primo desiderio di fama; sul sepolcro dell'Alfieri letto il nome della contessa d'Albany, pensò che aveva una lettera anche per lei: quella, quella sola e subito lo punse una impaziente bramosia di consegnarla. E uscì da Santa Croce, già smanioso di conoscere la donna che l'Alfieri aveva fatta compagna della propria [341] vita e quasi partecipe della propria gloria; di penetrare in quel salotto, celebre oltre i confini d'Italia, in cui certo sbocciavano le più argute originalità del pensiero fra le più briose eleganze della parola.
Ahimè! donna e salotto gli preparavano un disinganno per uno.
La contessa aveva allora cinquantotto anni; che nulla nell'aspetto di lei ricordasse, per dirla col Lamartine, la regina d'un cuore s'intende; ma egli soggiunge: e neanche la regina di un impero; parole che, pur velando il rammarico di solennità, esprimono intorno alla d'Albany il pensiero medesimo del Chateaubriand, cui ella parve “volgare nel portamento e nella fisonomia„; del duca di Broglie che la giudicò une veritable commère, e del Capponi che la disse “di forme massiccia, d'animo materialotta, vestita come una lavandaia„. Il salotto lasciamo che il Lamartine lo descriva da sè: “Dopo pranzo entrammo nella stanza di conversazione, ove intorno alla contessa s'adunava seralmente una schiera di uomini illustri o nati a Firenze o a Firenze venuti dalle diverse regioni d'Italia. Ascoltavo con curioso raccoglimento i nomi loro, via via che il servitore andava annunziandoli: nomi di famiglie che le storie mi avevano insegnato a conoscere, nomi di professori e di letterati [342] ancor nuovi per me. A mano a mano che costoro entravano, andavano a sedersi in semicerchio, intorno ad un tavolino carico di volumi accatastativi sopra, e dietro al quale se ne stava la contessa mezza sdraiata sopra un canapè.„
Già quel tavolino, quella catasta di libri, quel semicerchio dicono abbastanza; ma il Lamartine dice ancor più. Egli, disposto a veder tutto bello, tenta in sulle prime dissimulare e dissimularsi la delusione che gli toccò: ripensando gli scrittori e gli artisti ch'egli udì ricordare in quel convegno, presso alla camera ove l'Alfieri era morto (a cominciare dal Rinascimento e giù giù fino al Parini ed al Monti) esce in un inno al genio italiano “pianta la quale vegeta, come i rovi del Colosseo, più che ne' solchi, vivace fra le ruine„. Ma quando siamo allo stringere, quando egli vuole schiettamente confessare agli altri ed a sè le proprie impressioni, allora gli viene importunamente spontanea sotto la penna, la più titubante parola del vocabolario: il però. Però, a ben considerare, di che si discorse quella sera, in quella stanza, da que' gentiluomini, da que' professori, da que' letterati? Di un argomento unico, quasi proposto alla gara di erudizioni ingegnose e vane per giunta; delle ragioni, cioè, di preminenza letteraria o artistica che l'una città d'Italia poteva vantare in paragone delle rivali. [343] Dissertazioni, non conversazioni; gelidi colloqui di defunti, non dialoghi attraenti di vivi. Che salotti? Oramai egli non si perita più di chiamare le cose col vero nome: quella non era altro che un'accademia. Ugo Foscolo non dà diverso giudizio: in quel crocchio, egli scrive, io mi sto muto e freddo come la sedia che opprimo.
Ben diverse dalle riunioni nella casa del Lungarno a Firenze, le riunioni nel palazzo di Via Montparnasse a Parigi, dove la contessa abitò dal 1788 al 1791; e alle quali intervenivano, per tacer d'altri moltissimi, e il Mercy d'Argenteau, e il Montmorin, e il Necker e Giuseppina Beauharnais e gli Stael moglie e marito, e i Boufflers madre e figlio, e il Cherubini radioso pe' felici successi della sua Lodoiska e il Beaumarchais prossimo a dar l'ultima mano alla sua Madre colpevole; della quale, compiuta che sia, offrirà le primizie alla D'Albany e agli amici di lei. Ma Parigi era Parigi; e se il Lamartine si figurò di trovare a Firenze nel 1810 un salotto, il quale rivaleggiasse coi francesi del secolo innanzi e ond'egli forse aveva udito a casa narrar meraviglie, fu il suo errore tale, che soli valgono a scusarlo la recente dimora e gli anticipati entusiasmi.
Io non parlo, badiamo, de' salotti parigini nei quali si lavorava a scavalcare o a tenere in sella un ministro, e la conversazione era, più che altro, [344] una scusa: di quelli, per citare due soli ad esempio e non dei più celebri, della marchesa di Lambert sotto la reggenza e della duchessa di Grammont durante il regno di Luigi XV. In Francia il Molière, versificando una sentenza di Giovanni V duca di Bretagna, affermò che una donna ne sa abbastanza quando è capace di distinguere una giacchetta da un paio di calzoni; e lasciò intendere che una delle poche occupazioni dicevoli alla più bella metà del genere umano era appunto il cucire o rammendare calzoni e giacchette. Ma le francesi degli alti ceti a tanta esiguità di nozioni, a tanta placidità di uffici non si rassegnarono mai; e così prima come dopo gli ammonimenti del gran comico, ambirono a governare lo Stato, e quando governare non potevano, si adoperarono a sconvolgerlo; e invece di filare, com'egli avrebbe desiderato, dettero del filo a torcere ai ministri e ai luogotenenti generali della polizia. “Beati voialtri spagnuoli„, diceva il Mazarino a don Luiz de Haro, intanto che insieme imbastivano la pace de' Pirenei. “Beati voialtri spagnuoli. In Spagna le donne si contentano d'essere galanti o devote, obbediscono all'amante o al confessore; da noi pretendono di spoliticare e si arrogano di comandare anche al Re.„ E se il Mazarino credè che debellata la Fronda, la Chevreuse sottomessa, [345] la Longueville esule in Olanda sarebbero stati alle donne in Francia esempi di efficacia durevole, ognun sa di quanto ei s'ingannasse. Il secolo seguente vide, nato da poco, la Maintenon spaventare la devozione di Luigi XIV e ottenere più dura la persecuzione de' giansenisti; e lei morta appena, per cinquant'anni segnatamente, dal 1720 al 1770, dal giorno cioè in cui l'abate Dubois entrò nella diocesi di Cambrai a riposare il corpo logoro dagli stravizi sulla cattedra onorata dal Fénélon, sino al giorno in cui il duca di Choiseul andò confinato nel castello di Chanteloup; trionfi e catastrofi di ministri e di cortigiani furono opere femminili. Le donne, nota il Montesquieu, formano una vera repubblica, uno Stato nello Stato, i cui cittadini operosissimi si aiutano di servizi reciproci; e chi dimorando a Versailles, o a Parigi, o in provincia mira affaccendarsi ministri, magistrati, prelati e non conosce le donne che li sospingono, è da paragonarsi a chi vegga agire una macchina, senza sapere per quali congegni si muova. È una donna, M.me de Tencin, quella che suggerisce ad un'altra donna, la Chateauroux, il più felice pensiero del nuovo regno, la presenza del re alla guerra di Fiandra; è una donna, la Pompadour, quella che conduce la Francia all'alleanza austriaca e alla guerra dei sette anni; più tardi la Tallien [346] preparerà Termidoro, e dopo Termidoro la Stael impedirà la ristorazione della monarchia. Salvo brevi intervalli, in Francia nel secolo passato, come altri avvertì, la donna è la sommità onde tutto discende, il modello su cui tutto si foggia, la sorgente onde sgorgano rapide fortune e sciagure improvvise. Essa dispone del danaro pubblico e del sangue de' soldati, regola la politica estera, l'interna, la militare; scrive note diplomatiche, fa sottoscrivere lettere d'imprigionamento, invia piani di guerra a' quartieri generali e si serve de' finti nèi rimasti sulla toilette per indicare le posizioni dei reggimenti: essa è, in breve, il principio che governa, la volontà che dirige, la voce che comanda.
Diverse, troppo diverse le nostre dalle condizioni della Francia in quel tempo: e perciò non fu in Italia salotto, che avesse pur l'ombra dell'importanza politica cui parecchi de' Francesi pervennero. Ma neppure salotti di più geniale natura potevano nel secolo scorso non che fiorire attecchire in Italia, da pareggiare quelli che furono scuola e norma della colta, arguta, disinvolta garbatezza francese; dei quali sir Nathaniel Wraxall scriveva che vi si era perfezionata la più utile e gradevole delle arti, l'arte del conversare: e il Talleyrand che chi non aveva frequentato que' ritrovi non conosceva il [347] più dolce de' godimenti dello spirito: salotti ove chiedevano in grazia d'essere accolti gli ambasciatori subito dopo la presentazione a Versailles, i sovrani appena giunti a Parigi.
In Italia, al fiorire, anzi al sorgere di ritrovi altrettali troppi impedimenti si opposero: il generale costume, quando non la scarsità la qualità della coltura, finalmente e principalmente le donne.
Perchè è tempo di ben determinare il significato delle parole: quando si dice salotto si sottintende padrona di casa: dov'essa manchi, voi potete sì adunare in una stanza quanti uomini vi piaccia spiritosi insieme e eruditi (se pur la combinazione è possibile) e piacevoli e originali conversatori e novellatori: e quello sarà un circolo, un consesso, un areopago, un Olimpo, ma un salotto no. In Italia le padrone di casa mancarono; onde pochi i salotti e tali che il Lamartine li definì tutti quanti, allorchè, ricordando la D'Albany e gli ospiti suoi scrisse: non salotto, accademia.
Prima della rivoluzione la borghesia ha poca voce in capitolo: quali i costumi, la coltura delle signore italiane, quali le occupazioni loro? Se con la guida de' carteggi e dei libri di Memorie che ci rimangono di quel tempo, si percorra la penisola in lungo ed in largo, dal più al meno [348] le occupazioni loro son le medesime dappertutto: giuoco, teatri, pettegolezzi, cicisbei.... o peggio. A Napoli più teatro, più pettegolezzi che altrove, meno giuoco e pochissimi cicisbei. Ma non c'è da rallegrarsene: poco limbo, più inferno. Io non riferirò qui ciò che delle signore napoletane scrisse il Berenger, incaricato di Francia a Napoli nel 1770: lascerò che una donna, una saggia donna, la signora di Saussure racconti lei aneddoti, che danno di que' costumi una chiarissima idea. Un giorno la signora di Saussure va in casa della principessa di Belmonte a veder passare una processione; tornatane scrive: “Spettacolo più nuovo assai era il contegno delle signore che mi erano accanto su quella terrazza, e ch'io trovavo ogni giorno ora in una casa ora in un'altra. Quando riconoscevano nella processione un dei loro amanti — “Ah!„ gridavano — “ecco il tuo innamorato! Ecco, il mio! Ah! come è bello! Gioia mia, che Dio ti benedica!„ e un ammiccare continuo dalla strada alla terrazza, dalla terrazza alla strada, e grida e saluti e scoppi di risa.„ — Nè la scostumatezza, cinica così da parere inconsapevole, si fermava alla porta del palazzo reale. La principessa di Pietra Perzia diceva alla Regina: “Io voglio un amante e Vostra Maestà me lo ha da scegliere lei stessa,„ e l'altra: “Va bene, va bene figlia mia, ve lo sceglierò io.„
[349] C'era, come ognun vede, poco posto per i salotti: occupavano troppo spazio le alcove. E se un'artista, la Vigée-Lebrun, fuggendo la compagnia di donne che l'Hamilton qualifica, senza ambagi, ignoranti, vorrà a Napoli frequentare chi non parli di mode, d'amore e di scandali, le sarà giocoforza bussare alla porta di altri forestieri: o della contessa Scawronska, moglie del ministro di Russia o del principe di Rohan ambasciatore dell'ordine di Malta, o di lady Orford, o della bellissima duchessa di Fleury, peccatrice emula delle napoletane, ma peccatrice fantasticante e passionata, romantica prima del romanticismo; nella consuetudine del conversare squisito addestrata così nel proprio salotto alle scherme dialogiche, da rintuzzare con arguzia signorile una triviale impertinenza di Napoleone. Rifugiatasi in Italia durante il Terrore, ella tornò ne' primi anni dell'impero in Francia, dove le sue avventure (altrettante sventure) eran note; e imbattutasi un giorno in Napoleone, questi così la interrogò a bruciapelo:
— “Aimez vous toujours les hommes?„
E la duchessa: — “Oui, Sire, quand ils sont polis.„
A Roma, molte le case aperte, come suol dirsi, a giorno fisso: de' Barberini, de' Cesarini, de' Patrizi, degli Altieri, de' Borghese, de' Santacroce, [350] de' Rezzonico, de' Bolognetti. Livree fiammanti, rinfreschi sontuosi, statue stupende in ogni angolo, quadri stupendi per ogni parete. Ma accanto a una statua greca un tavolino di tresette, sotto a una Vergine di Raffaello un tavolino di tarocchi o di minchiate o di faraone, perchè si giuoca sfrenatamente a ogni sorta di giuochi. Fra un tavolino e l'altro, ingombro di abati intraprendenti, fra una partita e l'altra chiacchiere e maldicenze. Se qualche forestiero vi capita capace di increspare quella gora con aliti intellettuali, nessuno gli bada, così almeno afferma il Reumont, cominciando dai padroni di casa. Di quando in quando un po' di musica, piuttosto in omaggio alla moda che per ricreazione degli animi o pascolo alle inclinazioni. Delle donne, molte tagliate sul modello della bella Giuliana Falconieri principessa di Santacroce cara a Papa Pio VI, la quale dicono provvedesse largamente alla posterità senza presumere d'andarvi: ma vi andò pur troppo, avendo per compagno il Cardinale De Bernis e per istoriografo il Casanova. Altre foggiate a immagine della contessa Braschi, che si scusava di mancare a non so quale convegno, descrivendo per filo e per segno il piede malato del proprio cavaliere servente: e, forse a dimostrare che la lunga consuetudine con Vincenzo Monti, segretario di suo marito, non era stata [351] per lei senza frutto di eleganze epistolari, chiudeva il biglietto così: L'amica scorta non potendo calzarsi il piede io non verrò. Altre finalmente sprovviste d'ogni elementare cultura come la marchesa Lepri, che discorrendo del Saul d'Alfieri diceva: bello, sì: peccato che sia troppo triste.
Giuoco, libertinaggio, cicisbeismo, preziosità, ignoranza; queste essendo le occupazioni, queste le consuetudini delle signore romane, non è a meravigliare se Roma non ebbe ritrovi colti e geniali, quali a Parigi quelli che presero nome dalla Geoffrin, dalla Du Deffand, dalla D'Houdetot, dalla Lespinasse; Roma a cui pur l'Europa mandava in pellegrinaggio i più illustri de' suoi scrittori, de' suoi artisti, de' suoi filosofi, de' suoi poeti. V'erano, sì, due salotti che si distinguevano dagli altri: l'uno della Maria Pizzelli dotta nel greco, nel latino, nelle matematiche ed egregia verseggiatrice: egregia, affermano i biografi, ed io lo ripeto sulla fede loro: i versi della Pizzelli non li ho letti, e non prendo neanche impegno di leggerli. Ma al solito, un'accademia; non vi si conversava: chiunque vi capitasse, vi sciorinava una propria canzone, un'ode, un sonetto, e gli altri applaudivano, aspettando di sciorinare e preparandosi ad essere applauditi a lor volta. L'Alfieri leggendovi la Virginia purificò l'aria ammorbata dalla pioggia continua de' madrigali di [352] un abate Cunich, che insegnava alla Pizzelli il greco: lingua difficile, lezioni lunghe e frequenti.... il maestro finì con l'innamorarsi della discepola; dicono, inutilmente. L'altro salotto, quello di Donna Margherita Boccapadule, nata dei Marchesi Gentili; ritrovo gradevole secondo parecchie testimonianze, ma dove convenivano uomini di troppo differenti animi ed abitudini; letterati, scapati, forestieri d'ogni genere e qualità, sicchè spesso la conversazione avviata da Alessandro Verri, cui la marchesa piaceva, era tratta in sentieri più ameni dagli scapati che piacevano a lei.
A Firenze costumi più castigati; ma i signori serbano il meglio delle loro entrate e delle loro energie per i faticosi ozi della villeggiatura; i Corsini, i Riccardi, i Pucci, i Gerini, i Martelli, i Rinuccini, i Gherardesca, passano la primavera in casini suburbani, l'autunno nelle magnifiche ville del Valdarno o del Mugello; e quando soggiornano in città vi menano vita molto monotona. “In carrozza il giorno fino alla Porta Romana, trattenendosi alquanto sulla piazza vicina, poi sulla piazza del Duomo innanzi al Caffè del Bottegone a prendervi rinfreschi e aspettare l'ora del teatro.„ Così usavano nel 1770 quando fu a Firenze il Lalande: usanze non molto diverse da quelle che vi trovò la Stael nel 1805, e che ella descrive nella Corinna così “Si va tutti i giorni [353] nelle ore pomeridiane a passeggiare Lungarno e s'impiega la sera a raccontare che ci siamo stati.„ Inoltre, a' tempi del Lalande i signori fiorentini avevano la fissazione d'imitare le mode e le costumanze inglesi: sicchè quando non c'era teatro, gli uomini la sera se ne andavano da una parte, le donne da un'altra: quelli al Caffè o al Casino de' nobili, queste sole, o a crocchio con altre donne, o a quattr'occhi, occhi sonacchiosi, col cavaliere servente. Poche le veglie, segnalata quella della Marchesa Niccolini in Via de' Servi; dove a saziare la sete intellettuale degli ospiti bastava qualche sciarada o qualche sonetto a rime obbligate; e, saziata che fosse, si giuocava accanitamente come a Roma, come a Torino nonostante i severi decreti del re, come a Milano dove Pietro Verri, sebbene assiduo nella casa della coltissima e argutissima Marchesa Paola Castiglioni, diceva essere oramai divenuto impossibile il conversare. Salotti che arieggino ai francesi bisognerà dunque cercarli altrove: in casa della Isabella Teotochi Albrizzi a Venezia, della Silvia Curtoni Verza a Verona, della Cornelia Martinetti a Bologna; simili, ma d'importanza molto minore quelli, anche a Venezia, della Giustina Michiel, a Bergamo della Paolina Suardi Grismondi, la Lesbia del Mascheroni.
De' salotti francesi molti ci serbarono le cronache, [354] che il Feuillet de Conches potò poi compendiare e colorire in istoria; questi italiani men fortunati, o forse fortunatissimi, non ebbero finora storico alcuno. Bisogna dunque ingegnarsi d'indovinare: agli amici che tesserono gli elogi di quelle signore, a' poeti che le cantarono c'è naturalmente da credere fino ad un certo punto. Chi prestasse fede al Bettinelli, al Montanari, al Pindemonte in ispecie, che designò ciascuna di esse con un epiteto particolare e chiamò saggia l'Albrizzi e (speriamo con maggior verità) gentile la Verza, amabile la Grismondi, dovrebbe persuadersi che esse furono perfette d'intelletto, d'animo e di contegno: e i salotti dei quali, per usare appunto le frasi de' panegiristi e de' poeti, “tennero lo scettro„ altrettanti o templi care alle Muse, come scrive il Montanari, o grotte magiche, come vuole il Bettinelli, o gabinetti d'Armida, come piace chiamarli al Vannetti. Io scelgo grotte, perchè non voglio nè mancare di rispetto ai templi, nè offendere Armida: e voglio pur dire che ogni volta io m'accosto a quei penetrali, sento uscirne puzzo di vanità e tanfo di pedanteria.
Splendide le sale dell'Albrizzi, dove (canta il Montanari):
Undici nazïoni in una sera.
La Cinese tra lor . . . .
. . . . . . . . concordi
Offerivano incensi ad Isabella:
[355] illustri gli ospiti, e basti dire che Ippolito Pindemonte, durante le sue dimore invernali in Venezia, non lasciò scorrer sera che non vi andasse per qualche ora; basti ricordare che o più presto o più tardi vi passarono tra' forestieri il Denon, il Maisonfort, la Lebrun, il Byron, la Stael, il Chateaubriand; fra gli italiani il Cesarotti, il Cicognara, il Botta, il Monti, il Rasori, il Carrer, il Foscolo: il quale, capitatovi giovinetto e persuaso dall'esperienza della celeste Temira, che aveva diciotto anni più di lui, vi si indugiò ad ascoltare le prime lezioni di filosofia della vita. Ma lasciamo i colloqui intimi; e lasciamo anche le serate di gala, nelle quali l'italiano o il francese o l'inglese famoso sono mostrati alla folla come insegna e richiamo: veniamo a' convegni usuali, composti, pacati; chè allora si intende quale sia il salotto: non così finchè undici persone di undici paesi diversi, compreso un chinese, stanno lì a offrire incensi alla padrona di casa.
Il Malamani scavò nel Museo Civico di Venezia certo scritto di Lorenzo Paron, specie di processo verbale di una di quelle adunanze; ma nel pubblicarlo, quasi a malincuore, soggiunse che per quel documento pioveva sulla conversazione dell'Albrizzi un raggio pallido e strano. Io posso riepilogare, non riferire lo scritto del Paron; avverto soltanto che, invece di un raggio pallido, [356] pare a me che esso mandi luce vivissima. Da principio, dialoghi insulsi inframezzati di barzellette grassocce; a un certo punto la signora, senz'appiglio alcuno, senza che se ne sappia il perchè, esce fuori a domandare se vi sieno commentari oltre quelli di Cesare: — “Uhm! no.„ — “No? e allora, — ribatto, — come va che Plutarco che consultavo stamattina parla di commentari, ecc., ecc.?„
E io me li figuro que' dotti tutti o più o meno innamorati. “Ah! che donna! che divino intelletto! Consulta Plutarco di mattinata!„ — Ognun d'essi a farle colpo sfodererà la propria dottrina; e si palleggiarono difatti, narra il Paron, Demostene, Livio, Seneca, Platone. Vi ricordate le parole del Lamartine? Dialoghi di defunti: dissertazioni non conversazioni. Il Denina del rimanente e in argomento di lode, lo dice schietto del salotto della Verza a Verona: una vera accademia di belle lettere: e il Montanari dichiarando, soggiunge: “nè quella che aveva fondato in Milano un secolo prima Teresa Visconti, e di cui parla il Tiraboschi nella storia della nostra letteratura, era stata men benemerita.„
Dunque accademie; e diciamo pure benemerite, sebbene non si vegga quali fossero le vantate benemerenze, ma salotti no. Non già che non possa parlarsi in un salotto, e non si parlasse [357] forse anche a Parigi, di Platone o di Seneca; ma qui se ne parlava soltanto per far pompa di un'erudizione che era fine a sè stessa. Tutte quelle donne, alle quali il bravo Girolamo Pompei aveva insegnato il greco, non potevano stare se non rammentavano a tutti ogni momento che lo sapevano. Non un pensiero originale mai, non mai un'arguta sentenza, di cui dovrebbe trovarsi ne' carteggi o nelle Memorie la traccia. La maggior parte de' frequentatori di que' salotti era quello che era: nè poteva aspettarsi che dalla testa di Mario Pieri, dell'abate Franceschinis o di Clementino Vannetti uscisse ciò che usciva dalla testa del D'Alembert, del Grimm, del Diderot; ma lo stuolo eletto c'era anche qui. Se non che, in Francia la D'Houdetot, la Geoffrin paiono avere a regola e guida la risposta di Curzio Dentato a' Sanniti: “Io fo poco conto dell'oro: molto di signoreggiare su coloro che lo posseggono„; così ad esse piuttosto che l'ostentare il proprio ingegno e la propria coltura premeva incitare l'ingegno, sfruttare la coltura altrui, e vi si adoperano con tatto meraviglioso. Non pretendono insegnare, osservano e imparano, mutando a poco a poco la istintiva chiaroveggenza in sagacia incomparabile. Vous avez été charmant aujourd'hui, diceva una volta la Geoffrin a Bernardin de Saint-Pierre dopo aver [358] lungamente conversato con lui: e l'altro: Je ne suis qu'un instrument dont vous avez ben joué. L'Albrizzi, la Verza, invece, primeggiano nei loro salotti: e composto intorno a sè un uditorio, fanno cattedra del canapè. La conversazione perciò a casa loro cammina sulla traccia segnata dal loro ingegno mediocre, dalla loro coltura grave ed angusta. La Geoffrin, la D'Houdetot pensano agli altri: battono selce con selce, per isprigionare scintille onde poi si accendano e propaghino nuove luci a irraggiare la Francia; la Verza, l'Albrizzi pensano a sè; vogliono andare a' posteri e, perchè sentono che non han forza a tanto viaggio, cercano chi le accompagni e sorregga. C'è, sì, anche a Parigi, una donna che non si rassegna nel proprio salotto alla parte modesta di ascoltatrice attenta o di incitatrice opportuna, e disputa e giudica e impone: la Du Deffand: ma quale donna! l'acume e lo spirito fatti persona. Le sue lettere, documento prezioso alla storia politica, sociale, morale della Francia d'allora, sono capolavori di naturalezza, di grazia, di malizia, di profondità. Paragonate, i suoi Portraits con i Ritratti della Verza e dell'Albrizzi: quelli potrebbe averli fatti il Saint-Simon, questi, a dire il vero, non vorrei averli fatti nemmeno io.
Ancora: io non vi do quelle donne francesi [359] per stinchi di santo, ma la civetteria era bandita da' loro salotti: ne' salotti invece della Verza, dell'Albrizzi, della Martinetti è uno spasimare continuo e un continuo provocare gli spasimi. Spasima il Monti per l'Albrizzi:
Chiudi, o misero cor, chiudi la porta:
Non mostrar tue ferite alla superba,
Chè in quel bel seno la pietade è morta.
Spasima (o si sfoga quasi con le parole medesime) il Costa per la Martinetti:
Atti soavi, altere voglie oneste,
Senno e virtude non mai pigra o stanca.
Fuor che un po' di pietà nulla le manca.
E spasima il Giordani, ma egli si sfoga con parole troppo più acerbe.
Io non mi ricordo nemmeno più se i sospiri sieno piacevoli nei colloqui in due; certo è che in tre sono insopportabili; peggio fra dieci o dodici. Nulla di più antipatico che i languori portati a processione, nulla che geli più la conversazione della presenza d'un innamorato infelice. Il salotto della Recamier, che rammenta quello della Martinetti, guasto appunto dalla coorte degli spasimanti inascoltati, per cagion loro appare agli occhi nostri meno attraente di quelli che lo precederono.
Ve la ricordate la Recamier? Due generazioni [360] di uomini illustri le si prostrarono innanzi adoranti; fu tenuta per la più bella donna di quel tempo, che pur mirò la Tallien, la Santacroce, Giorgina Spencer e la duchessa di Devonshire. Luciano Bonaparte smaniò, Augusto Kotzebue sofferse, Matteo di Montmorency pianse, Beniamino Constant impazzi quasi per lei: a lei il Ballanche e il Chateaubriand volsero morendo gli occhi amorosi.
Statua maravigliosa che nessun Pigmalione valse a smuovere dal suo piedistallo, si serbò pura della purezza del marmo, fatto apposta per sfidare gl'incendi. Sotto il Consolato, quando ella entrava ne' diciotto anni, già eran celebri i ritrovi nella sua casa in Via del Montebianco, o nella sua villa a Clichy: là fremevano del sollecito oblìo i letterati della rivoluzione, il Lemontey, il Legouvé, il Dupaty: là gemevano sulle sorti della Francia i vecchi cortigiani di Luigi XV, il De Guignes, il Narbonne, il Lamoignon: là bramosi di fortuna e di gloria, ineggiavano alla Francia nuova il Massena, il Bernadotte, il Beauharnais: là il Fouché dimostrava la utilità del regicidio al principe Pignatelli che non lo stava a sentire, intenti gli occhi malinconici nei grandi occhi azzurri della padrona di casa. In mezzo a loro la divina Giulietta, sempre vestita di bianco, con un fisciù rosso alla creola, solo ornamento [361] de' capelli ondati, abbondanti. Nimium pulchritudini nocet ornamentum; i troppi ornamenti nuociono alla bellezza, le aveva insegnato il Bouilly, con le parole di Apulejo. Cortese con le donne, con gli uomini affabile, salutava e questo e quello con vocativi diversi e tutti innocenti: mon ami al Chateaubriand, mon camarade al Bouilly, mon petit frère al Dupaty: e così ogni sera fino all'ora dello svenimento. Perchè pur troppo nessuno a questo mondo è perfetto e la Recamier aveva anch'essa il suo mancamento e si sveniva tutte le sere alle undici in punto. Bisognava portarla di peso sul letto: riavutasi, gli ospiti le sfilavano innanzi inteneriti, rapiti: e il cortinaggio, scrive il Lamartine che pur crede simulati gli svenimenti, il cortinaggio scendeva a separare le ineffabili grazie dai desideri ineffabili.
Della Martinetti, Ernesto Masi, il quale pare di lei innamorato tanto quanto il Costa e il Giordani medesimo, scrive: l'adorazione sottomessa e rassegnata fu il sentimento di cui ella più si compiacque. Sarà: io non voglio avvelenare di dubbiezze o sospetti l'animo dell'indulgente biografo: soltanto poichè ho detto che il salotto della Martinetti per la folla degli adoratori si assomigliava a quello della Recamier, debbo aggiungere che la Recamier se s'inebriava degli incensi, non aizzava i turiferari. Per la [362] Martinetti, vedutala a Bologna, il Foscolo prese di primo acchito una delle solite ubriacature, e andatosene a Firenze perseguitava la bella Cornelia con lettere bollenti. Ella rispose, grave, che smettesse: si sentiva (son parole sue) soavemente sicura del proprio cuore, perciò l'insistere fatica buttata; egli malazzato avesse cura di sè, badasse a curarsi e non s'ostinasse in quelle fantasie. Brava! e benedetta la sincerità! Se non che il Foscolo, replicando, le scrive: “avrò cura di me: qui la prima lezione diceva abbi cura di te, l'avete mutata; ho poi trascorsa tutta la vostra terza facciata ed ho trovato sotto la correzione del voi molte traccie del tu„. Via, qui non c'è indulgenza che tenga: quando una donna scrive ad un uomo ha da esser decisa sul pronome da adoperare; quando una lettera non esprime chiaro il pensiero si strappa; quando una parola si cancella, si cancella per modo che non appaia; quando si mettono gl'innamorati alla porta, non si lascia la porta socchiusa. Ma erano, su per giù, tutte così quelle signore: mezze donne e mezze uomini; degli uomini avevano tutte le ambizioni, delle donne tutte le debolezze; tutti i pregi fisici del loro sesso, molti difetti morali dell'un sesso e dell'altro.
Così, sebbene materiale di letteratura, sebbene sempre attorniate da una cerchia di letterati, [363] passarono, senza esercitare alcuna influenza sopra la letteratura del tempo loro, senza lasciare un libro, una pagina, un motto che a quel tempo sopravvivesse. Noi, infermi di curiosità, ci affatichiamo oggi a rintracciare per gli archivi e le biblioteche le orme loro, ci affacciamo in ispirito a que' salotti, riponiamo al loro posto i medaglioni, gli specchi, gli stucchi, le stoffe, delle quali c'è noto perfino il colore; ma al primo sussurrare delle voci, ci assale un senso di stanchezza e di noia. Aria! Aria! Apriamo le finestre: entrino nei salotti ammuffiti nuove correnti di sentimenti e di idee. Ecco, quanto sentiva di rossetto e di cipria, quanto sapeva di goffa imitazione francese, è spazzato: la Verza, la Grismondi, l'Albrizzi, la Martinetti, si dileguarono come fantasmi; i pastelli di Rosalba Carriera presero la via del museo. Eccolo il salotto italiano. Potete voi entrare a scaldarlo con la fiamma degli animosi presagi, o Teresa Confalonieri, o Costanza Arconati, o Cristina di Belgioioso!
Nota del Trascrittore
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